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n. 10 – ottobre 2017 la Biblioteca di via Senato Milano mensile, anno ix ISSN 2036-1394 BIBLIOFILIA I libri della Crusca e le loro vicende di giancarlo petrella NOVECENTO La libreria antiquaria di Umberto Saba di massimo gatta IL LIBRO DEL MESE Comino Ventura: un editore tra lettere e libri di lettere di roberta frigeni EDITORIA Yourcenar ‘multilingue’: fra libri e traduzioni di antonio castronuovo LETTERATURA Echi letterari di una tragedia mineraria di luca piva

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n. 10 – ottobre 2017

la Biblioteca di via SenatoMilanomensile, anno ix

ISSN 2036-1394

BIBLIOFILIAI libri della Crusca e le loro vicendedi giancarlo petrella

NOVECENTOLa libreriaantiquariadi Umberto Sabadi massimo gatta

IL LIBRO DEL MESEComino Ventura: un editore tra lettere e libri di letteredi roberta frigeni

EDITORIAYourcenar‘multilingue’: fralibri e traduzionidi antonio castronuovo

LETTERATURAEchi letterari di unatragedia minerariadi luca piva

classic deteinato zerocissacl eindet otaein z roez

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Sommario4

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BibliofiliaI LIBRI DELLA CRUSCA E LE LORO VICENDEdi Giancarlo Petrella

NovecentoLA LIBRERIA ANTIQUARIA DI UMBERTO SABAdi Massimo Gatta

LetteraturaECHI LETTERARI DI UNATRAGEDIA MINERARIAdi Luca Piva

IN SEDICESIMO – Le rubricheLE MOSTRE – LIBRI D’ARTE –LA DENUNCIA – RIFLESSIONI –LO SCAFFALE DEL BIBLIOFILOa cura di Luca Pietro Nicoletti, Marco Tonelli, Silvia De Luca, Luca Siniscalco e Giancarlo Petrella

La riflessioneI DANNI DEL ‘BUONISMO’ E LA FUGA DALLA REALTÀdi Claudio Bonvecchio

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Il Libro del MeseCOMINO VENTURA: UN EDITORE TRA LETTERE E LIBRI DI LETTEREdi Roberta Frigeni

EditoriaYOURCENAR ‘MULTILINGUE’:FRA LIBRI E TRADUZIONIdi Antonio Castronuovo

In Appendice – FeuilletonL.E.X. LE BIBLIOTECHE PROFONDEXVIII capitolo di Errico Passaro

BvS: il ristoro del buon lettoreSCAMPOLINO IL SOGNATOREE I TORTELLINI ‘NODO D’AMORE’di Gianluca Montinaro

HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO

M E N S I L E D I B I B L I O F I L I A – A N N O I X – N . 1 0 / 8 7 – M I L A N O , O T T O B R E 2 0 1 7

la Biblioteca di via Senato – Milano

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Biblioteca di via Senato

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Direttore responsabileGianluca Montinaro

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Servizi GeneraliGaudio Saracino

Fotolito e stampaGalli Thierry, Milano

Immagine di copertinaElis nella miniera (illustrazione di Luca Piva; inchiostro su carta, 2017)

Stampato in Italia© 2017 – Biblioteca di via SenatoEdizioni – Tutti i diritti riservati

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Studiosi e ricercatori ben conoscono la tristerealtà di molti disastrati archivi e pubbliche biblioteche del nostro Paese.

Le sale-lettura sono del tutto inadeguate, pocoriscaldate d’inverno e senza climatizzazione in estate; l’assenza del wireless è una costante;la mancanza di digitalizzazione è totale; gli strumenti (fotocopiatrici, lettori dimicrofilm, ecc.) sono perennemente fuori uso; gli inventari sono perlopiù fermi all’inizio del secolo scorso; il personale è lento e distratto.

Ma non è finita qui. Se, nonostante tutto,alla fine di ricerche lunghe e faticose, si eragiunti a rintracciare quel manoscritto‘introvabile’, quel documento ‘perduto’,quell’incunabolo ‘non catalogato’, subito cadevaun ulteriore intralcio: il divieto, assurdo e senzaratio, di fotografarlo.

Così il bistrattato ricercatore, se avessevoluto prendere la via di casa con gli scatti utilialla propria ricerca, era costretto a rivolgersiall’incaricato servizio privato difotoriproduzione che, a prezzi tutt’altro chemodici e con tempi biblici, avrebbe provveduto a

effettuare le foto richieste.Ora questo ‘vezzo’ tutto italiano (che

non aveva pari in altri paesi europei, ancheperché – in pratica ‘tassando’ gli utenti –legalizzava un monopolio) è stato infineabolito. Il 2 agosto il Senato ha infattiapprovato la Legge annuale per il mercato e la concorrenza che, tra gli altri, modifical’articolo 108 del Codice dei Beni Culturali,sancendo «la liberalizzazione delle riproduzionidigitali con mezzo proprio in biblioteche earchivi pubblici per finalità culturali».

Finalmente un piccolo passo in avanti nelmondo, polveroso e perennemente impantanato,degli enti culturali italiani. Un passo cheavrebbe potuto essere stato fatto già anni fa,autonomamente dai singoli istituti, se soloquesti avessero improntato i propri regolamentiinterni a criteri di praticità e semplificazione.È, invece, dovuto intervenire il legislatore, in questo caso come in tanti altri analoghi. Un passo avanti, quindi, ma che ribadisceun’ulteriore (ed esiziale) triste realtà tuttaitaliana: l’incapacità di gestirsi con buon senso.

Gianluca Montinaro

Editoriale

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Bibliofilia

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duca Pietro Leopoldo l’avevasoppressa per incorporarla nellanuova Accademia Fiorentina.L’anno di fondazione dell’Acca-demia della Crusca è da sempreoggetto di discussione in man-canza di fonti documentarieesplicite. Di certo il nome dellaCrusca compare per la primavolta in un’edizione a stampa delmarzo 1583 (Lezione o vero cicala-mento di maestro Bartolino dal can-to de’ Bischeri, Letta nell’Accade-mia della Crusca, sopra ’l SonettoPassere, e Beccafichi magri arrosto,Firenze, Domenico Manzani,

1583) e ciò consente di fissare ragionevolmente ladata di fondazione a qualche mese prima, forse per-sino ancora nella seconda metà del 1582. Per quan-to riguarda la storia della biblioteca molto, se nontutto, sappiamo dal documentatissimo lavoro con-dotto alcuni anni fa da Delia Ragionieri, dal 2002responsabile della biblioteca dell’Accademia.2 Se ladata di fondazione dell’istituto è ancora passibile diqualche riflessione, si hanno pochi dubbi sulla pri-ma testimonianza in merito alla presenza di un fon-do librario: risale al luglio 1590, quando venne datoincarico al massaio Pier Francesco Cambi di acqui-stare alcuni tomi. Quale il fine? La risposta dell’au-trice è altrettanto chiara: l’esigenza di provvedere

Dalla Statistica delle Biblio-teche, l’inchiesta-censi-mento condotta dal Mi-

nistero nel 1894, si apprende,non senza stupore, che la Biblio-teca dell’Accademia della Cruscafu ufficialmente fondata nel1811 e il suo fondatore fu niente-meno che Napoleone Bonapar-te.1 Ciò, ovviamente, è una pan-zana. Chi compilò quella voce,ossia l’accademico Giuseppe Ri-gutini, si riferiva piuttosto al de-creto del 19 gennaio 1811 colquale Napoleone ristabilì l’Acca-demia dopo che nel 1783 il gran-

I LIBRI DELLA CRUSCA E LE LORO VICENDE

Tutti i volumi dell’Accademia

Nella pagina accanto, da sinistra in senso orario:

Ugo Panziera, Trattati; Epistola ai Procuratori dei Frati

Minori di Prato, Firenze, Lorenzo Morgiani e Johann Petri,

15 XII 1492; Domenico Cavalca, Pungi lingua, Firenze,

[Bartolomeo de’ Libri], 10 VI 1494; s. Antonino.

Confessionale “Defecerunt” [in italiano], Firenze, Lorenzo

Morgiani e Johann Petri, ed. Piero Pacini, 22 II 1496;

Thesaurus pauperum, seu Practica medicinae [in italiano], trad.

Zucchero Bencivenni. [Firenze, Bartolomeo de’ Libri, 1498

c.]. In questa pagina in alto: Delia Ragionieri, La biblioteca

dell’Accademia della Crusca. Storia e documenti, prefazione di

Piero Innocenti, Firenze-Manziana, Accademia della

Crusca-Vecchiarelli editore, 2015

GIANCARLO PETRELLA

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all’acquisto di libri, sia manoscritti sia a stampa,trova giustificazione nelle due attività che sarannopeculiari della Crusca nel corso della sua storia: l’at-tività filologica e quella lessicografica. Negli stessimesi gli accademici avevano infatti preso la decisio-ne di rivedere il testo della Divina Commedia, chesfocerà nell’edizione a cura della Crusca del 1595, edi intraprendere la redazione del Vocabolario. L’as-senza di cataloghi o elenchi di libri sembra invecesuggerire che nei primi anni di vita dell’accademiail patrimonio librario non fosse di grande consi-stenza e, in ogni caso, che la sua conservazione nonfosse tra le priorità degli accademici. Fin dai primianni, ma la consuetudine si protrae sino alla con-temporaneità, la biblioteca crebbe anche grazie ailasciti post mortem di alcuni accademici. Il primo fuproprio quello di Pier Francesco Cambi, noto col

nome accademico di «Stritolato», che arricchìl’Accademia nel giugno 1592 di alcuni preziosi ma-noscritti, tra cui il Volgarizzamento in prosa dell’Enei-de e il Trattato della miseria dell’uomo di Bono Giam-boni, entrambi poi finiti alla Nazionale di Firenzema che recano l’antica nota «Lasciato all’Accade-mia dallo Stritolato». Le prime notizie certe dellapresenza di libri a stampa nel fondo librario accade-mico si rinvengono in due cataloghi sei-settecente-schi, mentre nei due cataloghi più antichi in assolu-to, di mano del segretario accademico Carlo Dati edatabili tra il 1640 e il 1676, non si riscontrano chemanoscritti della Commedia e testi di lingua impie-gati per la compilazione delle prime due edizionidel Vocabolario. Dall’Indice dei Libri che si ritrovanonell’Accademia della Crusca compilato tra il 1691 e il1722 si apprende che i libri occupavano non più diotto scaffali e raggiungevano all’epoca il numeroassai limitato di 136 unità bibliografiche, fra mano-scritti ed edizioni a stampa. Anche un catalogo del1728 descrive un patrimonio sostanzialmente im-mutato e numericamente ancora piuttosto circo-scritto di 64 manoscritti e 66 edizioni a stampa. Unsuccessivo catalogo del 1747, ma aggiornato sino al1778, attesta invece un significativo incrementonelle edizioni a stampa, che raggiungono ora le 237unità. Ma si è ormai alla vigilia della drastica deci-sione del luglio 1783 che chiude la prima fase del-l’Accademia, e di conseguenza dell’annessa biblio-teca. Con motu proprio del 7 luglio 1783 il granducaPietro Leopoldo decise infatti di sopprimere l’Ac-cademia della Crusca e fonderla con altre due acca-demie. Ciò comportò il trasferimento coatto dellalibraria dai locali di via dello Studio a quelli della Bi-blioteca Magliabechiana, sebbene il Granduca con-sentisse che i compilatori del Vocabolario potessero

A sinistra: Leonardus Brunus, Historiae Florentini populi

[in italiano], trad. Donato Acciaioli, Venezia, Jacques

Le Rouge, 12 II 1476. Nella pagina accanto a destra:

Francesco Petrarca, Vite dei Pontefici e Imperatori romani,

Firenze, S. Jacopo a Ripoli, 1478

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7ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano

«portare a casa col doveroso riscontro i libri sia ma-noscritti che stampati che potessero servire al lorooggetto». Furono questi anni in cui la biblioteca ac-cademica corse il pericolo di confondere irrimedia-bilmente la propria fisionomia con quella della benpiù ampia istituzione ospitante. Anche per evitarequesto rischio sugli esemplari che giunsero allaMagliabechiana fu apposta un’etichetta con la dici-tura «dell’Accademia della Crusca 1783» che con-sente ancora oggi di individuare i lacerti dell’origi-naria biblioteca accademica mai restituiti. Non tut-ti i libri fecero infatti ritorno nei locali dell’Accade-mia ristabilita con decreto napoleonico del 1811.Alla Magliabechiana rimasero, oltre a una sessanti-na di manoscritti e a un numero imprecisato di edi-zioni post 1501, due pregevoli edizioni incunaboledi Lucano (Venezia, N. Battibovi, 1486) e Virgilio(Venezia, A. Miscomini, 1486). Passata la tempestaleopoldina, e tornata a vita autonoma, per la biblio-teca accademica si aprì una nuova stagione. A occu-parsene da qui in avanti sarà, come previsto nelleCostituzioni per il Regolamento interno approvate nel1813, la nuova figura dell’accademico biblioteca-rio, cui competeva l’arricchimento delle raccolte ela stesura del catalogo. È proprio il secondo biblio-tecario, l’accademico Francesco Fontani, a lamen-tarne nel 1818 lo stato in cui versa constatando lapresenza di testi «poco o nulla giovevoli per queglistudi e ricerche le quali possano interessare gli og-getti ai quali dispone le sue mire e premure l’Acca-demia» e di contro la scarsità «dei testi della nostralingua». Avanzava pertanto la proposta di un rior-dino di «questa casuale collezione di libri», la reda-zione di un catalogo e la possibilità di «poter vende-re o permutare con utile baratto quell’opere chepunto non furono nel di lei proposito e a’ suoi stu-di». Sono questi anche gli anni in cui la Crusca se-gue con apprensione ed egoistico interesse l’affairedella Biblioteca Riccardiana, la grande collezioneprivata della famiglia Riccardi che, a causa dei guaifinanziari dei suoi proprietari, rischiava di finire di-spersa lontano da Firenze. La Crusca si illuse di po-

terne ottenere la custodia, il che avrebbe voluto di-re guadagnare in un sol colpo «un corpo di libri me-ritevole della venerazione e dell’affluenza delli stu-diosi». Così non fu e l’Accademia dovette accon-tentarsi di condividere con la Riccardiana soltantola prestigiosa sede di Palazzo Riccardi dal 1817 al1865, per poi trasferirsi nell’«incomoda sede»dell’ex convento domenicano di S. Marco.

Nel frattempo, ironia della sorte, la bibliotecadella Crusca aveva tratto indiretto vantaggio da unaltro decreto napoleonico. La soppressione di uncospicuo numero di conventi toscani favorì infattitra il 1810 e il 1812 un sostanzioso incremento delpatrimonio librario accademico. Nell’aprile del1812 quasi 2.500 volumi, stampati tra il 1482 e il1807, andarono ad allinearsi sugli scaffali della rina-ta biblioteca, come si apprende da un fondamentale

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catalogo ‘di separazione’ che fornisce, per ognunodei 2.486 lemmi, l’indicazione del convento di pro-venienza. Alcuni volumi fanno tuttora parte del-l’Accademia, nonostante una lettera circolare delnovembre 1818 avesse sollecitato la riconsegna ditutti i libri ai rispettivi conventi di appartenenza. Ri-masero sugli scaffali dell’Accademia, fra gli altri, laStoria d’Olao Magno de’ costumi de’ popoli settentrionali… della Gottia, della Norvegia, della Svevia (Venezia,Francesco Bindoni, 1561), due edizioni cinquecen-tesche di Petrarca (Venezia, G. da Sabbio, 1525 e Ve-nezia, Nicolò Bevilacqua, 1568), la Geografia di To-lomeo (Venezia, Vincenzo Valgrisi, 1561), tutti giàappartenuti al convento di San Bartolomeo a MonteOliveto. Quindi le Metamorfosi di Ovidio in ottavarima (Venezia, eredi Pietro Deuchino, 1588), giàdel convento di San Lodovico di Montevarchi, e Le

Vite de gli uomini illustri di Plutarco tradotte da San-sovino (Venezia, V. Valgrisi, 1564) assieme alleOpere di Petrarca (Venezia, Gabriele Giolito,1549), già di Santa Maria Novella. Né furono resti-tuiti a San Salvatore in Ognissanti L’amoroso Convi-vio di Dante (nell’edizione Venezia, Nicolò Zoppi-no, 1529); la Poetica d’Aristotele vulgarizzata et spostaper Lodovico Castelvetro (Basilea, Pietro Perna, 1576)o l’edizione volgare di Polibio (Venezia, GabrieleGiolito, 1564).

Diversamente, in seguito alle soppressionipost-unitarie del 1866, l’accademico Marco Tabar-rini si rivolse in prima persona al ministro dell’istru-zione affinché anche la Crusca potesse trarre qual-che vantaggio dalla mole dei libri provenienti dallecase religiose, specificando però che «la Crusca nonha bisogno né di cimeli né di libri rari … giacchè non

Sopra da sinistra: Gerolamo Benivieni, Canzoni e sonetti

dell’amore e della bellezza divina, con commento, Firenze,

Antonio Tubini, Lorenzo d’Alopa e Andrea Ghirlandi,

7 o 8 IX 1500; Biblioteca dell’Accademia della Crusca

(un’altra immagine della Biblioteca anche nella pagina

accanto); Villa medicea di Castello, sede dell’Accademia

della Crusca dal 1974

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si tratterebbe d’altro che di una collezione di classicilatini e greci, di qualche opera erudita relativa allastoria o alla letteratura». La maggior parte dei volu-mi ‘sollecitati’ giunsero dal convento della Santissi-ma Annunziata. Lo attesta una Nota dei libri scelti dal-la Biblioteca dei PP. Serviti di Firenze relativa all’in-gresso, tra il luglio del 1866 e l’agosto del 1867, di536 volumi, alcuni dei quali oggi individuabili nelpatrimonio librario dell’Accademia in ragione deltimbro ovale dell’Annunziata con i gigli e le inizialiDSA (Diva Servorum Adnuntiata): tre edizioni incu-nabole innanzitutto, la Commedia (Venezia, Piero diPiasi, 1491); Vincentius Bellovacensis, Speculumdoctrinale, morale, historiale (Norimberga, AntonKoberger, 1486); Vincentius Bellovacensis, Specu-lum naturale, [Strasburgo, 1481]. Quindi, fra le edi-zioni del XVI secolo, Le vinti giornate dell’agricoltura

di Agostino Gallo (Venezia, fratelli Borgomineri,1572); Paolo Giovio, Dialogo delle imprese militari eamorose (Lione, G. Rouille, 1559); l’edizione Basi-lea, H. Petri, 1565 delle Opere di Nicolò Cusano;l’edizione Venezia, Girolamo Scoto, 1562 dellaSphaera di Ioannes de Sacrobosco; Francesco San-sovino, Della origine et de’ fatti delle famiglie illustrid’Italia, (Venezia, Altobello Salicato, 1582).

Il Regio Decreto dell’11 marzo 1923, che in-terrompeva l’attività di ricerca lessicograficadell’Accademia, creava tutti i presupposti perchéla biblioteca, nel frattempo tornata nelle sale di Pa-lazzo Riccardi, divenisse semplice orpello orna-mentale di un’accademia di fatto parzialmenteesautorata nei suoi compiti. Da questa non agevolefase di transizione (durata dal 1923 al 1949), comela definisce Delia Ragionieri, si sfocia nell’intenso

9ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano

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quarantennio 1950-1992 nel quale sono avvenuteprofonde trasformazioni interne, a cominciaredalla disposizione della Biblioteca (dal 1974) nellanuova e attuale sede della villa Medicea di Castello.Datano a questi decenni attività di estrema impor-tanza dal punto di vista biblioteconomico: la com-pilazione di un catalogo a schede in formato inter-nazionale distribuite in 150 cassetti contenenti cir-ca 229.400 schede (in anni più recenti riversate nelcatalogo informatico in linea che offre agli studiosila possibilità di accedere all’intero patrimonio li-brario della Biblioteca, che si attesta oggi in circa146.000 volumi). Quindi, nei primi anni Settanta,da parte di Clotilde Barbarulli Barblan e RenzoRomanelli, la costituzione del prezioso fondo in-cunaboli (con relativo catalogo) riunendo i 41

esemplari di edizioni quattrocentesche preceden-temente disseminati in altri fondi della biblioteca;3

la realizzazione del catalogo informatico delle1.132 edizioni del XVI secolo integrato dalla ri-produzione di un cospicuo numero di volumi. Infi-ne, la nascita di alcuni fondi speciali di notevoleimportanza: quello dei Citati (ossia i testi e gli au-tori da cui sono tratti esempi e citazioni nel Vocabo-lario della Crusca), attualmente costituito da 1.684edizioni a stampa; e quello delle cosiddette biblio-teche d’autore, formatosi con l’acquisizione di bi-blioteche private di personaggi di primo piano del-la cultura italiana (da Pietro Pancrazi, a Bruno Mi-gliorini, Giovanni Nencioni sino ad Arrigo Ca-stellani), l’ultima delle quali, in ordine di tempo,quella di Adelia Noferi avvenuta nel gennaio 2015.

NOTE1 Statistica delle biblioteche dello Sta-

to, delle Provincie, dei Comuni e di altri en-ti morali aggiuntevi alcune bibliotecheprivate, Roma, Tipografia Nazionale G.

Bertero, 1894, II, pp. 4-5, 42-44.

2 DELIA RAGIONIERI, La biblioteca dell’Ac-cademia della Crusca. Storia e documenti,prefazione di Piero Innocenti, Firenze -

Manziana, Accademia della Crusca - Vec-

chiarelli editore, 2015.3 Gli incunaboli della Crusca sono sta-

ti integralmente digitalizzati (per un tota-

le di oltre 40.000 pagine). La banca dati è

raggiungibile all’indirizzo http://incuna-

boli.accademiadellacrusca.org. Il catalo-

go è stato compilato da Rosanna Battini.

Da sinistra: la villa di Castello, in un dipinto del 1599 di Giusto Utens

(Firenze, villa La Pietraia); Dante Alighieri, La Commedia, comm. Cristoforo

Landino, Firenze, Nicolò di Lorenzo, 30 VIII 1481

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13ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano

re di affari, sono riuscito a mette-re su un’azienda. Proprio dalnulla. Sono più fiero di questoche del Canzoniere, il Canzonierefu un dono della natura, la Libre-ria è nata dal mio sforzo«, e anco-ra: «[il lavoro in libreria] poi nonmi ha fatto male nemmeno comescrittore: devo riconoscere chenel mio negozio, e fra mille curee tormenti, sono pure nate le miepoesie più belle», molte legateproprio alla libreria e alla sua at-

tività di libraio antiquario, come vedremo più avan-ti. E in un’altra lettera, del dicembre del ’23 a unamico, il poeta tra l’altro scrive non sappiamo conquanta ironia: «I miei cataloghi hanno avuto moltopiù successo dei miei libri di versi» (Vinci, 2017).Del resto Saba è da ricordare anche come il primopoeta, che «non nasconde il lavoro del quale vive,anzi ne è orgoglioso. Fin da subito Saba si fa pubbli-cità sulla stampa». Ancora nella lettera a Debene-detti Saba scriveva: «la svalutazione della lira mi ar-rivò addosso quando avevo già trentacinque anni,un capitale piccolissimo, e nessuna abilità praticacome nessuna conoscenza particolare; ma ne guariisubito il primo giorno che incominciai un lavoro (laLibreria)». E «Libreria» è scritto sempre con l’ini-ziale maiuscola. Questa lettera resta emblematicadi ciò che l’attività libraria rappresentò per il poeta

LA LIBRERIA ANTIQUARIADI UMBERTO SABA

Il poeta ‘libraio-editore’

Sempre più vado convincen-domi che il discorso suUmberto Saba libraio anti-

quario (e micro editore) sia anco-ra lontano dall’essere stato valo-rizzato del tutto e proprio in rap-porto con la sua poesia. Seppurnoto - e affrontato criticamentein vari contributi specifici - qual-cosa mi dice che ancora oggi sitende a considerarlo un aspettoliminare, se non secondario, del-la sua biografia letteraria. Eppu-re lo stesso Saba, scrivendo di sé in terza persona,ricordava: «Anzi Saba fu, per molto tempo, assaipiù conosciuto e apprezzato come libraio antiqua-rio che come poeta». Conoscenza della sua attivitàantiquaria, e ‘rinomanza’ della stessa, che lo stessopoeta ribadiva: «la Libreria di via San Nicolò 30,che si era acquistata, in 25 anni di (relativamente)onesta attività commerciale, una certa rinomanzain Italia e all’estero». E ad avvalorare tale tesi la let-tera che Saba scrive al giovane Giacomo Debene-detti il 4 ottobre del ’24, a sei anni dall’apertura del-la libreria (1919), dove leggiamo: «senza intender-mi affatto, e nella città più refrattaria a questo gene-

A sinistra: il primo, rarissimo catalogo della LibreriaAntica e Moderna di Saba (settembre 1923). In alto il logodella libreria, disegnato dall’amico Virgilio Giotti

Novecento

MASSIMO GATTA

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triestino. Un’attività («l’azienda», come la chiama)che riuscì, almeno in parte, a lenire il dolore della (eper la) vita, acuita dalle leggi razziali fasciste, dalladepressione di cui sempre soffrì e che gli consentì disuperare anche notevoli difficoltà economiche. Ilpoeta, nei primi anni, aveva lavorato in maniera di-spersiva: direttore del «Cinema Italia», «il vecchioIdeal inaugurato nel 1913, di proprietà del cognatoEnrico Woelfler, con nell’atrio pannelli dipinti diVito Timmel» (S. Mattioni, 1989), e scrittore dimanifesti pubblicitari per la Leoni Films. Poi, im-provvisa, la svolta: «passando una mattina del 1919per via San Nicolò, vidi o notai per la prima voltaquell’antro oscuro» (Saba, 1948).

