L’ MOSÈ DELLA RELIGIONE MONOTEISTICA UOMO … · 1 federico la sala oltre heidegger, in cammino...

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1 FEDERICO LA SALA OLTRE HEIDEGGER, IN CAMMINO CON FREUD E KANT. ALCUNI SEGNAVIA. L’UOMO MOSÈ DELLA RELIGIONE MONOTEISTICA, LUOMO SUPREMO DELLA TEOLOGIA CATTOLICO- ROMANA (ATEA E DEVOTA), E LA BANALITADEL MALE. NOTE PER UNA RILETTURA. 2010

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FEDERICO LA SALA OLTRE HEIDEGGER, IN CAMMINO CON

FREUD E KANT. ALCUNI SEGNAVIA. L’ UOMO MOSÈ DELLA RELIGIONE MONOTEISTICA , L ’UOMO SUPREMO DELLA TEOLOGIA CATTOLICO -ROMANA (ATEA E DEVOTA ), E LA BANALITA ’ DEL

MALE . NOTE PER UNA RILETTURA . 2010

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INDICE: OLTRE HEIDEGGER, IN CAMMINO CON FREUD E KANT. L’ UOMO MOSÈ DELLA

RELIGIONE MONOTEISTICA , L ’UOMO SUPREMO DELLA TEOLOGIA CATTOLICO -ROMANA (ATEA E

DEVOTA ), E LA BANALITA ’ DEL MALE . NOTE PER UNA RILETTURA . I

PRIMA PARTE: SIGMUND FREUD, I DIRITTI UMANI, E IL PROBLEMA DELL’ “UNO”. Appunti per una rilettura di “L’uomo Mosè e la religione monoteistica” e della rivoluzione copernicana in psicoanalisi. Prefazione di Riccardo Pozzo PREFAZIONE DI RICCARDO POZZO NOTA INTRODUTTIVA – ESSERE GIUSTI CON KANT - E CON FREUD. PREMESSA - A FREUD, GLORIA ETERNA!!! INTRODUZIONE - VIAGGIO DI “LAIO”, DEL “SANTO PADRE” A MALTA SULL E ORME DI PAOLO DI TARSO: 2010 d. C CAP. 1 - “L’UOMO MOSE’ E LA RELIGIONE MONOTEISTICA” . CAP. 2 - EICHMANN A GERUSALEMME NEL 1961: DOPO AUSCHWITZ, KANT "ALLA BERLINA". Hannah Arendt, Emil Fackenheim, e l’ “Imperativo Categorico del Terzo Reich”. CAP. 3 - KANT, IL “MOSE’ DELLA NAZIONE TEDESCA” E LE ORIGI NI DELL'“IMPERATIVO CATEGORICO” DI HEIDEGGER E DI EICH MANN . CAP. 4 - KANT, UN ALTRO KANT. LA LEZIONE DI MICHEL FOUCAUL T E LA SORPRESA DI JURGEN HABERMAS. CAP. 5 - FREUD, LA LEGGE DEL FARAONE-DIO, E LA LEGG E MORALE DI KANT. Incompresa la lezione del “Tu devi” di Kant, Freud con gran difficoltà riesce a liberarsi dal “Super-Io” del Faraone. CAP. 6 - UNA ‘CONCLUSIONE’ DI KANT (1766): L’AUTOAN ALISI, E LA BILANCIA DELLA GIUSTIZIA (CON LA SPERANZA) RITROVATA. UNA PA GINA DALLA “CONCLUSIONE TEORETICA RICAVATA DAL COMPLESSO DELLE CONSIDERAZIONI DELLA PRIMA PARTE” DELLA INTERPRETAZIONE DEI “SOGNI DI UN VISIONARIO SPIEGATI CON I SOGNI DELLA METAFISICA”

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SECONDA PARTE: KANT CONTRO L’IDEOLOGIA DELL’ “UOMO SUPREMO” DEI VISIONARI E DEI FILOSOFI DELLA TEOLOGIA-POLITICA A TEA E DEVOTA.

CAP. 1 - KANT: USCIRE DAL MONDO, E NON RICADERE NELL’ILLUSIO NE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “ Storia universale della natura e teoria del cielo”.

CAP. 2 – KANT E LA “STRADA MAESTRA” DELLA “CRITICA". Note pe r una rilettura di " I sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica",

CAP. 3 – KANT: LA BUSSOLA DELLA SANA RAGIONE, L’ATTACCO DEGL I “ILLUMINATI” METAFISICI, E L’ESPERIMENTO GALILEI ANO DELLA NAVE. Note per una rilettura di “ che cosa significa orientarsi nel pensiero”.

CAP. 4 - KANT: IL MARE SENZA RIVA, LA BUSSOLA INAFFONDAB ILE, E IL PROBLEMA DELL’ “IO”.

CAP. 5 - KANT E LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA. L’unità insci ndibile di sensibilità e intelletto.

CAP. 6 - KANT E L’ “IO PENSO” DELL’ “UOMO SUPREMO” DEI V ISIONARI E DEI FILOSOFI DELLA TEOLOGIA-POLITICA ATEA E DEVOTA.

CAP. 7 – KANT, IL GIUDIZIO (“SECUNDA PETRI”), E L’ OPERAZIONE DI PAOLO DI TARSO. COME LA BUONA CAPACITA’ DI GIUDIZIO VENNE (E VIENE) RIDOTTA IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").

NOTA CONCLUSIVA – KANT: CON GALILEI E NEWTON, OLTRE

- IN APPENDICE: 1. - KANT E L’ANTROPOLOGIA DELLA CONOSCENZA. COME ALL’INTERNO, COSI’ ALL’ESTERNO: "VERE DUO IN CARNE UNA" . NOTE SUL PROGRAMMA DI KANT 2. - DANTE, ALLE ORIGINI DEL MODERNO!!! IL “DE VULGARI ELOQUENTIA”, LA “MONARCHIA”, E IL SOFISMA DELLA "FALLACIA ACCIDENTI S" CONTRO IL RETTO AMORE (“CHARITAS”).

3. - PERCHE’ SI VUOLE UCCIDERE KANT? Una nota sul lavoro di Maurizio Ferraris, “Goodbye Kant!”

4. - MONOTEISMO, CRISTIANESIMO E DEMOCRAZIA Nota bibliografica

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PREFAZIONE di Riccardo Pozzo Nato a Contursi Terme nel 1948, ma a Milano dal 1976 apprezzato insegnante di filosofia e pedagogia all’Istituto Magistrale “Gaetana Agnesi”, La Sala è un pensatore che a una notevole originalità di pensiero affianca una profonda radicalità nella tradizione fenomenologica aperta da Enzo Paci. Oltre alla trilogia composta da La mente accogliente (Pellicani, Roma 1991), Della terra il brillante colore (Ripostes, Roma-Salerno 1996) e L’enigma della sfinge e il segreto della piramide (Ripostes, Roma-Salerno 2001), La Sala ha pubblicato luminosi saggi apparsi su Alfabeta, Aquinas, Belfagor, La critica sociologica e altre riviste. Il lavoro che si presenta ha l’obiettivo di mostrare il valore euristico della filosofia di Kant per chiarire la problematica dell’illusione in quanto processo naturale e necessario nel quadro della filosofia della cultura di Freud. La Sala procede nel solco aperto da Jonathan Lear nel suo mirabile volume su Freud, che non a caso contiene un’analisi a tutto campo dell’impatto di Aristotele sulla psicoanalisi (1), che è di per sé una parte centrale della generale questione dell’impatto di Aristotele sulla filosofia moderna (2). La Sala contribuisce alla linea di ricerca aperta da Zelijko Loparic con la fondazione della Sociedade Brasileira de Psicánalise Winnicottiana e da Béatrice Dessain su Kant e Winnicot, che sta avendo degli sviluppi significativi da parte di Loris Notturni (3). Gli oggetti e i fenomeni transizionali permettono al bambino di superare l’indistinzione primaria tra pensiero e mondo attraverso un sistema di illusioni sensibili e mentali che trova espressione nella follia, nel delirio e nel misticismo, tutti fenomeni alla base dei quali sta la teoria kantiana dell’illusione (Schein) e dell’apparenza (Erscheinung) trascendentale. Ripensare l’illusione e l’apparenza nella loro positività significa, come ha notato Loris Notturni, ridefinire obbligatoriamente l’oggettività, la normalità e la verità, della quale viene a cadere la binarietà vero/falso a favore di una riconsiderazione dell’attività della mente che va ben al di là della mera significazione (4) L’umana ontologia che La Sala propone di ricostruire non è poca cosa, vista la profondità della riflessione che propone sulle possibilità e i limiti di un’antropologia filosofica che sia in grado di esprimersi sulle tematiche che definiscono il ventunesimo secolo, e penso in primo luogo alle questioni connesse alla vita, alla famiglia e alla cittadinanza. Note: 1. Jonathan Lear, Freud, Routledge 2005 2. The Impact of Aristotelianism on Modern Philosophy, a cura di Riccardo Pozzo, Catholic University of America Press, Washington, D.C., 2004 3. Béatrice Dessain, Winnicot: Illusion où vérité. De conditions de possibilié de l’avènement du sujet, De Boeck, Bruxelles, 2007; Loris Notturni, Intuition et conception chez Kant et Winnicot. Le statut transcendental de l’illusion, Ph.D., Université de Liège 4. Loris Notturni, Intuition et conception chez Kant et Winnicot. Le statut transcendental de l’illusion , Ph.D., Université de Liège, in preparazione.

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NOTA INTRODUTTIVA ESSERE GIUSTI CON KANT – E CON FREUD. Dopo le lezioni dei maestri del sospetto, e dei maestri del decostruzionismo, forse, è venuto il tempo di reinterrogarsi – come voleva Foucault – su “Che cos’ è l’Illuminismo? Che cos’è la Rivoluzione?” (1984), e riprendere – per capire meglio la portata della rivoluzione copernicana di Freud - la lezione di Kant, a partire dall’interpretazione de “i sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica” (1766). In questo lavoro ‘pre-critico’, egli ha posto le premesse non solo per ‘pesare’ i sogni dei visionari e dei metafisici ma anche dato gli strumenti per non confonderli con i ‘sogni’ di chi ha cercato e ha lavorato a trovare – come Mosè (e come anche Marx) - la via per uscire “dallo stato di minorità”, dallo Stato del Faraone. Sulle spalle dei suoi giganti, Newton e Rousseau, Kant ha aperto una via del tutto nuova, subito sommersa da montagne di sabbia proveniente dal deserto dei vecchi faraoni d’Egitto. Con una mossa, che ha alle spalle tutta la tradizione del “conosci te stesso” e dell’esame di coscienza (decisiva per Kant la lettura della “Professione di fede del vicario savoiardo” dell’ Emilio di Rousseau) e della tradizione astronomica (Storia naturale universale e teoria dei cieli, 1755) con la sua preziosa indicazione del metodo della parallasse, ha individuato (dentro di sé e fuori di sé) uno spazio di dialogo articolato con un’istanza superiore (la bilancia del commercio come dell’intelletto, che diventerà poi il tribunale della Ragione, il tribunale della Coscienza e la Legge morale) che lo porta sulla strada della “Critica” della ragione pura, della ragion pratica e del giudizio, di una conoscenza matura di “se stesso come un altro” e, finalmente, fuori dalla preistoria e dai suoi “totem e tabù”. Dopo Copernico, contrariamente a quanto pensava Freud, non c’è Darwin e lo stesso Freud, ma – prima di tutti e due - Kant! E il frutto di tutto il suo eccezionale lavoro è un’acquisizione perenne per tutta l’umanità. L’unica strada possibile per uscire “dallo stato di minorità” (1784) e lavorare “per la pace perpetua” (1795) è quella del dialogo - con “se stesso come un altro”, alla luce della Legge morale. Tutte le altre portano da nessuna parte e, alla fine, solo allo sterminio totale! Una lezione da Londra. Ieri come oggi, «il problema del nostro mondo è che è molto più facile creare un estremista che un uomo del dialogo, un ideologo che uno spirito critico. Ciò detto, solo gli uomini di dialogo sono uomini di pace e, siccome non si può vivere eternamente nel conflitto, sono loro che hanno le chiavi del futuro. Jonathan Sacks, grande rabbino di Londra, scriveva che, a memoria del passato, doveva ricordarsi delle atrocità commesse dai suoi nemici ma che, per costruire il futuro, il dialogo si imponeva come un imperativo morale: “Per l’amore dei miei figli e dei figli dei miei figli che non sono ancora nati, non potrei costruire il loro futuro sugli odi del passato, né insegnare loro che ameranno di più Dio amando meno le persone.” » (cfr.: Antoine Nouis, “Il dialogo, una relazione esigente”, “Réforme” - n. 3374, 24 giugno 2010). Questo il problema – dell’epoca già di Kant, come e ancor di più della nostra: l’imperativo categorico della legge morale del dialogo, non dell’ubbidienza cieca alla legge astuta del Super-io di turno – dentro di noi e fuori di noi! Federico La Sala

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PREMESSA “ Fino a quando zoppicheremo con i due piedi?” (Elia. 1 Re: 18.21). 'Giuseppe', i suoi ‘fratelli’, e “l’interpretazione dei sogni” e della realtà A FREUD, GLORIA ETERNA!!! "anche se il futuro riplasmerà o modificherà questo o quel risultato delle sue ricerche, mai più potranno essere messi a tacere gli interrogativi che Sigmund Freud ha posto all’umanità; le sue scoperte scientifiche non si possono né negare, né occultare (...) e se mai alcuna impresa della nostra specie umana rimarrà indimenticabile, questa sarà proprio l’impresa di Sigmund Freud" (Thomas Mann) DEUS CLARITAS EST !!! Freud era ‘zoppo’ e ‘cieco’ e lo sapeva (auto-analisi!) e coraggiosamente ha cercato di risolvere il suo (e nostro - di tutti e di tutte) problema edipico, ma tantissimi (e soprattutto i filosofi e i teologi ‘cattolici’ - fideisti o razionalisti, laici e non) lo sono e insegnano che la loro ‘condizione’ è la condizione ‘normale’ di tutti gli esseri umani, e continuano a fare i detrattori del suo “interminato” e “interminabile” lavoro. Non sapendo e negando addirittura la loro (e nostra - di tutti e di tutte) ignoranza su “chi siamo noi, in realtà?”(Nietzsche!), come possono riconoscere o capire “l’interpretazione dei sogni” del giovane ‘Giuseppe’, del giovane Freud?! Come possono “essere giusti con Freud” (J. Derrida)?, con i loro ‘fratelli’ e con le loro ‘sorelle’, se non sanno essere giusti innanzitutto con il loro stesso ‘padre’ in carne e ossa - ‘Giuseppe’ (e con la loro stessa ‘madre’ in carne ed ossa - ‘Maria’)?! Ognuno sputa ‘sentenze’ contro la ‘sua creatura’ - la psicoanalisi, ma nessuno sa quello che fa e quello che dice. Continuano a ripetere il loro ritornello, e non sanno nemmeno ‘ascoltar-si’. Non vogliono né ‘crescere’ né tantomeno abbandonare le loro ‘stampelle’: non solo non hanno letto Kant, ma nemmeno ascoltato Gesù! Anzi, tutti (e tutte) in lotta e, al contempo, tutti (e tutte) uguali tra di loro: ognuno per essere riconosciuto l’unico ‘figlio di Dio’ e prendere il posto del ‘Dio- Padre’, e ognuna per diventare l’unica ‘figlia di Dio’ e prendere il posto della sposa del ‘Dio-Padre’ e madre del ‘Dio-Figlio’!!! Come in terra così in cielo (e viceversa): ciò che a e per loro importa è mantenere o prendere il ‘potere’ e difendere la ‘proprietà’, perciò non sanno né vogliono “aprire gli occhi” (Freud), saper amare il ‘padre’ e la ‘madre’ - ‘Maria’ e ’Giuseppe’, e “camminare eretti”(E. Bloch, Karl Marx). Per loro è “naturale” e “divino”: la donna è “simile” all’ uomo, Mosè è uguale al Faraone, Gesù è uguale ad Edipo, e Dio è uguale a Mammona!!! E, così, continuano ostinatamente a vivere “con una sola gamba” (Bonhoeffer) e a “sputare contro il vento” (Nietzsche) - a 150 anni dalla nascita di Freud, e a duemila e più anni dalla diffusione della “buona notizia”!!! (10.02.2006)

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INTRODUZIONE VIAGGIO DI “LAIO”, DEL “SANTO PADRE” A MALTA SULLE ORME DI PAOLO DI TARSO: 2010 d. C. “A Malta, al momento di pregare per il Papa, sull’altare è salita una bambina di nove anni, sembrava una rappresentazione concreta del concetto cristiano di “angelo”. Ha pregato, a nome di tutti, perché Benedetto XVI «continui ad ascoltare la Parola di Dio con devozione, a meditarla in santità e a testimoniarla con coraggio». Un Papa, una bambina e una preghiera sincera: per immaginare un futuro diverso, basta e avanza”. Così, don Filippo Di Giacomo chiude il suo articolo: La congiura del silenzio. La vicenda dei preti pedofili sta portando alla luce le coperture messe in atto da alti personaggi della Chiesa. E in Vaticano parte lo scaricabarile (l’Unità , 21.04.2010). Nel baratro dell’inferno che si è spalancato davanti a tutta la gerarchia vaticana sulla vicenda dei pastori che mangiano le pecore e gli agnelli, si può ben capire il suo entusiasmo di fronte a questa “patetica” scena del “Pastore” della Chiesa cattolica (“universale”!), mediaticamente composta e volta a tranquillizzare gli animi dei “fedeli”! Ma di fronte a una Istituzione come la Chiesa cattolico-romana, la sua dichiarazione è senza futuro: è “l’avvenire di una illusione” (Sigmund Freud, 1927). Se non ci si interroga su “il disagio della civiltà” (Sigmund Freud, 1929), e su “Perché la guerra?” (Sigmund Freud - Albert Einstein, 1932), che cosa vogliamo capire di Mosè, di Gesù, di san Paolo, di Hitler, di Pio XII, e di Benedetto XVI e del cattolicesimo romano, e di noi stessi e di noi stesse?! Freud aveva ben capito che il contenuto principale del cristianesimo "fu sì la riconciliazione con Dio Padre, l’espiazione del delitto commesso contro di lui, ma l’altro lato della relazione emotiva compariva nel fatto che il figlio, che aveva preso su di sé l’espiazione divenne egli stesso dio accanto al padre e propriamente al posto del padre" (L’uomo Mosè e la religione monoteistica). Detto in modo veloce e semplice : Edipo, il papa-re è in Vaticano - ancora,oggi !!! C’è un gran lavoro da fare, un intero mondo da ripensare e da ricostruire - e non nella direzione dei vecchi e nuovi “sacerdoti di Ammone”!!!

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1- “L’UOMO MOSE’ E LA RELIGIONE MONOTEISTICA”. VIAGGIO DI FREUD A LONDRA, 1938 . Arrivato a Londra, trovata “la più amichevole accoglienza”, tira “un sospiro di sollievo”: “posso nuovamente parlare e scrivere – quasi dicevo: pensare – come voglio e devo”. E si decide: osa portare “davanti al pubblico l’ultima parte “ del suo lavoro, “L’uomo Mosè e la religione monoteistica”. Nel pubblicare l’opera completa (nei suoi tre saggi), nella seconda avvertenza (giugno 1938), Sigmund Freud, sebbene si senta “insicuro” di fronte al suo stesso lavoro, alla fine scrive: “Al mio spirito critico questo lavoro [...] pare una ballerina che cerca di tenersi in equilibrio sulla punta di un solo piede [...] Comunque sia, il dado è tratto” (S. Freud, Opere 11, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 381-382). Il Rubicone è stato oltrepassato, in direzione opposta e in modo ben diverso da quello di Cesare (Roma)! Ciò di cui Freud si rende conto ora – “nella bella, libera, magnanima Inghilterra” - e ancor meglio e di più, è che la strada dell’interpretazione dei sogni (1900) è una strada che porta (e lo ha portato) lontano e che, con l’aiuto della scoperta dell’edipo e della comprensione dell’ “edipo completo”, è possibile comprendere cosa ci sia dietro ogni “Totem e Tabù” (Sigmund Freud, 1912), ricomprendere meglio il nucleo di verità storica e l’eredità della religione monoteistica (e delle tre religioni monoteistiche) e incamminarsi sulla strada di un futuro nuovo per tutta l’umanità. Questa la stella fissa di tutto il suo cammino, non dimentichiamola e non dimentichiamolo. Nel 1902, in una lettera del 28 settembre, Freud scrive a Theodor Herzl (l’autore di Lo Stato ebraico, 1896), per chiedergli una recensione del suo lavoro. Egli dice "di avere chiesto all’editore di mandargli una copia dell’Interpretazione dei sogni" e aggiunge, chiarendo il senso del suo invio - e del suo stesso lavoro: “La prego di conservare la copia come testimonianza dell’alta stima in cui ormai da anni, così come molti altri, tengo lo scrittore e il combattente per i diritti umani del nostro popolo” (cfr.: Yosef H. Yerushalmi, Il Mosè di Freud, Einaudi 1996, pp. 18-19)! Sulla questione del sionismo, Freud è stato sempre fermo e chiaro. Il 26.02.1930, al dottor Chaim Koffler, che lo sollecitava a un intervento a favore, egli risponde con tutta la sua sincerità e tutta la sua determinazione: "Non posso fare ciò che mi chiede. Non riesco a superare l’avversione per l’idea di imporre al pubblico il mio nome; neppure l’attuale momento critico mi sembra motivo sufficiente per farlo. Chiunque voglia influenzare le masse deve dar loro qualcosa di eccitante: la mia opinione moderata sul sionismo non consente nulla di simile. Approvo sicuramente i suoi scopi, sono fiero della nostra università di Gerusalemme, mi fa immenso piacere la prosperità del nostro insediamento. D’altro canto, però, non penso che la Palestina possa mai diventare uno stato ebraico, né che il mondo cristiano e il mondo islamico sarebbero disposti a vedere i loro luoghi sacri in mano agli ebrei. A mio avviso sarebbe stato più sensato fondare una patria ebrea in una terra con meno gravami storici. So però che questa opinione razionale non avrebbe mai suscitato l’entusiasmo delle masse né ottenuto l’appoggio finanziario dei ricchi. Devo tristemente riconoscere che l’infondato fanatismo della nostra gente è in parte colpevole di aver suscitato la diffidenza araba. Non provo alcuna simpatia per una religiosità mal diretta che trasforma un pezzo di mura erodiane in cimelio nazionale, offendendo così i sentimenti della gente del luogo. Giudichi dunque lei se, avendo opinioni così critiche, io sia la persona giusta per farsi avanti e confortare un popolo deluso da speranze ingiustificate" (Yosef H. Yerushalmi, op. cit., pp. 19-20).

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PSICOANALISI, DIRITTI UMANI, EBRAISMO. Da sempre sottovalutato, questo di Freud è un nodo e un punto di vista complesso – carico di passato, di futuro, e di teoria… Nel 1918, in uno scambio epistolare amichevole e scherzoso con Oskar Pfister, ecclesiastico svizzero che faceva anche lo psicoanalista, suo amico e seguace (cfr.: Yerushalmi, op. cit., p. 13), Freud scrive: “Detto per inciso, perché fra tanti uomini pii nessuno ha creato la psicoanalisi, perché si è dovuto aspettare che fosse un ebreo affatto ateo?”. E Pfister, senza scomporsi, risponde: “Ebbene, perché pietà non vuol ancora dire genio scopritore (…) E poi, in primo luogo, lei non è ebreo, cosa che mi spiace assai data la mia immensa ammirazione per Amos, Isaia, Geremia, il poeta di Giobbe e dell’Ecclesiastico, e in secondo luogo non è ateo, perché chi vive per la verità vive in Dio”. E, sicuro che Freud non equivocherà, Pfister sempre scherzosamente risponde: “Non c’è mai stato miglior cristiano”, citandogli testualmente una frase dall’opera di Lessing, “Nathan il saggio” (1769), dalla favola dei tre anelli (vale a dire, della riflessione sul rapporto tra le religioni abramiche: ebraismo, cristianesimo, e islamismo). Da ricordare: il nome della madre di Freud era Amalia, e il cognome Nathanson: morì nel 1930. Nella Motivazione del "Premio Goethe" conferitogli il 28 agosto 1930, in un passaggio, così è detto: "Sigmund Freud ha posto le basi per una rinnovata collaborazione tra le discipline scientifiche e per una migliore comprensione tra i popoli" (S. Freud, Opere 11, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 5). E, dentro questa scia, nel 1931, è interpellato e sollecitato a partecipare a un dibattito epistolare promosso dall’”Istituto internazionale per la cooperazione intellettuale”, per conto della Società delle Nazioni. Nell’estate del 1932, Einstein scrive a Freud e Freud replica alle sue argomentazioni (come aveva già espressamente richiesto e precisato) adottando “il punto di vista psicoanalitico” (S. Freud, op. cit., p. 287). Nasce così, “Perché la guerra?”. Nel 1933, il carteggio viene pubblicato a Parigi, in opuscoli in lingua tedesca, inglese e francese, col titolo rispettivamente: Warum Krieg?, Why War? e Pourquoi la guerre?, e inizia il suo viaggio. In Germania, dove le opere di Freud erano già state messe al bando, la circolazione dell’opuscolo fu vietata. LA GUERRA, LA PACE, E IL PROBLEMA DELL’ “UNO”. Freud, nel chiudere la sua lettera di risposta a Einstein, scrive: “Le chiedo scusa se le mie osservazioni L’hanno delusa” (S. Freud, op. cit. p. 303). Freud è “triste”. Di che cosa, Freud chiede scusa – prima di tutto a se stesso? Non è affatto contento della risposta che ha dato. Ha risposto secondo il punto di vista dell’ateo (materialistico e biologistico), ma ha ‘dimenticato’ (e negato) il punto di vista dell’ebreo (diritti umani). Il discorso su quale strada “condusse dalla violenza al diritto” (cit., 294) gli appare evidentemente e consapevolmente “zoppo” e “cieco”, ancora costretto nelle maglie edipiche. Troppo hobbesiano (“Homo homini lupus”) da una parte e troppo platonico (idealistico e utopistico) dall’altro, esso non fa altro riproporre il sogno e l’utopia della tradizionale “dittatura della ragione” (‘cattolico’-hegeliana): “L’ideale – egli scrive – sarebbe naturalmente una comunità umana che avesse assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione. Nient’altro potrebbe produrre un’unione altrettanto perfetta e tenace, capace di resistere perfino alla rinunzia di vicendevoli legami emotivi. Ma, con ogni probabilità, questa è una speranza utopistica. Le altre vie per impedire indirettamente la guerra sono certo più praticabili, ma non danno garanzie di un rapido successo. E’ triste pensare a mulini che macinano talmente adagio che la gente muore di fame prima di ricevere la farina” (S. Freud, op. cit., p. 301).

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UNA COINCIDENZA E UNA SOMIGLIANZA PERTURBANTE. Ma Freud è Freud. E “il combattente Sigmund Freud” (Motivazione del “Premio Goethe”, cit., p. 5) non si arrende. Continua a cercare la via per uscire dall’inferno e dalla guerra, e ripensa al lavoro e al percorso fatto. Ora – nel 1932, ritorna ancora sull’opera dell’ingegnere, filantropo, e scrittore Josef Popper- Lynkeus (1838-1921), in particolare sulle “Fantasie di un realista”, libro pubblicato a Vienna nel 1899, contemporaneamente a L’interpretazione dei sogni! Freud vi aveva già riflettuto nel 1909 e nel 1923, ma ora – nel decimo anniversario della sua morte e in coincidenza con la riflessione sul “Perché la guerra?” - vi torna di nuovo su e scrive il breve testo, “I miei rapporti con Josef Popper-Lynkeus”. L’esposizione è felice, limpida. Freud riannoda in modo brillante le sue idee e sembra aver ritrovato pace, serenità … per proseguire la sua opera e la sua interpretazione dei sogni. la sua auto-analisi. Nel libro di Popper-Lynkeus, uno dei racconti in esso contenuti, “Traumen wie Wachen” (“ Sogno come veglia”) aveva toccato il “più vivo interesse” di Freud, perché vi è descritto un uomo, un personaggio che vive consapevolmente e in modo non conflittuale (senza rimozione e deformazione onirica) il rapporto sogno-veglia: “Io sono uno e indiviso, gli altri sono divisi e le due parti in cui si dividono – il vegliare e il dormire – sono fra loro quasi perennemente in guerra”. Freud interpreta tale ‘particolarità’, come caratteristica della personalità dello stesso Popper-Lynkeus: “All’uomo che non sognava diversamente da come pensava quand’era sveglio, Popper aveva attribuito la medesima interiore armonia che egli, in quanto riformatore sociale, sperava di infondere nello Stato. E se la scienza ci diceva che un tale uomo alieno da qualsiasi nequizia e falsità non s’era mai visto, né comunque avrebbe potuto sopravvivere, si poteva tuttavia arguire che un’eventuale approssimazione a tale ideale Popper l’aveva trovato in sé stesso” (op. cit., pp.313-314). La ‘sfida’ - sia sul piano teorico sia personale - è grande, ma Freud ‘preferisce’ non raccoglierla. Alla fine scrive: “Colpito profondamente dalla coincidenza fra il mio sapere e il suo cominciai a leggere tutti i suoi scritti (….) finché l’immagine di questo uomo semplice e grande, che fu un pensatore e un critico, ma al tempo stesso un uomo affabile e cordiale, e un riformatore, si delineò chiaramente davanti a me. Meditai a lungo sui diritti dell’uomo per i quali egli si era battuto, e di cui volentieri mi sarei fatto paladino anch’io, né mi lasciai distogliere dal pensiero che l’organizzazione della natura da una parte, e le finalità della società umana dall’altra, non giustificavano appieno tali rivendicazioni. Una particolare simpatia mi spingeva verso di lui, perché anch’egli aveva evidentemente provato l’amarezza dell’essere ebrei ed era stato dolorosamente colpito dalla vacuità degli ideali culturali di questa nostra epoca” (op. cit., p. 314). Il nodo edipico stringe sempre di più. Di Josef Popper-Lynkeus, Freud ha doppiamente paura, sia perché lo mette di fronte a se stesso, sia perché gli indica anche il cammino da fare – come il padre Jakob! Per ora (1932), ancora una volta nega, rimuove, e ammette: “Ma non cercai di conoscerlo (…) Dopo tutto Josef Popper veniva dalla fisica: era stato un amico di Ernst Mach. Non volevo assolutamente che venisse guastata la lieta impressione suscitata dalla coincidenza delle nostre posizioni sul problema della deformazione onirica”. E così, in-credibilmente, mette una pietra tombale sul discorso: “ Continuai dunque a rimandare un incontro con lui, finché fu troppo tardi e mi dovetti accontentare di salutare il suo busto situato nel parco che sta di fronte al nostro palazzo municipale” (op. cit., p. 314). Per Freud sembra negata ogni via d’uscita: il complesso edipico gli appare insuperabile. Nella sua “ fantasia di un realista” e, nel suo mondo di “sogno come veglia”, tra il padre e il figlio la guerra continua ad apparire interminabile e ineliminabile - e la morte (come insegna la fisica di Mach e di Popper) è più forte della vita e dell’amore. L’ateo vince sull’ebreo – il figlio uccide il padre e si consegna allo stesso destino del padre ...

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1933: L’ORA DELLA DECISIONE PER HEIDEGGER. A fine gennaio del 1933, Adolf Hitler giunge al potere. Nello stesso anno, Martin Heidegger diventa rettore dell’Università di Friburgo ed esprime pieno ed inequivocabile appoggio al regime nazista, con il suo famoso discorso su “L’autoaffermazione dell’università tedesca”. Per Heidegger non c’è alcun dubbio che Hitler sia il Messia del popolo tedesco, come ripeterà in uno scritto sul giornale degli studenti dell’Università, il 3 novembre del 1933: “Il Fuhrer stesso e lui soltanto è la realtà tedesca e la sua legge, oggi e da oggi in poi. Rendetevene conto sempre di più: da ora ogni cosa richiede decisione, e ogni azione responsabilità”. La notte scende sulla Germania, e su tutta l’Europa: in un’intervista del 1966, Heidegger, pur mai pentendosi dei suoi trascorsi nazionalsocialisti, dichiarerà che “Solo un Dio ci può salvare”. 1933: L’ORA DEL PERICOLO PER FREUD. IL CAPPELLO NEL FANGO E LA RIPETIZIONE COME RIPRESA. “Così, una volta, [mio padre] mi fece questo racconto per dimostrarmi quanto migliore del suo fosse il tempo in cui ero venuto al mondo io. “ Quand’ero giovanotto – mi disse- un sabato andai a passeggio per le vie del paese dove sei nato. Ero ben visto, e avevo in testa un berretto di pelliccia, nuovo. Passa un cristiano e con un colpo mi butta il berretto nel fango urlando: “Giù dal marciapiede, ebreo!” “E tu cosa facesti?- domandai io. “Andai in mezzo la via e raccolsi il berretto”, fu la sua pacata risposta. Ciò non mi sembrò eroico da parte di quell’uomo grande e robusto che mi teneva per mano” (S. Freud, L’interpretazione dei sogni). VIENNA, BERGGASSE 19. Nel 1933, il padre di una paziente italiana, amico di Mussolini, chiede a Freud un libro da offrire al Duce. Per i tempi che corrono, la richiesta è ‘oscena’: Freud è sollecitato a ‘scappellarsi’ di fronte al Duce! E’ in trappola, sia in quanto ebreo sia in quanto ateo. Che fare?! Da ateo non ci sarebbe nessun problema: si tratterebbe di fare un omaggio al Lupo, al figlio della Lupa (Roma), e di gridare – come e con i tutti i fratelli della ‘eterna’ tradizione faraonica e hobbesiana – “Viva il Lupo”! Da ebreo e semita (si cfr. L’interpretazione dei sogni, a proposito di Annibale Barca) togliersi il cappello e mettere la testa nella bocca del Lupo, sarebbe peggio del berretto gettato nel fango (come nel racconto dell’esperienza del padre, riportata nella Interpretazione dei sogni) - un' ultima e definitiva umiliazione: Freud ha 77 anni ed è malato di tumore alla mascella da tempo. Una risposta di fuoco! Con calma, Freud prende il libretto di Perché la guerra?, da poco uscito,e glielo dà, con la dedica: “Da parte di un vecchio che saluta nel Legislatore l’Eroe della cultura”. Una risposta e due messaggi: uno a Mussolini e uno a Mosè!!! Nello stesso tempo ha reso l’ultimo omaggio al Lupo e finalmente al Legislatore e al Liberatore di tutto il suo popolo. La comunicazione non oppositiva con l’amato padre Jakob e con Mosè è stata ristabilita! Freud si è svegliato dal sonno dogmatico e, in modo brillantissimo, ha vinto la paura della morte, non ha offeso il Lupo, il Duce di Roma (che forse – insieme alla diplomazia americana e inglese – diede un contributo alla liberazione di Freud dalle mani della Gestapo nel 1938), ha salvato se stesso, e “la capra e i cavoli”. Non è che l’inizio – un nuovo inizio! Non tutto è chiaro ovviamente, ma Freud riprende coraggiosamente il discorso già fatto su quale sia la strada che “condusse dalla violenza al diritto” (da Totem e tabù a Perché la guerra?) e comincia a lavorare (1934) su “L’uomo Mosè e la religione monoteistica”, senza sosta - non finirà più se non nel 1938, poco prima di morire, il 23 settembre 1939.

