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La bambola e il mostro Un’indagine tematica sull’opera della Contessa Lara Enrico Tiozzo ARACNE

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La bambolae il mostro

Un’indagine tematica sull’operadella Contessa Lara

Enrico Tiozzo

ARACNE

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I edizione: gennaio 2008

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Indice

7 Prefazione 9 Capitolo I Identificazione di una tematica 43 Capitolo II Implicazioni letterarie di una vicenda umana 77 Capitolo III La bambola in versi 111 Capitolo IV La bambola e il mostro 145 Capitolo V Riscontri tematici nelle novelle sparse 191 Capitolo VI La bambola e i topi 237 Conclusioni 243 Bibliografia Indice dei nomi

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Prefazione 6

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Capitolo I

Identificazione di una tematica Dobbiamo ad Antonia Arslan (oltre ad una quantità ormai vastis-

sima d’illuminanti studi sulla letteratura italiana cosiddetta “minore” o “di consumo” tra Otto e Novecento) il merito di aver fatto chiarezza in modo inequivocabile su alcuni problemi relativi all’annosa questione della “letteratura femminile” di quel periodo storico in Italia e della sua mancata collocazione nel canone storiografico ufficiale. Aprendo infatti, con un suo intervento, la pubblicazione degli Atti del Conve-gno sulla Marchesa Colombi, tenutosi a Novara nella primavera del 2000, la Arslan respingeva finalmente con decisione l’etichetta ghet-tizzante di “femminile”, troppo a lungo inscindibile da una produzione che in realtà non ha bisogno di ulteriori precisazioni di appartenenza per inserirsi di diritto nella nostra letteratura, indipendentemente dal sesso di chi la mise sulla carta1. Nello stesso tempo la Arslan rico-

1 Cfr. Antonia Arslan, “L’opera della Marchesa Colombi nel panorama della narrativa ita-

liana fra Otto e Novecento”, in: La Marchesa Colombi: una scrittrice e il suo tempo, Atti del convegno internazionale, Novara 26 maggio 2000, Novara 2001, p. 13: “Tuttavia nel momen-to in cui con Silvia Benatti e Roberto Cicala, che ringrazio perché si deve alla loro dedizione appassionata la realizzazione di questo convegno, parlavamo del titolo, abbiamo volutamente deciso di togliere dal titolo del mio intervento l’aggettivo ‘femminile’. Perché ci è parso molto importante, ci è parso essere giunto infine il momento di essere non solo propositivi, ma an-che audaci (come si dovrebbe essere sempre nello stagnante panorama culturale italiano!): la scrittura ‘femminile’ dell’Ottocento va ormai studiata insieme con la scrittura ‘maschile’; va ricostruito il tessuto culturale dell’epoca come era, con i reciproci influssi, conoscenze, amici-

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Capitolo I 10

nosceva (coraggiosamente e con l’autoironia di chi si stava accin-gendo a scrivere un romanzo di ampio e meritato successo2) che, nelle opere di mano femminile, il discorso scorre sempre ― e forse ecces-sivamente ― fluente, nel segno di un’estrema facilità di parola che è sí gioia di raccontare ma che può anche essere interpretata come la mancanza di una piú severa autocoscienza critica3. Produzione lettera-ria dunque assai vasta, di qualità alterna4 e appartenente senza discus-sioni di sorta alla buona letteratura italiana a cavallo tra due secoli senza bisogno di restrizioni che la limitino o la ghettizzino. Su questa caratterizzazione, che a noi appare incontrovertibile, non sono però sempre d’accordo i molti studiosi che (ripetutamente e soprattutto ne-gli ultimi decenni) hanno affrontato la questione. I toni ricorrenti sono per lo piú quelli dello sdegno per una grande letteratura ingiustamente (e ― spesso si aggiunge ― subdolamente) dimenticata ad opera di una congiura critico–storiografica maschile5, tanto perfida almeno zie e inimicizie, frequentazioni di salotti e discussioni letterarie. Verga, Capuana, Neera, Con-tessa Lara e Marchesa Colombi, per esempio, frequentavano insieme il salotto della contessa Maffei a Milano, leggevano Zola (rigorosamente in francese!), parlavano di realismo, elabo-ravano idee.”

2 Cfr. Antonia Arslan, La masseria delle allodole, Milano 2004. 3 Cfr. Antonia Arslan, “L’opera della Marchesa Colombi nel panorama della narrativa ita-

liana fra Otto e Novecento”, op. cit., p. 11: “Fra Dame, droga e galline, il libro sul romanzo popolare italiano fra Ottocento e Novecento, uscito in prima edizione nel 1977, e Dame, gal-line e regine, il mio recente volume sulla scrittura femminile italiana dello stesso periodo, cor-re un filo di continuità […]. Nel titolo del secondo libro sono infatti le galline che restano, e diventano centrali, sia perché io sono del parere che, nell’occuparsi di scrittura femminile, un pizzico di autoironia è salutare e gustoso, sia perché questa autoironia non è priva di una pun-ta di serietà. La gallina è animale utilissimo, che simboleggia la chiacchiera e la parola facile: ma senza la chiacchiera femminile non ci sarebbe la scrittura femminile e il chiacchierare, cioè il parlare in casa, è uno degli elementi fondamentali della tipologia specifica della scrittu-ra e dello stile peculiare della scrittura femminile.”

4 Ibid., p. 16: “Naturalmente, nessuna di queste scrittrici va rivalutata in blocco, perché di nessuna di loro, ma neppure di Verga, o di D’Annunzio, né di nessun altro degli scrittori del secondo Ottocento, si può dire che sia un capolavoro tutto quello che scrive. È vizio tutto ita-liano e tutto retorico quello di mettere sullo stesso livello di eccellenza tutto quello che scrive un autore affermato. C’è in verità negli scrittori dell’epoca molta dispersione, dovuta alla ne-cessità di guadagnare, e di essere sempre presenti sul mercato. Qualche volta si scrive per i soldi, per dovere, per bisogno; qualche volta semplicemente non si indovina il timbro di quel-lo che si voleva scrivere. Per uno scrittore del secondo Ottocento, essere ricordato per un libro o due è già un grande successo.”

5 Cfr. Giuliana Morandini, “Introduzione” in: La voce che è in lei. Antologia della narra-tiva femminile italiana tra Ottocento e Novecento, Milano 1980, p. 6: “I critici, anche quelli che più sollecitavano il loro esprimersi, ritenevano spesso opportuno relegare questa produ-

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quanto era stata l’attitudine degli uomini che avevano reso insopporta-bile la vita alle segregate ed umiliate scrittrici nell’Italia tra Otto e No-vecento. Questo è infatti, a grandi linee, l’atteggiamento di Giuliana Morandini6, in un lavoro del 1980, ritenuto ormai classico e sempre ampiamente citato da chi affronta questo argomento. Nel lodevole in-tento di dare (o ridare) voce a chi ― secondo il suo giudizio ― non aveva avuto la possibilità di farla risuonare, la Morandini ripercorre con attenzione le tappe della letteratura femminile dell’Ottocento, in-sistendo però (malauguratamente secondo noi) proprio sulla “femmi-nilità” di questa produzione letteraria, nella quale ritiene di poter indi-viduare il suo carattere distintivo7. Non condividiamo questa interpre-tazione che finisce sistematicamente per portare fuori strada la Moran-dini non appena la studiosa restringe la sua analisi ad un’opera specifi-ca. È il caso proprio della Marchesa Colombi e del suo celebre In ri-saia, del quale la Morandini mette in risalto soprattutto l’aspetto dello sfruttamento della donna nell’Italia dell’ultimo quarto dell’Ottocento8. L’angolo visuale della Morandini ci sembra falsato e non è effettiva-mente supportato dalla lettura del testo della Marchesa Colombi. Non

zione in una sfera minore, da valutarsi quasi come curiosità, e, quando l’interesse dei testi non consentiva tale angustia, erano pronti a scorgervi un superamento della condizione femminile. Riserve che sono divenuti luoghi comuni […].”

6 Ibid., pp. 5–6: “Per un tempo lungo e oscuro le donne nella società occidentale sono sta-te confinate nel silenzio, e quasi con ironia lodate per questo forzato tacere. Hanno contato co-me oggetti nello scambio linguistico. […] Immagine privilegiata della letteratura e di ogni produzione artistica, la donna non è, se non raramente e in modo occasionale, riuscita a di-ventarne soggetto. Anziché essere protagonista e autrice, costantemente è apparsa destinata, come altre figure subalterne, a essere oggetto di rappresentazione, a raccogliere le proiezioni e il disagio del corpo sociale senza avere voce. E quando qualche personalità ha conosciuto for-tuna autonoma è stato soprattutto perché, al di là delle ragioni e delle idee, dava scandalo e rientrava in una certa economia di piacere potenziando la seduzione. L’età moderna ha indub-biamente inasprito la soggezione della donna, proclamandola inferiore per natura ma in verità valutandola secondo più decisivi criteri di partizione del lavoro e di efficientismo.”

7 Ibid., p. 9: “Sono le scrittrici nate nel 1880–1890 che, al di là della soggezione e della polemica, arrivano a indagare lucidamente l’esistenza femminile, riconoscendovi una specifi-cità inedita, drammatica.”

8 Ibid., p. 14: “La vicenda narrata dalla Colombi riguarda il lavoro malsano delle risaie. Con le gambe nell’acqua putrida la Nanna cerca di guadagnarsi gli spilloni d’argento delle nozze, si ritrova invece ammalata di malaria, con la vita sbarrata dopo il sogno. […] Le donne sentono che lo strutturarsi dell’ordine borghese, la sua maggiore intransigenza in rapporto al decollo industriale, preme contro di loro in modo elettivo e che i maschi, anche se innovatori e bohémiens, non risultano in tali frangenti alleati sicuri.”

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Capitolo I 12

solo infatti In risaia, secondo noi, è tutto incentrato sull’ossessione amorosa della protagonista, Nanna, per lo spensierato seduttore Gau-denzio e, piú in generale, sull’idea fissa di trovare un marito bello e affascinante (dove l’episodio del duro lavoro in risaia è in realtà assai breve anche se molto importante), ma soprattutto è necessario sot-tolineare che lo sfruttamento innegabile, che si legge in quelle pagine e di cui la Morandini vede solo il lato che affliggeva le donne, colpiva in realtà indistintamente uomini e donne, fianco a fianco in una vita contadina avara di piaceri e segnata per tutti da un pesante lavoro. Non si capisce insomma, seguendo il criterio analitico della Morandini, in quale modo il padre di Nanna (pronto a levarsi il pane di bocca per comprare gli argenti alla figlia9) o il fratello della ragazza (disperato al punto di essere pronto al suicidio10) sarebbero stati meno umiliati dalla vita o meno sfruttati dalla società, dell’egocentrica e narcisista pro-tagonista del fortunato romanzo della Torelli–Viollier. L’unico e vero dramma di Nanna (che poi ― come vedremo ― è lo stesso dramma che ritorna nella maggior parte della produzione di cui si occupa la Morandini) è in realtà quello dell’amore infelice e del matrimonio mancato. È lei a decidere (insistendo contro il parere dei genitori11) per andare a lavorare nella risaia allo scopo di impinguare la sua dote e accelerare l’acquisto degli argenti, oggetti legati unicamente all’amore e al matrimonio. E l’unica “tragedia” del romanzo (sulla quale molto, volendo, si potrebbe scrivere oggi sia per l’eccessivo tributo al narci-sismo che per la gravosa datazione del testo) è quella della perdita dei capelli (e dunque di una delle componenti della bellezza estetica, su

9 Cfr. La Marchesa Colombi, In risaia. Racconto di Natale (1878), a cura di Silvia Benatti

e Cesare Bermani, Novara 2001, p. 24: “Pover’uomo. Trenta lire! Trenta giornate di sudore, trenta gocce del suo sangue! Le dava, là, sulla tavola, per comperare degli spilli; lui, che vive-va di legumi e di cattivo pane di gran turco, e mangiava appena un po’ di carne nelle grandi solennità, e beveva acqua tutta la settimana, e lavorava da un capo dell’anno all’altro come un condannato!”

10 Ibid., p. 103: “A quelle parole i nervi di Pietro, tanto lungamente eccitati, si allentarono; abbandonò il braccio della Nanna, ricadde a sedere, e gettando sulla tavola un coltello affilato che teneva nella tasca del farsetto, disse con voce cupa: ― Hai giocato un brutto gioco, guar-da. Mi sarei ammazzato! E scoppiò in un pianto convulso.”

11 Ibid., p. 37: “Intanto s’era ai primi di giugno, e la Nanna s’impazientiva di quella lunga assenza. Si provò a dire ai suoi vecchi: ― Vorrei andare a mondare i risi. ― Lascia un po’ stare per quest’anno, disse Martino. Ti sei già pigliate le febbri. ― Che male mi hanno fatto le febbri? Mi son fatta più grande e mangio più di prima.”

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cui si esprime beffardamente la stessa Marchesa Colombi nelle vesti di narratrice12) con la conseguenza, per Nanna, di non poter piú spo-sare Gaudenzio13. E non dimentichiamo che la Nanna tratteggiata dalla Marchesa Colombi era altrettanto preoccupata (prima della perdita dei capelli) per la scarsa abbondanza del suo seno, messa spesso in risalto dai grossolani commenti di Gaudenzio14. Insomma, un chirurgo esteti-co avrebbe reso felice Nanna (seno e capelli) e il “dramma” di In ri-saia non si sarebbe piú svolto. È proprio il caso allora di parlare del romanzo come di un luminoso esempio di quanto soffrissero e fossero sfruttate le povere donne del secondo Ottocento?