Il poeta ha 36 anni e ha sperimentato sullapropria pelle che «vivere di letteratura è, per unpoeta, impresa quasi disperata; più disperata chemai essa mi appariva in quegli anni»; parole chescrisse in un testo tardo, Storia di una libreria(1948). Nel ’19 il poeta acquista in via San Nicolò30 la libreria di Giuseppe Mayläender, con l’inten-zione di rivenderla vuota, dopo averne venduto ilcospicuo fondo di libri che conteneva; scrive Mat-tioni: «Letteralmente a due passi dal Cinema Ita-lia, all’inizio della via San Nicolò […] al numero 30c’è una libreria di libri nuovi e usati. Il proprietario,certo Giuseppe Mayläender, un ebreo fiumanomattoide ma geniale, la mette in vendita. La libre-

In alto: l’interno del primo catalogo antiquario del ’23, con l'indicazione dei titoli pubblicati da Giotti e Saba per i tipi

della sua Libreria Antica e Moderna. A destra: il comunicato di Mario Cerne che presenta l’ultimo catalogo redatto in

parte dal padre Carletto, lo storico collaboratore del poeta triestino nella gestione della libreria antiquaria

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ria è in ottima posizione, in pieno centro città, haun deposito di ben 28.000 volumi e lui chiede solo5.000 lire […] trattano e se la portano via per 4.000lire». All’improvviso quell’«oscura bottega» di cuiSaba spesso avrebbe parlato («Nell’oscura bottega/ d’antiquario, la mia, / ti condusse il bisogno») glisi rivela in tutto il suo incanto e, dopo avere consul-tato la moglie, decide, non solo di non venderla,ma di iniziare una nuova attività: quella di libraio:«La cessione della proprietà di Giuseppe Maylä-ender a Umberto Poli detto Umberto Saba, è regi-strata alla Camera di Commercio in data 12 set-tembre 1919. L’attività, sotto il nome di “LibreriaAntica e Moderna”, inizia il 1 ottobre 1919. La dit-ta, individuale, viene registrata su denuncia appenail 24 aprile 1925 e porta il numero di iscrizione1.527. Descrizione dell’attività: compra e venditadi libri usati» (S. Mattioni, 1989). All’inizio Saba lagestì insieme all’amico Giorgio Fano: «in mezzo atanti libri, e con l’idea delle scoperte che potrebbefare, Saba si dimentica dell’affare che farebbero ri-vendendo, si propone a Fano come conduttoredell’esercizio, e Fano acconsente. Eccoli dunquesoci. Ma Saba ha interesse solo per i libri, e Fanosolo dai quattrini che si possono ricavare da essi».(S. Mattioni, 1989) Intanto, nel ’22, una tragediacolpisce la libreria e lo stesso Saba: due sorelleMargherita e Malvina, commesse della libreria, sisuicidano, poco più che ventenni, a distanza di duemesi l’una dall’altra; fu allora che il poeta decide diassumere un commesso maschio, quel Carlo Cernedi cui parleremo. Dal 15 settembre del ’20, intanto,lavorò con lui la più celebre delle commesse, Giu-lia Morpurgo (Chiaretta), ricordata da Saba in al-cune poesie del Canzoniere («Si è licenziata di suapropria volontà, allo scopo di migliorare la propriacondizione», scrive Saba il 10 settembre del ’21nella lettera di referenze per la Morpurgo). In se-guito il poeta gestì la libreria con la famiglia Stock,della celebre distilleria. Lionello Stock aveva ac-quistato, per suo nipote Alberto, (il quale volevadiventare socio della Libreria Antiquaria di Saba,

cui era molto legato) mezza libreria, dando al poetauna modesta somma di denaro ma aprendogli, nel-lo stesso tempo, un cospicuo conto bancario, con ilquale era in grado di acquistare libri antichi o inte-re biblioteche, anche molto costose. La LibreriaAntiquaria, il 28 aprile 1933 grazie all’ingresso al50% di Alberto Stock, cambiò ragione sociale pas-sando da società individuale a società a responsabi-lità limitata. Nel 1940 Saba cedette la sua quota perdue terzi a Carletto Cerne, entrato in libreria nel’24 a 17 anni, e per un terzo a Ettore Ferrari, alquale Alberto Stock, essendo anche lui discrimina-to dalle leggi razziali, lasciò tutta la sua quota: «Sa-ba diceva di aver scelto Carlo Cerne, fra i venti can-didati che si erano presentati per un posto di com-messo nella sua libreria, perché era quello che piùaveva la faccia da stupido; ma lo diceva per diverti-mento e per vantare il proprio intuito, in quanto

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aveva per Carletto un affetto e una riconoscenzastraordinari, che mantenne fino all’ultimo» (S.Mattioni, 1989). Saba, «chiaro scrittore e noto li-braio antiquario», subì duramente la bonifica degliscrittori ebrei messa in atto, fin dal ’38, da Mussoli-ni e dal Minculpop: «Saba risulta discriminato nelnovembre 1940, sul registro della Camera di Com-mercio di Trieste, e a partire dal luglio 1941, dopoche ai discriminati fu vietato di dirigere le librerieantiquarie, il genero Lionello Giorni assunse la re-sponsabilità del catalogo» (G. Fabre, 1998); poi: «il30 gennaio 1948 la vedova Ferrari ridà la quota del-

la Libreria a Saba e Cerne, che così diventano social 50 per cento» (S. Mattioni, 1989). Gli ultimi annidel periodo fascista furono terribili per il poeta.L’atmosfera politica diventa sempre più oppressivama nonostante ciò la libreria, secondo quanto scris-se nel ’48 lo stesso Saba: «rappresentò per me, pertutti gli anni che durò il fascismo, un rifugio abba-stanza al riparo dagli altoparlanti». Nel ’38 il poetaè a Parigi dove spera di trovare rifugio per sé e la fa-miglia. Quando torna a Trieste sono già stati ema-nati i provvedimenti razziali; per tutelare se stesso ela famiglia decide di uscire dalla Comunità ebraica,

In alto in senso orario: l'edizione Biblohaus (2011) con la ristampa anastatica del primo catalogo della Libreria Saba

(1923); il catalogo n. 239 con la nuova grafica di copertina. A destra: una delle tante poesie che Saba dedicò alla sua vita di

libraio antiquario, con correzioni autografe del poeta

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appellandosi al suo sangue misto, ma rifiuta corag-giosamente il battesimo pregiudicandosi, in tal mo-do, la possibilità di gestire la libreria. Emblematica,a questo proposito, la lettera inviata a LionelloStock da Roma il 12 aprile 1945: «La bottega di viaSan Nicolò, a volte, me la sogno di notte; e mi sve-glio col cuore come in una morsa. Che cosa farò,anche materialmente? A Roma ci sono diverse per-sone che metterebbero volentieri con me una Li-breria Antiquaria; ma è impossibile, letteralmenteimpossibile, trovare un locale. E poi, in questa dire-zione… non ho più inventiva. Non mi pare di poteressere un bravo libraio antiquario fuori della nostralibreria a Trieste; di poter fare una scheda se nonsulla vecchia Royal, che tu Nelletto mi hai regalatotanti anni fa, e che veniva da Spalato. (Carletto - chesempre l’odiava - è capace di averla buttata via)».Sembra che adesso neppure il lavoro di schedaturain libreria gli dia più la gioia provata in passato: «Il-lusione non ho che mi conforti / in questo caro albuon Carletto nero / antro sofferto». Saba, in effet-ti, limita molto il rapporto con la clientela: «in li-breria, o leggeva o limava. Ai clienti qualsiasi cipensava Carletto» (S. Mattioni, 1989). In una lette-ra da Milano del 22 febbraio ’46, indirizzata a Cer-ne, Saba scrive: «Mi dispiace anche che tu stia inpensiero per l’avvenire tuo e della bottega. […] Lavendita dei libri può subire un arresto; ma essi sonocome il pane; l’uomo non ne può fare senza. I prezzi(dei libri) sono oggi troppo alti; appena ribasseran-no (e dovranno ribassare) le vendite riprenderan-no». Durante gli anni della guerra, e lontano dallasua città, Saba viene più volte aiutato economica-mente da Raffaele Mattioli, che nutriva per lui af-fetto e stima. Un’amicizia reciproca, la loro, allaquale il poeta restò fedele negli anni. Il grande ban-chiere gli offrì una sala della Banca CommercialeItaliana perché potesse scrivere al caldo e in tran-quillità, cosa impossibile a casa degli Almansi, chelo ospitavano nel periodo milanese: «nutriva parti-colare riconoscenza per Mattioli, che credo l’avesseaiutato durante la guerra» (A. Vigevani, 1995).

Ma che tipo di libraio era Saba? Lui stesso,nello scritto biografico del ’48, afferma: «Ho dettoche non m’intendevo di libri antichi. Appena sape-vo che esistevano degli incunaboli e che Aldo Ma-nuzio era stato un grande stampatore del Cinque-cento. Tuttavia non credo di aver fatto mai un catti-vo acquisto, né di averlo mai fatto fare a un miocliente». Fu grazie al celebre libraio antiquario na-poletano Tammaro De Marinis, conosciuto a Fi-renze tramite Aldo Fortuna, che Saba poté disporredi un certo quantitativo di libri antichi che De Ma-rinis, periodicamente, gli forniva, nobili ‘scarti’ deisuoi mirabili fondi antichi, che riservava alla suaclientela migliore, prevalentemente d’oltreocea-no. Alberto Vigevani, eccessivamente critico, ri-cordava: «andrebbe indicato per primo UmbertoSaba, poeta grande ma libraio antiquario di limitatacompetenza anche se di vasta cultura, che rifornivai suoi cataloghi nel polveroso magazzino di inven-

17ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano

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duti dei “Sabati” di Hoepli». E ancora: «I libri in-venduti la prima volta ai Sabati venivano mandati inun magazzino di Corso Vittorio Emanuele accudi-to dal bonario Sommarco che li rivendeva a prezziridotti a altri librai, tra cui il più assiduo era Umber-to Saba». Ogni due o tre mesi De Marinis spediva aSaba casse di libri con i quali il poeta-libraio, ven-dendoli in brevissimo tempo ai suoi clienti fissi, riu-sciva sia a pagarli che a ricavarne un certo guada-gno: «Ho trovato il poeta Umberto Saba nel suo ri-parato negozio in via San Nicolò (Trieste) cheschiodava delle casse di libri venutegli da Torino.Impaziente, ma senza fretta, avendo in capo un ber-retto da ciclista, scoperchiava la cassa dei morti» (A.Baldini, 1971). L’analogia tra la ‘cassa dei libri’ e la‘cassa dei morti’, appare in tutta la sua pregnanzanell’incipit di Libreria Antiquaria, una delle poesie

che Saba dedicò alla sua attività: «Morti la chiedo-no a un morto libri morti. E ancora in Primaverad’antiquario: la Torna la primavera. Io l’ho sentita /questa mattina, non tra i boschi o al mare, / dentrouna chiusa bottega, tra care / cose che acquisto e chevendo, e pur tanto / me ne rimane, che un secretoincanto / che viene a noi dal passato del mondo / ad-dolcisca la mia operosa vita. / (…) Antiquario / so-no, custode di nobili morti».

Fedele collaboratore per tanti anni fu, comedetto, Carlo Cerne, così Saba lo ritrae nella poesiaCarletto: «Il buon Carletto come schedo un libro, /ne muta il prezzo a suo arbitrio. Poi quello / trascri-ve sui risguardi, mette a un lato / la scheda, sceglielo scaffale; vada, / o no, venduto (egli spera vendu-to). / La sua giornata in Libreria gli corre / rapida,che il lavoro non gli manca, / per lui, per me, per i

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suoi figli. Io grato / gli sono, e più che non creda»; ein una dedica autografa si legge «A Carletto che miha aiutato (più con i fatti che con le parole) a vive-re». Carlo Cerne ha continuato a dirigere la libreriafino al 1981 firmandone, in parte, il catalogo 239.Da allora è il figlio Mario a dirigerla e essa non hamai cambiato nome né strada ed è stata di recenteconsiderata finalmente ‘studio d’artista’, e quinditutelata, restaurata e salvaguardata dal rischio chiu-sura: «Non è solo la più celebre e rinomata libreriaantiquaria della città, ma è anche una specie di mau-soleo tutto dedicato alla figura del grande poeta dicui porta il nome» (C.M. Messina, 1996). Famosi

restano i cataloghi della libreria, redatti dallo stessoSaba, con quelle schede accurate fin dal primo delsettembre 1923 (Miscellanea di 450 opere in gran par-te di libri antichi, rari od esauriti con indice per mate-ria): «compilando (mi piace ricordarlo) quei cata-loghi dalle incantevoli notazioni: incantevoli, for-se, perché il ragazzo che le scorreva, parlo di me, sa-peva che a scriverle era stato Lui! Peccato che il sig.Carlo Cerne (il ‘gran Carletto’) non abbia fatto for-se in tempo a donare alla biblioteca della Città unacollezione completa di quei cataloghi della Libre-ria Antiquaria Umberto Saba e non sia vissuto ab-bastanza per concedersi la preziosa vanità di un vo-

A sinistra: un’altra poesia di Saba dedicata alla sua libreria, con correzioni autografe e il poeta seduto in libreria. In alto in

senso orario: una cartolina pubblicitaria della libreria con un appunto del poeta; l’interno della libreria Saba oggi; Saba

seduto in libreria e i due celebri titoli sabiani, ristampati dall’editore Henry Beyle nel 2010 e nel 2011

19ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano

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lumetto di memorie, ‘memorie di mestiere’ del suovecchio principale e maestro, e di come acquistava ilibri, di come li rivendeva, di come (magari) talvoltaabbindolava o restava abbindolato» (G. Giudici,1986). Fortunatamente è il poeta stesso a fornire

utili indicazioni anche su questo aspetto del suo la-voro: «Non credo che avesse [De Marinis] per medella simpatia personale, come invece la ebbe - e miè grato di qui ricordarlo - il suo ‘concorrente’ e miodolcissimo amico Armanni. Anche da lui comperai

In alto in senso orario: una lettera di Saba su carta intestata della libreria; l’interno della libreria oggi; il catalogo di

Simone Volpato dedicato, tra gli altri, ad alcune pregiate e rare edizioni di Giotti e Saba (2017); una traduzione francese

di Saba (1983), contenente anche Storia di una libreria; l’edizione anastatica di Caro Saba di Anita Pittoni (1977).

A destra in senso orario: l’ultima edizione (2017) del libro dedicato alla libreria Saba; la prima edizione dello stesso

(2008); il libro edito a cura del Comune di Trieste, contenente il saggio di Marco Menato dedicato alla storia della

libreria (2017) e il raffinato catalogo di Simone Volpato dedicato ai poeti e agli scrittori triestini (2013)

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molto e per molti anni. De Mari-nis prima, Armanni poi, furonoper molto tempo i principali for-nitori della mia piccola libreria».Per i tipi della sua “Libreria An-tica e Moderna” Umberto Sabapubblicò Cose leggere e vaganti(1920), in 35 esemplari, curatodall’amico poeta-pittore Virgi-lio Giotti, che lo adornò con tresobrie incisioni; Il Canzoniere1900-1921 (1921), in 600 esem-plari, anche questo curato daGiotti, e Ammonizione ed altrepoesie (1932), in 600 esemplari,sempre curato da Giotti: «Il li-bro riprende il progetto del 1920 per un Canzonieresuddiviso in volumetti in attesa di tempi più favore-voli a pubblicazioni complessive» (G. Castellani,1983). Di Virgilio Giotti, invece, Saba pubblicò losplendido Il mio cuore e la mia casa (1920). Lo stessoGiotti è autore del fregio che Saba utilizzò per lacarta da lettere della libreria, stampato anche suicataloghi: «La frequentazione tra i due poeti è quo-tidiana: la bottega di via San Nicolò vede spesso riu-niti con loro per discutere di letteratura il professo-rino Giani Stuparich e lo studente Bobi Bazlen, giàlettore onnivoro» (A. Modena, 2004) e, aggiungia-

mo noi, anche Anita Pittoni, lagrande e raffinata creatrice delleedizioni de “Lo Zibaldone”. DiSaba la Pittoni stampò le liricheinedite di Uccelli (1950).

I pochi ma raffinati volumiediti dalla “Libreria Antica eModerna” sono il segno dellagrande sensibilità grafica delpoeta triestino: «Certamente aquesta sensibilità per il valoregrafico della parola non è estra-nea l’esperienza del libraio anti-quario. Saba, che non fu mai unbibliofilo, e pur compiacendosidi calligrafare per gli amici le

proprie poesie, non condivideva il feticismo dan-nunziano per gli strumenti scrittorii, attraverso ilibri antichi e le edizioni figurate per amatori sco-priva un aspetto nuovo della letteratura» (G. Ca-stellani, 1983). Abbiamo ricordato, all’inizio, il va-lore, anche terapeutico, che la libreria ebbe per Sa-ba. Anni lunghi e angosciosi, nei quali il poeta lottòcontro la depressione e il male di vivere: «Conti-nua a dire che prende l’oppio, e che ha le allucina-zioni quando sta compilando, in libreria, una sche-da; da una parte vede Hitler e dall’altra il vecchioOlschki, l’uno pronto a ucciderlo e l’altro a licen-

21ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano

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ziarlo se sbaglia» (S. Mattioni,1989). Ma la libreria fu anche ri-fugio e luogo ideale per la suaopera poetica: «Vive in quel-l’aria tranquillo un poeta. / Deimorti in quel vivente lapidario /la sua opera compie, onesta e lie-ta, / d’Amor pensoso, ignoto esolitario» (U. Saba, Autobiogra-fia). Sicuramente Saba, come libraio, non fu certa-mente troppo corteggiato in vita e dimenticato do-

po la morte. E per chiudere ilcerchio di questo ritratto di ungrande poeta-libraio del Nove-cento, a 60 anni dalla morte, mipiace ricordare una lettera cheSaba, ormai vecchio e malato,scrive il 5 aprile del ’45: «Linuc-cia mi dice che ho sempre af-frontato la vita armato solo dellamia poesia. Questo è vero, fino aun certo punto. Anche la libreriaa Trieste, (anche Carletto che,nato stupido, diventò poi, stan-do con me un bravissimo libraio)era, in qualche modo, legata alla

mia poesia; ma la cosa era diventata autonoma: esi-steva di per sé; io ne spiccavo i frutti».

FONTIGiovanni Papini, Pietro Pancrazi, Poeti

d’oggi 1900-1925, Firenze, Vallecchi,

1925, pp. 450-466.

[Umberto Saba], Catalogo 111, Trieste,

Libreria Antiquaria Antica e Moderna, 15

marzo 1948, ora in Id., Tutte le prose, a cura

di Arrigo Stara, con un saggio introduttivo

di Mario Lavagetto, Milano, Mondadori [I

Meridiani], 2001, pp. 1023-1024, 1445-

1446.

Alfredo Todisco, La musa e l’antiqua-rio, «Il Mondo», 6.8.49.

[Umberto Saba], Catalogo 126, Trieste,

Libreria Antiquaria Antica e Moderna,

1951, ora in Id., Tutte le prose, cit., pp.

1044-1045, 1450.

Umberto Saba, Consigli ai bibliofili, «IlGlobo», 24.9.54, p. 3, ristampa in Id., Prose,

Milano, Mondadori, 1964, p. 838-843, e

ora in Id., Tutte le prose, cit., pp. 1073-1078,

1457 e Milano, Edizioni Henry Beyle, 2010

[in 575 copie numerate].

Nora Baldi, Il paradiso di Saba, Milano,

Mondadori, 1958.

«Nuovi Argomenti», n. 41, nov-dic.

1959, pp. 9-10.

Umberto Saba, Storia di una libreria, in

Id., Prose, Milano, Mondadori, 1964, pp.

203-207; ristampato in Id., Tutte le prose,

cit., pp. 1025-1028, 1446.

O. H. Bianchi, Saba in bottega, «La Bat-

tana», n. 1, ottobre 1964, pp. 51-53.

Carlo Levi, Le schede librarie di Sabaantiquario, «La Stampa», 15.9.1965.

Anna Fano, L’amicizia tra gli scaffalidella libreria antiquaria, «Il Piccolo»,

25.8.67.

Antonio Baldini, Le scale di servizio. In-troduzione al libro e alla lettura, Milano-

Napoli, Ricciardi, 1971, pp. 83-89; rist., Pe-

saro, Metauro, 2003.

Umberto Saba, Amicizia, Milano, Mon-

dadori, 1976.

Id., Storia e cronistoria del Canzoniere,

Milano, Mondadori, 1977, pp. 107-111.

Mario Lavagetto, Per conoscere Saba,

Milano, Mondadori, 1981, pp. 527-528.

Umberto Saba, Histoire d’une librairie,

in Id., Comme un vieillard qui rêve, Rome,

Académie de France Villa Medicis et L’Al-

phée, 1983, pp. 41-46.

Giordano Castellani, Bibliografia delleedizioni originali di Umberto Saba, Trieste,

Biblioteca Civica, 1983.

Anita Pittoni, Caro Saba, Trieste, Bi-

blioteca Civica, 1977, pp. 36-42, ristampa

anastatica, Trieste, Biblioteca Civica

[Stampa Trieste, Tipografia Nazionale],

1983, edizione in 1000 esemplari.

Umberto Saba, La spada d’amore. Let-tere scelte 1902-1957,Milano, Mondadori,

1983, pp. 82-83, 131-132, 149-150.

Daniele Del Giudice, Lo stadio di Wim-bledon, Torino, Einaudi, 1983, pp. 6-7.

Mario Marchi (a cura di), Intellettuali difrontiera. Triestini a Firenze (1900-1950),Firenze, Gabinetto G.P. Vieusseux, 1983,

pp. 112, 159.

L’elegante plaquette tirata in poche

copie, di Simone Volpato, dedicata ad

alcune preziosità e rarità bibliografiche

di Umberto Saba (2013)

22 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2017

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23ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano

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Studio Tesi, 1984, pp. 34, 68, 73-74.

Giovanni Giudici, Saba, l’amore e il do-lore, in Umberto Saba. Trieste e la culturamitteleuropea, Milano, Fondazione Mon-

dadori, 1986, pp. 64-65.

Flavia Cristiano, L’antiquariato librarioin Italia, Roma, Gela, 1986, pp. 74-75, 92-

93, 157, 169, 287.

Umberto Saba, Atroce paese che amo.Lettere famigliari (1945-1953), Milano,

Bompiani, 1987, p. 148.

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1988, pp. LXXX-LXXXI.

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95-96, 104, 117, 129, 148-149, 168.

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MGS Press, 2007; per il logo della libreria,

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24 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2017

3 linee. Frammenti d’arte tra Umberto Sa-ba e Bruno Pincherle, con opere di Laura Mo-

dolo, Manuela Sedmach e Barbara Stefani,

Trieste, Comunicarte Edizioni, 2007 [250 co-

pie numerate].

Angelo Cicognini, Umberto Saba e la sualibreria, «Leggere:tutti», n. 24, novembre

2007, pp. 80-82.

Gillo Dorfles, Lacerti della memoria. Tac-cuini intermittenti, con la collaborazione di

Aldo Colonetti, Bologna, Editrice Composito-

ri, 2007, pp. 61-64.

Renzo S. Crivelli, Elvio Guagnini (a cura

di), Umberto Saba. Itinerari triestini. TriestineItineraries, Trieste, MGS Press, 2007, p. 141-

146 (testo di Gianni Cimador).

Elena Bizjak Vinci, Stelio Vinci, La libreriadel poeta, con due contributi di Marco Mena-

to e Nicoletta Trotta, Trieste, Hammerle Edito-

ri, 2008, 2010. Nel 2013 è stato ristampato col

titolo La libreria del poeta. Umberto Saba,

senza i due contributi Menato/Trotta e nel

2017 è stata pubblicata una nuova edizione

aggiornata, sempre senza i due contributi.

Massimo Gatta, Librai e librerie di ieri e dioggi: una bibliografia, prefazione di Oliviero

Diliberto, Macerata, Biblohaus, 2008.

Miriam Coen, Bruno Pincherle, Trieste,

Comunicarte Edizioni, 2008, pp. 157-209.

Roberto Costa Longeri, Bruno Pincherleoggi a quarant’anni dalla morte, prefazione

di Cristina Benussi, Empoli, Ibiskos, 2008, pp.

29-32.

Monica Rebeschini, La Trieste di Pincher-le. Cultura e impegno civile di un intellettualedi frontiera, Trieste, Comunicarte Edizioni,

2008.

Umberto Saba, Storia di una libreria, Mi-

lano, Henry Beyle, 2011.

Massimo Gatta, Libreria antiquaria Um-berto Saba, «Cantieri», n. 16, nov-dic. 2011, pp.

8-10.

Giampiero Mughini, In una città attaagli eroi e ai suicidi. Trieste e il “caso” Svevo,

Milano, Bompiani, 2011, pp. 36-38.

Massimo Gatta, Libreria antiquariaUmberto Saba. Catalogo primo (1923),Macerata, Biblohaus, 2011, con la biblio-

grafia dei cataloghi pubblicati, a cura di

Marco Menato.

Stefano Salis, Così Umberto Saba di-ventò libraio, «Il Sole 24 Ore-Domenica», 6

marzo 2011, p. 13.

Sulle tracce degli scrittori, «Meridiani»,

n. 196, marzo 2011, pp. 56-57 [numero

monografico su Trieste con foto dell’inter-

no della Libreria antiquaria Saba].

Gabriella Ziani, La libreria “Saba” in pe-ricolo di vita. Parte il salvataggio, «Il Picco-

lo», martedì 10.5.11, p. 21.

Pietro Spirito, Umberto Saba libraioper caso tra odio e amore, «Il Piccolo»,

17.1.12, p. 39.

L’editore Giuseppe Mayländer e la casaeditrice Apollo. Storia di una impresa edi-toriale, a cura di Antonio Storelli e Gian-

franco Tortorelli, Bologna, Pendragon,

2013.

Dieci piccoli Saba. Dieci libretti ritrova-ti. Una poesia inedita, prefazione di Andrea

Kerbaker e uno scritto di Simone Volpato,

Milano-Trieste, Libreria antiquaria Pontre-

moli-Libreria antiquaria Drogheria 28,

2013.

Trieste-Milano. Cose leggere e vaganti.Frammenti di un archivio ritrovato. Mano-scritti, ritratti, libri. Saba, Giotti, Stuparich,Svevo, Slataper, Pittoni, introduzione di

Angelo Stella e un saggio di Simone Volpa-

to, Milano-Trieste, Libreria antiquaria Pon-

tremoli-Libreria antiquaria Drogheria 28,

2013.

Lettera di Saba a Bonetti del 15 aprile

1929, in Hilarius Moosbrugger, Gli Insoliti.

Una scelta di storia dell’editoria del ‘900.Opere prime, edizioni perdute e ritrovate,paratesto inaspettato, Milano, Libreria an-

tiquaria, Malavasi, 2013.

199+1. Piroscafi di carta. 199 brochu-res navali e turistiche (1920-1950), l’ine-dito di Umberto Saba, Virgilio Giotti e Vit-torio Bolaffio, a cura di Simone Volpato,

presentazione di Francesco Rossetti Co-

sulich, scritti di Piero Delbello e Sergio

Vatta, Trieste, Libreria antiquaria Droghe-

ria 28, 2014.

Sergio Campailla, Marco Menato, An-

tonio Trampus, Simone Volpato, La biblio-teca ritrovata. Saba e l’affaire dei libri diMichelstaedter, Firenze, Olschki, 2015.

Umberto Saba, Pier Antonio Quaran-

totti Gambini, Caro 48. Carissimo Saba.Lettere Inedite 1930-1957, Trieste, IRCI-

Libreria antiquaria Drogheria 28, 2015.

Emilio Jona, Il celeste scolaro, Vicenza,

Neri Pozza, 2015.

Roberto Curci, Via San Nicolò 30. Tra-ditori e traditi nella Trieste nazista, Bolo-

gna, Il Mulino, 2015.

La libreria antiquaria Umberto Saba. Ilpoeta libraio, con un saggio di Marco Me-

nato, Trieste, Comune di Trieste, 2016.

Giotti-Saba: 1957-2017. Libri a Nord-Est, introduzione di Massimo Gatta, Trie-

ste, Libreria antiquaria Drogheria 28,

2017.

Cristina Battocletti, Bobi, Linuccia eSaba, in Ead., Bobi Bazlen. L'ombra di Trie-ste, Milano, La nave di Teseo, 2017, pp. 89-

110.

Simone Volpato, Marco Menato,La bi-blioteca di Virgilio Giotti e il suo sodaliziocon la libreria di Umberto Saba, prefazio-

ne di Anna Modena, a cura di Massimo

Gatta, Macerata, Biblohaus, 2017, in cor-

so di stampa.

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25ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano

minatori in «cercatori di tesorisolo animati dalla brama di co-noscenza», che «nel loro severo,silenzioso commercio con laprimordiale prole di sasso dellaterra, erano destinati a ricevere idoni del cielo e a elevarsi gioio-samente al di sopra del mondo edelle sue cure».

Negli stessi anni, il prota-gonista di Il Runemberg, la dispe-rata fiaba di Ludwig Tieck, va aconsumare la sua tragica sortedentro la bocca di una minieraabbandonata, rincorrendo ildissennato proposito di «strin-gere a sé la terra come una sposacosì che essa possa concedergli

con passione e timore quanto possiede di più pre-zioso».

Luogo propizio ai cercatori di tesori letterariè Falun, città svedese cresciuta a ridosso di ungrande giacimento di rame che ha fornito per se-coli al regno scandinavo la sua più cospicua fontedi ricchezza. Qui, a cavallo fra XVII e XVIII seco-lo, accadde un caso memorabile segnalato per laprima volta nel 1808 in uno scritto del naturalistaGotthilf Heinrich Schubert intitolato Considera-zioni sugli aspetti notturni della scienza naturale.Giudicata da Goethe «la più bella storia del mon-

ECHI LETTERARI DI UNATRAGEDIA MINERARIA

Amore e morte a Falun

Ci sono state alcune occa-sioni in cui la poesia te-desca è andata a cercare

nel grembo della terra la chiavedi quel mistero che più spesso haindagato contemplando la voltastellata sorvegliata dal volto pa-terno della luna. È scesa a inse-guire il proprio destino nelleprofondità percorse dal branco-lare delle radici, nell’ombra dinascoste caverne che si inoltra-no sotto le selve, fra i contraf-forti di roccia sepolti nei recessidove la stirpe dei Nibelunghiestrasse e forgiò i metalli che ar-mano e adornano gli eroi del-l’epopea wagneriana.