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“Fino a quando zoppicheremo con i due piedi?” (Elia. 1 Re: 18.21). Freud, benché consapevole che il suo lavoro e il suo contributo si portino dietro (ancora non sciolti) elementi della trama edipica, a conclusione della sua vita è contento di quanto ha realizzato, sia per quello che ha fatto nel suo percorso di ricerca sia per quello che è riuscito a dire e a scrivere in L’uomo Mosè e la religione monoteistica. E’ soddisfatto. Quest’ultimo lavoro lo ritiene una bella e soddisfacente conclusione della sua vita: ha dato alla luce una bambina che cammina da sola e sta imparando già a ballare! Con l’aiuto di Edipo ha gettato una grande luce su Mosè e con l’aiuto di Mosè ha gettato una grande luce su Edipo. Con questo doppio movimento, egli ha liberato il cielo - e la terra. Detto diversamente: contrariamente a quanto ancora si ripete, anche dopo Auschwitz, con Freud non è più possibile né pensare né confondere l’Uno del Legis-latore Mosè con l’Uno del Sapere e del Potere del Faraone, di Platone, e dei Grandi Sacerdoti delle religioni tradizionali (e, in particolare, dell’ebraismo, del cattolicesimo, e dell’islamismo). L’Uno di “ l’uomo Mosè e della religione monoteistica” non ha niente a che fare con l’Uno dei vari imperialismi e fondamentalismi, atei e devoti! MEMORIA DELLA LINGUA (E DELLA LEGGE) DELL’ UNO “MOS AICO”. Dei limiti e dei pregi del lavoro di Freud, Albert Einstein (l’ amico, che viene “dalla fisica”) ha detto e capito forse meglio e di più di molti altri (filosofi, teologi, e psicoanalisti). In modo forte, sottile, e fulminante - così gli scrisse il 4 maggio 1939: “Ammiro particolarmente il Suo Mosè, come del resto tutti i Suoi scritti, da un punto di vista letterario. Non conosco alcun contemporaneo che abbia presentato le sue argomentazioni in lingua tedesca in modo così magistrale” (S. Freud, Opere 11, cit., p. 333). Non poteva ricordare meglio a Freud sia il “Premio Goethe” e lo stesso Goethe, sia l’amico di Ernst Mach, Josef Popper-Lynkeus, sia la Lingua e la Legge del Liberatore e Legis-latore Mosè! LONDRA, 20 MARESFIELD GARDENS. Nella sua nuova casa, Sigmund Freud vive i suoi ultimi giorni, con la moglie, Martha Bernays, e la figlia, Anna Freud – Martha morirà nel 1951 e Anna nel 1982. Non siamo di fronte ad Edipo e Mosè non gli ha lanciato alcuna maledizione (si cfr. Jakob Hessing, La maledizione del profeta. Tre saggi su Freud, Editrice La Giuntina, Firenze 1991)! Agli inglesi preoccupati - come alla Direttrice del “Time and Tide” – che gli parlano di un “certo aumento dell’antisemitismo anche” in Inghilterra, il 16 novembre 1938, alla fine di una breve lettera (S. Freud, op. cit., pp. 656-657), egli scrive: “Le attuali ondate di persecuzioni non dovrebbero suscitare un’ondata di compassione in questo paese?”. VARSAVIA 2008. La risposta di Freud del 1938 non è molto diversa (cum grano salis!) da quella data - nel maggio del 2008 - dall’eroe del ghetto di Varsavia, Marek Edelmann, a Gad Lerner, che gli chiese “il perché dell’ostinazione con cui era rimasto a fare il guardiano delle tombe del suo popolo”: «Perché qualcuno provi dispiacere quando lo guardo negli occhi. Voglio dispiacere a quelli che sono contenti che gli ebrei siano morti in Polonia. Hanno vergogna di guardarmi negli occhi, hanno paura di me. E questo mi fa piacere perché non hanno paura di me, ma della democrazia» (Gad Lerner, Varsavia. Nel ghetto di Edelmann, la Repubblica, 19.04.2010).

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LA LEZIONE DI FREUD: NEGARE AL FARAONE LA VITTORIA POSTUMA. Se si vuole, e senza nessuna forzatura, si può ben dire che L’uomo Mosè e la religione monoteistica sia e sia stato di Freud il più prezioso contributo, a pensare meglio la lotta contro l’antisemitismo e contro il nazismo. Nel 1970, Emil Fackenheim istituisce la 614ma norma del canone ebraico: “È fatto divieto agli ebrei di concedere a Hitler vittorie postume” (Emil L. Fackenheim, La presenza di Dio nella storia. Saggio di teologia ebraica, Queriniana, Brescia1977, pp. 97-99 e 111-112). Nel 1982 pubblica “Tiqqun. Riparare il mondo. I fondamenti del pensiero ebraico dopo la Shoah” (Medusa, Milano 2010): in questo, in particolare, di Sigmund Freud nemmeno una parola. Questo modo di comportarsi non mi sembra che sia un modo corretto per “essere giusti con Freud” (Jacques Derrida, 1992), né una buona premessa per trasformare o riparare il mondo!

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2. EICHMANN A GERUSALEMME NEL 1961: DOPO AUSCHWITZ, KA NT "ALLA BERLINA". Hannah Arendt, Emil Fackenheim, e l’ “Imp erativo Categorico del Terzo Reich". Premessa KANT E L’USCITA DALLO STATO DEL FARAONE, DALLO STAT O DI MINORITA’. Uscire dall’Egitto non è un giochino né una passeggiata. Mettersi sulla strada della liberazione significa attraversare il deserto, affrontare una “discesa all’Averno”! Come sa e insegna Kant, per uscire dallo stato di minorità, occorre “il coraggio di servirsi del proprio intelletto senza esser guidati da un altro”. E la cosa è difficile sia dal lato del coraggio sia dal lato del servirsi del proprio intelletto: è “difficile per ogni singolo uomo districarsi dalla minorità che per lui è diventata una seconda natura. E’ giunto perfino ad amarla”. Inoltre, a “far sì che la stragrande maggioranza degli uomini (e con essi tutto il bel sesso) ritenga il passaggio allo stato di maggiorità, oltreché difficile, anche molto pericoloso, provvedono già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l’alta sorveglianza sopra costoro”(I. Kant, Risposta alla domanda: che cosa è l’illuminismo, 1784). Pensare è interpretare. La critica è un esame e un giudizio (I. Kant, “I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica”, 1766), per decidere in che direzione andare! Quale Legge seguire come criterio? La Legge del Faraone o la Legge di Mosè - del “Super-Io” o dell’“Oltre-Io”? Restare in Egitto è restare minorenni per sempre. Pensare da sé, orientarsi nel pensiero, non è facile: “significa cercare in se stessi (vale a dire nella propria ragione) il criterio supremo della verità”, significa “chiedere a se stessi, in tutto ciò che si deve accogliere, se si ritiene fattibile che il fondamento in base a cui lo si accoglie, o anche la regola che consegue a quel che si accoglie, vengano elevati a principio universale dell’uso della nostra ragione. Ognuno può fare su stesso questo esperimento, e vedrà che in quest’esame la superstizione e l’esaltazione ben presto si dilegueranno, anche se egli stesso non avesse le cognizioni necessarie a confutare entrambe con argomenti oggettivi. Egli infatti si serve esclusivamente della massima dell’autoconservazione della ragione”(I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, 1786). Questo esame comporta un “esame di noi stessi, il quale richiede che si scruti l’abisso del cuore sino nelle sue profondità più nascoste (...) che egli cominci a sbarazzarsi di ogni ostacolo interno (creato dalla cattiva volontà che si annida in lui), e che s’affatichi poi a sviluppare in sé le innate disposizioni di una buona volontà, che non possono mai andare interamente perdute. Soltanto la discesa all’Averno della conoscenza di noi stessi apre la via che innalza all’apoteosi” (I. Kant , La metafisica dei costumi, 1797 - Laterza, Bari 1983, p. 302). B. GERUSALEMME, 1961: KANT, ADOLF EICHMANN, E L’IMP ERATIVO CATEGORICO DI HEIDEGGER. L’ABBAGLIO DI HANNAH AREND T PRIMA E DI EMIL L. FACKENHEIM DOPO. 1933: L’ORA DELLA DECISIONE PER HEIDEGGER. A fine gennaio del 1933, Adolf Hitler giunge al potere. Nello stesso anno, Martin Heidegger diventa rettore dell’Università di Friburgo ed esprime pieno ed inequivocabile appoggio al regime nazista, con il suo famoso discorso su

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“L’autoaffermazione dell’università tedesca”. Per Heidegger non c’è alcun dubbio che Hitler sia il Messia del popolo tedesco, come ripeterà in uno scritto sul giornale degli studenti dell’Università, il 3 novembre del 1933: “Il Fuhrer stesso e lui soltanto è la realtà tedesca e la sua legge, oggi e da oggi in poi. Rendetevene conto sempre di più: da ora ogni cosa richiede decisione, e ogni azione responsabilità”. La notte scende sulla Germania, e su tutta l’Europa: in un’intervista del 1966, Heidegger, pur mai pentendosi dei suoi trascorsi nazionalsocialisti, dichiarerà che “Solo un Dio ci può salvare” .(Cfr. Federico La Sala, Sigmund Freud e la Legge dell' "Uno” ... "L’Uomo Mosè e la religione monoteistica". Un’indicazione per una rilettura). ADOLF EICHMANN CHIARISCE COME E’ DIVENUTO “ADOLF EI CHMANN”, MA HANNAH ARENDT TESTIMONIA CONTRO SE STESSA E BANALIZ ZA: “IO PENSO VERAMENTE CHE EICHMANN FOSSE UN PAGLIACCIO” (H. ARENDT, Che cosa resta? Resta la lingua materna. Conversazione di Hannah Arendt con Gunther Gaus, 1964 - in “Aut Aut”, 239-240, 1990) “La conferenza di Wannsee, ovvero Ponzio Pilato”. Nel capitolo settimo di “La banalità del male” (Feltrinelli, Milano 2007) Hannah Arendt affronta “il discorso sulla coscienza” di Adolf Eichmann. Seguendo il filo delle sue dichiarazioni, ella scrive che il vero e proprio punto di svolta della sua vita,“il momento cruciale”, avvenne “nel gennaio del 1942, quando ebbe luogo la conferenza che i nazisti usarono chiamare dei segretari di Stato, ma che oggi è più nota con nome di Conferenza di Wannsee, dal sobborgo di Berlino in cui fu convocata da Himmler” (p. 120): “(...) quella giornata fu indimenticabile per Eichmann. Benché egli avesse fatto del suo meglio per contribuire alla soluzione finale, fino ad allora aveva sempre nutrito qualche dubbio su “una soluzione cosí violenta e cruenta”. Ora questi dubbi furono fugati. “Qui, a questa conferenza, avevano parlato i personaggi piú illustri, i papi del Terzo Reich”. Ora egli vide con i propri occhi e udì con le proprie orecchie che non soltanto Hitler, non soltanto Heydrich o la “sfinge” Muller, non soltanto le SS o il partito, ma i più qualificati esponenti dei buoni vecchi servizi civili si disputavano l’onore di dirigere questa “crudele” operazione. “In quel momento mi sentii una specie di Ponzio Pilato, mi sentii libero da ogni colpa”. Chi era lui, Eichmann, per ergersi a giudice? Chi era lui per permettersi di “avere idee proprie”? Orbene: egli non fu né il primo né l’ultimo ad essere rovinato dalla modestia. Così la sua attività prese un nuovo indirizzo, divenendo ben presto un lavoro spicciolo, di tutti i giorni. Se prima egli era stato un esperto in “emigrazione forzata”, ora diventò un esperto di “evacuazione forzata”. In un paese dopo l’altro gli ebrei dovettero farsi schedare, furono costretti a portare il distintivo giallo per essere riconoscibili a prima vista, furono rastrellati e deportati e i vari convogli vennero spediti a questo o a quel campo di sterminio dell’Europa orientale, a seconda del “posto” disponibile in quel dato momento” (p. 122 - c. vi miei, fls). “I doveri di un cittadino ligio alla legge” - dell’ Imperatore-Dio. Nel capitolo ottavo, il resoconto prosegue, e così inizia: “Eichmann ebbe dunque molte occasioni di sentirsi come Ponzio Pilato, e col passare dei mesi e degli anni non ebbe più bisogno di pensare. Così stavano le cose, questa era la nuova regola, e qualunque cosa facesse, a suo avviso la faceva come cittadino ligio alla legge. Alla polizia e alla Corte disse e ripeté di aver fatto il suo dovere, di avere obbedito non soltanto a ordini, ma anche alla legge.

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Eichmann aveva la vaga sensazione che questa fosse una distinzione importante, ma né la difesa né i giudici cercarono di sviscerare tale punto. Oltre ad aver fatto quello che a suo giudizio era il dovere di un cittadino ligio alla legge, egli aveva anche agito in base a ordini – preoccupandosi sempre di essere“coperto” -, e perciò ora si smarrì completamente e finì con l’insistere alternativamente sui pregi e sui difetti dell’obbedienza cieca, ossia dell’“obbedienza cadaverica”, Kadauergehorsam, come la chiamava lui. La prima volta che Eichmann mostrò di rendersi vagamente conto che il suo caso era un po’ diverso da quello del soldato che esegue ordini criminosi per natura e per intenti, fu durante l’istruttoria, quando improvvisamente dichiarò con gran foga di aver sempre vissuto secondo i principî dell’etica kantiana, e in particolare conformemente a una definizione kantiana del dovere. L’affermazione era veramente enorme, e anche incomprensibile, poiché l’etica di Kant si fonda soprattutto sulla facoltà di giudizio dell’uomo, facoltà che esclude la cieca obbedienza. Il giudice istruttore non approfondì l’argomento, ma il giudice Raveh, vuoi per curiosità, vuoi perché indignato che Eichmann avesse osato tirare in ballo il nome di Kant a proposito dei suoi misfatti, decise di chiedere chiarimenti all’imputato. E con sorpresa di tutti Eichmann se ne uscì con una definizione più o meno esatta dell’imperativo categorico: “Quando ho parlato di Kant, intendevo dire che il principio della mia volontà deve essere sempre tale da poter divenire il principio di leggi generali” (il che non vale, per esempio, nel caso del furto o dell’omicidio, poiché il ladro e l’omicida non possono desiderare di vivere sotto un sistema giuridico che dia agli altri il diritto di derubarli o di assassinarli). Rispondendo ad altre domande, Eichmann rivelò di aver letto la Critica della ragion pratica di Kant, e quindi procedette a spiegare che quando era stato incaricato di attuare la soluzione finale aveva smesso di vivere secondo i principî kantiani, e che ne aveva avuto coscienza, e che si era consolato pensando che non era più “padrone delle proprie azioni”, che non poteva far nulla per “cambiare le cose”. Alla Corte non disse però che in questo periodo “di crimini legalizzati dallo Stato” - così ora lo chiamava - non solo aveva abbandonato la formula kantiana in quanto non più applicabile, ma l’aveva distorta facendola divenire: “agisci come se il principio delle tue azioni fosse quello stesso del legislatore o della legge del tuo paese”, ovvero, come suonava la definizione che dell’ “ imperativo categorico nel Terzo Reich” aveva dato Hans Frank e che lui probabilmente conosceva: “agisci in una maniera che il Fuhrer, se conoscesse le tue azioni, approverebbe” (Die Technik des Staates, 1942, pp. 15-16). Certo, Kant non si era mai sognato di dire una cosa simile; al contrario, per lui ogni uomo diveniva un legislatore nel momento stesso in cui cominciava ad agire: usando la “ragion pratica” ciascuno trova i principî che potrebbero e dovrebbero essere i principî della legge. Ma è anche vero che l’inconsapevole distorsione di Eichmann era in armonia con quella che lo stesso Eichmann chiamava la teoria di Kant “ad uso privato della povera gente”. In questa versione ad uso privato, tutto ciò che restava dello spirito kantiano era che l’uomo deve fare qualcosa di più che obbedire alla legge, deve andare al di là della semplice obbedienza e identificare la propria volontà col principio che sta dietro la legge -la fonte da cui la legge è scaturita. Nella filosofia di Kant la fonte era la ragion pratica; questa, per Eichmann, era la volontà del Fuhrer. Buona parte della spaventosa precisione con cui fu attuata la soluzione finale (una precisione che l’osservatore comune considera tipicamente tedesca o comunque caratteristica del perfetto burocrate) si può appunto ricondurre alla strana idea, effettivamente molto diffusa in Germania, che

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essere ligi alla legge non significa semplicemente obbedire,ma anche agire come se si fosse il legislatore che ha stilato la legge a cui si obbedisce. Da qui la convinzione che occorra fare di più di ciò che impone il dovere. Qualunque ruolo abbia avuto Kant nella formazione della mentalità dell’“uomo qualunque” in Germania, non c’è il minimo dubbio che in una cosa Eichmann seguì realmente i precetti kantiani: una legge è una legge e non ci possono essere eccezioni. A Gerusalemme egli ammise di aver fatto un’eccezione in due casi, nel periodo in cui “ottanta milioni di tedeschi” avevano ciascuno “il suo bravo ebreo”, aveva aiutato una cugina mezza ebrea e una coppia di ebrei viennesi, cedendo alle raccomandazioni di suo “zio”. Questa incoerenza era ancora un ricordo spiacevole, per lui, e così durante l’interrogatorio dichiarò, quasi per scusarsi, di aver “confessato le sue colpe” ai superiori. Agli occhi dei giudici questa ostinazione lo condannò più di tante altre cose meno incomprensibili, ma ai suoi occhi era proprio questa durezza che lo giustificava, così come un tempo era valsa a tacitare quel poco di coscienza che ancora poteva avere. Niente eccezioni: questa era la prova che lui aveva sempre agito contro le proprie “inclinazioni”, fossero esse ispirate dal sentimento o dall’interesse; questa era la prova che lui aveva fatto sempre il proprio “dovere” (...)” (pp142.144). C. COME L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DIVENTA L’I MPERATIVO CATEGORICO DI EICHMANN? Emil L. Fackenheim, nel suo lavoro “Tiqqun. Riparare il mondo”, Medusa Edizioni, Milano, 2010) scrive: “Quando un ebreo pensa a Hitler, ricorda il Faraone, Amalek, Haman: quest’ultimo forse è quello che si avvicina di più al dittatore tedesco. Il Faraone aveva reso schiavi gli Israeliti. Amalek attaccava i più deboli. Ma fu Haman che pianificò di uccidere tutti gli ebrei” (p. 25). Al centro della sua riflessione filosofica e teologica - a partire dal nostro presente storico, dopo Auschwitz e dopo la nascita dello Stato di Israele - è proprio lo sforzo di negare al Faraone, a Hitler, la vittoria postuma. Ma, se questo è il problema e l’obiettivo, è decisamente grave che un ‘architetto’, che va alla ricerca di nuovi “fondamenti del pensiero ebraico dopo la Shoah”, metta fuori campo il contributo di Freud e, in particolare, il suo ultimo lavoro:“L’uomo Mosè e la religione monoteistica” (1938). E dice di una più generale e sintomatica assenza di controllo critico sul suo intero percorso e sulla sua proposta di ‘costruzione’. Non essendo stato giusto con Freud, non lo è stato nemmeno con Kant, il filosofo dell’”uscita dallo stato di minorità” (o, se si vuole, dall’Egitto). E così anche con Mosè – e con se stesso! Pur essendo fermamente convinto che “solo tenendo saldamenti fermi nel contempo “è” e “non dover essere”, il pensiero può guadagnare una sopravvivenza autentica”, che “il pensiero cioè deve assumere la forma della resistenza”, e, ancora, che “il pensiero resistente deve puntare oltre la sfera totale del pensiero, a una resistenza che non sia solo nel “mero” pensiero, ma in un’azione pubblica, in una vita in carne e ossa” (op. cit., p.208), alla fine, finisce anch’egli nel cadere nella trappola della “dottrina - largamente citata, largamente diffusa, largamente accettata della banalità del male” (op. cit., p. 206).

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In una “Lezione pronunciata l’11 aprile 1993 presso l’Università Martin Luther di Halle-Wittenberg”, dal titolo “Auschwitz come sfida alla filosofia e alla teologia”, Fackenheim dice e scrive: “L’anno è il 1961. Il famigerato omicida di massa Adolph Eichmann (...) catturato dagli agenti israeliani e tratto da Buenos Aires in Israele, è (...) sotto processo a Gerusalemme. Il processo si stava protraendo di molto. A un certo punto i giudici chiedono conto all’accusato delle sue convinzioni personali, e questi menziona l’etica di Kant. I giudici devono aver sobbalzato (...) Tutti e tre erano tedeschi di origine, e in quanto tali dovevano avere una certa dimestichezza con Kant. Uno di essi, Yitzhak Rawe, non riuscì a trattenersi: Potrebbe Eichmann spiegare la filosofia morale di Kant? E con sorpresa di tutti, l’accusato diede una sintesi confusa ma in qualche modo adeguato. L’uomo che probabilmente passerà alla storia come il più grande organizzatore di omicidi di massa, conosceva, credeva e talvolta metteva in pratica pezzi dell’insegnamento di Immanuel Kant, il più grande filosofo tedesco” (cfr. Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo. I fondamenti del pensiero ebraico dopo la Shoah, Milano, Medusa, 2010, , p. 290). Fackenheim resta abbagliato. Comprende - e condivide con Hannah Arendt (op. cit., p. 300, nota 3) - che “Per Eichmann «Legge» in fin dei conti significava una sola cosa Fuhrerbefehl [ordine del Fuhrer], chiaro netto, inequivocabile. Che avesse letto o no il libro di Hans Frank, imputato nel processo di Norimberga, La tecnica dello Stato, egli obbedì a quella nuova, originale versione dell’Imperativo Categorico promossa dall’autorevole pensatore: «Agisci in modo tale che il Fuhrer, se conoscesse la tua azione, approverebbe»”(op. cit., p. 291). Ma - come Hannah Arendt – non riesce a capire, e il suo precetto di “negare al Faraone la vittoria postuma” diventa solo un ennesimo ‘precetto’. Tuttavia, se il nodo non sciolto sta come una montagna su tutto il suo lavoro, ha il merito di aver riproposto la domanda decisiva: “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (op. cit., p. 293). E non è poco!

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3. KANT, IL “MOSE’ DELLA NAZIONE TEDESCA” E LE ORIG INI DELL'“IMPERATIVO CATEGORICO” DI HEIDEGGER E DI EICH MANN. In Germania, la “distorsione” e le premesse della ”hitlerizzazione di Kant” avviene già alla fine del 1700, ad opera di Fichte prima e di Holderlin, Schelling, e Hegel poi. Contro il programma critico di Kant che, già con “i sogni di un visionario spiegati coi sogni della metafisica” (1766) prima e soprattutto con la “Critica della ragion Pura” (1781 e del 1787) dopo, ha ‘ghigliottinato’ (anticipando gli eventi: la rivoluzione francese e la morte di Luigi XVI) il “Dio” dei Faraoni (atei e devoti) e – senza negare la rivelazione (l’antropologico “bisogno razionale” della ragione) – ha sbarrato la strada a ogni possibilità di una metafisica e di una teologia come scienza, è Johann G. Fichte. Questi, nato nel 1762, nello stesso anno della pubblicazione dell’Emilio e del Contratto sociale di J.-J. Rousseau, è segnato paradossalmente dalla lettura del Robinson Crusoe di Daniel Defoe. Nel 1791 con il “Tentativo di critica di ogni rivelazione” (1792), Fichte dà l’avvio al suo programma, sottopone il discorso di Kant a una radicale distorsione e comincia le sue lezioni “sui doveri degli eruditi” (sulla cosiddetta “Missione del dotto”, un tema che sarà al centro delle sue preoccupazioni fino al 1811-1812, quando sarà eletto rettore del’Università di Berlino), dà il via libera al sogno di una restaurazione della “Scienza” (“Sul concetto della dottrina della scienza“, e il “Fondamenti della intera dottrina della scienza” sono del 1794) e, infine, con i “Discorsi alla nazione tedesca” (1807-8), lavora a stimolare un risveglio politico e morale della coscienza nazionale in modo già fortemente nazionalistico. Hegel, in una lettera a Schelling del 1795, documenta molto bene l’atmosfera “romantica e mistica” della strada aperta da Fichte e subito condivisa da lui stesso, Schelling, e Holderlin, e a Schelling scrive: “Holderlin mi scrive da Jena di tanto in tanto. (…) Segue le lezioni di Fichte e ne parla con entusiasmo, come di un titano che combatte per l’umanità e la cui sfera d’azione non rimarrà certamente confinata tra i muri dell’aula accademica (…) Venga il regno di Dio e le nostre mani non restino in grembo (…) Ragione e libertà restano la nostra parola d’ordine, e il nostro punto d’incontro resta la chiesa invisibile” (G.W.F. Hegel, Lettere, Laterza, Bari 1972, p. 11-12). L’“ Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico” (Kant, 1784), per quanto ancora segnata da eurocentrismo e memoria delle origini greco-romane, è buttata alle ortiche e l’ottica diventa sempre più (e già, minacciosamente) nazionale. Nel 1799, quando Kant era ancora vivo (uno dei suoi ultimi scritti, “Logica”, uscì nel 1800), Holderlin lo consegna filosoficamente già morto agli amici del “seminario di Tubinga” e lo im-mortala come la pietra fondante della costruzione dell’idealismo tedesco, come il “Mosè della nostra nazione, che conduce dal torpore egiziano nel libero, solitario deserto della speculazione, portandole dal sacro monte l’implacabile legge” (cit. in: Remo Bodei, Scomposizioni, Einaudi, Torino 1987, p. 90). E nel 1805, Hegel a Johann H. Voss (che aveva realizzato la traduzione tedesca dell’Odissea nel 1781 e dell’Iliade nel 1793), scrive: “Lutero ha fatto parlare la Bibbia in tedesco, Lei, Omero: è il più grande regalo che possa essere fatto a un popolo; infatti un popolo rimane allo stato barbarico e non considera come sua proprietà le cose pregiate che viene a conoscere, finché non impara a riconoscerle nella propria lingua. Se Lei vuol dimenticare questi due esempi, Le dirò che il mio sforzo è diretto a far parlare la filosofia in tedesco”. E, poco oltre, aggiunge: “Per la Germania sembra essere venuto il tempo in cui la verità debba diventare manifesta, e che a Heidelberg possa sorgere una nuova aurora per la salvezza della scienza” (G.W.F. Hegel, Lettere, cit., p. 68).

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Hegel sta alludendo alla imminente pubblicazione della “Fenomenologia dello Spirito”, ma è ancora incerto. Su Heidelberg si sbaglia, ma alla fine dell’anno successivo a Jena, occupata dai francesi, abbagliato dalla luce dello Spirito del mondo, riceve l’ ‘investitura’ e scrive: “Ho visto l’Imperatore [Napoleone] – quest’anima del mondo – uscire a cavallo dalla città per andare in ricognizione; è in effetti, una sensazione meravigliosa vedere un tale individuo che qui, concentrato in un punto, seduto su un cavallo, s’irradia per il mondo e lo domina” (Lettera a Niethammer, op. cit., p. 77). Allora rompe ogni indugio e, preso dall’entusiasmo, taglia il cordone all’ombelico del suo sogno (ma anche di Cartesio) e, agli inizi del 1807, butta giù la famosa ‘Vorrede’ (la “Prefazione” alla Fenomenologia dello Spirito), celebrata da Marcuse di “Ragione e Rivoluzione” come “una tra le più grandi imprese filosofiche di tutti i tempi, costituendo niente di meno che un tentativo di restaurare la filosofia come la forma più alta della conoscenza umana, come La Scienza”. Egli, finalmente, è giunto a cogliere e a ‘svelare’ al mondo l’ “elevatissimo concetto appartenente all’età moderna e alla sua religione”: l’Assoluto come Spirito (“ Io che è Noi, Noi che è Io”)! E il sogno di “far parlare la filosofia in tedesco” comincia. Nel 1933, il discorso del rettorato del 1933 di Martin Heidegger è solo la ‘logica’ conseguenza dell’assassinio non solo del “Mosè della nazione tedesca” (come voleva Holderlin), ma del Mosè Liberatore e Legislatore dell’intera tradizione abramica (ebraismo, cristianesimo, e islamismo) ed europea. L’ “Uno” di Mosè (“Ascolta Israele, il Signore nostro Dio, il Signore è Uno”), come l’ “uno”di Kant, diventa l’uno della monarchia prussiana prima (si cfr. la “ Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico” di K. Marx) e poi del Terzo Reich dopo! E il “Tu devi” (con il suo“io voglio”) dell’ “imperativo categorico” mosaico, cristiano e kantiano, diventa il “Tu devi” (con il suo “io voglio”) del Regno del Fuhrer-Dio – l’“imperativo categorico” di Heidegger come di Eichmann. Offesa più grande a Kant non poteva essere fatta e trappola più grande non poteva essere congegnata per la filosofia tedesca e per l’intera cultura europea. Ancora oggi, ci sono studiosi che sembrano “prendere sul serio il profetismo di Heidegger” e insistono a dare credibilità ai sogni dei visionari e dei metafisici: “Ad esempio, nella sua introduzione all’edizione italiana del volume [Risposta. A colloquio con Martin Heidegger, Guida, Napoli 1992], Eugenio Mazzarella scrive: “Paradossalmente è la perdita della patria che ridà ai tedeschi – come all’altro popolo eletto – una missione storico-universale nel senso dell’interiorità e della profezia, e non più in quello demonico del dominio planetario” (pp.34-35). Giustamente, Alessandro Dal Lago, scrive e commenta a riguardo: “No io non credo che alcun popolo abbia oggi missioni storiche, e tantomeno universali da compiere, persino nella interiorità della profezia. Semmai , la scena contemporanea esigerebbe che i pensatori, invece di bearsi della loro grande tradizione, si decidessero ad abbandonare interiorità e profezie, si confrontassero con il mondo (…) Ciò presuppone una ridiscussione dell’immaginario politico immanente nella filosofia stessa, a partire da quello strano pregiudizio per cui i filosofi, chissà perché, sarebbero in grado, più di ogni altro, di leggere il destino del mondo” (cfr. Alessandro dal Lago, Ma fu davvero la cattiva coscienza della Germania, l’Unità, 17 ottobre 1992, p. 18). Purtroppo, dopo Auschwitz (1945) e dopo il processo di Eichmann a Gerusalemme (1961), lo Stato del Faraone e della minorità è ancora molto forte – e, ovviamente, la superstizione e l’esaltazione della ragione anche!

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4. KANT, UN ALTRO KANT. LA LEZIONE DI MICHEL FOUCAULT E LA SORPRESA DI JURGEN HABERMAS . Una freccia scagliata al cuore del presente KANT E LA RIVOLUZIONE COPERNICANA . Se è vero, come è vero, che dopo Copernico “l’uomo rotola verso una X” (Nietzsche), è altrettanto vero che il teorico della “rivoluzione copernicana” in filosofia, una volta sepolto sotto le fondamenta dell’idealismo tedesco, ne condividerà le sorti, fino a essere considerato e ‘naturalmente’ criticato come un restauratore supertolemaico (cfr., ad esempio, John Dewey, nella sua “Ricerca della certezza”, 1929) dell’ “impero” faraonico-idealistico. Il lavoro di Kant, negato e stravolto, scompare sotto un mare di sabbia ‘egiziana’. E chi ha avuto il coraggio di affrontare la discesa all’Averno, ha realizzato la decisiva interpretazione dei “sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica”, e ha sottoposto ad analisi critica la Ragione sì da portarla fuori dall’infantilismo (egocentrico e super-egoico), diviene per lo più invisibile allo stesso Freud (che pure si è occupato di archeologia e ha osato scendere anch’egli agl’Inferi, e nonostante abbia avuto le sollecitazioni di un kantiano come l’autore delle “Fantasie di un realista”, Josef Popper-Lynkeus), che finisce per non cogliere a pieno (Freud, 1924: "L’imperativo categorico di Kant si rivela così il diretto erede del complesso edipico") la portata antropologica del suo programma di ricerca. E, dopo di lui, come gli storici della psicoanalisi così gli storici della filosofia hanno continuato a camminare senza nemmeno vederlo. In un lavoro degli anni scorsi (1973) di due psichiatri e psicoanalisti francesi, che sono occupati della “naissance du psychanalyste de Mesmer a Freud” (cfr. Léon Chertok - Raymond de Saussure, “Freud prima di Freud. Nascita della psicoanalisi”, Laterza, Bari 1975) non un solo riferimento a Kant. In genere, ovviamente, molti gli approfondimenti sul rapporto Hegel-Freud. Paradossalmente è solo nel 1984, nella ricorrenza del bicentenario della celebre “Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo?” (1784), che Foucault (poco prima di morire) si sveglia dal “sonno dogmatico” e lancia l’allarme e un "urlo", con la straordinaria lezione “Che cosa è l’Illuminismo? Che cosa è la Rivoluzione?”. Habermas è sorpreso e stravolto, la sua “ragione comunicativa” è messa in crisi: “Qui non si incontra - egli scrive - il Kant familiare di Le mots et les choses, il critico della conoscenza che con la sua analitica della finitudine ha dischiuso l’epoca del pensiero antropologico e delle scienze umane. In questa lezione incontriamo un altro Kant (…) Foucault scopre in Kant il contemporaneo che trasforma la filosofia esoterica in una critica del presente che replica alla provocazione del momento storico” (J. Habermas, Una freccia scagliata al cuore del presente. A proposito della lezione di Michel Foucault su “Was ist Aufklerung?” di Kant, “Il Centauro”, 11-12, 1984, p.238). Il suo orizzonte, troppo segnato dalla “distorsione” hegeliana della “sostanza “ diventata “soggetto” e dall’entusiasmo ateo-devoto della “conciliazione del divino con il mondo”, non comprende a pieno il capovolgimento e la rottura della lezione foucaultiana. E, alla fine, seguendo il filo della “ragione e rivoluzione” hegeliana, continua il sonnolento dialogo con il custode della tradizione ‘cattolica’ (platonico ed hegelo-marxista), l’amico Josef Ratzinger.

