La bellezza nell’imperfezione · Alcuni artisti come Giovanni Battista Piranesi ne hanno fatto...

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La bellezza nell’imperfezione Ci sono oggetti che sembrano emanare un’ aura attrattiva speciale. Oggetti affatto belli, per nulla perfetti, magari vecchiotti. Ma forse è proprio l’aspetto vissuto a renderli così interessanti, così seducenti ai nostri occhi. Che siano un paio di scarpe vecchie o delle ceramiche sbreccate, ognuno di noi ha sicuramente in casa uno di questi oggetti al quale è particolarmente legato (io ne ho armadi pieni!). Spesso il fascino misterioso di questi oggetti umili, anonimi sta proprio nel loro essere imperfetti . Certo, tutti noi ammiriamo le cose belle e nuove ma poi ci affezioniamo a quelle nelle quali il tempo ha impresso una storia, oggetti che sanno evocare il passato e nella cui imperfezione rivediamo noi stessi con i nostri difetti, le nostre debolezze. In genere hanno qualità visive e tattili assolutamente uniche. Pensate ai legni spiaggiati , quelli che il mare ha levigato e decolorato sino a ridurli a scheletri inariditi…

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La bellezza nell’imperfezione

Ci sono oggetti che sembrano emanare un’aura attrattiva speciale. Oggetti affattobelli, per nulla perfetti, magari vecchiotti.

Ma forse è proprio l’aspetto vissuto a renderli così interessanti, così seducenti ainostri occhi.

Che siano un paio di scarpe vecchie o delle ceramiche sbreccate, ognuno di noi hasicuramente in casa uno di questi oggetti al quale è particolarmente legato (io ne hoarmadi pieni!).

Spesso il fascino misterioso di questi oggetti umili, anonimi sta proprio nel loro essereimperfetti.

Certo, tutti noi ammiriamo le cose belle e nuove ma poi ci affezioniamo a quelle nellequali il tempo ha impresso una storia, oggetti che sanno evocare il passato e nellacui imperfezione rivediamo noi stessi con i nostri difetti, le nostre debolezze.

In genere hanno qualità visive e tattili assolutamente uniche. Pensate ai legnispiaggiati, quelli che il mare ha levigato e decolorato sino a ridurli a scheletri inariditi…

“Objet trouvé“, così li chiamavano gli artisti del primo Novecento. Oggetti trovati percaso, scarti, rottami carichi di storia che fanno risuonare qualcosa dentro di noi.

Per Le Corbusier erano “oggetti a reazione poetica“: ossa, conchiglie, sassi e partimeccaniche ricchi di potenziale estetico ed immaginativo. Collezionava questi reperti, lifotografava e li disegnava più volte per svelarne la bellezza della forma, la precisionedel lavoro della natura e magari riprenderne la struttura nei suoi progettiarchitettonici.

Ma l’estetica degli oggetti poveri, dei ruderi e dei frammenti è molto antica.

Già nel Rinascimento Botticelli e Mantegna mostrano una forte attrazione per tutto ciòche rappresenta un passato lontano, per le rovine classiche in tutta la loro splendidadecadenza.

Ma è tra Neoclassicismo e Romanticismo che il rudere vede il suo momento dimaggior gloria. Alcuni artisti come Giovanni Battista Piranesi ne hanno fattoaddirittura il tema di tutta la loro produzione.

È il momento in cui l’amore per la classicità (o nel caso di Freidrich per le rovinegotiche) si trasforma in una sorta di devozione feticistica del rudere pittoresco chesuscita nostalgia e bisogno di preservarne la memoria.

Sarà John Ruskin, a metà Ottocento, a teorizzare il culto per le rovine romantiche ne“Le sette lampade dell’architettura”.

Con significati completamente diversi, le rovine contemporanee sono stateoggetto degli scatti di Gabriele Basilico. Le foto di Beirut del 1991 non hanno nulla di

romantico testimoniando, al contrario, le ferite di una città colpita al cuore ma ancoraestremamente dignitosa.

Ma nella storia dell’arte non si trovano solo grandi vestigia architettoniche: fin daitempi di Caravaggio, infatti, l’attenzione è andata anche alle piccole cose cheportano i segni del tempo.

Pensate alla celeberrima Canestra di frutta. L’apparente perfezione realistica dellacomposizione nasconde una natura in decomposizione, un senso di bellezza sfioritae di transitorietà delle cose terrene: la mela è bacata, l’uva sta per marcire, le foglie divite si stanno già accartocciando.

Sembrano i frutti colti da quel Giardino della Sofferenza di cui racconterà GiacomoLeopardi più di duecento anni dopo:

“Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nellapiù mite stagion dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voinon vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in stato di souffrance,qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; sicorruga, langue, appassisce…”.