È dal buio del sottosuolo che giunge a Enricodi Ofterdingen un luminoso invito al viaggio,nell’omonimo romanzo lasciato incompiuto daNovalis attorno all’anno 1800: qui la vocazioneprofetica a svelare la vita segreta che si nascondedietro la superficie della realtà induce il poeta atrasfigurare l’inospitale antro della miniera nel«recondito ricettacolo dei segreti della natura», e i

Letteratura

Frontespizio dell’edizione di Piccoli drammi

di Hugo von Hofmannsthal curata da Ervino Pocar

per l’editore Carabba di Lanciano (s.d., circa 1920)

LUCA PIVA

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27ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano

Nella pagina accanto: Elis nella miniera (illustrazione di

Luca Piva; inchiostro su carta, 2017)

do», la strana vicenda fu poi narrata da più di unaventina di prosatori e poeti di lingua tedesca in al-trettante versioni, oscillanti fra il sogno di Novalise l’incubo di Tieck.

�Un’eco di questa serie di variazioni risuona

anche in lingua italiana. Fra quelle che sono statetradotte è compresa la più antica, la novella Inspera-to ritrovamento - appartenente a un gruppo di proseche Johan Peter Hebel (1760-1826) raccolse in vo-lume nel 1811 con il titolo di Tesoretto dell’amico difamiglia renano - che in origine erano state concepi-te per corredare di aneddoti singolari ed edificanti ifogli di un calendario popolare luterano diffusonelle fertili campagne attorno a Karlsruhe.

In meno di tre pagine, nella forma di un con-ciso resoconto, Insperato ritrovamento espone latrama che negli anni avrebbe incontrato tanta for-tuna. A Falun, nella miniera, un giovane cavatorerimane sepolto dal crollo di una galleria proprio al-la vigilia del giorno fissato per il suo matrimonio;cinquant’anni più tardi, nel corso degli scavi perl’apertura di un nuovo pozzo, viene dissotterrato ilcorpo di un ragazzo, tanto integro da lasciar crede-re che il sonno della morte lo abbia appena rapito.Ricondotto in superficie, nessuno sa identificarloné si trova chi ricordi di averlo mai incontrato finoa quando, grigia e appassita, entra in scena quellapromessa sposa rimasta vedova senza essere statamoglie mezzo secolo innanzi, e riconosce il giova-ne viso che, custodito nei penetrali della memoria,era sempre stato compagno della sua solitudine.Successivamente si sarebbe saputo che lo sventu-rato era stato sottratto alla corruzione fisica da unacristallizzazione dei tessuti organici dovuta al-l’azione di sali di vetriolo che lo avevano ricoperto,ma di ciò non si cura l’antica fidanzata, né dellamorte che ancora li separa, poiché sa di essere

giunta ormai alla fine della sua vita: vestita a festa,lo accompagna al sepolcro come all’altare nuziale,recando in cuore la certezza di una imminente edefinitiva riunione in un luogo sottratto alla giuri-sdizione del tempo.

L’aneddoto destinato a intrattenere un umileauditorio provinciale conduce a un impervio edenigmatico approdo: le ragioni dell’amore, le stes-se che avevano condotto Orfeo a sfidare le potenzedell’oltretomba, vincono non contro la morte magrazie a essa, che offre loro riparo dalla crudelelegge della materia. La frugale parsimonia di elo-quio che gli è propria non vieta al narratore di rile-vare, nell’inesorabile fluire degli eventi, alcuniepisodi di indimenticabile patetismo: dal vanoscambio di promesse fra i due giovani ignari del fu-turo, alla veglia funebre consumata come una castanotte nuziale; tutto si traduce in figure di tersachiarezza non camuffate da coloriture fiabesche,mentre nessun rilievo è dato alle componenti arca-ne della vicenda, che sono fatte rientrare nella na-turale e inspiegabile varietà della esperienza quoti-diana. Simmetricamente, questa non si riduce a unopaco meccanismo di fatalità, perché per ogni do-ve sparge luce la fiamma della pietà e quella dellasperanza.

�L’impetuosa fantasia di Ernst Theodor Hoff-

mann (1776-1822) trasformò la laconica paraboladi Hebel nell’affannoso groviglio di peripezie e sor-tilegi che movimentano le pagine del racconto Leminiere di Falun, compreso nel 1819 nella raccolta Iconfratelli di San Serapione. Hoffman assegna al mi-natore, «un ragazzo svelto e aggraziato che potevaavere sì e no vent’anni», il nome di Elis Fröbom(nome che manterrà di qui in avanti) e gli inventaun passato di marinaio, facendocelo incontrare alritorno da un lungo viaggio per mari lontani,quando lo accoglie la notizia che sua madre è dapoco morta in solitudine. Ad attrarre il giovaneuomo di mare verso la miniera è la macchinazione

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di potenze stigie che lo adescano tramite i servigid’un loro spettrale ministro, l’anima raminga delvecchio Torbern, e lo incatenano con un sogno. Insogno Elis vede la prefigurazione del suo destinonella spettacolare metamorfosi che trasforma unmare tempestoso, e il cielo ferrigno che lo sover-chia, nella ciclopica navata d’un antro scavato in unarupe di nero cristallo, dalle cui pareti traspare unainebriante profusione di ricchezze; in sogno cono-sce la soggiogante bellezza della Regina della Mon-tagna, fosca e rifulgente signora del sottosuolo cheregna sulle buie contrade dove i minatori si calanoin sinistra promiscuità con i morti: in questa statua-ria figura, desunta dalla favola di Tieck, si specchiauna natura ferocemente matrigna che ostenta i suoitesori al solo fine di irretire le sue vittime, ed è agi-tata dal famelico istinto a riappropriarsi della ma-teria di cui sono fatti i suoi figli, sottraendolaall’aereo connubio con lo spirito per precipitarla nelgorgo di un cieco e insensato divenire.

Dopo che Elis si sarà stabilito a Falun, a nullagli varranno l’affetto della promessa sposa, la bene-volenza della comunità dei minatori e la prospettivadi una vita onorata e feconda: il mattino del giornoscelto per la celebrazione delle nozze la sua mente

abitata da fantasmi cederà al lugubre richiamo delmondo sepolto, tanto imperioso da strapparlo al-l’altare per farlo accorrere verso le infernali faucidella miniera che, in un parossismo di voluttà e di-sperazione, lo inghiottiranno propiziando il suo in-contro con la sovrannaturale tiranna e con la morte.

�Con il suo variopinto frastuono, questo rin-

corrersi di invenzioni fantastiche finisce per ridur-re a un’appendice e lasciare in ombra proprio l’epi-sodio del ritrovamento e della postuma agnizionein cui risiedeva il senso della storia originale, tantoche lo stesso autore, nelle ultime righe, esprime uncerto rammarico per aver dissipato il concentratopatetismo della cronaca redatta da Schubert e rac-colta da Hebel.

L’asimmetria fra le due parti del racconto diHoffmann è tanto evidente che quando nel 1842Richard Wagner (1813-1883) progettò di metterloin musica ritenne di doverne garantire la coesionedrammaturgica concludendo la trama con la mortedel protagonista. Wagner si dedicò a Le miniere diFalun dopo aver completato la composizione deL’olandese volante, e abbandonò il progetto prima di

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29ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano

aver intrapreso la versificazione del libretto e lacomposizione della partitura, perché la messa inscena degli episodi più visionari fu ritenuta troppocomplicata. Le esigenze strutturali intrinseche a unorganismo complesso come il dramma musicale loindussero a imbrigliare il torrenziale procederedell’inventiva hoffmaniana nell’ambito di una ar-chitettura rigorosa, calibrandone pesi e propor-zioni in funzione dell’avvicendarsi fra le diversevoci e dell’alternanza fra pause di distensione e ac-celerazioni drammatiche. Con il trattamento for-male muta anche il carattere attribuito alla vicendadi Elis; per entrambi gli autori, ad attrarlo verso itesori sepolti nella miniera non è la cupidigia di ric-chezza ma la sete di conoscenza, che esige il sacri-ficio di ogni altra ambizione, di ogni affetto, dellostesso focolare domestico: ma se a trascinare il per-sonaggio di Hoffmann è la follia, nell’adattamentodi Wagner la condizione patologica appare menoenfatizzata, e il suo eroe non si dibatte penosa-mente nella rete di un destino sul quale non eser-

cita alcun dominio, ma segue la sua strada con unaferma determinazione che lo apparenta ai puri, ge-nerosi e indomiti eroi che il compositore rese pro-tagonisti delle sue grandi creazioni.

�Mentre il secolo stava arrivando alla fine an-

che Hugo von Hofmannsthal (1874-1929) si rivol-se al racconto di Hoffmann, fissandovi lo sguardocon il quale l’indovino scruta i sogni e traendoneun responso che affidò al dramma in versi La minie-ra di Falun (composto a Venezia nel 1899) e allaprosa incompiuta La fiaba della donna velata, dellaquale rimangono l’avvio accuratamente rifinito ealcuni appunti, risalenti al 1900. Questi scrittigiunsero sull’estremo limitare di quella impetuosafioritura lirica che aveva condotto il poeta viennesea esordire, sedicenne, con grappoli di versi che sa-rebbero stati giudicati l’ultima vetta raggiunta dal-la lingua poetica tedesca; giunsero anche alla vigi-lia di quella crisi personale e letteraria mirabil-

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mente esposta nel 1902 dalla Lettera di Lord Chan-dos, che spezzò in due tronconi il suo camminocreativo e segnò anche queste due opere: l’una conl’incompletezza e l’altra con una frastagliata av-ventura editoriale, aperta nello stesso anno dellacomposizione dalla pubblicazione in volume delsolo primo atto o Prologo, e ripresa dopo più di ven-t’anni con la disordinata uscita in riviste di tre deiquattro atti successivi.

La fiaba della donna velata si spegne in unamanciata di pagine prima di avere innescato unconcreto meccanismo narrativo: ciò che rimane èuna sorta di arpeggio introduttivo, intento a evoca-

re quadri d’interno o di paesaggio, colloqui rarefat-ti e tronchi, stati d’animo espressi in forma di sensa-zioni ottiche o sonore, intessuti con materiali trattidalla più umile quotidianità e ammantati del miste-ro che l’autore sempre sentì fermentare dietro ogniapparenza. Ervino Pocar spiegò la ritrosia dell’au-tore a pubblicare La Miniera di Falun sostenendoche dovesse considerarsi «un lavoro mal riuscito»,mentre Giorgio Zampa suggeriva che il primo atto,l’unico a essere stato tradotto in italiano, nella suapotente concentrazione rendesse «quasi superflui iquattro successivi». In precedenza, Leone Traver-so aveva avvertito che «mai forse Hofmannsthal ha

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composto un dramma più organico», e che Anna, lapromessa sposa, sia uno dei personaggi femminilipiù felici creati dal poeta che diede voce ad Elektra ealla Marescialla. Passo dopo passo, Hoffmansthalfa ripercorrere al suo protagonista il cammino trac-ciato da Hoffmann, affidandolo però alla tutela diun nume benevolo: il ricordo dolente e luminosodella perduta madre, che lo attende immersa nel-l’ombra della «casa profonda». Ne trabocca un’on-da di commozione capace di sciogliere la dominan-te negativa che opprimeva la trama originale: i ca-rezzevoli lineamenti della madre si imprimono sulvolto della morte, che abita, non più nemica, le cie-che latebre del pozzo, e anche la terribile regina de-gli abissi, mossa a compassione dalla condizione dicrudele imperfezione che affligge i viventi, si spo-glia della sua natura rapace e attrae Elis allo scopo dimetterlo in salvo «nella calma dei lucidi mineraliimmersi nel sonno d’immobili millenni» (Traver-so). Poiché questo presentimento dell’inconoscibi-le non tollera d’essere costretto dalle briglie di unlinguaggio descrittivo, Hofmannsthal compose ilsuo dramma in un susseguirsi di figure poetiche ca-paci di condensare in parole la complessità di sug-gestioni che Wagner avrebbe dovuto affidare allapartitura musicale, riempiendone ogni verso di unavita segreta la cui sostanza, sensibile ma impalpabi-le, è affine alla musica: quella musica «accorata,soave, oscura, ardente, sorella della più grave tri-stezza» che il poeta adolescente aveva intonato nei

versi di Erlebnis, ed era rimasta la veste della sua mu-sa «infinitamente nobile ed infinitamente triste».

Pochi anni più tardi, un ultimo poeta raccolsela storia del minatore di Falun per darne una ver-sione meno esplicita, quasi segreta, non sempre as-sociata al repertorio. Nel 1914 Georg Trakl scrissedue liriche, Elis e Al ragazzo Elis, dove non compa-iono la miniera né il coro dei comprimari né alcunasorta di accadimento, ma solo l’immobile abban-dono del sonno profondo, ignaro, mai destinato ainterrompersi, che aveva adagiato il protagonistanel fiore della giovinezza sul suo letto di sassi; loculla un lampeggiare di immagini di forte rilievofigurativo, insofferenti a tradursi in concetti,gemme grezze incastonate in gelido oro. Ognidramma appare qui già consumato, e sembra che

Nella pagina accanto da sinistra in senso orario: ritratto

di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (1776-1822),

dall’edizione Casini di I fedeli di San Serapione; Leone

Traverso (1910-1968) in una fotografia degli anni trenta,

dal volume Bagnoli di Sopra, storia e arte (Bagnoli di Sopra,

1993); Georg Trakl (1887-1914) in un ritratto fotografico

riprodotto nell’antiporta dell’edizione Dell’Ateneo;

Richard Wagner (1813-1883) in un ritratto fotografico

del 1871; Johann Peter Hebel (1760-1826)in una incisione

del primo Ottocento. In questa pagina, in basso, Hugo von

Hofmannsthal in un ritratto litografico di Karl Bauer

31ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano

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in questo sopore l’atroce musa di Trakl possa tro-vare un rifugio dove quietarsi. Invece non ne traeche poca luce, prima di affondare in un pozzod’ombra: «perfetta è la quiete del giorno dorato»,e simile a un giacinto il corpo di Elis, l’azzurro deisuoi occhi «rispecchia la sonnolenza degli amanti»,e «azzurra quiete» sparge lentamente l’ulivo; ma«su nere mura tuona il vento di Dio», come «neraspelonca» il silenzio imprigiona il dormiente, «inun nero cuscino affonda il suo capo», e grondasopra il suo sonno una rugiada nera, «ultimo orodi consumate stelle».

�In Italia questi scrittori tedeschi hanno incon-

trato interpreti coltissimi, ispirati e devoti. DasSchatzkästlein des Rheinischen Hausfreundes di Hebelfu tradotto nel 1988 da Alberto Guareschi perl’editore Guanda, e nel 1996 da Giuseppe Bevilac-qua per l’edizione bilingue Marsilio intitolata Sto-rie di calendario. Die Serapionsbrüder di Hoffmannè stato pubblicato nel 1957 dall’editore GherardoCasini nella traduzione di Rosa Spaini sotto il ti-tolo I fedeli di San Serapione, e nel 1969 è entratonell’edizione Einaudi dei Romanzi e racconti, nellaversione di Carlo Pinelli. Die Bergwerke zu Falundi Richard Wagner si trova in Poemi e abbozzi nonmusicati, curata nel 1994 da Francesco Gallia perle edizioni Studio Tesi. Das Märchen von der ver-schleirten Frau di Hugo von Hofmannsthal, nellalevigata traduzione di Gabriella Bemporad, è statoinserito nella raccolta La mela d’oro e altri racconti,edita da Adelphi nel 1982. Ai nomi di Hofman-nsthal e Trakl rimane legato quello di Leone Tra-verso (1910-1968), le cui edizioni in volume nepresentarono le opere ai lettori italiani in unaforma che sposa il meglio della cultura italiana etedesca del suo tempo: la versione di Das Bergwerkzu Falun comparve nel 1942 in Liriche e drammi,edito da Sansoni, e nel 1972 fu riproposta nell’edi-zione delle Narrazioni e poesie curata per Monda-dori da Giorgio Zampa; Ervino Pocar ne avevadato una sonora versione di sapore ottocentescocompresa in Piccoli drammi, edito da Carabba neiprimi anni venti, escludendola però dalla riedi-zione Rusconi del 1972. Più numerosi sono coloroche con nobili risultati si sono cimentati nella tra-duzione di Trakl: oltre alle capitali imprese diLeone Traverso (Cederna, 1949) e Ida Porena(Edizioni dell’Ateneo, 1963) mi limito a segnalareil canzoniere tradotto da Oddone Longo, com-parso in una rara edizione stampata nel 2003 aMonselice dalla litografia Silsab e riproposto nel2004 dall’editore torinese Genesi.

Copertina della raccolta di versi di Hofmannsthal tradotti

da Leone Traverso per l’editore Sansoni (Firenze) nel 1942

32 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2017

Page 35: la Biblioteca di via Senato · 2019-02-02 · n. 10– ottobre 2017 laBiblioteca di via Senato mensile, anno ix Milano ISSN 2036-1394 BIBLIOFILIA I libri della Crusca e le loro vicende

ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano 33

una prassi consolidata nelleacquisizioni museali, risponde il 3marzo precisando tuttavia che le opere,che lei stessa aveva visto e selezionatodurante la mostra romana, sarebberostate prese in temporaneo deposito peresposizione, non potendone effettuarel’acquisto ma eventualmente un lascitoin deposito o in dono. in unadichiarazione del 13 febbraio 1965,oltretutto, erano segnati anche unaAllegria senza fine di Chao Rute e unInfinito susseguirsi del vuoto immobile:R9 di Yang Ying-Feng, di cui però siperdono le tracce nel prosieguo dellacorrispondenza. La pratica si risolve inun tempo molto breve, perché già il 7marzo sia Ho Kan sia Hsiao Chincomunicano di aver deciso di donare

LE MOSTRE – LIBRI D’ARTE – DENUNCIA – RIFLESSIONI – LO SCAFFALE DEL BIBLIOFILO

inSEDICESIMO

È il febbraio del 1965 quandol’attenzione di Palma Bucarelli,la storica direttrice della Galleria

Nazionale d’Arte Moderna di Roma, siposa su Spazio n. 1 di Ho Kan, unquadro del 1964: lo stesso anno in cuidopo gli studi presso il pittore Li ChunSen, aveva lasciato la RepubblicaPopolare Cinese per trasferirsi prima aParigi, poi a Milano. Lo aveva notato inuna mostra al Palazzo delle Esposizioni(forse la mostra della Moderna pitturacinese che si era tenuta a Roma nel

1965) insieme a Raggi no 2, una grandetela (360x220 cm) di Hsiao Chin,Orizzonte n. 3 del 1963 di Hsia Yan e diInfinito 1964 di Po-Yong. Lo siapprende da una lettera che lo stessoHsiao Chin scrive alla Bucarelli il 24febbraio 1965, inviando una schedarelativa al dipinto di Ho Kan e alproprio, specificando tuttavia che perl’acquisto di quest’ultimo dovevapassare attraverso trattativa conGiorgio Marconi, che ne curava gliinteressi in Italia. La Bucarelli, secondo

LA MOSTRAAPPUNTI PER HO KANRitorno a Milano

In alto: Senza titolo, 2006, olio su tela, 70x50

cm. A sinistra: Senza titolo, 1968-69, olio su

tela, 60x80 cm

a cura di luca pietro nicoletti

ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano 33

una prassi consolidata nelleacquisizioni museali, risponde il 3marzo precisando tuttavia che le opere,che lei stessa aveva visto e selezionatodurante la mostra romana, sarebberostate prese in temporaneo deposito peresposizione, non potendone effettuarel’acquisto ma eventualmente un lascitoin deposito o in dono. in unadichiarazione del 13 febbraio 1965,oltretutto, erano segnati anche unaAllegria senza fine di Chao Rute e unInfinito susseguirsi del vuoto immobile:R9 di Yang Ying-Feng, di cui però siperdono le tracce nel prosieguo dellacorrispondenza. La pratica si risolve inun tempo molto breve, perché già il 7marzo sia Ho Kan sia Hsiao Chincomunicano di aver deciso di donare

LE MOSTRE – LIBRI D’ARTE – DENUNCIA – RIFLESSIONI – LO SCAFFALE DEL BIBLIOFILO

inSEDICESIMO

È il febbraio del 1965 quandol’attenzione di Palma Bucarelli,la storica direttrice della Galleria

Nazionale d’Arte Moderna di Roma, siposa su Spazio n. 1 di Ho Kan, unquadro del 1964: lo stesso anno in cuidopo gli studi presso il pittore Li ChunSen, aveva lasciato la RepubblicaPopolare Cinese per trasferirsi prima aParigi, poi a Milano. Lo aveva notato inuna mostra al Palazzo delle Esposizioni(forse la mostra della Moderna pitturacinese che si era tenuta a Roma nel

1965) insieme a Raggi no 2, una grandetela (360x220 cm) di Hsiao Chin,Orizzonte n. 3 del 1963 di Hsia Yan e diInfinito 1964 di Po-Yong. Lo siapprende da una lettera che lo stessoHsiao Chin scrive alla Bucarelli il 24febbraio 1965, inviando una schedarelativa al dipinto di Ho Kan e alproprio, specificando tuttavia che perl’acquisto di quest’ultimo dovevapassare attraverso trattativa conGiorgio Marconi, che ne curava gliinteressi in Italia. La Bucarelli, secondo

LA MOSTRAAPPUNTI PER HO KANRitorno a Milano

In alto: Senza titolo, 2006, olio su tela, 70x50

cm. A sinistra: Senza titolo, 1968-69, olio su

tela, 60x80 cm

a cura di luca pietro nicoletti

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alla Galleria l’opera scelta dalladirettrice (Roma, GN, Archivio Storico,2f dono di opere, busta 7, fasc. 22).

Per la storia del pittore, nato aNanchino nel 1932, è un tassellosignificativo, non solo per il fatto chequello è l’unico suo dipinto conservatoin una collezione pubblica italiana, maper quello che significava,nell’economia dell’unico museonazionale d’arte contemporanea d’Italia,la sua presenza in quella collezione inquel preciso momento storico.L’episodio deve essere infatti collocatoall’interno di una più ampia politica diaggiornamento e implementazionedella collezione che la Bucarelli avevaavviato sin dal suo insediamento alladirezione della GNAM, e che agli esordidegli anni Sessanta si era tradottanell’acquisto, e soprattutto nella presain deposito (poi tramutato in dono), di

un cospicuo numero di opere chedessero conto della situazione piùaggiornata dell’arte moderna in Italia.La bella direttrice, infatti, gira e osservacon attenzione le gallerie piùd’avanguardia di Roma e di Milano (enon solo), annotando gli artisti esoprattutto le opere che possono essereutili a colmare le lacune della collezioneche, nelle sue intenzioni, dovevarappresentare al livello più alto tutte lesfaccettature dell’articolatissimopanorama delle ricerche visive attuali.Non mancano, fra le carte d’archivio, letracce di opere prese in carico dallagallerie a poco tempo dalla loroesecuzione e poi acquistate molti annipiù tardi, ma assicurate intanto almuseo in modo da garantire una presadiretta su quanto sta accadendo sia inItalia sia a livello internazionale. Appenaun anno prima, per esempio, si era

avviata l’annosa pratica con cui laBucarella aveva cercato di realizzare,forte delle volontà testamentariedell’artista, una sala di Jean Fautrier,deceduto nel luglio 1964. E sono glistessi anni in cui la galleria compra, susuggerimento di Giulio Carlo Argan, unquadro di ninfee della tarda produzionedi Claude Monet, frattanto che conGiorgio Marconi contratta l’acquisizionedi quadri di Bepi Romagnoni e ValerioAdami, e prima della crucialeacquisizione, dopo il 1968, dello studiodi Pino Pascali. Tutto questo rientra inun disegno comune di integrazione eaggiornamento, ed è un implicitoriconoscimento di valore per l’opera diHo Kan: il suo quadro stava a indicarenon solo la presenza in Europa di artistidell’estremo oriente, ma in particolarela presenza di artisti che già in Cinaavevano cercato una via all’arte astrattaben lontana dalle scelte ufficialiorientate verso un realismo esemplatosui moduli della pittura ottocentescaeuropea. La costituzione nel 1957 delgruppo “Ton Fan”, di cui Ho Kan faparte, stava a indicare proprio questaferma intenzione di emancipazione, incui la critica europea aveva riconosciutola più autentica anima dell’artemoderna cinese. Lo dirà chiaramente unacuto interprete di allora, l’editoreVanni Scheiwiller, dedicando a lui unpiccolo e prezioso libro delle suemilanesi edizioni all’Insegna del pesced’oro, nel 1973: ipotecato il realismo, lapiù autentica espressione visiva cinese,capace di riallacciarsi in chiavemoderna alle esperienze della filosofiaorientale zen e taoista, è una «grandepittura senza immagine».

Eppure fin da subito è irresistibile,

la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 201734

Sotto: Senza titolo, 1969, olio su tela, 30x40 cm. Nella pagina accanto: Senza titolo, 2017,

pastelli su carta intelata, 35x50 cm

alla Galleria l’opera scelta dalladirettrice (Roma, GN, Archivio Storico,2f dono di opere, busta 7, fasc. 22).

Per la storia del pittore, nato aNanchino nel 1932, è un tassellosignificativo, non solo per il fatto chequello è l’unico suo dipinto conservatoin una collezione pubblica italiana, maper quello che significava,nell’economia dell’unico museonazionale d’arte contemporanea d’Italia,la sua presenza in quella collezione inquel preciso momento storico.L’episodio deve essere infatti collocatoall’interno di una più ampia politica diaggiornamento e implementazionedella collezione che la Bucarelli avevaavviato sin dal suo insediamento alladirezione della GNAM, e che agli esordidegli anni Sessanta si era tradottanell’acquisto, e soprattutto nella presain deposito (poi tramutato in dono), di

un cospicuo numero di opere chedessero conto della situazione piùaggiornata dell’arte moderna in Italia.La bella direttrice, infatti, gira e osservacon attenzione le gallerie piùd’avanguardia di Roma e di Milano (enon solo), annotando gli artisti esoprattutto le opere che possono essereutili a colmare le lacune della collezioneche, nelle sue intenzioni, dovevarappresentare al livello più alto tutte lesfaccettature dell’articolatissimopanorama delle ricerche visive attuali.Non mancano, fra le carte d’archivio, letracce di opere prese in carico dallagallerie a poco tempo dalla loroesecuzione e poi acquistate molti annipiù tardi, ma assicurate intanto almuseo in modo da garantire una presadiretta su quanto sta accadendo sia inItalia sia a livello internazionale. Appenaun anno prima, per esempio, si era

avviata l’annosa pratica con cui laBucarella aveva cercato di realizzare,forte delle volontà testamentariedell’artista, una sala di Jean Fautrier,deceduto nel luglio 1964. E sono glistessi anni in cui la galleria compra, susuggerimento di Giulio Carlo Argan, unquadro di ninfee della tarda produzionedi Claude Monet, frattanto che conGiorgio Marconi contratta l’acquisizionedi quadri di Bepi Romagnoni e ValerioAdami, e prima della crucialeacquisizione, dopo il 1968, dello studiodi Pino Pascali. Tutto questo rientra inun disegno comune di integrazione eaggiornamento, ed è un implicitoriconoscimento di valore per l’opera diHo Kan: il suo quadro stava a indicarenon solo la presenza in Europa di artistidell’estremo oriente, ma in particolarela presenza di artisti che già in Cinaavevano cercato una via all’arte astrattaben lontana dalle scelte ufficialiorientate verso un realismo esemplatosui moduli della pittura ottocentescaeuropea. La costituzione nel 1957 delgruppo “Ton Fan”, di cui Ho Kan faparte, stava a indicare proprio questaferma intenzione di emancipazione, incui la critica europea aveva riconosciutola più autentica anima dell’artemoderna cinese. Lo dirà chiaramente unacuto interprete di allora, l’editoreVanni Scheiwiller, dedicando a lui unpiccolo e prezioso libro delle suemilanesi edizioni all’Insegna del pesced’oro, nel 1973: ipotecato il realismo, lapiù autentica espressione visiva cinese,capace di riallacciarsi in chiavemoderna alle esperienze della filosofiaorientale zen e taoista, è una «grandepittura senza immagine».