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“Che cosa è l’Illuminismo? Che cosa è la Rivoluzione?”. Per Foucault, “in Che cosa è l’Illuminismo? emerge per la prima volta la domanda sul presente: che cosa accade oggi? Che succede ora? E che cosa è questa “ora”, al cui interno siamo gli Uni e gli Altri? E chi definisce il momento in cui scrive?”(p.229). E, poco oltre, precisa ancora: “In breve, mi sembra emergere in questo testo kantiano per la prima volta la domanda sul presente come evento filosofico cui appartiene lo stesso filosofo che di esso parla (…) Qui si vede anche che la domanda sull’appartenenza a questo presente non è più assolutamente per il filosofo la domanda sulla sua appartenenza ad una dottrina o tradizione; la domanda non riguarda più la sua appartenenza ad una comunità umana in generale, bensì la sua appartenenza ad un determinato “noi”, un noi che si riferisce ad un qualcosa di culturalmente comune, caratteristico per la sua attualità” (p. 230). Così l’Illuminismo “per noi diventa qualcosa di più di un episodio di storia delle idee. L’Illuminismo come domanda è iscritto dal XVIII secolo nel nostro pensiero”. E prosegue: “Ci sono dei pensatori che vogliono oggi conservare viva e intatta l’eredità dell’illuminismo. Lasciamoli alla loro devozione: essa è la più commovente forma di tradimento. Non si tratta oggi di custodire le spoglie dell’Illuminismo, si tratta piuttosto di tener viva come interrogazione e come oggetto teoretico la domanda sull’evento e sul suo senso: la domanda sulla storicità dell’idea di generale”(p. 235). L’ONTOLOGIA DI NOI STESSI . Per Michel Foucault, ora, Kant non è più, non solo e non tanto, il pensatore che ha fondato “la tradizione che muove dalla domanda di quali siano le condizioni che consentono una vera conoscenza”, ma è anche e soprattutto l’inauguratore della tradizione che “pone la domanda: che cos’è attualità? Qual è il campo attuale delle esperienze possibili?”. E qui “non si tratta – scrive Foucault – di una analitica della verità, bensì di una sorta di ontologia del presente, di una ontologia di noi stessi” (M. Foucault, “Che cos’è l’Illuminismo? Che cos’è la Rivoluzione?”, Il Centauro, 11-12, 1984, p. 236). Anzi, a ben vedere, è da qui che bisogna riconsiderare la stessa tradizione dell’analitica della verità e riproblematizzare anche tutta la cosiddetta tradizione critica. E conviene (ne va della nostra stessa auto-comprensione) rileggere Kant di nuovo e da capo – dagli scritti pre-critici fino alla Logica (1800). Con Nietzsche (e contro Nietzsche), bisogna decidersi ad ammetterlo: il “cinese di Konigsberg” (con il suo “Io penso” e il suo “cielo stellato sopra di me” e il suo “Tu devi” e la sua “legge morale dentro di me”), abita il cuore del presente e che la sua strada (ben illuminata) porta a una "montagna” (“berg”), che è “la montagna del Re” (“Konigs-berg”) - della sovranità di tutti gli esseri umani - e non la montagna del Faraone-Dio e dei suoi sacerdoti atei e devoti! ESSERE GIUSTI CON KANT . Di Kant generalmente e per lo più si ricorda la “Critica della Ragion pura” (1781, 1787) e la “Critica della Ragion pratica (1788, 1792, 1797), e la famosa frase dell’inizio della “conclusione” della “Critica della Ragion pratica”, in cui egli parla delle coordinate fondamentali della sua vita, “il cielo stellato” e la “legge morale” (“Due cose hanno soddisfatto la mia mente con nuova e crescente ammirazione e soggezione e hanno occupato persistentemente il mio pensiero: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”), ma solitamente si dimentica che tali coordinate richiamano da una parte il lavoro di Newton e dall’altro – senza dimenticare la decisiva scossa avuta dalla lettura delle opere di David Hume, che l’ha svegliato dal “sonno dogmatico” - il lavoro di J.-J. Rousseau, si rischia (come si è sempre fatto) di tradire profondamente lo spirito di Kant. Uno spirito nient’affatto pedante, ma ricco di infiniti e creativi capovolgimenti in tutto il suo lungo e straordinario lavoro.

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L’INTERPRETAZIONE DEI “SOGNI”(1766). Per evitare riduzionismi ed equivoci, oltre che le trappole interpretative dei soliti “sognatori allucinati con l’aiuto della metafisica”, come terapia, vale la pena riprendere in mano l’interpretazione dei “sogni” di Kant - e rileggerla di nuovo, e meglio! Per cominciare, e per sciogliere l’enigma, non è male ricordare (come invita a fare lo stesso Kant) “il sagacissimo Hudibras” (il protagonista di un poema satirico di Samuel Butler) e del “suo modo di vedere”: “quando un vento ipocondriaco rumoreggia negli intestini, tutto sta nella direzione che prende; se va in basso ne viene un peto, se sale, allora è una visione o un’ispirazione santa” ateo-devota (cfr. I. Kant, “ I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica”, BUR, Milano 1982, p. 136). Che Kant non stia solo a castigare scherzando lo dimostra l’avvio stesso del lavoro, tutto in sintonia con il suo futuro programma critico. Nella “Prefazione”, ed è solo all’inizio, guarda già molto lontano: “Il regno delle ombre è il paradiso dei sognatori. Qui essi trovano un paese sconfinato, dove possano costruire a piacer loro. Vapori ipocondriaci, racconti di balie e miracoli di conventi non lasciano mancare il materiale. I filosofi ne tracciano il piano e lo rimutano o lo respingono, come è loro costume. Soltanto Roma la santa vi ha province redditizie: le due corone del regno invisibile sostengono la terza come il malsicuro diadema della sua altezza terrena, e le chiavi che aprono ambo le porte dell’altro mondo aprono ad un tempo, per simpatia, i forzieri di questo. Simile privilegio del mondo degli spiriti, in quanto l’esistenza sua è fondata sulle ragioni della politica, si eleva di gran lunga sopra tutte le vane obiezioni dei filosofi delle scuole ed il suo uso e abuso è già troppo venerabile perché abbia bisogno di esporsi ad un così disprezzato esame. Ma i racconti ordinarii, che trovano tanta fede o almeno coì debole contrasto, perché vanno intorno così inutili od impuniti e penetrano perfino nei sistemi dottrinali, sebbene non abbiano per sé l’argomento che viene dall’utile (argumentum ab utili), che è di tutti il più convincente?” (op. cit., p.100). A quanto pare (non solo questo o quello, ma un po’ tutti e tutte) abbiamo dormito alla grande! E ancor oggi, nonostante Foucault, non ci siamo accorti quanto Kant sia nostro contemporaneo! Si preferisce di no, si preferisce non vedere (come scrive e vuole anche Habermas) in Kant “il contemporaneo che trasforma la filosofia esoterica in una critica del presente che replica alla provocazione del momento storico”.

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5. FREUD, LA LEGGE DEL FARAONE-DIO, E LA LEGGE MORALE DI KANT. Incompresa la lezione del “Tu devi” di Kant, Freud con gran difficoltà riesce a liberarsi dal “Super-Io” del Faraone. “Come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi? ” (Emil L. Fackenheim, “Tiqqun. Riparare il mondo”). FREUD, KANT, E LA RIVOLUZIONE COPERNICANA . Se Freud concede talvolta a Kant l’onore di qualche riferimento o citazione, la cosa è più di superficie che di piena condivisione del suo punto di vista critico. Egli ne coglie la vicinanza e la consonanza con il suo progetto, ne segnala il punto di contatto, ma non va oltre e non approfondisce. Nella “Metapsicologia” (1915), nel saggio più lungo intitolato “L’inconscio” (cfr. S. Freud, La teoria psicoanalitica, Boringhieri, Torino 1979, p. 139), Freud cosi scrive: “L’ipotesi psicoanalitica di un’attività psichica inconscia ci appare da un lato, come un’ulteriore sviluppo dell’animismo primitivo che ci induceva a ravvisare per ogni dove immagini speculari della nostra stessa coscienza, e dall’altro lato come la prosecuzione della rettifica operata da Kant a proposito delle nostre vedute sulla percezione esterna. Come Kant ci ha messo in guardia contro il duplice errore di trascurare il condizionamento soggettivo della nostra percezione e di identificare quest'ultima con il suo oggetto inconoscibile, così la psicoanalisi ci avverte che non è lecito porre la percezione della coscienza al posto del processo psichico inconscio che ne è l’oggetto. Allo stesso modo della realtà fisica, anche la realtà psichica non è necessariamente tale quale ci appare”. Ma subito proseguendo, con un balzo di sorprendente tracotanza, così scrive: “Saremo tuttavia lieti di apprendere che l’opera di rettifica della percezione interna presenta difficoltà minori di quella della percezione esterna, che l’oggetto interno è meno inconoscibile del mondo esterno”. E con toni non diversi, se pure con giusto orgoglio, qualche anno dopo, quando nella prima serie delle lezioni di “Introduzione alla psicoanalisi” (1916-17) parlerà delle tre “grandi mortificazioni” dell’umanità (in astronomia per opera di Copernico e in biologia per opera di Darwin), del suo lavoro egli dice e scrive sicuro di sé: “Ma la terza e più scottante mortificazione, la megalomania dell’uomo è destinata a subirla da parte dell’odierna indagine psicologica, la quale tende a dimostrare all’Io che non solo egli non è padrone in casa propria, ma deve fare assegnamento su scarse notizie riguardo a quello che avviene inconsciamente nella sua vita psichica” (S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, Boringhieri, Torino 1969). Che le cose non stiano e non saranno così semplici, lo si vede già pochi anni dopo – e le conseguenze saranno pesanti sul piano di tutto il suo percorso sia personale sia scientifico. Di certo, l’autoanalisi non è finita – e molti sono i problemi ancora aperti. Il problema decisivo, il più importante, è proprio quello posto e affrontato dal padre della rivoluzione copernicana in filosofia, in particolare, dal Kant della “Critica della ragion pratica”, quello del “Tu devi”, della “legge morale dentro di me”. Quando Freud comincia ad affrontare a fondo il problema del Super-Io (“Uber-Ich”), emerge in tutta la sua portata la mancanza di un serrato confronto con Kant. Ostacoli enormi lo tratterranno fino alla fine nell’orizzonte materialistico e positivistico, che pure ha decisamente rotto con coraggio agli inizi del suo lavoro, e gli impediranno di essere più lucido e più coerente con le basi copernicane della sua stessa pratica terapeutica!

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In “L’Io e l’Es” (1922), dove la questione del tema “Super-Io (Ideale dell’Io)” comincia ad essere affrontata con forza e la prospettiva è già predeterminata dall’ipotesi avanzata in “Totem e tabù” (1912-13), sono già poste le premesse della incomprensione della lezione del filosofo della interpretazione dei “sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica” e del filosofo dell’ “uscita dallo stato di minorità”. Paradossalmente Freud, pur sapendo chiaramente che “quando il tentativo dell’Io di padroneggiare il complesso edipico risulta mal riuscito, l’investimento energetico riferentesi a questo complesso e derivante dall’Es torna all’opera nella formazione reattiva dell’ideale dell’Io” (p.309), resta fermo alla sua ipotesi ( avanzata sul piano storico in Totem e tabù) che religione, morale e sentimenti sociali, “furono in origine una cosa sola. […] furono acquisiti filo-geneticamente a partire dal complesso paterno: la religione e le limitazioni etiche mediante il superamento del complesso edipico vero e proprio, i sentimenti sociali per la necessità di dominare la rivalità residua fra i membri della giovane generazione” (S. Freud, L’Io e l’Es, in “La teoria psicoanalitica”, cit., pp. 327-328) ma, lasciato nella con-fusione il rapporto tra “Ideale dell’io” e “Super-Io”, finisce per cadere nella trappola del ridurre tutto all’uno del “Super-Io” e a impedirsi un’analisi più attenta e critica del discorso di Kant sia sul piano della morale (“che cosa devo fare?”) sia della religione (“che cosa posso sperare?”). Nel breve saggio “il problema economico del masochismo” (1924), la con-fusione arriva al culmine e nessuna stella brilla più, nemmeno in cielo. E qui, dopo aver riepilogato il discorso su cui ormai si è fatto ‘chiare’ le idee (“il Super-io è infatti il rappresentante dell’Es come pure del mondo esterno ed è sorto in seguito all’introiezione nell’Io dei primi oggetti degli impulsi libidici dell’Es: i due genitori, ma nel frattempo la relazione con tali oggetti è stata desessualizzata, deviata dalle sue dirette mete sessuali”), chiude la partita con Kant: “L’imperativo categorico di Kant si rivela così il diretto erede del complesso edipico” (cfr. S. Freud, La teoria psicoanalitica, cit., p.352). Ma il terribile è che la chiude (almeno per ora) anche con il padre Jakob, con Mosè, e con se stesso. Per Freud non c’è più alcuna distinzione tra Mosè e il Faraone e la Legge di Mosè diventa la “diretta erede” della Legge dell’edipico Faraone!!! Questo chiarisce come non sia affatto né un lapsus né una battuta di spirito assimilare Mussolini a Mosè, come fa nella dedica al Duce sulla copia del “Perché la guerra?”, in cui scrive: “da un vecchio che saluta nel Liberatore l’Eroe della cultura” (1933) !!! Nel 1932, nella “seconda serie delle lezioni” di “Introduzione della psicoanalisi”, aveva già scritto, con in-credibile superficialità: “Vi ricordo la famosa sentenza di Kant, che nomina, l’uno di seguito all’altro, il cielo stellato e la legge morale entro di noi. Per quanto strano possa sembra questo accostamento – che cosa possono avere a che fare i corpi celesti con il problema se una creatura umana ne ama o ne ammazza un’altra? – esso sfiora tuttavia una grande verità psicologica. Lo stesso padre (l’istanza parentale) che ha dato al bambino la vita e lo ha protetto dai suoi pericoli, gli ha anche insegnato che cosa gli è lecito fare e da che cosa si deve astenere, lo ha istruito ad accettare determinate limitazioni dei suoi desideri pulsionali, gli ha fatto capire che, se vuol diventare un membro tollerato e ben accetto della cerchia familiare e più tardi di associazioni più ampie, deve corrispondere all’attesa dei genitori e dei fratelli che vogliono essere rispettati.

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Mediante un sistema di premi dati con amore e di punizioni, il bambino viene educato alla conoscenza dei suoi doveri sociali, gli viene insegnato che la sua sicurezza nella vita dipende dal fatto che i genitori, e poi anche gli altri, lo amino e possono credere nel suo amore per loro. L’uomo introduce in seguito tutti questi rapporti, inalterati nella religione. I divieti e le richieste dei genitori continuano a vivere nel suo intimo sotto forma di coscienza morale, con l’aiuto dello stesso sistema di ricompensa e di punizione, Dio regge il mondo degli uomi, dall’adempimento delle esigenze etiche dipende il grado di punizione e di felicità che è assegnato al singolo, nell’amore verso Dio e nella coscienza di essere da lui amato è fondata quella sicurezza che costituisce l’arma contro i pericoli del mondo esterno e del proprio ambiente umano. Infine, nella preghiera, l’uomo si è assicurato un’influenza diretta sulla volontà divina e quindi una partecipazione all’onnipotenza divina”. E aveva liquidato Kant e il problema, con la ferma convinzione della incrollabilità della sua tesi, che “la Weltanschauung religiosa è determinata dalla situazione tipica dell’infanzia” (op. cit., pp. 538-539). Come ha fatto con Popper-Linkeus (sempre nel 1932) , così ora con Kant: un saluto, al suo busto marmoreo ai giardini pubblici – là dove i bambini vanno a giocare! Solo alla fine, dopo aver superato mille difficoltà nel tentativo di sciogliere l’enigma di “L’uomo Mosè e la religione monoteistica”, dopo aver ammesso di aver nutrito speranze nella protezione della Chiesa cattolica (Avvertenza prima. Vienna, prima del marzo1938) e al contempo riconosciuto che “il cattolicesimo si è mostrato, per dirla con parole bibliche, una canna al vento” (Avvertenza seconda. Londra, giugno 1938), e aver messo al mondo con il suo lavoro “una ballerina in equilibrio su una punta di piede”, si rende conto di essere divenuto padre. E, finalmente, riconosce di essere diventato – al di là del complesso edipico – un viandante libero sulla stessa strada di Mosè, del padre Jakob e della madre Amalia Nathanson, di Kant, di Popper-Lynkeus, di Einstein, e di tutti gli altri esseri umani.

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6. UNA ‘CONCLUSIONE’ DI KANT (1766): L’AUTOANALISI, E LA BILANCIA DELLA GIUSTIZIA (CON LA SPERANZA) RITROVATA. UNA PAGINA D ALLA “CONCLUSIONE TEORETICA RICAVATA DAL COMPLESSO DELLE CONSIDERAZIONI DELLA PRIMA PARTE” DELLA INTERPRETAZIONE DEI “SOGNI DI UN VISIONARIO SPIEGATI CON I SOGNI DELLA METAFISICA” ( Milano 1982, pp. 136-138). La falsità di una bilancia, che secondo le leggi civili deve essere una misura del commercio, si scopre, facendo passare da un piatto all'altro la merce e il peso e la parzialità della bilancia intellettuale si rivela con un artificio analogo, senza del quale neppure nei giudizi filosofici si può ricavare da considerazioni comparative una conclusione concorde. Io ho purificato la mia anima da pregiudizii, ho estirpato ogni cieca predilezione che si fosse insinuata in me, per dare adito ad un qualche sapere illusorio. Ora non vi è per me niente di interessante, niente di rispettabile se non ciò che prende posto per la via della rettitudine in uno spirito calmo ed aperto a tutte le ragioni; sia che questo confermi o distrugga il mio giudizio anteriore, sia che mi conduca ad una decisione o mi lasci nel dubbio. Dovunque io trovi qualcosa che mi istruisca, lo prendo. Il giudizio di chiunque confuti le mie ragioni è il mio giudizio, appena io lo abbia pesato prima di fronte al piatto dell'amor proprio e poi nello stesso di fronte ai miei presunti principii e vi abbia trovato maggior valore. In passato io consideravo l’intelletto umano generale soltanto dal punto di vista del mio; ora mi metto al posto di una ragione estranea e contraria ed osservo dal punto di vista degli altri i miei giudizii con tutte le loro motivazioni più segrete. Il confronto delle due osservazioni mi dà invero delle forti parallassi, ma è anche l’unico mezza per prevenire I'illusione ottica e mettere concetti in quel vero posto in cui stanno in rapporto alla potenza conoscitiva della natura umana. Si dirà che questo è un linguaggio molto serio per una questione così indifferente come quella che noi trattiamo,la quale merita di esser chiamata piuttosto un passatempo che un'occupazione seria, e non si ha torto di giudicare così. Ma sebbene non si debbano fare dei grandi apparati per una píccolezza, si può tuttavia farne in occasione d'una piccolezza; e la prudenza usata nel decidere di piccole questioni, dove è superflua, può servire d'esempio in casi importanti. Io non trovo che una predilezione qualsiasi o un'inclinazione insinuatasi prima dell'esame abbia privato il mio spirito della pieghevolezza necessaria verso ogni sorta di ragioni pro o contro, eccetto una. La bilancia dell'intelletto non è del tutto imparziale e uno dei suoi bracci, quello che porta la scritta: Speranza nell'avvenire, ha un vantaggio meccanico il quale fa sì che anche ragioni lievi gettate nel piatto corrispondente mandino in alto dall'altra parte le speculazioni per sé di maggior peso. Questa è I'unica inesattezza che io non posso eliminare e che effettivamente non voglio mai eliminare. Ora io confesso che tutti i racconti di apparizioni di anime di trapassati o di influssi di spiriti e tutte le teorie sulla ipotetica natura degli spiriti e sul loro rapporto con noi. pesano sensibilmente solo sul piatto della speranza mentre su quello della speculazione sembrano risolversi in aria. Se la soluzione della questione posta non stesse in rapporto di simpatia con qualche inclinazione già in noi preesistente, quale essere ragionevole esiterebbe a decidere se vi sia più verosimiglianza nell'ammettere una specie di esseri che non hanno nulla di simile con tutto ciò che gli apprendono i sensi o nell’attribuire alcune pretese esperienze all'illusione e alla fantasticheria, cose nella maggior parte dei casi tutt’altro che insolite?”.

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SECONDA PARTE:

1. KANT: USCIRE DAL MONDO, E NON RICADERE NELL’ILL USIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”.

Solo chi ha spinto il proprio sguardo nell’immensità / E ha visto mondi e mondi formare un solo universo, / Sistemi generare sistemi, / Orbite planetarie o soli, abitanti diversi in ogni stella, / Potrà dire perché il Cielo ci ha fatto come siamo ( Alexander Pope, An Essay on Man - Motto premesso da Kant , alla “Parte Terza” della “Storia universale della natura e teoria del cielo”).

Continuare a dividere la vita e le opere di Immanuel Kant in due, la fase “precritica” e la fase “critica”, è – storiograficamente - un ‘delitto’, solo un modo per impedir-si e negar-si la comprensione della unitarietà della sua riflessione (scientifica e filosofica, teologica, politica, antropologica, ecc.) e le caratteristiche inedite della sua stessa soggettività. Basta prendere in considerazione solo una delle più importanti opere degli inizi, per comprendere quanto sia necessario e vitale togliere i paletti tra le due fasi.

La “Storia universale della natura e teoria del cielo ovvero Saggio sulla costituzione e sull’origine dell’intero universo secondo i principi newtoniani ” è l’opera di un Autore (pubblicata anonima, nel 1755, a Koenigsberg) che ha appena compiuto trentuno anni. Già solo il titolo dà da pensare – e molto! Se poi si considera che nella dedica (al di là della retorica del caso e del tempo) “A Sua maestà Serenissima e Potentissima / Al Mio Signore / Federico/ Re di Prussia (…)”, “L’Autore” si dichiara addirittura “per tutta la vita” e “con la più profonda devozione, umile servo” della “Mia Reale Maestà”, emergono altre indicazioni – e si aggiungono altre complicazioni (per una lettura più attenta!).

Nell’opera, dopo la “Prefazione” e l’indice del “Contenuto dell’intera opera”, segue la “Parte Prima”, che è titolata “Abbozzo di una costituzione delle stelle fisse ovvero molteplicità dei sistemi stellari” ed è accompagnata da un motto, ripreso dal “Saggio sull’uomo” di Alexander Pope: “Volgi lo sguardo al nostro mondo, scorgi la / catena d’amore che lega la terra al cielo”. Sono due versi famosi sovraccarichi di storia e di teoria - al passato: per il richiamo ai primi versi del canto I - “La gloria di colui che tutto move/ per l’universo penetra, e risplende / in una parte più e meno altrove” - e, all’ultimo verso del canto XXXIII del “Paradiso” di Dante - “L’amore che muove il Sole e le altre stelle”; al futuro: per il richiamo al prezioso lavoro di Arthur O. Lovejoy, “La Grande Catena dell’ Essere” (“The Great Chaim of Being. A Study of a Histoy of an Idea”, del 1936). La cosa non è affatto di poco conto: nella “Storia universale della natura e teoria del cielo”, nel tentativo (nel saggio) di Kant di andare oltre Newton - sia dal punto di vista scientifico sia filosofico-teologico, Pope accompagna Kant fino alla fine. La “Conclusione” dell’opera – non è male ricordarlo e tenerlo presente - è intitolata: “ Il destino dell’uomo nella vita futura”.

Il messaggio è abbastanza chiaro. Chi scrive, parla da uomo a uomo e da sovrano a sovrano e invita (se stesso e) il suo stimato “Signore / Federico / Re di Prussia” ad andare avanti e oltre sulla strada della scienza (Newton) e della saggezza (Pope) - con Newton e con Pope, senza separarli e senza assoggettare l’uno all’altro! L’indicazione di Galilei (se pure mai citato) è tra le righe ed è al fondamento del discorso di Kant: non confondiamo i “due” Libri e non confondiamo “come va il cielo” con “come si va in cielo”!

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Quanto questa indicazione di Kant fosse carica di futuro e tuttavia difficile da seguire, lo dimostra subito Hegel nel 1801, con la sua “Dissertatio de orbitis planetarum” (cfr.: Hegel, Le orbite dei pianeti, a c. di Antimo Negri, Laterza, Bari 1984). Dopo pochi anni dalla morte di Federico II di Prussia, e con Kant ancora in vita (muore nel 1804), egli dimentica e stravolge la lezione di Keplero (che aveva accolto la lezione e riconosciuto a pieno la vittoria di Galilei, con un più che significativo “Vicisti, Galilaee!”), ne riprende la vecchia indicazione di coniugare geometria platonica e Santissima Trinità cattolico-imperiale e lo arruola contro la nuova scienza, contro Newton e contro lo stesso Kant. Il ‘Napoleone’ della nuova filosofia tedesca e della nuova monarchia prussiana si prepara alla grande galoppata con la sua sostanza-soggetto. Nel vero-intero della sua “Fenomenologia dello Spirito” e della sua “Scienza della Logica” dell’Assoluto non solo la “libertà dei pianeti” ma anche e soprattutto la libertà degli uomini sarà ‘messa a posto’. Chi scrive e parla ora non è più un uomo (e un sovrano) che parla e scrive ad altri esseri umani (e sovrani), ma è la stessa Anima del mondo: Dio si è riconciliato con il mondo, con se stesso, e ora parla “da solo a solo”. Come già il giovane Holderlin, Hegel si avvia a diventare il teorico ateo-devoto del nuovo Cristo – dell’Uomo supremo, alla Emanuel Swedenborg!

Nella “Prefazione”, “L’Autore” della “Storia universale della natura e teoria del cielo” dimostra come la “dedica” non sia una retorica esagerazione e quale sia il senso del suo omaggio a Federico II. Consapevole e signore di sé, egli mostra con determinazione e con lucidità non solo di essere fuori dalla stato di minorità e di sapersi servire della propria intelligenza, ma anche di sapersi collocare coraggiosamente fuori dal mondo e di saperlo ‘ricreare’, senza cadere nel delirio né dal lato del materialismo (“che pone il mondo a caso”) né dal lato dell’idealismo (che pone il mondo agli ordini dei miracoli di Dio).

Se la si analizza con attenzione, la “Prefazione” è un vero e proprio “discorso sul metodo”, su come procedere coraggiosamente sulla strada del sapere (“Sapere aude!”). Egli, infatti, presenta il suo lavoro con una modalità già tutta sua e tuttavia carica di risonanze galileiane (del Galileo del “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”) e mostra con brillantezza come si possa – procedendo con l’analisi delle ragioni di opposti paradigmi (in questo caso, del meccanicismo con il suo acritico fideismo materialistico e ateistico e del finalismo idealistico con il suo acritico fideismo devoto nel “disegno divino”) – andare avanti (come anche da indicazione baconiana: “plus ultra”) sulla strada della rivoluzione copernicana e, al contempo, dare “una accoglienza favorevole” alla sua ipotesi “sulla costituzione e sull’origine meccanica dell’intero universo secondo i principi newtoniani”, sia dal punto di vista scientifico sia dal punto di vista filosofico e teologico.

Alla base della ricerca e del discorso di Kant, c’è la chiara consapevolezza di come e quanto sia urgente e necessario andare – con Newton - oltre Newton: egli si è “arreso troppo presto di fronte a ciò che giudicava il limite delle cause meccaniche, e troppo alla lesta” e – cosa ancor più grave - formulando un’ipotesi (tutta interna al vecchio platonismo), “era ricorso all’intervento di un Padreterno creatore di stelle e pianeti”(cfr. Giacomo Scarpelli, “Introduzione”, a: I. Kant, Storia universale ..., cit., p. 12). Per Kant, la situazione è pericolosissima – sia sul piano teologico (e politico) sia sul piano scientifico!

E così, ora, “L’Autore” riprende la parola e si rivolge a chi lo legge (e lo ascolta). Questo l’inizio: “Mi sono posto un compito che, sia per le sue difficoltà interne, sia per quel che concerne la religione, potrebbe suscitare fin dall’inizio un pregiudizio sfavorevole in gran parte dei lettori. Scoprire il sistema che tiene unite le grandi membra del creato, derivare dallo stato primordiale della natura la formazione degli stessi corpi celesti e l’origine dei loro movimenti avvalendosi delle sole leggi meccaniche è impresa che sembra superare di gran lunga le possibilità della ragione umana. La religione, d’altra parte, muove una grave accusa alla temerarietà di chi osa ascrivere alla

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natura abbandonata a se stessa simili effetti, in cui scorge, a ragione, l’immediata presenza della mano dell'Essere supremo, e teme di trovare nell'audacia di tali riflessioni un’apologia dell’ateismo”.

E continua, rassicurando, precisando e incoraggiando: “Sono ben cosciente di queste difficoltà, ma non mi scoraggio. Sento tutta la forza degli ostacoli che mi si oppongono, ma non desisto. Sulla base di una modesta congettura ho intrapreso un viaggio molto rischioso e già scorgo i promontori di nuove terre. coloro che avranno il coraggio di proseguire nella ricerca ne calcheranno il suolo e proveranno il piacere di dare a esse un nome”.

E chiarisce ancora relativamente al suo stile, al suo modo di procedere scientifico, e alle sue convinzioni religiose (al di là del timore della censura): “Non ho definito il piano di quest’impresa, se non dopo essermi posto al sicuro rispetto ai doveri imposti dalla religione. Il mio zelo si è raddoppiato quando, a ogni nuovo passo, vedevo diradarsi le nebbie tenebrose che sembravano nascondere dei mostri e, al loro dileguarsi, emergere la maestà dell'Essere supremo nel suo più vivo splendore. Poiché ora so bene che queste mie fatiche non meritano alcun rimprovero, voglio esporre lealmente tutto ciò che qualcuno, in buona fede o anche per debolezza d'animo, potrebbe trovare scandaloso nei miei piani e sono pronto a sottoporlo al rigore dell’Areopago ortodosso [l’autorità della chiesa luterana di Prussia] con la schiettezza propria di chi ha un modo di pensare onesto” (cfr. I. Kant, Storia universale della natura e teoria del cielo, Bulzoni Editore, Roma 2009, pp. 39-40).

Kant non ha alcun dubbio sulla strada intrapresa e già fatta (una cifra che ricorre in tutte le sue opere fino alla fine): “(…) è proprio la concordanza che riscontro tra il mio sistema e la religione a innalzare serenamente le mie convinzioni al di sopra di tutte le difficoltà”. Egli ne è più che certo: la sua linea teorica ha radici saldissime nella tradizione già di Galilei, di quella tradizione critica europea, che sa ben coniugare la lezione socratica (“so di non sapere” e “unicamente sapiente è Dio”) con la libertà e la sovranità evangelica (del figlio di Dio, Cristo, che è come Dio ma che sa e insegna che “solo Dio è buono”). Al contrario, la convinzione di Kant (come già di Galilei), infatti, è che “i difensori della religione non fanno buon uso delle loro ragioni e, anzi, perpetuano la polemica con i naturalisti, porgendo loro il fianco senza necessità” (op.cit., p. 40); e, poco oltre, insiste e avverte: “Se qualche benintenzionato, per salvare la buona causa della religione”, vuol mettere in discussione la capacità “delle leggi universali della natura, finirà per porsi in imbarazzo da sé e con la propria maldestra difesa fornirà al miscredente l’occasione per trionfare” (op. cit., p. 41).

E invita a riflettere e a non aver paura della sua ipotesi sull’origine meccanica dell’intero universo: “ La materia che si va determinando in virtù delle proprie leggi universali o, se si vuole, secondo una meccanica cieca, produce effetti e condizioni così vantaggiose, che sembrano rivelare il progetto di una mente superiore. […] Questi effetti non si producono per caso o per coincidenza, dato che con altrettanta facilità potrebbero risultare nocivi, vediamo invece che le loro leggi naturali li costringono ad agire in questo e in nessun altro modo. Come considerare allora tale armonia? Come è possibile che elementi di diversa natura, venendo in contatto tra loro riescano a produrre concordanze e bellezze così perfette – persino a vantaggio di esseri come gli uomini e gli animali, situati in certo qual modo fuori dall’ambito della materia inerte – se non in quanto essi sono riconducibili a una origine comune, ossia a un Intelletto infinito, nel quale furono concepite le proprietà essenziali di tutte le cose?” (op. cit., pp. 42-43).

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A chi gli può dire che difendere il suo sistema “significa difendere a un tempo anche le idee di Epicuro, con le quali esso presenta molte affinità”, Kant pazientemente spiega: non voglio contestare il fatto “che le teorie di Lucrezio, o dei predecessori di Epicuro, Leucippo e Democrito presentino molte somiglianze con le mie” (op. cit., p. 44), ma finora – precisa e puntualizza – “è rimasta nell’ombra una differenza essenziale tra la presente cosmogonia e quella antica, una differenza che permette di trarre conseguenze opposte”.

E, continuando, così chiarisce: “Le dottrine appena menzionate, concernenti la generazione meccanica dell’universo, attribuivano l'origine di tutto l’ordine che vi si può percepire al puro caso, al quale era dovuto un incontro di atomi così felice da dar vita a un tutto ben ordinato. Epicuro, poi, fu talmente audace che pretese persino che gli atomi deviassero dal loro movimento rettilineo senza alcuna causa determinata, ma solo per incontrarsi tra loro. Tutti gli altri, portando quest’assurdità alle estreme conseguenze, sono arrivati ad attribuire a questo incontro cieco l’origine di ogni creatura vivente, facendo così derivare la ragione dalla non-ragione”.

Al contrario, nella mia concezione – prosegue Kant - “la materia è sottoposta a determinate leggi necessarie. Dal suo stato di totale dissoluzione e dispersione, io vedo svilupparsi un tutto bello e ordinato, e ciò in modo interamente naturale. E tutto questo non avviene per caso o fortuitamente, ma necessariamente, in virtù di proprietà naturali della materia. In tal modo, non siamo forse indotti a chiederci perché la materia debba esser sottoposta proprio a quelle leggi, che hanno per fine un ordine così vantaggioso? È mai possibile che tante cose, ciascuna delle quali presenta una natura autonoma rispetto alle altre, si siano disposte da sé proprio in questo modo, che ha dato vita a un tutto ben ordinato? E se così accade, non è questa una prova irrefutabile della loro comune origine prima, che altro non può essere se non un supremo Intelletto onnipotente, in cui la natura propria a ogni cosa è stata concepita secondo un intento unitario?” (op. cit., 45).

Come si può vedere da questi brevi cenni, in questo suo avanzare problematico e dialogico (di una soggettività che non mira a nessuna astuta idealistica o materialistica sintesi dialettica!), Kant si mostra uomo maturo e sovrano: e da cosmologo parla ai teologi e da teologo agli scienziati e ai filosofi. Ai teologi mostra l’epocale importanza del lavoro di Newton (le leggi universali della materia e “il cielo stellato” vanno insieme!)) e fa capire chiaramente quanto “umana, troppo umana” sia la concezione del loro “disegno divino” e del loro “Dio”.

A questi, infatti, “L’Autore” dice: Si è “soliti rilevare e ammirare nella natura l’armonia, la bellezza, i fini e la perfetta rispondenza a essi dei mezzi. Tuttavia, mentre da un lato si esalta così la natura, dall’altro si cerca nuovamente di svilirla. Quest’ordine magnifico, si dice, le è estraneo (…) La sua armonia rivela invece l’intervento di una mano estranea che con un saggio disegno ha saputo sottomettere dall’esterno una materia priva di qualsiasi regolarità. Ma a ciò – prosegue Kant – rispondo che se anche le leggi universali della materia sono conseguenza di un disegno divino, esse evidentemente non possono avere altra destinazione che quella di concorrere a completare il piano che la somma sapienza si è proposto, e se così non fosse, non cadremmo forse nella tentazione di credere che almeno la materia e le sue leggi universali siano indipendenti e che la potenza saggissima, la quale ha saputo fare di esse un uso tanto glorioso, sia certamente grande ma non infinita, certamente potente ma non del tutto sufficiente?” (op. cit., pp. 40-41).

Agli scienziati e ai filosofi illustra quanto sia importante andare oltre Newton, liberare il sistema del mondo da quell’ingombrante macigno che è l’ipotesi demiurgica newtoniana, avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza e uscire dallo stato di minorità (il “Sapere aude” e “la legge morale” vanno insieme!): “Pur ammesso, si dirà, che Dio abbia dotato le forze della natura di un’arte segreta, che ha consentito a esse di sviluppare autonomamente, a partire dal caos, un ordinamento perfetto dell’universo, è mai possibile che l’intelletto umano così debole di fronte agli

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oggetti più comuni, sia capace di sondare le proprietà nascoste di un piano tanto vasto? Tentare un’impresa del genere equivarrebbe a dire: Datemi soltanto della materia e io vi costruirò un mondo”. E spiega che la direzione del suo lavoro è quella più promettente, “quella che permette di risalire alle origini nel modo più facile e sicuro; e afferma che, “fra tutte le cose della natura di cui si ricerca la causa prima, quanto si può sperare di comprendere a fondo e con pieno affidamento è proprio l’origine dell’universo, la formazione dei corpi celesti e le cause dei movimenti” (op. cit., 47).