Altrettanto discutibile è la lettura che la Morandini fa dell’altro ce-lebre romanzo della Marchesa Colombi, Un matrimonio in provincia, nel quale ritiene di vedere analizzato a fondo “lo squallore in cui la donna soffoca”15. Il romanzo è troppo conosciuto ed ha goduto di trop-pa fortuna critica per richiedere qui un’analisi approfondita ma, ancora una volta, ci sembra evidente che lo squallore, di cui a ragione parla la Morandini, non fosse riservato esclusivamente alla condizione femmi-nile ma coinvolgesse anche quella maschile16. Nella riedizione novare-

12 Ibid., p. 53: “Secondo il suo modo di sentire, la Nanna credeva che tutta la famiglia a-

vrebbe dovuto mettersi alla caccia d’un mezzo per riparare alla disgrazia toccata a lei; con-sultare medici e comperare medicine, che le restituissero la bellezza perduta. E nel caso che questo miracolo non fosse riescito, il meno che avrebbero potuto fare babbo, mamma, fratello, parenti ed amici, sarebbe stato di passare il resto dei loro giorni in querimonie su quell’unico argomento: ― Questa povera Nanna, che non ha più capelli! ― E dire che ne aveva tanti! ― E così belli! ― E chissà se potrà ancora trovar marito? Lo potrà? Non lo potrà? E sempre: Povera Nanna! ripetuto su tutti i toni e semitoni della meraviglia, del cruccio, della pietà. Ma quella poveraglia, che s’alzava all’alba tutti i disgraziati giorni che Dio manda sulla terra, e lavorava fin al tramonto per risolvere il miserabile problema del pane quotidiano, aveva ben altro a fare, che almanaccare sulle trecce e le calvizie della Nanna.”

13 Ibid., p. 60: “[…] e poi lei non aveva più diritto di fare la schizzinosa. Le bastava di po-tersi maritare come le altre. Senza dubbio avrebbe preferito Gaudenzio che aveva soltanto tre anni più di lei… e poi era Gaudenzio! Ma quello là non era più un partito per lei a quell’ora.”

14 Ibid., p. 37: “Poi, coll’usata brutalità, aveva soggiunto, facendosi scorrere una mano sul petto, e guardando il povero seno piatto della Nanna: – Ma mi pare che qui vi sia passata la pialla di San Giuseppe. La Nanna s’era confusa, e, voltandogli le spalle, era fuggita in cucina.”

15 Cfr. Giuliana Morandini, “Prefazione”, in: La voce che è in lei, op. cit., p. 16. 16 Cfr. La Marchesa Colombi, Un matrimonio in provincia (1885), Novara 1993, pp. 22–23: “Il

babbo si ammogliò con una vecchia signora, che conoscevamo da un pezzo, e che ci dava una gran suggezione. […] Noi credevamo che avesse cinquant’anni, era l’ultima espressione della vecchiaia: l’età della zia. Seppimo più tardi che ne aveva quarantatré. Ma per noi era lo stesso. Figurarsi che ridere, quando udimmo che il babbo la sposava! Egli ci disse: – Capirete, figliole, che lo faccio nel vostro interesse. Io ho un piccolo, piccolo patrimonio; lo studio non frutta molto; la dote di vostra

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se del 1993 è ancora la Morandini che, nella prefazione, insiste sui suoi tradizionali cavalli di battaglia a proposito della Marchesa Co-lombi: l’opera dimenticata17 (affermazione poi subito parzialmente contraddetta18), la sua eccellenza19, l’attenzione all’emarginazione del-la donna20, l’insistenza (che non è solo della Morandini e che troviamo esagerata) sulla straordinaria ironia dell’autrice21. In realtà Un matri-monio in provincia presenta molte analogie con In risaia e mette di nuovo ossessivamente al centro la fissazione, pressoché patologica22, della protagonista sul proprio aspetto fisico23, sul grande amore che madre si riduce a diecimila lire. Questa buona signora ha sessantamila lire, che un giorno o l’altro toccheranno a voi, perché non ha parenti, e vuol bene a me… Inoltre si occuperà un poco di voi, che ora siete grandi, ed avete bisogno d’un’assistenza, che la zia non saprebbe prestarvi…”

17 Giovanna Morandini, “Ritratto della Marchesa Colombi. Prefazione” in: Marchesa Co-lombi, Un matrimonio in provincia, op. cit., p. 7: “Come molte scrittrici del nostro Ottocento, anche la Marchesa Colombi, nota in vita e apprezzata dalla letteratura alta, persino da Bene-detto Croce, è andata incontro a una totale dimenticanza.”

18 Ibid., p. 7: “La riscoperta è avvenuta di recente, quando nel 1973 Italo Calvino ha scelto per la collana di Einaudi ‘Centopagine’, il romanzo Un matrimonio in provincia. Il racconto è piaciuto e ha avuto una sceneggiatura televisiva di buona fattura.”

19 Ibid., pp. 7–8: “La protagonista, la Denza, con la sua educazione sentimentale incolore e il matrimonio senza storia è un personaggio di gran felicità. Ma più mi ha colpito, avvici-nando la prosa della Colombi, il tratto arguto, la sottile ironia e lo schietto umorismo, con ef-fetti del tutto particolari. […] Da un lato una vena felicemente naturalista, con notevole capa-cità di registrare la società del tempo; dall’altro la verve da salotto, piena di brio e di intelligenza, con punte quasi alla Gadda e all’Arbasino, in una linea di schietta sensibilità lombarda.”

20 Ibid., p. 10: “Tre ritratti indimenticabili, Nanna, Denza, e Amalia, nello spirito del gran naturalismo di Lombardia. […] Su queste giovani si posa un’attenzione commossa: sono e-marginate, non tanto dagli eventi della storia (come lo è la manzoniana Lucia), bensì da una condizione quotidiana senza luce, neppure sfiorata dalla storia. Contadine povere, confinate in un orizzonte chiuso. E a loro si apparentano altre donne, forse meno immerse nella miseria ma egualmente colpite nei sentimenti, nella gioia di vivere.”

21 Ibid., pp. 11–12: “Già la presentazione della poetica è un capolavoro d’ironia. […] La storia vera è un pretesto per pezzi di bravura, dove la verve e la vivacità del tratto dominano in modo irresistibile. Si veda come la Colombi sa intrattenersi sull’entusiasmo della virtù del-le nobildonne milanesi che ingannano la noia con la pratica della beneficienza; ne nasce un pezzo d’antologia […].”

22 Cfr. La Marchesa Colombi, Un matrimonio in provincia, op. cit., p. 30: “L’avviso di non montarmi la testa colla bellezza, ottenne precisamente il risultato opposto. Mi montai la testa, non pensai più ad altro che al piacere d’esser bella. Che questo non mi rendesse né più buona, né più fortunata, né più amata, non me ne importava nulla. Era certo che mi rendeva ammirata, e questo mi lusingava”.

23 Ibid., pp. 27–29: “Intanto avevo compiti i sedici anni. Ero cresciuta molto, ed anche mi ero sviluppata in proporzione. Gli abiti mi scricchiolavano sulla vita, e spesso si aprivano nel-le cuciture delle maniche e del dorso; e sul petto ne saltavano via i bottoni o si squarciavano gli occhielli, che era una disperazione. […] Molte volte avevo colte al volo certe parole di

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Identificazione di una tematica 15

deve arrivare e sul matrimonio che cambierà tutta la sua vita24. È un aspetto ossessivamente centrale (nella narrativa della Marchesa Co-lombi come in quelle di altre scrittrici del tempo), su cui la Morandini curiosamente sorvola e di cui non riesce a scorgere l’assoluta man-canza d’ironia25. Pur muovendosi in due ambienti profondamente di-versi (la campagna e la città) Nanna e Denza, le due protagoniste di In risaia e Un matrimonio in provincia, sono personaggi molto simili e la storia delle loro allucinate illusioni sull’amore si conclude, per en-trambe, con un matrimonio cosiddetto di convenienza ma accettato se-renamente, al punto di poter senz’altro parlare di lieto fine per tutti e due i romanzi. La tanto celebrata ironia della Marchesa Colombi (sulla quale è apparsa una raccolta di saggi nel 199826 a parziale smentita della leggenda, alimentata dalla Morandini e da altri, sull’oblio tocca-to alla Torelli–Viollier) è, secondo noi, legata soprattutto ad una visio-ne caricaturale della realtà, che accentua e deforma, sfalsandoli, alcuni aspetti della società, degli ambienti e dei personaggi descritti dalla scrittrice. Questo meccanismo (applicato poi anche alle vicissitudini sentimentali della protagonista, interpretate però come una denuncia anziché come una farsa dalla Morandini) ci appare evidente già nella presentazione che Denza fa della sua casa che, pur essendo (come poi risulta dalla lettura delle pagine successive di Un matrimonio in pro-vincia) la normale casa di una famiglia non povera della piccola bor-ghesia nella Novara degli ultimi decenni dell’Ottocento, viene però raffigurata attraverso una studiata ridicolizzazione27 che cerca a tutti i quei signori che mi guardavano in istrada… ‘Bel pezzo di giovane… Bella faccia… Begli oc-chioni… Fresca come una rosa…’.”

24 Ibid., p. 32: “Allora, riservandomi di confessare poi tutto insieme e di farmi assolvere in blocco, m’abbandonai alla gioia colpevole di pensare che ero bella, e che, fra quei tanti che me lo dicevano passando e tiravano via, ce ne sarebbe uno che non tirerebbe via; che torne-rebbe indietro, mi seguirebbe da lontano fino a casa, poi entrerebbe nello studio del babbo a domandarmi in isposa.”

25 Ibid., p. 88: “I singhiozzi cominciavano a gonfiarmi il petto e stringermi la gola. Resi-stetti un minuto, poi m’abbandonai nelle sue braccia, piangendo disperatamente, ed esclaman-do che volevo morire, che volevo farmi monaca, che non volevo più stare a Novara neppure un giorno, e che non volevo più uscir di casa, e che tutti vedendomi avrebbero riso di me, e che sarei morta di vergogna.”

26 Cfr. Clotilde Barbarulli e Luciana Brandi, L’arma di cristallo. Sui “discorsi trionfan-ti”, l’ironia della Marchesa Colombi, Ferrara 1998.

27 Cfr. La Marchesa Colombi, Un matrimonio in provincia, op. cit., p. 15: “Avevamo una casa… Dio che casa! Un’anticamera, di grandezza naturale, ma chiara che abbagliava, e per-

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Capitolo I 16

costi di essere divertente ma che, al fine di divertire, deforma e falsa volutamente la realtà che circonda l’io narrante. La dettagliatissima descrizione, che si prolunga per ben tre pagine in un romanzo che ne conta solo cento, appare prima di tutto sproporzionata alla pochezza della casa che ne è immeritatamente al centro. Se la casa era tanto brutta, spoglia ed insignificante c’era veramente bisogno di dedicare il 3% dello spazio del romanzo alla sua minuziosa descrizione? Ed è for-se credibile che, nella casa di Denza, non ci fossero tende alle finestre, non si innaffiassero le piante, si mangiassero vecchi avanzi e ci fosse chi era costretto a dormire dietro un paravento in cucina? Il capofami-glia era un notaio e le cifre in denaro che vengono nominate sul patri-monio della moglie si aggirano sulle settantamila lire, pari a circa due-centomila euro di oggi, vale a dire una grande ricchezza. Questa vo-luta deformazione della realtà, rilevata anche dalla Arslan28, (che è im-portante sottolineare perché toglie peso alla sedicente denuncia dello sfruttamento della donna, che la Morandini ed altri ritengono una delle componenti principali nell’opera della Marchesa Colombi) si riscontra anche nella descrizione che Denza ci fornisce dell’uomo di cui s’inna-mora, l’ambito e titubante pachiderma29. Ci sembra cosí, nel comples-so, esagerato e non condivisibile il giudizio della Morandini che vede nella Denza di Un matrimonio in provincia e nella Nanna di In risaia dei “ritratti indimenticabili […] nello spirito del gran naturalismo di

fettamente vuota. Non c’era dove posare un cappello. Alcuni testi con un resto di terra arsiccia e dei mozziconi di piante, morte di siccità, perché nessuno si era mai curato di innaffiarle, la ingombravano qua e là, e servivano, quando occorreva, a tener aperto l’uscio che metteva in sala. La sala vasta, quadrata, chiara, troppo chiara, perché non c’erano né tende, né cortine, né trasparenti alle finestre […].”

28 Cfr. Antonia Arslan, “L’opera della Marchesa Colombi nel panorama della narrativa tra Otto e Novecento”, op. cit., p. 16: “Ma la peculiare novità stilistica di Un matrimonio in pro-vincia, non dimentichiamolo, è quella di essere un romanzo pervaso di surreale ironia, qualità questa rarissima in Italia […].”

29 Cfr. La Marchesa Colombi, Un matrimonio in provincia, op. cit., p. 47: “Io guardai a tutt’occhi, vidi dei cappelli che si movevano, ed un gruppo di uomini fra i quali campeggiava in un lungo soprabito grigio, una specie di elefante. Mi si strinse il cuore, e domandai sbi-gottita: – Qual’è? – Il più grasso; ma non farti scorgere. Ero tutta turbata. Quella mole supera-va ogni mia immaginazione. Sì, lo avevano detto che era grasso, lo sapevo; ma avevo sempre cercato di attenuare la cosa, di conciliare la pinguedine colla gioventù, colla sveltezza… Inve-ce era un coso tutto d’un pezzo, colle spalle poderose, alte, quadrate, il petto sporgente, il col-lo corto ed una grossa testa coi capelli neri, lisci, lisci, e gli occhi neri, grossi, sporgenti. Mi parve un vecchio.”