C’è in Caravaggio e soprattutto in tanti pittori fiamminghi del Seicento, larappresentazione della Vanitas, una natura morta con elementi simbolici allusivi altema religioso della caducità della vita.

Questa denominazione deriva dalla locuzione latina biblica “vanitas vanitatum etomnia vanitas” (“vanità delle vanità, tutto è vanità”) e, come il “memento mori”(“ricordati che devi morire”), è un ammonimento all’effimera condizione dell’esistenza.

Si tratta di un genere pittorico che ha avuto grande diffusione in età barocca,soprattutto in Olanda, a causa del senso di precarietà che investì l’Europa in seguitoalla guerra dei trent’anni e al dilagare delle epidemie di peste.

È con questa chiave di lettura che va osservata la famosa Lattaia di Jan Vermeer. Unadonna umile, in una stanza spartana, che compie un gesto semplice come versare illatte da una vecchia brocca. Il tutto con la cura che meritano i gesti nobili e il rispettoverso ciò che è prezioso.

Un gesto, quello della lattaia, talmente intenso e universale da aver meritato i versidella poetessa polacca Wislawa Szymborska:

Finché quella donna del Rijksmuseum nel silenzio dipinto e in raccoglimento,giorno dopo giorno versa il latte dalla brocca nella scodella,il mondo non merita la fine del mondo.

La stessa bellezza nascosta nelle piccole cose vissute e rovinate dal tempo èpresente in tante opere di Van Gogh. Stanze squallide, sedie impagliate e vecchiscarponi sono trasfigurati attraverso le pennellate dense e decise del pittoreassumendo una nobiltà e una dignità che l’occhio comune non sa cogliere.

“Su questa terra vorrei restare eternamente fra le primule gialle e le assi del soffittoche marciscono“, scriveva Vincent in una nelle sue lettere.

Pochi anni dopo toccherà alla poesia crepuscolare decantare il fascino nostalgico eintimista delle “buone cose di pessimo gusto” per dirla alla Gozzano.

Caminetti tetri, lampadari vetusti, acquerelli un po’ scialbi. In pratica simili agli ambientiche in questi ultimi due anni ha fotografato Rebecca Litchfield con il suo progetto“Orfani del tempo“…

… o le stanze spoglie e silenziose che usa dipingere Matteo Massagrande.

In effetti la letteratura ha sempre mostrato una forte predilezione per gli oggettidesueti e inutili che il tempo, dopo aver logorato, ha anche nobilitato.

Scrive Sciascia ne Le parrocchie di Regalpetra: “Il paese è umido. Non una di questecase è nata dentro l’occhio di un architetto; murate a gesso, si intridono di nebbiacome carta assorbente, fioriscono all’interno di muffe. Vecchie case con stanze cheescono una dall’altra a cannocchiale, con scale storte e ripide. D’inverno ardono nellestanze bracieri di quell’arida carbonella di gusci di mandorle, il calore risveglia un acresentore di gatti, muffa e piscio di gatti. Nelle case terragne i poveri riempiono vecchiebacinelle a smalto o tegami di coccio di una brace più effimera, i groppi delle fave o lestoppie del grano che bruciano prima nei forni“.

Molti fotografi vanno a caccia proprio di posti simili, pronti a catturare quest’atmosferadi malinconico disfacimento. Come moderne vanitas laiche, le architettureabbandonate stanno a ricordarci la perdita del nostro passato in un mondo checonsuma continuamente il nuovo abbandonando memorie e valori.

D’altro canto la patina che riveste tutto ciò che è invecchiato rende la materia anchepiù bella di quando è nuova… e questo è il motivo per cui le lamiere arrugginite, levernici spellate e gli intonaci scrostati sono tanto interessanti!

La materia, dunque, specialmente quando racconta di una sua “sofferenza” appareestremamente espressiva. E di questo se n’è accorto anche Alberto Burri quando,negli anni Cinquanta, iniziò ad incollare sulla tela pezzi di juta, pellicole di plasticabruciata o strani impasti capaci di fratturarsi come zolle arse di terra.

La bellezza dell’imperfezione è portata da Burri all’ennesima potenza quando realizza ilGrande Cretto, un’opera di land art che ingloba i ruderi di Gibellina, città rasa alsuolo dal terremoto del Belice, in Sicilia, nel 1968.

La desolata distesa di cemento è scavata, come nei quadri fratturati, dai solchi cheripercorrono il tracciato delle strade originali. Come una grande pietra tombaleconserva i resti di un città cancellata dalle carte geografiche dalla violenza della natura.

Dunque c’è una bellezza in ogni cosa, c’è una storia in ogni oggetto.

Anche uno scolabottiglie, un vecchio sellino con un manubrio o un gruppo distampelle per indumenti possiedono un potenziale estetico. Si tratta solo di guardarlicon occhi diversi, con lo sguardo della creatività.