Così procedendo, Kant si porta non solo “oltre Cartesio e ben oltre il prudente Newton” (cfr. Giacomo Scarpelli, op. cit., p. 13) ma anche – in compagnia di Leibniz e dei suoi “principi della natura e della grazia” (1714) - ben oltre le illusioni dei deliranti apologeti (sia materialisti sia idealisti) della società chiusa dell’”uomo supremo”. Da uomo e filosofo, il “cinese di Koenigsbeg” - come Nietzsche lo definisce, alludendo evidentemente all’affinità con Leibniz - non era e non “rimase un fisico anche come metafisico critico” (come pensa Karl Lowith, proprio a partire dalla “Storia universale della natura e teoria del cielo”, nel suo “Dio uomo e modo da Cartesio a Nietzsche, sulla falsariga dei suoi amici idealisti e heideggeriani)!

Kant, al contrario, sapeva benissimo – come e più di Nietzsche – che bisogna perdere “la fede in Dio, nella libertà e nell’immortalità […] come si perdono i primi denti”, bisogna scendere all’Averno (come scrive Kant) o, che è lo stesso, all’inferno (come scrive Dante), per accedere alla sovranità di sé, alla conoscenza dell’“uomo”, e alla conoscenza del “mondo” e di “Dio”! Molti filosofi sono andati all’inferno, ma non ne sono più usciti; qualcuno è riuscito a venirne fuori, ma non sa nemmeno come e perché, e si illude e sogna ancora, alla Swedenborg: “Solo un dio ci può salvare”!

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2. KANT E LA “STRADA MAESTRA” DELLA “CRITICA". Note pe r una rilettura di "I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica",

Con l’interpretazione de “i sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica” (1766), Kant traccia le linee epistemologiche del suo programma di ricerca: egli ha trovato la sua “bilancia” e, come già il Galilei del “Saggiatore”, comincia a usarla! Non a caso, l’atmosfera che traspare – nel breve testo (un vero e proprio ‘discorso sul metodo’ del lavoro critico da portare avanti) – è quello delle grandi occasioni storiche. Fin dall’inizio (“Parte prima dogmatica. Capitolo 1. Un intricato nodo metafisico che si può a piacere sciogliere o tagliare”), egli mostra di essere ben consapevole di quale sia la posta in gioco, a quali reazioni va incontro (considerate le idee dominanti dell’epoca - sul piano metafisico, teologico-politico, e scientifico), e di quanto dura e lunga sarà la lotta. L’attacco ai “grandi sapienti” è fortissimo e richiama la lezione di Galilei e del “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” (quarta giornata): “Le chiacchiere metodiche delle alte scuole sono spesso soltanto un accordo per sfuggire con parole ambigue ad una domanda difficile a risolversi, perché il comodo e il più delle volte ragionevole “Non so” non si ode facilmente nelle accademie” (I. Kant, I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica, Rizzoli, Milano 1982, p. 102). Quasi a dire, leggere bene – con attenzione: qui la questione non è più e solo astronomica, è metafisica in senso stretto e i due sistemi del mondo di cui si parla non sono più il “tolemaico” e il “copernicano”, ma il materialismo e il dogmatismo (l’idealismo e lo spiritualismo). La mossa di Kant spiazza tutti, anche “i giudici più benevoli, meglio intenzionati, come per esempio il Mendelssohn” (E. Cassirer, Vita e dottrina di Kant, La Nuova Italia, Firenze 1977, p. 93). Moses Meldelssohn, lettore assai autorevole e amico di Kant, che in quell’anno preparava “uno scritto, il Phaedon (1767), tre dialoghi intesi a sostenere una volta di più la tesi dell’immortalità dell’anima contro le vedute materialistiche del Lamettrie, del d’Holbach, dell’Helvetius, e degli altri enciclopedisti”, trova “il libretto di Kant sconcertante e ambiguo” e non riesce a capire se Kant sostiene “l’immortalità dell’anima o il suo contrario” (Guido Morburgo-Tagliabue, Introduzione, cfr. I. Kant, I sogni…, cit., pp. 43-44). La sua reazione è molto simile a quella di moltissimi “grandi sapienti” alla pubblicazione dell’opera di Pietro Pomponazzi, “De immortalite animae” (1516). Non comprende (né ora, né dopo la pubblicazione della “Critica della ragion pura”, 1781) che non è più una questione di “doppia verità” e al contempo non è si è più all’interno del naturalismo (antico o moderno), che Kant pensa dopo Galilei, con Newton e Rousseau, e che egli si è inoltrato su un sentiero, nuovo e tuttavia ben solido – né materialistico, né idealistico! – che ormai offre elementi certi per ben distinguere come va il mondo, “come va il cielo”, da “come si va in cielo”! Kant confida troppo nei suoi lettori, non lo dice espressamente, ma il suo punto di vista e il suo modo di filosofare è chiaramente di ispirazione aristotelica e galileiana insieme, dell’Aristotele – ignoto ai “severi difensori di ogni minuzia peripatetica” - riscoperto da Galilei (cfr. “Dialogo sopra i due massimi sistemi”), ed è consonante con lo stesso atteggiamento (teoretico e psicologico) di Galilei nei confronti di Aristotele (o Chi per lui): «Aristotele fu un uomo, vedde con gli occhi, ascoltò con gli orecchi, discorse col cervello. Io sono un uomo veggo con gli occhi, e assai più che non vedde lui: quanto al discorrere, credo che discorresse intorno a più cose di me; ma se più o meglio di me, intorno a quelle che abbiamo discorso ambedue, lo mostreranno le nostre ragioni, e non le nostre autorità» (G. Galilei).

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Kant, contrariamente ai “grandi sapienti”, non fa finta di sapere e non parla per sentito dire, sulla base dell’altrui autorità. Dichiara la sua ignoranza e si mette alla ricerca, in prima persona: “Io non so” – così egli scrive all’avvio del discorso – “se vi siano spiriti, anzi ciò che so che è più ancora, non so neppure che cosa significhi la parola spirito. Giacché tuttavia io stesso me ne sono servito od ho udito altri servirsene, si deve pur intendere qualcosa con essa, sia questo qualche cosa chimera o realtà. Per rendere esplicito questo significato recondito metto il mio malinteso concetto di fronte alle applicazioni più diverse e in quanto io rilevo a quali conviene e a quali no, spero di volgerne il senso nascosto” (I sogni… cit., p. 103). E poco oltre, acquisita attraverso una breve analisi la conclusione che “ si può dunque ammettere la possibilità di esseri immateriali senza timore di essere confutati, ma anche senza speranza di poter dimostrare questa possibilità per via di principi razionali” (op. cit., p. 106), inizia il suo attacco alla millenaria tradizione (platonica prima e cattolica dopo) che ha preteso di aver sciolto l’enigma, di aver trovato nell’anima l’essenza dell’uomo e, con l’anima, l’accesso definitivo alla “pianura della verità”. Con ironia e determinazione, come già Galilei (“chi vuol por termine agli umani ingegni? Chi vorrà asserire, già essersi veduto e saputo tutto quello che è al mondo di scibile”: Lettera a Castelli - 1612, lettera a Cristina di Lorena - 1615), Kant concede, provoca, e fornisce le ‘credenziali’ della sua concezione antropologica e della sua logica della ricerca scientifica: “Supposto ora che si fosse dimostrato essere I'anima dell'uomo uno spirito (sebbene da quanto precede si debba vedere che una simile dimostrazione non è mai stata data), la prima domanda che si potrebbe fare sarebbe questa: Dov’è la sede di quest’anima umana nel mondo corporeo? Ed io risponderei: questo corpo i cui cambiamenti sono cambiamenti miei, questo corpo è il mio corpo e il suo luogo è nel tempo stesso il mio luogo. Supponete che si chieda ancora: Dov’è la sede tua (dell’anima) in questo corpo? Io sospetterei qualcosa di capzioso in questa domanda. Infatti si rivela facilmente che vi si presuppone già ciò che non è conosciuto mediante I'esperienza, ma riposa forse su pretese conclusioni: cioè che il mio Io pensante sia in un luogo, che sarebbe distinto dai luoghi di altre parti di questo medesimo corpo che appartiene a me” (I. Kant, I sogni… cit., p. 108). Ora, poiché nessuno - continua Kant – “ha coscienza immediata di un particolare luogo nel suo corpo, bensì di quello che egli occupa come uomo in relazione col mondo”, Io mi atterrei dunque alla esperienza comune e provvisoriamente direi: Io sono dove sento: sono altrettanto immediatamente nella punta delle dita come nella testa; sono la stessa persona che soffre ai calcagni e in cui il cuore batte nella passione. Quando la gotta mi tormenta io sento l’impressione dolorosa non in un nervo cerebrale, ma all'estremità delle dita. Nessuna esperienza mi insegna a considerare lontane da atre alcune parti della mia sensazione e di rinserrare il mio io immediato in un angolo del cervello, dal quale esso metterebbe in movimento la leva della mia macchina corporea o ne sarebbe affetto. Io chiederei quindi una prova rigorosa per trovare assurdo ciò che dicevano i filosofi delle scuole” ( p. 108). E infine, tirando le somme del suo ragionamento, così prosegue, conclude, e commenta: “La mia anima è tutta nell’intiero corpo e tutta in ogni sua parte. La sana intelligenza coglie spesso la verità prima di vedere le ragioni pe mezza delle quali può esser dimostrata o spiegata. Non mi turberebbe neppure I’obbiezione che in questo modo io concepirei I’anima estesa e sparsa per tutto il corpo, press’a poco come viene rappresentata ai bambini nel Mondo figurato, poiché toglierei di mezzo questa difficoltà col notare come la presenza immediata in tutto uno spazio provi soltanto una sfera della azione esteriore, ma non una molteplicità di parti interiori e perciò neppure una estensione o figura come quelle che hanno luogo soltanto quando in un essere posto per sé solo c'è uno spazio, cioè si riscontrano parti che si trovano le une fuori delle altre. Infine o io so questo poco della proprietà spirituale della mia anima o, se non si acconsente, mi accontento anche di non saperne nulla” (op. cit., pp. 108-109 - senza le note).

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Ovviamente, qui e ora - nei Sogni, il discorso è ancora magmatico e non tutto è già chiaro, ma Kant è ben consapevole di quanto ha acquisito. E, allineato il suo punto di vista alla linea della ricerca aristotelica (“anima e corpo come un tutto unico”), precisa la sua posizione: “Ma quale necessità faccia sì che uno spirito e un corpo costituiscano insieme un tutto e quali cause annullino, in certe alterazioni, questa unità, sono questioni che, come diverse altre, trascendono di molto la mia intelligenza: per quanto poco audace io sia nel misurare la mia capacità intellettiva coi misteri della ragione, sono tuttavia abbastanza sicuro di me da non temere un avversario sia pure terribilmente armato (posto che io avessi disposizioni alla lotta” ( p. 113). E tuttavia, sicuro di sé, alla fine del lavoro dichiara: “io avevo in realtà davanti agli occhi uno scopo, che mi pare più importante di quello che mettevo innanzi e questo credo di averlo raggiunto”. E continua, chiarendo: “La metafisica di cui la sorte ha voluto che mi innamorassi […] presenta due vantaggi. Il primo è di appagare le questioni sollevate dallo spirito investigatore, quando ricerca con la ragione le proprietà recondite delle cose. Ma qui il risultato inganna troppo spesso la speranza e anche questa volta è sfuggito dalle nostre avide mani. […] L’altro vantaggio è più conforme alla natura dell’intelletto umano e consiste nel vedere se il problema si riferisca a quello che possiamo sapere e quale rapporto abbia la questione coi concetti dell’esperienza, sui quali deve sempre fondarsi ogni nostro giudizio. Sotto questo aspetto la metafisica è la scienza dei limiti della ragione umana e, siccome un piccolo paese ha sempre molti confini e in generale gli preme di più in questo caso conoscere e fissare bene i suoi possessi che non andar fuori ciecamente in cerca di conquiste, così questa utilità della predetta scienza è la più sconosciuta come la più importante e viene raggiunta soltanto piuttosto tardi e dopo lunga esperienza” ( pp. 158-159). A dire il vero – Kant continua e precisa – “io non ho qui fissato con precisione bene questi limiti, ma li ho abbastanza chiaramente indicati perché il lettore trovi con un po’ di riflessione che egli può dispensarsi da ogni vana ricerca riguardo ad un problema i cui dati sono in un mondo che ò tutt’altro da quello in cui sente […] ho dissipato l’errore e la vuota scienza che gonfia l’intelletto e usurpa nel suo campo limitato il posto che dovrebbero occupare gli insegnamenti della saggezza e della istruzione utile” (p. 159).

Alla fine Kant conclude con le parole che Voltaire fa dire al suo onesto Candido, dopo molte discussioni inutili: “Pensiamo ai nostri affari, andiamo in giardino e lavoriamo” (op. cit., p. 165), ma in verità egli pensa soprattutto a Rousseau, e (già) all’uscita dallo stato di minorità – sia sul piano personale sia sul piano teologico politico e sociale! La vera sapienza - aveva scritto poco prima – “è compagna della semplicità e siccome in essa il cuore comanda all’intelletto, così essa rende ordinariamente superfluo il grande apparato di dottrina e i suoi fini non hanno bisogno di altri mezzi che non possano essere a disposizione di tutti. Come? Non è bene esser virtuoso se non per il fatto che vi è un altro mondo, o non è vero piuttosto che le azioni saranno un giorno compensate perché erano per se stesse buone e virtuose? Il cuore dell’uomo non contiene dei precetti morali immediati, e si deve, per condurlo conformemente al suo destino, far leva sulla rappresentazione di un altro mondo?” (op. cit., p. 164). Non è che l'inizio. La rivoluzione copernicana è già cominciata!

Ormai egli è ben certo che il sentiero da lui imboccato - con l’aiuto della bilancia e del metodo della parallasse - ha la possibilità (come dirà e ripeterà a conclusione del lavoro della “Critica della ragion pura”) di diventare “una strada maestra”per l’intera umanità e, finalmente, “recare piena soddisfazione alla ragione umana, rispetto a ciò che ha sempre dato incentivo, ma sinora vanamente, al suo desiderio di sapere”.

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3. KANT: LA BUSSOLA DELLA SANA RAGIONE, L’ATTACCO D EGLI “ILLUMINATI” METAFISICI, E L’ESPERIMENTO GALILEIANO DELLA NAVE. Note per una rilettura di “ che cosa significa orientarsi nel pensiero”.

Quando nel 1786, in seguito all’infuriare della “controversia sul panteismo” (e sull’ateismo) accesasi tra Moses Mendelssohn e Friedrich H. Jacobi sulla posizione assunta da Lessing sullo spinozismo, della lotta tra la filosofia della “ragione” e la filosofia della “fede” determinata a riaprire la strada ai visionari e ai metafisici, Kant alla fine interviene. E, pur se non contro Meldelssohn e Jacobi, così scrive: “Mi risulta pressoché incomprensibile che gli studiosi sopracitati abbiano potuto trovare nella Critica della ragion pura punti di appoggio per lo spinozismo” (cfr. I. Kant, “Che cosa significa orientarsi nel pensiero”, Adelphi, Milano 1996, p. 64, n. 1). E’ una presa d’atto coraggiosa e, tuttavia, piena di drammaticità – per sé (in direzione di una possibile autocritica) e per gli amici (che sono andati fuori dal seminato … e dal seminabile). Purtroppo, ancora dopo la pubblicazione della “Critica della Ragion pura” (1781), dopo i “Prolegomeni ad ogni metafisica futura che si vuole come scienza” (1783), dopo la “Fondazione della metafisica dei costumi” (1765), e dopo la “Risposta alla domanda “Che cos’è l’illuminismo?” (1784), si è ancora a una generale incomprensione del discorso fatto nella “Critica” e a una conseguente totale incapacità (come aveva sollecitato a fare già nel 1766) a riflettere e a tener “dietro semplicemente alle conseguenze”, di teorie come lo spinozismo (il panteismo e l’ateismo). Kant scende in campo, e richiama alla propria responsabilità e ad agire per il meglio: “Ma avete riflettuto attentamente su ciò che state facendo e sulle conseguenze dei vostri attacchi alla ragione? Senza dubbio volete che la libertà di pensiero rimanga intatta, poiché senza di essa anche i liberi slanci del vostro genio finirebbero presto. Cerchiamo quindi – egli scrive – di vedere che cosa inevitabilmente ne sarebbe della libertà di pensiero, se la procedura da voi inaugurata prendesse il sopravvento” (op. cit., p. 62). Per Kant si è superata la soglia: dare “via libera” ai sogni dei visionari e dei metafisici, significa solo ricadere nello stato di guerra (nello stato di natura hobbesiano) e all’eterno ritorno del dispotismo, ridare via libera al gioco del vecchio desiderio di sapere (titanico prima e satanico dopo) che vuole giungere al “vero sapere” e mettere fine alla ricerca (cfr. Hegel, “Prefazione” alla “Fenomenologia dello Spirito”)! Purtroppo le cose vanno nel senso non voluto: nello stesso anno, nell’agosto del 1786, Federico II di Prussia – il grande re amico di Voltaire e della libertà di pensiero e di espressione – muore e gli succede Federico Guglielmo II che, con il suo ministro Wollner, rilancia una politica oscurantista e repressiva. Nonostante l’amarezza, con pazienza, sul filo dei discorsi già fatti nei “Sogni” (“si può dunque ammettere la possibilità di esseri immateriali senza timore di essere confutati, ma anche senza speranza di poter dimostrare questa possibilità per via di principi razionali”), e poi , nella “Critica della ragion pura” (si cfr., in particolare, tutta la parte dedicata alla “dialettica trascendentale” e alla “dottrina trascendentale del metodo”), Kant spiega ancora e di nuovo cosa significa “rivoluzione copernicana”, e come sia possibile “orientarsi nel pensiero”. Il tono è pacato e per molti versi accorato, ma nella sostanza è determinato e fortissimo: dobbiamo partire da noi stessi (dall’“uomo in relazione col mondo” - come aveva detto nei “Sogni”, dalla nostra stessa persona che sente e pensa), cercare in noi stessi (nella propria ragione) “la pietra ultima di paragone della verità”(cfr. I. Kant, Che cosa significa orientarsi… cit., p.66), “non dobbiamo spacciare per libera cognizione ciò che è soltanto presupposto inevitabile”, e al contrario dobbiamo capire che “dogmatizzare con la ragion pura nell’ambito del sovrasensibile” conduce

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direttamente “all’esaltazione filosofica” e che “solo la critica” di questa stessa facoltà della ragione garantisce “un rimedio radicale” a questo male (op.cit., p. 53, nota). Prendendo spunto dal lavoro di Mendelssohn, Kant amplia e definisce, “con maggiore precisione”, il concetto di orientarsi e mostra che, come sul piano sensibile non possiamo non partire se non dalla “differenza nel mio stesso soggetto”, “da un criterio di distinzione puramente soggettivo” - il “sentimento” della mano destra e sinistra, così sul piano sovrasensibile – quando la ragione vuole “estendersi al di là di tutti i confini dell’esperienza senza trovare alcun oggetto dell’intuizione”, non possiamo non partire se non dal criterio soggettivo (“l’unico che rimane”), dal “sentimento del bisogno della ragione”, dal “diritto di orientarsi nel pensiero – nello spazio smisurato del sovrasensibile per noi avvolto da tenebre profonde – unicamente in virtù del proprio bisogno” (op. cit., pp. 47- 51): la salda e immutabile “fede razionale” (p. 57), da non confondere – annota Kant - con la “fede storica”, in cui “è pur sempre possibile che vengano trovate prove che dimostrano il contrario e in cui dobbiamo sempre riservarci di mutare opinione se la nostra conoscenza dei fatti dovesse ampliarsi” (op. cit., p. 58). E per togliere ogni ambiguità alla discussione sul criterio soggettivo della “sana ragione”, così precisa con chiarezza e determinazione: “Una pura fede razionale è dunque la guida o la bussola con cui il pensatore speculativo può orientarsi nelle sue peregrinazioni razionali nell’ambito degli oggetti sovrasensibili, e con cui l’uomo dotato di una ragionevolezza comune, ma (moralmente) sana, può tracciare la propria via, perfettamente adeguata dal punto di vista sia teoretico sia pratico all’intero fine della sua destinazione; e questa stessa fede razionale va posta a fondamento di ogni altra fede, anzi di ogni rivelazione”. E, per essere ancora più chiaro, così prosegue: “Il concetto di Dio e la stessa convinzione della sua esistenza si possono rinvenire solo ed esclusivamente nella ragione, derivano solo da essa, e non ci vengono forniti in anticipo né da un’ispirazione né da una novella comunicataci da un’autorità, per quanto grande”. Se ho – scrive Kant – “un’intuizione immediata, tale che a fornirmela non può essere affatto la natura – per quanto la conosco -, è pur sempre necessario un concetto di Dio che serva da criterio per verificare se un’apparenza siffatta concordi con le caratteristiche di una divinità” (op. cit., p. 58-59). Per Kant solo la fede razionale, quella di una ragione (moralmente) sana che si “sottomette solo ed esclusivamente alla legge che essa stessa si dà”, può evitare il peggio e portare l’umanità fuori dallo stato di minorità, altrimenti e necessariamente la ragione, accecata, finirà per “piegarsi al giogo delle leggi imposte da altri, poiché senza una qualche legge niente , nemmeno l’assurdità più grande, può sussistere”. E la conseguenza inevitabile è che “alla fine ci rimettiamo la libertà di pensiero”, e poiché la colpa – scrive Kant - “non è della sfortuna, ma della nostra tracotanza, siamo noi a giocarcela nel vero senso della parola” (op. cit., pp. 63-64). Kant, benché veda crescere dappertutto la tempesta e l’impeto, non dispera: la sua speranza e la sua fede nella ragione sono salde (“possiamo sempre contare – aveva scritto nella “Critica” del 1781, nella sezione su “La disciplina della ragione pura, a riguardo del suo uso polemico” – possiamo sempre contare sulla massima soggettiva della ragione, che manca necessariamente all’avversario, e che ci offre uno scudo, dietro il quale noi possiamo guardare con calma e con indifferenza a tutti i suoi vani attacchi“).

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Ma la posta in gioco è grande, e alla maturità critica - all’imparare a rendersi conto delle illusioni e dei pregiudizi – non si arriva se non attraverso una faticosa lotta! E così Kant, ben sapendo che “radicare l’Illuminismo in singoli soggetti mediante l’educazione” è assai facile, “basta abituare per tempo le giovani menti a questo tipo di riflessione”), e, altrettanto, che “illuminare un’epoca” è molto laborioso, “poiché si trovano numerosi ostacoli esterni che in parte impediscono, in parte rendono difficile un’educazione siffatta”, rompe con l’indifferenza e gli indugi, apre la sua ragione alla carità, e chiude tutto il suo generoso discorso con un accorato appello (op. cit., p. 66, senza nota) : “Amici dell’umanità e di ciò che le è più sacro! Assumete pure ciò che a un esame schietto e accurato vi appare più credibile, si tratti di fatti o di motivi razionali, ma non contestate alla ragione ciò che la rende il bene sommo in terra, cioè il privilegio di fungere da pietra ultima di paragone della verità. In caso contrario, perderete certamente una libertà di cui siete ormai indegni, riversando questa sventura anche su quella residua parte incolpevole che altrimenti sarebbe stata senz’altro disposta a servirsi della propria libertà in maniera conforme alla legge, cioè finalizzata al bene del mondo”.

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4. KANT: IL MARE SENZA RIVA, LA BUSSOLA INAFFONDAB ILE, E IL PROBLEMA DELL’ “IO”.

“Che cosa significa orientarsi nel pensiero” (1786) è un testo decisivo dell’evoluzione del pensiero di Kant e, al contempo, dell’intero pensiero europeo. Nei temi e nei toni affiorano nodi non sciolti del passato e del presente, e segnali di tempeste del futuro, già in avvicinamento: l’inizio di una guerra di lunga durata all’illuminismo kantiano, e alla sua rivoluzione copernicana, in nome di Kant contro Kant!

Kant mostra di essere giunto ad un punto oltre al quale non può più spingersi. Ma non è questo il problema! E’ vero: i suoi stessi amici hanno frainteso (e non capito) la proposta della “terza via”; la sua risposta – pur se ferma e decisa a difendere la sua “fede razionale” e appena venata dal sentimento di una possibile carità razionale – è debole teoreticamente e, alla fin fine, moralistica praticamente. E’ vero: un dialogo pieno tra maggiorenni non c’è stato, ma non c’è stato non per motivi anagrafici o psicologici. E’ teoreticamente, e storicamente, che l’unità stessa del soggetto non c’è ancora: non è stata ancora concepita come l’unità di un soggetto maturo – a tutti i livelli. Pensare da minorenne alla maturità, da suddito alla cittadinanza democratica – ai “diritti dell’uomo e del cittadino” – non è un’impresa da … ragazzi: il “Sapere aude!” non dipende solo dal coraggio di servirsi della propria intelligenza senza la guida di nessuno. Kant lo sa (per esperienza: Federico II di Prussia non è Federico Guglielmo II) e non si ferma né si arrende. Intorno al problema, girerà fino alla fine: la vera questione, a cui si riducono le altre (metafisica, morale, e religiosa), scrive nella Logica (1800), è quella antropologica: “che cosa è l’uomo?”.

Per Kant non ci sono dubbi - è e rimane incrollabilmente e assolutamente fiducioso: solo la strada critica non è un vicolo cieco (quello che imboccano - come già succedeva ai tempi di Parmenide – coloro che, per “l’incapacità che nel loro petto dirige l’errante mente”, sono abituati a “usar l’occhio che non vede e l’udito risuona di suoni illusori”); solo “il criticismo della ragion pura” assicura alla facoltà umana della conoscenza “una duratura condizione, non solo all’esterno ma anche all’interno, di non essere bisognosa di ampliamento o di restrizione, né di esservi anche solo disposta” (I. Kant, I progressi della metafisica, Bibliopolis, Napoli 1977, p. 71). Trasformare “questo sentiero in una strada maestra” (come aveva già scritto nel 1781) è possibile - e necessario: è l’unica che permette una ‘navigazione’ nel dialogo, nella nonviolenza e nella pace (I. Kant, Per la pace perpetua, 1793) e non distrugge la ‘nave’ – l’umanità e la stessa Terra.

Seguendo il filo di Aristotele, Galilei, Newton, Rousseau egli si è spinto coraggiosamente avanti, con la sua bilancia ha trovato il modo sicuro per non perdere la speranza e la fede razionali, ma ora ha trovato dinanzi a sé di nuovo il loro stesso ostacolo: la soggettività da lui conquistata e teorizzata, presuppone (e guarda) a una soggettività che non c’è ancora – nemmeno oggi! La sua epoca è l’epoca del dispotismo e dell’Illuminismo, non è un’epoca illuminata. Kant ne è consapevole, e guarda lontano, pensa già ai cittadini e alla nuova società, a una società democratica: con la sua bussola. è sicuro, è possibile arrivare alla “terra promessa”. Nel suo caso, e ancor di più, possiamo - cosa a cui invita egli stesso, del resto! - “far valere e considerare come un passo avanti anche il non procedere”: egli, infatti, ha fornito una bussola inaffondabile per orientarsi, “un criterio atto a capire ciò che di recente è avvenuto nella metafisica (…) quanto è stato fatto per l’innanzi”, e ciò che “si sarebbe dovuto fare” (I. Kant, I progressi della metafisica, Bibliopolis, Napoli, 1977, p. 68).

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Kant come Mosé: Holderlin aveva ragione. Ma già con lui, e con Fichte, Schelling, Hegel, Feuerbach, Marx, fino a Heidegger e a Lacan (che associa: “Kant e Sade”), inizia la moda di ‘giocare’ a superare Kant e a sciogliere il nodo delle antinomie della ragione, rinnovando e variando le tecniche e gli strumenti sofistici dei visionari e dei metafisici del passato. Ma l’unità e il monoteismo della ragione e del soggetto, a cui guarda fisso (con il metodo della parallasse, di cui parla nei “Sogni”), Kant non ha niente a che fare: non ha niente a che fare con la tradizione platonico-cattolica, con la loro rinnovata e camuffata vecchia unità, con la loro soggettività di un monoteismo, falso e bugiardo.

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5 – KANT E LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA. L’unità ins cindibile di sensibilità e intelletto.

Agli straordinari abitatori del mondo ("i sognatori della sensazione") e agli illuminati abitatori dell’"altro mondo" ("i sognatori della ragione"), Kant ha già chiarito le idee nella sua interpretazione dei "sogni di un visionario" (1766): "la metafisica di cui la sorte ha voluto che mi innamorassi (...) presenta due vantaggi. Il primo è di appagare le questioni sollevate dallo spirito investigatore, quando ricerca con la ragione le proprietà recondite delle cose. Ma qui - egli continua - il risultato inganna troppo spesso la speranza (...) L’altro vantaggio è più conforme alla natura dell’intelletto umano e consiste nel vedere se il problema si riferisca a quello che possiamo sapere e quale rapporto abbia la questione coi concetti dell’esperienza, sui quali deve sempre fondarsi ogni nostro giudizio. Sotto questo aspetto - scrive Kant già con grande lucidità - la metafisica è la scienza dei limiti della ragione umana"(I. Kant, I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica, Rizzoli, Milano 1982, pp. 158-159).

Ma nessuno di loro ha voluto né capire né svegliarsi e imparare a distinguere l’illusione dall’apparenza. Senza bilancia e senza bussola, essi continuano a seguire la strada del "ragno" o delle "formiche" o, addirittura, hanno rinunciato alla possibilità stessa di giungere a una conoscenza "chiara e distinta". Essi hanno continuato e continuano a sognare su come acchiappare "l’anguilla della conoscenza": chi propone di partire dalla coda, chi dalla testa, e chi di scegliere "ciascuno a proprio piacere il proprio punto di partenza" (op. cit., pp. 147-148). Ma, così, continuano a non raggiungere né alcun accordo né alcun risultato e, soprattutto, a non capire nulla né della loro esperienza né di se stessi!

Nel 1766 Kant è già sicuro di sé - e indica la svolta necessaria: "Io sono dove sento: sono altrettanto immediatamente nella punta delle dita come nella testa: sono la stessa persona che soffre ai calcagni e in cui il cuore batte nella passione (...) La mia anima è tutta nell’intiero corpo e tutta in ogni sua parte". E prosegue: "La sana intelligenza coglie spesso la verità prima di vedere le ragioni per mezzo delle quali può essere dimostrata e spiegata" (I. Kant, I sogni di un visionario..., cit. pp.108-109). Di qui ripartire - per fare chiarezza! Noi, il soggetto: questo è il problema e questo il punto di partenza - da riconsiderare.

E’ la questione antropologica - e la svolta cartesiana finita in un vicolo cieco e miseramente (un promettente luminoso "io" sole che, insediatosi da re al centro di tutto, ha subito mostrato la sua natura terrestre (umana, troppo umana) di un semplice, grande "ragno") - che Kant riapre e reimposta, alla grande! La questione è antica: "Che cosa è l’uomo?" "Anima, o corpo, o ambedue insieme, come un tutto unico" (Platone, Alcibiade primo, 130 a). Ma ora il punto di vista è moderno - e di un moderno che attinge energie da profondità simili a quelle dantesche (aristoteliche e bibliche, evangeliche)!

Indietro non si torna. Svegliato e sollecitato dalla lettura da Rousseau e, in particolare, dalla lettura dell’Emilio (soprattutto della centrale "Professione di fede del vicario savoiardo": "[...] sentiamo prima di conoscere [...]. Anche se tutte le nostre idee ci provengono dall’esterno, i sentimenti che le valutano sono dentro di noi, e solo per loro mezzo conosciamo l’armonia o la disarmonia esistente tra noi e le cose che dobbiamo ricercare o fuggire"), Kant riprende la linea della tradizione aristotelica, la coniuga con la libertà della coscienza di Rousseau, e ricomincia a ricostruire tutto - a costruire la sua "Divina Commedia". L’orizzonte cambia interamente e rapidamente: il cielo è libero, stellato sopra di noi, e la legge morale non viene né dall’alto né dal basso - è dentro di noi.

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Nel 1770, con la Dissertazione "De mundi sensibilis atque intellegibilis forma et principiis", è posto il primo grande pilastro della sua costruzione. E’ tolta la confusione relativa a "come va il cielo" e a "come si va in cielo", e la via alla conoscenza è assicurata: "E’ eliminato il "contagio" (Ansteckung, contagium) dell’intelligibile da parte del sensibile, quale emergeva tanto chiaramente nella dottrina newtoniana di Dio", e, al contempo, alle forme della sensibilità [spazio e tempo] sono garantite la certezza incondizionata e l’applicabilità senza eccezioni entro la loro cerchia, e quindi per tutto quanto l’ambito degli oggetti dell’esperienza" (cfr.: E. Cassirer, Vita e dottrina di Kant, La Nuova Italia, Firenze 1977, p. 136).

Nel 1772, in una lettera sul suo programma di lavoro a Marcus Herz (cfr. E. Cassirer, Vita ..., cit., p. 154), così Kant chiarisce il punto essenziale: l’intelletto umano non funziona affatto nè come "un puro intelletto creatore, di un intellectus archetypus", né "di un intelletto puramente senziente, di un intellectus ectypus". "Il nostro intelletto - precisa Kant - non rientra in nessuna di queste due categorie: non genera esso stesso gli oggetti a cui si rapporta nel suo conoscere, e neppure si limita a ricerverne semplicemente gli effetti quali si danno immediatamente nelle impressioni sensibili". L’interpretazione dei "sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica" apre le porte alla rivoluzione copernicana e alla trasformazione della domanda della metafisica("Che cosa posso sapere?"). La "metafisica" diventa "filosofia trascendentale" - nel senso rigoroso in cui più tardi la Kritik der reinen Vernunft definirà il nuovo termine: "Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupa non degli oggetti ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti in quanto questa deve essere possibile a priori" (cfr.: E. Cassirer ... cit., p. 158).

Tutti parlano, lodano, e cercano di fare del "trascendentale" una moda, ma non ci riescono e, allora, decidono di muovere all’attacco di "quel Kant che sgretola tutto" (Moses Mendelssohn) e sta smontando il teatrino della vecchia metafisica. Filosofi, dotti, e "amici dell’umanità", - nella incapacità di riflettere criticamente sul fatto che, "per quanto ogni nostra esperienza incominci c o n l’esperienza, non per questo proprio tutte le debbono sorgere d a l l’esperienza" (I. Kant, Critica della Ragion Pura, "Introduzione", Adelphi, Milano 1976, p. 45), non solo continuano ad "orientarsi" male e confusamente, ma cominciano a contestare alla "sensibilità" il suo valore e il suo legame con l’"intelletto", e "alla ragione ciò che la rende il bene sommo in terra", negano la "fede razionale" e corrono ciecamente dietro illusioni tanto pericolose da perdere per sempre la libertà, "una libertà" di cui "sono ormai indegni" (I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, Adelphi, Milano 1996, pp. 65-66).

Questi "nuovi" filosofi non sanno né vogliono capire che "pensare da sé significa cercare in sé stessi (cioè nella propria ragione) la pietra ultima di paragone della verità" (I. Kant, op. cit., nota 1, p. 66) - la bilancia dell’intelletto, come l’aveva chiamata nei "Sogni". E non sanno che, per trovarla e per usarla, bisogna "servirsi della propria libertà in maniera conforme alla legge, cioè finalizzata al bene del mondo" (cit., p. 66). Essi vogliono solo perpetuare il gioco platonico-cattolico del pastore e delle pecore!!!

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6 - KANT E L’ “IO PENSO” DELL’ “UOMO SUPREMO” DEI VI SIONARI E DEI FILOSOFI DELLA TEOLOGIA-POLITICA ATEA E DEVOTA.