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Lombardia”30, né possiamo essere d’accordo con Cesare Bermani che definisce In risaia “un romanzo che sta al crocevia di alcuni tra i piú importanti filoni culturali dell’Ottocento”31. Bermani insiste sull’ag-gancio alle “grandi questioni socio–economiche poste dalla produzio-ne agricola”32, sulla “scoperta della multiformità della vita sociale”33, su “una letteratura che denuncia la compresenza con lo sfruttamento della particolare condizione di squallore che soffoca la donna nei piú diversi ambiti sociali”34 e vede in In risaia una sorta di meritoria “in-chiesta sulla risaia novarese”35 e “la prima ricerca approfondita sul folklore delle campagne novaresi”36 e via di questo passo a proposito di “questo romanzo così crudo sulla vita dei contadini del basso Nova-rese”37. Se ne ricava complessivamente l’immagine, forse interessante ma certamente non avallata dal testo della Marchesa Colombi, di un’opera incentrata sui drammi legati alla miseria dei contadini e so-prattutto al duro lavoro delle mondine. In effetti però ― controllando il testo e non accettando per buona l’interpretazione in chiave sindaca-le del Bermani ― si può constatare che le pagine dedicate dalla Mar-chesa Colombi al lavoro di Nanna nella risaia sono solo una ventina sulle cento del romanzo. L’80% del racconto è invece la cronaca det-tagliata di un’ossessione narcisistica e sentimentale che logora i nervi della protagonista nel disperato rimpianto della bellezza perduta e nel mai deposto sogno di un matrimonio radioso con un uomo giovane e bello38. Né la vita condotta da Nanna e dalla sua famiglia, quale appare

30 Cfr. Giuliana Morandini, “Ritratto della Marchesa Colombi. Prefazione”, op. cit., p. 10. 31 Cfr. Cesare Bermani, “Un romanzo al crocevia di importanti filoni culturali dell’Otto-

cento”, in: La Marchesa Colombi, In risaia. Racconto di Natale, op. cit., p. 121. 32 Ibid., p. 121. 33 Ibid., p. 122. 34 Ibid., p. 122. 35 Ibid., p. 122. 36 Ibid., p. 122. 37 Ibid., p. 123. 38 Cfr. La Marchesa Colombi, In risaia. Racconto di Natale, op. cit., p. 70: “― Ebbene,

Nanna? le disse. Hai voglia o no di maritarti? ― Oh, per me… disse la Nanna crollando le spalle e voltandogli il dorso in atto vergognoso; ma le brillavano gli occhi, e si vedeva vaga-mente dinanzi un giovinotto dall’aria spavalda, con un garofano all’occhiello ed il cappello sull’orecchio. La ragione non basta ad imbrigliare la fantasia. ― Lo sposo ci sarebbe, sog-giunse il babbo. La Nanna si appoggiò coll’immaginazione al braccio del giovinotto, dal lato opposto al cappello ed al garofano, e si ammirò nel suo vestito nuziale di lana e seta cangian-te, e sorrise a quell’immagine.”

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nelle pagine del romanzo della Torelli–Viollier, si può definire mise-rabile o disperata, come dimostrano ― fra le altre cose ― le parole del padre della protagonista che si oppone decisamente al fatto che la figlia possa andare a fare la serva in città39. Concludendo questa breve analisi dei due romanzi piú famosi della Marchesa Colombi (scrittrice che non è al centro del nostro studio anche se rappresenta un impor-tante termine di paragone con la Contessa Lara), ci troviamo piena-mente d’accordo con quanto lascia intuire, con la consueta acutezza, in chiave riassuntiva generale, Antonia Arslan, nella chiusura del suo intervento40 in occasione del già citato Convegno di Novara: nessuna distinzione ghettizzante di merito tra letteratura “maschile” e letteratu-ra “femminile”, ma necessità invece di una serena visione critica che riconosca alle opere di autrici come La Marchesa Colombi ed altre, senza esagerarli e senza sminuirli, gli oggettivi meriti di una produ-zione che è parte integrante della letteratura italiana tra Otto e Nove-cento. Avvalendosi della oggettività delle date41 la Arslan dimostra ef-

39 Ibid., p. 72: “― Io non starò in casa. Andrò a fare la serva a Novara. ― Questo poi no,

ribatté Martino con una energia tutta nuova in lui. Di casa mia, nessuno è mai andato a servi-re. Può darsi che tu trovi ancora da maritarti; e, se troverai, il letto si farà; quello che è giusto è giusto. Altrimenti lavorerai in casa e fuori; ma servire in città, dove ci sono servitori, soldati, bottegai, tutti sfaccendati che insidiano le ragazze, signora no; non si deve andare.”

40 Cfr. Antonia Arslan, “L’opera della Marchesa Colombi nel panorama della narrativa tra Otto e Novecento”, op. cit., p. 21: “La grande modernità di queste scrittrici è l’umiltà con cui accettano di poter essere dimenticate, che non tutto quello che scrivono è degno di essere ri-cordato, con l’attitudine serena e consapevole di umili artigiane della penna, tessitrici della parola, che raccontano per i loro ‘ventitré lettori’ storie, come altre donne ricamano arazzi. La visione che di sé ha una donna appare in questo senso molto più completa e moderna di quella che ha invece di se stesso il grande poeta–vate che si sente investito in ogni pagina che scrive dal soffio di Zeus… Ma insomma: importante è l’uno, importante l’altra ― io non faccio gra-duatorie assolute ― ma devono interagire, essere messi a confronto, poiché è dalla loro com-plementarità, dallo studio delle loro voci insieme che si disegna una civiltà ― letteraria e u-mana ― completa.”

41 Ibid., pp. 17–19: “Prendiamo in esame il decennio 1880–1890, un decennio chiave per la modernizzazione della scrittura italiana dell’epoca, un decennio rivoluzionario che però nelle nostre storie letterarie, nei nostri repertori, in tutto quello che noi vediamo, leggiamo, studiamo a scuola è amputato della parte femminile. È come se ci trovassimo di fronte a un’unità culturale dalla quale, nella storia letteraria del Novecento, la parte femminile è stata amputata o ― peggio ancora ― viene confinata in un capitoletto a parte intitolato ad esempio, come è realmente capitato, Le donne. È una scelta ridicola. Non è questione infatti di decidere se dare alla scrittura femminile cinque piuttosto che dieci pagine; facendo così, il critico falli-sce nel suo primario compito istituzionale, che è quello di mettere le diverse voci a confronto, non importa se siano maschili o femminili, come succede per esempio nella storia letteraria

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ficacemente come la letteratura di mano maschile e quella di mano femminile procedano di pari passo in anni cruciali dell’Ottocento, co-me scrittori e scrittrici si frequentassero e si stimassero ed infine ― elemento di grande importanza sul quale ritorneremo ― come le scrit-trici fossero tutt’altro che donne relegate in casa ed escluse dall’am-biente letterario42. Per noi In risaia e ancora di piú Un matrimonio in provincia sono buoni prodotti letterari, di scorrevole lettura, limpidi nello stile, lineari nella trama ed indubbiamente arricchiti (soprattutto Un matrimonio in provincia) da un uso accorto dell’ironia. Ad impe-dire però che si possa parlare di “capolavori” o anche di “opere–chia-ve” nella letteratura italiana dell’Ottocento, contribuiscono alcune ca-renze oggettive (su cui sorvolano le studiose che abbiamo citato) come la scarsità dell’azione (sempre statica o languente) e la ripetitività del-l’ossessivo tema centrale (il desiderio di un matrimonio felice con un marito ideale) che fagocita la maggior parte delle pagine di questi due romanzi forse anche troppo fortunati a livello critico.

inglese. […] Decennio 1880–1890. Nel 1879 esce Giacinta di Capuana, opera di base, mani-festo del Verismo italiano. In quel periodo […] Capuana, Verga, Federico De Roberto, Neera, La Marchesa Colombi, Contessa Lara si conoscono tutti. A volte sentono amicizie, a volte ri-valità, comunque sono tutti nello stesso ambiente […]. Nel 1881 dunque Verga pubblica I Malavoglia. Nelle storie letterarie, in quel decennio, c’è ancora lui, con Mastro Don Gesualdo (1888–1889), e il primo romanzo di D’Annunzio, Il Piacere (1889). Ma cosa c’è nel mezzo, negli anni dal 1882 al 1888? Nel mezzo ci sono – le date parlano – alcuni romanzi fondamen-tali di mano femminile: nel 1885 Un matrimonio in provincia (e già negli anni precedenti la Marchesa Colombi aveva pubblicato due opere importanti, significative ciascuna a suo modo, In risaia e La gente per bene); fra il 1886 e il 1889 la ‘trilogia della donna giovane’ di Neera (Teresa, 1886; Lydia, 1887; L’indomani, 1889). Nello stesso decennio Matilde Serao fa uscire alcune delle sue opere più interessanti, come quel capolavoro che è La virtù di Checchina (1884) […]. Neera cioè in quegli anni (non è solo Verga a progettare un ciclo, il famoso ‘ciclo dei vinti’, anche Neera aveva letto Zola) concepisce e pubblica una trilogia di romanzi per tracciare un quadro della condizione femminile dell’epoca, indagando su vari aspetti della psicologia e della separetezza femminili.”

42 Ibid., p. 14: […] i letterati italiani in quegli anni veramente si sentono italiani e non solo napoletani, piuttosto che lombardi, perché si stabilisce fra loro una fitta rete di contatti e di co-municazioni: si scambiano continuamente favori, nel senso di proposte di collaborazione, sugge-rimenti di pubblicare su un giornale piuttosto che su un altro, perché sono professionisti, uomini e donne, legati da stima e rispetto reciproci, che pubblicano sui giornali, pubblicano per le case editrici, fanno critica d’arte, scrivono appendici (come non solo la Invernizio, ma tanti altri): in-somma, uomini e donne in carriera, che vivono del loro lavoro, se ne lamentano ma lo amano. Cancelliamo perciò l’immagine della donna che sta in casa, rinchiusa e sacrificata e che per sfo-garsi scrive il diario. Ci sono diari, ci sono certo donne–vittime e donne che piangono, ma c’è un forte gruppo di professioniste affermate che non hanno paura di niente e di nessuno.”

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Uscito nel 1886, a un solo anno di distanza da Un matrimonio in provincia e otto anni dopo In risaia, il celebre Teresa di Neera, giudi-cato molto positivamente da Antonia Arslan43, presenta (sorprendente-mente?) l’identico tema dei due romanzi della Marchesa Colombi, che abbiamo appena analizzato. Anche qui le duecento pagine del roman-zo insistono ossessivamente sul sogno della protagonista di unirsi in matrimonio con l’uomo amato, al punto che diventa difficile per chi abbia letto di seguito Un matrimonio in provincia e Teresa riuscire a tenere distinti i due libri. Certamente il tono scelto da Neera è piú drammatico e scarseggiano o mancano del tutto i momenti d’ironia surreale cari alla Marchesa Colombi, eppure la lunga e tormentosa sto-ria del consumarsi di Teresa nel sogno irrealizzabile del matrimonio con l’affascinante e scapestrato Egidio Orlandi è una ripetizione quasi pedissequa delle pene di Nanna e di Denza. Identici i meccanismi: l’avvenenza della protagonista che si guarda allo specchio44, il soffo-cante clima famigliare, l’attrazione fatale per il consueto giovane affa-scinante che ricambia le sue attenzioni, la descrizione minuziosa di tutte le fasi esagitate, prima da estasi mistica45 e poi via via sempre piú

43 Cfr. Antonia Arslan, “Introduzione. Rileggendo Teresa, o l’immagine nello specchio”

in: Neera, Teresa (1886), a cura di Antonia Arslan e Gian Luca Baio, Lecco 1995, p. 10: “Né crepuscolarismo né appendice, dunque; né mezzi–toni né grida: ma l’originalità di un’inven-zione autentica, per raccontare con la forza che meritano le violente emozioni che squassano con maggior ferocia proprio i cuori più chiusi e retti, appoggiata a una forte capacità di susci-tare nel lettore simpatia, riconoscimento, empatia. I personaggi sono studiati abilmente e schizzati con energia, variati, persuasivi. Il testo è realizzato in toni nitidi e crudi, con colori netti e forti. L’evoluzione psicologica e fisica della protagonista si rivela altamente dramma-tica e con grande abilità narrativa Neera sa giocare di sorpresa e tenere avvinto il lettore.”

44 Cfr. Neera, Teresa, op. cit., p. 65: “Decise allora di vestirsi e lo fece con una accuratez-za insolita, stringendo il busto, osservando bene se i capelli si spartivano eguali da una parte come dall’altra. ― Incomincio a stimarmi anch’io!―Disse cosí, sorridendo a se stessa nello specchio […] e restò immobile, colpita dallo scintillio che vide davanti a sé su quelle labbra rosse, tumide, e su quei denti di una candidezza abbagliante.”

45 Ibid., p. 131: “Teresina cadde in ginocchio nel corsello del letto, colla fronte contro il guanciale, in un’estasi d’amore; con un bisogno immenso di elevare il cuore a Dio, di pren-derlo a testimonio delle sue emozioni, di benedirle e purificarle nello slancio di una pre-ghiera ardentissima. Il cielo, per lei, era il punto di partenza d’ogni cosa bella, ed al cielo mandava i suoi novi desideri, casta, fidente. Ringraziò Dio come di una grazia ricevuta, come di una felicità insperata. Si sentiva duplicare la vita; un altro essere palpitava in lei, dandole la sensazione strana di due pensieri in un pensiero. Era amata! Amava! Si spogliò rapidamente, dimentica di tutto e di tutti; del padre terribile, della sua buona mamma, dell’Ida che fra poche ore sarebbe desta, chiedendo le sue cure. L’assorbimento amoroso si manifestava con tutta la sua potenza. Dio e Orlandi. In letto, cogli occhi sbarrati, il corpo

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deprimenti, dei sentimenti amorosi della protagonista fino allo squal-lido compromesso finale che rappresenta tuttavia una parziale conso-lazione. Identica perfino la descrizione, inutilmente minuziosa, dello squallido mobilio della casa della protagonista, che già avevamo tro-vato in Un matrimonio in provincia. Mentre né Denza né Nanna però vengono richieste in moglie dai potenziali mariti che sognavano, nel caso di Teresa il fascinoso Orlandi, che ne chiede la mano, viene re-spinto dal severo padre della ragazza che lo ritiene uno sconsiderato senza una professione, senza denaro e incapace di mantenere una mo-glie. Sembrerebbe un gesto crudele ma in realtà la decisione del padre è giusta perché Orlandi spreca la sua vita46 in una serie di iniziative sbagliate, pensa solo a divertirsi e finisce in miseria47. Il vero dramma di Teresa è dunque, ancora una volta, quello di un sogno d’amore i-nappagato ed infranto (ed anche mal fondato), cui fa da sfondo una si-tuazione famigliare ed economica certamente poco piacevole ma nem-meno del tutto negativa, come provano i comportamenti delle sorelle di Teresa che affrontano la vita allegramente, si sposano (le gemelle) senza troppe fisime o si dedicano (Ida) ad una professione in grado di garantire la sicurezza dello stipendio. L’infelicità dunque è dentro Te-resa, nella sua esasperata sensibilità, nella sua esagerata ed ingenua tendenza a fantasticare, e non nelle circostanze esteriori della sua vita per quanto esse potessero essere pesanti. Il vittimismo48 che passa at-

immobile, colla lettera stretta sul seno, ella ripensò parola per parola, carezza per carezza, tutta la scena della sera. Ed era felice.”