Eppure fin da subito è irresistibile,

la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 201734

Sotto: Senza titolo, 1969, olio su tela, 30x40 cm. Nella pagina accanto: Senza titolo, 2017,

pastelli su carta intelata, 35x50 cm

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per la critica, stabilire un confronto fraOriente e Occidente e fare fra questi idovuti distinguo. Pochi mesi l’arrivo aMilano di questo artista, un articolistade “l’Unità” il 9 marzo 1965 annota chela pittura di questo «cinese minuto egentile» sottolinea il «dramma di unincontro tra due pitture cosìradicalmente diverse», ma non può farea meno di trovare una classificazionetipicamente milanese di «spazialismoastratto» per la sua produzione allorapiù recente e compiuta, costituita da«grandi superfici bianche ritmatedall’apparizione di solitarie, minutezone di colore». Non si può negare, alcontempo, che la critica italiana avevaun’idea un po’ confusa del pensieroorientale, tanto che pure un’interpreteattenta come Giulia Veronesi,presentandolo al Cenobio di Milano invia San Carpoforo nel 1966, cade nellaconfusione di etichettarlo come artista“giapponese”. Ciononostante, avevaosservato acutamente che la sua ricercaaveva dato esiti particolarmente felicinel momento in cui aveva abbandonatouna iniziale immediatezza di tocco,tipica per esempio di un altro artistacinese della generazione più anziana,Zao Wou-Ki, naturalizzato francese giàda vent’anni, placando gli impeti: «lacalma», scrive la Veronesi, «èarricchimento interiore, è intensità: HoKan avvertì “da pittore” il senso deisilenzi –il silenzio interiore e quello delmondo -, traducendoli in spazi viventi,solo come atmosfera, come respirotranquillo intorno alle decantateimmagini che la memoria, forse, ancoraritrova».

Già allora, infatti, Ho Kan avevamesso a punto le basi del proprio

lessico visivo: campiture piatte conaccordi armonici di colore capaci diconciliare intonazioni di verde o diazzurro di forte impressionenaturalistica (che nel tempo siallargheranno a colori di allusione piùartificiale ed “urbana”) e delle brevinotazioni grafiche, via via più minimali,che scandiscono lo spazio dando unritmo e un movimento narrativo allosviluppo del quadro. Questo aveva postotalvolta il problema di conciliare unavisione così limpida e pulita, rarefattama nitidissima e ben lontana dal poteressere accomunata a istanze di “artconcret”, con l’idea di un linguaggiofatto di ideogrammi come quello cinese,in cui ogni parola è un’immagine conun valore di segno, di gesto e, alcontempo, un’allusione iconica. Difficiledire quali fossero i simboli di Ho Kan,come osserva un’altra giovane artista diallora, Mariangela De Maria, scrivendodi lui per la personale alla galleria LaCornice di Cremona e rilevando laparticolare congiuntura storica in cuil’artista si trovava a vivere. Il simbolo,dunque, era diventato un «oggetto

inscindibile; vibrato in uno spaziomagico». Questo significava averlosganciato da un referente verbaleesplicito, lasciando che esso seguisseuna propria «linea di racconto»: «simuove libero in direzioni inventate, sirealizza in contrasto su sfonditrasparenti di colore azzurro o violetto;carico di suggestioni oniriche apre lastrada ai larghi e chiari spazi, comeun’impronta che i giorni non potrannocancellare».

Il punto fondamentale della ricercadi Ho Kan era proprio questo: egliarrivava a una situazione di puraastrazione che non disdegnava il ricorsoalla geometria, alla dialettica fra lineecurve e linee spezzate, che scandisconoil piano compositivo, ma non vi arrivavae non vi arriva attraverso un rigorosocalcolo euclideo. Al contrario, la pitturaè per lui il risultato di un approcciointuitivo, in cui la composizione nascesulla tela per una progressione istintiva,senza tuttavia che questo comporti unaevidenza gestuale: sono segni chedelimitano forme pulite, ma fruttocomunque di un istinto di matrice

ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano 35

per la critica, stabilire un confronto fraOriente e Occidente e fare fra questi idovuti distinguo. Pochi mesi l’arrivo aMilano di questo artista, un articolistade “l’Unità” il 9 marzo 1965 annota chela pittura di questo «cinese minuto egentile» sottolinea il «dramma di unincontro tra due pitture cosìradicalmente diverse», ma non può farea meno di trovare una classificazionetipicamente milanese di «spazialismoastratto» per la sua produzione allorapiù recente e compiuta, costituita da«grandi superfici bianche ritmatedall’apparizione di solitarie, minutezone di colore». Non si può negare, alcontempo, che la critica italiana avevaun’idea un po’ confusa del pensieroorientale, tanto che pure un’interpreteattenta come Giulia Veronesi,presentandolo al Cenobio di Milano invia San Carpoforo nel 1966, cade nellaconfusione di etichettarlo come artista“giapponese”. Ciononostante, avevaosservato acutamente che la sua ricercaaveva dato esiti particolarmente felicinel momento in cui aveva abbandonatouna iniziale immediatezza di tocco,tipica per esempio di un altro artistacinese della generazione più anziana,Zao Wou-Ki, naturalizzato francese giàda vent’anni, placando gli impeti: «lacalma», scrive la Veronesi, «èarricchimento interiore, è intensità: HoKan avvertì “da pittore” il senso deisilenzi –il silenzio interiore e quello delmondo -, traducendoli in spazi viventi,solo come atmosfera, come respirotranquillo intorno alle decantateimmagini che la memoria, forse, ancoraritrova».

Già allora, infatti, Ho Kan avevamesso a punto le basi del proprio

lessico visivo: campiture piatte conaccordi armonici di colore capaci diconciliare intonazioni di verde o diazzurro di forte impressionenaturalistica (che nel tempo siallargheranno a colori di allusione piùartificiale ed “urbana”) e delle brevinotazioni grafiche, via via più minimali,che scandiscono lo spazio dando unritmo e un movimento narrativo allosviluppo del quadro. Questo aveva postotalvolta il problema di conciliare unavisione così limpida e pulita, rarefattama nitidissima e ben lontana dal poteressere accomunata a istanze di “artconcret”, con l’idea di un linguaggiofatto di ideogrammi come quello cinese,in cui ogni parola è un’immagine conun valore di segno, di gesto e, alcontempo, un’allusione iconica. Difficiledire quali fossero i simboli di Ho Kan,come osserva un’altra giovane artista diallora, Mariangela De Maria, scrivendodi lui per la personale alla galleria LaCornice di Cremona e rilevando laparticolare congiuntura storica in cuil’artista si trovava a vivere. Il simbolo,dunque, era diventato un «oggetto

inscindibile; vibrato in uno spaziomagico». Questo significava averlosganciato da un referente verbaleesplicito, lasciando che esso seguisseuna propria «linea di racconto»: «simuove libero in direzioni inventate, sirealizza in contrasto su sfonditrasparenti di colore azzurro o violetto;carico di suggestioni oniriche apre lastrada ai larghi e chiari spazi, comeun’impronta che i giorni non potrannocancellare».

Il punto fondamentale della ricercadi Ho Kan era proprio questo: egliarrivava a una situazione di puraastrazione che non disdegnava il ricorsoalla geometria, alla dialettica fra lineecurve e linee spezzate, che scandisconoil piano compositivo, ma non vi arrivavae non vi arriva attraverso un rigorosocalcolo euclideo. Al contrario, la pitturaè per lui il risultato di un approcciointuitivo, in cui la composizione nascesulla tela per una progressione istintiva,senza tuttavia che questo comporti unaevidenza gestuale: sono segni chedelimitano forme pulite, ma fruttocomunque di un istinto di matrice

ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano 35

Page 38: la Biblioteca di via Senato · 2019-02-02 · n. 10– ottobre 2017 laBiblioteca di via Senato mensile, anno ix Milano ISSN 2036-1394 BIBLIOFILIA I libri della Crusca e le loro vicende

surrealista ricondotta a uno stilegrafico. Una indagine più a fondosull’iconografia del segno “fluttuante”rivelerebbe un diagramma di punti dicontatto con esiti quasi inaspettati. Lapittura milanese di quegli anni, infatti, èfitta di tessuti di segno, di quadri ridottia una marca essenziale di segni comeuna scrittura sulla tela o comunquecome atto di indicazione minimaleall’interno della composizione: sono glianni dei primi filamenti di colore che silibrano su un campo atmosferico messia punto da Valentino Vago dopo avermesso fra parentesi una tangenzialeinfatuazione suprematista, o dellaprima messa a punto del surrealismoelegante e grafico di Enrico Della Torre;sono anche gli anni del gruppo delCenobio, e non sono ancora giunte leistanze di pittura minimale e artegestaltica. Esperienze che possonoessere avvicinate fra loro con glistrumenti della filologia, ma cheavevano di fondo intenzioni di poeticadiametralmente opposte. Il punto piùcomplesso sta nel mettere a fuoco ilsenso e la dimensione dello spazioall’interno della rappresentazione: lapittura di Ho Kan si risolvefrontalmente sul piano della tela, senzaricorrere alle tradizionali tecniche dirappresentazione spaziale, maciononostante la composizioni che sipresenta al fruitore, inquadrata comeuna visione a distanza, presentano unascansione fra sfondo e primo piano, sucui un accordo di segni fluttua conallusione a un movimento lento mavivo, quasi di memoria micro-cellulare.Gli strumenti non cambiano: piccolerighe sovrapposte a figure geometrichemistilinee e che talvolta si trasformano

in filamenti. A mutare, invece, è il modoin cui ciascun artista ha deciso dicombinarli e la “distanza” percettiva chesi pone fra lo spazio dell’oggetto e lospazio della fruizione. Sembra tuttaviache anche Vanni Scheiwiller, quandodedica a Ho Kan la piccola monografiaprima menzionata, avesse in mentequesta affinità fra artisti diversi, a cuiforse allude richiamando nel suo testo ipadri nobili dell’astrattismo a cui quegliartisti avevano fatto riferimento: «la suapittura è un tentativo, ancora in corsodi chiarificazione, di sintesi del pensieroorientale (soprattutto il “Tao”) e dellesue tradizioni estetiche coi mezzid’espressione dell’avanguardiaoccidentale: cubismo, surrealismo,astrattismo lirico fino a Mondrian,Malevich, agli americani come Rothko».In ogni caso, però, si trattava di pitturapura, fatta esclusivamente nei termini econ gli strumenti della pittura, «che cirende felici nel contemplarla, in perfettoequilibrio tra naturalismo e l’astrazione:tra la “religione del rifiuto-del-mondo”(astrattismo) e “la testimonianza di unsolido appetito” (naturalismo)». Perquesto era per lui possibile «accostarsialla pittura non intellettualmente, nonconcettualmente o astrattamente maconcretamente, coi piedi ben saldi perterra», e di conseguenza «il pennelloserve non a riprodurre o a imitare ma aestrarre le cose dal caos». [lpn]

HO KANa cura di Gabriella Brembati, testi di Stefano Soddu e Luca Pietro Nicoletti

MILANO, SCOGLIO DI QUARTO

26 settembre -20 ottobre 2017

36 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2017

C’ è un momento al principiodegli anni Cinquanta in cui ilnoto precetto leonardesco di

osservare le muffe sui muri e diriconoscervi la fisionomia di paesagginaturali tutti d’invenzione assume unaparticolare sfumatura di senso. Quellaraccomandazione, infatti, sembraparticolarmente adatta a leggere, oalmeno a capire alcune dinamicheoperative dell’Informale, in cui ilframmento, l’increspatura irregolare dellamateria, il graffio come lacerazione,assumono un forte valore espressivo cheproietta una visione del mondo tragicaed esistenziale. Una attenzione piùintensa verso l’informe, verso la materiascabra anche nelle sue espressioni piùumili e marginali, dunque, amplificaalcuni dati di sensibilità visiva congenialeai tempo, da cui scaturiscono ineditirisultati nel momento in cui entrano inrotta di collisione con un allargamentodelle conoscenze comuni e dellapercezione dell’infinitamente piccolo edello spazio cosmico.

Fra 1951 e 1952, superati iquarantacinque anni, il fabrianeseEdgardo Mannucci realizza Idea n. 1,energia e materia: una macchia dimateria lanciata in uno spazio disospensione, avvolto da un gomitolo difilo metallico come la scheggia di unpianeta in orbita circondato da uncaotico sistema satellitare di cui lascultura ha congelato le eccentrichetraiettorie. Si può discutere se vada lettacome visione dello spazio sideraleinsondato o come metafora di unadimensione atomica: in entrambi i casil’artista sta facendo i conti, al passo conuna generazione più giovane della sua,con al scoperta di universi ancora incerti

surrealista ricondotta a uno stilegrafico. Una indagine più a fondosull’iconografia del segno “fluttuante”rivelerebbe un diagramma di punti dicontatto con esiti quasi inaspettati. Lapittura milanese di quegli anni, infatti, èfitta di tessuti di segno, di quadri ridottia una marca essenziale di segni comeuna scrittura sulla tela o comunquecome atto di indicazione minimaleall’interno della composizione: sono glianni dei primi filamenti di colore che silibrano su un campo atmosferico messia punto da Valentino Vago dopo avermesso fra parentesi una tangenzialeinfatuazione suprematista, o dellaprima messa a punto del surrealismoelegante e grafico di Enrico Della Torre;sono anche gli anni del gruppo delCenobio, e non sono ancora giunte leistanze di pittura minimale e artegestaltica. Esperienze che possonoessere avvicinate fra loro con glistrumenti della filologia, ma cheavevano di fondo intenzioni di poeticadiametralmente opposte. Il punto piùcomplesso sta nel mettere a fuoco ilsenso e la dimensione dello spazioall’interno della rappresentazione: lapittura di Ho Kan si risolvefrontalmente sul piano della tela, senzaricorrere alle tradizionali tecniche dirappresentazione spaziale, maciononostante la composizioni che sipresenta al fruitore, inquadrata comeuna visione a distanza, presentano unascansione fra sfondo e primo piano, sucui un accordo di segni fluttua conallusione a un movimento lento mavivo, quasi di memoria micro-cellulare.Gli strumenti non cambiano: piccolerighe sovrapposte a figure geometrichemistilinee e che talvolta si trasformano

in filamenti. A mutare, invece, è il modoin cui ciascun artista ha deciso dicombinarli e la “distanza” percettiva chesi pone fra lo spazio dell’oggetto e lospazio della fruizione. Sembra tuttaviache anche Vanni Scheiwiller, quandodedica a Ho Kan la piccola monografiaprima menzionata, avesse in mentequesta affinità fra artisti diversi, a cuiforse allude richiamando nel suo testo ipadri nobili dell’astrattismo a cui quegliartisti avevano fatto riferimento: «la suapittura è un tentativo, ancora in corsodi chiarificazione, di sintesi del pensieroorientale (soprattutto il “Tao”) e dellesue tradizioni estetiche coi mezzid’espressione dell’avanguardiaoccidentale: cubismo, surrealismo,astrattismo lirico fino a Mondrian,Malevich, agli americani come Rothko».In ogni caso, però, si trattava di pitturapura, fatta esclusivamente nei termini econ gli strumenti della pittura, «che cirende felici nel contemplarla, in perfettoequilibrio tra naturalismo e l’astrazione:tra la “religione del rifiuto-del-mondo”(astrattismo) e “la testimonianza di unsolido appetito” (naturalismo)». Perquesto era per lui possibile «accostarsialla pittura non intellettualmente, nonconcettualmente o astrattamente maconcretamente, coi piedi ben saldi perterra», e di conseguenza «il pennelloserve non a riprodurre o a imitare ma aestrarre le cose dal caos». [lpn]

HO KANa cura di Gabriella Brembati,testi di Stefano Soddu e Luca Pietro Nicoletti

MILANO, SCOGLIO DI QUARTO

26 settembre -20 ottobre 2017

36 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2017

C’ è un momento al principiodegli anni Cinquanta in cui ilnoto precetto leonardesco di

osservare le muffe sui muri e diriconoscervi la fisionomia di paesagginaturali tutti d’invenzione assume unaparticolare sfumatura di senso. Quellaraccomandazione, infatti, sembraparticolarmente adatta a leggere, oalmeno a capire alcune dinamicheoperative dell’Informale, in cui ilframmento, l’increspatura irregolare dellamateria, il graffio come lacerazione,assumono un forte valore espressivo cheproietta una visione del mondo tragicaed esistenziale. Una attenzione piùintensa verso l’informe, verso la materiascabra anche nelle sue espressioni piùumili e marginali, dunque, amplificaalcuni dati di sensibilità visiva congenialeai tempo, da cui scaturiscono ineditirisultati nel momento in cui entrano inrotta di collisione con un allargamentodelle conoscenze comuni e dellapercezione dell’infinitamente piccolo edello spazio cosmico.

Fra 1951 e 1952, superati iquarantacinque anni, il fabrianeseEdgardo Mannucci realizza Idea n. 1,energia e materia: una macchia dimateria lanciata in uno spazio disospensione, avvolto da un gomitolo difilo metallico come la scheggia di unpianeta in orbita circondato da uncaotico sistema satellitare di cui lascultura ha congelato le eccentrichetraiettorie. Si può discutere se vada lettacome visione dello spazio sideraleinsondato o come metafora di unadimensione atomica: in entrambi i casil’artista sta facendo i conti, al passo conuna generazione più giovane della sua,con al scoperta di universi ancora incerti

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ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano 37

(e minacciosi talvolta) da porsi alleorigini di un immaginario cosmico che,insieme a un precoce ripensamentodelle istanze futuriste, ha impregnatotutti gli anni Cinquanta nelle sue puntedi ricerca più avanzate. Il percorso diMannucci deve essere letto in questaprospettiva, come voce eccentrica diuna temperie più ampia, di cui hacosteggiato (e forse precorso) molteintuizioni, tenendosi tuttavia in unaposizione appartata e autoescludendosi(forse volontariamente) dal circuito deimovimenti che per molti artisti piùgiovani o anche della sua generazionecostituirono un significativo volano dinotorietà. Non è soltanto il rapportomolto stretto avuto con Alberto Burri, diuna decina di anni più giovane di lui, eche dalla sua lezione ha prelevato moltesoluzioni ancora da chiarire: Mannucciavrebbe potuto figurare a tutti gli effettinelle file dello Spazialismo, o forse inquelle del Movimento Nucleare, se il suopercorso biografico non si fosse mossosu un’altra geografia per tutta la vita. Losottolinea ancora una volta EnricoCrispolti, che con passione econvinzione ha difeso e sostenuto il suolavoro fin dalla fine degli anniCinquanta, scrivendone a compendio inoccasione della mostra della Diana ArtGallery di Palazzo Bracci Pagani a Fano(estate 2017), sostenuta con altrettantapassione e dedizione da Carlo Bruscia.Scrivendo de La lezione di autenticità,d’autoctonia di libertà, Crispolti in

questo testo del 2017 registra lasintonia, anche cronologica,dell’immaginario atomico di Mannuccicon quello dei “nucleari” e degli“spazialisti”, rilevando oltretutto unpossibile dialogo con le traiettorie diCrippa e i barocchi di maggior tensionecosmica di Fontana. «liberamente erede[…] della fiducia di proiezione cosmicadi un Prampolini».

Ciononostante, la ricerca diMannucci rimane esemplare per capirealcune dinamiche e alcuni processimentali della scultura di quel principiodegli anni Cinquanta e degli anni avenire, nel momento in cui unagenerazione di scultori cerca una viadella scultura alternativa alsentimentale effetto tattile dellascultura di figura che aveva avutofortuna fino a quel momento.Bisognava allontanare la mano dallamateria e interporvi uno strumento dilavoro, e soprattutto bisognavaannullare il segno del polpastrello cheaffonda nella materia e lascia una

traccia. Nel momento in cui vengonodunque meno i processi di plasticazione,ecco allora prendere piede l’idea di unascultura di “costruzione” fattaassemblando oggetti preesistenti efacendo della mano dello scultore ilregista di un processo di assemblaggio.È il momento di maggior fortuna dellascultura in metallo, che introduce comegrande protagonista della scultura ilfuoco e, soprattutto, il saldatore. Manella costellazione della scultura saldata,il discrimine fra le possibili vie di ricercasta principalmente nella qualità deglioggetti e delle materia in cui l’occhiodell’artista riconosce una qualitàestetica e la possibilità di far partire unnuovo discorso. Mannucci, in tal senso,riconosce la sua materia prima negliscarti di fusione, nelle forme irregolari,volendo di leonardesca memoria, diquelle scorie e nella possibilità diricavarne, come scrive sempre Crispolti,«spazi d’energia della materia». È lamateria scabra, increspata, colante eirregolare, che si è solidificata in unaforma (o meglio in una “non-forma”)del tutto casuale a offrire il punto dipartenza per la costruzione diun’immagine e una visionedell’infinitamente lontano odell’infinitamente piccolo. Diversamenteda molti della sua generazione, infatti,Mannucci non ricorre alla tipologia del“Totem”, né concede alla sua ricercaspazi per possibili eco di primitivismo(congeniali invece a uno “spazialista”come Crippa, o come certo Dova):saldati e ricomposti in nuoviassemblaggi, magari tenuti insieme afilo metallico che arricchisceulteriormente il “disegno” lineare dellascultura nello spazio -quando l’artista

LA MOSTRA/2MANUCCI SPAZIALEUna mostra a Fano

ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano 37

(e minacciosi talvolta) da porsi alleorigini di un immaginario cosmico che,insieme a un precoce ripensamentodelle istanze futuriste, ha impregnatotutti gli anni Cinquanta nelle sue puntedi ricerca più avanzate. Il percorso diMannucci deve essere letto in questaprospettiva, come voce eccentrica diuna temperie più ampia, di cui hacosteggiato (e forse precorso) molteintuizioni, tenendosi tuttavia in unaposizione appartata e autoescludendosi(forse volontariamente) dal circuito deimovimenti che per molti artisti piùgiovani o anche della sua generazionecostituirono un significativo volano dinotorietà. Non è soltanto il rapportomolto stretto avuto con Alberto Burri, diuna decina di anni più giovane di lui, eche dalla sua lezione ha prelevato moltesoluzioni ancora da chiarire: Mannucciavrebbe potuto figurare a tutti gli effettinelle file dello Spazialismo, o forse inquelle del Movimento Nucleare, se il suopercorso biografico non si fosse mossosu un’altra geografia per tutta la vita. Losottolinea ancora una volta EnricoCrispolti, che con passione econvinzione ha difeso e sostenuto il suolavoro fin dalla fine degli anniCinquanta, scrivendone a compendio inoccasione della mostra della Diana ArtGallery di Palazzo Bracci Pagani a Fano(estate 2017), sostenuta con altrettantapassione e dedizione da Carlo Bruscia.Scrivendo de La lezione di autenticità,d’autoctonia di libertà, Crispolti in

questo testo del 2017 registra lasintonia, anche cronologica,dell’immaginario atomico di Mannuccicon quello dei “nucleari” e degli“spazialisti”, rilevando oltretutto unpossibile dialogo con le traiettorie diCrippa e i barocchi di maggior tensionecosmica di Fontana. «liberamente erede[…] della fiducia di proiezione cosmicadi un Prampolini».

Ciononostante, la ricerca diMannucci rimane esemplare per capirealcune dinamiche e alcuni processimentali della scultura di quel principiodegli anni Cinquanta e degli anni avenire, nel momento in cui unagenerazione di scultori cerca una viadella scultura alternativa alsentimentale effetto tattile dellascultura di figura che aveva avutofortuna fino a quel momento.Bisognava allontanare la mano dallamateria e interporvi uno strumento dilavoro, e soprattutto bisognavaannullare il segno del polpastrello cheaffonda nella materia e lascia una

traccia. Nel momento in cui vengonodunque meno i processi di plasticazione,ecco allora prendere piede l’idea di unascultura di “costruzione” fattaassemblando oggetti preesistenti efacendo della mano dello scultore ilregista di un processo di assemblaggio.È il momento di maggior fortuna dellascultura in metallo, che introduce comegrande protagonista della scultura ilfuoco e, soprattutto, il saldatore. Manella costellazione della scultura saldata,il discrimine fra le possibili vie di ricercasta principalmente nella qualità deglioggetti e delle materia in cui l’occhiodell’artista riconosce una qualitàestetica e la possibilità di far partire unnuovo discorso. Mannucci, in tal senso,riconosce la sua materia prima negliscarti di fusione, nelle forme irregolari,volendo di leonardesca memoria, diquelle scorie e nella possibilità diricavarne, come scrive sempre Crispolti,«spazi d’energia della materia». È lamateria scabra, increspata, colante eirregolare, che si è solidificata in unaforma (o meglio in una “non-forma”)del tutto casuale a offrire il punto dipartenza per la costruzione diun’immagine e una visionedell’infinitamente lontano odell’infinitamente piccolo. Diversamenteda molti della sua generazione, infatti,Mannucci non ricorre alla tipologia del“Totem”, né concede alla sua ricercaspazi per possibili eco di primitivismo(congeniali invece a uno “spazialista”come Crippa, o come certo Dova):saldati e ricomposti in nuoviassemblaggi, magari tenuti insieme afilo metallico che arricchisceulteriormente il “disegno” lineare dellascultura nello spazio -quando l’artista

LA MOSTRA/2MANUCCI SPAZIALEUna mostra a Fano

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38 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2017

L a morte improvvisa e inaspettatadi Franco Russoli il 21 marzo1977, all’età di cinquantatre

anni, segna una brusca interruzionenella vita dei musei di Milano.Repentina, infatti, una battuta d’arrestoinveste l’ambizioso progetto a cui ildirettore della Pinacoteca di Breraaveva dedicato i suoi ultimi anni: quellodi una “grande Brera”, che nei decennisuccessivi diventerà uno slogan finoall’usura, e che per lui era invece larealizzazione di un’idea di museomoderno che non fosse soltanto luogodi esposizione ma uno spazio vivo evitale, capace di avere un ruolo nellasocietà del suo tempo. A questariflessione, proprio in quel periodo,Russoli stava dedicando un libroradunando gli articoli e gli interventiche a partire dal 1952 lo avevano vistoriflettere sulla vita e sui problemi delmuseo. Ne uscirà per Feltrinelli unvolumetto postumo, Il museo nellasocietà, curato da Vittorio Fagone, chea lungo è stato l’unica fonte perconoscere il pensiero dello studioso,formatosi a Pisa prima della guerra eche negli anni della ricostruzione(primo vero momento di ripensamentodei musei italiani dopo ibombardamenti) vede la propria verapalestra di formazione. Il volume curatoda Erica Bernardi (Franco Russoli, Senzautopia non si fa la realtà. Scritti sulmuseo (1952-1977), Milano, Skira,2017) e fortemente voluto da JamesBradburne, che quella Pinacoteca dirigedal 2015, ripropone, completamenterinnovato e ristrutturato, gli scritti diquel piccolo libro del 1981. Gli studicondotti da Erica Bernardi a partire dal2012, infatti, hanno portato a una

non ricorre al rilievo a parete e nonindulge nell’estetica della colatura (cheBurri agli esordi avrà ben presente)-sono strutture che si espandono nellospazio, rifiutando il concetto dipiedistallo e qualsiasi supporto: ilresiduo di fusione, come una macchia,diventa dunque un grumo di materia alcentro di un sistema di satelliti. Inquesti sempre Crispolti ribadisce lapresenza di un «imprintingantropologico tipicamente centro-italiano», lo stesso che riconoscerà conragione nei “sacchi” di Burri,sottolineando che in Mannucci siriconosce una autenticità di ricercaproprio perché essa si esprime in unaidentità esistenziale«antropologicamente partecipata»: lasuperficie irregolare, infatti, è come lacrosta di un duro pane contadini, e ilframmento recupera una sua identitànel fatto di essere come un oggetto discavo, come un frammento che siinceppa nel vomere dell’aratro delcontadino che, dissodando il terreno,rinviene qualcosa di sepolto e diremoto. Ma l’idea di “frammento” diMannucci si apre anche a un sensoulteriore: nella sua composizioneframmentaria, queste “macchie” dimateria non alludono al segno di unafrattura, di una ferita, ma sonometafora di una materia in espansione.Non sono il segno di una unità perduta,ma l’allusione a un magma inmovimento, come se quel motogravitazionale di cui si indica latraiettoria, e che può essere siaun’emanazione di un nucleo centralesia un segno di attrazione verso di esso,fosse il preludio a un’esplosione. Quellamateria che si va espandendo, a cui

EDGARDO MANNUCCI. LA MATERIA E IL FUOCO.