1. Kant e il problema della "feconda immaginazione".

Come per Dante, così per Kant. "I sogni di un visionario" (troppo sottovalutati dai filosofi e dagli storici della filosofia kantiana) sono come la “Vita nova” di Dante (prima e “L’interpretazione dei sogni” per Freud dopo): una svolta decisiva. Nel confronto con l’Ulisse del suo tempo, Emanuel Swedenborg, che sembra abbia trovato la via per l’aldilà e incontrato tanta gente, egli riesce a capire la grandissima importanza dell’immaginazione e, al contempo, a trovare nel pagliaio l’ago della bussola "con la speranza", per "orientarsi" nel mare delle illusioni. Ne ha colto il legame con la vita stessa dell’uomo, con la "ragione" e con la "metafisica", e ne ha chiarito il come e il quanto sia fondamentale coniugare ed equilibrare il suo potere con quello dell’esperienza e della saggezza, per non dare ali a folli voli e non porre fine all’avventura stessa dell’umanità e al suo desiderio e alla sua volontà di seguire virtù e conoscenza.

Per Kant, pensare non è conoscere e le illusioni, le finzioni, e "le invenzioni" non sono "ipotesi": possono diventare "ipotesi" - come nel caso della gravitazione universale - solo se esse accordano "all’esperienza il diritto di decidere" sulla loro possibilità o impossibilità e realtà. Il pericolo, sempre ben presente a Kant, è che i possibili frutti dell’ immaginazione, presentati come dotati di autorità e di validità assoluta della sua ’sapiente’ astuzia (come dirà nella "Critica della ragion pura"), possono portare non solo un individuo "fuori della cerchia della conoscenza umana", ma l’intera società direttamente alla “pace perpetua”!

Kant vede molto bene cosa c’è alla base dei sogni dei visionari e dei metafisici di tutti i tipi e di tutti i tempi! Al fondo, e in fondo, c’è solo infantilismo, titanismo, e superomismo - una volontà di potenza immatura e cieca, che celebra solo se stessa e il suo proprio Spirito ateo e devoto (“un Io che è Noi e un Noi che è Io”). Kant, come Mosè, buon profeta: Emanuel Swedenborg, il padre di tutto l’idealismo tedesco e del romanticismo dell’Assoluto!

ECCO L’“UOMO SUPREMO”. In una pagina della "parte s econda o storica" dei "Sogni", nel capitolo secondo intitolato "Viaggio estatico di un entusiasta nel mondo degli spiriti ", dopo aver fornito - senza aver "aggiunto nessuna fantasticheria" sua a quella di Swedenborg - un "fedele riassunto al lettore comodo ed economo", Kant così scrive:

"[…] Ho già detto che secondo il nostro autore [Swedenborg] le diverse forze, e proprietà dell’anima sono in simpatia con gli organi del corpo sottoposti al loro governo. tutto l’uomo esteriore corrisponde quindi a tutto l’uomo interiore, e se perciò un notevole influsso spirituale colpisce dal mondo invisibile l’una o l’altra di queste potenze dell’anima, egli ne risente pure armonicamente nell’apparente presenza nelle membra del suo uomo esterno, che corrispondono ad essa. [...]

Da questo si può ora, se si crede che valga la pena, farsi una idea della più strana e rara immaginazione, nella quale concorrono tutti i suoi sogni. Nello stesso modo cioè che le diverse potenze e facoltà costituiscono quell’unità che è l’anima o l’uomo interno, così anche i diversi spiriti (i cui caratteri principali concordano fra di loro come le diverse capacità di uno spirito) costituiscono una società, che ha in sé I’apparenza di un grande uomo, e nella cui figura ciascuno si vede in quello stesso posto e in quelle membra visibili che sono conformi alla sua speciale funzione

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in un simile corpo spirituale. Tutte le società spirituali poi e l’intiero mondo di tutti questi esseri invisibili appare alla fine ancora sotto I’apparenza dell’uomo supremo.

Fantasia prodigiosa, gigantesca, che è forse lo svolgimento di una vecchia rappresentazione infantile , quando cioè nelle scuole, per venir in aiuto alla memoria, si raffigura tutta una parte del mondo sotto l’aspetto di una vergine seduta, eccetera. In quest’uomo sterminato vi è un continuo ed intimo commercio di uno spirito con tutti gli altri e di tutti con uno; e, qualunque possano essere la posizione reciproca degli esseri viventi in questo mondo o il loro cambiamento, essi hanno tuttavia nell’uomo supremo un tutt’altro posto, che non mutano mai, e che in apparenza è un luogo in uno spazio immenso, ma in realtà un determinato modo dei loro rapporti e influssi.

Io sono stanco di riprodurre qui le assurde chimere del più temerario fra i sognatori e non voglio spingermi fino alla descrizione dello stato dopo la morte. Poi ho anche altri scrupoli. Poiché, sebbene un naturalista ponga nella sua vetrina fra le sue preparazioni del mondo animale non solo quelle che sono formate secondo natura, ma anche i mostri, tuttavia egli deve stare attento di non mostrarli a chiunque né in modo troppo chiaro. Perché vi potrebbero essere fra i curiosi delle donne incinte, sulle quali tali cose potrebbero fare una brutta impressione.

E siccome fra i miei lettori ve ne potrebbero essere di quelli che in rapporto alla concezione ideale si trovino in uno stato analogo, così mi spiacerebbe se ne dovessero soffrire qualche inconveniente. Tuttavia, siccome io li ho già avvertiti fin dal principio, non ne rispondo per nulla e spero che non mi addosseranno i mostriciattoli che potrebbero nascere in questa occasione dalla loro feconda immaginazione […]" (I. Kant, I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica, Rizzoli, Milano 1982, pp. 156-157).

UN ARCHIVIO DELLA RAGIONE UMANA. Quanto importante e decisivo per Kant sia stato lo studio e l’interpretazione dei "sogni" di Swedenborg, forse, è possibile capirlo meglio solo riflettendo su quanto scrive anche dopo, nella “Critica della Ragion pura”, alla fine della "Dottrina trascendentale degli elementi": "non si cesserà mai di discutere, sino a che non si penetrerà entro la vera causa dell’illusione, da cui anche l’uomo più razionale può essere ingannato [...] mi è sembrato necessario indagare dettagliatamente, sino alle sue fonti prime, tutta questa costruzione - sebbene vana - della ragione speculativa [...] mi è sembrato allora consigliabile redigere dettagliatamente gli atti di questo processo, e depositarli nell’archivio della ragione umana, per prevenire futuri errori di una simile specie" (I. Kant, Critica della Ragion pura, Adelphi, Milano 1976, pp. 704-705).

Fino alla fine, Kant mostra di essere ben consapevole cosa ha significato confrontarsi con la "feconda immaginazione" di Swedenborg: "[...] all’egoismo si può opporre solo il p l u r a l i s m o, cioè quel modo di p e n s a r e per il quale non si chiude nel proprio io il mondo, ma ci si considera e ci si comporta come semplici cittadini del mondo" (I. Kant, Antropologia pragmatica, 1798).

NON SI CHIUDE NEL PROPRIO IO TUTTO IL MONDO . Con la sua bussola e con la sua bilancia, nella "nave" di Galilei, Kant è a casa e di casa. La ’navigazione’ procede sicura, senza confusione tra “mondo sensibile” e “mondo intellegibile”: la strada della critica ha assicurato (e assicura) non solo a lui ma a tutti i ’naviganti’ e, soprattutto, ai nuovi Galilei e ai nuovi Newton, passi sicuri nell’"oceano cosmico" (Keplero); e, con la speranza e la fede razionali nel “Sommo Bene” (I. Kant, Critica della Ragion pura ... cit., pp. 785 e ss.) - la ragione: "il bene sommo in terra" - la possibilità di uscire dall’“aiuola che ci fa tanto feroci” (Dante), e andare verso una terra nuova, dove si possa vivere “in pace e in libertà”(Dante).

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Una corretta concezione di sé, unita alla libertà della coscienza e “alla prova dell’esperienza”, già acquisita e manifestata nella interpretazione dei “Sogni di un visionario” (“Io sono dove sento: sono altrettanto immediatamente nella punta delle dita come nella testa: sono la stessa persona che soffre ai calcagni e in cui il cuore batte nella passione [...] La mia anima è tutta nell’intiero corpo e tutta in ogni sua parte”), gli hanno permesso di prendere le distanze dalla "barca" e dal "folle volo" del visionario Swedenborg (e di tutti i metafisici, presenti futuri) e di andare, oltre le colonne d’Ercole, molto lontano e con gran lucidità!

2. Kant e il problema dell’"Io", dell’"Io sono" e d ell’Io penso".

Nel 1787, considerati gli attacchi, gli equivoci, e gli indebiti sviluppi a cui è stato sottoposto il suo discorso, Kant - pur se sorpreso e amareggiato (“Mi risulta pressoché incomprensibile” – scrive in una nota di “Che cosa significa orientarsi nel pensiero” - che studiosi come Mendelssohn e Jacobi “abbiano potuto trovare nella “Critica della ragion pura” un punto d’appoggio allo spinozismo”) - non si scoraggia: ne prende atto e si rimette al lavoro e risponde, riorganizza e pubblica la seconda edizione della “Critica della Ragion pura”.

Nella prima edizione, quella del 1781, resiste - e offre il fianco ad attacchi minacciosi - un punto debole, poco chiaro. C’è un equilibrio instabile - in basso e in alto ("vi sono tre fonti soggettive di conoscenza, sulle quali si fonda la possibilità di un’esperienza in generale e della conoscenza dei suoi oggetti: s e n s o, c a p a c i t à d i i m m a g i n a z i o n e ed a p p e r c e z i o n e": Critica della ragion pura, cit., pp. 187): a livello dell’"immaginazione" (“una facoltà di sintesi a priori, per cui noi le diamo il nome di immaginazione produttiva”) e del suo rapporto con la "sensibilità" e l’"intelletto" e, al contempo, con l’"appercezione" e l’"Io penso". Come sempre, l’immaginazione non si smentisce - è "la matta di casa". Ma non è solo l’immaginazione a creare problemi. E’ l’Io, l’Io penso, il problema più importante - l’unità trascendentale dell’ "autocoscienza". E’la questione del "cogito, ergo sum" che a Kant dà ancora da pensare.

Nel 1787, pertanto, subito dopo “Che cosa significa orientarsi nel pensiero” (1786), Kant si rimette al lavoro e precisa meglio il percorso e il discorso fatti nella prima edizione della "Critica della Ragion pura" (1781). Contro coloro, i tanti (al di là degli stessi Mendelssohn e Jacobi), che vogliono spalancare “le porte alla s t r a v a g a n z a d e l l a f a n t a s i a” (I. Kant, Critica ..., cit., 2 ed., p. 150), inserisce la "Confutazione dell’idealismo" (op. cit., pp. 295-305), riorganizza con maggior determinazione il rapporto tra “immaginazione”, “sensibilità”, “intelletto”, e "io penso", e - pur se restano ovviamente ancora nodi - fa ulteriori passi innanzi nella chiarificazione, soprattutto sul piano dell’unità trascendentale dell’autocoscienza, dell’"io penso", e del suo rapporto con le tre facoltà dell’anima (sensibilità, immaginazione, e intelletto).

Grande il pericolo e grande l’impegno – “l’erculea fatica della conoscenza di sé” è assolutamente necessaria (come Kant stesso scrive ancora in un intervento del 1796, contro chi faceva “l’elogio di Platone come filosofo del sovrasensibile e dell’ intuizione intellettuale”, cfr.: E. Cassirer, Vita e dottrina di Kant, la Nuova Italia, Firenze 1977, p. 497). La posta in gioco è l’intero programma di Kant: la libertà della coscienza, la via critica come sola possibilità di distinguere le "invenzioni" e le illusioni dalle "ipotesi" e le "apparenze" - e la ‘navigazione’ stessa dell’umanità intera. Purtroppo la forza del “già detto” – sia per Kant sia per i suoi amici e nemici – è schiacciante, ma il risultato dell’operazione è enorme. E merita di essere rimesso in evidenza e ripensato – a sua perpetua gloria.

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LA ‘RIVELAZIONE’ DELL’ “IO PENSO”: “IO SONO”. Premesso e ricordato (come Kant fa ripetutamente, da sempre) che "pensare" un oggetto non equivale a "conoscere" un oggetto, è da dire che nella nuova edizione egli ristruttura tutto il discorso sulla “immaginazione” e riaffronta in modo decisivo il rapporto con il problematico "cogito, ergo sum". Fermo restando che l’anima è “una sostanza nell’idea, ma non nella realtà”, che “la semplicità del mio io (come anima) non è inferita a partire dalla proposizione Io penso, ma sta già in quello stesso pensare”, ora Kant - con Cartesio, ma contro Cartesio - si spinge oltre e, dal “sentimento del bisogno” della ragione ( che lo ha portato alla fede “razionale, al “concetto” di Dio, al “Sommo Bene”), giunge al “sentimento” dell’ “esistenza”– all’ “ Io sono”. Finalmente, la sua immaginazione, ben guidata dalla speranza e dalla fede razionali, lo porta a destinazione: dalla pianura del mondo sensibile-empirico (dalla sensibilità e dall’intelletto: i “due ceppi della conoscenza”) è arrivato in cima alla montagna e, sulla montagna - sotto il cielo stellato, dentro sé - illuminato da “una grossa luce” (‘vista’ già negli anni ’70), egli trova il “mondo intellegibile” e “l’unità trascendentale dell’autocoscienza”, quella dell’ “ Io sono”: sé stesso, la legge morale, e la libertà. E comprende da dove nascono i sogni e le illusioni della “feconda immaginazione” dei visionari e dei metafisici e, al contempo, da dove parte il sentiero dell’“alta fantasia” di chi cammina (con il suo “disio e ‘l velle”) alla luce dell’“amore che muove il Sole e le altre stelle” – della “grazia” del Sommo bene!

L’ “UNO” DELL’AUTOCOSCIENZA: IO SONO . Per “orientarsi” e ripensare meglio questo passaggio decisivo del lavoro di Kant, ricordando sempre il punto di vista già espresso nel 1766, nei “Sogni di un visionario” (“Io sono […] la stessa persona che soffre ai calcagni e in cui il cuore batte nella passione”), è opportuno e bene rileggere e soffermarsi su alcuni passaggi-chiave dalla nuova “Critica della Ragion pura”:

a) “L’ Io penso deve poter accompagnare tutte deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni, perché altrimenti in me verrebbe rappresentato un qualcosa, che non potrebbe affatto venir pensato o con espressione equivalente: poiché altrimenti o la rappresentazione risulterebbe impossibile, oppure, almeno per me, essa non sarebbe niente. […] Ogni molteplice dell’intuizione ha perciò una relazione necessaria con l’Io penso, nello stesso soggetto in cui viene ritrovato questo molteplice. La rappresentazione: io penso, tuttavia, è un atto della spontaneità, essa non può cioè, venir considerata come pertinente alla sensibilità. Io la chiamo l’appercezione pura – per distinguerla da quella empirica – o anche l’appercezione originaria, perché essa è quell’autocoscienza che, col produrre la rappresentazione: i o p e n s o – la quale deve poter accompagnare tutte le altre, ed è una ed identica in ogni coscienza – non può esser accompagnata da nessun’altra rappresentazione. L’unità di tale rappresentazione, io la chiamo anche l’unità trascendentale dell’autocoscienza, per designare la possibilità della conoscenza a priori su di essa” (pp. 196-197);

b) “[…] io penso. Questa proposizione fondamentale è tuttavia un principio, non già per ogni possibile intelletto in generale, bensì solo per quello, attraverso la cui appercezione pura – nella rappresentazione: io sono – non viene tuttavia dato nulla di molteplice. Quell’intelletto, mediante la cui autocoscienza venisse al tempo stesso dato il molteplice dell’intuizione - un intelletto, attraverso la cui rappresentazione esistessero al tempo stesso gli oggetti di questa rappresentazione – non avrebbe bisogno, per l’unità della coscienza, di un particolare atto di sintesi del molteplice, mentre l’intelletto umano, che pensa soltanto ma non intuisce, ha bisogno di tale sintesi” (p. 165).

c) “[...] nella sintesi trascendentale del molteplice delle rappresentazioni in generale, e quindi nell’originaria unità sintetica dell’appercezione, io non sono cosciente di come apparisco a me, né come sono in me stesso, bensì ho coscienza soltanto c h e i o s o n o. Questa r a p p r e s e n t a z i o n e è un p e n s a r e, non un i n t u i r e. Ora, dato che per la c o n o s c e n z a di noi stessi si richiede, oltre all’atto del pensare, che porta il molteplice di ogni intuizione possibile all’unità

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dell’appercezione, altresì una determinata specie di intuizione, da cui viene dato questo molteplice, allora la mia propria esistenza non è certo apparenza (tanto meno una semplice illusione), ma la determinazione della mia esistenza può verificarsi solo in base alla forma del senso interno, nel modo particolare in cui viene dato all’intuizione interna il molteplice che io congiungo. Di conseguenza, io non ho affatto una c o n o s c e n z a di me, c o s ì c o m e s o n o, ma semplicemente del modo in cui io appaio a me stesso. La coscienza di sé è quindi ben lungi dall’essere una conoscenza di sé, malgrado tutte le categorie che costituiscono il pensiero di un oggetto i n g e n e r a l e, mediante la congiunzione del molteplice in una appercezione”.

d) Nella nota, a riguardo, Kant puntualizza ancora: “L’io penso esprime l’atto del determinare la mia esistenza. Con ciò l’esistenza è quindi già data: tuttavia, con ciò non è ancora dato il modo in cui io debbo determinare tale esistenza, cioè porre in me la molteplicità che appartiene ad essa. Per questo si richiede l’auto-intuizione, che si fonda su una forma data a priori, cioè il tempo, il quale è sensibile ed appartiene alla recettività di ciò che è determinabile [...]” (I. Kant, Critica della Ragion pura ...cit., pp. 193-195).

Problemi ne restano da risolvere e chiarire ancora, ma la battaglia contro il problematico idealismo cartesiano (e non solo) è vinta! Un sentiero razionale, praticabile per tutti gli esseri umani, è aperto! “Ecce Homo. Come si diviene ciò che si è”: una risposta (e un omaggio) in anticipo a Nietzsche, che diede coraggiosamente la scalata alla montagna (ricordare le tre metamorfosi dello spirito in “Così parlò Zarathustra”: il cammello – la ‘nave’ del deserto con le sue “tavole” della Legge, il leone che con il suo ruggito dice “no” a tutti valori, e il bambino che dice “Io sono”) ed ebbe le sue grandi difficoltà per ritrovare l’unica via possibile, sia per salire che per scendere – quella della critica.

Kant ha già spiegato a Nietzsche il problema “della visione e dell’enigma” (“Così parlò Zarathustra”) e ha trovato la chiave (il punto di ‘eternità’) per spezzare la testa del serpente (la linea del ‘tempo’) e dar luogo alla trasformazione dell’uomo e della società. E ha già spiegato a Hegel – contrariamente alle allucinazioni e ai deliri suoi e dei suoi Amici - come si esce e come si entra dal cerchio della comunità umana, come l’uomo diventa “dio” e come “dio” s’incarna e diventa “uomo” (menschwerdung), per non cadere nella trappola dell’“apparenza dell’uomo supremo” di Swedenborg (e di Heidegger e di Eichmann) e non perdersi come marionette (quelle di Vaucanson, cfr.: I. Kant, critica della ragion pratica, Laterza, Bari 1971, p. 123), nel “cerchio di tutti i cerchi” dello Spirito Assoluto hegeliano.

L’“UNO” DEL “SOMMO BENE”: IL REGNO DELLA “GRAZIA”. “L’ideale del sommo bene” non è un fuoco fatuo non rimanda affatto “alle buone intenzioni” (di cui è lastricato l’inferno) delle “anime belle”. Per Kant – e questa è già una risposta a Schiller a cui risponderà specificamente nel 1793 (si cfr.: I. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, Laterza, Bari 1980, nota, pp. 21-22) – la via della critica è l’unica via pratica per uscire fuori dalla preistoria e dallo stato di minorità – e non ricadervi!

Nella “Critica della Ragion pura”, egli così scrive: “Leibniz chiamava il mondo - in quanto si considerano in esso soltanto gli esseri razionali e le loro relazioni secondo leggi morali, sotto il governo del sommo bene - r e g n o d e l l a g r a z i a, distinguendolo dal r e g n o d e l l a n a t u r a, dove tali esseri sono bensì sottomessi a leggi morali, ma non si attendono altre conseguenze dal loro comportamento, se non quelle che hanno luogo seguendo il corso della natura del nostro mondo sensibile. Il considerarci nel regno della grazia – dove ci attende ogni felicità, fuorché non siamo noi stessi a costringere la nostra partecipazione a tale felicità, col renderci indegni di essere

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felici – è dunque un’idea praticamente necessaria della ragione. […] Senza un Dio e senza un mondo per noi adesso invisibile, ma sperato, le idee gloriose della moralità sono quindi certamente oggetto di applauso e di ammirazione, ma non già molle di propositi e azioni, poiché non adempiono interamente al fine che è naturale per ogni essere razionale, e, che è determinato a priori dalla stessa ragione pura, risultando necessario” (op. cit., p. 791).

E, ancora, nella “Critica della ragion pratica” così precisa: “[...] la legge morale è per la volontà di un essere perfettissimo una legge della santità, ma per la volontà di ogni essere finito razionale è una legge del dovere [...] Noi siamo sotto una disciplina della ragione [...] Dovere e obbligo sono le denominazioni che dobbiamo dare soltanto alla nostra relazione con la legge morale. Noi siamo bensì membri legislativi di un regno dei costumi, possibile mediante la libertà rappresentata a noi mediante la ragion pratica come oggetto di rispetto, ma nello stesso tempo ne siamo i sudditi, non il sovrano, e il disconoscere il nostro grado inferiore come creature, e il rifiuto presuntuoso dell’autorità della legge santa, è già una infedeltà alla legge secondo lo spirito, quand’anche se ne osservi la lettera”. “Ma con ciò - continua Kant - s’accorda benissimo la possibilità di un comandamento come questo: Ama Dio sopra ogni cosa e il prossimo tuo come te stesso”. E aggiunge in nota: "Con questa legge è in forte contrasto il principio della propria felicità, di cui alcuni vogliono fare il principio supremo della moralità. Questo suonerebbe così: Ama te stesso sopra ogni cosa, ma Dio e il prossimo tuo per amor di te stesso” (dal cap. terzo del L. I - Analitica, “Dei moventi della ragion pura pratica”, Bari, Laterza, 1971, pp. 101-102).

Ma già nel 1783, nei Prolegomeni ad ogni metafisica che si presenterà come scienza, aveva detto con chiarezza e consigliato: “[…] con la Critica si dà al nostro giudizio il criterio col quale si può sicuramente distinguere il sapere ["Wissen"] dalla sua illusoria parvenza ["Scheinwissen"]; ed essa, portata nella metafisica al pieno suo uso, costituisce un modo di pensare che estende poi il suo benefico influsso ad ogni altro uso della ragione, cominciando dall’ispirare il vero spirito filosofico. E lo stesso servizio che rende alla teologia, rendendola indipendente dal giudizio della speculazione dogmatica e ponendola così del tutto al sicuro dagli attacchi degli oppositori, non è certo da giudicarsi piccolo. Giacché la metafisica comune, sebbene le promettesse grande aiuto, non poteva poi mantenere le promesse, ed inoltre, chiamando a suo appoggio la dogmatica speculativa, non aveva fatto altro che armare nemici contro se stessa. .Il fanatismo (Schwarmerei), che non può sorgere in una età illuminata, se non nascondendosi sotto una metafisica scolastica, sotto la cui protezione può arrischiarsi a delirare quasi con ragione, è dalla filosofia critica, scacciato da questo ultimo rifugio, e soprattutto per un insegnante di metafisica, non può non essere di grande importanza il poter dire, con universale consenso, che ora finalmente ciò che egli presenta, è anche una scienza e che si apporta così un reale vantaggio alla comunità" (I. Kant, Prolegomeni ad ogni metafisica futura che si presenterà come scienza, Laterza, Bari 1967, pp. 200-201)

Al di là di Platone, e delle illusioni e dei sofismi di tutti i platonismi e di tutti i cattolicismi, e della miopie visionarie di tutti i materialismi, egli ha trovato “il filo d’oro della ragione” e della libertà degli “io sono” del “regno della grazia” e l’ha consegnato a tutta l’umanità, affinché non smarrisca la “diritta via” e non perda la bilancia con la speranza. “Sàpere aude!” non è che l’inizio - un altro ‘mondo’ è possibile e non è il “serpente” a parlare, ma Immanuel Kant. Ricordiamoci di ricordarcelo: e non confondiamo l’“Io sono” dell’uomo di Immanuel Kant, con l’“Io sono” dell’ “uomo supremo” di Emanuel Swedenborg – e del Terzo Reich!

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7 – KANT, IL GIUDIZIO VERO (“SECUNDA PETRI”), E L’ OPERAZIONE DI PAOLO DI TARSO. COME LA BUONA CAPACITA’ DI GIUDIZIO VENNE (E VIENE) RIDOTTA IN STATO DI MINORITA DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").

A. I. KANT, DELLA CAPACITA’ TRASCENDENTALE DI GIUD IZIO IN GENERALE *

Se l’intelletto, in generale, viene definito come la facoltà delle regole, la capacità di giudizio è allora la facoltà di s u s s u m e re sotto regole, cioè di distinguere se qualcosa cada o no sotto una data regola (casus datae legis).

La logica generale non contiene affatto norme per la capacità di giudizio, e neppure può contenerne. Difatti, in quanto essa astrae da ogni contenuto della conoscenza, non le rimane allora null’altro da fare, che dilucidare analiticamente la semplice forma della conoscenza nei concetti, giudizi, inferenze, e costituire cosí le regole formali di ogni uso dell’intelletto.

Ora, se la logica generale volesse mostrare universalmente, come si debba sussumere sotto queste regole, cioè come si debba distinguere se qualcosa cada o no sotto di esse, ciò non potrebbe accadere altrimenti che di nuovo attraverso una regola. Questa peraltro, proprio per il fatto che è una regola, richiede nuovamente un ammaestramento della capacità di giudizio; ed allora risulta chiaro, che l’intelletto è bensì capace di venir istruito e provveduto mediante regole, ma che la capacità di giudizio è un talento particolare, il quale non può essere insegnato, ma può soltanto essere esercitato.

La capacità di giudizio è quindi altresí l’elemento specifico del cosiddetto ingegno naturale, la cui mancanza non può trovare alcun rimedio nella scuola. In effetti, sebbene la scuola possa doviziosamente porgere e, per cosí dire, inoculare, ad un intelletto limitato, regole prese a prestito dalla conoscenza altrui, tuttavia la facoltà di servirsi rettamente di esse deve appartenere allo scolaro stesso, e nessuna regola, che possa essergli prescritta in questo scopo, si sottrarrà all’abuso, quando manchi una delle dote naturale (l).

Perciò un medico, un giudice, o un uomo politico, può avere in capo molte belle regole patologiche, giuridiche o politiche, al punto da poter diventare egli stesso un profondo insegnante in proposito, e tuttavia cade facilmente in errore nell’applicazione di esse, o perché manca di capacità naturale di giudizio (sebbene non manchi d’intelletto), ed egli può sì intendere l’universale in abstracto, ma non sa distinguere se un caso in concreto sia subordinato ad esso, o anche per il fatto che egli non è stato sufficientemente addestrato per questo giudizio, mediante esempi e pratica diretta. Questa è anche la sola e grande utilità degli esempi: il fatto, cioè, che essi acuiscono la capacità di giudizio.

In effetti, per quanto riguarda la correttezza e la precisione della comprensione intellettuale, gli esempi piuttosto recano di solito un certo danno, poiché solo di rado essi soddisfano adeguatamente alla condizione della regola (come casus in terminis), oltre al fatto che essi indeboliscono spesso lo sforzo dell’intelletto per cogliere, universalmente e indipendentemente dalle circostanze particolari dell’esperienza, le regole nella loro adeguatezza, e perciò abituano infine ad usare tali regole piú

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come formule che come proposizioni fondamentali. Gli esempi sono così le dande della capacità di giudizio, delle quali non potrà mai fare a meno colui che manchi del talento naturale di tale capacità.

Peraltro, sebbene la logica generale non possa fornire alcuna norma alla capacità di giudizio, le cose stanno tuttavia ben diversamente riguardo alla logica trascendentale, cosicché sembra quasi, che quest’ultima abbia, come suo vero e proprio compito, il correggere e il garantire - mediante regole determinate - la capacità di giudizio nell’uso dell’intelletto puro.

In effetti, come mezzo per procurare all’intelletto un’estensione nel campo delle conoscenze pure a priori, e quindi come dottrina, la filosofia non sembra affatto necessaria, o piuttosto, sembra essere male applicata, poiché in tal modo si è guadagnato poco o punto terreno, nonostante tutti i precedenti tentativi; al contrario, come critica, per prevenire i passi falsi della capacità di giudizio (lapsus judicii) nell’uso dei pochi concetti puri dell’intelletto che noi possediamo, la filosofia viene impiegata a questo fine (sebbene l’utilità sia in tal caso solo negativa) in tutta la sua acutezza ed abilità indagatrice.

La peculiarità detta filosofia trascendentale consiste tuttavia nel fatto che oltre alla regola (o piuttosto alla condizione universale di regole), la quale viene data nel concetto puro dell’intelletto, essa può al tempo stesso indicare a priori il caso, cui tali regole debbono essere applicate.

La causa della preminenza, che a questo riguardo essa ha su tutte le altre scienze didattiche (al di fuori della matematica), sta per I’appunto nel fatto, che essa tratta di concetti, i quali debbono riferirsi a priori ai loro oggetti, cosicché la validità oggettiva di tali concetti non può essere mostrata a posteriori, poiché tale prova non toccherebbe per nulla la loro dignità.

La filosofia trascendentale, piuttosto, deve esporre al tempo stesso - secondo caratteristiche universali ma sufficienti - le condizioni sotto cui gli oggetti possono venir dati in accordo con quei concetti; in caso contrario, questi ultimi sarebbero privi di qualsiasi contenuto, quindi semplici forme logiche e non già concetti puri dell’intelletto.

Questa dottrina trascendentale della capacità di giudizio conterrà dunque due capitoli: il p r i m o tratta della condizione sensibile, che è la sola sotto cui possano venir usati i concetti puri dell’intelletto, cioè tratta dello schematismo dell’intelletto puro; il s e c o n d o, invece, tratta dei giudizi sintetici, che discendono, sotto queste condizioni a priori, dai concetti puri dell’intelletto, e stanno a fondamento di tutte le altre conoscenze a priori, ossia tratta delle proposizioni fondamentali dell’intelletto puro.

1. La mancanza di capacità di giudizio è propriamente ciò che si chiama stupidità, e contro tale difetto non c’è assolutamente rimedio. Un cervello ottuso o limitato, cui non manchi nulla se non una misura conveniente di intelletto e una precisione nei concetti dell’intelletto, può certo agguerrirsi con lo studio, sino a raggiungere anche l’erudizione. Tuttavia, poiché in tal caso manca di solito altresì il giudizio (secunda Petri), si incontrano non di rado uomini assai eruditi, che nell’uso della loro scienza lasciano spesso scorgere quel difetto giammai emendabile.

* I. Kant, Critica della ragione pura, Adelphi edizioni, Milano 1979, pp. 214-217 (Analitica trasc. - Libro II. Introduzione). L’espressione "secunda Petri", che per Kant vale "Giudizio", rimanda a Pietro Ramo e alla sua "Logica".

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B. PAOLO DI TARSO, L’ASTUTO APOSTOLO DELLA GRAZIA ( "CHARIS") E DELL’ AMORE ("CHARITAS"), E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO- ROMANO! UNA NOTA *

� (...) non equivochiamo! Qui non siamo sulla via di Damasco, nel senso e nella direzione di Paolo di Tarso, del Papa, e della Gerarchia Cattolico-Romana: “[... ] noi non siamo più sotto un pedagogo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Galati: 3, 25-28). Nella presa di distanza, nel porsi sopra tutti e tutte, e nell’arrogarsi il potere di tutoraggio da parte di Paolo, in questo passaggio dal noi siamo al voi siete, l’inizio di una storia di sterminate conseguenze, che ha toccato tutti e tutte. Il persecutore accanito dei cristiani, “conquistato da Gesù Cristo”, si pente - a modo suo - e si mette a “correre per conquistarlo” (Filippesi: 3, 12): come Platone (con tutto il carico di positivo e di negativo storico dell’operazione, come ho detto), afferra l’anima della vita evangelica degli apostoli, delle cristiane e dei cristiani, approfittando delle incertezze e dei tentennamenti di Pietro, si fa apostolo (la ‘donazione’ di Pietro) dei pagani e, da cittadino romano, la porta e consegna nelle mani di Roma. Nasce la Chiesa ... dell’Impero Romano d’Occidente (la ‘donazione’ di Costantino). La persecuzione dei cristiani, prima e degli stessi ebrei dopo deve essere portata fino ai confini della terra e fino alla fine del mondo: tutti e tutte, nella polvere, nel deserto, sotto l’occhio del Paolo di Tarso che ha conquistato l’anima di Gesù Cristo, e la sventola contro il vento come segno della sua vittoria... Tutti e tutte sulla romana croce della morte.

� Egli, il vicario di Gesù Cristo, ha vinto: è Cristo stesso, è Dio, è il Dio del deserto... Un cristo-foro dell’imbroglio e della vergogna - con la ‘croce’ in pugno (e non piantata nella roccia del proprio cuore, come indicava Gesù) - comincia a portare la pace cattolico-romana nel mondo. Iniziano le Crociate e la Conquista. Il Dio lo vuole: tutti i popoli della Terra vanno portati nel gelo eterno - questo è il comando dei Papi e dei Concili, cioè delle massime espressioni dell’intelligenza astuta (quella del Dio di Ulisse e della vergine Atena, non del Dio di Giuseppe e di Maria) del Magistero della Chiesa, alle proprie forze armate... fino a Giovanni Paolo II, al suo cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e alla Commissione teologica internazionale, che ha preparato il documento “Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato”.

� Uno spirito e un proposito lontano mille miglia, e mille anni prima di Cristo, da quello della “Commissione per la verità e la riconciliazione”, istituita in Sudafrica nel 1995 da Nelson Mandela, per curare e guarire le ferite del suo popolo. Il motto della Commissione bello, coraggioso, e significativo è stato ed è: “Guariamo la nostra terra”!

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Si cfr.: Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide, Ripostes, Roma-Salerno 2001, pp.23-25.

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NOTA CONCLUSIVA

KANT: CON GALILEI E NEWTON, OLTRE.