46 Ibid., p. 190: “Un lieve imbarazzo si dipinse sulla fronte di Orlandi. Circondandole col braccio la vita, se la tirò accanto, e: ― Ragioniamo. Posso io presentarmi a tuo padre? ― Sì… quando hai un impiego sicuro e conveniente. ― Ecco appunto quello che non ho. ― Ma mi avevi scritto… ― Il progetto non andò bene. Io vivo ora alla macchia, scrivendo per l’uno o per l’altro giornale. ― Ma perché ti sei dato al giornalismo? ― Chi lo sa! Una passione co-me un’altra, e che non esclude le altre… La strinse dolcemente, cercando di nuovo la sua boc-ca, con un sorriso d’uomo felice.”

47 Ibid., p. 227: “Negli ultimi giorni dell’anno ricevette una lettera di Egidio. Egli era ammalato, povero, senza aiuto alcuno. Le scriveva come un figlio scriverebbe alla madre, con una fede illimitata.”

48 Cfr. Antonia Arslan, “Introduzione. Rileggendo Teresa, o l’immagine nello specchio”, op. cit., p. 5: “Teresa è un romanzo speciale. Una storia coraggiosa, audace persino, tramata intorno a una protagonista innocente ma non ignara, che appare subito come la vittima desi-gnata di una concorde volontà e crudeltà familiare: la madre debole, il padre ottusamente au-toritario, le sorelle capricciose ed egoiste, il fratello maschilmente sornione. Un ritratto ― e un ambiente ― tipici dell’oppressione femminile ottocentesca, che agisce più pesantemente

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traverso le pagine di Teresa come, con altre sfumature ma con la stes-sa insistenza, attraverso quelle dei romanzi della Marchesa Colombi, l’asserzione ― esplicita o implicita ― cioè che fosse soprattutto, o ad-dirittura soltanto, la società degli uomini49 a costringere le donne ad una vita di stenti, di miserie fisiche e morali, di continue umiliazioni che dovevano essere patite ed accettate in silenzio, è in realtà ― se-condo noi ― troppo spesso solo un comodo alibi. E non perché non fosse vero che la società del tempo (parliamo dell’ultimo quarto del-l’Ottocento in un’Italia che aveva da poco raggiunto l’unità nazionale e si trovava ― com’è noto ― a fronteggiare tutta una serie di grandi problemi economici e sociali che non potevano non riflettersi nella vi-ta famigliare) non fosse a suo modo spietata, ma per almeno altri due importanti motivi che non siamo riusciti a trovare nelle fitte pagine critiche di mano soprattutto femminile (ma anche maschile), che ana-lizzano queste opere lamentosamente e rigorosamente “dalla parte di lei”. Il primo è che, se la situazione della donna era di sofferenza e di sacrificio, non migliore né sostanzialmente piú felice era quella del-l’uomo, come si evince non solo da un controllo, anche superficiale, nel materiale storico–sociologico a nostra disposizione sull’ultimo quarto dell’Ottocento, ma anche da una lettura non pregiudiziale della narrativa sia di mano maschile (e dunque presumibilmente “di parte”) che di mano femminile, o addirittura dalla stessa produzione romanze-sca delle scrittrici di cui ci stiamo occupando in queste pagine. Al di là di qualche figura forzata di vagheggino, come l’Egidio Orlandi di Te-resa o il Gaudenzio di In risaia (destinati comunque anche loro a finir

sulla donna retta ed ingenua, su quella che istintivamente non si presta a ‘giocare il gioco fem-minile’ dell’astuzia, dell’ipocrisia e del sorriso ammaliatore. A questo tipo di eroine non va mai dritta, tranne ― dopo molte drammatiche peripezie ― nei romanzi di Carolina Inver-nizio, che sono, appunto, favole per adulti rimasti un poco bambini. Eppure la vittima qui rie-sce a resistere, e a capovolgere all’ultimo momento, dopo un lungo, sofferto percorso di pena che la invecchia e la intristisce, la pesante ipoteca di un destino segnato: nell’ultima pagina, sul limitare estremo del libro e della vicenda.”

49 Cfr. Neera, Teresa, op. cit., p. 195: “Capiva le ragioni del padre: aveva troppo vissuto in quell’ambiente e in quello solo, per non essere persuasa che la sua condizione di donna le imponeva anzitutto la rassegnazione al suo destino, ― un destino ch’ella non era libera di di-rigere ― che doveva accettare cosí come le giungeva, mozzato dalle esigenze della famiglia, sottoposto ai bisogni e ai desideri degli altri. Sì, di tutto ciò era convinta, ma anche un cieco è convinto che non può pretendere di vedere, e tuttavia chiede al mondo dei veggenti, perché egli solo debba essere la vittima.”

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male dopo una dura vita di lavoro50 o dopo la vana ricerca di un suc-cesso mai ottenuto51), le figure maschili che popolano i romanzi della Marchesa Colombi e di Neera che abbiamo preso in esame, sono quel-le dei padri o dei fratelli, dediti al lavoro, esacerbati da continui pro-blemi economici, delusi nelle loro aspettative, mal tollerati da mogli e figli, sconfitti insomma irreparabilmente dalla vita52, oppure quelle dei pretendenti respinti: vecchi, deformi53, calvi, disgustosi, disprezzati54.

50 Cfr. La Marchesa Colombi, In risaia. Racconto di Natale, op. cit., pp. 112–113: “La

famosa frusta di Gaudenzio, che altre volte schioccava nelle vaste risaie col suono gaio d’una salva di mortaletti e faceva battere il cuore a tutte le fanciulle del circondario, ora gli pendeva lenta dietro le spalle come una biscia morta, mentre lui camminava a fianco del carro adattan-dosi al passo capriccioso della mula; era lei che guidava il carrettiere. […] Ed ora poi aveva ben altro in mente che gli amori. Il pensiero della sua bestia lo crucciava giorno e notte; e quando i camerati lo compiangevano, che era giù di cera come se uscisse dall’ospedale, e gli domandavano con affettuosa premura se aveva poca volontà, rispondeva, togliendosi la pipa di bocca e sputandosi melanconicamente fra i piedi: ― La salute non va male, non va: ma quest’affare della mula mi fa paura. Il carrettiere e la sua mula, sapete, è tutt’uno; se la mula non cammina, il carrettiere non mangia.”

51 Cfr. Neera, Teresa, op. cit., p. 205: “Nella vita febbrile di Egidio, nelle lotte aspre, vio-lente ch’egli doveva sostenere ogni giorno, in quella corsa affannosa dietro il successo, non mancavano le ore di scoraggiamento, di malinconia atroce. Si trovava a mezzo cammino, col-la gioventú dietro le spalle, perduti i piú begli anni, svanite le forti illusioni; non avendo rica-vato nessun partito né dal suo ingegno, né dalla sua bellezza, né dalla sua salute. Gli amici di-cevano fra loro: Come mai Orlandi non si è ancora creata una posizione? Uno che lo conosce-va bene, lo definí con due parole: Orlandi non ha la costanza del lavoratore e non ha la furbe-ria dello scroccone; è un uomo mancato.”

52 Ibid., p. 225: “Nel salotto terreno nell’umido e buio gineceo, il signor Caccia terminava i suoi giorni, confinato sul divanuccio dove la signora Soave aveva trascorsa tanta parte della vita, lagnandosi dolcemente cogli occhi volti al cielo. Egli finiva, battuto, vinto nelle sue forze maggiori; ridotto cosí gramo da dover implorare l’altrui compassione, spoglio d’ogni potere, in balia dell’unica figlia che gli era rimasta accanto.”

53 Cfr. La Marchesa Colombi, Un matrimonio in provincia, op. cit., p. 93: “― Senti, Denza. Ci sarebbe un partito per te; però non è brillante. Il babbo era presente, ma leggeva un giornale per dimostrare che voleva rimanere estraneo a quella proposta. Io domandai molto agitata: ― Chi è? ― Un notaio di Vercelli, che viene a stabilirsi a Novara. Fin qui non c’era nulla di male; ma ci doveva essere. Domandai ancora: ― Vecchio? ― No… Quarant’anni – . Stavo per dire che mi pareva vecchio. Ma mi ricordai che ero matura, e dissi invece, cercando ancora il male che non stava nell’età: ― È molto povero? ― Tutt’altro, è agiato. E venendo qui entrerà come socio nello studio del notaio Ronchetti. Cosa poteva avere a suo svantaggio? La figura di certo. Domandai con molta trepidazione. ― Ma dunque è un mostro? ― Un mostro no… Ma ha un di-fetto… Stavo senza fiato. Non osavo interrogare. La matrigna lasciò che mi fossi fatta all’idea d’ un difetto, magari d’una deformità, perché il colpo mi riescisse meno grave, poi continuò: ― Ha una verruca; sai, un porro, un po’ grosso, qui sulla tempia destra. Rimasi impressionata.”

54 Cfr. Neera, Teresa, op. cit., p. 204: “Aveva tentato, per cortesia, di interessarsi a lui, al-le buone qualità che tutti gli riconoscevano; ma i pregi morali sfuggivano all’attenzione di-

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Capitolo I 24

Non si vede dunque in che modo o per quale motivo imperscrutabile il mondo degli uomini, in quell’Italia dell’ultimo Ottocento, sarebbe do-vuto essere oggetto d’invidia, fermo restando che le condizioni di vita sarebbero potute essere diverse e migliori sia per gli uomini che per le donne. Ma il secondo motivo è ancora piú forte. Le figure sofferenti di Nanna, Denza e Teresa non si lamentano per la monotonia o l’estem-poranea durezza del lavoro che devono compiere in casa o fuori, né in fondo si crucciano per il rapporto che hanno con i loro famigliari e nemmeno per le loro condizioni economiche. Un’altra, ed una sola, è la ragione del loro continuo cruccio, del loro tormento estenuante e dell’acuta sofferenza, che ― nelle intenzioni delle autrici ― avrebbe-ro dovuto coinvolgere e commuovere il lettore: il fatto che non riesca-no a sposare quel marito ideale (bello, giovane, affascinante, innamo-rato e possibilmente ricco) del quale sognano l’arrivo o sul quale han-no addirittura posto gli occhi, e che rischino cosí di restare zitelle55. È, a ben vedere, una visione egocentrica e limitata del mondo e della vita che, di conseguenza, priorizza esageratamente l’aspetto fisico (essere “bella” è la cosa piú importante che ci sia) e stravolge tutti gli avve-nimenti dell’esistenza ― fino a rovinarla per Denza, Nanna e Teresa ― nella fissazione spasmodica su un elemento della vita senz’altro importante ma che non poteva (nemmeno nell’Italia dell’ultimo quarto dell’Ottocento) rappresentare tutta l’esistenza di una donna, come di-mostrano infatti altre figure femminili degli stessi romanzi, pronte, se non addirittura a scegliere una professione (come Ida), almeno a spo- stratta di Teresina, e vedeva invece il cranio calvo del professore, la sua barba ispida, tozza, tagliata a guisa di una siepe di mortella.”

55 Cfr. La Marchesa Colombi, Un matrimonio in provincia, op. cit., p. 91: “Quella sera, seduta sul letto, colle gambe penzoloni, livide pel freddo, rimasi lungamente assorta in quelle riflessioni profondamente tristi. Venticinque anni passati, quasi ventisei! Fra quattro anni ne avrei trenta! Mi ricordavo quanto s’era riso colle cugine e con mia sorella d’una certa signori-na di ventotto anni, che si dava l’aria d’una giovinetta, e non osava uscir di casa sola. Una volta che aveva detto ‘quando sarò maritata’ ne avevamo avuto per un gran pezzo da burlarla. Ed un’altra volta che le era sfuggito, parlando con noi, di dire: ‘Fra noi ragazze’ oh! che scene avevamo fatte! Ci era sembrato il colmo del ridicolo. Ed ora ero nello stesso caso. Una zitel-lona! Non potevo più parlare di speranze future, di nozze; mi avrebbero burlata dietro le spal-le. Le altre ragazze mi trovavano vecchia. E di certo! Le mie coetanee, la Maria più giovane di me, erano maritate, avevano dei figlioli che andavano alla scuola; erano donne. La mia vita era sciupata. Mi vedevo sorgere dinanzi minacciosamente il paravento della povera zia, e mi cadevano le lagrime silenziose, sconsolate, giù per le guancie sulla camicia, e non m’accorgevo che mi gelavan le gambe, che mi assideravo tutta. Una zitellona!”

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sarsi con un marito qualsiasi e ad apprezzare e godere la vita in modo meno egocentrico ed ossessivo56. Non vogliamo certo dirimere qui la spinosa questione del cosiddetto matrimonio di convenienza, nodo su cui comunque dovremo tornare piú di una volta nel corso di questo studio, ma possiamo intanto osservare che, nella formula generica di “matrimonio di convenienza”, le esagitate protagoniste dei romanzi che stiamo esaminando includevano in blocco (e, secondo noi, errone-amente) qualsiasi tipo di matrimonio che non fosse il risultato di una passione travolgente e di una romantica e sconvolgente storia d’amore con un principe azzurro bello, affascinante e dedito solo all’ammira-zione estatica per l’avvenenza delle loro spose promesse. Sulla base di questo paradossale metro di giudizio erano (e sono ancora oggi, nel terzo millennio) da considerarsi “di convenienza” i tre quarti o forse piú di tutti i matrimoni che si celebrano in Italia e, probabilmente, nel mondo intero. Il sogno romantico del travolgente “matrimonio d’amore”, già di per sé assai difficilmente realizzabile, era (ed ancora è) poi molto spesso destinato a naufragare (e il romanzo dell’Otto-cento e del primo Novecento se ne è ampiamente occupato!) già nei primi tempi della vita in comune, con la scoperta di aspetti della per-sonalità dell’amatissimo coniuge, che non si erano scorti all’epoca della passione prematrimoniale e quindi con un retaggio tanto piú a-maro e distruttivo di delusione e di frustrazione57.