FANO, PALAZZO BRACCI PAGANI,DIANA ART GALLERY

5 agosto / 1 ottobre 2017

Mannucci ha ridato una forte vitalitàrisemantizzandola in modo daevidenziare le sue potenzialità di nucleopronto a deflagrare, risponde alla lucecon ombre brevi e corrugate,ricordando quella sensibilità disuperficie irrinunciabile nella scultura dimateria, e che nel giro di quindici annisarebbe stata messa fra parentesi daistanze di carattere progettuale edestetica minimale. Per Mannucci, alcontrario, la scultura aveva un cuoreprezioso, che l’artista evidenziachiaramente incastonando nelle suesculture delle luminose polle di vetro diMurano: un punto di luce prezioso,forse talvolta un po’ lezioso, cheevidenzia quel nucleo magmatico. Ilvetro, metaforicamente, diventa unaluce incandescente, inglobata e comeintrappolata nel bronzo con unprincipio non dissimile da quello cheavrebbe usato, alla fine degli anniCinquanta, un’artista “autre” comeClaire Falkenstein. Ma le radici diMannucci erano più fonde e venivanoda più lontano, e cadevano negli stessianni in cui Carlo Cardazzo ideava nellasua galleria di Milano una mostra sullabomba atomica riservata al suo gruppodi artisti spazialisti: era la scoperta diun mondo nuovo, il monito di unaminaccia incombente, ma anche, comericordavano i “barocchi” di LucioFontana, una ottimistica proiezionenello spazio. [lpn]

38 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2017

L a morte improvvisa e inaspettatadi Franco Russoli il 21 marzo1977, all’età di cinquantatre

anni, segna una brusca interruzionenella vita dei musei di Milano.Repentina, infatti, una battuta d’arrestoinveste l’ambizioso progetto a cui ildirettore della Pinacoteca di Breraaveva dedicato i suoi ultimi anni: quellodi una “grande Brera”, che nei decennisuccessivi diventerà uno slogan finoall’usura, e che per lui era invece larealizzazione di un’idea di museomoderno che non fosse soltanto luogodi esposizione ma uno spazio vivo evitale, capace di avere un ruolo nellasocietà del suo tempo. A questariflessione, proprio in quel periodo,Russoli stava dedicando un libroradunando gli articoli e gli interventiche a partire dal 1952 lo avevano vistoriflettere sulla vita e sui problemi delmuseo. Ne uscirà per Feltrinelli unvolumetto postumo, Il museo nellasocietà, curato da Vittorio Fagone, chea lungo è stato l’unica fonte perconoscere il pensiero dello studioso,formatosi a Pisa prima della guerra eche negli anni della ricostruzione(primo vero momento di ripensamentodei musei italiani dopo ibombardamenti) vede la propria verapalestra di formazione. Il volume curatoda Erica Bernardi (Franco Russoli, Senzautopia non si fa la realtà. Scritti sulmuseo (1952-1977), Milano, Skira,2017) e fortemente voluto da JamesBradburne, che quella Pinacoteca dirigedal 2015, ripropone, completamenterinnovato e ristrutturato, gli scritti diquel piccolo libro del 1981. Gli studicondotti da Erica Bernardi a partire dal2012, infatti, hanno portato a una

non ricorre al rilievo a parete e nonindulge nell’estetica della colatura (cheBurri agli esordi avrà ben presente)-sono strutture che si espandono nellospazio, rifiutando il concetto dipiedistallo e qualsiasi supporto: ilresiduo di fusione, come una macchia,diventa dunque un grumo di materia alcentro di un sistema di satelliti. Inquesti sempre Crispolti ribadisce lapresenza di un «imprintingantropologico tipicamente centro-italiano», lo stesso che riconoscerà conragione nei “sacchi” di Burri,sottolineando che in Mannucci siriconosce una autenticità di ricercaproprio perché essa si esprime in unaidentità esistenziale«antropologicamente partecipata»: lasuperficie irregolare, infatti, è come lacrosta di un duro pane contadini, e ilframmento recupera una sua identitànel fatto di essere come un oggetto discavo, come un frammento che siinceppa nel vomere dell’aratro delcontadino che, dissodando il terreno,rinviene qualcosa di sepolto e diremoto. Ma l’idea di “frammento” diMannucci si apre anche a un sensoulteriore: nella sua composizioneframmentaria, queste “macchie” dimateria non alludono al segno di unafrattura, di una ferita, ma sonometafora di una materia in espansione.Non sono il segno di una unità perduta,ma l’allusione a un magma inmovimento, come se quel motogravitazionale di cui si indica latraiettoria, e che può essere siaun’emanazione di un nucleo centralesia un segno di attrazione verso di esso,fosse il preludio a un’esplosione. Quellamateria che si va espandendo, a cui

EDGARDO MANNUCCI. LA MATERIA E IL FUOCO.

FANO, PALAZZO BRACCI PAGANI,DIANA ART GALLERY

5 agosto / 1 ottobre 2017

Mannucci ha ridato una forte vitalitàrisemantizzandola in modo daevidenziare le sue potenzialità di nucleopronto a deflagrare, risponde alla lucecon ombre brevi e corrugate,ricordando quella sensibilità disuperficie irrinunciabile nella scultura dimateria, e che nel giro di quindici annisarebbe stata messa fra parentesi daistanze di carattere progettuale edestetica minimale. Per Mannucci, alcontrario, la scultura aveva un cuoreprezioso, che l’artista evidenziachiaramente incastonando nelle suesculture delle luminose polle di vetro diMurano: un punto di luce prezioso,forse talvolta un po’ lezioso, cheevidenzia quel nucleo magmatico. Ilvetro, metaforicamente, diventa unaluce incandescente, inglobata e comeintrappolata nel bronzo con unprincipio non dissimile da quello cheavrebbe usato, alla fine degli anniCinquanta, un’artista “autre” comeClaire Falkenstein. Ma le radici diMannucci erano più fonde e venivanoda più lontano, e cadevano negli stessianni in cui Carlo Cardazzo ideava nellasua galleria di Milano una mostra sullabomba atomica riservata al suo gruppodi artisti spazialisti: era la scoperta diun mondo nuovo, il monito di unaminaccia incombente, ma anche, comericordavano i “barocchi” di LucioFontana, una ottimistica proiezionenello spazio. [lpn]

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Arcadia, né paesaggio per il diletto di“eruditi” ed “eremiti”, ma per «cittadiniattivi in una società e in un ambientequanto più possibile vivi e attuali, manostri, che diano un volto italiano aglielementi dell’esistenza moderna» (p.137)

Leggendo in fila questi testi siavverte un climax, un crescendo ditensione civile, passando da un ruolo diosservatore negli anni Cinquanta a unapresa di coscienza di una crisi culturaleall’inizio dei Sessanta, da cui nasceimmediatamente dopo uno slanciofattuale ad ampio raggio. La lottaintrapresa da Russoli intendevacontrastare le derive, scriveva nel 1963,«dell’annebbiamento e dello scadimentobestiale del nostro spirito» (p. 116)ragion per cui è tanto sbagliatodistruggere il patrimonio quantoconservarlo in modo arido, senza quellavitalità, di crociana memoria, capace ditener vive testimonianze che hannoqualcosa da dire al presente. «Questa»

rilettura del profilo di Russoli“museologo militante”, come recita ilsaggio introduttivo, e a ripristinarel’edizione di quei testi come l’autorestesso l’aveva pensata, secondo uncriterio di stretta successionecronologica che ne fa quasi un diario dimuseologia, e che consente di avvertirel’evoluzione non solo del pensiero diRussoli, ma anche delle forme in cui siè espresso. Ci si accorge infatti chetribuna principale di questa riflessioneè la stampa periodica a largadiffusione, mostrando una chiaraconsapevolezza dell’importanza diportare determinati temiapparentemente specialistici allaportata di una platea più ampia e nonfatta soltanto di addetti ai lavori: lastessa ragione che porterà Russoli aservirsi in più occasioni del mezzotelevisivo come strumento dicomunicazione, con la ferma coscienzache le opere d’arte e il museo che leospita non fossero appannaggioesclusivo degli storici dell’arte, bensì,come ebbe a scrivere commentando laconferenza generale ICOM di Ginevradel 1956, «centro diffusore di cultura edi educazione» ma anche «luogo digodimento spirituale». Il museo non èun luogo sacro, ma soprattutto èscuola e laboratorio, «focolaio dieducazione» ai problemi moderni (1972,p. 179). Russoli non ha elaborato unateoria della museologia, ma messo afuoco una serie di necessità, talvolta diurgenze, e di funzioni che il museo

dovrebbe svolgere, e ha usato il museostesso come campo di prova pratico adimostrazione della propria ideamuseologica. Pur con una copiosissimabibliografia che spazia dall’arte anticaalla critica militante, spesso oscillandofra lo storico e lo scrittore d’arte,Russoli è stato di quegli intellettualiche hanno elaborato una propria formadi critica “in atto” esprimendosi nonsoltanto nella scrittura, ma soprattuttoattraverso scelte espositive eprogettuali che nel suo campo hannoavuto appunto come cuore il museo. La“Grande Brera”, termine che comparequasi fortuitamente nella sua relazioneal Primo Convegno di studi sullamuseologia del 1974 (p. 199),significava proprio questo: un’«operaviva, stimolante» che ha bisogno dellapartecipazione del pubblico, a cui vatrasmesso il messaggio che quello nonè luogo di evasione ma di invito«all’impegno più profondo e coscientenei problemi della vita sociale» (p. 76).Nasce da qui, per esempio, la propostatrasversale di collezioni visitate con laguida di sociologi, psicologi, storici,economisti, in modo da togliere ilmuseo dall’appannaggio esclusivo deglispecialisti e mostrare anche punti divista diversi (ma competenti) suglioggetti. Tutto questo aveva dueconseguenze immediate. Da una parteimponeva di interrogarsi sul significatodella tutela in senso stretto, daintendersi non come atto diconservazione di un’impossibile

“Processo per il Museo”, sala della mostra

dedicata alla ricostruzione della collocazione

originaria degli affreschi di Bramante in casa

Panigarola

LIBRO D’ARTE/1I DRAGHI DI RUSSOLIScritti sul museo

ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano 39

Arcadia, né paesaggio per il diletto di“eruditi” ed “eremiti”, ma per «cittadiniattivi in una società e in un ambientequanto più possibile vivi e attuali, manostri, che diano un volto italiano aglielementi dell’esistenza moderna» (p.137)

Leggendo in fila questi testi siavverte un climax, un crescendo ditensione civile, passando da un ruolo diosservatore negli anni Cinquanta a unapresa di coscienza di una crisi culturaleall’inizio dei Sessanta, da cui nasceimmediatamente dopo uno slanciofattuale ad ampio raggio. La lottaintrapresa da Russoli intendevacontrastare le derive, scriveva nel 1963,«dell’annebbiamento e dello scadimentobestiale del nostro spirito» (p. 116)ragion per cui è tanto sbagliatodistruggere il patrimonio quantoconservarlo in modo arido, senza quellavitalità, di crociana memoria, capace ditener vive testimonianze che hannoqualcosa da dire al presente. «Questa»

rilettura del profilo di Russoli“museologo militante”, come recita ilsaggio introduttivo, e a ripristinarel’edizione di quei testi come l’autorestesso l’aveva pensata, secondo uncriterio di stretta successionecronologica che ne fa quasi un diario dimuseologia, e che consente di avvertirel’evoluzione non solo del pensiero diRussoli, ma anche delle forme in cui siè espresso. Ci si accorge infatti chetribuna principale di questa riflessioneè la stampa periodica a largadiffusione, mostrando una chiaraconsapevolezza dell’importanza diportare determinati temiapparentemente specialistici allaportata di una platea più ampia e nonfatta soltanto di addetti ai lavori: lastessa ragione che porterà Russoli aservirsi in più occasioni del mezzotelevisivo come strumento dicomunicazione, con la ferma coscienzache le opere d’arte e il museo che leospita non fossero appannaggioesclusivo degli storici dell’arte, bensì,come ebbe a scrivere commentando laconferenza generale ICOM di Ginevradel 1956, «centro diffusore di cultura edi educazione» ma anche «luogo digodimento spirituale». Il museo non èun luogo sacro, ma soprattutto èscuola e laboratorio, «focolaio dieducazione» ai problemi moderni (1972,p. 179). Russoli non ha elaborato unateoria della museologia, ma messo afuoco una serie di necessità, talvolta diurgenze, e di funzioni che il museo

dovrebbe svolgere, e ha usato il museostesso come campo di prova pratico adimostrazione della propria ideamuseologica. Pur con una copiosissimabibliografia che spazia dall’arte anticaalla critica militante, spesso oscillandofra lo storico e lo scrittore d’arte,Russoli è stato di quegli intellettualiche hanno elaborato una propria formadi critica “in atto” esprimendosi nonsoltanto nella scrittura, ma soprattuttoattraverso scelte espositive eprogettuali che nel suo campo hannoavuto appunto come cuore il museo. La“Grande Brera”, termine che comparequasi fortuitamente nella sua relazioneal Primo Convegno di studi sullamuseologia del 1974 (p. 199),significava proprio questo: un’«operaviva, stimolante» che ha bisogno dellapartecipazione del pubblico, a cui vatrasmesso il messaggio che quello nonè luogo di evasione ma di invito«all’impegno più profondo e coscientenei problemi della vita sociale» (p. 76).Nasce da qui, per esempio, la propostatrasversale di collezioni visitate con laguida di sociologi, psicologi, storici,economisti, in modo da togliere ilmuseo dall’appannaggio esclusivo deglispecialisti e mostrare anche punti divista diversi (ma competenti) suglioggetti. Tutto questo aveva dueconseguenze immediate. Da una parteimponeva di interrogarsi sul significatodella tutela in senso stretto, daintendersi non come atto diconservazione di un’impossibile

“Processo per il Museo”, sala della mostra

dedicata alla ricostruzione della collocazione

originaria degli affreschi di Bramante in casa

Panigarola

LIBRO D’ARTE/1I DRAGHI DI RUSSOLIScritti sul museo

ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano 39

Page 42: la Biblioteca di via Senato · 2019-02-02 · n. 10– ottobre 2017 laBiblioteca di via Senato mensile, anno ix Milano ISSN 2036-1394 BIBLIOFILIA I libri della Crusca e le loro vicende

scrive, «è la vera posizione retriva,ammuffita, stupidamente “museale”:ritenere che le testimonianze dellastoria e della vita di un paese sianooggetti avulsi dal ritmo e dal contestodella sua attività presente, e dalla suastruttura e configurazione naturale, eche basti, nel migliore dei casi,conservarli in naftalina, come curiositàdi civiltà scomparse, come vacuipretesti di retorica nazionalistica, comemotivi di miope sfruttamentoeconomico» (p. 135).

Agli esordi, il restauro del museoPoldi Pezzoli bombardato (1952), per ilquale scrive una guida per il visitatorestampata nel 1951, è una vera e propria

“palestra” formativa: l’oscillazione frarinnovamento e ripristino, frarestituzione “dov’era e com’era” di ciòche in quegli ambienti costituiva uninsostituibile documento di gusto e distile, ma conciliato con le esigenze diuna museologia moderna e di un piùrazionale ordinamento delle collezioniche desse conto anche delleacquisizioni successive, come laGondola di Francesco Guardi, rispettoagli acquisti di Gian Giacomo PoldiPezzoli. Era, come osserva Bernardi,l’«anno zero» della museologia, chenasceva dalle macerie della guerra arinnovamento della più anticamuseologia in concomitanza con la

restaurazione. Da qui cominciava unpercorso milanese di cui sarebbediventato in breve tempo un indiscussoprotagonista: da spettatore che salutala rinascita dei musei diventa il primoattore di questo rinnovamento;contestualmente, alla fitta serie diarticoli per la stampa periodica siaffiancano le relazioni ai convegniinternazionali (ICOM in testa) e leinterviste che relazionano passo passoai cronisti l’evoluzione della sua azionedi direttore fino all’atto più radicale:chiudere completamente la Pinacotecanel 1974 per ripensarla da cima afondo. È in quel momento, nell’ottica diun museo vivo, che Russoli pensa la

Da sinistra: Graham Sutherland (da Tintoretto), Il ritrovamento del corpo di san Marco, 1976, olio su compensato; Henty Moore (da Giovanni Bellini),

Pietà, 1975, tecnica mista, entrambi a Milano, Pinacoteca di Brera, Gabinetto dei disegni

40 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2017

scrive, «è la vera posizione retriva,ammuffita, stupidamente “museale”:ritenere che le testimonianze dellastoria e della vita di un paese sianooggetti avulsi dal ritmo e dal contestodella sua attività presente, e dalla suastruttura e configurazione naturale, eche basti, nel migliore dei casi,conservarli in naftalina, come curiositàdi civiltà scomparse, come vacuipretesti di retorica nazionalistica, comemotivi di miope sfruttamentoeconomico» (p. 135).

Agli esordi, il restauro del museoPoldi Pezzoli bombardato (1952), per ilquale scrive una guida per il visitatorestampata nel 1951, è una vera e propria

“palestra” formativa: l’oscillazione frarinnovamento e ripristino, frarestituzione “dov’era e com’era” di ciòche in quegli ambienti costituiva uninsostituibile documento di gusto e distile, ma conciliato con le esigenze diuna museologia moderna e di un piùrazionale ordinamento delle collezioniche desse conto anche delleacquisizioni successive, come laGondola di Francesco Guardi, rispettoagli acquisti di Gian Giacomo PoldiPezzoli. Era, come osserva Bernardi,l’«anno zero» della museologia, chenasceva dalle macerie della guerra arinnovamento della più anticamuseologia in concomitanza con la

restaurazione. Da qui cominciava unpercorso milanese di cui sarebbediventato in breve tempo un indiscussoprotagonista: da spettatore che salutala rinascita dei musei diventa il primoattore di questo rinnovamento;contestualmente, alla fitta serie diarticoli per la stampa periodica siaffiancano le relazioni ai convegniinternazionali (ICOM in testa) e leinterviste che relazionano passo passoai cronisti l’evoluzione della sua azionedi direttore fino all’atto più radicale:chiudere completamente la Pinacotecanel 1974 per ripensarla da cima afondo. È in quel momento, nell’ottica diun museo vivo, che Russoli pensa la

Da sinistra: Graham Sutherland (da Tintoretto), Il ritrovamento del corpo di san Marco, 1976, olio su compensato; Henty Moore (da Giovanni Bellini),

Pietà, 1975, tecnica mista, entrambi a Milano, Pinacoteca di Brera, Gabinetto dei disegni

40 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2017

Page 43: la Biblioteca di via Senato · 2019-02-02 · n. 10– ottobre 2017 laBiblioteca di via Senato mensile, anno ix Milano ISSN 2036-1394 BIBLIOFILIA I libri della Crusca e le loro vicende

ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano 41

famosa mostra Processo per il museo, dicui Erica Bernardi ricostruisce per laprima volta, documenti alla mano,passo dopo passo e stanza dopo stanza,l’itinerario e lo svolgimento. Una mostraproblematica e con molte anime, avviodi un progetto che Russoli non riesce aportare a termine, che vede uncoinvolgimento diretto degli artisticontemporanei, chiamati areinterpretare le opere del museo e ariflettere su quelle che più attirano laloro curiosità (Sutherland su Tintoretto,Manzù su Caravaggio, Guttuso suMantegna, Henry Moore sulle mani delCristo di Giovanni Bellini), ma anche laricostruzione filologica e ai limiti delconcettuale della sala degli Uominid’Arme di Bramante, fino alloscandaglio della misteriosa PalaSforzesca. Qui Russoli univa la suaanima di direttore di una pinacoteca diarte antica al desiderio di dare a Milanoquel museo di arte contemporanea chealla città ancora mancava. Ilcoinvolgimento di alcuni maestridell’arte contemporanea era proprio unprimo e inedito passo in questadirezione, al fine di dimostrare «come sipossa utilizzare il documento delpassato, renderlo di nuovo attuale,seguirne e farne evidenti i processiformativi» (p. 227). Cogliendone infatti irischi impliciti, in un’intervista di Jole deSanna, nel 1975, Russoli chiariva chequella doveva essere «unadimostrazione didattica, non una seriedi d’apres, anzi semplicemente unadimostrazione creativa, in ogni senso,che include quello didattico» (p. 227).Allo stesso tempo, però, egli avevachiara più di altri, come dice nellastessa intervista, la necessità di togliere

al museo d’arte contemporanea «lacaratterizzazione che ora ha, disanzionare il valore, in equivoco fraculturale e commerciale. Dovrebbeessere una sezione in cui si lavora. Lequalificazioni di tipo gerarchico lestabilisce la storia» (p. 222). «Non sono»,scriveva nel 1963, «la mostrastraordinaria, lo spettacolo colossale, ilgrattacielo, l’impianto tecnicoultramoderno, il capolavoro entratonelle raccolte d’arte, per sé soli, a faretessuto culturale; questi sono tuttielementi necessari, e fortementeeccitatori di interessi e curiosità, sonoshock dei quali è ricca la cronacamilanese degli ultimi anni. Ma la forzad’urto, la spinta iniziale data da taliavvenimenti, ben presto si scarica, sisperde, se non è utilizzata per darsostegno a una serie di minori e abituali

iniziative, a una continua e diramataattività informativa e formativa» (p. 110).

Russoli si rendeva conto,naturalmente, che il suo era unprogetto molto ambizioso, ai limitidell’utopia; ma sapeva anche, comedichiarava sempre nel convegno del1974, poche righe dopo aver per laprima volta parlato di una “grandeBrera”, che «senza utopia non si fa larealtà» (p. 199). Un’utopia, oltretutto,che si scontrava con i “draghi” delconsumismo, dell’abusivismo, e delprimo momento di grave attaccoall’integrità del patrimonio artistico,culturale e paesaggistico della nazione.Con toni cupi, sulle rivista “Pirelli” delgennaio 1966 ammoniva che sarebberorimasti in Italia «il clima, e il sole ailluminare il cemento e i cartellonipubblicitari» (p. 137). Contro questaavanzata inesorabile, oltretutto,l’amministrazione pubblica prevedevaun esiguo numero di funzionari, a cuiRussoli dedica un testo dal titolo quasiprofetico (In trecento contro i draghi), aelogio di quel «manipolo sparso dimissionari, di illusi, di resistenti all’orlodella resa, con qualche scettico, qualcherivoluzionario, molti uomini d’ordine emolti coriacei appassionati del proprioingrato lavoro. E, nonostante le infinitedifficoltà burocratiche e amministrativee la costante e potentissima opposizionedegli interessi privati, nonostante lapovertà e la incomprensione ediffidenza, questa pattuglietta ha fattoqualcosa di inverosimile in Italia, inquesti anni. […] Con sforzi personali,con invenzioni e procedimentiitalianamente improvvisati, con rabbiosae amorosa ostinazione nel tener fede alproprio impegno» (p. 140) [lpn].

Franco Russoli“Senza utopia non si fa la realtà. Scritti sul museo(1952-1977)”a cura di Erica BernardiMilano, Skira, 2017

ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano 41

famosa mostra Processo per il museo, dicui Erica Bernardi ricostruisce per laprima volta, documenti alla mano,passo dopo passo e stanza dopo stanza,l’itinerario e lo svolgimento. Una mostraproblematica e con molte anime, avviodi un progetto che Russoli non riesce aportare a termine, che vede uncoinvolgimento diretto degli artisticontemporanei, chiamati areinterpretare le opere del museo e ariflettere su quelle che più attirano laloro curiosità (Sutherland su Tintoretto,Manzù su Caravaggio, Guttuso suMantegna, Henry Moore sulle mani delCristo di Giovanni Bellini), ma anche laricostruzione filologica e ai limiti delconcettuale della sala degli Uominid’Arme di Bramante, fino alloscandaglio della misteriosa PalaSforzesca. Qui Russoli univa la suaanima di direttore di una pinacoteca diarte antica al desiderio di dare a Milanoquel museo di arte contemporanea chealla città ancora mancava. Ilcoinvolgimento di alcuni maestridell’arte contemporanea era proprio unprimo e inedito passo in questadirezione, al fine di dimostrare «come sipossa utilizzare il documento delpassato, renderlo di nuovo attuale,seguirne e farne evidenti i processiformativi» (p. 227). Cogliendone infatti irischi impliciti, in un’intervista di Jole deSanna, nel 1975, Russoli chiariva chequella doveva essere «unadimostrazione didattica, non una seriedi d’apres, anzi semplicemente unadimostrazione creativa, in ogni senso,che include quello didattico» (p. 227).Allo stesso tempo, però, egli avevachiara più di altri, come dice nellastessa intervista, la necessità di togliere

al museo d’arte contemporanea «lacaratterizzazione che ora ha, disanzionare il valore, in equivoco fraculturale e commerciale. Dovrebbeessere una sezione in cui si lavora. Lequalificazioni di tipo gerarchico lestabilisce la storia» (p. 222). «Non sono»,scriveva nel 1963, «la mostrastraordinaria, lo spettacolo colossale, ilgrattacielo, l’impianto tecnicoultramoderno, il capolavoro entratonelle raccolte d’arte, per sé soli, a faretessuto culturale; questi sono tuttielementi necessari, e fortementeeccitatori di interessi e curiosità, sonoshock dei quali è ricca la cronacamilanese degli ultimi anni. Ma la forzad’urto, la spinta iniziale data da taliavvenimenti, ben presto si scarica, sisperde, se non è utilizzata per darsostegno a una serie di minori e abituali

iniziative, a una continua e diramataattività informativa e formativa» (p. 110).

Russoli si rendeva conto,naturalmente, che il suo era unprogetto molto ambizioso, ai limitidell’utopia; ma sapeva anche, comedichiarava sempre nel convegno del1974, poche righe dopo aver per laprima volta parlato di una “grandeBrera”, che «senza utopia non si fa larealtà» (p. 199). Un’utopia, oltretutto,che si scontrava con i “draghi” delconsumismo, dell’abusivismo, e delprimo momento di grave attaccoall’integrità del patrimonio artistico,culturale e paesaggistico della nazione.Con toni cupi, sulle rivista “Pirelli” delgennaio 1966 ammoniva che sarebberorimasti in Italia «il clima, e il sole ailluminare il cemento e i cartellonipubblicitari» (p. 137). Contro questaavanzata inesorabile, oltretutto,l’amministrazione pubblica prevedevaun esiguo numero di funzionari, a cuiRussoli dedica un testo dal titolo quasiprofetico (In trecento contro i draghi), aiielogio di quel «manipolo sparso dimissionari, di illusi, di resistenti all’orlodella resa, con qualche scettico, qualcherivoluzionario, molti uomini d’ordine emolti coriacei appassionati del proprioingrato lavoro. E, nonostante le infinitedifficoltà burocratiche e amministrativee la costante e potentissima opposizionedegli interessi privati, nonostante lapovertà e la incomprensione ediffidenza, questa pattuglietta ha fattoqualcosa di inverosimile in Italia, inquesti anni. […] Con sforzi personali,con invenzioni e procedimentiitalianamente improvvisati, con rabbiosae amorosa ostinazione nel tener fede alproprio impegno» (p. 140) [lpn].

Franco Russoli“Senza utopia non si fala realtà. Scritti sul museo(1952-1977)”a cura di Erica BernardiMilano, Skira, 2017

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C esare Brandi (1906-1988) fustorico dell’arte antica,critico d’arte moderna,

teorico del restauro e di estetica,professore ordinario di Storiadell’Arte, direttore di riviste (Le Arti eL’Immagine). Ma anche poetamancato, quando dopo averpubblicato il terzo libro di poesie nel1942 decide di abbandonare questosogno parallelo per dedicarsi animae corpo alla cura ed alla tutela delpatrimonio artistico italiano (nel1941 fondò l’Istituto Italiano diRestauro che diresse fino al 1960) edalla storia dell’arte.

In un carteggio magistralmenteragionato da Vittorio Brandi Rubiu eMarilena Pasquale si ricostruiscononon solo relazioni e rapporti diBrandi con il mondo della culturaitaliana tra 1930 e 1981, ma partedella nostra stessa storia, grazie ainumerosi incarichi pubblici chericoprì, a cominciare dal suo lavoropresso il Ministero dell’EducazioneNazionale durante gli anni delFascismo, come testimoniato dalloscambio di lettere dell’epoca conl’amico e collega Giulio Carlo Argan.