Ripartiamo da Galilei. Ripartiamo, in particolar modo, dal “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano” e rileggiamo (dalla “seconda giornata”) l’intervento di Salviati:« Rinserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran naviglio, e quivi fate d'aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti: siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vada versando dell'acqua in un altro vaso di angusta bocca che sia posto a basso; e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza. [..] Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia mentre il vascello sta fermo non debbano succedere così: fate muovere la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur di moto uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti; né da alcuno di quelli potrete comprendere se la nave cammina, o pure sta ferma ». Senza la lezione – e questa, in particolare - di Galilei , possiamo dire di Kant quello che vogliamo, ma sicuramente non parliamo più di Kant. L’esperienza della nave è l’esperimento decisivo (è “il principio della relatività galileiana”) che segna la morte definitiva della vecchia fisica e della vecchia metafisica e segna la nascita della nuova fisica, quella galileiana – e della nuova ‘metafisica’, quella kantiana. Dopo Galilei, come aveva già capito Pascal, tutti siamo imbarcati, e Kant pensa dall’interno del “gran naviglio”. Dopo Keplero, Kant parla della Terra come di “un’isola”, ma come di un’isola dell’“oceano cosmico” (Keplero, 1611). E il concetto di filosofia a cui guarda Kant è quello “cosmico”, “ cosmopolitico”, non tanto e solo a quello “scolastico” (cfr.: I. Kant, Critica della ragion pura, Adelphi, Milano 1976, pp. 810-811). Ma noi, ancora oggi, facciamo finta di abitare nella vecchia Terra, quella della ‘preistoria’! Ci nutriamo anche di slogan ad effetto, come quello di Nietzsche che segnala che, “dopo Copernico, l’uomo rotola verso una X”, ma continuiamo a essere i sognatori della ragione o i sognatori della sensazione di sempre, contro cui Kant ha già detto la sua nel 1766. Non vogliamo proprio sapere nulla né di cosa significa uscire dallo stato di minorità, né di cosa significa pensare da sé, né di imparare a orientarsi nella realtà e nel pensiero, e lavoriamo come pazzi (o, se si vuole, con Nietzsche, come “l’ultimo uomo”) a distruggere la Terra e a raggiungere (tutti e tutte ‘insieme’) una definitiva e perpetua pace! E continuiamo a essere ostinatamente ingiusti con Kant, con la sua “Critica della Ragion pura” e con la sua “rivoluzione copernicana”. Ma egli, con la sua “fede razionale” assoluta e incrollabile, continua a vegliare, assiste generosamente i naviganti ‘addormentati’ con i suoi consigli e le sue domande, e continua a sperare: “ Io presuppongo dunque dei lettori che non vogliano vedere una giusta causa difesa in modo ingiusto. Riguardo a costoro [gli avversari della buona causa] risulta dunque assodato che, secondo i nostri principi della critica – se non si guarda a quel che accade, bensì a quel che sarebbe giusto accadesse – non deve propriamente esistere una polemica della ragion pura.

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In effetti, come potranno due persone contendere riguardo ad una cosa, quando nessuna delle due sappia rappresentare in un’esperienza reale, oppure soltanto possibile, la realtà di questa cosa, e quando si stia covando solo l’idea di essa, per cavarne qualcosa di p i ù che non un’idea, ossia la realtà dell’oggetto stesso? Attraverso quali mezzi costoro vorranno metter fine alla contesa, dal momento che nessuno dei due può rendere direttamente comprensibile e certa la sua asserzione, e che ciascuno dei due, piuttosto, può soltanto attaccare e confutare l’asserzione dell’avversario? In realtà, il destino di tutte le asserzioni della ragione pura consiste nell’oltrepassare le condizioni di ogni esperienza possibile, al di fuori delle quali non si ritrova da nessuna parte un documento della verità, e nel dover tuttavia servirsi delle leggi dell’intelletto (le quali sono destinate semplicemente all’uso empirico, ma senza le quali non si può fare alcun passo nel pensiero sintetico), cosicché tali asserzioni riveleranno sempre all’avversario le loro debolezze, e inversamente utilizzare il punto debole dell’avversario. La critica della ragion pura può essere considerata come il vero tribunale per tutte le dispute della ragione pura. Tale critica, in effetti, non si interessa delle controversie, che si riferiscano immediatamente ad oggetto, ma è destinata a determinare ed a giudicare i diritti della ragione in generale, in base ai principi della sua originaria istituzione. Senza tale critica la ragione, per così dire, è nello stato di natura, e non può far valere né consolidare le sue asserzioni e le sue pretese altrimenti che con la g u e r r a. Per contro la critica, la quale desume tutte le sue decisioni dalle regole fondamentali della sua propria istituzione – la cui autorità non può essere messa in dubbio da nessuno – ci procura la pace di uno stato legale, nel quale noi non possiamo risolvere le nostre dispute se non mediante un p r o c e s s o “( I. Kant, Critica della ragion pura…, cit., pp. 743-744). E’ elementare. Ma se non impariamo a dialogare con noi stessi e con noi stesse, se non impariamo a metterci da noi stessi di fronte a noi stessi – al di là dello specchio (narcisismo) e al di là della logica edipica, a metterci “al posto di una ragione estranea” e a esaminare imparzialmente i nostri propri giudizi “dal punto di vista altrui”, se non sappiamo usare correttamente la “bilancia”, e non sappiamo nulla del “tribunale della ragione”, come possiamo pretendere o sperare di trovare “una terza via” (Kant al suo ex allievo Marcus Herz nel 1771), e capire - pur se siamo sulla “nave” di Galilei – il principio di relatività galileiana (ed einsteiniana), e la rivoluzione e la lezione kantiana? Come possiamo pretendere o sperare di uscire fuori dallo stato di minorità, se non ci svegliamo a noi stessi e a noi stesse e agli altri e alle altre?! Che cosa possiamo volere? Che cosa possiamo aspettarci se non la pace perpetua?! Che così sia: Per la pace perpetua (Kant, 1793)!

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APPENDICE:

1 KANT E L’ANTROPOLOGIA DELLA CONOSCENZA. COME ALL’INTERNO, COSI’ ALL’ESTERNO: "VERE DUO IN CARNE UNA". NOTE SUL PROGRAMMA DI KANT

Kant elaborò esplicitamente tutto l’apparato di concetti, di principi, di argomentazioni della sua filosofia, per giustificare la validità della conoscenza nel caso di un soggetto attivo e recettivo insieme, cioè in vista di un punto di partenza precisamente dualistico, e non unitario (V. Mathieu, Introduzione all’Opus Postumum di Kant, Zanichelli, Bologna, 1963).

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Pur condividendo l’opinione sulla rivalutazione del corpo, che è divenuta ormai obiettivo «comune [...] a molte aree della cultura del nostro tempo, anche fortemente divergenti tra loro», sulla corporeità intesa come un valore evidente in sé «nella globalità della persona umana», e, inoltre, pur giudicando pregevole e degno di considerazione l’intento di “ritornare alle radici» di questa moderna rivalutazione, ritengo che il tentativo fatto da Casini (1) - senza togliere nessun merito al lavoro, ed è bene ricordare che lo stesso vale per molta letteratura sull’argomento - abbia mancato proprio le radici e, senza di esse, la stessa possibilità di attuare un più ricco e articolato confronto coi pensatori prescelti: Schopenhauer, Feuerbach e Nietzsche.

Impedito da un’ottica storiografica parziale e riduttiva, [Casini] è rimasto in superficie - «nella crisi dell’idealismo tedesco e nelle filosofie che da esso sono scaturite»(2); e gli stessi Schopenhauer, Feuerbach e Nietzsche sono stati confinati tra i «pensatori che, in contrapposizione all’idealismo, hanno messo in rilievo la dimensione corporea dell’uomo»(3). A mio avviso, il luogo delle radici è più in basso; e credo che, una volta conquistato, possa aiutarci a comprendere meglio non solo il contributo di Schopenhauer, Feuerbach e Nietzsche, ma soprattutto la relazione di quei due poli (4) (coscienza e organismo, anima e corpo), che di fatto ci costituiscono e caratterizzano e che - come lo stesso Casini riconosce - «è compito irrinunciabile della riflessione filosofica» pensare fino in fondo «senza di volta in volta emarginare ora l’uno ora l’altro»(5).

Come si sa, del corpo (e, più in generale, della natura) la nostra cultura ha dato sempre (cum grano salis!) un’interpretazione negativa e servile. Succube della grande instaurazione platonica che aveva preteso di avere sciolto l’enigma e di aver trovato nell’anima l’essenza dell’uomo (6), e, con l’anima, l’accesso alla «pianura della verità», essa ha continuamente concepito e ridotto il corpo a una bestia (si ricordino i cavalli della biga platonica...) - strumento animato (... e la concezione aristotelica dello schiavo) o automa (Cartesio) - e, come tale, lo ha trattato, continuamente aggiogato al carro della ragione. E sull’animale della sua classica definizione di uomo non ha mai smesso di mettere una bella croce.

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Di «che lagrime grondi e di che sangue» questa visione - profondamente schizogena e, tuttavia, eccellente strumento di domesticazione e di dominio - solo da due secoli si è cominciato a capire. E lo sforzo per lacerare la ragnatela entro cui l’intelligibile ha avvolto e costretto il sensibile, e restituire così al corpo le ragioni che ha e che la Ragione nega, è tuttora in corso.

La storia della metafisica non è stata e non è uno scherzo. Tra le maglie d’acciaio della sua gabbia intere generazioni di uomini hanno patito - letteralmente - le pene dell’inferno, e tutti, infine, hanno dovuto piegarsi alla forza della Ragione come alla ragione della Forza. Chi si è semplicemente opposto o, meglio, ha scoperto il trucco e mostrato le catene sotto i suoi splendidi fiori - Rousseau fu il primo maestro del sospetto (7) - raramente è riuscito a sopravvivere all’ostracismo, al carcere o al rogo. Il Vero, il Bene e il Bello della Ragione hanno finito sempre per vincere e soggiogare il Vero, il Bello e il Bene del corpo, e, pur se nella stessa casa, l’una ha sempre rimosso - rimosso l’animale (8) - e tenuto fuori scena l’altro.

Paradossalmente la fine possibile di questa Storia è cominciata proprio quando la ragione si apprestava a celebrare il suo trionfo e a indossare le vesti di Dea. Non dopo Hegel. Con Rousseau prima, e con Kant poi. Quando Kant - sull’onda dell’effetto copernicano e, nonostante tutto, fiero difensore della sua come della nostra umile terrestrità - ha unito in un saldissimo matrimonio (anche se - per ridotta immaginazione (9) - ancora ’patriarcale’) i due produttori dell’umana conoscenza (10) e, implicitamente, ha stabilito le premesse per un pieno riconoscimento dei due (coscienza sensibile e coscienza intelligibile - io intuisco, io penso) all’interno della stessa casa-soggetto (un vere duo in carne una a cui solo ora stiamo faticosamente pervenendo), e, così facendo, è giunto a mostrare chiaramente che le pretese della Ragione pura erano ingiustificate e che la metafisica non era una scienza né tanto meno la regina delle scienze, allora si è aperto l’orizzonte e si è avviata, insieme con tutto il resto, la stessa riscoperta del corpo (e di tutto ciò che ad esso è legato, compresa la decisiva questione della differenza sessuale, già richiamata da Feuerbach (11) e, attualmente, posta all’ordine del giorno dal movimento delle donne).

Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre costante... «si danno due tronchi dell’umana conoscenza» (12) - due poli: Kant imposta bene il problema fin dall’inizio. E se pure fallisce nello sforzo di codificare correttamente la relazione di bipolarità nel cuore stesso del soggetto trascendentale (offrendo cosi opportunità alla svolta idealistica e, al contempo, contributi alla restaurazione di quanto aveva demolito), egli è incrollabile e non torna mai indietro. Con tutti i limiti, difende fermissimamente sia la distinzione sia la complementarità tra le due facoltà (sensibilità e intelletto) e, unitariamente, la connessa concezione positiva della natura (13). E, cosa molto significativa, non smette mai di riflettere sulla duplicità dell’Io: «non si vuole intendere con ciò - scrive Kant nei Progressi della Metafisica - una doppia personalità, perché solo l’io, l’io penso e intuisco, è la persona» (14).

Nella consapevolezza - evidentemente - che il punto dolente del suo lavoro stava proprio nel modo in cui aveva strutturato la relazione delle due facoltà nell’unità trascendentale dell’appercezione e, in particolare, che ancora una volta - contrariamente alla sua stessa convinzione («nessuna delle due facoltà è da anteporre all’altra» (15)) - aveva concesso diritti in più all’intelletto rispetto ai sensi (alla coscienza intelligibile rispetto alla coscienza sensibile, all’io penso rispetto all’io intuisco), egli cerca di trovare la sua strada per rendere paritario il rapporto e, cosi, più dinamica la stessa funzione trascendentale(16).

Contro chi fraintende il suo pensiero e lo vorrebbe trascinare per altre vie (nel 1794 Fichte pubblica Sul concetto della dottrina della scienza e la Fondazione dell’intera dottrina della scienza, e, nel 1800, Schelling il Sistema dell’idealismo trascendentale), il vecchio Kant - è bene ricordarlo - resiste e lavora instancabilmente (nel 1795 appare Per la pace perpetua, nel 1797 la Metafisica dei

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costumi, nel 1798 l’Antropologia pragmatica, e, nel 1800, per sua volontà e a cura del suo allievo e amico G.B. Jasche, la Logica). E sempre movendosi all’interno dell’orizzonte della Critica della Ragion Pura - oltre al resto, ai fini della presente nota, si tenga presente l’importante «confutazione dell’idealismo» (1787), il costante rifiuto di attribuire all’uomo («un essere che è dipendente, e rispetto alla sua esistenza, e rispetto alla sua intuizione») l’intuizione intellettuale, e, infine, la radicale presa di distanza dalla Dottrina della Scienza di Fichte (17) (del 7.8.1799) - egli sviluppa nuove riflessioni che ampliano e precisano il senso della sua rivoluzione copernicana, e che se non si tengono presenti, non solo non si dà a Kant ciò che è di Kant, ma si rischia - come è accaduto - di non capire molta parte di tutta la ricerca posteriore, e, cosi, di non poter sciogliere quel nodo che non è solo suo: i due in uno.

Nella Logica, in particolare, riprendendo la distinzione (già avanzata nella Critica della Ragion Pura) tra una filosofia intesa scolasticamente e una filosofia intesa cosmicamente, egli chiarisce che la filosofia nel senso cosmico va intesa in senso cosmopolitico (18); e, ancora, precisa che le tre celebri domande (già formulate sempre nella Critica della Ragion Pura (19): «1. Che cosa posso sapere?, 2. Che cosa devo fare?, 3. Che cosa mi è dato sperare?») non sono affatto sufficienti a delimitare il campo della filosofia in questo nuovo significato e, con ciò, ad esaurire gli interessi fondamentali del cittadino del mondo, o, in senso più proprio, del pianeta Terra.

Per Kant, ora, le tre domande non bastano più: ad esse va unita - e unisce - una quarta e più fondamentale domanda: 4. “Che cosa è l’uomo?”. E, dopo aver rifatto l’elenco, aggiunge: «In fondo, si potrebbe ricondurre tutto all’antropologia, perché le prime tre domande [a cui rispondono, rispettivamente, la metafisica, la morale, la religione, fls] fanno riferimento all’ultima»(20). L’affermazione è «d’importanza non esagerabile»(21). Esprime l’intenzione di voler riprendere e ripensare le questioni dal punto da cui aveva iniziato, da quel soggetto intorno a cui ha messo a rotare l’oggetto. Non è affatto una cosa da poco.

Probabilmente, reso più attento dalla messa a fuoco cosmopolitica (del 1784 è L’idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico) della sua posizione e dalla consapevolezza - già espressa sempre nella Critica della Ragion Pura - che la nostra Terra «è un’isola» (22) e, ancora, che «sulla [Terra, fls], essendo sferica, gli uomini non possono disperdersi all’infinito, ma devono da ultimo rassegnarsi a incontrarsi e a coesistere» (23), oltre che dai continui fraintendimenti del suo lavoro, egli avverte tutta la necessità di reimpostare - in modo più chiaro di quanto abbia fatto e senza cedimenti né materialistici né idealistici - tutte e tre le questioni (metafisica, morale, religione), e, per questo, reinterrogarsi sul soggetto in modo più diretto e determinato: l’uomo, «l’ente sensibile che conosce se stesso» (24).

L’indicazione di Kant non è affatto trascurabile, né sottovalutabile: è carica di teoria, come di futuro. È un’intenzione e un invito a ricominciare da capo, senza tornare al di qua o andare al di là dell’orizzonte critico, e senza abbandonare il corpo e la Terra. Contro la torsione idealistica del suo stesso pensiero e analogamente - ripetiamo - contro ogni riduzione materialistica, Kant guarda di fatto verso quella terza via che la nostra tradizione non ha mai veramente (fallito il tentativo aristotelico) preso in considerazione («Socrate: Cos’è dunque l’uomo? [...] Socr.: Qui c’è una cosa da cui nessuno può dissentire. Alcibiade: Quale? Socr.: Che l’uomo sia almeno una delle tre cose. Alc.: Quali? Socr.: O anima, o corpo, o ambedue insieme, come un tutto unico»(25)) ma che proprio l’impostazione critica del problema della conoscenza lascia intravedere e porta alla luce, in modo nuovo.

Dai «due tronchi dell’umana conoscenza» al «fatto [Factum] indubitabile»(26) che siamo due in uno e all’apertura all’antropologia, come al sapere a cui possono essere ricondotte sia la metafisica sia la morale e la religione, il passo è inevitabile. E Kant lo fa. Per determinare meglio, e senza

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equivoci, il senso della sua rivoluzione copernicana, bisogna, ripensare quel soggetto che noi siamo, e, quindi, rimettere in campo il rapporto tra quei due Io (io penso, io intuisco) che caratterizzano l’unità dell’essere umano e, con ciò, lo stesso rapporto con l’esperienza.

Ancor prima di Hegel, l’indicazione è già data e la strada già aperta: il segreto della metafisica, il segreto della morale, «il segreto della teologia è l’antropologia»(27). Nonostante i suoi sbandamenti e le sue contraddizioni, il «cinese» di Koenigsberg non confuse mai i «cento talleri immaginari e i cento talleri reali»(28) e rimase sempre fedele alla terra (29); e questo, chi ha camminato nella direzione da lui indicata, bene o male, già sapeva. Per noi, è meglio tenerne conto.

Senza dare o togliere niente a nessuno, anche Kant aveva capito - e prima di tutti gli altri - che «nella coscienza [...] arriviamo a fantasticare di un io contrapposto a tutto il resto, al non-io», che bisognava «smettere di sentirsi come questo fantastico ego!», che bisognava «scoprire gli errori dell’ego» e, finalmente, cominciare a pensare e a «sentire ih modo cosmico!»(30): copernicano, ma sempre terrestre. E se alla fine pone la classica questione, non possiamo e non dobbiamo né equivocare, né sottovalutare.

Non è Socrate o Platone che parla o scrive: è Kant! E, quindi, la sua domanda «che cosa è l’uomo?», o, come dirà Nietzsche, «chi siamo noi in realtà?»(31), deve essere intesa nei suoi termini: come sono possibili quegli esseri che sono due in uno?, come è possibile il soggetto?, come è possibile l’uomo?

Dopo Schopenhauer, dopo Feuerbach, dopo Marx, come dopo Nietzsche e Freud, oggi, forse, siamo finalmente più preparati e pronti per rispondere. Riusciremo a portare a compimento la rivoluzione copernicana(32) e ad abitare la Terra serenamente?

* Riprendo qui, un capitolo di un mio lavoro (cfr. Federico La Sala, Della Terra, il brillante colore, Prefazione di Fulvio Papi, Roma-Salerno, Edizioni Ripostes, 1996, pp. 112-119), in onore e in memoria di Elvio Fachinelli (e della sua ricerca culminata - nell’anno della morte - con La mente estatica, Milano, Adelphi, 1989). Mi auguro che esso possa essere utile a meglio comprendere e apprezzare l’importanza teoretica e la portata antropologica della sua opera di psicoanalista e di filosofo.

(1) L. Casini, La riscoperta del corpo. Schopenhauer. Feuerbach. Nietzsche, Roma, Edizioni Studium, 1990, p. 16. (2) Op. cit.. p. 15. (3) Ibidem, p. 16. (4) “[...] due poli. Se da un lato la coscienza e lo spirito umano vengono considerati sempre più

nei loro condizionamenti corporei e istintuali, d’altro canto il corpo non è più considerato oggetto di un soggetto, ma come soggetto esso stesso, sorgente di intenzionalità e di valore, realtà non meramente fisica, ma tessuto di emotività e vitalità che si estendono fino al centro coscienziale dell’uomo» (op. cit., p. 15). (5) Ibidem, pp. 20-21. (6) «L’anima è l’uomo» (Platone, Alcibiade primo, 130 c). (7) «Lo spirito ha le sue esigenze come le ha il corpo. Queste ultime costituiscono le basi della

società, le prime ne sono l’ornamento. Mentre il governo e le leggi provvedono alla sicurezza e al benessere degli uomini riuniti in società, le scienze, le lettere e le arti, con minor dispotismo e forse con maggiore autorità, stendono ghirlande di fiorì sulle ferree catene di cui gli uomini sono gravati, soffocano in loro il sentimento di quella libertà originaria per la quale parevano essere nati, fanno

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loro amare la schiavitù cui sono soggetti, formando quelli che si chiamano i popoli civili» (J.J. Rousseau, Discorso sulle Scienze e le Arti). (8) Cfr. G. Galilei, Il Saggiatore, cap. 48. (9) Sull’intricata questione, si cfr. almeno M. Heidegger, Kant e il problema della Metafisica,

Bari. Laterza, 1981, pp. 113-174, e si ricordi che Kant resta, in ultima analisi, ancorato alla convinzione che la sensibilità «in sé è plebe, perché non pensa» (Antropologia, pf. 8: «Apologia della sensibilità»). (10) «Queste due facoltà o capacità non possono scambiarsi le loro funzioni. L’intelletto non può

intuire nulla, né i sensi nulla pensare. La conoscenza non può scaturire se non dalla loro unione. Ma non perciò si devono confondere le loro parti; ché, anzi, si ha grande ragione di separarle accuratamente e di tenerle distinte» (I. Kant, Critica della Ragion pura, Bari, Laterza. 1966, I, p. 94). (11) Su questo, cfr. L. Casini, La riscoperta del corpo..., cit., p. 149. (12) Kant, op. cit.. p. 61. (13) A riguardo molto hanno insistito, e a ragione, G. Della Volpe prima (cfr. Logica come

scienza storica, Roma, Editore Riuniti, 1969, p. 18) e poi L. Colletti (cfr. Il marxismo e Hegel, Bari. Laterza, 1969. pp. 45 ss.). (14) Cfr. L Kant, I progressi della Metafisica. Napoli. Bibliopolis, 1977, p. 77. (15) Cfr. I. Kant, Critica della Ragion Pura, cit., p. 94. (16) Su questo, cfr. anche P. Manganaro, Introduzione a: I. Kant, I progressi..., cit., pp. 42-43. (17) Per la dichiarazione di Kant sulla «Dottrina della scienza» di Fichte (7.8.1799), cfr. C. Cesa,

Fichte e il primo Idealismo, Firenze, Sansoni, 1975, pp. 88-90. (18) Cfr. I. Kant, Logica, a cura di L. Amoroso, Bari, Laterza. 1984, p. 18. (19) Cfr. I. Kant, Critica della Ragion Pura, cit., II, p. 612. (20) Cfr. I. Kant, Logica, cit., p. 19. (21) Op. cit., p. XIV. Su questo, cfr. anche M. Heidegger, op. cit., pp. 178 ss. (22) Cfr. I. Kant, Critica della Ragion Pura, cit., I, p. 243. (23) Cfr. I. Kant, Per la pace perpetua. A riguardo, cfr. anche N. Bobbio, Kant e la Rivoluzione

Francese, in «Nuova Antologia», luglio-settembre 1990, pp. 53-60. (24) Per questi problemi, cfr. P. Manganaro, op. cit., p. 43. e l’Introduzione di V. Mathieu a: I.

Kant, Opus Postumum, Bologna, Zanichelli, 1963, pp. 3-57. (25) Cfr. Platone, Alcibiade primo, 130 a. (26) Cfr. I. Kant, I progressi..., cit., p. 77. (27) Cfr. L. Feuerbach, Tesi provvisorie per una riforma della Filosofia, in: L.

Feuerbach,Principi della Filosofia dell’avvenire, Torino, Einaudi. 1971, p. 49. (28) Op. cit., p. 106. (29) F. Nietzsche, Opere, VI, 1. p. 6. (30) F. Nietzsche, Opere, V. 2. pp. 280-281. (31) F. Nietzsche, Opere, VI. 3, p. 213. (32) A riguardo si tenga presente l’indicazione di Th. W. Adorno sulla necessità di «una seconda

rivoluzione copernicana », e, in particolare, si cfr. A. Sohn-Rethel, Lavoro intellettuale e lavoro manuale. Per la teoria della sintesi sociale, Milano, Feltrinelli. 1977, pp. 68-70. Sul tema, inoltre, cfr. l’importante inedito di E. Husserl, Rovesciamento della dottrina copernicana nell’interpretazione della corrente visione del mondo, in «aut aut», 245, settembre-ottobre 1991, pp. 3-18; Guido D. Neri, Terra e cielo in un manoscritto del 1934, op, cit., pp. 19-44; e F. La Sala, Per una nuova cultura all’altezza del Pianeta Azzurro, in «La Crìtica Sociologica». 93, 1990, pp. 111-115.

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2. DANTE, ALLE ORIGINI DEL MODERNO!!! IL “DE VULGA RI ELOQUENTIA”, LA “MONARCHIA”, E IL SOFISMA DELLA "FALLACIA ACCIDENTI S" CONTRO IL RETTO AMORE (“CHARITAS”).

Pace, giustizia, e libertà nell’aiuola dei mortali

DANTE. ALLE ORIGINI DEL MODERNO *

I

Ogni età è moderna per quanti la vivono. Nel caso del Medio Evo, la sua modernità doveva essere denunciata dagli Umanisti come decadenza; ma per gli uomini che l’hanno vissuta, in special modo per gli uomini del XIII e XIV secolo, quest’età fu sentita come un’età di innovazione in tutti i campi della cultura, una modernità in progresso. Ètienne Gilson

L’uomo si sforza ancora di riacquistare quei doni di cui la sua colpa l’ha privato, e come ha reagito alla prima maledizione universale con l’invenzione di tutte le arti, alla seconda maledizione universale, che fu la confusione delle lingue, ha cercato di opporsi con l’arte della grammatica. Francesco Bacone

Verso l’Eden. - Tra il 1304 e il 1308 Dante scrive, più o meno contemporaneamente al Convivio, il De vulgari eloquentia**: lo scopo di quest’opera, come dell’altra, entrambe lasciate incompiute, è pur nella differenza lo stesso, pedagogico e “illuministico”. Quello del Convivio - la prima opera in volgare in Italia in cui sotto forma di commento a canzoni “sì d’amore che di virtù materiate” si affrontano complessi problemi dottrinali (configurazione dei cieli, scienze del trivio e del quadrivio, nobiltà, Impero) - è imbandire un banchetto di sapienza per tutti coloro che non conoscono il latino (“volgari e non letterati”) e che non possono saziare l’umano desiderio di sapere perché impediti o dalla “cura familiare e civile” o dal vivere in un luogo “da ogni Studio non solamente privato, ma da gente studiosa lontano”. Quello del De vulgari eloquentia è “illuminare in qualche modo il discernimento di coloro che vagano come ciechi per le piazze” e “giovare alla lingua della gente illetterata” (I, i, l).

Proposito primo di tale opera, essendo scritta in latino e destinata pertanto ai “letterati” (a quelli che conoscono il latino), è, però, “insegnare la teoria dell’eloquenza volgare” (I, xix, 2). Cosa che per Dante significa non solo indicare la via e il modo per elaborare “da tanti vocaboli rozzi che usano gli Italiani, da tante costruzioni intricate, da tante desinenze erronee, da tanti accenti campagnoli” quel volgare italiano che è “cosi nobile, cosi limpido cosi perfetto e cosi urbano come mostrano”, (I, xvii, 3) Cino da Pistoia e il suo amico (Dante stesso), ma anche e soprattutto “chi riteniamo degno di usarlo, e per quali materie, e, come, nonché dove, e quando, e a chi vada rivolto” (I, xix, 2). Cioè, semplicemente, la trattazione dell’eloquenza volgare vuol essere al contempo una trattazione dell’intellettuale volgare.

Col De vulgari eloquentia ai “letterati” italiani (in particolare a quelli che sono o vogliono essere “versificatori in volgare”, perché - nonostante “il volgare illustre italiano può legittimamente manifestarsi sia in prosa che in versi” - “il volgare che è stato organizzato in poesia sembra rimanere come modello ai prosatori, e non viceversa») Dante vuole indicare decisamente quale spazio si è aperto, e, quali prospettive e quali compiti si vengono a porre nella realtà del tempo; e, ancora, come tutto questo ruoti intorno al nodo dell’eloquenza volgare. Ciò che egli propone, di fronte alle vaste ed eccezionali trasformazioni della realtà contemporanea, - si tenga presente che tra il secolo XI e il XIII “nell’Occidente cristiano avviene una rivoluzione economica e sociale, di cui lo sviluppo urbano è il sintomo più lampante, e la divisione del lavoro l’aspetto più importante”, che

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“nuovi mestieri nascono e si sviluppano, nuove categorie professionali appaiono o prendono corpo, gruppi socio-professionali nuovi, forti del loro numero, del loro ruolo, reclamano e conquistano una stima, ossia un prestigio adeguati alla loro forza” (1); e, che, ad es., la popolazione di Firenze, “di appena 6000 abitanti nella prima metà del secolo XII, saliva nel 1300 a molto di più di 30.000, e, pochi decenni dopo, a quasi 100.000”(2), - non è una prospettiva né un compito affatto semplice: cambiare registro linguistico e forgiarne uno nuovo e più degno.

Abbandonare il latino (“usato sole”) che ormai dà “lo suo beneficio a pochi” e mettersi al lavoro dentro quel processo già in atto di formazione della lingua più decorosa d’Italia, la lingua illustre - la lingua che sarà, scrive Dante nel Convivio, “luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritate” - comporta tanto impegno quanto una radicale trasformazione della figura del dotto, richiede innanzi tutto uomini capaci di essere all’altezza della situazione, di schierarsi a fianco di quanto sta emergendo nella realtà politica e sociale italiana: “ognuno - scrive Dante - affronti con cautela e discernimento ciò di cui parliamo [...] è qui che sta l’impresa e la fatica, perché non è cosa che possa darsi senza vigore d’ingegno e assidua frequentazione della tecnica e possesso della cultura [...]. E allora resti dimostrata e svergognata la stoltezza di coloro che, privi di capacità tecnica e di cultura, fidando nel solo ingegno, si precipitano sui sommi temi che vanno cantati in forma somma; e la smettano con una simile presuntuosità e, se la natura o la fannullaggine li ha fatti oche, non pretendano di imitare l’aquila che si slancia verso gli astri” (Il, iv, 9-11).

Nel momento storico in cui viene a sgretolarsi la realtà economica e sociale del mondo feudale e si va invece consolidando fortemente la realtà delle città, e lo stesso volgare si sta evolvendo in modo vertiginoso, Dante giunge a percepire in tutta la sua importanza quel processo che sta portando gli individui a essere sempre più dominati da astrazioni e sempre più bisognosi (“quest’arte dell’eloquenza volgare è necessaria a tutti - tant’è vero che ad essa tendono non solo gli uomini, ma anche le donne e i bambini, per quanto lo consente la natura”) della lingua di secondo grado (“definiamo lingua volgare quella che riceviamo imitando la nutrice, senza bisogno di alcuna regola. Abbiamo poi un’altra lingua di secondo grado, che i Romani chiamarono grammatica. Questa lingua seconda la possiedono pure i Greci e altri popoli, non tutti però”), - cioè di un volgare regulato, - e sollecita i dotti a farsi carico di tale problema, perché, se è vero che l’arte dell’eloquenza “è necessaria a tutti”, è altrettanto vero che “sono pochi quelli che pervengono al suo pieno possesso, poiché non si riesce a farne nostre le regole se non in tempi lunghi e con uno studio assiduo” (I, i). E, in questo, li sollecita a muoversi nella direzione sua e di Cino da Pistoia, perché essi hanno conseguito ottimi risultati nello sforzo di elaborazione della lingua regulata, e li hanno conseguiti proprio perché nel loro fare poetico “mostrano di appoggiarsi maggiormente alla grammatica che è comune a tutti” (I, x, 2), vale a dire a quella “ben determinata forma di linguaggio” che “in una con la prima anima fu creata da Dio” (I, vi, 4) e che fu propria a tutti gli uomini fino alla costruzione della torre di Babele (3).

Le ragioni del programma e della proposta politico-culturale esposte nel De vulgari eloquentia sono da ritrovare nella scoperta che Dante fa nella realtà storico sociale del tempo - e per di più nel giardino dell’Impero, in Italia - di una tensione ontologica verso l’Universale, e nella consapevolezza che egli mostra della necessità di collocarsi in questo spazio se si vuole cogliere quella tensione stessa e regolarla. Infatti l’ipotesi-guida nella ricerca dell’oggetto, della lingua illustre tra i vari volgari, e, insieme, nell’opera “di sradicamento o di estirpazione che dir si voglia” di “cespuglia aggrovigliati e rovi” per la selva italica (I, xi, 2) è il punto di vista logico e politico dell’Universalità o, come egli la chiama, della curialità: “la curialità non è altro che una norma ben soppesata delle azioni da compiere; e siccome la bilancia capace di soppesare in questo modo si trova d’abitudine solo nelle curie più eccelse, ne viene che tutto quanto nelle nostre azioni è soppesato con esattezza viene chiamato curiale» (I, xviii, 4). Ed è questo punto di vista che,

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sollecitando - una volta che dall’indagine spedita e “spietata” delle principali varietà di volgari non si è salvato alcuno, né regionale né municipale alla destra come alla sinistra del “giogo dell’Appennino”; chi si è salvato sono solo alcuni poeti “che si sono espressi in modo raffinato, trascegliendo nelle loro canzoni, i vocaboli più degni della curia” (I, xii, 8), che si sono sforzati “di distaccarsi dal volgare materno e di tendere a quello curiale” (I, xiv, 7) - a proseguire la ricerca con strumenti più adeguati, diviene l’oggetto da cui partire, il punto di partenza stesso: “Dopo che abbiamo cacciato per monti boscosi e pascoli d’Italia e non abbiamo trovato la pantera che bracchiamo, per poterla scovare proseguiamo la ricerca con mezzi più razionali, sicché, applicandoci con impegno, possiamo irretire totalmente coi nostri lacci la creatura che fa sentire il suo profumo ovunque e non si manifesta in nessun luogo” (I, xvi, 1).

Per catturare finalmente la pantera (la lingua illustre) “che fa sentire il suo profumo ovunque e non si manifesta in nessun luogo” sono necessari, dunque, mezzi più razionali. Tra questi lo strumento più idoneo è il principio che “in ogni genere di cose ce ne deve essere una in base alla quale paragoniamo e soppesiamo tutte le altre che appartengono a quel genere, e ne ricaviamo l’unità di misura”, o, detto altrimenti, potendosi tale principio applicare “a qualsiasi predicamento, anche alla sostanza”, “ogni cosa insomma è misurabile, in quanto fa parte di un genere, in base a ciò che vi è di più semplice in quel dato genere”. “Perciò nelle nostre azioni, nella misura in cui si dividono in specie, occorre trovare - prosegue Dante - l’elemento specifico sul quale anch’esse vengono misurate”. E dopo aver declinato tale principio - «in quanto operiamo in assoluto come uomini, c’è la virtù (intendendola in senso generale), secondo la quale infatti giudichiamo un uomo buono o cattivo; in quanto operiamo come uomini di una città, c’è la legge, secondo la quale un cittadino è definito buono o cattivo; in quanto operiamo come uomini dell’Italia, ci sono alcuni semplicissimi tratti, di abitudini e di modi di vestire e di lingua, che permettono di soppesar e misurare le azioni degli Italiani. Ma le operazioni più nobili fra quante ne compiono gli Italiani non sono specifiche di nessuna città d’Italia, bensì comune a tutte; e fra queste si può a questo punto individuare quel volgare di cui sopra andavamo in caccia, che fa sentire il suo profumo in ogni città, ma non ha la sua dimora in alcuna. E tuttavia può spargere il suo profumo più in una città che in un’altra, come la sostanza semplicissima, Dio, dà sentore di sé più nell’uomo che nella bestia, più nell’animale che nella pianta, più in questa che nel minerale...” - così conclude: “Ecco dunque che abbiamo raggiunto ciò che cercavamo: definiamo in Italia volgare illustre, cardinale, regale e curiale quello che è di ogni città italiana e non sembra appartenere a nessuna, e in base al quale tutti i volgari municipali degli Italiani vengono misurati e soppesati e comparati” (I, xvi, 2-6).