56 Cfr. Neera, Teresa, op. cit., p. 206: “Ma un avvenimento inaspettato si impose all’atten-

zione di tutta la famiglia. Luminelli maggiore chiese la mano dell’altra gemella, e, come cosa già intesa, ella acconsentí allegramente. I due matrimoni si dovevano fare nello stesso giorno. ― Vedi? ― cosí la pretora a Teresina ― tua sorella ha otto anni meno di te, eppure si adatta a sposarlo. Teresina si strinse nelle spalle. Le gemelle per lei erano sempre state un enigma; ma davanti a quelle nozze senza amore, provò una vera repulsione. Quale infame ingiustizia pesa dunque ancora sulla nostra società, che si chiama incivilita, se una fanciulla deve scegliere tra il ridicolo della verginità e la vergogna del matrimonio di convenienza?”

57 Cfr. Regina di Luanto, Un martirio, Torino (1894) 1900, p. 34: “A poco a poco ecco che viene fuori la confusa sensazione che io percepivo senza saperla precisare. Il segreto tor-mento, la costante e dolorosa preoccupazione che non riuscivo a spiegarmi, è la distanza che sento fra me e mio marito. Io stessa non capisco bene che cosa sia, né da che cosa dipenda; ma è innegabile che ho la impressione che fra me e lui esiste qualche cosa della quale può da-re un’idea approssimativa la sola parola: distanza. È un fatto inesplicabile, considerando tutto il bene che ci vogliamo, perché certamente non posso rimproverare nulla a Corrado, ma pure, indiscutibilmente, noi siamo divisi. Lo sento tante volte, tante volte sorgere fra me e lui que-st’ostacolo doloroso che non so vincere, che non conosco, ma che mi sgomenta come una mi-naccia di sventura… Ah! povera me, dove vado a finire con le mie fantasticherie!”

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Ci sentiamo quindi di poter sgombrare il campo da quella ricorrente prospettiva di lettura che interpreta In risaia, Un matrimonio in pro-vincia o Teresa come l’oggettiva documentazione o, meglio, come il grido di dolore proveniente da un mondo femminile ingiustamente vessato ed umiliato dalla società del tempo e soprattutto da insensibili e prepotenti figure maschili di spensierati gaudenti. Questa non è la nostra lettura. Riteniamo che sia da attribuirsi alle interpretazioni cri-tiche (soprattutto di matrice femminista) della seconda parte del Nove-cento, l’immagine di questa narrativa vista essenzialmente come vei-colo o strumento di denuncia, come documento effettivo di una situa-zione di prevaricazione e di violenza di cui la donna era vittima nell’I-talia tra Otto e Novecento. Le autrici stesse ― riteniamo (e pensiamo per esempio alle note posizioni antifemministe di Neera) ― non ave-vano questa (o, almeno, non solo questa!) intenzione, nobile, certa-mente, ma sicuramente anche riduttiva in un amplissimo spettro di ro-manzi che (com’è nei voti di ogni romanziere) ambivano certo a rap-presentare la condizione umana al di fuori di una specifica polemica sociale e al di là dei limiti, forzatamente angusti, di una certa società e di un limitato periodo storico. All’abbaglio della denuncia a tutti i co-sti si debbono anche alcuni giudizi critici da ritenersi eccessivamente entusiastici, come quello di Luigi Baldacci58. Lo studioso infatti non si lascia convincere dall’accettazione delle regole della società borghese, che scaturisce dalla lettura de Il castigo (1881) di Neera, e ritiene di poter individuare dietro questa “morale […] umile, dominata dal prin-cipio d’obbedienza”59 una “celebrazione polemica”60 legata al fatto che la situazione di partenza è quella delle donne costrette al matrimonio di convenienza “per avere uno stato sociale”61. Il discorso dunque ― secondo questo assioma ― è sempre lo stesso: l’unica cosa che conta per la donna è il matrimonio ed ogni matrimonio che non sia frutto di una travolgente passione d’amore è un matrimonio “di convenienza” e dunque una vergognosa soperchieria per la donna. Abbiamo già e-

58 Cfr. Luigi Baldacci, “Nota introduttiva” in: Neera, Teresa, Torino (1976) 1978, p. V:

“Teresa di Neera […] è uno dei piú bei romanzi italiani dell’ultimo ventennio del secolo pas-sato.”

59 Ibid., p. V. 60 Ibid., p. VI. 61 Ibid., p. VI.

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spresso il nostro scetticismo nei confronti di questa interpretazione che ci appare troppo semplicistica, anche tenendo conto di una situa-zione storico–sociale destinata a durare in Italia almeno fino all’ultimo quarto del Novecento e forse ancora di piú. Proprio in Teresa, il ro-manzo che Baldacci introduce con questo ripetitivo discorso, c’è infat-ti la significativa figura di Ida62, la sorella minore di Teresa, bella ed intelligente, che sceglie di concentrarsi sugli studi, diventa insegnante, sceglie l’indipendenza e non si sente obbligata al matrimonio né di convenienza né di amore. Dunque la donna anche allora poteva sce-gliere. E non dimentichiamo le osservazioni di Mario Mariani che, dopo essersi polemicamente battuto in una lunga serie di opere contro una società che costringeva la donna a “vendersi” nel matrimonio di convenienza, era poi ― anni dopo ― costretto a constatare come mol-te donne preferissero il matrimonio di convenienza, cioè l’essere man-tenute da un marito non amato, alla noia e alla fatica di dover lavorare otto ore al giorno per un modesto stipendio63. Il nocciolo della que-stione (che ritornerà nelle opere che analizzeremo in questo studio) è che le protagoniste dei romanzi, di cui ci siamo occupati, volevano nello stesso tempo sia la sicurezza di un matrimonio economicamente solido, che permettesse loro di vivere comodamente e possibilmente nel lusso senza dover lavorare, sia che il marito fosse l’incarnazione di tutte le loro esaltate fantasie d’amore. Ci sembra francamente un po’ troppo, anche perché simili sogni, sempre legittimi, sono però assai difficilmente realizzabili e non solo in una società com’era quella dell’Italia tra Otto e Novecento, ma in ogni nazione e in tutta la storia dell’umanità. Su questo disperato ed egocentrico sogno s’impernia la maggior parte dei romanzi di mano femminile in cui certa critica del secondo Novecento (qui per esempio Baldacci) ha erroneamente cre-duto di poter riscontrare una documentata rappresentazione dello

62 Cfr. Neera, Teresa, Lecco 1995, pp. 196–212: “Ida, in famiglia, produceva l’effetto di

un raggio di sole, era l’idolo, il beniamino di tutti, aveva avuto, nascendo, il dono di piacere; ognuno era indulgente con lei. Studiava per fare la maestra […]. L’Ida studiava indefessamen-te, senza distrazioni e senza debolezze, coll’occhio fisso alla meta. Solamente verso sera, Ida lasciava i libri, Teresa si staccava dal letto della madre e le due sorelle ― la prima e l’ultima ― uscivano a prendere una boccata d’aria, serie entrambe per motivi diversi, scambiandosi poche parole. […] l’Ida […] si trovava assicurato l’avvenire nella posizione di maestra.”

63 Cfr. Enrico Tiozzo, Il poema di un’idea. Sovversivismo e critica della società borghese nell’opera di Mario Mariani, Roma 2007, p. 300.

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sfruttamento della donna nella società italiana nel passaggio dal XIX al XX secolo64. Ciò che colpisce nell’analisi di Baldacci è la sua de-terminazione a voler fare di Neera una femminista a tutti i costi ad on-ta delle ben note prese di posizione della scrittrice contro il femmini-smo65. Ancora piú sorprendente è che, dopo aver esplicitamente affer-mato che le opere migliori di Neera si concentrano solo sul tema del matrimonio66 (riconoscendo cosí quella che a noi appare come un’indi-scutibile limitazione d’orizzonti), Baldacci ritenga che il lettore abbia capito “meglio a questo punto perché […] Teresa è uno dei romanzi piú notevoli dell’ultimo ventennio del secolo scorso”67. L’analisi di Baldacci prosegue poi battendo sui tasti della non impersonalità da parte dell’autrice, del romanzo naturalista e di ambiente piccolo–bor-ghese e provinciale, dell’“insolito rigore antispiritualista”68, attraverso rapidi confronti con opere come Malombra o Demetrio Pianelli. È un discorso che non ci sentiamo di seguire o di commentare perché si ba-sa su una lettura (che riteniamo fuorviante) del testo, non priva di con-traddizioni69 e inframmezzata da affermazioni apodittiche e sostanzial-mente prive di riscontri70, fino alla sconcertante conclusione che ―

64 Cfr. Luigi Baldacci, op. cit., p. VII: “I suoi romanzi invece, e segnatamente Teresa, si

rivelano come documenti essenziali dello spirito femminista, nella misura in cui la donna è sentita come classe (oppressa) e non come complemento dell’uomo.”

65 Ibid., p. VII: “Per esempio, nei suoi scritti saggistici Neera tende a presentarsi come an-tifemminista, e nelle Idee di una donna dimostra qualche intuizione non banale quando nel principio d’uguaglianza assunto dal femminismo vede il riflesso pratico dell’era industriale e dell’irreggimentazione della donna perseguita sotto il falso scopo dell’indipendenza economi-ca; ma altrove il suo antifemminismo si richiama a motivazioni di mero gusto e di nessuna consistenza.”

66 Ibid., p. VI: “Quel che emerge è, almeno nei libri migliori, la disposizione naturalistica allo studio dei rapporti condizionati. Cosí nell’Indomani del 1890, cosí nell’Amuleto del 1897, cosí in Duello d’anime del 1911. L’indomani è la storia di un matrimonio fallito, riscattato so-lo dalla nascita di un figlio; L’amuleto è la storia di un matrimonio salvato; Duello d’anime ci presenta un matrimonio celebrato quando già tutto è compromesso: per mero opportunismo sociale.”

67 Ibid., p. VII. 68 Ibid., p. X. 69 Ibid., p. X: “L’ideale, per modo di dire, di Teresa è la fedeltà a un amore, che è poi una

fedeltà senza merito, in quanto Egidio è stato l’unico uomo che le sia stato concesso d’incon-trare: […] e quando Teresa incontrerà un altro uomo, il giovane medico che cura i suoi distur-bi nervosi, ella attribuisce alla visita clinica, all’auscultazione, tutta la traumatica importanza di un’esperienza fisica.”

70 Ibid., p. XI: “Teresa è dunque un’opera di tenuta eccezionale.”

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dopo tante lodi sperticate ― si sofferma sul pessimo stile della scrit-trice71. L’intervento di Baldacci, foriero di ulteriori giudizi fuorvianti passati poi nella storiografia72, dimostra quale confusione critica regni ancora in un campo pure sempre piú intensamente esplorato negli ul-timi decenni. Lo studioso evita in sostanza di fornirci le coordinate del metro di giudizio ed i termini di paragone che gli permettono d’in-serire Teresa tra i romanzi piú notevoli e piú belli dell’ultimo venten-nio del Novecento, a meno che il confronto, cui egli allude, non debba essere fatto con I malavoglia73, il che ci sembra alquanto azzardato. Il singolare giudizio di Baldacci potrebbe invece essere forse inteso nel senso di una valutazione estremamente positiva di Teresa in confronto ad altre opere, considerate minori, nella produzione assai vasta di Nee-ra74. Il critico a tale scopo nomina esplicitamente Lydia, di cui si limita a mettere in rilievo (implicitamente respingendola) la “scenografia dannunziana”, senza spendere altre parole sul romanzo che pure Neera aveva inserito, con Teresa, nel suo “ciclo della donna giovane”. In re-altà Lydia, assai meno lodato dalla critica del secondo Novecento, è molto simile a Teresa, dal momento che ripropone lo schema del ro-

71 Ibid., p. XI: “Anche Teresa è un libro scritto male. La lingua di Neera è neutra. Non ha

neppure la patina regionale che ha per esempio quella del De Marchi. È la lingua del giornali-smo rosa, tra la precisione notarile e la goffa galanteria. Raramente, anche nei suoi dialoghi, si recupera l’eco della parola parlata. È una lingua imparata dai gazzettieri, dalle traduzioni dal francese e dall’inglese che sapevano di gazzetta, di resoconto mondano. Sia pur molto rara-mente, ci s’imbatte perfino in qualche vera e propria sgrammaticatura, qualcosa che va ben al di là delle mancanze di proprietà che il Capuana rimproverava anche a Neera […].”

72 Cfr. Toni Iermano, “La letteratura della nuova Italia: tra naturalismo, classicismo e de-cadentismo”, in Storia della letteratura italiana, diretta da Enrico Malato, vol. VIII, Roma 1999, p. 502: “Qualche anno piú tardi, nel 1886, ella pubblicò il romanzo Teresa ― definito ‘uno dei piú bei romanzi italiani dell’ultimo ventennio del secolo passato’ ―, in cui propose il tema a lei piú caro: quello della donna che, schiacciata da pesanti condizionamenti familiari e dai pregiudizi di una società provinciale piccolo–borghese, non riesce a trovare la propria rea-lizzazione nell’amore, nel matrimonio e nella gioia della maternità. Con sicure capacità psico-logiche, Neera presenta la storia di Teresa, che è appunto una donna sacrificata sull’altare de-gli interessi familiari, segnata dalla rinuncia, dalla solitudine, dalla malinconia.”

73 Cfr. Luigi Baldacci, op. cit., p. V: “Ventennio ricchissimo, è inutile ricordarlo: basti pensare che al suo inizio, nel 1881, escono I Malavoglia del Verga, Malombra del Fogazzaro, No dell’Oriani e Le memorie del presbiterio (postume) del Praga […].”

74 Ibid., pp. X–XI: “In tal senso Teresa è un libro fortemente atipico nella produzione di Neera. […] Il che non vale certo per Lydia che indubbiamente c’interessa per la sua scenogra-fia dannunziana, o predannunziana, o francese (è appena di un anno successiva a Teresa: del-l’87, ma che tende a riportare Neera a un livello meramente documentario.”