Brandi fu un uomo di grandecultura, in grado di spaziare da studisull’arte del Trecento riminese e delQuattrocento senese (lui originario diSiena) fino a monografie e scritticritici su Burri, Leoncillo, Manzù o

Morandi, di cui fu grandeammiratore fin dal 1938, purammettendo nel 1942 che «perscrivere d’arte contemporaneaoccorre, a me almeno, unariflessione ancora più lunga che perl’arte antica ».

Non si contano le lettere

LIBRO D’ARTE/2LETTERE DI CESARE BRANDIUn carteggio autobiograficodi marco tonelli

42 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2017

C esare Brandi (1906-1988) fustorico dell’arte antica,critico d’arte moderna,

teorico del restauro e di estetica,professore ordinario di Storiadell’Arte, direttore di riviste (Le Arti eL’Immagine). Ma anche poetamancato, quando dopo averpubblicato il terzo libro di poesie nel1942 decide di abbandonare questosogno parallelo per dedicarsi animae corpo alla cura ed alla tutela delpatrimonio artistico italiano (nel1941 fondò l’Istituto Italiano diRestauro che diresse fino al 1960) edalla storia dell’arte.

In un carteggio magistralmenteragionato da Vittorio Brandi Rubiu eMarilena Pasquale si ricostruiscononon solo relazioni e rapporti diBrandi con il mondo della culturaitaliana tra 1930 e 1981, ma partedella nostra stessa storia, grazie ainumerosi incarichi pubblici chericoprì, a cominciare dal suo lavoropresso il Ministero dell’EducazioneNazionale durante gli anni delFascismo, come testimoniato dalloscambio di lettere dell’epoca conl’amico e collega Giulio Carlo Argan.

Brandi fu un uomo di grandecultura, in grado di spaziare da studisull’arte del Trecento riminese e delQuattrocento senese (lui originario diSiena) fino a monografie e scritticritici su Burri, Leoncillo, Manzù o

Morandi, di cui fu grandeammiratore fin dal 1938, purammettendo nel 1942 che «perscrivere d’arte contemporaneaoccorre, a me almeno, unariflessione ancora più lunga che perl’arte antica ».

Non si contano le lettere

LIBRO D’ARTE/2LETTERE DI CESARE BRANDIUn carteggio autobiograficodi marco tonelli

42 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2017

Page 45: la Biblioteca di via Senato · 2019-02-02 · n. 10– ottobre 2017 laBiblioteca di via Senato mensile, anno ix Milano ISSN 2036-1394 BIBLIOFILIA I libri della Crusca e le loro vicende

scambiate col pittore bolognese, perun’immagine da riprodurre in unlibro, per un quadro da inviare a unamostra o per uno scambio diopinioni in merito al testo che stavascrivendo sulla sua opera.

Senza contare quelle, di altissimogradiente letterario e poetico, con ilpittore Toti Scialoja (lui stessoscrittore e poeta), col quale condivisela passione per l’isola di Procida e lefrequentazioni di quelli che a partiredagli anni Sessanta rappresentaronola neoavanguardia italiana, tra cuiPino Pascali («amico valido eimpetuoso») e Mimmo Rotella(«buffo tipo che fringuella cantifonetici assai curiosi»), come ebbemodo di scrivere in alcune lettere nel1966.

Brandi umanissimo, nel suocarteggio si confessa senzasopprimere una naturale ecolloquiale dote letteraria.

A Giuseppe Raimondi, scrittore egiornalista, col quale tenne unassiduo epistolario, scriverà nel1936: «In quanto a me, caro amico,faccio dei versi: ciò che potrebbeessere sintomo più che di feracità didisperazione»; a Mario Tobino,psichiatra e scrittore, confiderà nel1942 che i critici italiani credono chela poesia «sia tutta esauritanell’arrampicarsi sugli specchi che faMontale»; al musicologo LuigiMagnani descriverà nel 1950 la

morte di una cara zia ragionandosulla «fine della famiglia come diun’entità affettiva in cui le persone,oltre che per loro stesse, valgono nelloro insieme».

Dagli scambi più professionalicon il suo editore Enrico Vallecchi(che pubblicò, tra i tanti, il primo deinumerosi libri di viaggio), conRoberto Longhi (col quale ebbe deidissapori, apostrofandolo in unalettera del 1948 «quel farabutto», mariconoscendo nel 1970, nelnecrologio per lui composto, diessere in qualche modo «un figliosuo»), con Renato Guttuso (del qualenel 1968 lodava la conoscenza diFoucault: «sei l’unico fra gli artisti,che conservi ancora queste curiosità,questi slanci verso il nuovo»),traspare il dietro le quinte di uno deifondatori del concetto di patrimonioculturale, che seppe dispiegare ancheattraverso la divulgazione televisiva.

Le numerose lettere inviate aVittorio Rubiu, oggi custode dellasua memoria (si conobbero nel1950), da Istanbul, Ankara,Gerusalemme, El Cairo, Damasco,Beirut, dove è richiesto perconsultazioni sul restauro dimonumenti antichi, sono prezioseoccasioni per trasfigurare queiluoghi in paesaggi dell’anima, comequando l’11 aprile 1954 scriverà aRubiu da Atene: «oggi l’Acropoli, alsole che tramontava, aveva il colorecaldo e la lindura estrema di questopaese arido… colore e trasparenzache sono come un pensiero netto,una illuminazione interna. Non sisente nulla; ma ci si senteterribilmente se stessi».

Cesare Brandi. “Credi al miopessimo e tenerissimocarattere. Lettere 1930-1981”a cura di Vittorio Rubiu e Marilena PasqualiVerona, Castelvecchi, 2017

Nella pagina accanto, dall’alto: Brandi nella

sua villa di Vignano negli anni Settanta; Brandi

nel 1938. Qui accanto: Brandi alla fine anni

Trenta. Foto courtesy Archivio Brandi Rubiu

ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano 43

scambiate col pittore bolognese, perun’immagine da riprodurre in unlibro, per un quadro da inviare a unamostra o per uno scambio diopinioni in merito al testo che stavascrivendo sulla sua opera.

Senza contare quelle, di altissimogradiente letterario e poetico, con ilpittore Toti Scialoja (lui stessoscrittore e poeta), col quale condivisela passione per l’isola di Procida e lefrequentazioni di quelli che a partiredagli anni Sessanta rappresentaronola neoavanguardia italiana, tra cuiPino Pascali («amico valido eimpetuoso») e Mimmo Rotella(«buffo tipo che fringuella cantifonetici assai curiosi»), come ebbemodo di scrivere in alcune lettere nel1966.

Brandi umanissimo, nel suocarteggio si confessa senzasopprimere una naturale ecolloquiale dote letteraria.

A Giuseppe Raimondi, scrittore egiornalista, col quale tenne unassiduo epistolario, scriverà nel1936: «In quanto a me, caro amico,faccio dei versi: ciò che potrebbeessere sintomo più che di feracità didisperazione»; a Mario Tobino,psichiatra e scrittore, confiderà nel1942 che i critici italiani credono chela poesia «sia tutta esauritanell’arrampicarsi sugli specchi che faMontale»; al musicologo LuigiMagnani descriverà nel 1950 la

morte di una cara zia ragionandosulla «fine della famiglia come diun’entità affettiva in cui le persone,oltre che per loro stesse, valgono nelloro insieme».

Dagli scambi più professionalicon il suo editore Enrico Vallecchi(che pubblicò, tra i tanti, il primo deinumerosi libri di viaggio), conRoberto Longhi (col quale ebbe deidissapori, apostrofandolo in unalettera del 1948 «quel farabutto», mariconoscendo nel 1970, nelnecrologio per lui composto, diessere in qualche modo «un figliosuo»), con Renato Guttuso (del qualenel 1968 lodava la conoscenza diFoucault: «sei l’unico fra gli artisti,che conservi ancora queste curiosità,questi slanci verso il nuovo»),traspare il dietro le quinte di uno deifondatori del concetto di patrimonioculturale, che seppe dispiegare ancheattraverso la divulgazione televisiva.

Le numerose lettere inviate aVittorio Rubiu, oggi custode dellasua memoria (si conobbero nel1950), da Istanbul, Ankara,Gerusalemme, El Cairo, Damasco,Beirut, dove è richiesto perconsultazioni sul restauro dimonumenti antichi, sono prezioseoccasioni per trasfigurare queiluoghi in paesaggi dell’anima, comequando l’11 aprile 1954 scriverà aRubiu da Atene: «oggi l’Acropoli, alsole che tramontava, aveva il colorecaldo e la lindura estrema di questopaese arido… colore e trasparenzache sono come un pensiero netto,una illuminazione interna. Non sisente nulla; ma ci si senteterribilmente se stessi».

Cesare Brandi. “Credi al miopessimo e tenerissimocarattere. Lettere 1930-1981”a cura di Vittorio Rubiue Marilena PasqualiVerona, Castelvecchi, 2017

Nella pagina accanto, dall’alto: Brandi nella

sua villa di Vignano negli anni Settanta; Brandi

nel 1938. Qui accanto: Brandi alla fine anni

Trenta. Foto courtesy Archivio Brandi Rubiu

ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano 43

Page 46: la Biblioteca di via Senato · 2019-02-02 · n. 10– ottobre 2017 laBiblioteca di via Senato mensile, anno ix Milano ISSN 2036-1394 BIBLIOFILIA I libri della Crusca e le loro vicende

apre davanti alla cattedrale di SanPantaleone. Si tratta del centronevralgico della vita della piccolacomunità cilentana che ogni anno,aspettando l’uscita della processionedalla chiesa, non celebra soltanto lafesta patronale, ma anche il suo sensodi appartenenza e la riscoperta delleproprie radici. La fontana ha un invasodi circa 20 mq, del tutto sproporzionatorispetto alle dimensioni ridotte dellapiazza in cui si inserisce (150-200 mqca.) e toglie quindi alla facciata dellasettecentesca cattedrale la sua naturalefunzione di fulcro architettonicodell’area, innestandosi come un corpoestraneo in un contesto già fragile esvalorizzato. La struttura in cemento siaddossa alle case preesistenti ed è stataricoperta di marmi e piastrelle in

ceramica azzurra di Vietri, creando unviolento contrasto materico ecromatico. Sono state inoltre installatenuove luci per l’illuminazione dellacattedrale che hanno forato l’anticobasolato del sagrato. Infine è statorifatto il resto della pavimentazione,nonostante quella precedente nonrisalisse a molti anni fa, e in alcunezone l’interruzione tra i due tessutilapidei è stata lasciata a vista.

Questa dequalificazionerappresenta soltanto la puntadell’iceberg di un processo di vera epropria distruzione del centro storicoavviatosi negli anni ’60, con l’erezionelungo il corso principale di palazzoni disette-otto piani che hanno sfregiato ilsuo profilo urbanistico. Sono fenomeniche hanno interessato tutta l’area delCilento e del Vallo di Diano, entrati afar parte del patrimonio UNESCO nel1998.

La fontana monumentale, calata suuno dei pochi angoli del centro storicovallese scampati allo scempio edilizio diquesti decenni, è il segnale che questastagione non si è ancora conclusa.Eppure i finanziamenti ottenuti dalComune per la riqualificazionesarebbero potuti essere ben altrimenti

di silvia de luca

LA DENUNCIAUNA FONTANA ‘SCENOGRAFICA’La dequalificazione di un centro storico

Nel 2014 l’amministrazionecomunale di Vallo della Lucania,località del Cilento in provincia

di Salerno, ha intrapreso un piano dilavori di riqualificazione del centrostorico del paese. Questi interventihanno già comportato il rifacimentodella pavimentazione della piazzaVittorio Emanuele II, che a causa di unerrore di calcolo ha affossato le colonneottocentesche degli scenografici portici,e l’installazione di Leud, monumentalestatua in marmo di Carrara opera diRabarama, collocata di fronte allaparrocchia di Santa Maria delle Grazie,totalmente sconnessa dal contestourbanistico in cui è stata calata.

Nel giugno 2016 le operazioni sonoriprese con la messa in opera di unagrandiosa fontana nella piazzetta che si

44 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2017

apre davanti alla cattedrale di SanPantaleone. Si tratta del centronevralgico della vita della piccolacomunità cilentana che ogni anno,aspettando l’uscita della processionedalla chiesa, non celebra soltanto lafesta patronale, ma anche il suo sensodi appartenenza e la riscoperta delleproprie radici. La fontana ha un invasodi circa 20 mq, del tutto sproporzionatorispetto alle dimensioni ridotte dellapiazza in cui si inserisce (150-200 mqca.) e toglie quindi alla facciata dellasettecentesca cattedrale la sua naturalefunzione di fulcro architettonicodell’area, innestandosi come un corpoestraneo in un contesto già fragile esvalorizzato. La struttura in cemento siaddossa alle case preesistenti ed è stataricoperta di marmi e piastrelle in

ceramica azzurra di Vietri, creando unviolento contrasto materico ecromatico. Sono state inoltre installatenuove luci per l’illuminazione dellacattedrale che hanno forato l’anticobasolato del sagrato. Infine è statorifatto il resto della pavimentazione,nonostante quella precedente nonrisalisse a molti anni fa, e in alcunezone l’interruzione tra i due tessutilapidei è stata lasciata a vista.

Questa dequalificazionerappresenta soltanto la puntadell’iceberg di un processo di vera epropria distruzione del centro storicoavviatosi negli anni ’60, con l’erezionelungo il corso principale di palazzoni disette-otto piani che hanno sfregiato ilsuo profilo urbanistico. Sono fenomeniche hanno interessato tutta l’area delCilento e del Vallo di Diano, entrati afar parte del patrimonio UNESCO nel1998.

La fontana monumentale, calata suuno dei pochi angoli del centro storicovallese scampati allo scempio edilizio diquesti decenni, è il segnale che questastagione non si è ancora conclusa.Eppure i finanziamenti ottenuti dalComune per la riqualificazionesarebbero potuti essere ben altrimenti

di silvia de luca

LA DENUNCIAUNA FONTANA ‘SCENOGRAFICA’La dequalificazione di un centro storico

Nel 2014 l’amministrazionecomunale di Vallo della Lucania,località del Cilento in provincia

di Salerno, ha intrapreso un piano dilavori di riqualificazione del centrostorico del paese. Questi interventihanno già comportato il rifacimentodella pavimentazione della piazzaVittorio Emanuele II, che a causa di unerrore di calcolo ha affossato le colonneottocentesche degli scenografici portici,e l’installazione di Leud, monumentaleddstatua in marmo di Carrara opera diRabarama, collocata di fronte allaparrocchia di Santa Maria delle Grazie,totalmente sconnessa dal contestourbanistico in cui è stata calata.

Nel giugno 2016 le operazioni sonoriprese con la messa in opera di unagrandiosa fontana nella piazzetta che si

44 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2017

Page 47: la Biblioteca di via Senato · 2019-02-02 · n. 10– ottobre 2017 laBiblioteca di via Senato mensile, anno ix Milano ISSN 2036-1394 BIBLIOFILIA I libri della Crusca e le loro vicende

Q uando l’eccellenza letterariasi unisce alla passioneeditoriale, nascono dei

piccoli gioielli. Il raro miracolo èultimamente avvenuto con La collinadei sogni, capolavoro della letteraturaanglosassone che porta la firma diArtur Machen. È la prima uscita dellanuova collana de “il Palindromo”, casaeditrice palermitana che ha affidato aGiuseppe Aguanno il compito diimpilare sopra “I tre sedili deserti” -questo l’originale titolo della collana -i migliori testi ingiustamentedimenticati della letteraturafantastica. Ripubblicato a trent’annidalla prima edizione italiana (1988,Reverdito), impreziosito daun’introduzione inedita dello stessoMachen, dalla brillante prefazione di

Gianfranco de Turris e dalle riccheappendici - interpretative, biografichee bibliografiche - del traduttoreClaudio De Nardi, il volume non puòche soddisfare i bibliofili più esigenti.Tanto più che a impreziosirnel’estetica vi è una pregevoleillustrazione, dai toni magmatici ealchemici, di Simone Geraci. Mal’alchemico solve et coagula nonriguarda certo la sola copertina.L’intero romanzo, questo «RobinsonCrusoe dell’anima», come lo definì lostesso Machen, è infatti un viaggiointeriore «sull’orlo di estatici abissi».Quegli strapiombi vertiginosi e inferiche nelle più disparate tradizioni

RIFLESSIONI E INTERPRETAZIONI“LA COLLINA DEI SOGNI” La letteratura come viaggio iniziaticodi luca siniscalco

Sopra: Claude Gillot (1673-1722), Il sabba

impiegati con la messa in sicurezzadelle case, gli incentivi ai privati pereliminare le superfetazioni piùimpattanti, la promozione di attività einiziative che ripopolino l’interoquartiere e lo rendano vivibile.

A peggiorare le cose interviene ilsilenzio assordante rispetto a questavicenda dell’Ente Parco Nazionale edella Soprintendenza per i BeniArchitettonici e Paesaggistici per leProvince di Salerno e Avellino.Nell’autorizzazione paesaggisticarilasciata da quest’ultima nel 2014 inmerito al progetto complessivo diriqualificazione, l’organo del ministeroscriveva che la realizzazione dellafontana scenografica avrebbe dovutoessere appositamente concordata. Icittadini, che nel frattempo hannoistituito il comitato “DivinaProporzione”, hanno chiestoufficialmente di prendere visione delnulla osta della Soprintendenza perl’inizio dei lavori della fontana, cosìcome hanno fatto richiesta diconoscere l’esito della valutazionedell’addetto tecnico della stessaSoprintendenza, che ha compiuto unsopralluogo il 13 luglio scorso.

Mentre prosegue la raccolta firmelanciata dal comitato perl’abbattimento della fontana, èassolutamente necessario che laSoprintendenza fornisca una rispostaunivoca e motivata rispetto a quelloche sta succedendo a Vallo e che vengaspiegato - ai cilentani e non solo a loro- come mai sia stato approvato unprogetto così palesemente impattantee offensivo nei confronti della memoriastorica di cui la piazzetta SanPantaleone era fedele custode.

ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano 45

Q uando l’eccellenza letterariasi unisce alla passioneeditoriale, nascono dei

piccoli gioielli. Il raro miracolo èultimamente avvenuto con La collinadei sogni, capolavoro della letteraturaiianglosassone che porta la firma diArtur Machen. È la prima uscita dellanuova collana de “il Palindromo”, casaeditrice palermitana che ha affidato aGiuseppe Aguanno il compito diimpilare sopra “I tre sedili deserti” -questo l’originale titolo della collana -i migliori testi ingiustamentedimenticati della letteraturafantastica. Ripubblicato a trent’annidalla prima edizione italiana (1988,Reverdito), impreziosito daun’introduzione inedita dello stessoMachen, dalla brillante prefazione di

Gianfranco de Turris e dalle riccheappendici - interpretative, biografichee bibliografiche - del traduttoreClaudio De Nardi, il volume non puòche soddisfare i bibliofili più esigenti.Tanto più che a impreziosirnel’estetica vi è una pregevoleillustrazione, dai toni magmatici ealchemici, di Simone Geraci. Mal’alchemico solve et coagula nonriguarda certo la sola copertina.L’intero romanzo, questo «RobinsonCrusoe dell’anima», come lo definì lostesso Machen, è infatti un viaggiointeriore «sull’orlo di estatici abissi».Quegli strapiombi vertiginosi e inferiche nelle più disparate tradizioni

RIFLESSIONI E INTERPRETAZIONI“LA COLLINA DEI SOGNI”La letteratura come viaggio iniziaticodi luca siniscalco

Sopra: Claude Gillot (1673-1722), Il sabba

impiegati con la messa in sicurezzadelle case, gli incentivi ai privati pereliminare le superfetazioni piùimpattanti, la promozione di attività einiziative che ripopolino l’interoquartiere e lo rendano vivibile.

A peggiorare le cose interviene ilsilenzio assordante rispetto a questavicenda dell’Ente Parco Nazionale edella Soprintendenza per i BeniArchitettonici e Paesaggistici per leProvince di Salerno e Avellino.Nell’autorizzazione paesaggisticarilasciata da quest’ultima nel 2014 inmerito al progetto complessivo diriqualificazione, l’organo del ministeroscriveva che la realizzazione dellafontana scenografica avrebbe dovutoessere appositamente concordata. Icittadini, che nel frattempo hannoistituito il comitato “DivinaProporzione”, hanno chiestoufficialmente di prendere visione delnulla osta della Soprintendenza perl’inizio dei lavori della fontana, cosìcome hanno fatto richiesta diconoscere l’esito della valutazionedell’addetto tecnico della stessaSoprintendenza, che ha compiuto unsopralluogo il 13 luglio scorso.

Mentre prosegue la raccolta firmelanciata dal comitato perl’abbattimento della fontana, èassolutamente necessario che laSoprintendenza fornisca una rispostaunivoca e motivata rispetto a quelloche sta succedendo a Vallo e che vengaspiegato - ai cilentani e non solo a loro- come mai sia stato approvato unprogetto così palesemente impattantee offensivo nei confronti della memoriastorica di cui la piazzetta SanPantaleone era fedele custode.

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spirituali possono condurre l’iniziato,in seguito al superamento delle proverituali e al mutamento del propriostato, alle vette della realizzazionespirituale. Il sentiero è però irto dirischi, perché quanto trascende ilnostro mondo quotidiano non sempreha natura positiva. Per farsi caricodello svelamento dell’Ineffabile che sicela dietro le forme del visibilebisogna essere spiritualmentepreparati. Lo insegnano i granditradizionalisti del Novecento: Guénoned Evola in primis. Lo insegna, con glievocativi strumenti della letteraturafantastica, Arthur Machen.

In questa prospettiva esoterica sipuò leggere l’intera vicenda di Lucian,il protagonista de La collina dei sogni,romanzo decadente che narra delle

oscurità del dominio infero ma - nonlo si trascuri - anche del mondodesertico della modernità nichilistaprofetizzato da Nietzsche. Lucian,infatti, si perde nella nebbia dellamagia, dei Sabba e delle visionioscure, ma nel contempo annulla lapropria personalità nella solitudine diuna Londra inumana. La violenza dellametropoli e della sua alienazione èevidente nelle parole programmatichedi Machen: «Sarebbe stata unasolitudine dello spirito, poichél’oceano che lo circondava,estraniandolo dai propri simili,corrispondeva a un vuoto spirituale».

Ma La collina dei sogni è pure unmanifesto di poetica. Di una poeticaantirealista. È, infatti, un fulgidoexemplum di quella letteraturafantastica di cui, stando a Borges,tutte le filosofie e teologie altro nonsono che ramificazioni.

La letteratura, ci ricorda infattiMachen, «è l’arte di descriverel’indescrivibile; l’arte di rivelaresimboli che alludono a ineffabilimisteri di là da essi; ‘l’arte del velo’,che rivela quanto nasconde». Comeaffermava Mircea Eliade: nellanarrativa moderna riaffiora il corpusmitico occidentale che il nostro«regno della quantità» ha tentatoinvano di cancellare.

Tornare a leggere i geroglifici incui corpo e spirito esprimonoritmicamente la propria essenza.Questo, senza dubbio, il nostosdecisivo cui l’anima occidentale deveapprodare.

Arthur Machen, “La collina dei sogni”, traduzione diClaudio De Nardi, prefazione di Gianfranco de Turris, il Palindromo, Palermo, 2017,pp. 288, 18 euro

A sinistra: Arthur Machen (1863-1947)

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spirituali possono condurre l’iniziato,in seguito al superamento delle proverituali e al mutamento del propriostato, alle vette della realizzazionespirituale. Il sentiero è però irto dirischi, perché quanto trascende ilnostro mondo quotidiano non sempreha natura positiva. Per farsi caricodello svelamento dell’Ineffabile che sicela dietro le forme del visibilebisogna essere spiritualmentepreparati. Lo insegnano i granditradizionalisti del Novecento: Guénoned Evola in primis. Lo insegna, con glievocativi strumenti della letteraturafantastica, Arthur Machen.

In questa prospettiva esoterica sipuò leggere l’intera vicenda di Lucian,il protagonista de La collina dei sogni,iiromanzo decadente che narra delle

oscurità del dominio infero ma - nonlo si trascuri - anche del mondodesertico della modernità nichilistaprofetizzato da Nietzsche. Lucian,infatti, si perde nella nebbia dellamagia, dei Sabba e delle visionioscure, ma nel contempo annulla lapropria personalità nella solitudine diuna Londra inumana. La violenza dellametropoli e della sua alienazione èevidente nelle parole programmatichedi Machen: «Sarebbe stata unasolitudine dello spirito, poichél’oceano che lo circondava,estraniandolo dai propri simili,corrispondeva a un vuoto spirituale».

Ma La collina dei sogni è pure unmanifesto di poetica. Di una poeticaantirealista. È, infatti, un fulgidoexemplum di quella letteraturafantastica di cui, stando a Borges,tutte le filosofie e teologie altro nonsono che ramificazioni.

La letteratura, ci ricorda infattiMachen, «è l’arte di descriverel’indescrivibile; l’arte di rivelaresimboli che alludono a ineffabilimisteri di là da essi; ‘l’arte del velo’,che rivela quanto nasconde». Comeaffermava Mircea Eliade: nellanarrativa moderna riaffiora il corpusmitico occidentale che il nostro«regno della quantità» ha tentatoinvano di cancellare.

Tornare a leggere i geroglifici incui corpo e spirito esprimonoritmicamente la propria essenza.Questo, senza dubbio, il nostosdecisivo cui l’anima occidentale deveapprodare.

Arthur Machen, “La collinadei sogni”, traduzione diClaudio De Nardi, prefazionedi Gianfranco de Turris,il Palindromo, Palermo, 2017,pp. 288, 18 euro

A sinistra: Arthur Machen (1863-1947)

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ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano 47

Nel recente catalogo 3/2017dello Studio BibliograficoBruno Pucci di Napoli

(ubicato nella sede di via FerdinandoRusso 31 a Posillipo;[email protected]) sonoinnanzitutto attratto dall’appendice di15 libri - come recita il frontespizio -«da regalare e… regalarsi». Vi scovo, inrigido ordine alfabetico, l’edizioneoriginale In Roma nella Stamperiadella Rev. Camera Apostolica, 1791 delCompendio della vita, e delle gesta diGiuseppe Balsamo denominato il conteCagliostro che si è estratto dalprocesso contro di lui formato in Romal’anno 1790, opera scritta da GiovanniBarberi, Inquisitore generale, sullabase della documentazioneprocessuale del S. Uffizio (n° 285).L’opera, in conseguenza della rilevanzadel processato, il sedicentetaumaturgo alchimista e avventurieropalermitano Giuseppe Balsamo (1743-1795), e delle ben note vicende che loavevano visto coinvolto, ebbe notevolerisonanza, tanto da sollecitare nuoveristampe ed esigere anche unaversione in francese: Vie de JosephBalsamo, connu sous le nom de comteCagliostro, extraite de la procédureinstruite contre lui à Rome, en 1790,traduite d’aprés l’original italien,imprimé à la Chambre Apostolique;enrichie de notes curieuses, et ornée deson portrait, A Paris, chez Onfroy,

Julian Assange e WikiLeakssettecenteschi. Nelle bibliotecheitaliane risulta un solo esemplarepresso la Bertoliana di Vicenza. Ilsecondo titolo dello stesso scaffale èla prima edizione italiana datata 1779(uscita col falso luogo di stampa diBerlino invece di Firenze), in unesemplare intonso ancora in barbe,dell’Elogio del signor di Voltaire scrittoda Charles Palissot de Montenoy(1730-1814) nella traduzionedell’avventuriero e massone italianoFrancesco Zacchiroli († 1826). Nerisultano meno di una decina di copiein biblioteche italiane.