In un’epoca in cui profonde trasformazioni hanno dato luogo a nuove realtà sociali e molteplici spinte sollecitano a ristrutturare le vecchie forme di potere, Dante mostra di essere bene attento a quel movimento che agli albori aveva già fatto dire a Eraclito che “è necessario che coloro che parlano adoperando la mente si basino su ciò che è comune a tutti, come la città sulla legge, ed in modo ancora più saldo. Tutte le leggi umane infatti traggono alimento dall’unica legge divina: giacché essa domina tanto quanto vuole e basta per tutte le cose e ne avanza per di più” (4), e che nel futuro invece porterà Hegel ad affermare - in riferimento a quell’evento cruciale che fu la Rivoluzione Francese, per esser divenuta la società borghese Soggetto politico - che “all’improvviso, il pensiero, il concetto del diritto, si fece valere e il vecchio edifico di iniquità non gli poté resistere. Allora, nel pensiero del Diritto, si costruì una costituzione, mentre ormai tutto doveva poggiare su questa base. Da quando il sole ruota nel firmamento, e i pianeti intorno a lui, non si era mai visto l’uomo mettersi con la testa in basso, cioè fondarsi sull’Idea e costruire la realtà partendo da essa [...]. Questa dunque è un’alba stupenda. Tutti gli esseri hanno celebrato questo tempo. Allora regnava una sublime emozione, l’entusiasmo dello spirito ha fatto fremere il mondo, come se, solo allora, si fosse arrivati alla vera conciliazione del divino col mondo”(5). E altrettanto mostra che la cattura della lingua - pantera - nel momento stesso in cui in Italia dai vari volgari sta emergendo il volgare curiale - e questo sta emergendo come un al di là degli stessi volgari - è

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possibile solo partendo dall’ Universale, cioè involandosi nella regione nebulosa del mondo religioso ed eguagliando il rapporto tra Volgare e volgari con il rapporto Dio e mondo.

L’orizzonte ideologico entro cui Dante si muove (6) rende nel contempo forte, perché gli permette di intuire e cogliere il legame che corre tra processi sociologici e politici e religione, e, debole, perché gli impedisce di cogliere quale realtà sollecita a tale connessione. Egli comprende misticamente che il vincolo sociale come il vincolo linguistico tra gli uomini va ponendosi e sviluppando come oltremondano, cioè che il vincolo stesso - l’unità linguistica e sociale - va acquistando un’esistenza propria e indipendente, e che bisogna collocarsi decisamente su questo piano, il piano dell’Universale; e ne trae tutte le conseguenze, coerentemente.

Il suo punto di vista, non a caso, gli consente di elaborare un modello di lingua e di intellettuale di grande densità ideologica e politica. Gli attributi (illustre, cardinale, regale e curiale) della lingua più decorosa d’Italia, infatti, non dicono solo l’intrinseca qualità della lingua illustre, ma delineano anche i tratti della figura del nuovo dotto: “quando usiamo il termine illustre, intendiamo qualcosa che diffonde luce e che, investito dalla luce, risplende su tutto: ed è a questa stregua che chiamiamo certi uomini illustri, o perché illuminati dal potere diffondono sugli altri una luce di giustizia e carità, o perché depositari di un alto magistero, sanno altamente ammaestrare [...] Ora il volgare di cui stiamo parlando è investito da un magistero e da un potere che lo sollevano in alto, e solleva in alto i suoi con l’onore e la gloria [...] Forse che chi è al suo servizio non supera in fama qualunque re, marchese, conte e potente? E quanto renda ricchi di gloria i suoi servitori, noi stessi lo sappiamo bene, noi che per la dolcezza di questa gloria ci buttiamo dietro le spalle l’esilio [...]. E non è senza ragione che fregiamo questo volgare illustre del secondo attributo, per cui ciò,è si chiama cardinale. Come infatti la porta intera va dietro il cardine, in modo da volgersi anch’essa nel senso in cui il cardine si volge [...] così l’intero gregge dei volgari municipali si volge e rivolge, si muove e si arresta secondo gli ordini di questo, che si mostra un vero e proprio capofamiglia. Non strappa egli ogni giorno i cespugli spinosi dalla selva italica? Non innesta ogni giorno germogli e trapianta pianticelle? A che altro sono intenti i suoi giardinieri se non a togliere e a inserire, come si è detto? [...]. Quanto poi al nome di regale che gli attribuiamo, il motivo è questo, che se noi Italiani avessimo una reggia, esso prenderebbe posto in quel palazzo. Perché se la reggia è la casa comune di tutto il regno, l’augusta reggitrice di tutte le sue parti, qualunque cosa è tale da esser comune a tutti senza appartenere in proprio a nessuno, deve abitare necessariamente nella reggia e praticarla, e non vi è altra dimora degna di un cosi nobile inquilino [...]. Infine quel volgare va definito a buon diritto curiale [...] poiché è stato soppesato nella curia più eccelsa degli italiani [...]. Ma dire che è stato soppesato nella più eccelsa curia degli italiani sembra una burla, dato che siamo privi di una curia. Ma è facile rispondere. Perché se è vero che in Italia non esiste una curia, nell’accezione di curia unificata - come quella del re di Germania - tuttavia non fanno difetto le membra che la costituiscono; e come le membra di quella curia traggono la loro unità dalla persona unica del Principe, cosi le membra di questa sono state unite dalla luce di grazia della ragione. Perciò sarebbe falso sostenere che gli italiani mancano di curia, anche se manchiamo di un Principe, perché in realtà una curia la possediamo, anche se fisicamente dispersa» (I, xvii-xviii).

La proposta di Dante non vuole essere affatto né semplicemente poetica né politicamente ambigua. Con la sua opera egli vuole indicare non solo come sia possibile superare la natura “saussuriana” del segno linguistico - “fenomeno sensibile in quanto è suono; fenomeno razionale in quanto ciò che significa, lo significa evidentemente a nostro arbitrio” (I, iii, 3) - e quale lavoro occorra per elaborare una lingua naturale-universale, ma anche e soprattutto come e quanto profondamente siano legati tra di loro nuova lingua e nuovo dotto, e, a quale grande funzione sono entrambi chiamati: “Questo volgare esige in verità persone che gli assomigliano, come avviene per tutti gli altri nostri atteggiamenti morali e modi di vestire: cosi la magnificenza esige persone capaci di grandi azioni, la porpora individui nobili; e allo stesso modo anche il volgare in questione cerca

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coloro che eccellono per ingegno e cultura, e disprezza tutti gli altri [...]. E dato che la lingua è lo strumento necessario di ciò che concepiamo non altrimenti che il cavallo lo è per il cavaliere, e ai migliori cavalieri convengono i migliori cavalli, come si è detto, alle concezioni più alte converrà la lingua migliore” (II, i, 5-8).

A ben vedere, la genialità di Dante non è inferiore a quella di Platone. Egli giunge a riscoprire quello stesso processo che in un’analoga congiuntura economica e sociale aveva indotto Platone ad attribuire ai filosofi - “poiché filosofi sono coloro che riescono ad arrivare a ciò che sempre permane invariabilmente costante, mentre coloro che non ci riescono, ma si perdono nella molteplicità del variabile non sono filosofi” - la funzione direttiva dello Stato (La Repubblica, VI, 484a). Cosi come è la filosofia, o, meglio, l’amore per la Sapienza (“Beatrice, loda di Dio vera, ché non soccorri quel che t’amò tanto / che uscì per te de la volgare schiera?” -Inf. II, 103-5) ad aprirgli la strada alla contemplazione de ”la gloria di colui che tutto move” - quella gloria che “per l’Universo penetra, e risplende / in una parte piu e meno altrove” (Par., I, 1-4) - e a fargli conseguire quell’alto magistero e quel potere che lo innalzano a guida e a giudice del suo tempo.

Fatto da vivo l’ itinerarium in Deum e raggiunta “la felicità della vita eterna, la quale consiste nel godimento della visione di Dio (alla quale l’uomo non può elevarsi da sé senza il soccorso della luce divina) ed è raffigurata nel paradiso celeste”, egli è degno di indicare “la diritta via” per raggiungere “la felicità di questa vita” che è “raffigurata nel paradiso terrestre” (Monarchia, IlI, xv). Il De vulgari eloquentia, benché sia di poco precedente alla stesura della Commedia, s’iscrive entro questo orizzonte: vuoI essere un programma politico e culturale per la riconquista del Regno, non solo d’Italia - per l’instaurazione della monarchia temporale o, che è lo stesso, dell’Impero. La lingua d’Amore della Vita Nuova (XXIV, 3), divenuta lingua di Salvezza Amore e Virtù (Salus Venus e Virtus), nel De vulgari eloquentia vuol essere infatti - proprio perché ha reso possibile il recupero di quella “ben determinata forma di linguaggio” creata da Dio, di cui “farebbero uso tutti i parlanti nella loro lingua, se essa non fosse stata smembrata per colpa dell’umana presunzione” (I, vi, 4) - la restaurata lingua prebabelica (7).

L’orizzonte ideologico del tempo non può far vedere (né tanto meno nominare) a Dante come alle forze sociali emergenti il nuovo per cui essi lottano. Nel momento in cui la società borghese comincia a prendere coscienza di sé e lotta per i propri obiettivi, non può farlo se non con gli strumenti a disposizione, come attesta questo documento del 1257:

Quest’ atto ricorda la manomissione effettuata dal comune di Bologna di servi e serve della gleba: lo si deve chiamare giustamente Paradiso.

Dio onnipotente piantò un piacevole Paradiso (giardino) e vi pose l’uomo, il cui corpo ornò di candida veste donandogli una libertà perfettissima ed eterna. Ma l’ uomo, misero, immemore della sua dignità e del dono divino, gustò del frutto proibito contro il comando del Signore. Con questo atto tirò se stesso e i suoi posteri in questa valle di lagrime e avvelenò il genere umano legandolo con le catene della schiavitù al Diavolo; cosi l’ uomo da incorruttibile divenne corruttibile, da immortale mortale, sottoposto a una gravissima schiavitù. Dio vedendo tutto il mondo perito (nella schiavitù) ebbe pietà e mandò il Figlio suo unigenito nato, per opera dello Spirito Santo, dalla Vergine madre affinché con la gloria della Sua dignità celeste rompesse i legami della nostra schiavitù e ci restituisse alla pristina libertà. Assai utilmente agisce perciò chi restituisce col beneficio della manomissione alla libertà nella quale sono nati, gli uomini che la natura crea liberi e il diritto delle genti sottopone al giogo della schiavitù.

Considerato ciò, la nobile città di Bologna, che ha sempre combattuto per la libertà, memore del passato e provvida del futuro, in onore del Redentore Gesù Cristo ha liberato pagando in danaro,

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tutti quelli che ha ritrovato nella città e diocesi di Bologna astretti a condizione servile; li ha dichiarati liberi e ha stabilito che d’ora in poi nessuno schiavo osi abitar nel territorio di Bologna affinché non si corrompa con qualche fermento di schiavitù una massa di uomini naturalmente liberi.

Al tempo di Bonaccorso di Soresina, podestà di Bologna, del giudice ed assessore Giacomo Grattacello, fu scritto quest’ atto, che deve essere detto Paradiso, che contiene i nomi dei servi e delle serve perché si sappia quali di essi hanno riacquistato la libertà e a qual prezzo: dodici libbre per i maggiori di tredici anni, e per le serve: otto libbre bolognesi per i minori di anni tredici [...] (8).

Alla luce di questo atto di manomissione (9) molte cose si fanno più chiare. Il progetto di una restaurata lingua prebabelica, la collocazione del simbolo dell’Impero nel paradiso terrestre, la connessa profezia di Beatrice sul rapporto Chiesa e Impero (“Non sarà tutto tempo sanza reda / l’aguglia che lasciò le penne al carro, / per che divenne mostro e poscia preda; / ch’ io veggio certamente, e però il narro, / a dame tempo già stelle propinque, / secure d’ogni intoppo e d’ ogni sbarro, / nel quale un cinquecento dieci e cinque, / messo di Dio, anciderà la fuia / con quel gigante che con lei delinque” - Purg. XXXIII, 37-45), cosi come l’accostamento di fede-moneta che San Pietro fa nell’esaminare Dante - ”indi soggiunse: Assai bene è trascorsa / d’ esta moneta già la lega e il peso; / ma dimmi se tu l’hai ne la tua borsa. / Ond’io: sì, l’ho, sì lucida e sì tonda / che nel suo conio nulla mi s’inforsa» (Par., XXIV, 83-7) - appaiono meno metaforici e simbolici di quanto sembrino. Esprimono la connessione tra orizzonte ideologico e processi socio-politici propri del tempo, e insieme indicano la profonda complementarità che si va instaurando tra nascente capitalismo e Cristianesimo, tra processi economico-politici e religione. Dante come le nuove forze sociali del tempo lottano si per la riconquista del paradiso terrestre, ma lottano soprattutto - non sanno di farlo, ma lo fanno - per il paradiso politico della società borghese, di cui essi sono già espressione.

In un’epoca in cui la Chiesa ha ancora un enorme potere politico e ideologico (specie in Italia), in un’epoca in cui le città affrancano “pagando in danaro” i servi della gleba (10) dai loro padroni e si pongono esse stesse come paradiso, Dante - pur tra le molteplici mediazioni della sua coscienza - coglie tutta la portata del nuovo e si colloca decisamente su tale terreno: in ciò sono la sua forza, il suo genio e il suo dramma.

Chi per primo si scoprì e si pose come persona dell’Universale - mostrandosi profeta di quel processo che porterà Hegel a concepire “l’elevatissimo concetto appartenente all’età moderna e alla sua religione”, l’Assoluto come Spirito (11) - non poteva non avere altra sorte che quella di andare “peregrino, quasi mendicando”, per l’Italia, a mostrare contro sua voglia “la piaga della fortuna, che suole ingiustamente al piagato essere imputata” (Convivio).

Lo stesso De vulgari eloquentia non doveva avere migliore sorte: smarrito, e recuperato agli inizi del ‘500, fu continuamente frainteso fino a Manzoni. Del resto il tortuoso e intricato percorso socio-politico che la realtà italiana doveva fare per giungere al suo paradiso politico non permise altrimenti. Ancora nel 1816 nella Lettera semiseria di Crisostomo, Giovanni Berchet, riecheggiando (e a destra, per cosi dire) Dante, scriveva: “E se noi non possediamo una comune patria politica [...] chi ci vieta di crearci intanto, a conforto delle umane sciagure, una patria letteraria comune?”.

Solo Gramsci intuirà che “il De Vulgari Eloquio di Dante sia da considerare come essenzialmente un atto di politica culturale-nazionale (nel senso che nazionale aveva in quel tempo e in Dante), come un aspetto della lotta politica è stata sempre quella che viene chiamata ‘la quistione della

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lingua’” (12). E non a caso, la sua ottica ancora e in parte democratico-borghese lo induce a concepire i propri problemi all’interno del paradigma elaborato da Dante e al fondo di tutta la cultura moderna. Come non a caso - nel momento stesso che la configurazione imperniata su Dio (Universale), Intellettuale, Lingua e Politica, è andata disarticolandosi ed è stata messa in crisi - è possibile rendersi conto oggi di quanto moderna fosse la ‘visione’ di Dante.

II

Con tutti i suoi limiti, il De Monarchia appartiene allo stesso genere letterario della Politica, del Leviatano e del Contratto Sociale. W. H. V. Reade

L’ aspirazione rivoluzionaria a realizzare il regno di Dio è il punto elastico della cultura progressiva e il principio della storia moderna. Friedrich Schlegel

Un paradigma per i posteri. - Con la Monarchia***, “opera ardua e superiore” alle sue forze, pur non confidando nelle sue capacità “quanto nella luce di quel Dispensatore che dà a tutti abbondantemente e non lo rinfaccia mai” e tuttavia includendosi tra gli uomini “che la natura superiore ha reso inclini all’amore della verità”, Dante vuole consegnare al futuro - ai “posteri, perché la posterità possa servirsi del frutto” delle sue fatiche (I, i) - il suo ideale e il suo testamento teologico-politico. Con esso, convinto che “la conoscenza della Monarchia Universale [temporalis Monarchie] è particolarmente utile, ma pochissimo nota e da nessuno ricercata perché non offre un guadagno immediato”(l, i), due contributi decisivi e fondamentali vuole offrire: sottrarre all’oscurità e alla confusione il problema appunto della monarchia enelcontempo- sempre “sorretto dal braccio di Colui che ci liberò col suo sangue dal potere delle tenebre” - scacciare “dal campo, in faccia al mondo, l’empio e il bugiardo” (III, i), in particolare (“essenzialmente tre categorie di persone ”si accaniscono contro la verità “a cui vogliamo arrivare”) il sommo Pontefice (è la prima delle tre, le altre due sono quelli “la cui ostinata cupidigia ha spento il lume della ragione” - cioè quelli che strumentalmente e per i loro guadagni sostengono le tesi ierocratiche - e i decretalisti, cioè quelli che si basano “caparbiamente” solo sugli atti della Curia pontificia, le Decretali appunto) che si «oppone forse per zelo delle chiavi» (III, iii).

Con audacia straordinaria, l’audacia di un laico che ha fatto grazie al suo amore per la Sapienza (Beatrice) l’itinerarium in Deum, e, dall’interno della Chiesa, Dante specie nel III libro impugna e mette in radicale discussione i capisaldi di quella dottrina ierocratica che da Bonifacio VIII era stata formulata nel modo più esplicito e tracotante, che nella “Chiesa e nel suo potere ci sono due spade, una spirituale, cioè, ed una temporale”; che “ambedue sono in potere della Chiesa, la spada spirituale e quella materiale” e che “una invero deve essere impugnata per la Chiesa, l’altra dalla Chiesa; la seconda dal clero, la prima dalla mano di re o cavalieri, ma secondo il comando e la condiscendenza del clero, perché è necessario che una spada dipenda dall’altra e che l’autorità temporale sia soggetta a quella spirituale”; e, infine, di enorme rilevanza, che, “se erra il supremo potere spirituale, questo potrà essere giudicato solamente da Dio e non dagli uomini” e che “chiunque si oppone a questo potere istituito da Dio si oppone ai comandi di Dio, a meno che non pretenda, come Manichei, che ci sono due principii”(13).

Contro ogni pretesa ierocratica (senza essere per questo partigiano dell’imperatore) come contro le pretese ghibelline e realistiche, e contro la secolare concezione che voleva in contraddizione la vita terrena e la vita celeste, Dante lotta strenuamente e da cristiano (senza essere per questo partigiano del papa) per rivendicare e fondare “in un difficile ed arduo equilibrio, il nuovo senso dell’autonomia mondana dell’ordine politico e la fedeltà ad una visione assolutamente spirituale e religiosa della storia umana consegnata ai due ‘ideali’ dell’unico Impero e dell’unica Chiesa» (14).

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Troppo spesso, dimenticando tutto questo, e, portando all’assoluto particolari estratti da vari contesti, si è finito con l’appiattire la posizione di Dante nell’orbita del mondo medievale - a quella di un uomo nostalgico del passato e reazionario o a un ghibellino tout court - annullandone cosi la specificità (guelfo bianco), che è quella di muoversi con grande lucidità e per equilibrio instabile dentro il suo orizzonte logico-storico, verso il moderno.

Il suo progetto politico (da non dimenticare, teologico), senza far violenza, anzi schierandosi a fianco, al nuovo emergente ed emerso nella realtà sociale - nella profonda convinzione morale (ma con forte valenza ontologica) e religiosa che “l’esser uno è la radice dell’esser buono, mentre la molteplicità è invece la radice dell’esser male”, che «peccare non è altro che disprezzare l’uno per tendere al molteplice»(I, xv) - è quello di ripristinare e salvaguardare il nesso onto-teo-logico tra particolare e Universale, e di conservare tale nesso nel suo fondamento, Dio stesso.

Nel momento in cui in Europa nascono e si affermano unità cittadine e nazionali autonome, sovrane nel loro territorio, Dante non prospetta affatto una restaurazione pura e semplice dell’Impero. La sua posizione, teologica e razionale insieme, è molto più articolata e complessa. Egli nel porre con grande e vera originalità il fondamento della società umana nel diritto e nel postulare l’identità di questo con la volontà divina ((“siccome in Dio la volontà e la cosa voluta si identificano, ne consegue ulteriormente che la volontà divina è lo stesso diritto, e ancora, che, nel mondo, il diritto non è altro che un’immagine della volontà divina”, II, ii), con l’idea di monarchia temporale vuole ripristinare, salvare e custodire proprio l’unità onto-teo-logica tra Universale e particolare, senza sopprimerne la differenza ma difendendola.

Per Dante, infatti, le nazioni, i regni e le città, avendo caratteristiche proprie, “devono essere regolate da leggi diverse” (I, xiv), ma, affinché non restino nel loro isolamento e possano realizzare le aspirazioni universali, quelle comuni a tutto il genere umano, devono essere rette e guidate da uno solo, dal Monarca “secondo una regola universale” (I, xiv) alla pace, alla libertà e alla giustizia.

Nel coniugare aristotelismo e teologia, ciò che anima Dante - quest’uomo che dice di sé: “sono quel che sono non grazie alle ricchezze, ma per grazia di Dio e ‘lo zelo della sua casa mi divora’” (Epistola XI) - è una tensione inaudita: all’interno dell’orizzonte cristiano e di una realtà piena di lacerazioni e contrasti enormi, con la sua idea di Monarchia vuol indicare il modo per porre e mantenere le innumerevoli molteplicità, che sempre più nascono e premono nel tessuto sociale dell’Europa del ’300, sulla diritta via. Riconquistare il paradiso terrestre è l’obiettivo che egli pone - in sintonia con le più avanzate forze sociali economiche e politiche contemporanee - all’umanità del suo tempo. È in questo obiettivo che la teoria dei due poteri trova la sua necessità e la sua funzione, storico-politica e salvifica insieme; “se l’uomo fosse rimasto nello stato di innocenza in cui fu creato da Dio”, di questi due poteri (papa e imperatore) l’umanità non “avrebbe avuto bisogno; questi poteri sono dunque rimedi contro l’infermità ! derivata dal peccato» (III, iv).

Con lucidità e coerenza egli sviluppa la sua argomentazione. Premesso che “la Monarchia temporale, detta anche ‘Impero’, è fra le istituzioni che si trovano in una prospettiva temporale, l’unico principato - superiore a tutti gli altri principati nel tempo” e, prima di affrontarne i tre nodi ritenuti cruciali - “se l’istituzione sia necessaria al benessere del mondo”; “se il popolo romano si sia assunto a buon diritto la funzione di Monarca”; “se l’autorità del monarca dipenda direttamente da Dio o da qualcun altro vicario o ministro di Dio” (I, ii) - definisce ambito, finalità e modi della ricerca:

a) “l’argomento in esame è di carattere politico, ed anzi riguarda la fonte e il principio di ogni retto ordinamento politico”; b) la politica, al contrario delle realtà “matematiche, fisiche e divine” che non sono in nostro

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potere e che “possono essere per noi soltanto oggetto di speculazione e non di attività pratica”, dipende da noi e, come tale, “risponde a finalità innanzitutto pratiche” (e interne allo stesso ambito della ricerca); c) “la presente trattazione è sostanzialmente una ricerca sillogistica”, cioè impostata in modo

ipotetico deduttivo (“è necessario, in ogni ricerca sillogistica, aver preliminare cognizione di un principio a cui poter ricorrere deduttivamente a sostegno di tutte le proposizioni successive”).

E chiarita questa mobile e circolare connessione metodologica - “dato che nella pratica principio e causa di ogni azione è il fine ultimo che spinge l’agente ad operare, ne viene di conseguenza che il motivo di tutte le azioni che convergono al raggiungimento di un fine, sia rintracciato dallo stesso fine [...]. Perciò, se vi è qualcosa che costituisce il fine dell’universale consorzio umano, questo sarà il principio su cui tutte le nostre successive argomentazioni fonderanno la propria validità” (I, ii) - si muove a determinare il “principio direttivo” della ricerca.

Per Dante, sulla scorta del commento di Averroè al De Anima di Aristotele, la potenza specifica dell’intera umanità è “l’essere capace di apprendere per mezzo dell’intelletto possibile, capacità che invero non compete a nessun altro che all’uomo, né al di sopra né al di sotto di lui” (I, ii): e il singolo non può attuare la sua potenza specifica se non e solo insieme con tutto il genere umano (“altrimenti bisognerebbe ammettere una potenza separata, il che è impossibile”).

Per questo il fine (“quel fine, migliore di tutti gli altri, per il quale l’eterno Dio dà l’esistenza a tutto il genere umano, servendosi della sua arte, che è la natura”) di tutta l’umana società così come “l’attività specifica del genere umano, preso nella sua totalità, consiste nell’attuare sempre tutta la potenza dell’intelletto possibile, in primo luogo nella direzione della speculazione, in secondo luogo, per estensione, nella direzione dell’attività pratica in funzione del1a speculazione” (I, iv).

Ciò che egli postula, entro il suo orizzonte teologico razionale, è una circolarità che si pone e vuole essere, in teoria e in pratica (o, meglio, in potenza e in atto), unitariamente e articolatamente onto-teo-logica: “La potenza intellettiva di cui parlo non è rivolta soltanto alle forme universali o specie, ma anche, per estensione, alle forme particolari, per cui si suol dire che l’intelletto speculativo diventa, per estensione, pratico, ed il suo fine è l’agire e il fare. E mi riferisco all’agire che è regolato dall’esperienza politica, e al fare che è regolato dall’arte: l’uno e l’altro sono strumento della speculazione, che è il fine più alto per il quale la Prima Bontà ha dato l’esistenza al genere umano” (I, iii).

Ora se “l’intento di Dio è che ogni cosa creata sia simile a Lui, nei limiti, s’intende, delle possibilità della propria natura”, è evidente che “il genere umano raggiunge la perfezione quando attua tutta la rassomiglianza con Dio, secondo la possibilità della propria natura” (I, viii). E poiché “Dio è la sola vera unità”, l’umanità perviene al grado massimo di somiglianza con Dio quando raggiunge il suo più alto grado di unità. E dal momento che “l’uomo è termine medio tra le cose corruttibili e le incorruttibili” e, quindi, “partecipa dell’una e dell’altra natura” (III, xv), risulta evidente tanto la necessità che l’uomo “sia ordinato a due fini ultimi, ad uno in quanto corruttibile, all’altro in quanto incorruttibile)) (III, xv) tanto che questi due fini come le due guide abbiano il loro fondamento in Dio.

Questa è la diritta via che Dante indica: il genere umano può attuare tutta la rassomiglianza con Dio, secondo la possibilità della propria natura, solo movendosi all’interno e a partire dall’Identità e insieme salvando e rispettando la Differenza. E questo è l’orizzonte entro cui egli stesso si muove con estrema lucidità, e che gli permette di combattere la sua battaglia con strenua intransigenza logica e morale senza essere né partigiano dell’imperatore né del papa né tanto meno un eretico:

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Due fini pertanto l’ineffabile Provvidenza ha posto dinanzi all’uomo come mete da raggiungere: la felicità di questa vita, che consiste nella piena attuazione delle sue capacità, ed è raffigurata nel Paradiso terrestre; e la beatitudine della vita eterna, la quale consiste nel godimento della visione di Dio - a cui le capacità proprie dell’uomo non possono elevarsi da sé senza l’aiuto della luce divina - ed è raffigurata nel Paradiso celeste. A queste beatitudini, come a termini diversi, bisogna giungere con mezzi diversi. Infatti arriviamo alla prima per mezzo degli insegnamenti filosofici, purché li seguiamo effettivamente operando secondo le virtù morali e intellettuali; arriviamo invece alla seconda per mezzo degli ammaestramenti dello spirito, che trascendono l’umana ragione, purché li seguiamo operando secondo le virtù teologiche, cioè la fede, la speranza e la carità [et karitatem]. Queste mete, e i mezzi per raggiungerle, ci sono state indicate rispettivamente dalla ragione umana, che i filosofi ci hanno reso interamente palese, e dallo Spirito Santo, il quale, per mezzo dei profeti e degli agiografi nonché per mezzo di Gesù Cristo, figlio di Dio a Lui coetaneo e dei suoi discepoli, ci ha rivelato la verità soprannaturale a noi necessaria (III, xv).

Per questo, dato che, “quando più elementi sono ordinati ad un unico fine, è necessario che uno di essi diriga e gli altri siano diretti” (I, v) - a riguardo dello specifico ordinarsi del genere umano “bisogna sapere che il fondamento primo della nostra libertà è la libertà d’arbitrio, che molti hanno sulle labbra, ma pochi comprendono” (I, xii), e, nello stesso tempo, che la cupidigia umana “farebbe dimenticare mete e mezzi se gli uomini, come cavalli erranti in preda alla loro bestialità, non fossero raffrenati nel loro cammino terreno ‘con la briglia e il morso’” - l’uomo ha “bisogno di due guide in vista del suo duplice fine: il sommo Pontefice, che, seguendo le verità rivelate, [guidi] il genere umano alla vita eterna e l’Imperatore che, seguendo invece gli insegnamenti della filosofia, lo [indirizzi] alla felicità temporale. E siccome - prosegue Dante - a questo porto della felicità terrena, nessuno o pochi - e questi con estrema difficoltà - possono giungere se il genere umano, calmati i tempestosi allettamenti della cupidigia, non riposi libero nella tranquillità della pace, ecco che questo è la meta alla quale soprattutto deve mirare il tutore del mondo, che si chiama Principe Romano: far sì, cioè, che in questa aiuola dei mortali si viva in pace e in libertà” (III, xv).

L’Imperatore, però , per poter “applicare utilmente gli insegnamenti della libertà e della pace in modo adatto ai luoghi e ai tempi” - dato che “l’ordinamento di questo mondo è in rapporto con la rotazione dei cieli”, - è necessario che “sia ordinato da Colui che vede direttamente la totale disposizione dei Cieli”; e “questi può essere soltanto Colui che l’ha preordinata”, Dio stesso: “solo Dio elegge, solo Dio conferma”. Cioè, “l’autorità del Monarca temporale deriva, senza alcun intermediario, dalla Fonte stessa di ogni autorità”.

E, per evitare ogni ulteriore equivoco a riguardo, Dante spiega e conclude: questa soluzione non va “interpretata così alla lettera da escludere assolutamente che il Principe Romano soggiaccia in qualcosa al Sommo Pontefice, perché questa nostra felicità terrena è ordinata in certo qual modo in funzione della felicità eterna. Cesare usi dunque verso Pietro quella riverenza che il figlio primogenito deve al padre, affinché irraggiato dalla luce della grazia paterna, illumini con maggiore efficacia il mondo al quale è stato preposto da Quello che è il reggitore di tutte le cose spirituali e temporali” (III, xv).

Per Dante questa è la via: i due poteri - l’uno e l’altro indispensabile per porre rimedio all’infermità derivata dal peccato - devono cooperare in modo unitario ma distinto e in consonanza con la volontà divina, da cui deriva la loro stessa autorità; solo così essi possono contribuire a ristabilire il giusto rapporto dell’uomo con Dio e a riconquistare ciò che è stato perduto, il paradiso terrestre innanzitutto e, con esso, il paradiso celeste. Ed è questo l’orizzonte che gli permette non solo di postulare la distinzione e l’autonomia dell’agire politico dalla dimensione spirituale, ma soprattutto di restituire al presente un valore di temporalità salvifica, o, che è lo stesso, di coniugare

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in modo attivo e articolato - contro una tradizione negativa e (tendenzialmente) dualistica - il tempo con l’Eternità e il particolare con l’Universale.

La soluzione dantesca, anche se può apparire poco rigorosa e instabile, è tuttavia una soluzione ancora oggi “praticamente viva e operante; il che dimostra che, se Dante loico è in difetto, il politico aveva intuito felice» (15). Anzi, alla luce di quanto è emerso, si può dire che Dante è “alle soglie di un’odissea culturale altamente segnata da un Machìavelli, da un Guicciardini, da un Vico, da un Gramsci - l’avo della riflessione politica in Italia” (16).

Inoltre , il sogno di un’aiuola dei mortali dove si potesse vivere secondo giustizia in pace e in libertà era sì impraticabile e utopistico per il suo tempo, ma non per questo fu abbandonato o trascurato; dopo aver attraversato secoli ed essere stato l’asse portante dell’ideologia borghese, non ha forse attraversato e attraversa ancora il nostro presente? Non è stato ed è forse anche il nostro massimo sogno?

E, in questa prospettiva, oggi, il nostro problema più complesso - in un orizzonte segnata dalla ‘morte di Dio’ e insieme dall’esplosione di innumerabili identità - non è forse lo stesso affrontato da Dante, quello della costruibilità di un nesso tra particolare e generale? E, ancora, se per questo nodo passa la nostra stessa “possibilità di mantenere la problematica ereditata da Marx” (17), non è forse necessario tenere nel debito conto che Marx è “il solo che citi Dante come momento cardine del calendario per lui pensabile”?(18).

NOTE:

* Per non dimenticare la lezione di Dante, ripropongo qui un piccolo lavoro del 1982. Esso è stato pubblicato in Èuresis, Notizie e scritti di varia indole del Liceo classico “M.Tullio Cicerone” di Sala Consilina, Boccia editore, Salerno 1988.

I

** Per il De vulgari eloquentia è stato utilizzato il testo curato e tradotto da P.V. Mengaldo, in Dante Alighieri, Opere Minori a cura di P.V. Mengaldo, B. Nardi, A. Frugoni, G. Brugnoli, E. Cecchini, F. Mazzoni, V, 2, Milano-Napoli, Ricciardi, 1979. Dei passi citati sono stati dati in parentesi il libro, il capitolo e il capoverso.

1. J. Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Torino, Einaudi, 1977, p. 59.

2. G. Luzzatto, Dai servi della gleba agli albori del capitalismo, Bari, Laterza, 1966, p. 447.

3. Sui problemi connessi alla “forma di linguaggio” (forma locutionis), cfr. il prezioso contributo di M. Corti, Dante a un nuovo crocevia, Firenze, Libreria Commissionaria Sansoni, 1981, specie le pp. 46-52.

4. Eraclito: fr. 114. Cfr. I Presocratici, a cura di G. Giannantoni, Bari, Laterza, 1981, p. 219.

5. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla Filosofia della Storia, Firenze, La Nuova Italia, 1966, IV, pp. 204-5.

6. Su questo, precisazioni importanti sono in M. Corti, op. cit., pp. 9-31.

7. A riguardo, cfr. M. Picone, Vita Nuova e tradizione romanza, Padova, Liviana editrice, 1979, specie pp. 14 ss.; e, ancora, M. Corti, op. cit., pp. 70 ss.

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8. Per il testo originale, in latino, cfr. P. Vaccari, Le affrancazioni collettive dei servi della gleba, Milano, ISPI, 1939, pp. 45-7; la traduzione qui riportata è ripresa da F. Gaeta - G. Villani, Documenti e testimonianze, Milano, Principato, 1978, I, pp. 214-5.

9. Si è preferito riportare l’Atto del Comune di Bologna, sia perché è uno dei primi di questo genere (quelli di Firenze saranno di alcuni anni dopo, a partire dal 1289) sia perché estremamente esemplare dal punto di vista ideologico. Per gli Atti fiorentini di affrancazione, cfr. P. Vaccari, op. cit., pp. 58 e ss.