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manzo di formazione75 e, per essere ancora piú esatti, analizza a fondo gli esasperati moti dell’anima di una giovane donna, dall’adolescenza fino alla maturità, di fronte al problema per lei centrale dell’amore e del matrimonio. Nel caso di Lydia, tutti i malumori e il taedium vitae della protagonista, che per tre quarti del romanzo vengono riproposti al lettore in tutte le varianti possibili (come del resto era avvenuto an-che nel tanto apprezzato Teresa), dipendono, pur se adesso in un am-biente ricco e mondano, dalla mancanza dell’amore e del matrimo-nio76. Il tema è ossessivo e, francamente, stucchevole, né migliora in Lydia in virtú delle descrizioni77 degli abiti indossati dalla protagoni-sta78 o delle sue vacanze nei luoghi riservati all’aristocrazia dell’ultimo quarto dell’Ottocento. Anche in questo romanzo, come in Teresa, non avviene sostanzialmente nulla79 fino alla catastrofe finale e la maggior parte delle pagine si consuma nelle informazioni fornite al lettore sui vari stadi della depresssione80 o dell’esaltazione81 dell’egocentrica pro-

75 Cfr. Antonia Arslan, “Rileggendo Teresa, o l’immagine nello specchio”, op. cit., p. 6:

“Questo libro trae la sua originalità dall’essere un vero, e precoce, ‘romanzo di formazione’ al femminile di area italiana ottocentesca.”

76 Cfr. Neera, Lydia (1887), a cura di Paola Azzolini e Gian Luca Baio, Lecco 1997, p. 111: “Solamente nella sua smania di afferrare questo vero per trarne profitto, trascurò una os-servazione principalissima: non tenne conto dell’immenso divario che corre fra la donna mari-tata e la zitella; tutto ciò che è permesso alla prima, tutto ciò che si vieta alla seconda.”

77 Cfr. Paola Azzolini, “Introduzione” in: Neera, Lydia, op. cit., p. 12: “Neera abbonda in descrizioni minuziose, quasi liriche, di trine, nastri, sbuffi, colori, nuances e accordi tonali.”

78 Cfr. Neera, Lydia, op. cit., p. 38: “Il vestito di crespo, del colore di una pallida rosa, ap-pariva sbuffante e come gettato a caso intorno al suo corpicino; ma sotto, una corazza di raso la imprigionava strettamente, esagerando i contorni, lasciando libere appena le braccia e le spalle denudate fino alla clavicola, che una ghirlandina di rose copriva. I guanti, intonati nella gradazione precisa dell’abito, si confondevano colla pelle, così che sembrava tutta un boc-ciuolo di rosa.”

79 Cfr. Paola Azzolini, op. cit., p. 10: “La vicenda del romanzo è esile, un po’ statica, co-me spesso in Neera che ama addentrarsi nelle complessità della coscienza delle sue protagoni-ste, e si svolge in una serie di scene ricche di dialogo.”

80 Cfr. Neera, Lydia, op. cit., p. 127: “Tutte le sere veniva per lei quel momento fatale del-la solitudine; quando, automa smontato, si lasciava cadere nella poltroncina, colle membra rotte e floscie, la faccia lunga, i muscoli del viso stirati, stanchi. L’ampio letto la chiamava i-nutilmente. Ella aspirava nell’aria chiusa, mista d’odor di fiori e di sigari, l’ultimo suono che aveva dato l’apparenza di vita alla sua triste vegetazione.”

81 Ibid., pp. 114–115: “La coperta le fece sorgere l’idea di rifare da cima a fondo la sua camera, anzi di cambiarla addirittura, prendendo la camera che era stata di sua madre; una stanza d’angolo, ampia, quadrata, colle finestre che davano sopra un vecchio giardino caro al-le rondini, le quali vi nidificavano da anni ed anni nella più assoluta tranquillità. […] Si pose all’opera febbrilmente, dimenticando in quei giorni le cure dell’abbigliamento; fermandosi,

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tagonista82. Troppo poco ― riteniamo ― perché si possa parlare di capolavori. Né una lettura attenta di Lydia può in alcun modo incorag-giare un’interpretazione del romanzo nel senso attribuitogli forzata-mente dalla critica d’ispirazione femminista83.

La focalizzazione ossessiva sul matrimonio, atteso come la realiz-

zazione del momento piú importante della vita, quello dell’arrivo del compagno atteso da sempre (bello, giovane, affascinante, romantico, appassionato, sperabilmente molto ricco), in tutte le sue varianti e con tutti i suoi sviluppi (per lo piú negativi date le altissime aspettative delle protagoniste) rimane dunque il tema centrale della letteratura di mano femminile nell’Italia dell’ultimo quarto dell’Ottocento. In que-sto senso e solo in questo senso (quello di una predilezione tematica molto marcata anche se stranamente poco sottolineata da critica e sto-riografia) si potrebbe eventualmente parlare di una differenza tra scrit-tori e scrittrici di questo periodo. Gli autori nominati per confronto da Baldacci (Fogazzaro, De Marchi, Verga) o da Iermano (Butti, Canto-ni, Rovetta, Bersezio, Giacosa, Calandra, Zena, ecc.) o quelli (di poco posteriori se non addirittura contemporanei come Zuccoli) che noi ab-biamo incluso tra i principali rappresentanti del romanzo blu (da Ve-rona, d’Ambra, Pitigrilli) o i maestri celebrati dalla storiografia (Sve-

spettinata, in mezzo al caos delle stoffe e dei tappeti; sollevando appena la gonna per attraver-sare i pentolini delle vernici, posati a terra; e guardava tutto; si interessava a tutti i particolari, del cordone, della bulletta; dava ordini e contr’ordini.”

82 Ibid., p. 93: “Aveva portato fino all’adorazione il culto di sè stessa, l’amore dell’ele-ganza e della bellezza; era satura di omaggi, non sapeva più che cosa chiedere a sè stessa ed agli altri.”

83 Cfr. Paola Azzolini, op. cit., p. 14: “Ancora un’ultima domanda che circola nelle pagine di molta critica contemporanea su Neera: allora Lydia, come Teresa, come L’indomani, è un romanzo sostanzialmente femminista? Il termine non sarebbe piaciuto alla scrittrice. Le donne all’epoca del romanzo cominciavano appena a pensare alla futuribile rivoluzione femminile che esploderà nel primo decennio del secolo successivo e Neera sarà sempre radicalmente contraria all’emancipazione femminile, al lavoro delle donne, all’eguaglianza. Per lei le donne hanno una missione fondamentale che è la procreazione; la figura della zitella compare nei suoi romanzi come una vittima, perché la società le nega questo fine supremo. Di conseguen-za le donne non tanto devono coltivare l’intelligenza, quanto trasmetterla nel compito di edu-catrici che la natura assegna loro. Anche il ruolo della scrittura e quindi il suo stesso ruolo di madre, di moglie e di scrittrice resta fuori delle sue argomentazioni, come una connotazione sociale ininfluente, una qualifica che lei stessa non è in grado di integrare con le altre, se non rinnegandola, almeno in parte, con il suo silenzio.”

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vo e Pirandello) non insistono, con pari monotonia, su quest’ossessivo e limitativo tema dominante, pur concedendo ampio spazio ai temi sentimentali e segnatamente ai problemi nel rapporto di coppia. La narrativa italiana tardottocentesca di mano femminile sembra dunque incapace di staccarsi dall’ossessione del matrimonio. La ritroviamo anche nell’opera (per piú versi probabilmente la meno studiata84 e tra le piú interessanti fra quante ci è stato possibile analizzare) di Regina di Luanto (Guendalina Lipparini Roti), autrice di romanzi molto note-voli come quello dell’esordio (Salamandra, 1892), Un martirio (1894) e Le virtuose (1910). Non intendiamo approfondire qui l’analisi del-l’opera di un’autrice che merita ben altro spazio85 ma nei romanzi cita-ti, che si situano cronologicamente nell’arco di un ventennio a cavallo tra Otto e Novecento, troviamo una conferma del discorso che abbia-mo appena concluso. In Salamandra, ambientato a Firenze e visto completamente attraverso l’ottica del personaggio principale, l’affasci-nante Eva Perelli, protagonista mondana di una società aristocratica che ricorda molto da vicino quella dannunziana de Il piacere, trovia-mo, ad un primo livello di lettura, la storia di una donna sposata non infelicemente, che tuttavia ritiene di non aver mai provato nella sua vi-ta coniugale quel piacere dei sensi su cui fortemente fantastica (forse, dunque, una frigida) ma, ad una lettura piú attenta, scopriamo che Eva sta cercando anche lei ― ovviamente senza trovarlo ― l’amore tra-volgente e passionale, l’uomo ideale che l’appaghi completamente, in-carni tutti i suoi ideali e realizzi tutti i suoi sogni86. La forza del ro-

84 Cfr. Ulla Åkerström, “Arte e scienza nei romanzi di Regina di Luanto”, Scorpione lette-

rario 4/5, 2006, p. 56: “La morale ambigua e l’ipocrisia nella società tra Otto e Novecento so-no temi ricorrenti anche nell’opera di Regina di Luanto, che pubblicò i suoi libri in un arco di tempo che va dal 1890 al 1912, opere cariche di un forte spirito positivistico e ricche di idee moderne. Ricordata da Luigi Russo come scrittrice ‘audace’ nota per il suo ‘successo morbo-so’ […], Regina di Luanto oggi è pressoché dimenticata nelle storie della letteratura italiana.”

85 Rimandiamo allo studio di Ulla Åkerström già citato e all’articolo di Emanuela Corto-passi, “Regina di Luanto alla ricerca della nuova Eva”, in Les femmes–écrivains en Italie (1870–1920): ordres et libertés, Université de la Sorbonne Nouvelle ― Paris, N°39/40 ― 1994, pp. 255–269.

86 Cfr. Regina di Luanto, Salamandra (1892), Torino 1900, p. 337: “― Così l’ho pensato ― disse Eva con calma; poi lentamente seguitò sottovoce: – Vedete, perché io possa amare bisogna che mi trovi in faccia ad un sentimento più forte, più forte di quello… Deve imporsi a me per la sua grandezza, deve giungermi a traverso i sacrifizi e le rinunzie, perché io abbia la prova della sua verità; deve aver l’impeto del turbine, che tutto travolge dinanzi a sé e, arriva-to fino a me, mi prenda, mi trascini seco come una preda. Voglio che mi domini; che soffochi

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manzo (secondo noi il migliore della Roti in una produzione quasi tut-ta di alta qualità) sta tuttavia nel ritratto dell’ambigua protagonista ed in alcune scene molto efficaci come quella della seduzione mancata da parte di Gino di Campovelardo, vittima inopinata dell’impotenza di fronte alla freddezza della donna che pure gli si offre87. L’approccio scelto da Regina di Luanto s’impone comunque per la singolare capa-cità della scrittrice di variare il quadro che circonda il sempiterno tema ossessivo dell’attesa del grande amore. Vi contribuiscono in maniera decisiva anche la lunga e brillante descrizione di una traversata in ma-re alla volta di Alessandria d’Egitto (non priva d’inattesi dettagli mi-suratamente realistici88) e quella (dickensiana per battute di spirito, co-lore dei personaggi, susseguirsi di paesaggi attraversati), del viaggio in treno di un’allegra comitiva di aristocratici diretti al casinò di Mon-tecarlo89. Di Eva Perelli s’imprimono nella mente del lettore sia l’av-venenza90, resa con abile discrezione da Regina di Luanto, sia la per-sonalità tranquilla e la prudente pigrizia con cui, al di là dei sogni di passione, evita, alla fine del romanzo, le insidie di un colpo di testa

i miei ragionamenti e la mia smania d’analisi, che tutto demolisce; che m’inebrii di dolcezza; mi dia voluttà sconosciute, piaceri così intensi da farmi venir meno. Tale lo sogno io l’amore… tale lo aspetto ― conchiuse Eva pensosamente.”

87 Ibid., p. 138: “Le si era avvicinata e furiosamente la copriva di baci sui capelli, sul viso, sul collo, nello sforzo disperato della sua volontà, che voleva sottrarsi alla influenza del gelo, che emanava da lei; ma il suo ardore fittizio cedeva al vano tentativo di lottare.”

88 Ibid., p. 230: “Il mare ingrossava; giù le onde saltavano, si rincorrevano e di continuo s’alternavano alte e basse, il bastimento aveva un movimento forte di rullio. Eva sentiva il ca-po farsi grave e perdersi il filo de’ suoi ragionamenti. Ancora non badava alla fascia dolorosa che man mano le accerchiava la fronte; restava ferma in una completa immobilità. Il vapore piegò bruscamente su di un fianco e schizzando altissima un’onda bagnò fin sopra la coperta. Eva credette che tutto girasse in una ridda furiosa e cielo e mare e cordami e scale. Senza aver tempo di fermarsi, appena sollevata cominciò a vomitare. Le si accostò un signore: – Vuole che chiami qualcheduno?”

89 Ibid., p. 36: “Le signore si erano levati i mantelli e si mostravano graziosissime nei loro vestiti da viaggio. Matilde girava tra le poltroncine di velluto rosso, dirigendosi ora a questo, ora a quello, senza tacere un minuto: del resto tutti cedevano a quell’allegro eccitamento che accompagna le prime ore di una gita di piacere e ridevano e parlavano a voce alta.”

90 Ibid., p. 9: “Eva nel subitaneo passaggio dal freddo al caldo era diventata rossa in viso: le labbra un po’ grosse si socchiudevano regolarmente nel respiro tranquillo. Sulla fronte le discendeva una ciocca di capelli castagni, che alla luce avevano riflessi rossastri, le sopracci-glia ben disegnate si vedevano distintamente sugli occhi bruni. Con un gesto si toccò la bocca, poiché le labbra screpolate dal freddo le facevano male, vi passò sopra leggermente due o tre volte la lingua per inumidirle, poi si allungò sulla poltrona, scomparendo nell’ombra.”

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per scegliere di continuare nella sua vita di lusso e di noia91. In Eva Perelli, Regina di Luanto ha scelto di presentare la variante della don-na che, con calcolata prudenza, sceglie di non rovinarsi la vita nella pericolosa ricerca di una passione impossibile. In Un martirio invece la scrittrice porta alle estreme conseguenze una situazione, all’interno di un matrimonio inizialmente felice92, in cui la protagonista ― osses-sionata dal sogno di una passione romantica ed assoluta93, che il mari-to non è in grado di darle pur cercando di fare del suo meglio94 ― vie-ne presa da un vortice sempre piú allucinante (di cui solo all’inizio si rende conto95) che la porta prima all’innamoramento per il suo medico

91 Ibid., pp. 354–355: “Non lo sentiva che gran bisogno di quiete, di riposo aveva? Come

avrebbe potuto vivere in quel paese che Gino le aveva descritto? Sopportare gli ardori infocati di un sole bruciante, moversi nel labirinto intricato delle piante tropicali, il cui potente rigo-glio esuberante di vita l’avrebbe umiliata, subire i trasporti violenti, importuni dell’amore, senza soccombere schiacciata dal loro peso?… Un brivido la scosse; si passò le mani sugli occhi per togliersi a quella visione che l’atterriva… Oh! fortunatamente tutto ciò era stato un sogno, dal quale si svegliava ora calma, serena, persuasa che non bisognava pretendere di modificare il modo di essere proprio. Finito il passato, morto…[…] Eppure si era impegnata. Ma che cosa importava? Nella gravità di quel momento, nel quale vedeva delinearsi la lunga strada diritta ed immutabile che avrebbe percorso, la considerazione di una promessa non era certo tale da trattenerla. Gino la sera dopo l’avrebbe aspettata alla stazione e, non vedendola giungere, sarebbe tornato a casa, dove Paola l’attendeva e tutto si sarebbe accomodato.”

92 Cfr. Regina di Luanto, Un martirio (1894), Torino 1900, p. 14: “Tante volte, mentre mi accarezza, mentre mi dice delle cose gentili, io mi sento in cuore una tenerezza infinita e vor-rei dirgliela, vorrei esprimergliela così soavemente come è in me; ma non riesco che a mor-morare poche parole, che non vogliono dire punto ciò che provo io.”

93 Ibid., p. 38: “Giacché mi sembra che l’abbandono del corpo dovrebbe essere una dol-cissima sensazione, qualora avvenisse spontaneamente, inconsciamente, dopo un lungo collo-quio amoroso, dove tante dolci parole avessero inebriati gli spiriti tanto da far sentire loro il desiderio indefinito di una maggiore gioia, che verrebbe poi naturalmente da sé…”

94 Ibid., p. 37: “Appena nei primi quindici giorni di matrimonio ha avuto per me qualche impeto di passione; dopo, forse perché io non gli ho bene corrisposto, si è fatto calmo, meto-dico, e nei suoi rapporti affettuosi con me, conserva la stessa regolarità con cui adempie i suoi doveri d’ufficio. Ebbene questo mi ripugna: quei baci periodici che mi dà ogni mattina allo svegliarmi, mentre la donna ci porta il caffè, poi al momento di uscire e quando ritorna a casa, hanno un non so che di forzato, di obbligatorio che mi pesa. Per di più, una sera sì, una sera no, quando andiamo a letto… anche quello fisso, regolato come un obbligo; e c’è di peggio, qualche volta, se ha lavorato molto, se è stanco, mi dice: ‘Lauretta, domani sera, eh!… Ora proprio non mi sento…’. Pare che mi chieda scusa di non fare il suo dovere!… ma che forse io lo pretendo?”

95 Ibid., pp. 34–35: “Ah! povera me, dove vado a finire con le mie fantasticherie! Se con-tinuo ancora, verrò a concludere che sono la più infelice creatura della terra!… Via, siamo ra-gionevoli ed esaminiamo le cose con calma. Se non sono io che mi fabbrico delle chimere, quali sono le cause che mi suggeriscono tali idee? Perché saremmo lontani, divisi?… Perché

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curante, poi al collasso nervoso ed infine all’uxoricidio. Il romanzo, in forma di diario, è particolarmente interessante non solo perché antici-pa in modo evidente e di mezzo secolo un’opera molto conosciuta ed apprezzata di Alba de Céspedes96, che non può non aver tenuto conto (fin quasi ― vorremmo dire ― a copiarlo) del precedente luantiano, ma anche perché mette in primo piano la questione (centrale anche nei romanzi coevi di mano maschile) del rapporto di coppia nel matrimo-nio e della sedicente violenza del marito oppressore e sfruttatore (o ad-dirittura potenziale stupratore) della moglie97. Mentre il romanzo della de Céspedes è chiaramente “dalla parte di lei”, è difficile dire ― ad un’attenta lettura ― quale sia la prospettiva scelta da Regina di Luan-to. Senza dubbio la protagonista è un’esaltata che, fin dalle prime pa-gine del romanzo, interpreta in chiave esageratamente negativa e quasi paranoica le normali manifestazioni d’affetto del marito e che, rifiu-tandoglisi sessualmente, lo spinge inevitabilmente tra le braccia di una serva compiacente, salvo poi considerarlo ― con una criticabile mani-festazione di classismo ― un essere disgustoso per essersi abbassato ad un rapporto sessuale con una donna di bassa estrazione sociale98. La Laura di Un martirio, piú che come un’eroina della condizione fem-minile umiliata e offesa, si presenta come un’esaltata ai limiti della pazzia che infatti la porta a morire nel manicomio criminale. Trovia-mo in lei la riconferma di come il sogno mai soddisfatto di un amore travolgente fosse non solo in grado d’ispirare ― tra Otto e Novecento ― quasi tutti i romanzi di mano femminile, ma forse anche di minare

Corrado si mette le pantofole quando torna a casa? Sta’ a vedere che, se è stanco, dovrebbe far dei complimenti con sua moglie!”

96 Cfr. Alba de Céspedes, Dalla parte di lei, Milano 1949. 97 Ibid., pp. 256–257: “Poi principiò a spogliarsi. Io lo fissavo esterrefatta; ma subitamen-

te, facendomi coraggio, gli domandai: ― Ma quale è la mia camera, il mio letto? ― Oh! bel-la! Qui… questo ― rispose Corrado. ― Non c’è altro, ed è oramai tempo di ritornare alle no-stre consuetudini… Ripresi in fretta la veste che mi ero levata e mi rivestii. Corrado mi osser-vava in silenzio, un silenzio carico di minaccie. ― Non vuoi venire a letto? ― mi chiese. Ac-cennai di no col capo. ― Non ci sono altri letti ― ripeté, frenando a stento la collera che lo assaliva… ― Starò su una seggiola ― replicai a voce bassa. Allora egli non si contenne più: inveì contro di me, contro il dottore coprendoci di insulti.”

98 Ibid., p. 195: “L’ignobile, vergognosa cosa! Corrado, l’uomo austero, l’uomo che pare-va quasi sdegnarmi per la mia inferiorità, trova però conveniente di mettersi al livello di una serva, della mia serva. Come è potuto arrivare fino a cotesto? E che cosa dirò io ora? Che cosa farò?”

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efficacemente dall’interno (pur nel silenzio e senza colpi di testa) una gran parte dei matrimoni del tempo. Né il quadro del rapporto tra Lau-ra e Corrado cambia tenendo conto dell’inserimento nella vicenda di una sorta di stregone che, con l’appoggio del marito, sottopone la po-vera donna ad esperimenti spiritici maltrattandola in vari modi. Questo elemento infatti viene inserito nel romanzo al solo ed evidente scopo di trasformare la figura ― prima rassicurante ― del marito in quella del solito ed esecrabile mostro, che ritroveremo molto spesso anche nell’opera della Contessa Lara. L’abilità della Lipparini Roti e la sua attenzione al pubblico si avvertono anche nell’indugio da lei concesso alle situazioni scabrose (particolare che non sfuggí a Luigi Russo99) come appare molto evidente in Le virtuose, dove appaiono scene d’e-sibizionismo sessuale, di pedofilia e di amori lesbici100. Il tema centra-le è però, ancora una volta, quello del desiderio spasmodico di un a-more travolgente da parte della protagonista101, l’affascinante vedova Rachele, costretta a vivere a carico della corrotta e sprezzante famiglia del marito. Il romanzo prende via via sempre piú la strada (che sarà poi battuta da Pitigrilli e da d’Ambra) della struttura aperta ai ragiona-menti teorici ed al dibattito sulla vita in due, sull’amore, sulla passio-ne, sul matrimonio di convenienza, ecc., con il risultato di appesantire notevolmente le pagine solitamente scorrevoli di Regina di Luanto. Si avverte poi una notevole stanchezza nell’autrice che appare evidentis-sima soprattutto nelle scadenti e melodrammatiche pagine finali con l’esplosione dell’amore (peraltro ancora una volta disperato e senza vie d’uscita) tra Rachele e don Valerio, il sacerdote amico della fami-

99 Cfr. Luigi Russo, I narratori, Roma 1923, p. 122: “Autrice di vari romanzi audaci, che

ebbero sul fine del secolo scorso un morboso successo.” 100 Cfr. Regina di Luanto, Le virtuose, Torino (1910) 1911, p. 254: “[…] poi mentre Ra-

chele con mano distratta si legava e slegava i cordoni della sottana, d’improvviso si sentì ab-brancare alle spalle e rovesciare brutalmente. Una bocca avida si incollò sul suo collo dietro l’orecchio ed essa stordita, spaventata, prima di potersi render conto di quanto accadeva, col corpo di Gabriella avvinghiato al suo, andò a rotolare sulla pelle d’orso opportunamente pre-parata.”

101 Ibid., pp. 198–199: “Immaginava quale incanto meraviglioso dovesse offrire il posses-so di un essere puro, intatto; perché nell’amore le donne specialmente erano sempre condan-nate a gustare avanzi deteriorati, ad imprimere il proprio segno dove tanti altri si sovrappone-vano? Oh! l’incanto incomparabile di un amplesso fra due creature vergini, che per la prima volta bevono l’uno sulle labbra dell’altra il liquore di voluttà distillato dai loro corpi nuovi! E divenne quasi un’ossessione […].”

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glia di cui è ospite102. Non condividiamo del tutto la pur eccellente let-tura che del complesso dell’originale ed interessante narrativa luantia-na ha dato Emanuela Cortopassi, che ripete, forse troppo pedissequa-mente, i luoghi comuni sull’“avvilimento per non essere trattata come una persona con opinioni e pensieri propri”103 a proposito della prota-gonista di Un martirio, che a noi è sembrata piú un’esaltata che una vittima, ed insiste battendo ― per Regina di Luanto ― sul tasto del-l’impegno personale della scrittrice nel “movimento emancipazionista schierato sul fronte del divorzio”104, nel quale, a suo giudizio, la Lip-parini Roti si sarebbe spinta notevolmente piú lontano di Neera e di Matilde Serao. Ritorna qui quella non condivisibile tendenza a voler mescolare a tutti i costi narrativa di mano femminile ed impegno nella battaglia per i diritti delle donne (già presente nell’analisi di Baldacci su Neera), che ― pur se esistente ― non sempre è una felice ed esau-stiva chiave di lettura. Piú che presentare quella che la Cortopassi chiama “la nuova Eva”105, vale a dire la donna “che rifiutando la con-dizione subordinante di una falsa innocenza, conquista il diritto a un ruolo piú partecipe e consapevole nella società”106, Regina di Luanto presenta invece ― secondo noi ― l’immagine (non nuova) della don-na in crisi, vittima dei suoi orpelli, schiacciata dai suoi irrealizzabili sogni d’amore, destinata alla frustrazione e all’autodistruzione.

Abbiamo dunque individuato ― in molte di quelle che Antonia Ar-

slan chiama le “stelle”107 nel panorama ricchissimo della narrativa di 102 Ibid., p. 283: “Si chinò in avanti; piegò il busto con una mossa improvvisa, rompendo

l’immobilità conservata fino allora e con gli occhi dilatati la fissò a lungo, a lungo per scolpire bene nella memoria tutti i particolari del viso diletto, che non avrebbe visto mai più. Quando un velo di lacrime scese ad annebbiargli la cara visione, con uno scatto volle alzarsi in piedi: ma ricadde seduto, perché con uno slancio inaspettato, Rachele gli si era buttata addosso e scivolata in ginocchio lo stringeva convulsamente, premendogli la testa sul petto, mentre dalla sua gola contratta usciva un breve rantolo d’agonia.”

103 Cfr. Emanuela Cortopassi, op. cit., p. 265. 104 Ibid., p. 266. 105 Ibid., p. 255. 106 Ibid., p. 268. 107 Cfr. Antonia Arslan, “L’opera della Marchesa Colombi nel panorama della narrativa

italiana fra Otto e Novecento”, op. cit., p. 12: “Va anche detto che le scrittrici di oggi, le con-temporanee, le quali sono conosciutissime, sanno farsi pubblicare e sono ben presenti sul mercato, volutamente spesso dimenticano di aver avuto delle nonne così importanti come la Marchesa Colombi, Neera, Vittoria Aganoor nel nord Italia, Emma Perodi toscana, Jolanda

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mano femminile di fine Ottocento ― un’evidente ed ossessiva centra-lità del tema del matrimonio ideale, visto (o meglio sognato) come l’unione con un principe azzurro bello ed affascinante, accompagnato di conseguenza da quello della delusione e della ripulsa nei confronti del marito reale, immancabilmente destinato a deludere e ad incarnare la monotona quotidianità o addirittura la disgustosa prepotenza108. Il tema (riproposto ― come abbiamo visto ― in molte possibili varianti) torna anche nel celebre racconto lungo della Serao “La virtù di Chec-china” del 1883. La storia del mancato tradimento di Checchina è troppo nota per aver bisogno qui di un riassunto, ma quella che ci pre-me sottolineare è, ancora una volta, l’immagine completamente nega-tiva, che la Serao propone al lettore, del marito della protagonista, To-to Primicerio, (avaro, pedante, geloso, insensibile e stupido109) e quella

emiliana, Contessa Lara tra fiorentina e romana, Matilde Serao napoletana e tante altre. Que-sto per citare solo le ‘stelle’. Ma c’è in campo, all’epoca, una vastissima presenza femminile, non dimentichiamolo, anche come quantità.”

108 Cfr. Carlo Alberto Madrignani, “Qualche parola di riepilogo”, in: Les femmes–écrivains en Italie (1870–1920): ordres et libertés, op. cit., p. 349: “Alle donne–scrittrici ri-mane anche una seconda possibilità di arricchire la loro narrativa: quella di mettere alla corda la figura dell’uomo–amante–sposo–padre in un confronto di ravvicinata impertinenza ideolo-gico–stilistica. Così succede nell’orizzonte dell’Italia unita la cultura politica fortemente ege-monizzata dal segno ideologico di un protagonismo maschilista che assimila tutte le forme del sapere e del potere all’interno di una strategia di omologazione in cui la donna–madre deve rimanere come centro della forma–famiglia tramandata da una tradizione autorevole e autori-taria. Solo le donne–scrittrici sono in grado di opporsi a questo disegno, sia che si tratti di un’operazione oggettiva sia che abbia la carica di una rivincita, direi di una vendetta con con-notati ideologicamente sfumati e cangianti. L’uomo come altro dalla donna assume nell’ottica femminile il ruolo di chi si avvale di un potere di sopraffazione, che solo le donne possono di-svelare e denunciare. All’uomo potente che fabbrica le sorti della nuova Italia si accompagna la sua ombra, quella dell’uomo ‘vile’, aggressivamente e passivamente, che non sa riconosce-re alla donna nessuna parità e autonomia. È l’uomo tiranno, l’uomo che fugge, che tradisce, meschino nel privato quanto si vuole e forte a livello pubblico. Nella narrativa femminile vie-ne elaborato e diffuso questo ritratto dell’uomo in cui si sommano tutte le segrete caratteristi-che della società italiana.”

109 Cfr. Matilde Serao, “La virtù di Checchina”, in: La virtù delle donne, con uno scritto di Pietro Pancrazi, nota critica e cura di Toni Iermano, Cava de’ Tirreni, 1999, pp. 31–32: “Toto Primicerio si lasciava vincere dall’irresistibile sonno degli uomini adiposi, che hanno molto mangiato e molto bevuto. Ella rivolgeva a suo marito certe timide occhiate, quasi supplican-dolo di non addormentarsi: Toto, come tutti gli uomini grassi, russava. Toto non capiva e, di-steso sulla poltroncina, ogni tanto chiudeva gli occhi e abbassava la testa sul petto. Alla fine uno sguardo di Checchina lo svegliò, come una scossa elettrica: egli si levò, arrivò sino alla finestra, guardò nella strada per avere un’aria disinvolta, poi uscì dalla stanza, d’un tratto solo, senza voltarsi. Egli aveva bisogno di dormire un’oretta dopo il pranzo.”

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tentatrice del marchese di Aragona110 che in realtà, a ben riflettere, è solo un vuoto vagheggino interessato unicamente ad una fugace av-ventura con la protagonista. Se il tono di questo celebre racconto è umoristico111, la Serao insiste ― in altre opere ― in termini dramma-tici sul tema centrale del matrimonio di convenienza contrapposto al coronamento di una travolgente passione d’amore. È il caso di Cuore infermo, che fin dalle prime pagine introduce i consueti termini del problema112.

Concludiamo questa panoramica, necessaria all’individuazione del

tema del sogno dell’amore contrapposto al grigiore del matrimonio, e segnatamente dello svelamento del marito–mostro (che osserveremo con particolare attenzione nella Contessa Lara), con La fabbrica di Bruno Sperani, il potente romanzo che ― per ambientazione ed avve-nimenti ― piú si scosta da quelli che qui abbiamo perlustrato e che indubbiamente affronta e denuncia i gravi problemi sociali dell’am-biente operaio nella Milano di fine Ottocento. Eppure, irresistibile, an-che qui ― insieme a un’esaltazione del vittimismo sottolineato dalla Nash–Marshall113 e che tanto spazio avrà nell’opera della Contessa La-

110 Ibid., p. 32: “Questo bel marchese di Aragona finse di non vedere l’uscita del marito.

Disteso nella poltroncina con una gamba accavalcata sull’altra, egli mostrava il piede aristo-cratico, calzato dalla calza di seta rossa e dalla scarpa di copale: una mano arricciava, affilava i mustacchi biondi, e l’altra si appoggiava sul bracciuolo del divano, dove Checchina era se-duta.”

111 Cfr. Toni Iermano, “Nota critica”, op. cit., p. 185: “La virtù di Checchina, novella ric-ca di sotterranei, intimi orientamenti e distinzioni, dimostra quanto nella Serao fosse forte e consapevole il proposito di giocare in chiave lievemente umoristica […].”

112 Cfr. Matilde Serao, Cuore infermo, Sesto S. Giovanni 1913, pp. 8–10: “― Ti ama? ― chiese Amalia. ― Niente ― rispose Beatrice, sorridendo agli anelli della sua mano sinistra. – Tu lo ami? ― No, naturalmente. ― Lo sposerai? ― Certo. […] ― Un matrimonio sen-z’amore… ― mormorò Amalia. ― Non è certo una cosa spaventosa. Poi, ci si stima. ― La stima non basta: si è infelici con la sola stima. – Per me, sono felice sempre e dappertutto ― rispose Beatrice; ― ma ecco che divento anch’io drammatica.”

113 Cfr. Siobhan Nash–Marshall, “Introduzione. Luisina, La fabbrica e la ciotola di cilie-ge”, in: Bruno Sperani, La fabbrica (1894), Lecco 1996, pp. 8–14: “Quella di Luisina è dun-que la storia di una donna vittima di tutto ciò di cui la donna è sempre stata vittima: del suo cuore, del suo corpo, dell’uomo, di promesse vuote, di una società che sussurra e la guarda con occhi attentamente chiusi ai suoi bisogni. […]. Ciò che La fabbrica aggiunge a questa raf-figurazione classica è una nuova forma di vittimizzazione. Luisina, abbiamo detto, è vittima di tutto ciò di cui una donna è sempre stata vittima: del suo cuore e del suo corpo, dell’uomo e della società. Questo è senz’altro vero, è il contrario, semmai, che non lo è. La donna, infatti,

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ra ― si fa strada il tema prepotente del matrimonio mancato tra Luisi-na e il vinaio Zibardi, che l’ha sedotta dandole un figlio e del matri-monio impedito dal destino tra Luisina e Francesco ucciso, con una morte bianca, sul luogo di lavoro per la corruzione di un losco costrut-tore e dunque con un anticipo di un secolo su situazioni e problemi ancora attualissimi oggi in Italia nello scorrere del terzo millennio. E che il dramma privato del matrimonio mancato riesca a prevalere su quello tanto piú vasto ed importante del grave malessere economico e sociale, è dimostrato dalla pagina finale in cui Luisina si vendica ucci-dendo il vinaio114. Non possiamo però concludere questa perlustrazio-ne (nella quale abbiamo messo in risalto quello che a noi è apparso come il tema centrale della letteratura di mano femminile tra Otto e Novecento) senza affrontare un doppio luogo comune, sul quale spes-so s’insiste, a vari livelli (popolari, critici, storiografici), senza mai darsi la pena di fare una semplice verifica, quella cioè della scarsa vi-sibilità (anche odierna) concessa alle opere scritte da donne e dell’oblio che (a differenza di quanto sarebbe avvenuto agli scrittori di sesso maschile) sarebbe loro toccato nel canone letterario e nelle rivi-sitazioni editoriali e critiche del Novecento. L’argomento è stato af-frontato molto di recente anche da un critico e storiografo esperto co-me Walter Pedullà, che ne ha messo in luce la sempre piú paradossale inconsistenza115. Inutile eccedere nei riferimenti ad interventi critici

non è sempre stata vittima di tutto ciò di cui è vittima Luisina. Il romanzo della Sperani intro-duce così alcuni elementi nuovi nel quadro tradizionale, elementi che, messi insieme, sembra-no alludere proprio all’emergere della ‘donna moderna’, alla donna vittima del bisogno di so-pravvivere in un mondo dove la sua femminilità sembra esserle d’intralcio e può essere negata.”

114 Cfr. Bruno Sperani, La fabbrica, op. cit., pp. 166–167: “Fu una visione istantanea che le mostrò lo Zibardi boccheggiante ai suoi piedi. E senza riflettere, senza alcun atto determi-nante della volontà, portò una mano alla tasca e ne estrasse la rivoltella. […] Luisina aveva preso la rincorsa e appuntava l’arma quasi a bruciapelo contro la schiena larga e superbamen-te eretta del ricco vinaio. Il colpo partì e l’uomo cadde bocconi, la faccia sui ciottoli.”

115 Cfr. Walter Pedullà, “Le ‘quote rosa’ della narrativa”, Il Messaggero, 16 giugno 2007: “Due donne su cinque finalisti al Premio Campiello e al Premio Strega fanno il 40%. È il doppio della normale ‘quota rosa’ di dirigenti di un partito e più del doppio della percentuale di presenza femminile nel nostro governo. Il 40% è prossimo al mitico 50% delle donne mini-stro nel governo Zapatero. […] Giorno verrà dunque in cui saranno maggioranza, se non i mi-nistri donna, le finaliste dei premi letterari, fermo restando che nei due premi sono state nume-rose le vincitrici. E presto saranno i maschi a lottare per le pari opportunità. Stiamo cantando il de profundis all’egemonia maschile che da secoli si registra nella letteratura italiana? Biso-gna rifare i calcoli: partendo dal passato, magari non da quello remoto, bensì dal secolo scor-

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autorevoli (soprattutto, ma non solo, di provenienza femminile) che, con tono catastrofico, hanno insistito su questo antico argomento, dal-la Morandini116 alla Santoro117. Ma sono state veramente cosí dimenti-cate le scrittrici italiane che operarono tra Otto e Novecento? E dimen-ticate a confronto di quali scrittori favoriti invece dalla fortuna critica e storiografica? Abbiamo a suo tempo dimostrato, con abbondanza di riscontri, in un’opera dedicata agli scrittori veramente dimenticati del primo Novecento118, come gli un tempo molto popolari da Verona, Zuccoli, Pitigrilli e d’Ambra non siano piú stati ripubblicati (se non con rarissime eccezioni) né abbiano piú formato oggetto di convegni o di rivisitazioni critiche nel secondo Novecento. Al confronto il prolife-rare di convegni, riedizioni e studi critici (che qui abbiamo in parte ci-tato) su Neera, Marchesa Colombi, Matilde Serao, ecc. colpisce come il segno di un’attenzione ben viva e molto piú vigile di quanto si vo-glia far credere. Nello stesso tempo anche gli studiosi e le studiose piú militanti riconoscono senza difficoltà che questo folto plotone di scrit-trici non incontrò alcuna difficoltà ― di editoria o di pubblico ― spar-gendosi anzi a macchia d’olio tra Otto e Novecento, nella massima fioritura della sua produzione119. È tempo insomma di spazzare via

so. Ebbene, nel Novecento su cinquanta romanzieri eccellenti non ci sono venti donne. Anzi non è facile arrivare a tante su cento narratori e prosatori. Dieci? Se si scende al 10% l’avve-nire resta roseo ma per il passato prossimo vedo nero. O sono accecato da faziosità maschile? Questo bilancio forse conferma solo la dittatura degli uomini nella critica. Anche qui però si aprirà presto un nuovo fronte: ci sarà la rivolta delle donne–critico a favore delle scrittrici. In una commissione di laurea constatai: dieci su undici professori erano donne. Stanno cercando le grandi narratrici e le troveranno. Nella nostra epoca ‘relativista’ è all’ordine del giorno il rovesciamento dialettico per cui il brutto diventerà bello e viceversa. Udite, uomini, e tremate. La narrativa del nuovo secolo sarà soprattutto femminile. Le donne hanno cominciato col di-ventare grande maggioranza come lettrici (ora vi raccontiamo noi cos’è l’amore), sono sempre di più le direttrici di collana (ci avete stancato con le interpretazioni prive di fatti), sono opere di donne quelle che piacciono di più anche agli uomini: che si sono scocciati di se stessi.”

116 Cfr. Giuliana Morandini, La voce che è in lei, op. cit., p. 6: “I critici, anche quelli che più sollecitavano il loro esprimersi, ritenevano spesso opportuno relegare questa produzione in una sfera minore, da valutarsi quasi come curiosità, e, quando l’interesse dei testi non con-sentiva tale angustia, erano pronti a scorgervi un superamento della condizione femminile.”

117 Cfr. Anna Santoro, Narratrici italiane dell’Ottocento, Napoli 1987, p. 6: “[…] perché nel nostro paese la produzione femminile è ancora non solo da dimostrare ma da reperire.”

118 Cfr. Enrico Tiozzo, Il romanzo blu. Temi, tempi e maestri della narrativa sentimentale italiana del primo Novecento, op. cit.

119 Cfr. Patrizia Zambon, “Introduzione”, in: Novelle d’autrice tra Otto e Novecento, a cu-ra di Patrizia Zambon, Roma 1988, pp. 9–10: “Uno degli aspetti più nuovi tra quelli che carat-

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questi luoghi comuni e di stabilire una volta per tutte che le scrittrici italiane, tra Otto e Novecento, pubblicarono come e quanto vollero in piena concorrenza con i colleghi di sesso maschile, senza complessi d’inferiorità e con vasto ed innegabile successo. È altresí importante stabilire che, nel secondo Novecento, numerose scrittrici (Neera, Willi Dias, Paola Masino, Marchesa Colombi, Matilde Serao, ecc.) sono sta-te ― giustamente ― oggetto di rivisitazioni critiche, riedizioni, con-vegni, ecc. con un riconoscimento di eccellenza che non è toccato a scrittori della stessa generazione o immediatamente successivi (da Ve-rona, Zuccoli, d’Ambra, Pitigrilli, Mariani, Corra, Saponaro, Gotta, Milanesi, ecc.). Giustamente dunque Claudio Marabini riteneva di do-ver accomunare almeno sotto la stessa insegna scrittori e scrittrici di-menticati120 spazzando via cosí un vittimismo che, dalle vicende dei personaggi narrate nelle pagine dei romanzi di fine Ottocento, sembra essere passato direttamente nelle interpretazioni critiche del secondo Novecento.

terizzano la storia letteraria italiana dell’ultimo Ottocento, del periodo postunitario, è la consi-stente presenza di scrittrici donne – e mi si passi l’uso dei due sostantivi, ché se è certo ridon-dante, permette però un rafforzamento semantico che mi pare necessario. […] L’esplosione dell’attività letteraria femminile in Italia coincide […] in questi anni anzi ne è proprio in rela-zione, con l’esplosione della stampa periodica.”

120 Cfr. Claudio Marabini, “Scrittrici dimenticate”, in: La fama e il silenzio. Scrittrici di-menticate del primo Novecento, a cura di Francesco De Nicola e Pier Antonio Zannoni, Vene-zia 2002, p. 7: “Scrittori e scrittrici dimenticati; come si possono lasciar cadere nomi e libri che hanno destato interesse e si sono affacciati alla Storia; come possa scendere il silenzio do-ve era stata vita e si erano accesi interesse e curiosità.”