L’ultimo volume col quale sichiude l’appendice è un tripudioscenografico, nonché uno degliesempi più significativi dell’editoriasiciliana settecentesca: Pietro Vitale(1656-1728), La felicità in trono sul’arriuo, acclamatione, e coronationedelle reali maestà di Vittorio Amedeoduca di Sauoia, e di Anna d’Orleans daFrancia, ed Inghilterra re e regina diSicilia Gerusalemme e Cipro. Celebratacon gli applausi di tutto il regno tra lepompe di Palermo reggia, e capitaledescritta per ordine dell’illustrissimoSenato palermitano dall’abbate donPietro Vitale segretario di esso, InPalermo, nella Regia Stamperia diAgostino Epiro, 1714. Sontuosovolume, scandito da 18 grandiincisioni su doppio foglio (a firmaFrancesco Ciché) raffiguranti gliapparati e le scenografie allestite aPalermo per celebrare l’ingresso deisovrani sabaudi. Ne risultanoufficialmente appena 5 copie censitenelle biblioteche pubbliche italiane.

libraire, 1791. Da accostare ad altridue titoli affini (n° 293-294): la primaedizione, divenuta assai rara dopo cheil governo francese, su pressione delladiplomazia asburgica, fu costretto arastrellare le copie per distruggerle,della scandalosa Histoire secrete de laCour de Berlin, ou Correspondanced’un voyageur françois [Alencon,Malassis], 1789, in cui l’autore, loscrittore e politico francese HonoréGabriel de Riqueti, comte de Mirabeau(1749-1791), aveva rivelato gli intrighipolitici della corte prussiana e preziosenotizie sulla Massoneria. Una sorta di

LO SCAFFALE DEL BIBLIOFILOConsigli di collezionismo antiquario

Pietro Vitale, La felicità in trono su l’arriuo,

acclamatione, e coronatione delle reali

maestã di Vittorio Amedeo duca di Sauoia,

In Palermo, nella Regia Stamperia di Agostino

Epiro, 1714: una tavola a piena pagina

di giancarlo petrella

ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano 47

Nel recente catalogo 3/2017dello Studio BibliograficoBruno Pucci di Napoli

(ubicato nella sede di via FerdinandoRusso 31 a Posillipo;[email protected]) sonoinnanzitutto attratto dall’appendice di15 libri - come recita il frontespizio -«da regalare e… regalarsi». Vi scovo, inrigido ordine alfabetico, l’edizioneoriginale In Roma nella Stamperiadella Rev. Camera Apostolica, 1791 delCompendio della vita, e delle gesta diGiuseppe Balsamo denominato il conteCagliostro che si è estratto dalprocesso contro di lui formato in Romal’anno 1790, opera scritta da GiovanniBarberi, Inquisitore generale, sullabase della documentazioneprocessuale del S. Uffizio (n° 285).L’opera, in conseguenza della rilevanzadel processato, il sedicentetaumaturgo alchimista e avventurieropalermitano Giuseppe Balsamo (1743-1795), e delle ben note vicende che loavevano visto coinvolto, ebbe notevolerisonanza, tanto da sollecitare nuoveristampe ed esigere anche unaversione in francese: Vie de JosephBalsamo, connu sous le nom de comteCagliostro, extraite de la procédureinstruite contre lui à Rome, en 1790,traduite d’aprés l’original italien,imprimé à la Chambre Apostolique;enrichie de notes curieuses, et ornée deson portrait, A Paris, chez Onfroy,tt

Julian Assange e WikiLeakssettecenteschi. Nelle bibliotecheitaliane risulta un solo esemplarepresso la Bertoliana di Vicenza. Ilsecondo titolo dello stesso scaffale èla prima edizione italiana datata 1779(uscita col falso luogo di stampa diBerlino invece di Firenze), in unesemplare intonso ancora in barbe,dell’Elogio del signor di Voltaire scrittoda Charles Palissot de Montenoy(1730-1814) nella traduzionedell’avventuriero e massone italianoFrancesco Zacchiroli († 1826). Nerisultano meno di una decina di copiein biblioteche italiane.

L’ultimo volume col quale sichiude l’appendice è un tripudioscenografico, nonché uno degliesempi più significativi dell’editoriasiciliana settecentesca: Pietro Vitale(1656-1728), La felicità in trono sul’arriuo, acclamatione, e coronationedelle reali maestà di Vittorio Amedeoduca di Sauoia, e di Anna d’Orleans daFrancia, ed Inghilterra re e regina diSicilia Gerusalemme e Cipro. Celebratacon gli applausi di tutto il regno tra lepompe di Palermo reggia, e capitaledescritta per ordine dell’illustrissimoSenato palermitano dall’abbate donPietro Vitale segretario di esso, InPalermo, nella Regia Stamperia diAgostino Epiro, 1714. Sontuosovolume, scandito da 18 grandiincisioni su doppio foglio (a firmaFrancesco Ciché) raffiguranti gliapparati e le scenografie allestite aPalermo per celebrare l’ingresso deisovrani sabaudi. Ne risultanoufficialmente appena 5 copie censitenelle biblioteche pubbliche italiane.

libraire, 1791. Da accostare ad altridue titoli affini (n° 293-294): la primaedizione, divenuta assai rara dopo cheil governo francese, su pressione delladiplomazia asburgica, fu costretto arastrellare le copie per distruggerle,della scandalosa Histoire secrete de laCour de Berlin, ou Correspondanced’un voyageur françois [Alencon,Malassis], 1789, in cui l’autore, loscrittore e politico francese HonoréGabriel de Riqueti, comte de Mirabeau(1749-1791), aveva rivelato gli intrighipolitici della corte prussiana e preziosenotizie sulla Massoneria. Una sorta di

LO SCAFFALE DEL BIBLIOFILOConsigli di collezionismo antiquario

Pietro Vitale, La felicità in trono su l’arriuo,

acclamatione, e coronatione delle reali

maestã di Vittorio Amedeo duca di Sauoia,

In Palermo, nella Regia Stamperia di Agostino

Epiro, 1714: una tavola a piena pagina

di giancarlo petrella

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Mi permetto però di dissentire conlo Studio Bibliografico Bruno Pucci. Visono almeno due titoli non presenti inquesta allettante appendice ma che,per ragioni diverse, meritanoaltrettanta attenzione. Propongodunque un’appendice all’appendice.Un’autentica rarità dannunziana (n°72): Le novelle della Pescara,nell’edizione illustrata da ArnaldoFerraguti, Milano, Treves, 1908-1909,ancora nei sei fascicoli originali con le

loro brossure editoriali figurate acolori che l’anno successivo sarannoinvece rilegati a formare un unicovolume. Un rarissimo esemplare, pergli amanti di d’Annunzio e un beltassello dell’editoria Treves. Infine, unsuggerimento per i cultori degli studieditoriali-bibliografici. Pochi numeriprima si scova (n° 53) il catalogoragionato di tutti i libri editi dallostorico editore Ulrico Hoepli dagli inizidell’attività nel 1872 al 1896:

Catalogo cronologico, alfabetico-critico, sistematico e per soggetti delleedizioni Hoepli, con introduzione diGaetano Negri (Milano, Hoepli, 1896).I cataloghi editoriali sono un genereassai deperibile e soggetto ad altotasso di distruzione, come ben sanno ibibliografi. Questo è una fonteinsostituibile per gli studi di storiadell’editoria: il primo quarto di secolodi una delle più note case editriciitaliane.

In senso orario: Histoire secrete de la Cour de Berlin, ou Correspondance d’un voyageur françois [Alencon, Malassis], 1789; Pietro Vitale, La felicità

in trono su l’arriuo, acclamatione, e coronatione delle reali maestã di Vittorio Amedeo duca di Sauoia, In Palermo, nella Regia Stamperia di

Agostino Epiro, 1714: alcune delle tavole a doppia pagina

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Mi permetto però di dissentire conlo Studio Bibliografico Bruno Pucci. Visono almeno due titoli non presenti inquesta allettante appendice ma che,per ragioni diverse, meritanoaltrettanta attenzione. Propongodunque un’appendice all’appendice.Un’autentica rarità dannunziana (n°72): Le novelle della Pescara,nell’edizione illustrata da ArnaldoFerraguti, Milano, Treves, 1908-1909,ancora nei sei fascicoli originali con le

loro brossure editoriali figurate acolori che l’anno successivo sarannoinvece rilegati a formare un unicovolume. Un rarissimo esemplare, pergli amanti di d’Annunzio e un beltassello dell’editoria Treves. Infine, unsuggerimento per i cultori degli studieditoriali-bibliografici. Pochi numeriprima si scova (n° 53) il catalogoragionato di tutti i libri editi dallostorico editore Ulrico Hoepli dagli inizidell’attività nel 1872 al 1896:

Catalogo cronologico, alfabetico-critico, sistematico e per soggetti delleedizioni Hoepli, con introduzione diiiGaetano Negri (Milano, Hoepli, 1896).I cataloghi editoriali sono un genereassai deperibile e soggetto ad altotasso di distruzione, come ben sanno ibibliografi. Questo è una fonteinsostituibile per gli studi di storiadell’editoria: il primo quarto di secolodi una delle più note case editriciitaliane.

In senso orario: Histoire secrete de la Cour de Berlin, ou Correspondance d’un voyageur françois [Alencon, Malassis], 1789; Pietro Vitale, La felicità

in trono su l’arriuo, acclamatione, e coronatione delle reali maestã di Vittorio Amedeo duca di Sauoia, In Palermo, nella Regia Stamperia di

Agostino Epiro, 1714: alcune delle tavole a doppia pagina

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49ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano

vogliono far dimenticare - unpassato non sempre ‘buonista’ eneppure tanto cristallino. I cat-tolici, difensori del ‘buonismo aoltranza’, non si ricordano che lapena di morte è stata rimossa, insordina, dalla Legge Fondamen-tale dello Stato Vaticano il 12febbraio del 2001 per volontà dipapa Giovanni Paolo II. Mentretanti politici, intellettuali e mili-tanti della sinistra radicale e sa-lottiera hanno rimosso gli orroridel Comunismo, del Maoismo edel Castrismo, sbracciandosi etifando, tuttora, per un dittatorecome Maduro.

È ovvio che - in opposizio-ne all’imperante ‘buonismo’ -non è giusto, né corretto, néumano auspicare un crudele rea-lismo o una violenza indiscrimi-nata. Si vorrebbe, soltanto, che afronte di un ‘mieloso buonismo’- che si spera non sia un paraven-to per lucrose speculazioni eco-nomiche e/o politiche - si cerchidi perseguire un poco di ‘saggio’equilibrio. Se questo non avver-rà, l’esito - a lungo andare - saràcatastrofico.

La riflessione

In Italia - uno dei Paesi in cuiil ‘politicamente corretto’ èpresentato come il nuovo

galateo sociale - il ‘buonismo’spopola. Anzi, è accettato comeuna norma assoluta di vita. Inuna sorta di delirio collettivo percui il nostro è, senza dubbio, ilmigliore dei mondi possibili, sivuole, a ogni costo, far apparireil ‘cattivo’ come ‘un buono chenon sa di essere cattivo’. Ovvia-mente, il ‘cattivo’ è tale per colpadella società, della famiglia, dellascuola, dell’economia, dei ricchi,dello Stato e via dicendo. Diconseguenza, il ‘cattivo’ si tra-sforma in un intoccabile. Così,se un criminale si avventa con uncoltello su un poliziotto o se unaautomobile infrange un posto diblocco, le Forze dell’Ordine nondevono rispondere con le armi.Se lo fanno, sono subito giudica-te - da politici, magistrati, gior-nalisti, conduttori televisivi - co-me veri ‘cattivi’ che non sannoriconoscere i ‘buoni travestiti dacattivi’. ‘Cattivi’ che sono le veree reali vittime di una società ma-lata. E, quindi, i veri colpevoli

sono chi li persegue: non loro.Ma il ‘buonismo’ va oltre e siestende, a macchia d’olio, in ognicampo della vita sociale, trascu-rando ogni buon senso e infi-schiandosi, altamente, della real-tà. Per cui, se qualche malcapita-to propone di porre un giusto (eequilibrato) limite alle ondatemigratorie - che rischiano di in-nescare, nel nostro Paese, i pro-dromi di una guerra civile - apriticielo. Insorge, indignata, la sini-stra in nome dei valori più alti. E- con altrettanto vigore unito alacrimosa mestizia - insorge par-te del ‘mondo’ cattolico che in-voca, in nome di una indiscrimi-nata accoglienza, tutte le giustifi-cazioni possibili e tutti i Santi delcalendario. Ovviamente, gli uni egli altri dimenticano - o, forse,

I danni del ‘buonismo’ e la fuga dalla realtàIl rovesciamento del ‘cattivo’ nel ‘buono’

CLAUDIO BONVECCHIO

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51ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano

proprie relazioni professionali.Questo duplice aspetto costitui-sce una coordinata imprescindi-bile per chiunque voglia indaga-re, sotto qualunque profilo, ilrapporto del Ventura con le lette-re. Oltre ad assecondare una per-sonale inclinazione, e a riflettereil quadro sociale entro cui opera,la scelta del Ventura risponde -come è ovvio - a una strategia dimercato. Quella dei ‘libri di let-tere’ è infatti una tipologia te-stuale particolarmente frequen-tata dalla letteratura cinquecen-tesca e al contempo privilegiatadalla coeva editoria. Al pari di al-tri tipografi, dunque, anche ilVentura si cimenta nella stampadi ‘libri di lettere’, un genere benconsolidato alla fine del secoloXVI, dei cui caratteri il Venturastesso esibisce chiara cognizione.

In effetti, oltre che con con-tinuità Comino si dedica ai libridi lettere da professionista, mo-strando cioè di conoscerne la tra-dizione: egli ne percorre conconsapevolezza le diverse decli-nazioni, rispettandone i canoni e

Il Libro del Mese

rum nuncupatoriarum del 1603,costruita come una vera e propriaautobiografia. Comino dunquenon solo stampa raccolte di lette-re, ma parla di sé attraverso la re-dazione di lettere, e con esse co-struisce e consolida la rete delle

Comino Ventura: un editoretra lettere e libri di lettere

Le dedicatorie di un tipografo

Il contesto e il quadro storiografico

Comino Ventura mostraun particolare interesseper il genere ‘epistolare’

lungo tutta la propria carriera(1579-1617): lo coltiva fin daiprimi anni di attività, con la stam-pa delle Lettere familiari di Tor-quato Tasso (1588), e con essochiude la propria offerta edito-riale, stampando nel penultimoanno di produzione le Lettere diMarc’Antonio Querini (1615).

La lettera, tuttavia, non co-stituisce solo l’oggetto di un filo-ne editoriale cui Comino si dedi-ca con continuità, consacrandoviun significativo numero di volu-mi, ma anche uno strumento ‘se-mantico’, una forma comunicati-va cui il tipografo affida messaggipersonali e professionali insie-me, come nel caso della dedicato-ria che apre il Museum epistola-

Nella pagina accanto: Anton

Francesco Doni, La Libraria, Venezia,

Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1550

“Comino Ventura. Tra lettere e libri di lettere (1579-1617)”, a c. di Gianmaria Savoldelli e Roberta Frigeni, Firenze, Olschki, 2017, pp. 362, 39 euro

ROBERTA FRIGENI

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insieme reinterpretandoli, con-tribuendo in tal modo a prefigu-rare scenari inediti - benché nonproseguiti - nell’evoluzione delgenere.

Non è lineare, né tanto me-no unitario, il rapporto che l’edi-toria cinque-seicentesca intrat-

tiene con il genere epistolare: es-so tende piuttosto a specializzarsiin diversi sottogeneri, e a diffe-renziarsi nella produzione di ‘li-bri di lettere’ tipologicamentedifferenti, da quelli d’autore -espressione della corrispondenzapersonale di letterati illustri - alle

raccolte di lettere di autori diver-si, spesso sorte per iniziativa diimprimeurs «particolarmentesensibili» - proprio come lo saràComino - «a cogliere gli elementinuovi emergenti nel mercato li-brario». Parlando del rapportoche un tipografo, operante tra lafine del XVI secolo e l’inizio delsuccessivo, intrattiene con ilmondo delle ‘lettere’, infatti, nonpossiamo non tener conto di que-sta distinzione fondamentale, in-terpretandola alla luce della le-zione di Amedeo Quondam, chevede il Cinquecento (inteso «almodo lungo») percorso da unprocessodi ascesa, ampliamento,stabilizzazione e infine trasfor-mazione dell’epistolografia involgare, dall’epoca delle ‘Lettere’a quella del ‘Segretario’.

Le pagine di Quondam of-frono il più efficace quadro teori-co per leggere l’opera del Venturaalla luce del suo contesto di pro-duzione. Egli infatti si colloca inquella delicata fase di passaggio,quel «crinale epocale», tra la finedel XVI secolo e i primi vent’annidel successivo, in cui i caratteridel genere epistolare si modifica-no profondamente riflettendo dauna parte, ma contribuendo dal-l’altra, al più generale mutamen-to delle pratiche, delle ‘gramma-tiche’ della convivenza sociale.

È opportuno dunque riferir-ci a tale scansione, rendendonebrevemente conto, per rilevarvielementi utili a comprendere ilrapporto del Ventura con le ‘let-

Claudio Tolomei, Lettere, Venezia, Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1547

52 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2017

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tere’. La prima fase (1538-1546) èsegnata e dominata dalla perso-nalità e dall’opera dell’Aretino(1538), che «aveva imposto, ‘in-ventato’ il libro di lettere volga-ri»: l’uscita in uno stretto giro dianni dei sei volumi delle sue Lette-re crea inizialmente una sorta diafasia creativa tra i pochi autori‘rivali’, che si limitano ad imitar-ne e replicarne il modello, e inve-ce trova il settore delle raccoltepiù pronto a rispondere «all’im-provvisa offensiva dell’Aretino:non foss’altro perché la tradizio-ne del trascrivere (il “far copiadi”) lettere di autori “eccellentis-simi”… rappresenta una costantedi lunga durata e fortissimo rilie-vo nell’assetto istituzionale dellacomunicazione letteraria e dellesue pratiche, tale da consentire unagevole reperimento di lettere di“diversi” da pubblicare in tempibrevi e senza eccessivi problemi».Particolarmente attivi in questosettore, come già abbiamo rileva-to, gli editori.

Del filone delle ‘raccolte’ ri-cordiamo i tratti principali, alcu-ni dei quali saranno utili a com-prendere la produzione del Ven-tura. Esse godono di una maggio-re continuità editoriale rispetto ailibri di lettere d’autore (1542-1550), benché spesso si tratti diproduzioni di poco rilievo, i cui li-bri primi restano senza seguito.Un secondo elemento che con-traddistingue la produzione diraccolte è il fatto che in esse gli au-tori/editori intrattengano un

rapporto vivo con il mondo deilettori, cui esplicitano il sensodell’operazione editoriale, legan-dolo per lo più al tentativo di co-struire un repertorio di testi a«utilità degli studiosi», e a pro-durre insieme «frutto e diletto».Da questo punto di vista, è indub-

biamente più difficile che un epi-stolario personale ascenda a mo-dello esemplare per la comunitàdei lettori, e ciò potrebbe dunquespiegare la più lenta e prudenteaffermazione, almeno in questoprimo periodo, dei libri di lettered’autore rispetto alle raccolte.

Torquato Tasso, Delle lettere familiari, Bergamo, Comino Ventura, 1588

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Nel 1550, in ogni caso, il campodei libri di lettere si presenta giàcostituito nei suoi protagonistiessenziali e nelle sue tipologiefondamentali, come testimonia lasezione dedicata alle lettere findalla prima edizione della Libra-ria del Doni (ad esempio con igrandi nomi di Bembo, Tolomei eTasso).

Entrambi i ‘libri’, dal 1550 al1564, conoscono una fase diespansione in numero di presen-ze e in articolazione tipologica: da

una parte si segmenta il tipo dellelettere d’autore, e nasce la tipolo-gia della lettere ‘a/di Principi’;dall’altra, invece, per le raccolte siimpone il tipo delle ‘lettere a’.

Alla fase di nascita ed espan-sione, segue un periodo di asse-stamento del genere, dal 1564 al1588, quando il «quadro dei libridi lettere» - tanto d’autore che leraccolte - «non presenta modifi-cazioni davvero rilevanti»: «unafase segnata dal primato dei ‘fa-mosi auttori’ ma anche percorsa

dalla ricerca sperimentale dei‘moderni’, dal loro puntare sul-l’autonomia della ‘locuzione’ edei ‘concetti’». Qui si gioca il pas-saggio individuato come fonda-mentale da Quondam per la com-prensione del genere dei libri dilettere sul lungo periodo, e altret-tanto fondamentale per la nostracomprensione della produzionedel Ventura.

A cavallo di questo periodo,infatti, il genere si modifica:l’istanza modellizzante degli au-tori antichi e illustri si esaurisce eprogressivamente è vintadall’‘economia del Segretario’,che impone libri organizzati percapi, «così che il libro di letterepossa percorrere il mercato edi-toriale, arrivare al lettore/utente,ai suoi bisogni pratici di una mo-dellizzazione discreta, capo percapo, che sostituisce la forza mo-dellizzante integrata dei vecchitesti». Si tratta comunque di unafase critica, ‘di trasformazioniprofonde dei libri di lettere, deipropri statuti comunicativi e in-sieme editoriali’, e in cui tuttavianon mancano le ambiguità e lecontraddizioni. In questo perio-do di transizione, la tipologia del-le lettere vede infatti conviverel’organizzazione per rubriche ecapi con la prassi ‘antica’ della re-gistrazione puntuale di date eluoghi, persone e situazioni, co-me nel caso delle lettere delloZucchi. Ma ci sono anche esempiilluminanti dell’affermarsi di taletendenza, come la scelta editoria-

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le di Giovan Battista Guarini disostituire all’ordine cronologicodella prima edizione delle sue let-tere nel 1593, la divisione per ca-pi, che ne decreta il successo nel1598.

La produzione di libri di let-tere del Ventura prende piedeproprio con l’aprirsi di questo‘crinale epocale’, e ne riflette tut-ta la complessità, interpretandoin certo modo il modificarsi diun’epoca, pur restando ancoratoalla tradizione. Egli si dedica a en-trambi i filoni succitati, pubbli-cando tanto libri di lettere di unsolo autore che raccolte epistolaridi autori diversi, ma con differen-te attitudine, riflettendo così incerta misura le diverse tendenzedi sviluppo delle due tipologie li-brarie. Da una parte, infatti, sel’interesse per i libri di lettered’autore è costante ma rarefatto(tre edizioni lungo l’intera carrie-ra, nel 1588, 1598 e 1615), è inve-ce di breve durata ma assai prolifi-co l’impegno dedito alle raccoltedi lettere, stampate in numero ditrentuno volumi in uno stretto gi-ro d’anni (1601-1607). Dall’altraparte, se cimentandosi con il pri-mo tipo di produzione il Venturarispetta i canoni di una lunga tra-dizione, di cui conosce bene i pre-cedenti, è misurandosi con il se-condo che egli conferisce al gene-re un significativo apporto di no-vità, sperimentando nuove tipo-logie.

Circa gli epistolari d’autore(Delle lettere familiari del Sig. Tor-

quato Tasso del 1588, Delle letteredell’ecc.mo giureconsulto Gio. An-drea Viscardo del 1591 e le Letteredi F. Marc’Antonio Quirini del1613), il catalogo editoriale diComino riflette le dinamiche ri-levate da Quondam. La sua pro-duzione, infatti, collocandosinella fase di cerniera evolutiva delgenere, ne mostra tutti i caratteri,

pur con qualche anomalia: rispet-ta la tradizione e l’autorità degliautori antichi, obliterando tutta-via l’inimitabile exploit aretinia-no; sceglie tipologie canonichecome quella delle lettere familia-ri; privilegia la scansione tematicaall’identificazione cronotopica; èlegata al mondo dei segretari e al-le sue pratiche, come nel caso del-

Nella pagina accanto: Pietro Aretino (1492-1556). In questa pagina: Tiziano

Vecellio (1488 ca.-1576), Ritratto di Pietro Bembo (1539), Washington, National

Gallery of Arts

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le lettere del Viscardo e del Quiri-ni; infine predilige il formato inottavo.

All’epistolario d’autore, ilVentura affianca, e quasi sostitui-sce per intensità di produzione, laraccolta di lettere, caratterizzan-do quest’ultima esperienza in un

modo che la distingue non soloall’interno dei titoli del propriocatalogo, ma entro l’intero pano-rama editoriale cinque-seicente-sco - italiano ed europeo - consa-crato al genere ‘epistolare’. Que-sti volumi, infatti, oltre a configu-rarsi a tutti gli effetti come raccol-

te, e dunque accogliere gruppi dilettere provenienti da edizioni di-verse e frutto dell’opera di autorialtrettanto differenti, si delinea-no come una forma specializzatadi raccolta, accogliendo lettereappartenenti ad un’unica tipolo-gia, quella dedicatoria.

.

In senso orario: frontespizio de Le Lettere di Pietro Aretino, nell’edizione del 1538.; Giovan Battista Guarini, Lettere,

Venezia, Giovan Battista Ciotti, 1596; Torquato Tasso, in un’incisione del XIX secolo

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59ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano

Alla radice di un organismodel genere sta naturalmente lapassione che i fondatori nutronoper questa scrittrice, e alla lucedell’intima bellezza del suo stilene hanno ben donde, anche senon tutti concordano sull’entu-siasmo con cui è stata accolta damilioni di lettori in tutto il mon-do. Charles Dantzig ad esempio,critico che in Francia trovaascolto, giudica che il megliodella Yourcenar si trovi nellasnellezza delle prose autobiogra-fiche; ritiene addirittura che leceleberrime Memorie di Adrianosiano un libro candido e disuma-no, abitato da personaggi che simuovono solo in situazioni sto-riche e filosofeggiano su Platoneinvece di conversare sulle que-stioni correnti del proprio tem-po.

Tralasciamo i gusti, peral-tro leciti, del critico e notiamoche ricorre il trentennale dellascomparsa della scrittrice, avve-nuta il 17 dicembre 1987 aMount Desert, nel Maine. Era diorigini fiamminghe, nata a Bru-

Editoria

anche non ha il fine predomi-nante della bibliofilia, possederecioè una collezione di prime edi-zioni, il centro romano ha peròrilevanti obiettivi culturali e rea-lizza un risultato ugualmente bi-bliofilo: una raccolta di traduzio-ni in lingue straniere dei titolidella Yourcenar.

Yourcenar ‘multilingue’: fra libri e traduzioni Una collezione romana e alcune ‘rarità’

Non è cosa a tutti nota,ma a Roma sorge unCentro Documenta-

zione Marguerite Yourcenar,emanazione a sua volta di unCentro Internazionale Antinooper l’Arte. L’abbinamento non èincongruente come sembrereb-be al primo sguardo: Antinoo fuil giovane greco che ebbe una re-lazione sentimentale con l’impe-ratore romano Adriano, e laYourcenar è colei che ha narratole vicende di Adriano e del giova-ne amante nel grande romanzoMémories d’Hadrien. I prodromidel centro romano risalgono aiprimi anni novanta del secoloscorso, quando la realizzazionedi una mostra d’arte gettò i pre-supposti per coltivare la memo-ria della Yourcenar mediante ladiffusione della sua opera e delsuo pensiero. Da allora il centrorealizza mostre, eventi e conve-gni, ma non solo: è sede di unacollezione multilingue di quantola Yourcenar ha pubblicato, infrancese e nelle tante traduzioniche circolano per il mondo. Se

Nella pagina accanto: l’edizione Plon

1951 delle Mémories d’Hadrien

(collezione privata). Sopra:

Marguerite Yourcenar in un ritratto

fotografico di Yousuf Karsh (1987)

ANTONIO CASTRONUOVO

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xelles nel 1903, e si chiamava perla precisione Marguerite de Cra-yencour. È stata la prima donnaeletta all’Académie française, nel1980, e lo fu con il suo nome ana-grammato: era ancora adolescen-te quando, durante una seratatrascorsa in compagnia del padrea giocare con le lettere del cogno-me, si ritrovò sul tavolo (con lasola esclusione di una “c”) l’ana-gramma Yourcenar, col quale -lungo un’esistenza segnata daun’abitudine migratoria di aromaromantico - firmò alcuni tra i piùbei libri del Novecento.

Il suo primo romanzo, Ale-xis ou le traité du vain combat, uscì aParigi, dall’editore Au sans pa-reil, nel 1929. Maria Luisa Spa-ziani, traduttrice nel 1962 del-l’opera in italiano per Feltrinelli,

ebbe uno slancio elegante e ci do-nò - per un romanzo in cui s’af-faccia il tema di un’omosessualitàvissuta in maniera drammatica -il titolo Alexis o il trattato della lot-ta vana. È il romanzo in cui s’in-castona quell’idea che, in un cer-to senso, svela un po’ dell’essenzadi Marguerite: «Si può essere fe-lici senza mai smettere di esseretristi»; ed è l’opera da cui prese ilvia una carriera destinata alla no-torietà internazionale. Lungo glianni trenta seguirono prove nar-rative di maggiore impegno, co-me Denier du rêve apparso daGrasset nel 1934 (tradotto comeMoneta del sogno da Oreste delBuono per Bompiani nel 1984),le Nouvelles Orientales uscite daGallimard nel 1938 e Le coup degrâce dal medesimo editore nel

1939 (tradotto dalla Spaziani nel1962 per Feltrinelli come Il colpodi grazia).

Giunta a Mount Desert ametà degli anni quaranta, laYourcenar elesse il luogo a dimo-ra cui tornare dopo ogni viaggio edove calmare la fame di solitudi-ne. Acquistò un cottage che bat-tezzò Petite Plaisance e là scrisse lesue opere maggiori, sempre infrancese. Molti non le perdonanole lunghe ore di meditazione incui si sprofondava: non potevaessere diversamente in un intel-letto che, sugli scaffali dello stu-diolo di legno, non allineava ope-re dell’attualità, non raccoglievané Barthes e né Lacan: la scrittri-ce si manteneva distante da quelrumore letterario che giudicavacome debole fruscio d’erba desti-nata a seccare. Qualcuno disseche il suo isolamento era da attri-buire a una certa alterigia, ma arintuzzare questa malevola idea sialzano parole della stessa Mar-guerite: «Credo che l’abitudineprecoce alla solitudine sia un be-ne immenso. Insegna, sia puresolo fino a un certo punto, a fare ameno degli altri, e insegna anchead amare di più gli esseri».

A differenza di Dantzig,credo che farsi prendere dallascrittura della Yourcenar sia co-me abbandonarsi a un flusso in-cessante di bellezza cui non è da-to sottrarsi quando si è iniziato ilviaggio. L’efficacia di quella scrit-tura proviene da una solida co-struzione intellettuale, ma anche

Biglietto d’invito della cerimonia tenuta presso le edizioni Gallimard nel

gennaio 1981 per l’elezione di Marguerite Yourcenar all’Académie française di

qualche mese prima (Roma, Centro Documentazione Marguerite Yourcenar,

Donazione Dominique Gaboret)

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da altro: si sente che le fantasienon emergono dai libri letti a Pe-tite Plaisance ma dagli incontri edai viaggi. Dipinse un vasto affre-sco autobiografico e coltivò unapreziosa variante dell’essay, taleper cui alcuni suoi brevi saggi so-no prove irrinunciabili di lettura.Ma fu in questi anni che raggiun-se la maestria narrativa: l’impera-tore delle Memorie di Adriano e ilmedico-alchimista Zénon del-l’Opera al nero sono protagonistidi romanzi indimenticabili.

Le Mémories d’Hadrien usci-

rono a Parigi da Plon nel 1951.L’idea era sorta molti anni prima,quando nel 1924, lungo un viag-gio in Italia, Marguerite aveva vi-sitato Villa Adriana a Tivoli. Ro-manzo, saggio storico e operapoetica al contempo, le Memoriesono il suo capolavoro. L’impo-stazione è quella di una lunga let-tera che il vecchio Adriano scriveal nipote ripercorrendo la pro-pria vita di uomo e imperatore, einsegnando come sia un dovererendere l’esistenza non superfluae ricercare, con nobile premura,

la felicità possibile. Il romanzo fuprecocemente tradotto in italia-no da Lidia Storoni Mazzolani,vicenda di traduzione che ha infi-ne portato sul mercato bibliofiloun ‘mostro’ editoriale. Fu Mar-guerite medesima a proporre chela traduttrice italiana fosse la Sto-roni Mazzolani, studiosa delmondo classico che avrebbe datoal lavoro il tocco della latinità. Laprima edizione italiana uscì pres-so l’editore Richter nel 1953 coltitolo Le memorie di Adriano impe-ratore. L’editore si era però preso

Da sinistra: una traduzione straniera delle Mémories d’Hadrien (Centro Documentazione Marguerite Yourcenar); l’edizione

italiana Richter 1953 delle Mémories d’Hadrien, ritirata dal mercato (Centro Documentazione Marguerite Yourcenar)

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la libertà di tagliare e modificareestesamente il testo al fine di ren-derlo di semplice fruizione, rovi-nando però il delicato lavoro del-la traduttrice, che intrapreseun’azione giudiziaria, vinse lacausa e ottenne di far ritirare il li-bro dal mercato. Richter, cheaveva sede in via Frà GregorioCarafa a Napoli, chiuse poi i bat-

tenti e questa edizione circola nelmercato bibliofilo con una quo-tazione che oscilla tra 90 e 100euro: il centro romano ne possie-de copia. Fu poi Einaudi a rileva-re i diritti dell’opera e pubblicarela traduzione rivista e correttadella Storoni Mazzolani nel1963, togliendo nel titolo la qua-lifica di “imperatore” ad Adriano.

È forse questo episodio a spiega-re il senso della dedica che Mar-guerite fece alla Storoni Mazzo-lani su un esemplare dell’edizio-ne Plon 1958 posseduto dal cen-tro romano: «A Lidia Storonidue volte traduttrice». Ecco:Marguerite si riferiva forse alladuplice vicenda di traduzione chel’amica italiana aveva sostenuto

Alcune traduzioni delle Mémories d’Hadrien in lingue straniere (Centro Documentazione Marguerite Yourcenar)

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63ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano

in quegli anni.L’Œuvre au noir, romanzo

storico che ci cala nell’ambientedell’alchimia e dell’umanesimodel Cinquecento, uscì nel 1968da Gallimard (tradotta da Mar-cello Mongardo nel 1969 perFeltrinelli). Sempre da Galli-mard, nel 1977, uscirono gli Ar-chives du Nord, grande affrescomemoriale della famiglia pater-na, dopo che nei Souvenirs pieuxdel 1974 l’autrice si era consacra-ta a quella materna.

Una grande scrittrice comela Yourcenar giustifica la nascitadi organismi che ne coltivino lamemoria, e ciò accade soprattut-to nei paesi della lingua madre:peculiare è dunque l’esistenza delcentro romano, a riprova che do-ve si produce uno slancio là si rea-lizza qualcosa di incisivo, anchedi pregevole. E proprio dopoaverne scoperto l’esistenza mi èsorto il desiderio di indagare cosapuò attrarre il collezionista di li-bri verso la Yourcenar. Racco-gliere le sue prime edizioni non sidifferenzia infatti dal colleziona-re quelle italiane del Novecento:reputo singolare che qualcunovoglia farlo in Italia, a meno chenon sia, appunto, un appassiona-to. Vale però fiutare, come si faper ogni scrittore, se tra le pieghedi una biografia editoriale si na-sconda qualche rarità, e nella sto-ria della nostra scrittrice la sor-presa c’è, ed è duplice: le sue in-trovabili opere giovanili. Avevasedici anni, nel 1919, quando co-

minciò a redigere il poema dialo-gato Le jardin des Chimères: a spe-se del padre, e firmato MargYourcenar, uscì a Parigi presso laLibrairie Académique Perrin nel1921, prova letteraria che annidopo ella liquidò come operazeppa di cliché tipici di una gio-

vane lettrice incallita. E davveroquesto dialogo poetico che sisvolge serrato tra il protagonistaIcaro e personaggi di nome Eari-na, Eucharis e Rhodéia scorremellifluo, fatalmente tedioso.Ma sul piano bibliofilo si tratta diopera rarissima: esaurita, non èstata ripubblicata in Francia senon dopo la scomparsa dell’autri-ce, né è mai stata tradotta in lin-gue straniere. Ha un valore altis-simo: mentre scrivo circola incommercio una copia a una quo-tazione che supera i 3.000 euro. Enon basta: come a volte accadenel mondo dei libri, un romanzodall’identico titolo uscì a Pariginel 1946 presso le Éditions du

L’edizione Plon 1958 delle Mémories

d’Hadrien con la dedica alla Storoni

Mazzolani (Centro Documentazione

Marguerite Yourcenar)

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Vieux Colombier; ne era autoreJean de Belcayre, che certo nonera consapevole dell’omonimia.

E se questa è la prima perla,ecco la seconda: l’anno seguente,nel 1922, Marguerite pubblicò aParigi presso Edward Sansot

(anche adesso a spese proprie)Les dieux ne sont pas mort, cin-quantadue poesie che profilanol’esercizio immaturo e verbosodi un’adolescente che s’affacciasul mondo letterario. L’operasembrerebbe sequela della pre-

cedente, e invece si tratta delleprime prove dell’autrice, la cuicomposizione iniziò addiritturanel 1915, quando aveva dodicianni. La critica è compatta: sa-rebbe stato meglio buttare viaqueste poesie, frutto di affastel-late letture poetiche del secondoOttocento, ma non la pensavanocosì all’epoca. Un critico giudicòche il libro conteneva «quelquessonnets doctement mesurés,chaudement colorés, des odesenthousiastes» e che insomma sitrattava di un «grave et char-mant volume de poète vérita-ble». Entusiasmo non condivisi-bile, come non condivisibile è lariprovazione di Dantzig sulleopere mature della Yourcenar:resta il fatto che si tratta di duevolumetti rarissimi. Ora, non ècerto compito del centro roma-no possederli, ma se dovesseromai rintracciarli a costi accetta-bili il consiglio è di accoglierlinella loro speciale e deliziosacollezione.

Da sinistra: la rara opera giovanile Le jardin des Chimères (Parigi, Librairie

Académique Perrin, 1921); la seconda rarità della Yourcenar: Les dieux ne sont

pas mort (Parigi, Sansot, 1922)

NOTALa vicenda dell’edizione Richter è ri-

cordata dalla stessa Lidia Storoni Mazzo-

lani in Una traduzione e un’amicizia, ap-

pendice a Memorie di Adriano seguite daiTaccuini di appunti, Einaudi, Torino 1988.

Un bel saggio che ne fa ampio cenno è

quello di Françoise Bonalis-Fiquet, La ro-mancière et sa traductrice: la correspon-dance de Marguerite Yourcenar avec Li-dia Storoni Mazzolani, in L’épistolaire auféminin, Caen, Presses Universitaires de

Caen, 2006 (soprattutto pp. 123-124).

Ma si veda anche A. Mozzillo, M. Yource-

nar, Varius multiplex multiformis. Dialo-go a distanza su Adriano, Sorrento, Fran-

co di Mauro, 1991 (grazie a Massimo Gat-

ta per l’indicazione).

Il giudizio coevo sulle poesie di Mar-

guerite apparve a firma André Fontainas

nel «Mercure de France», maggio 1923 n.

597, pp. 749-750. Se anche di scarsa qua-

lità, le due prove giovanili della Yourcenar

hanno trovato studiosi disposti ad ana-

lizzarle: Denys Magne, Deux œuvres dejeunesse de Marguerite Yourcenar. “LeJardin des chimères” et “Les Dieux ne sontpas morts”, «Études Littéraires» (Québec),

vol. 12, n. 1, aprile 1979, pp. 93-111; Rémy

Poignault, La légende d’Icare vue parMarguerite Yourcenar, in Retours dumythe: vingt études pour Maurice Del-croix, Amsterdam, Rodopi, 1996, pp. 211-

229; infine Achmy Halley, MargueriteYourcenar en poésie: archéologie d’un si-lence, Amsterdam, Rodopi, 2005.

64 la Biblioteca di via Senato Milano – ottobre 2017

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le piattaforme interne, poste supiani sfalsati. Si fermò al livelloadibito a foyer e si diresse verso lacaffetteria, dove sedette a un ta-volo libero, in attesa.

Un minuto più tardi, un uo-mo con un vassoio ingombro dipietanze si sedette davanti a lui.

- Posso?Doveva essere l’uomo della

Loggia. Precedentemente, si era-no sentiti solo per telefono, ra-gion per cui il viso anonimo, conil taglio di capelli pratico e gli oc-chi ombreggiati da occhiali scuri,non gli diceva niente.

- Red?L’accoglienza non fu delle

più calorose: l’altro non si degnòdi rispondere.

- Hai un’aria orribile, Kane -. Red padroneggiava l’inglese.Non si avvertiva un accento rico-noscibile.

- Cosa posso fare per te?- Sono tempi interessanti, i

nostri. Anche troppo.- Dimmi cosa succede. - Stiamo ai fatti: in tutta

In Appendice - Feuilleton

L.E.X. Le biblioteche profonde

XVIII capitolo

Abel Kane era a destinazio-ne. L’aeroplano toccòterra sulla pista dell’aero-

porto di Aarhus, Danimarca, alle09.07 ora locale. Kane prese untaxi per raggiungere il luogodell’appuntamento fissato perlui. Utilizzò varie vetture per nonlasciar tracce. Lungo il tragitto, il

RIASSUNTO DELLEPUNTATE PRECEDENTIVictor Stasi è un agente di L.E.X.,una branca dei servizi segretiitaliani. Il suo avversario è Kane,uomo della Loggia. Stasi si recacon la collega Livia ad Atene, dovesi salva da due diversi attacchiarmati. Kane, dopo aver ucciso uninformatore di Stasi, minacciaanche Livia. L’italiano, supportatoin patria dal generale Bonera e dalcapitano Rabisi, trova un alleatonella polizia greca, ma Kanesfugge alla cattura.

ERRICO PASSARO

cielo si sfogò in una pioggia insi-stente: l’acqua rigava il giorno,quasi accecando i coraggiosi ingiro.

Una volta sul luogo designa-to, aspettò per essere sicuro chenon lo seguisse nessuno, dopodi-ché saldò la corsa e uscì nell’ariarigida, così diversa da quella dellacittà - Atene - che aveva appenalasciato.

L’indirizzo coincideva conl’edificio della Dokk1. La biblio-teca sorgeva sul porto di Aarhus:un poligono di oltre 30.000 mq divetro con vista grandangolaresull’acqua, pareti di cristallo e tet-to tappezzato di pannelli solari.Solo la mediateca ospitava350.000 opere: non una chiesaammuffita e respingente, ma unapiazza del sapere; non un magaz-zino di libri, severo e polveroso,ma un luogo di aggregazione;non un sepolcreto di cose morte,ma una clinica dell’anima

Kane salì una delle rampe discale che si aprivano a ventagliodal corpo centrale e portavano al-

67ottobre 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano

Abel Kane (illustrazione originale di

Roberto Baldazzi per la Biblioteca di

via Senato)

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franchezza, non mi sembra che illavoro fatto ad Atene sia il miglio-re possibile. Siamo ancora in altomare con quella operazione chericorderai.

- Cazzate - respinse Kane. - Ci avevi assicurato che Sta-

si sarebbe stato messo al suo po-sto. Ci aspettavamo un lavorosenza una sbavatura. Invece, te nesei andato da Atene tirandoti die-tro mezza polizia greca. E Stasi èancora in partita.

Kane si trovò con i pugnichiusi e le nocche sbiancate, ma sicontrollò. Fuori dalle vetrate, lapioggia cadeva dritta, metallica.

- Che cosa vuoi, Red?- Secondo te?Kane tacque. Non commise

l’errore di sottovalutare Red.L’uomo rappresentava uomini invista, che nascondevano ben altreoccupazioni dietro quella ufficia-

le. I suoi ‘clienti’ non ci tenevanoad apparire: quelli della Loggiaoccupavano alte cariche nelle ge-rarchie pubbliche e private.

- Con Stasi non si può maisapere - proseguì quello. - È unafonte di guai. È quel genere di uo-mo che non molla la presa. In findei conti, è vivo e più esaltato chemai, dopo la tua fuga.

Kane squadrò le spalle edrizzò la testa.

- Con Stasi me la vedo io - ri-torse. - È una questione a due franoi.

- Sono lieto di sentirtelo di-re, ma non mi faccio illusioni, alriguardo.

- Non mi fermerò finchénon lo avrò ucciso - rialzò il tonoKane. - Sangue chiama sangue.

- Vedremo. Comunque, nelcaso, possiamo attingere a risorsealternative. Abbiamo altri agen-

ti... inattivi... pronti a sostituirti.Ti suona?

Kane fece del suo meglio perapparire rilassato, ma non gli riu-scì granché.

- Chi siede in panchina? - glisfuggì di bocca.

- Quanto vuoi saperlo?Nessuno sapeva chi fosse re-

almente Kane. Non aveva paren-ti, amici, confidenti. Ma ancheun’ombra animata come lui avevaqualcosa da perdere: la vita.

- Non vi deluderò.- L’affare è presto fatto: tu ti

ritiri a vita privata, noi ti paghia-mo per il disturbo.

Red gli passò un volume.Kane sbirciò all’interno: dentro lafalsa rilegatura del libro, facevacapolino una spessa fascetta dibanconote di grosso taglio. Euro,molti euro.

- Avevamo un accordo - s’ac-canì l’altro, indignato da quel ten-tativo di transazione.

- Hai un’idea migliore? Sen-za saperlo, Stasi, a gioco lungo, fa inostri interessi… lasciamolo fare.Tu, invece, sei compromesso. Serimani in attività, prima o poi tiprenderanno. E risaliranno a noi.Non vuoi cambiare vita, Kane? -concluse quello, ironicamente.

- Mi farò sentire - si accom-miatò con il suo interlocutore,semplicemente.

Kane usava sempre pocheparole per esprimersi. Non parla-va davvero, riempiva il silenzio diparole. E, quando diceva una co-sa, spesso ne intendeva un’altra.

Abel Kane e Red (illustrazione originale di Anna Emilia Falcone per la Biblioteca

di via Senato)

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Un sognatore, prima ditutto. Ecco chi è il nostroScampolino, «impiegato

regio» con la passione per i buonipiatti, siano essi «cibreini, formaggiindigeni e forestieri, lodole o tordiarrosto». Un sognatore - dicevamo- questo nostro Scampolino (pro-tagonista dell’omonima novella diCarlo Collodi, contenuta nella rac-colta Occhi e nasi, volume che la Bi-blioteca di via Senato possiede nellaprima edizione, stampata a Firenze,nel 1881, presso l’editore-libraioFelice Paggi) che, «venuta l’ora dipranzo, secondo il consueto di tuttii giorni, s’incammina, un passodopo l’altro», verso la trattoria AllaBorsa, vera e propria ‘istituzione ga-stronomica’ della verde Valeggio sulMincio.

Alla Borsa tutti i sogni più go-losi e i miraggi più succulenti diScampolino trovano ristoro in «queipiatti di porcellana pieni di tortel-lini, di rigaglie di pollo, di costolettepanate, di tartufi, di zamponi, di co-teghini e di mille altre ghiottonerie»che la dolce e gentile Nadia Pasquali(figlia dei ‘mitici’ Alceste e Albina)ogni giorno prepara per i suoi for-tunati ospiti.

Scampolino si accomoda al

di fuggire per sempre dentro le ac-que, cupe e cristalline, del bellis-simo e placido fiume.

«Con sotto il naso un belpiatto di tortellini fumanti» Scam-polino sogna anche un bocconedelle altre due specialità della Borsa,apoteosi di perfezione e tradizione:i tortelli ripieni di ricotta ed erbettee i tortelli di zucca.

«E dopo i tortellini cosa mida? - Vuole un paio di quelle co-stolette panate? - Due sono poche:pigliamone tre, anzi pigliamonequattro». L’appetito di Scampolinoè leggendario: Nadia lo sa e, vistoche si è in stagione, gli manda an-che un assaggio («tanto che il cuocoabbia il tempo di friggere le quattrocostolette») del suo ottimo lucciodel Garda in salsa.

Che dire poi del vino? AllaBorsa deve essere allegro, come ipiatti che si mangiano! Un rosso,giovane e fruttato, o una eleganteed energica bollicina di Francia-corta? Una ottima scelta potrebbedimostrarsi la Cuvée Prestige rosédi Ca’ del Bosco, con la sua tondafreschezza, la pulita mineralità e isuadenti aromi. E così il piacere, diScampolino, e di noi - altri fortunatiospiti della Borsa - sarà massimo!

BvS: il ristoro del buon lettore

suo solito tavolo. «Vuole una buonaminestra sul brodo? - No; oggi vo-glio qualchecosa di asciutto: ordi-natemi una porzione di tortellini. -Col sugo? - No, col formaggio eburro; ma che siano conditi bene!».Raccomandazione inutile, quest’ul-tima! Nadia sa cosa sono davvero itortellini. Conosce questo capola-voro di pasta ripiena in ogni detta-glio e in ogni variante. Non è caso.Non è solo passione. Ma storia. Lastoria di questo ristorante che, dagenerazioni, prepara i migliori tor-tellini che si possano mai mangiare:i tortellini di Valeggio ‘Nodod’Amore’, con ripieno di carne econdimento di burro fuso e salvia.Un tortellino confezionato, farcitoe chiuso con quel nodo d’amoreche ricorda il leggendario fazzolettoannodato lasciato da due innamo-rati sulle sponde del Mincio, prima

Ristorante Alla BorsaVia Goito, 2Valeggio sul Mincio (Vr)Tel. 045/7950093

Scampolino il sognatore e i tortellini ‘Nodo d’Amore’

La trattoria Alla Borsa e un racconto di CollodiGIANLUCA MONTINARO

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SILVIA DE LUCASilvia De Luca si è laureatapresso l’Università di Peru-gia, con una tesi sugli af-freschi della Camera Pintadella Rocca Albornozianadi Spoleto, pubblicata nel2013. Dopo il Diploma diScuola di Specializzazionein Beni Storico-Artistici,ha conseguito il Dottoratodi Ricerca, con una tesisulla facciata romanica delDuomo di San Rufino adAssisi. Le sue pubblicazioniriguardano la pittura tar-do-gotica umbra e tosca-na. È attualmente assegni-sta presso l’Università diFirenze e si occupa dellacatalogazione dell’archi-vio di Richard Offner.

MASSIMO GATTAMassimo Gatta (1959) ri-copre l’incarico, dal 2001,di bibliotecario presso laBiblioteca d’Ateneo del-l’Università degli Studi delMolise dove ha organizza-to diverse mostre biblio-grafiche dedicate a editori,editoria aziendale e aspettiparatestuali del libro (ex li-bris). Collabora alla pagina do-menicale de «Il Sole 24Ore» e al periodico «Char-ta». È direttore editorialedella casa editrice Biblo-haus di Macerata specia-lizzata in bibliografia, bi-bliofilia e “libri sui libri” (books about books), e faparte del comitato diretti-vo del periodico «Cantieri».Numerose sono le suepubblicazioni e i suoi arti-coli.

LUCA P. NICOLETTILuca Pietro Nicoletti, dottoredi ricerca PhD in storia del-l’arte, ha studiato presso leUniversità di Milano e Udine.Si è occupato di arte del No-vecento, di storia della criticae di cultura editoriale. Dopoaver insegnato storia dell’ar-te all’Accademia di Belle ArtiACME di Novara ha collabo-rato con la Civica Galleriad’Arte Moderna di Torino. Havinto una borsa di studiopresso la Fondazione GiorgioCini di Venezia. Cura perQuodlibet la collana “Biblio-teca Passaré. Studi di artecontemporanea e arti prima-rie”. Ha scritto: Gualtieri diSan Lazzaro (Quodlibet2014) e curato l’edizione discritti di Enrico Crispolti(Burri “esistenziale”, Quodli-bet 2015) e Gualtieri di SanLazzaro (Parigi era viva, 2011;Modigliani. I ritratti, 2013).

GIANCARLO PETRELLAGiancarlo Petrella (1974), bi-bliografo e storico del libro, èdal 2002 docente a contrattopresso l’Università Cattolicadi Milano-Brescia. Ha inse-gnato presso l’Università diSassari e di Bergamo. Nel2013 ha conseguito l’abilita-zione scientifica per la I fa-scia (Prof. Ordinario). È autore di un centinaio dicontributi e di una decina dimonografie (tra le più re-centi L’oro di Dongo ovveroper una storia del patrimo-nio librario del convento deiFrati Minori di Santa Mariadel Fiume, Olschki 2012; I li-bri nella torre. La bibliotecadi Castel Thun: una collezio-ne nobiliare tra XV e XX seco-lo, Olschki 2015; À la chasseau bonheur. I libri ritrovati diRenzo Bonfiglioli e altri epi-sodi di storia del collezioni-smo italiano del Novecento,Olschki 2016).

LUCA PIVALuca Piva è nato a Piove diSacco, nell’agro padovano,dopo quindici anni chev’era passata la guerra.Nell'ambito delle arti figu-rative e della letteratura, isuoi studi si rivolgono aopere e autori che hannoonorato la lingua e lo stileitaliani, privilegiandoespressioni di epoca tardaed estrema.

LUCA SINISCALCOLuca Siniscalco (1991), si èlaureato in Scienze Filoso-fiche con una tesi in Este-tica sulla rivista «Antaios»,diretta da Ernst Jünger eMircea Eliade. Attualmen-te collabora alla cattedradi Estetica dell’Universitàdegli Studi di Milano. È re-dattore di «Antarès - Pro-spettive Antimoderne»(edizioni Bietti) e collabo-ratore di «Barbadillo»,«L’Intellettuale Dissidente»e «La Tigre di Carta». Suoiarticoli e saggi sono ap-parsi su riviste e quotidia-ni, e in diverse antologie.

GIANLUCA MONTINAROGianluca Montinaro (Mi-lano, 1979) è docente acontratto presso l’Univer-sità IULM di Milano. Storico delle idee, si inte-ressa ai rapporti fra pen-siero politico e utopia le-gati alla nascita del mondomoderno. Collabora alle pagine cul-turali del quotidiano «ilGiornale». Fra le sue monografie si ri-cordano: Lettere di Guido-baldo II della Rovere(2000); Il carteggio di Gui-dobaldo II della Rovere eFabio Barignani (2006);L’epistolario di LudovicoAgostini (2006); Fra Urbinoe Firenze: politica e diplo-mazia nel tramonto deidella Rovere (2009); Ludo-vico Agostini, lettere inedi-te (2012); Martin Lutero(2013); L’utopia di Polifilo(2015).

ANTONIO CASTRONUOVOAntonio Castronuovo(1954), bibliofilo e saggi-sta, dirige varie collane perla Editrice la Mandragoradi Imola e collabora conparecchie riviste. Tra i suoi titoli: Libri da ri-dere: la vita e i libri di Ange-lo Fortunato Formíggini(2005); Macchine fanta-stiche (2007); Alfabeto Ca-mus (2011); Ossa cervellimummie e capelli (Quodli-bet 2016). Traduttore dal francese, hada ultimo pubblicato L’in-cendio e altri racconti diIrène Némirovsky, Il cer-vello non ha pudore di Ju-les Renard, Fisiologia delflâneur di Louis Huart.

ERRICO PASSAROErrico Passaro (1966) è uf-ficiale dell’AeronauticaMilitare esperto in materiegiuridiche. Giornalista e scrittore, hapubblicato oltre milleset-tecento articoli, dieci ro-manzi, centoventi rac -conti, fra cui il “triplete”per le collane da edicolaMondadori: la bianca (Zo-diac, Urania n. 1557; LaGuerra delle Maschere,Millemondi Urania n. 58),la gialla (Necropolis, Su-pergiallo n. 39), la nera(L.E.X. - Law EnforcementX, Segretissimo, n. 1591;L.E.X. - Operazione Spider,Segretissimo n. 1610; L.E.X.- Inverno arabo, Segretis-simo n. 1611).

CLAUDIO BONVECCHIOClaudio Bonvecchio è Pro-fessore Ordinario di Filo-sofia delle Scienze Socialinell’Università degli Studidell’Insubria (Varese) doveè anche Coordinatore delDottorato in Filosofia delleScienze Sociali e Comuni-cazione Simbolica. È Direttore Scientifico del-la rivista «Metabasis». Autore di innumerevolisaggi e pubblicazioni, è di-rettore di svariate collaneeditoriali per varie caseeditrici. È Member dell’Ad-visory Board della EranosFoundation di Ascona(Svizzera).

H A N N O C O L L A B O R ATO A Q U E S TO N U M E R O� �

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n. 10 – ottobre 2017

la Biblioteca di via SenatoMilanomensile, anno ix

ISSN 2036-1394

BIBLIOFILIAI libri della Crusca e le loro vicendedi giancarlo petrella

NOVECENTOLa libreriaantiquariadi Umberto Sabadi massimo gatta

IL LIBRO DEL MESEComino Ventura: un editore tra lettere e libri di letteredi roberta frigeni

EDITORIAYourcenar‘multilingue’: fralibri e traduzionidi antonio castronuovo

LETTERATURAEchi letterari di unatragedia minerariadi luca piva

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