10. Al primo posto, in ordine di tempo, di questo processo di affrancamento dei servi della gleba sono Bologna e Firenze, ma presto e a ruota seguono Siena, Lucca, Pisa, Reggio Emilia, Parma, Perugia, Ravenna, Pistoia, Vercelli, Genova (cfr. P. Vaccari, op. cit., pp. 21-55.).

11. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, “Prefazione”, Firenze, La Nuova Italia, 1970, p. 19.

12 A. Gramsci, Quaderni del carcere, Torino, Einaudi, 1975, III, p. 2350.

II.

*** Per la Monarchia (non De Monarchia, titolo estraneo alla tradizione manoscritta) è stata utilizzata la traduzione condotta sul testo dell’edizione nazionale da L. Adamo, cfr. Dante Alighieri, Tutte le opere, a c. di L. Blasucci, Firenze, Sansoni, 1965, pp. 247-316. Dei passi citati si sono dati in parentesi il libro e il capitolo.

13. Le citazioni sono riprese dalla bolla Unam Sanctam data da Bonifacio VIII in Laterano nel novembre 1302; cfr. Gaeta - Villani, Documenti e testimonianze, cit., I, pp. 242-4.

14. C. Vasoli, La Filosofia Medievale, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 409.

15. S. A. Chimenz, Dante, in “Letteratura Italiana. I Maggiori”, Milano, Marzorati, I, p. 45.

16. P. Renucci, La cultura, in “Storia d’Italia”, Torino, Einaudi, 1974, 2/II, p. 1178.

17. P. A. ROVATTI, Contro la separazione, in “aut aut”, 186, Firenze, La Nuova Italia, 1981.

18. Ph. Sollers, Io e Dante, in “Spirali», 30, 1981.

Testi:

A. LA CARITA’ O IL RETTO AMORE

Monarchia, I. 11:

[...] ora il Monarca non ha più nulla da desiderare, poiché la sua giurisdizione è limitata soltanto dall’oceano (il che non si verifica per gli altri prìncipi i cui dominii confinano con altri dominii, come, per es., quello del re di Castiglia, che confina con quello del re di Aragona); quindi il Monarca, tra tutti gli uomini, è il soggetto di giustizia più esente da ogni cupidigia.

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Inoltre, come la cupidigia, per quanto piccola sia, offusca l’abito della giustizia, così la carità, cioè il retto amore, lo rende più forte e più illuminato. Perciò, la persona che è capace di raggiungere il più alto grado di retto amore può attingere il massimo livello di giustizia; ora, questa persona è il monarca; quindi, con il monarca si instaura, o può instaurarsi, il massimo di giustizia. Che poi il retto amore produca tali effetti si può dedurre dal fatto che la cupidigia, spregiando il Bene supremo degli uomini, cerca altri beni, mentre la carità, spregiando tutti gli altri beni, cerca Dio e l’uomo, e di conseguenza il vero bene dell’uomo.

E siccome, fra tutti i beni dell’uomo, grandissimo è quello di vivere in pace, come si è detto sopra, e questo bene si raggiunge principalmente ed essenzialmente attraverso la giustizia, questa riceverà grandissimo vigore dalla carità, e tanto più quanto più quest’ultima sarà intensa. Che poi nel monarca debba trovarsi in sommo grado il retto amore degli uomini si dimostra nel modo seguente: ogni oggetto amabile è tanto più amato quanto più è vicino a chi l’ama; ora gli uomini sono più vicini al monarca che agli altri principi; quindi essi sono o debbono essere amati dal monarca più che da ogni altro.

La premessa maggiore è evidente se si considera la natura degli agenti e dei pazienti; la minore è dimostrata dal fatto che agli altri prìncipi gli uomini sono vicini solo in parte, al monarca invece nella loro totalità. Si aggiunga che gli uomini si avvicinano agli altri prìncipi attraverso il monarca e non viceversa, e quindi la cura del monarca verso tutti gli uomini è originaria ed immediata, mentre quella degli altri prìncipi passa attraverso la mediazione del monarca in quanto deriva dalla sua cura suprema. Inoltre, quanto più una causa è universale, tanto più è causa (la causa inferiore infatti non è causa se non in forza di quella superiore, come risulta dal libro «Delle cause»), e quanto più una causa è causa, tanto più ama il suo effetto, poiché tale amore è conseguenza diretta dell’essere causa; ora, il monarca è, tra gli uomini, la causa più universale del loro ben vivere (mentre gli altri prìncipi sono causa attraverso la mediazione del monarca, come si è detto); quindi il monarca ama il bene degli uomini più di ogni altro.

[Per il secondo punto], chi potrebbe mettere in dubbio che il monarca abbia il massimo potere per attuare la giustizia se non colui che non intende che cosa significhi quel nome? Se egli infatti è effettivamente monarca, non può avere nemici. E così è stata sufficientemente dimostrata la premessa minore del sillogismo principale, e pertanto è certa la conclusione che la monarchia è necessaria per un perfetto ordinamento del mondo. (trad. di Pio Gaja)

[...] 12. Sed Monarcha non habet quod possit optare: sua nanque iurisdictio terminatur Occeano solum: quod non contingit principibus aliis, quorum principatus ad alios terminantur, ut puta regis Castelle ad illum qui regis Aragonum. Ex quo sequitur quod Monarcha sincerissimum inter mortales iustitie possit esse subiectum. 13. Preterea, quemadmodum cupiditas habitualem iustitiam quodammodo, quantumcunque pauca,

obnubilat, sic karitas seu recta dilectio illam acuit atque dilucidat. Cui ergo maxime recta dilectio inesse potest, potissimum locum in illo potest habere iustitia; huiusmodi est Monarcha: ergo, eo existente, iustitia potissima est vel esse potest. 14. Quod autem recta dilectio faciat quod dictum est, hinc haberi potest: cupiditas nanque,

perseitate hominum spreta, querit alia; karitas vero, spretis aliis omnibus, querit Deum et hominem, et per consequens bonum hominis. Cumque inter alia bona hominis potissimum sit in pace vivere - ut supra dicebatur - et hoc operetur maxime atque potissime iustitia, karitas maxime iustitiam vigorabit et potior potius. 15. Et quod Monarche maxime hominum recta dilectio inesse debeat, patet sic: omne diligibile

tanto magis diligitur quanto propinquius est diligenti; sed homines propinquius Monarche sunt quam aliis principibus: ergo ab eo maxime diliguntur vel diligi debent. Prima manifesta est, si natura passivorum et activorum consideretur; secunda per hoc apparet: quia principibus aliis

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homines non appropinquant nisi in parte, Monarche vero secundum totum. 16. Et rursus: principibus aliis appropinquant per Monarcham et non e converso; et sic per prius et

immediate Monarche inest cura de omnibus, aliis autem principibus per Monarcham, eo quod cura ipsorum a cura illa supprema descendit. 17. Preterea, quanto causa est universalior, tanto magis habet rationem cause, quia inferior non est

causa nisi per superiorem, ut patet ex hiis que De causis; et quanto causa magis est causa, tanto magis effectum diligit, cum dilectio talis assequatur causam per se. 18. Cum igitur Monarcha sit universalissima causa inter mortales ut homines bene vivant, quia

principes alii per illum, ut dictum est, consequens est quod bonum hominum ab eo maxime diligatur. 19. Quod autem Monarcha potissime se habeat ad operationem iustitie, quis dubitat nisi qui

vocem hanc non intelligit, cum, si Monarcha est, hostes habere non possit? 20. Satis igitur declarata subassumpta principalis, quia conclusio certa est: scilicet quod ad

optimam dispositionem mundi necesse est Monarchiam esse.

B. IL SOFISMA DELLA "FALLACIA ACCIDENTIS"

Monarchia (III. 11):

Gli avversari portano poi un argomento di ragione. Utilizzando infatti un principio del decimo libro della Metafisica, essi argomentano così: tutti gli esseri appartenenti ad uno stesso genere si riconducono ad uno, che è misura di tutti gli

altri inclusi in quel genere; ora tutti gli uomini appartengono allo stesso genere; quindi vanno ricondotti ad uno come misura di tutti quanti.

Se questa conclusione è vera, il Sommo Pontefice e l’Imperatore, essendo uomini, vanno ricondotti ad un solo uomo. Ma poiché non è possibile ricondurre il Papa ad altri, resta che l’Imperatore, insieme a tutti gli altri uomini, deve essere ricondotto al Papa come misura e regola; e così anche con questo ragionamento arrivano alla conclusione da essi voluta.

Per confutare tale ragionamento, ammetto come vera la loro affermazione che «tutti gli esseri appartenenti allo stesso genere debbono ricondursi ad un essere di quel genere, che, nell’ambito di questo, costituisce la misura»; come pure è vera l’affermazione che tutti gli uomini appartengono ad un medesimo genere; ed è vera altresì la conclusione ricavata da tale premessa, che cioè tutti gli uomini vanno ricondotti ad un’unica misura nell’ambito del loro genere. Ma quando da questa conclusione essi inferiscono la conseguenza applicativa nei confronti del Papa e dell’Imperatore, incorrono nella fallacia dell’accidente [40].

Per afferrare bene questo bisogna tener presente che una cosa è essere uomo e un’altra essere Papa, come d’altra parte una cosa è essere uomo e un’altra essere Imperatore, così come una cosa è essere uomo e un’altra essere padre e signore.

L’ uomo infatti è quello che è per la sua forma sostanziale, in forza della quale rientra in una specie e in un genere, ed è posto nella categoria della sostanza; il padre invece è tale per una forma accidentale che è la relazione, per la quale rientra in una specie e in un genere particolari, ed è posto nella categoria dell’«ad aliquid», cioè della «relazione». Se così non fosse, tutto si ricondurrebbe - ma ciò è falso - alla categoria della sostanza, dal momento che nessuna forma accidentale può sussistere per se stessa senza il supporto di una sostanza sussistente.

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Pertanto Papa e Imperatore essendo ciò che sono in forza di certe relazioni (quelle appunto dell’autorità papale e dell’autorità imperiale, la prima delle quali rientra nell’ambito della paternità e l’altra nell’ambito del dominio), è chiaro che Papa e Imperatore, in quanto tali, devono essere posti nella categoria della relazione e quindi essere ricondotti ad un elemento rientrante in tale categoria. Quindi affermo che altra è la misura cui debbono essere ricondotti in quanto uomini, ed altra in quanto Papa e Imperatore.

Infatti, in quanto uomini, vanno ricondotti all’uomo perfetto (che è misura di tutti gli altri e, per così dire, loro modello ideale, chiunque esso sia), come a quello che è sommamente uno nel suo genere, come si può rilevare dai capitoli finali dell’ Etica a Nicomaco. Invece, in quanto sono termini di relazione, allora, com’è evidente, o vanno ricondotti l’uno all’altro (se l’uno è subalterno all’altro o se sono accomunati nella specie per la natura della relazione), oppure ad un terzo elemento come alla loro comune unità.

Ora, non si può affermare che uno sia subalterno all’altro, poiché, in tale caso, l’uno si predicherebbe dell’altro, il che è falso (noi infatti non diciamo che l’Imperatore è Papa e nemmeno viceversa); e neppure si può affermare che siano accomunati nella specie, in quanto l’essenza formale di Papa è diversa da quella di Imperatore in quanto tale. Quindi si riconducono a qualcos’altro, in cui devono trovare la loro unità.

A questo proposito bisogna tener presente che i soggetti delle relazioni stanno tra di loro come le rispettive relazioni. Ora quelle particolari relazioni d’autorità che sono il Papato e l’Impero vanno ricondotte ad una [suprema] relazione d’autorità, da cui quelle discendono con le loro determinazioni particolari; quindi i soggetti di quelle relazioni, cioè il Papa e l’Imperatore, andranno anch’essi ricondotti a qualche soggetto unitario che realizzi la relazione d’autorità nella sua essenza formale, al di fuori di ogni determinazione particolare.

E questo soggetto unitario sarà o Dio stesso, in cui tutte le relazioni particolari trovano la loro unificazione assoluta, oppure una qualche sostanza inferiore a Dio, nella quale la relazione d’autorità, che proviene da quella relazione assoluta, si particolarizza attraverso una differenziazione nel grado d’autorità. E così diventa chiaro che Papa e Imperatore, in quanto uomini, vanno ricondotti ad un elemento comune, mentre, in quanto formalmente Papa e Imperatore, ad un elemento comune diverso. Attraverso questa distinzione si risponde all’argomento di ragione [portato dagli avversari].

MONARCHIA, III. 11:

Ratione vero sic arguunt. Summunt etenim sibi principium de decimo Prime phylosophie dicentes: omnia que sunt unius generis reducuntur ad unum, quod est mensura omnium que sub illo genere sunt; sed omnes homines sunt unius generis: ergo debent reduci ad unum, tanquam ad mensuram omnium eorum. Et cum summus Antistes et Imperator sint homines, si conclusio illa est vera, oportet quod reducantur ad unum hominem. Et cum Papa non sit reducendus ad alium, relinquitur quod Imperator cum omnibus aliis sit reducendus ad ipsum, tanquam ad mensuram et regulam: propter quod sequitur etiam idem quod volunt.

Ad hanc rationem solvendam dico quod, cum dicunt «Ea que sunt unius generis oportet reduci ad aliquod unum de illo genere, quod est metrum in ipso», verum dicunt. Et similiter verum dicunt dicentes quod omnes homines sunt unius generis; et similiter verum concludunt cum inferunt ex hiis omnes homines esse reducendos ad unum metrum in suo genere.

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Sed cum ex hac conclusione subinferunt de Papa et Imperatore, falluntur «secundum accidens». Ad cuius evidentiam sciendum quod aliud est esse hominem et aliud est esse Papam; et eodem modo aliud est esse hominem, aliud esse Imperatorem, sicut aliud est esse hominem, et aliud est esse patrem et dominum.

Homo enim est id quod est per formam substantialem, per quam sortitur spetiem et genus, et per quam reponitur sub predicamento substantie; pater vero est id quod est per formam accidentalem, que est relatio per quam sortitur spetiem quandam et genus, et reponitur sub genere «ad aliquid», sive «relationis». Aliter omnia reducerentur ad predicamentum substantie, cum nulla forma accidentalis per se subsistat absque ypostasi substantie subsistentis: quod est falsum.

Cum ergo Papa et Imperator sint id quod sunt per quasdam relationes, quia per Papatum et per Imperiatum, que relationes sunt altera sub ambitu paternitatis et altera sub ambitu dominationis, manifestum est quod Papa et Imperator, in quantum huiusmodi, habent reponi sub predicamento relationis, et per consequens reduci ad aliquod existens sub illo genere.

Unde dico quod alia est mensura ad quam habent reduci prout sunt homines, et alia prout sunt et Papa et Imperator Nam, prout sunt homines, habent reduci ad optimum hominem, qui est mensura omnium aliorum, et ydea ut dicam quisquis ille sit ad existentem maxime unum in genere suo: ut haberi potest ex ultimis ad Nicomacum. In quantum vero sunt relativa quedam, ut patet, reducenda sunt vel ad invicem, si alterum subalternatur alteri vel in spetie comunicant per naturam relationis, vel ad aliquod tertium, ad quod reducantur tanquam ad comunem unitatem.

Sed non potest dici quod alterum subalternetur alteri, quia sic alterum de altero predicaretur: quod est falsum; non enim dicimus «Imperator est Papa», nec e converso. Nec potest dici quod comunicent in spetie, cum alia sit ratio Pape, alia Imperatoris, in quantum huiusmodi: ergo reducuntur ad aliquid in quo habent uniri.

Propter quod sciendum quod, sicut se habet relatio ad relationem, sic relativum ad relativum. Si ergo Papatus et Imperiatus, cum sint relationes superpositionis, habeant reduci ad respectum superpositionis, a quo respectu cum suis differentialibus descendunt, Papa et Imperator, cum sint relativa, reduci habebunt ad aliquod unum in quo reperiatur ipse respectus superpositionis absque differentialibus aliis.

Et hoc erit vel ipse Deus, in quo respectus omnis universaliter unitur, vel aliqua substantia Deo inferior, in qua respectus superpositionis per differentiam superpositionis a simplici respectu descendens particuletur. Et sic patet quod Papa et Imperator, in quantum homines, habent reduci ad unum; in quantum vero Papa et Imperator, ad aliud: et per hoc patet ad rationem.

NOTA [40]. Il sofisma della fallacia accidentis si ha quando ciò che si dice di un soggetto si fa valere anche per il suo accidente (o viceversa), mentre non necessariamente vale per questo, in quanto sostanza e accidente non sono identici nella loro essenza formale, pur riferendosi allo stesso soggetto. Aristotele fa questo esempio: A è uomo; ora B è diverso da A; quindi B non è uomo, ove la diversità nelle proprietà accidentali individuali (es. uno è biondo, l’altro è bruno) viene erroneamente trasferita alla loro essenza specifica, che invece è identica. Dante prospetta diffusamente il caso inverso di un’identità essenziale (papa e imperatore in quanto uomini sono identici nella specie) che si vorrebbe trasferire ai loro rispettivi accidenti quali sono le funzioni di papa e imperatore, che invece sono relationes diverse e specificamente contrarie, e quindi non mediabili e non riducibili ad unum o riferibili ad una stessa sostanza, per cui chi li identifica o li assoggetta l’uno all’altro va contro la legge di non-contraddizione e cade nella fallacia accidentis. (traduzione e nota di Pio Gaja)

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3. - PERCHE’ SI VUOLE UCCIDERE KANT? Una nota sul lavoro di Maurizio Ferraris, “Goodbye Kant!”

di Federico La Sala *

Ferraris si mangia la coda, e non se ne accorge: mangia "qualcosa, anche senza sapere con esattezza che cosa"! Almeno da quanto si comprende dal riassunto, fatto dallo stesso Autore ("Buonanotte, Immanuel", Il Sole-24 ore, Domenica, 31.10.2004), delle tesi di fondo del “Goodbye Kant! Cosa resta oggi della Critica della ragion pura” di Maurizio Ferraris (di prossima uscita nei Tascabili Bompiani), credo che - a questo punto - sia più da dire “Buonanotte, Maurizio”, che “Buonanotte, Immanuel”.

A mio parere, l’eredità di Kant non mi sembra che stia nelle risposte sbagliate che ha dato ("asserendo che le leggi che la Mente dà al Mondo sono quelle della fisica, che offre la vera via di accesso a nozioni sicure quanto le operazioni matematiche, e dense, cioè piene di contenuto, come quelle che traiamo dall’esperienza"), ma nella domanda cruciale che si è e ha fatto. E la domanda fondamentale resta ancora e sempre quella: come è possibile la scienza?, come sono possibili giudizi sintetici a priori?, o, ancora e più radicalmente, come sono possibili quegli esseri che noi siamo -"fatto indubitabile" - due in uno?, come è possibile il soggetto?, come è possibile l’essere umano?

La fallacia di Kant, rimasta in piedi nell’ontologia, è rimasta in piedi solo nella testa di Ferraris - e, a quanto pare, egli è felice di ri-aggirarsi tra gli spettri e i fantasmi ... della risorta chiesa swedenborghiana del nuovo millennio!

Nella realtà, in Europa come nel mondo, ciò che oggi si aggira sempre più forte è il programma di Kant (come di Marx e dello stesso Lenin), il coraggio di sapere e l’uscita dallo stato di minorità - quello di un "altro" mondo (La pace perpetua), possibile!

O forse, mi sbaglio, Ferraris aspira a proporsi - visto che “al posto di individui maturi s’avanzan strani bambocci: adulti mostruosi e mai cresciuti che prendono la vita come un grande gioco, una parodia dei trastulli dei più piccoli” (Francesco Cataluccio) - come il teorico e il teologo dell’Immaturità di massa e ... del berluscattolicesimo aggressivo e galoppante?

Boh?! E Bah?! “Con nostalgia e rispetto, ma anche senza nasconderne le debolezze, le macchinosità, i cetrioli e le Trabant”, Goodbye Maurizio! Goodbye!

* Il Dialogo, Mercoledì, 03 novembre 2004

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4. MONOTEISMO, CRISTIANESIMO E DEMOCRAZIA

1.

Esportare la Democrazia è possibile, ma l’ostacolo è il monoteismo. Questo il titolo di presentazione del Corriere della Sera (3.4.2007), in anteprima, di una pagina della nuova edizione del saggio di Giovanni Sartori, Democrazia. Cosa è?. E questo è l’avvio del discorso:

"Al quesito se la democrazia sia esportabile, si può obiettare che la democrazia è nata un po’ dappertutto, e quindi che gli occidentali peccano di arroganza quando ne parlano come di una loro invenzione e vedono il problema in termini di esportazione. Questa tesi è stata illustrata in un recente libriccino (tale in tutti i sensi) intitolato La democrazia degli altri dell’acclamatissimo premio Nobel Amartya Sen. A dispetto di Sen e del suo terzomondismo, la democrazia - e più esattamente la liberaldemocrazia - è una creazione della cultura e della civiltà occidentale. La democrazia degli altri non c’è e non è mai esistita, salvo che per piccoli gruppi operanti faccia a faccia, che non sono per nulla equivalenti alla democrazia come Stato ’in grande’. Pertanto il quesito se la democrazia sia esportabile è un quesito corretto. Al quale si può obiettare che questa esportazione sottintende un imperialismo culturale e l’imposizione di un modello eurocentrico. Ma se è così, è così. Le cose buone io le prendo da ovunque provengano. Per esempio, io sono lietissimo di adoperare i numeri arabi. Li dovrei respingere perché sono arabi? Allora la democrazia è esportabile? Rispondo: in misura abbastanza sorprendente, sì; ma non dappertutto e non sempre. E il punto preliminare è in quale delle sue parti costitutive sia esportabile, o più esportabile". (...) “Ricapitolando, non è vero che la democrazia costituzionale, specialmente nella sua essenza di sistema di demoprotezione, non sia esportabile/importabile al di fuori del contesto della cultura occidentale. Però il suo accoglimento si può imbattere nell’ostacolo delle religioni monoteistiche. Il problema va inquadrato storicamente così".

2.

Gian Maria Vian - in una nota apparsa sull’Avvenire (4.4.2007), dal titolo Monoteismi e democrazie: che gaffe! - commenta e, contro la semplificazione di Sartori (innanzitutto, e dello stesso Corriere), sollecita a riflettere con minore superficialità e a non semplificare la complessità della questione: "Adombrando una squalificazione dei monoteismi tanto diffusa quanto storicamente debole, la tesi dimentica che la culla della democrazia è la tradizione occidentale, secolarizzata quanto si vuole ma storicamente cristiana, e cioè, fino a prova contraria, monoteista. Non si può poi dimenticare che Israele, radicato in una tradizione culturale altrettanto monoteista, è da oltre mezzo secolo un modello di democrazia nel vicino Oriente (dove democratico era fino a un trentennio fa anche il Libano, certo non politeista). Infine, come essere sicuri che i problematici rapporti tra islamismo e democrazia siano dovuti al suo monoteismo? Il punto insomma non è questo, e se tanti sono gli ostacoli della democrazia tra questi certo non vi sono le religioni monoteistiche".

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3.

Ora, se è vero - come è vero - che la democrazia si fonda sull’idea di autonomia dell’uomo (dell’uomo e della donna!) e che la premessa della modernità è l’autonomia (dell’uomo e della donna!), non è ancora e affatto altrettanto chiaro cosa significa quell’“auto” premesso a “nomìa”. E, se non vogliamo perdere quanto conquistato, non possiamo ripetere all’infinito sempre lo stesso ritornello: illuminismo, illuminismo!!! La conoscenza di sé ("auto") non è finita e non è affatto e ancora ben de-finita: "La più utile e meno progredita di tutte le conoscenze umane mi sembra quella dell’uomo" (J.J. Rousseau, Discorso sulle scienze e sulle arti, Prefazione). E, necessariamente, non possiamo non riprendere l’interrogazione e il cammino: "Chi siamo noi, in realtà?" (Nietzsche) e "Sapere aude!".

Locke e Rousseau, come Kant, hanno fatto un grande lavoro, ma - se non vogliamo smettere di pensare e porre davvero fine all’avventura umana - dobbiamo continuare a portarlo innanzi. C’è un nodo non sciolto al fondo del loro pensiero ed è proprio il nodo di "dio". Vogliamo chiarircelo o no?!

"Se la Divinità non esiste, solo il cattivo ragiona, il buono non è altro che un insensato" (Emilio). J.-J. Rousseau è il primo grande maestro del sospetto (dopo vengono Marx, Nietzsche, e Freud - e grazie a lui!): "Non concediamo nulla ai diritti della nascita e all’autorità dei padri e dei pastori, ma richiamiamo all’esame della coscienza e della ragione tutto quello che loro ci hanno insegnato fin dall’infanzia"(Emilio).

Locke polemizza con il cattolicesimo e l’ateismo quali "religioni" incompatibili con l’orizzonte democratico; Rousseau - pur polemizzando anch’egli duramente con il cristianesimo storico come una religione altrettanto incompatibile con una società democratica e tentando di pensare meglio la democrazia dei moderni - sottolinea tuttavia con forza la grande differenza tra Socrate e Gesù: "Quali pregiudizi, quale cecità (quale malafede) non bisogna avere per osar paragonare il figlio di Sofronisco col figlio di Maria! Che distanza c’è dall’uno all’altro! " (Emilio). Ma "la religione di preti" riesce ad accecarlo, e a non fargli vedere la connessione tra l’altro "mondo possibile" a cui egli stesso pensa e quello del messaggio evangelico: "Gesù Cristo, il cui regno non era di questo mondo, non ha mai pensato a dare un pollice di terra a nessuno, e non ne possedette mai lui stesso; ma il suo umile vicario, dopo essersi impadronito del territorio di Cesare, cominciò a distribuire il comando del mondo ai servitori di Dio" (Frammenti politici).

Rousseau cerca in tutti i modi di impostare bene il "trattato le cui condizioni siano eque" (Virgilio, Eneide, XI), ma perde il filo e, alla fine, si ritrova a riproporre la religione dei romani - la "religione civile", contro la "religione romana", cattolica! Senza volerlo, prepara la strada "cattolico-romana" a Fichte, a Hegel, a Marx, a Gentile e a Lenin.

Kant reimposta il problema e riparte, bene: "tutto proviene dall’esperienza, ma non tutto si risolve nell’esperienza" o, diversamente, tutto viene dalla natura ma non tutto si risolve nella natura; alla fine egli non riesce a sciogliere il nodo e resta in trappola. Al di là del mare di nebbia non può andare e - per non distruggere i risultati della sua esplorazione - si accampa lì dove è riuscito ad arrivare e decide: Io voglio che Dio esista.

Per Kant, Rousseau e Newton, come Locke, non sono stati affatto cattive guide per il suo viaggio. Il suo cammino è stato lungo, fruttuoso e coraggioso: la Legge morale dentro di me, il Cielo stellato sopra di me! E, onestamente, rilancia di nuovo la domanda antropologica, quella fondamentale: "Che cosa è l’uomo?". Teniamone conto.

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Ciò che essi cercavano di capire e quindi di sciogliere era proprio il nodo che lega il problema "religioso", il legame "sociale", il problema di "Dio", il problema della Legge, non quello o quella dei Faraoni e quella di una Terra concepita come un "campo recintato" o assoggettata alla "Moira" di Orfeo e alla Necessità.

Filosoficamente, è il problema dell’inizio ... e, con esso, dell’origine e dei fondamenti della disuguaglianza tra gli esseri umani. Il problema J.J. Rousseau, dunque: No King, no Bishop! Il problema della Legge - e della Lingua: il problema stesso del principio di ogni parola, la Langue, Essai sur l’origine des langues! Da dove il Logos e la Legge?! E, con queste domande, siamo già all’oggi, agli inizi del ’900: Ferdinand de Saussure! Ma ritorniamo al problema politico, della Legge della Polis o, come scrive Rousseau, della Cité. La questione è decisiva ed epocale: ed è al contempo questione antropologica, politica, e "teologica". In generale è la questione del rapporto Uno-Molti - una questione lasciata in eredità da Platone, e riproposta da Rousseau, nei termini del rapporto volontà generale - volontà di tutti o del cosiddetto "uno frazionario", e risolta ancor oggi nell’orizzonte moderno (cartesiano) - dopo Cristo, come dopo Dante, Rousseau e Kant - in modo greco, platonico-aristotelico. Una tragedia, e non solo quella di Nietzsche. In tutti i sensi.

Se continuiamo a truccare le carte e confondiamo l’Uno al numeratore con un "uno" degli "uno" o delle "uno" al denominatore finiremo per cadere sempre nella trappola della dittatura, e nel dominio del "grande fratello". E non riusciremo mai a distinguere tra “Dio” Amore [Charitas], e “Dio” Mammona [Caritas] - tra la “volontà generale” dell’Uno e la “volontà generale” di “uno”, camuffato da “Uno”. Liberare il cielo, pensare l’ “edipo completo” - come da progetto di Freud.

Vedere solo i molti (gli individui, meglio gli uomini e donne in carne ed ossa, le persone) che agiscono, discutono e lottano, e non vedere l’Uno, che è il Rapporto e il Fondamento di tutti e il Rapporto dell’Uno stesso con tutti i vari sotto-rapporti (economici, politici, religiosi, giuridici, pedagogici, familiari, e, persino, di amicizia) dei molti e tra i molti ... non porta da nessuna parte, se non alla guerra e alla morte. In tale orizzonte (relativistico, scettico e nichilistico), chi vuole guidare chi, che cosa può fare, che cosa può insegnare, che cosa può produrre ... se non il suo stesso "uno" - allo specchio? Un narcisismo personale e istituzionale, imperialistico e ... desertificante!

È elementare, ma è così - come scriveva l’oscuro di Efeso, Eraclito: "bisogna seguire ciò che è comune: e ciò che è comune è il Logos" - la Costituzione, prima di ogni calcolo, per ragionare bene. La Costituzione è il fondamento, il principio, e la bilancia!!! Questo è il problema: la cima dell’iceberg davanti ai nostri occhi, e il punto più profondo sotto i nostri stessi piedi!!! E se non vogliamo permanere nella "preistoria" e, anzi, vogliamo uscirne, dobbiamo stare attenti e attente e ripensare tutto da capo, dalla radice (Kant, Marx), dalle radici: gli uomini e le donne, i molti, e il Rapporto-Fondamento che li collega e li porta - al di là della natura - nella società, e li fa essere ed esseri umani - dopo il lavoro in generale, il rapporto sociale di produzione in generale è la questione all’ordine del giorno nostro, oggi.

Riprendiamo. Allora, come si passa dalla "solitudine" naturale alla "solidarietà" sociale, e cosa svela questa a quella? Vediamo. "Se dunque si esclude dal patto sociale ciò che ad esso non è essenziale, ci si accorgerà che si riduce ai seguenti termini [...] al posto della singola persona di ciascun contraente, quest’atto di associazione dà vita a un corpo morale e collettivo, composto di tenti membri quanti sono i voti dell’assemblea; da questo stesso atto tale corpo riceve la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. Questa persona pubblica, che si forma così mediante l’unione di tutte le altre, assumeva in altri tempi il nome di Cité, e prende ora quello di repubblica [...]"(Contratto Sociale).

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Cosa sta cercando di pensare Rousseau? Cerca di chiarirsi e di chiarirci il passaggio dal naturale "stato" di tanti "uno" (1.....1) al "nuovo stato" realizzato dal patto stesso - quello di UNO/molti, UNO/1+1...+1+1+1. Questo è il nuovo "soggetto" e questo il nuovo "fondamento" - la misura di tutte le cose, di quelle che esistono e di quelle che non esistono. E questo Uno non è mai un "uno", ma è il Rapporto Sociale che dà sostanza e fondamento a tutti gli "uno".

Basta con le robinsonate! Se è vero che “questa Terra è un’isola” (Kant), non è affatto e altrettanto vero che l’uomo si fa da solo (self made man)! Noi siamo sempre in relazione - dalla nascita alla morte, e in tutti gli ambiti: esseri umani, solo in società - né dio né bestia, già Aristotele.

Che cosa svela il "patto di alleanza"? Svela che "Dio esiste", che "solo Dio è sapiente"(Socrate), "solo Dio è buono" (Gesù), e che noi stessi siamo i figli e le figlie di "Dio!!! Che i soggetti che fanno Uno sono due (1+1) e, nel momento in cui fanno Uno, avviene la loro "trasmutazione" (da "padri" e "madri" in "figli" e "figlie" del loro stesso "Figlio" ... che è il loro stesso "Padre" che li ha generati) e, così, il ri-conoscimento della loro differenza e della loro identità. E come 1 e 1, che hanno superato la loro ideologica e naturalistica isolatezza e sono diventati Uno (1+1....+1), aprono gli occhi sulla "natura" e "dio" e - "faccia a faccia" - vedono "Dio" stesso! “Vere duo in carne una”: un’altra "scienza della logica" e un’altra "logica della scienza".

In democrazia, e nella democrazia non borghese, non vale più la logica dell’amico-nemico (la logica dialettica del padrone-servo), ma la logica dell’amico-amico, una logica chiasmatica e accogliente, nel rispetto reciproco della propria e della comune sovranità, concessaci dal nostro stesso rapporto, patto di alleanza - di fuoco di vita, non di distruzione e di morte infernale!

4. Italia . Non confondiamo i livelli... e cerchiamo di non perdere la bussola della nostra sana e robusta Costituzione. Pensare e pensare, ma pensiamo democraticamente e correttamente. "Forza Italia ": Non è possibile e non è accettabile! È necessario continuare a tentare, continuare a cercare (cercate ancora: come ha detto, scritto e ricordato poco tempo fa, il ‘vecchio’, indomabile, libero e fiero Pietro Ingrao in onore di Luigi e di Giaime Pintor, ma anche di Claudio Napoleoni, che amava questa indicazione immortale). Non facciamo i furbi e le furbe, e soprattutto non accechiamoci reciprocamente né accechiamo gli altri e le altre che hanno i piedi e il cuore sulla base del nostro stesso Fondamento e la vita nell’orizzonte della nostra stessa Alleanza. In giro già ci sono tanti pifferai ciechi, con strumenti sempre più sofisticati, pronti a farlo. Per questo, quale indicazione? Chi si vuole porre fuori dal patto dell’Alleanza costituzionale, è libero di farlo ma non si metta sulla strada di Epimenide il Cretese, non si venda al mentitore e non faccia apologia di Baal-lismo!

L’"io voglio che Dio esista" di Kant - non dimentichiamolo - è da coniugare con la negazione della validità della “prova ontologica” e non ha nulla a che fare con tutti gli idealismi platonici o cartesiani ed hegeliani e marxisti, e porta alla conciliazione dell’"uno" con l’altro "uno" e di "Dio" con il mondo. Ma, a questo punto, con Kant come con Dante (Gioacchino da Fiore e Marx e Nietzsche e Freud ed Enzo Paci), siamo al di là di Hegel e dell’imperialismo logico-romano - alla Fenomenologia dello Spirito ... dei Due Soli. Sulla Terra, nell’oceano cosmico (Keplero, Bruno). La "rivoluzione copernicana" è ... appena agli inizi: Plus ultra (Bacone), "Sapere aude!"(Kant) - a tutti i livelli. Ed è "una seconda rivoluzione copernicana" (Th. W. Adorno).

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Nota bibliografica, per ulteriori approfondimenti:

Federico La Sala, CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO FACHINELLI.

Federico La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani Editore, Roma 1991.

Federico La Sala, Della terra, il brillante colore. Note sul “Poema” rinascimentale di un ignoto Parmenide Carmelitano (ritrovato a Contursi Terme nel 1989) , Ripostes Edizioni, Roma-Salerno 1996.

Federico La Sala, L’enigma della sfinge e il segreto della piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria in forma di lettera aperta , Ripostes Edizioni, Roma-Salerno 2001.

Federico La Sala, RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant