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6 6 3 3 Anno XI n° 4 LUGLIO / AGOSTO 2006 L L oggetta la la oggetta di Piansano e la Tuscia Poste Italiane spa - Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 26-2-2004 n. 46) art. 1 comma 1 - DCB Centro Viterbo notiziario notiziario di Piansano e la Tuscia foto di Luciana Mariani

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Anno XI n° 4

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Non è la prima volta che la Log-getta, periodicamente solleci-tata da particolari emergenze

ambientali, posa lo sguardo sul ter-ritorio (e non potrebbe essere altri-menti, trattandosi di uno strumentodi cultura che proprio nel territoriotrova il suo humus e la sua ragiond’essere). Un’attenzione ammirata,innamorata, per le mille bellezzeche esso contiene e che, opportuna-mente rivalutate, potrebbero costi-tuire un formidabile strumento dicrescita. Ma un’attenzione anchepreoccupata, per la trascuratezza incui tali beni giacciono e anzi per leaperte aggressioni di cui spessosono vittime.*Tale interesse nasce ovviamentedalla concezione di una cultura nonastratta e narcisista, racchiusa in unsuo splendido isolamento, ma piutto-sto, come si diceva, di una cultura“con i piedi per terra”, ossia in intimaosmosi con il territorio: vicina alpunto da capirlo e amarlo, e, insie-me, distaccata quel tanto da averneuna visione più disincantata e ogget-tiva possibile. Ciò che spiega anchela nostra soddisfazione ogni voltache il mondo accademico, senza ri-nunciare a rigore e metodologiescientifiche sue proprie, individua inambito locale filoni di studio e diricerca. Sarebbe veramente gravediscettare su una etimologia o su unmonumento del nostro patrimonio

artistico, ricordare episodi e perso-naggi, documentare cronache e cro-nachette quotidiane, ricostruireanche faticosamente le tappe delnostro divenire storico... e poi chiu-dere gli occhi su ciò che avvieneintorno, rinunciare alla funzione che

invece è propria della cultura: co-scienza del proprio tempo, lettura einterpretazione del fenomenico, sen-sibilità nell’individuare linee di ten-denza e prospettare orientamenti. Daqui la nostra attenzione all’habitat,bene primario e sempre più a rischioparallelamente alle accresciute capa-cità distruttive dell’uomo. Sui risultati pratici di questo atteggia-mento non è che ci si possa fare trop-pe illusioni, perché quasi mai la cul-tura ha il potere di indirizzare nell’im-mediato le scelte decisionali: bastaun interesse materiale concreto,forte, per mandare all’aria decenni dielaborazioni concettuali e convinci-menti più che ponderati. Ma non perquesto dovrà rinunciare al suo ruolo“maieutico” di promuovere discus-sione e conoscenza; educare a un

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Antonio Mattei

* A parte i frequenti richiami disseminati un po’ dovunque, fin dal suo nascere la Loggetta è inter-venuta con articoli specifici sui vari aspetti del problema. Si ricordano in particolare L’agonia delmonte di Cellere di Massimo Sonno (nov 1996) e poi numerosi editoriali di chi scrive: Amata terramia (mag 1997), Cari vecchi casali (gen 1998), Addio, monte (gen 1999), La croce diTerrarossa... (gen 2003), “Crescere insieme”... (gen 2005)...; i diversi interventi di Paolo DeRocchi non solo sull’esperienza de “Il ‘Consorzio Castrense’ ovvero lo sviluppo mancato”, ma anchecon gli articoli-denuncia A proposito di cave (set/ott 2004), Una nuova aggressione ambientale(mar/apr 2005), Quando le cave diventano la pattumiera di rifiuti tossico-nocivi (mag/giu 2005);fino agli ultimi due interventi scientifici di Luciano Papacchini su Le cave e l’ambiente (mag/giu elug/ago 2004); alle ripetute segnalazioni di Giancarlo Guerra su parchi eolici e zone archeologichedimenticate; a Le torri del potere di Stefano Bordo sull’inquinamento elettromagnetico (mar/apr2004); a quello recentissimo di Luca Gufi su Energia, carbone, e sviluppo culturale del territorio(gen/feb 2006). Non mancano interventi sparsi di Antonella Cesàri, Mario Salini, Elìa Mazzapicchio,Renzo Falesiedi, Sabrina Di Francesco, Nazareno Melaragni, Ennio De Santis..., che nell’insiemetestimoniano sia della centralità del tema nella storia d’oggi, sia dell’attenzione che ogni rivista chevoglia definirsi culturale non può non riservargli.

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Piansanosentieri naturalistici

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atteggiamento critico favorendo unalibera presa di coscienza; dare il suoapporto, in definitiva, alla costruzio-ne dell’uomo e del cittadino.Sul problema ambientale, per torna-re al tema, ci sembra di aver sempreespresso un atteggiamento abba-stanza chiaro, ma che forse non èmale riassumere a grandi linee. Laprovincia di Viterbo in generale, e ilnostro comprensorio come suo sot-toinsieme - abbiamo scritto altrevolte - non hanno mai conosciutouno sviluppo industriale se non peri suoi effetti collaterali negativi:deprezzamento dell’agricoltura conspopolamento delle campagne, emi-grazione ed invecchiamento dellapopolazione, emarginazione geogra-fica ed economica, ecc. ecc. Oggiche anche il modello industriale èentrato in crisi, e insieme con l’aper-tura e l’interconnessione planetariadei mercati nuove strategie di svi-luppo si impongono con urgenza,localmente ci troviamo a gestire unterritorio che è sì arretrato econo-micamente, ma che appunto non sipresenta manomesso più di tantodagli insediamenti industriali e cheanzi custodisce tesori di portataincalcolabile, se opportunamentevalorizzati. Tali sono in primo luogoclima e paesaggio, ossia un patrimo-nio ambientale per certi aspetti invi-diabile; tali possono essere certiprodotti tipici dell’artigianato e del-l’agricoltura, molti dei quali fregiatidi certificazioni di qualità; e talisono gli abbondantissimi beni cultu-rali sparsi ovunque, dalle vestigiadella civiltà etrusca ai gioielli archi-tettonici di età medievale e rinasci-mentale. Investire con intelligenza su talepatrimonio significa appunto inne-scare un processo di crescita basan-doci sulle nostre stesse risorse: ilcosiddetto sviluppo sostenibile,ossia un rilancio economico del-l’area che tenga conto delle suepeculiarità e non ne stravolga il tes-suto socio-culturale. Il che presup-pone anzitutto che se ne prendacoscienza e ci si creda davvero. Si-gnifica pensare ad un turismo cultu-rale che veda in noi stessi i primi“turisti”, riscopritori e amanti orgo-

gliosi della nostra identità, in gradodi apprezzarla e farla apprezzare. Si-gnifica formare tra le nostre popola-zioni dei giovani in grado cultural-mente e tecnicamente di gestire ilnuovo che avanza, e di predisporre,per quanto è possibile, strutture disupporto all’indotto che immanca-bilmente ne deriverà. Significa, final-mente, vigilare passo passo su taleprocesso di crescita perché si man-tenga fin da subito su livelli di quali-tà e non degeneri nel solito ciarpa-me consumistico. Può sembrare un’utopia - abbiamoanche aggiunto - ma le risorse cisono davvero, e se con intelligenza ecoraggio riusciremo a mettere manoalla loro valorizzazione, potremosperare in un’autentica ‘rivoluzio-ne’, quale la nostra terra non ha piùconosciuto dai tempi della riformaagraria di oltre mezzo secolo fa. Nonci servono tronconi autostradaliche magari tagliano in due sitiarcheologici; non abbiamo bisognodi megaapparati industriali cheinquinano e deturpano irreversibil-mente uno scampolo di terra permolti aspetti incontaminato; nonpossiamo trasformare disinvolta-mente in discariche luoghi ovunquecelebrati per la loro bellezza paesag-gistica; dobbiamo stare attentianche a quella moderna forma diattentato che è l’inquinamento elet-tromagnetico, così come dobbiamovigilare più che oculatamente sugli

impianti di sfruttamento delle risor-se del suolo e del sottosuolo. Cel’abbiamo in casa, la nostra ricchez-za; dobbiamo solo accorgercene eimparare a sfruttarla. Detto ciò, è evidente che nel tema ingenerale entrano in gioco molteplicie complessi fattori: abitudini emodelli comportamentali generaliz-zati, indotti attraverso i mass mediada moderni mercanti sempre piùpotenti e spregiudicati; fabbisognienergetici e di risorse collettivi, cheinfocano anche l’attuale dibattitopolitico; una filosofia rampante del-l’appropriazione piuttosto che dellafruizione (altra faccia della dicotomiaavere/essere), che nell’insieme indu-cono ad atteggiamenti farisaici: tuttivogliamo un telefono cellulare che“prende”, un campetto o un vialettocon il fondo in lapillo, aria nonammorbata da immondezzai maleo-doranti, materiali da costruzioneesotici che da qualche parte dovran-no pur essere prelevati..., ossia, inbuona sostanza, scaricare su altri glieffetti indesiderati di una modernitàche reclama un suo prezzo.Ne derivano problemi aperti e benvivi per molti dei nostri comunelli,presi spesso tra l’incudine degliallettamenti di potenti trust finanzia-ri - specie in tempi di riduzione digettiti fiscali e trasferimenti erarialidallo Stato - e il martello appuntodelle contraddizioni etico-filosofi-che del nostro tempo, dilaniato dal

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Piansano, quercia secolare del monte di Cellere

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consumismo più sfrenato o irretitonella chiusura pregiudiziale a qual-siasi forma di sfruttamento raziona-le delle risorse. Può sembrare esage-rato, ma a ben guardare è in gioco ildelicatissimo esercizio della demo-crazia, ossia della capacità di auto-correggersi, di autodeterminarsiresponsabilmente, dopodiché nellesocietà c’è sempre da temere esizia-li soluzioni drastiche imposte d’au-torità. Può aiutare, appunto, unavisione complessiva, dei problemi:integrata, solidale, che riunisca ideeed energie, e senza ‘fughe in avanti’che in ultima analisi si risolvono indanno per le popolazioni.Questo abbiamo sempre sostenuto econtinuiamo a sostenere, consape-

voli della complessità del problemama al tempo stesso preoccupati pro-prio da questa necessità di ripeterci.Nello specifico del nostro territorio,infatti, è semplicemente assurdoche, una volta individuate delle pro-spettive di sviluppo e fissati degliobiettivi condivisi, si intervengalocalmente in senso diametralmenteopposto con atti di “pirateria selvag-gia” da parte di privati e/o con lacomplicità di enti e istituzioni. Neabbiamo avuto degli esempi a iosa enon staremo a ripeterci. Guardate iproclami collegiali dei nove comunidel Progetto Crescere Insieme: enun-ciazioni di principio, più che buoni,ottimi. Poi magari si viene a saperedell’operato non propriamente in

sintonia, diciamo così, di uno o piùcomuni aderenti. Preoccupa il falli-mento di alcune meritevoli iniziative“di squadra” (il Consorzio Castrense,per esempio), così come l’impasse dienti e associazioni nelle funzioni diindirizzo e coordinamento. Vi siavverte riflesso (si parva licet com-ponere magnis) il fiato grosso dellacomunità internazionale nelle gra-vissime questioni di portata mondia-le: contrasti di rappresentatività esovrapposizioni di competenze nellastessa condotta operativa. E’ uncompito, nel grande come nel picco-lo, di natura essenzialmente politica,ma come già detto esso chiama incausa tutte le componenti dellasocietà civile. E chiunque ami lanostra terra e ne conosca il faticosoprocesso di riscatto, sa che oggi nonpossiamo permetterci di intervenir-vi con leggerezza, pena la perditairreversibile di un patrimonio chenon ha prezzo e la condanna dellegenerazioni avvenire ad un futurogià bruciato.

Ecco il senso degli interventi cheseguono. Vari e disuguali come sem-pre, pur nella loro monotematicitàripetitiva, ma con un unico verodenominatore comune: “la propriaterra nel cuore”, sola unità di misu-ra valida nelle contraddizioni am-bientaliste del nostro tempo.

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Piansano, la Rocchetta, resti di maniero medievale in aperta campagna

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Della tesi di laurea diLuciana Mariani ab-biamo già parlato nelnumero di gennaio/febbraio del nostrogiornale. “Le risorseambientali del Montedi Cellere: un patrimo-nio a rischio”, questoè il suo titolo, ed èstata discussa a di-cembre scorso con larelatrice Patrizia Sibi alla facoltà di Scienze matematiche fisiche e naturali dell’università della Tuscia di Viterbo,a coronamento del corso di laurea di primo livello in Educatore e divulgatore ambientale. Un lavoro coraggioso,abbiamo detto, sia per la scelta del proprio habitat come oggetto di studio, sia per l’estrema difficoltà nel reperi-re fonti e documenti, trattandosi di un “tema” inesplorato e negletto. La Loggetta è lieta di aver offerto, per quan-to ha potuto, il suo contributo alla ricerca, ma ancor più per il risultato raggiunto, che a tutt’oggi costituisce l’uni-co esempio di studio universitario condotto da un nostro studente sul territorio piansanese (ma va considerataanche la tesi di laurea dell’architetto Luigi Martinelli, sulla quale magari si potrà tornare). Un lavoro, quello diLuciana sull’area in questione, articolato in quattro capitoli: aspetti naturalistici (geomorfologia, flora e fauna);aspetti antropici (storici ed antropologici); normativa delle attività estrattive e, infine, strumenti di informazionee di sensibilizzazione alla partecipazione pubblica. Ne è risultato un tomo di circa 170 pagine che merita di esse-re fatto conoscere, perché... “a fronte di un problema d’impatto ambientale come quello rappresentato dalle attivitàdi scavo sul Monte di Cellere - scrive la nostra autrice - la necessità primaria è quella di informare la comunità loca-le della natura e della consistenza del patrimonio naturalistico e culturale costituito dall’area in oggetto. [...] Conoscerepermette di apprezzare, di sentire il luogo più familiare ma anche di comprendere meglio i rischi... a cui è espostaquesta porzione di territorio”.Ecco dunque, per ora, la breve introduzione della ricerca, che naturalmente è solo enunciazione del problema edel programma di lavoro. Ma ad essa faranno seguito nei prossimi numeri alcuni argomenti specifici estrapolatiqua e là. Al di là del suo valore intrinseco, il lavoro nel suo insieme costituisce un segno importante di partecipa-zione che ci auguriamo possa essere di esempio e stimolo.

Introduzione

L’attenzione per un sito apparentemente di scarso inte-resse nasce in primo luogo dall’attaccamento personalea questi luoghi, che attualmente sono oggetto di unapesante “aggressione” da parte di iniziative imprendito-riali ad alto impatto ambientale. La località in esame è ilcosiddetto Monte di Cellere, sito nel comune di Cellere inprovincia di Viterbo, a ridosso del centro abitato diPiansano (territorio situato alla latitudine 42° 32’ N e lon-gitudine 11° 48’ E, rilevabile nel Foglio 136, I quadrante,S-O Valentano, scala 1:25000). In quest’area da quasiquindici anni sono attive cave di estrazione del lapillolocale che stanno gradualmente modificando la confor-mazione del monte a ridosso dei centri abitati. E’ unesempio tipico di problema ambientale che, nell’otticadella più autorevole teoria dell’educazione all’ambiente,può costituire l’occasione per avviare un processo dipartecipazione attiva della comunità. Di fatto, attualmen-

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te costituisce solo un’occasione ricorrente di lamentele,denunce e conflitti tra alcuni rappresentanti delle partiinteressate. Quello che attualmente ci sembra l’aspetto più critico èla mancanza di consapevolezza dell’effettiva natura delfenomeno da parte delle comunità che vivono nel com-prensorio, accanto ad una generale scarsa conoscenzadelle caratteristiche ambientali, storiche, antropologi-che che identificano la località. Il nostro intento è dun-que quello di tracciare un profilo il più possibile comple-to delle “risorse” naturalistiche e culturali di questoluogo, della storia umana che gli appartiene e degli usiche l’uomo ha fatto, e tuttora fa, di tali risorse.L’obiettivo è quello di valorizzare il Monte di Cellere intermini di conoscenza e di divulgazione, visto che conl’intervento umano si sono prodotti impatti e trasforma-zioni preoccupanti sul territorio che, come ogni risorsanaturale, rivendica il diritto di essere tutelato e valoriz-zato. Si pensi alla flora e soprattutto alla fauna dell’area,

Piansano Un patrimonio a rischiodi LucianaMariani

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che hanno cominciato ad avere problemi dal momentoin cui sono state avviate le attività estrattive di lapillo,attività che hanno modificato e danneggiato l’habitat ealterato l’ecosistema locale. Si cercherà di evidenziare ed analizzare i diversi aspettiche costituiscono la realtà, odierna e passata, dell’ecosi-stema ambientale, ma anche i fattori contestuali e stori-ci che determinano l’identità delle comunità locali.Pertanto il materiale raccolto è costituito principalmen-te da studi scientifici settoriali, documenti d’archivio,documenti fotografici e testimonianze dirette di pastorie agricoltori che hanno un forte legame con il luogo.Queste interviste sono “dichiarazioni sentite”, che ripor-tano chi ascolta o chi legge ad un tempo lontano, in cuila vita era molto diversa, segnata soprattutto dal lavoro,dallo sforzo ma anche dal sentimento e dal senso d’ap-partenenza al luogo di lavoro. Il senso d’identità e d’iden-

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tificazione con il territorio dovrebbero essere riscopertiall’interno del vissuto quotidiano dei singoli e dellecomunità, poiché basilari per sviluppare atteggiamentidi rispetto, di apprezzamento e di “cura” di quello stes-so territorio.Questa parte dello studio fornirà il materiale “documen-tario” sul quale andremo ad ipotizzare la costruzione dialcuni strumenti informativi e divulgativi specifici e lapromozione di una serie di azioni finalizzate al coinvolgi-mento delle comunità locali sulle questioni ambientali.La prospettiva è quella di promuovere un’occasione diconfronto, di partecipazione, di condivisione e dunquedi responsabilità delle comunità, nell’ottica di un realesviluppo sostenibile come indicato in Agenda XXI, docu-mento d’intenti ed obiettivi programmatici su ambiente,economia e società. In particolare il capitolo 28 del docu-mento Agenda XXI (Iniziative delle amministrazioni loca-li di supporto all’Agenda XXI) riconosce un ruolo decisi-vo alle comunità locali nell’attuare le politiche di svilup-po sostenibile, poiché ogni realtà è differente dalle altreper cultura, risorse e problematiche, e quindi quellalocale diventa la dimensione politica migliore per attiva-re una strategia ambientale, che tenga conto della pro-pria storia, delle proprie effettive caratteristiche, utiliz-zando gli strumenti che ritiene più idonei a risolvere iproblemi del proprio territorio. “Dal momento che moltidei problemi e delle strategie delineate in Agenda XXIhanno origine dalle attività locali, la partecipazione e lacooperazione delle autorità locali sarà un fattore determi-nante nel perseguimento degli obiettivi di Agenda XXI”.“Ogni amministrazione locale dovrebbe dialogare con icittadini, le organizzazioni locali e le imprese private eadottare una propria Agenda XXI locale. Attraverso la con-sultazione e la costruzione del consenso, le amministra-zioni locali dovrebbero apprendere e acquisire dallacomunità locale e dal settore industriale le informazioninecessarie per formulare le migliori strategie”.Al fine di raccogliere, e dunque diffondere, tutti gli stru-menti informativi necessari alle comunità locali per met-tere a fuoco le reali dimensioni del problema in esame, ilnostro studio è stato dedicato anche alla raccolta ditutte le fonti normative locali e nazionali relative alle atti-vità delle cave. Le informazioni raccolte saranno poioggetto di un’ulteriore proposta divulgativa che consen-ta un facile accesso da parte delle comunità locali ai sud-detti dati. (continua)(Foto dell’autore)

Piansano, località Marinello(alle falde del monte di Cellere),antico abbeveratoio

Piansano, monte di Cellere,la montagna sventrata

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Del problema dellasalvaguardia e valo-rizzazione del terri-

torio dell’Alto Lazio ilnostro giornale si è ripetu-tamente occupato, rappre-sentando, e talvolta de-nunciando, interventi didegrado del territorio le-

gati, quasi sempre, ad inte-ressi economici di singolie poco scrupolosi impren-ditori, le cui malcelatefinalità consistono nel per-seguimento del profitto atutti i costi. Mentre taleobiettivo risulta parzial-mente comprensibile - an-che se di difficile giustifica-zione, quando legato adattività economiche priva-tistiche - non si riesce acomprendere la scarsaconsapevolezza e le colpe-voli carenze sui controlliche la legge attribuiscealle locali amministrazio-ni, cui è delegata, appunto,la funzione autorizzativa

dell’intrapresa, nonché laverifica della rispondenzanormativa dell’attività o-perativa. Possiamo senzadubbio sostenere che lelocali amministrazioniquasi mai hanno cono-scenza delle prerogative edei poteri loro delegati

dalla vigente normativa,oppure volutamente disat-tendono le verifiche ed icontrolli loro demandati.Ci riferiamo in particolarealle attività di cava, non-ché ad iniziative ad altoimpatto ambientale qualiquelle degli allevamentiavicoli intensivi. Circa le attività estrattiverichiamiamo le ammini-strazioni comunali allarigorosa applicazione del-la legge regionale 27/93,che pone in carico allestesse il rilascio delle auto-rizzazioni all’esercizio del-le cave sulla base di rigo-rosi progetti di coltivazio-

ne, oltre alle attività di vigi-lanza e controllo della faseoperativa, nonché l’inter-vento di recupero ambien-tale a fine esercizio. L’am-ministrazione regionale,dal canto suo, deve prov-vedere ai piani di sicurez-za, all’esame tecnico-am-ministrativo ed al coordi-namento e controllo del-l’attività così come stabili-sce la legge 128/59.Ciò premesso, vogliamosegnalare in questo nume-ro al nostro lettore quantosta avvenendo nelle attivi-tà produttive allocatepresso il monte di Cellereche, per loro natura, stan-no procurando la sollecitadistruzione dell’ecosiste-ma di quel territorio. Sulversante est di detto mon-te opera dagli anni ‘90 unasocietà estrattiva, denomi-nata Cellerite srl, che colti-va una concessione di pre-giato materiale inerte (la-pillo) che trova prevalen-temente impiego nei pre-

compressi in cemento ar-mato per la sua importan-te caratteristica di legge-rezza. Trattasi di struttureprefabbricate (travi, pila-stri, pannelli, ecc.) impie-gati quasi sempre nellecostruzioni industriali enelle opere infrastruttura-li. Alri impieghi di pregiodel materiale estratto ri-guardano attività vitivini-cole per produzioni di uvedi alta qualità, e la costru-zione ed il livellamento deicampi da tennis in terrabattuta. E’, questa, un’atti-vità ad alto valore aggiun-to sia per la qualità del-l’inerte prodotto, sia per-ché cave del genere sonostate quasi tutte dimesseper i gravi impatti ambien-tali che hanno prodotto.La cava, che si affaccia sulpaese di Piansano, offreuno spettacolo poco edifi-cante di una enorme feritaprodotta dalle macchineoperative, che hanno giàlasciato un consistente

PaoloDe Rocchi

Cellere La rinuncia alla tuteladel patrimonio ambientale

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vuoto a causa del materia-le estratto ed esitato almercato (vedi foto 1 e 2).Sul versante nord di dettomonte opera un impiantoavicolo di tipo medio gran-de (tre tunnel), di proprie-tà del signor RiccardoLucani, anch’esso in ope-ratività dagli anni ‘90, cheprovvede alla crescita adimensioni commerciali dipollame da avviare allagrande distribuzione (foto3). Il problema rappresen-tato da detta iniziativa èquello di una rilevanteproduzione di letame do-vuto alle eiezioni degli ani-mali, presenti in 10-15.000unità, il cui smaltimentonon sempre avviene con-formemente alla legge: o infossa biologica a ridossodell’impianto e vicinissimaalla zona di espansioneresidenziale del comune diPiansano, o sparso sul ter-ritorio del comune di Cel-lere in prossimità dell’abi-tato, oppure esitato inaltro modo non noto allecomunità locali. Per quan-to è a nostra conoscenza,non risulta che lo smalti-mento avviene nel rispettodelle attuali normative,che peraltro prevedonocostosi processi di inertiz-zazione del rifiuto classifi-cato tossico nocivo. Que-sto allevamento è statopiù volte contestato dallapopolazione di Piansano alcui abitato, posto a ridos-

so di venti prevalenti, per-vengono continui disgu-stosi miasmi che costrin-gono la gente a tapparsi incasa soprattutto durantela canicola estiva.Ad ovest del medesimomonte insiste invece unaseconda cava di cui cisiamo occupati già nel n°52 de la Loggetta del set-tembre 2004, evidenzian-do una serie di problemati-che alle quali l’ammini-strazione comunale di Cel-lere avrebbe dovuto a-dempiere ma di cui non ha

mai fornito spiegazioni ochiarimento alcuno. Trat-tasi di una seconda attivitàestrattiva per la produzio-ne del medesimo lapillo,gestita dalla PozzolanaMontenero sas e posta dischiena all’altra cava dellaCellerite srl (foto 4 e 5).Anche in questo caso èstato prodotto una enor-me vuoto che stravolge ilregolare ed originario pro-filo del monte, che tra nonmolto scomparirà definiti-vamente per effetto dellacongiunzione dei due fron-

ti di cava, che ora si trova-no di schiena l’uno rispet-to all’altro. Non vogliamoqui discutere di probleminormativi, né intraprende-re percorsi giuridici poi-ché lasciamo ad altri af-frontare questo tipo di ar-gomenti. Ci poniamo peròuna domanda: perché unalocale amministrazioneconcede licenze per attivi-tà a forte impatto ambien-tale che stravolgono l’eco-sistema deturpando l’as-setto paesaggistico, quan-do non si evidenzia nem-meno il benché minimobeneficio per l’economialocale? Perché non si ha ildovuto rispetto per unpatrimonio ambientale ri-cevuto in gestione e chedovrebbe essere restituitoalle successive generazio-ni alle stesse condizionialle quali è stato conse-gnato? E’ compatibile l’e-sercizio delle funzioni dicontrollo delegate all’am-ministrazione dalla vigen-te normativa quando, con-testualmente, le stesse im-prese estrattive rappre-sentano i principali spon-sor finanziari dei moltepli-ci e ricorrenti festeggia-menti organizzati dall’entelocale? Ricordo ancoracon quale leggerezza l’uffi-cio tecnico comunale diCellere, in una seduta “fan-tasma” della commissioneedilizia del luglio 2003,autorizzò con regolareconcessione la realizzazio-ne di un impianto di pro-duzione di galline ovaiole(10-15.000 capi) a meno di150 metri dalla zona dinuova espansione abitati-va. Mentre si riuscì, nonsenza traumi all’interno

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del consiglio comunale, arevocare il provvedimentoautorizzativo della “infau-sta” iniziativa, le attivitàallocate presso il monte diCellere proseguivano indi-sturbate a distruggere ilpaesaggio nel generale di-sinteresse.Purtroppo le diverse am-ministrazioni comunaliche si sono succedute algoverno del paese nelle ul-time tre legislature hannomantenuto una medesimacondotta nei riguardi dellagestione del proprio terri-torio, per il quale, comeanzidetto, la legge stabili-sce inderogabili respon-sabilità e precisi vincoli atutela della salute dei citta-dini ed a difesa e valorizza-zione dell’ambiente.L’obiettivo del nostro gior-nale - espressione territo-riale di una cultura chenon può rinchiudersi inuna sua turris eburnea - èanche quello di proseguireun’opera di sensibilizza-zione volta alla salvaguar-dia di un patrimonio am-bientale per la maggiorparte ancora integro, ecome tale indispensabilead uno sviluppo sostenibi-le, e base essenziale di unsano sistema economicoproduttivo. Seguiranno, inquesta nostra iniziativa,altri interventi qualificatidi soggetti preposti ad unapolitica di salvaguardiaterritoriale (comuni del-l’Alto Lazio e provincia), disettore (WWF, Legambien-te, ecc.) di esperti ambien-tali e di esperti legislativi,allo scopo di promuoveree consolidare una maggio-re sensibilità alla difesadel proprio ecosistema.

Gradolesi di lungo corso affermano di averlo visto lì da sempre; altri, più vici-ni alla realtà, dicono che fa brutta mostra di sé dai tempi della Orsomandoe di Lascia o raddoppia, quando pochi possedevano un televisore e la sera

ci si ritrovava nelle loro case a fare il tifo per il sempre sudato Lando Degoli o perla procace Garoppo. Si tratta di quel lungo antiestetico traliccio che ospita ripeti-tori tv che servono i teleutenti di Bolsena e una piccola parte del nostro paese.Nel territorio di Gradoli non abbiamo al momento, anche se appaiono preoccupan-ti avvisaglie per il futuro, emergenze ambientali come quelle che si possono rileva-re in altri luoghi della Tuscia. Per ora esiste solo questa bruttura che deturpa daormai troppo tempo il nostro importante centro storico. Varie amministrazioni si sono cimentate nell’impresa di indurre la Rai a toglierlodal limite estremo della rupe che ospita il sangallesco palazzo Farnese e l’anticachiesa collegiata, insieme ad altri importanti e vetusti edifici, ed a piazzarlo in altroluogo. Funzionari di Viale Mazzini si sono incontrati più volte con sindaci ed assessori,sembrava cosa fatta, che fosse solo questione di tempo. È stato reperito più di unsito adatto fuori del paese dove l’antenna, non offendendo più il senso estetico deicittadini, potesse mantenere lo scopo per cui era nata e continuasse a fornire aglistessi fedeli consumatori le video-delizie. Poi qualcosa non ha funzionato, qualche ostacolo burocratico di troppo, qualcheprotesta e tutto è servito alla Rai, poco propensa allo spostamento, per lasciarecadere la cosa. I gradolesi, non tutti, forse ormai ci hanno fatto l’abitudine a vedere quel pilone infondo alla Pergola, ma lo stesso non vale per i turisti, che salendo dal lago e indi-rizzando lo sguardo verso il paese, si ritrovano in primo piano questo pessimobiglietto di presentazione.Dobbiamo riuscire a liberarcene al più presto, prima che qualche buontemponeavanzi la proposta di sostituire, nell’emblema comunale, il leone e la vite con il soli-do traliccio.

Gradoli Luciano Piccinetti

Spostiamo

il ripetitore

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... Dove oggi c’è il deposito del Co.tra.l. e tutto il vuotofino alla strada che va alle case su per il monte, era unmonte interamente ricoperto da una macchia di casta-gni. Partendo da Valentano per andare al cimitero, sulladestra era una “greppata” di lapillo continuata.D’inverno, tra il gelo e la brina, verso il bivio era moltodifficile camminare; dal greppo scendevano candelottidi ghiaccio lunghi più di un metro...Nei primi anni dopo il 1950 la ditta Pinottini di Torinoaprì una cava portando verso Livorno questo lapillo. Cifacevano i blocchetti di cemento. Nel frattempo si erastabilito a Valentano un imprenditore taglialegna, certoAldo Pàida, e siccome questi conosceva uno di Firenzeche aveva un autotreno - certo Palazzi, che a sua voltaera il cognato di Neri, direttore del cementificio di

Incisa Valdarno - ne parlò con il valentanese PietroBonini, che a quel tempo lavorara anche lui col legna-me, e insieme decisero di mandare un autotreno dilapillo al cementificio di Incisa Valdarno. Quel materia-le risultò buonissimo. Allora presero un pezzo di montedi circa settemila metri pagandolo cinquecentomilalire,ed ebbe inizio lo scavo davanti alle case della stradina(bivio). Così incominciò lo svuotamento del monte condue operai: per il Pàida un suo operaio boschivo,Ferruccio Bassi, e per Bonini il nipote Riziero Biagini.Questo avvenne nei primi mesi del 1954. Poi vennero icementifici del Corsalone, poi quelli del Trasimeno edaltri ancora.Il mese di giugno entrai a lavorarvi anch’io. Cosa face-vamo? Prima di tutto dovevamo togliere la terra. Lacaricavamo sul camioncino del Catilli di Valentano chela portava alla Ripa. Poi, picconando, scavavamo illapillo, che poi caricavamo sugli autotreni con la pala.Quando ci fummo allontanati dalla strada, incomin-ciammo a fare degli scivoli ad imbuto con in fondo delletavole che formavano una tramoggia: mettendo sottol’autotreno, questo veniva caricato dall’alto. Un giorno Bonini rischiò la vita. Stavamo caricando unautotreno ed io stavo a regolare il flusso di lapillo chedoveva scendere. Un altro operaio sopra il romorchiolo spostava con la pala per riempire dappertutto. AlloraBonini venne su da me e mi disse: “Vai a dare una manoa quello sopra il rimorchio, ché io sto qui alla tramoggia”.Dopo poco che lui stava lì, si staccò una frana di diver-si metri cubi di lapillo cadendo sopra al rimorchio:quelli che eravamo sopra ci scaraventò in fondo, eBonini lo sotterrò. Allora Pàida e tutti gli operai ci met-temmo a scavare quel lapillo smosso per cercare. Ad untratto io trovai una mano e gridai “E’ quiii!”. Tutti accor-sero e lo tirammo fuori. Era già diventato paonazzo.Appena rinvenuto, in stato d’incoscienza picchiavatutti quelli che eravamo intorno...Dopo un po’ fecero un montacarichi con i bicchieri percaricare gli autotreni. Quindi venne fatta una tagliatache fu poi coperta con travi di ferro e tavole creando ungrande imbuto, e sotto c’era una tramoggia di ferrodove passavano gli autotreni per il carico. Per riempirequesto imbuto noi picconavamo il lapillo, che scendevadentro. Notate bene: noi eravamo legati con grossecorde, allacciati a dei picchetti di ferro su sopra!Quando stava per finire quel pezzo di monte che aveva-no comprato, il Pàida si ritirò lasciando l’attività aBonini. Questi comprò altri appezzamenti intorno almonte, poi si motorizzò con la ruspa... Dopo gli anni‘60, con il boom economico, i cementifici lavoravanotanto e il monte fu sventrato da più parti. ... Il resto sivede.

Valentano FinimondoMassieri

“Mi ricordo...”

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S’è appreso recentemente chel’amministrazione comunaledi San Gimignano, il centro

toscano noto per il suo borgo e lesue torri, ha in animo di limitare ilflusso turistico - specie quello di finesettimana - imponendo una sorta ditassa d’ingresso. L’iniziativa, nondettata di certo da mancanza disenso dell’ospitalità o, peggio, d’osti-lità verso il turismo, ci consente d’in-trodurre il problema dell’ambientein cui viviamo, fortemente condizio-nato dall’uomo, dalle sue conquistescientifiche, dalla sua sete di pro-gresso, ecc.Ogni angolino del nostro mondo, laterra, l’aria, l’acqua è “ambiente” dadifendere con le unghie e con i denti,per evitare che degradi oltre uncerto limite innescando un processodalle conseguenze inimmaginabili.Di certo, se non esiste una formulamagica che ci consenta di scongiura-re tale pericolo, esiste pur sempre lapossibilità di frenare la corsa aldegrado chiedendoci se ogni nostrainiziativa, progetto, intrapresa, sia omeno “ecocompatibile”, rispettosacioè della parte di creato che ci ospi-

ta e delle sue irrinunciabili esigenzee regole. Guardiamoci ora intornorestringendo l’analisi al nostroambiente, ambiente ricchissimo, perrenderci conto come esso sia gior-nalmente esposto ad ogni sorta d’ag-gressioni - dalle piccole alle grandi -che ne mettono a repentaglio equili-bri ed integrità.Se un tempo le nostre campagne,coltivate estensivamente, non rap-presentavano alcun pericolo, oggi lacorsa ad incrementi produttivi sem-pre più spinti privilegiano coltureintensive in cui l’uso di concimi chi-mici, diserbanti, pesticidi e quant’al-tro è pratica normale. Ma non basta.Anche l’aria rappresenta un perico-lo, e ne sanno qualcosa i coltivatori

che, in con-seguenzadei fumidelle cen-trali elettri-che, hannoa che farecon le piog-ge acideche inqui-nano vastezone, ed iveleni chepiovono inm a n i e r as u b d o l a

dall’alto non degradano soltanto iboschi e le colture ma li respiriamoanche. Ad essi si aggiungono i pro-dotti di combustione delle migliaiadi motori - auto, moto, motori mari-ni, non dimenticando gli aerei che cipassano continuamente sulla testa -che aggiungono guasto a guasto.Ma il degrado non è soltanto questo:esiste anche un degrado culturale, ece ne rendiamo conto quando con-frontiamo i centri storici dei nostripaesi con i nuovi agglomerati urba-ni: all’antico color oro dei tufi o algrigio delle pietre laviche fannoriscontro colori sgargianti - arancio-ni, gialli e via dicendo - che fanno apugni con le vecchie architetture. Inmancanza di rigorosi piani comunaliognuno si sbizzarrisce come può.Talvolta anche gli stessi centri stori-ci sono vittima di tale anti-cultura:su facciate rinascimentali si possonovedere vetrate “all’inglese”, se nonaddirittura tapparelle all’americanache fanno tanto “moderno”. A voltesono le stesse amministrazioni pub-bliche a far piovere, come suol dirsi,sul bagnato, ed allora si vedonolastricati viari che poco hanno a chefare con gli originali, se non addirit-tura monumenti che contrastanocon quanto li circonda.Ed ora il lago, lo splendido, grandeambiente su cui non si specchiano

Capodimonte

Piero Carosi SSSSvvvviiiilllluuuuppppppppoooo

eeeeccccooooccccoooommmmppppaaaattttiiiibbbbiiiilllleeee::::

uuuunnnn llll iiiimmmmiiiitttteeee ddddiiii ccccuuuuiiii ssssiiii ddddoooovvvvrrrràààà

sssseeeemmmmpppprrrreeee ppppiiiiùùùù tttteeeennnneeeerrrr ccccoooonnnnttttoooo

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soltanto colli e paesi ma, a guardarbene, anche tutti i nostri peccati“ambientali”: è lui, in ultima analisi, araccogliere i prodotti del degradocausati da un sempre crescente“carico umano” con i suoi consumid’acqua, reflui urbani, percolati edilavamenti vari, percolati e dilava-menti da discariche, aumento d’af-fluenze turistiche, scarico di motori,ecc.Se il decreto legge n° 152 del 1999classifica vulnerabili i laghi il cuitempo di ricambio superi i 25 anni(ossia il numero d’anni che impiegal’emissario per far defluire un volu-me d’acqua pari a quella del lago),s’immagini il grado di vulnerabilitàdel nostro che ne conta ben 300! Ciòsignifica che tutto ciò che è entratoed entra nel lago va a cadere sulfondo e qui giace, in forma mineraliz-zata, quale ossido non solubile; sipuò dire che è il fondale, l’emissariodel lago di Bolsena, e non il fiumeMarta, ridotto ormai quasi ad unrigagnolo.Dell’attualità del problema ecologiconon è più da dubitare, se la stessaChiesa ha inteso lanciare un allarmea difesa del mondo minacciato daldegrado ambientale: dice la Bibbiache “l’uomo non è padrone assolutodella terra...”, ed è forse rifacendosi atale concetto che lo stesso papaRatzinger ha di recente denunciato iseri rischi a cui è esposto il creato inconseguenza di scelte e stili di vitache possono degradarlo. L’aver curadel creato, cioè dell’ambiente in cuiviviamo senza dilapidarne le risorsee condividendole in modo solidale,non è allora solo un problema prati-co ma addirittura un problemamorale, di cui ciascuno di noi dovràsempre più prendere coscienza.

Sarà affidata ad un referendum popolarela decisione sul recupero ambientaledella ex cava di tufo delle Sparme a

Farnese. I promotori del progetto, in primisl’amministrazione comunale con il sindacoDario Pomarè, sostengono che l’iniziativa nasce dalla necessità dimessa a norma della cava, un’operazione ormai improrogabile vistala crescente situazione di pericolo, per l’incolumità delle persone eper il rischio di incendi, sia per scongiurare la possibilità che in futu-ro il sito venga individuato da enti gerarchicamente superiori per losmaltimento di rifiuti pericolosi. Inoltre, la tipologia dei rifiuti che viverranno conferiti è stabilita per legge: si tratta di rifiuti solidi chenon subiscono alcuna trasformazione fisica, chimica o biologica, nonsi dissolvono né bruciano, non sono biodegradabili, hanno una per-colazione quasi nulla e priva di tossicità. In pratica, cemento, matto-ni, mattonelle, ceramiche, terra e rocce, vetro e materiali in fibra divetro ma solo se privi di leganti organici. Infine, per quanto riguardai controlli, ogni trasporto dovrà essere certificato dall’Arpa e saràscaricato esclusivamente di giorno, ogni sei mesi il comune potràeffettuare dei carotaggi, verrà nominato un comitato di controllo.Di diverso parere i promotori del referendum, un apposito comitatotra i cui membri l’ex primo cittadino, oggi all’opposizione, PietroGentili, preoccupati per il rischio che in quella che loro definiscono“discarica” non vengano conferiti solo degli inerti. “Basta leggere igiornali - afferma Gentili - per essere consapevoli del rischio che sicorre. Dalla stampa si viene a sapere che la Tuscia può essere oggiconsiderata la discarica d’Italia, e che in ben tre cave in regime diripristino ambientale, quindi come quella delle Sparme, a Cinelli,Capranica e Castel Sant’Elia sono state scaricate tonnellate di rifiutitossici”. Secondo i referendari a minacciare la salute dei cittadini sarebbero

anche l’emissione di polve-ri e l’inquinamento acusticoche l’impianto potrebbeprovocare. Infine, per quan-to riguarda la messa in sicu-rezza del sito, una semplicerecinzione avrebbe risolto ilproblema. Le firme per ilreferendum sono raccolte illunedì e il venerdì in comu-ne, di fronte al segretariocomunale, oppure presso ilgiudice di pace PierluigiMezzabarba, o il consiglierecomunale Sandro Santi.

Farnese

Verso il referendumdi Giancarlo

Guerra

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Durante le mie pri-missime escursioniin bicicletta, adora-

vo percorrere una stradache, per un certo tratto, sitrovava immersa tra laboscaglia. Mi piaceva os-servare la luce che filtravatra le foglie, il suono delvento tra gli alberi... crede-vo che il tempo in quellastrada fosse diverso.Le strade di Pescia sonolunghe e deserte. Il ricoverodell’ombra è raro, in estate,le strade del mio paesesono polverose e asfissian-ti.Ho sempre pensato chequello spicchio di boscofosse un superstite. M’im-maginavo quegli albericome reduci di una terribi-le guerra... m’immaginavoche, tanto tempo fa, fosse-ro stati abitanti di un terre-no sconfinato in cui ospi-

tavano animali, uccelli eogni forma di vita. La miafantasia entrava nella vitaorgogliosa di questo pic-colo giardino e pensava:chissà cosa sente l’alberoche vive al confine con ilmondo degli uomini? Quel-lo che ha visto spostare illimite del bosco semprepiù nella sua direzione.Cosa ha pensato quandol’ultimo fratello albero èstato tagliato davanti a lui?“Ora è il mio turno - avràpensato - ora è finita”. Pro-verà un brivido ogni voltache le grandi macchine dimetallo si avvicinano a lui.Chissà, forse oggi non neha più paura, ha capitoche ogni anno quelle mac-chine passano di lì perarare e poi coltivare laterra...La nostra parte di marem-ma è stata per secoli un

luogo boscoso, un luogomagico e misterioso in cuisi passava con una certapaura reverenziale e lasperanza di uscire inden-ni. Un visitatore del Set-tecento la paragonava al-l’Africa: piena di fiere,macchie, sterpaglie e mal-viventi. Il Carducci provòun brivido macabro per-correndo la strada per ilChiarone, osservando lesagome dei torvi alberi.Più di due secoli fa, rac-contano i polverosi docu-menti d’archivio, tra inostri confini si contavanooltre 7.000 ettari di mac-chie e boschi. MonsignorMilella, giunto da noi nellontano 1848, ci raccontaqualcosa che oggi non c’èpiù: “Nella [...] Banditellaevvi un vasto appezzamen-to boschivo [...]. Questamacchia per altro trovasi inistato di decadimento, ed inparte è stata dicioccata esterpata. Nelle dette quattrograndi tenute esistono più omeno delle vaste estensionidi boschi, ma le più gran-diose sono in quelle dellaPescia e di Camposcala,nelle quali le piante domi-nanti sono i sugheri; ma si

veggono ancora alcune pic-cole querce, e degli arbustiminori, come carpini, fras-sini, e dei cespugli di rove-ri, spini, ed altre piante”.Ma quanto era grande ilbosco di Montalto e Pe-scia? Il Milella dice che intutto il territorio del comu-ne esistevano 3.524,77ettari di boschi da frutto osughereti; 373,6 ettari diboschi soggetti a pascolo;1.967,7 ettari di boschicedui forti; 188.7 ettari diboschi cedui dolci; e, perfinire, un ginestreto diquasi 200 ettari e un tom-bolo che raggiungeva gli800 ettari. In totale quasiseimila ettari di bosco chesi estendeva per la mag-gior parte tra Campo Scalae la Macchia della Pescia.Quanto manca il bosco nelmio paese! Se ne sente lamancanza al primo sguar-do. Quando, nelle giornatelimpide, passeggio per iltombolo, capita che si sco-pra al mio sguardo Monta-uto. Mi sembra che ognianno la terra si mangi unafetta delle macchie dilassù; la terra avanza,avanza verso l’alto. Lassùle terre non hanno limiti,non so di chi siano quelledistese senza fine. Unacosa la so, però: quandocerco il bosco devo anda-re oltre i confini del miopaese.Tanti anni fa, nel territoriodi Montalto di Castro, esi-steva un luogo chiamatoMacchia della Pescia. Era

Daniele Mattei

Montalto

di Castro

Il boscoscomparso

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un luogo con un nomesolo ma che ricopriva unvasto territorio: quasi1.500 ettari. I suoi confinierano l’Aurelia, il Chia-rone, le Corridore e il Ta-fone. In realtà attorno adesso - tranne che versol’Aurelia dove c’erano iseminativi - la macchiacontinuava a dominare:verso Campo Scala, versoMontauto e verso l’Osteriadella Pescia (quella cheoggi chiamano tutti PesciaFiorentina). Per secoli que-sto territorio fu contesissi-mo. Lo Stato della Chiesane pretendeva la proprietàassoluta, il comune diMontalto diceva di esser-ne il legittimo proprieta-rio... nel frattempo i poverimontaltesi continuavano apascolare i porci e ci anda-vano ogni inverno a farlegna. In più vi abitavanocarbonai, taglialegna, con-trabbandieri, briganti etanti animali selvatici. Civenivano a fare la caccia-rella da tutto lo Stato pon-tificio, e il cardinal Ruffo(quello dei Sanfedisti), cac-ciava in questa macchiamolto spesso. Lo so per-ché mi è giunta una notiziacuriosa: uno dei suoi caniperse la vita proprio acausa di un cinghiale, du-rante una battuta di cac-cia. Il cardinale però nonc’era, e mestamente, ilcustode, dovette scriverea Montecitorio per avver-tirlo del grave lutto... Setutti i cacciatori amano illoro cane come mio padre,credo che il Ruffo si siaproprio arrabbiato. Insom-ma la Macchia della Pesciaera un posto veramenteimportante. Pensate chel’archivio di stato di Romaè pieno di cause intentatedal comune per compro-

varne la proprietà! Ne fecetalmente tante che perpoco non andò in banca-rotta! Per salvarlo si dovet-te scomodare il papa inpersona, con una leggespecifica che annullavatutti i debiti ma che, allostesso tempo, dichiaravala Macchia di assoluta pro-prietà dello Stato, il quale,diciamo più a titolo dibeneficenza che per altro,versava 300 scudi sonantinelle casse del comuneogni anno.Intanto gli anni passavanoe le macchie si riducevanosempre più. La MacchiaBanditella - come si intui-sce dalle parole del monsi-gnore - dicioccata e messaa coltura non offriva più lericchezze di un tempo allapopolazione montaltese.La Macchia della Pescia e

gli altri boschi erano pas-sati in mano di privati cit-tadini. Il priore del consi-glio comunale, duranteuna lunga arringa, farà leprevisioni più scure: comepotrà vivere il popolo diMontalto senza i boschi sucui faceva pascolare i mai-ali e senza la legna per ara-tri, carri, capanne, stalle,cancelli, fratte e le legnanecessarie per il consumo efoche di Montalto? E pensa-re che, un altro viaggiatoredi fine Settecento notavacome tra i principali arti-giani del piccolo paesemaremmano ci fosseromolti falegnami e molti fa-cocchi. Segno che l’indu-stria indotta dall’abbon-danza di legname era vera-mente importante. La so-cietà umana non avrebbepotuto raggiungere elevati

livelli di civiltà senza l’usodella legna.Un tempo, a Pescia, esiste-va una fontana dal nomeevocativo: il Fontanile del-la Sughera Torta. In quelnome si racchiude tutta laforza del bosco, la suaimportanza per l’uomo.Infatti, il bosco non forni-sce all’uomo solo il legna-me per costruire, riscal-darsi e commerciare; ilbosco ha la massima im-portanza come regolatoredi acque. Le radici, le fo-glie e il sottobosco trat-tengono e assorbono lapioggia, rallentano le eva-porazioni e inviano allesorgenti l’acqua cadutadal cielo. Tutto questoimpediva alle acque pio-vane di alimentare inmodo violento i torrenti edi ingrossare troppo rapi-damente i fiumi. Un tempoquesto sistema garantivavita alle fontane di PesciaRomana che venivanocostruite in prossimità disorgenti spontanee. Ilbosco è, inoltre, un impor-tantissimo regolatore diumidità e evita i rapidisbalzi di temperatura.Purtroppo l’Italia intera èstata vittima di un’intensaazione disboscatrice dura-ta fino ai primi decenni delsecolo scorso. L’immensaforesta italiana è stata for-temente depauperata infavore di pascoli, di arati-vi, di una speculazione dis-sennata, lasciando il terri-torio alla rovina del disse-sto idrogeologico, con inefasti effetti che tutticonosciamo.La Maremma laziale non siè sottratta a questo scem-pio, anzi, in questo luogodi sfruttamento, è statofatto di peggio: il patrimo-nio boschivo è scomparso

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del tutto... divorato dagliinteressi privati.Ed ecco a poco a poco laselva infóscasi orrenda laselva, o Dante, d’alberi e dispiriti, dove tra piante stra-ne tu strane ascoltasti que-rele, dove troncasti il prunoch’era Pier de la Vigna.Oggi che la selva orrenda èscomparsa, l’uomo è anco-ra più smarrito. In questabattaglia perversa controil bosco continua a farmale a se stesso... non glirimane neppure quelbenedetto darsi alla mac-chia per continuare a vive-re, ha perduto Robin Hoode Tiburzi e il sogno di unagiustizia altra. Ha perso irami rampanti per sfuggireagli ordini imbecilli dellasocietà.

“Io non so se sia vero quel-lo che si legge nei libri, chein antichi tempi una scim-mia che fosse partita daRoma saltando da un albe-ro all’altro poteva arrivarein Spagna senza mai tocca-re terra. Ai tempi miei diluoghi così fitti d’alberic’era solo il golfo d’Om-brosa da un capo all’altro ela sua valle fin sulle crestedei monti; e per questo inostri posti erano nominatidappertutto.Ora, già non si riconosco-no più, queste contrade. S’ècominciato quando venne-ro i Francesi, a tagliar bo-schi come fossero prati chesi falciano tutti gli anni epoi ricrescono. Non sonoricresciuti. Pareva unacosa della guerra, diNapoleone, di quei tempi:invece non si smise più. Idossi sono nudi che a guar-darli, noi che li conosceva-mo da prima, fa impressio-ne”. (Italo Calvino, Il baro-ne rampante, Einaudi,Torino 1957, p. 37).

“I l vero fedele è colui che aspira allaconoscenza”, così recita un passo delCorano. La conoscenza implica anche

la consapevolezza di ciò che si è, di cosa si èstati e del nostro passato, di come si vive, dicosa si intende fare per migliorare se stessi eciò che ci circonda. In sostanza, proprio laconoscenza e la sua diffusione sono l’oggettoprincipale di questa rivista, eppure, troppofacilmente, noi tutti dimentichiamo - ancheperché ormai ci abbiamo fatto in un certo qualmodo il callo - le servitù che gravano sul nostroterritorio.In primo luogo quelle energetiche, date dallapresenza del polo produttivo più granded’Europa, costituito dalle centrali di Montalto diCastro e di Civitavecchia; poi vengono quellemilitari, con i poligoni; in ultimo, purtroppoquotidianamente documentate dalla cronachelocali, le discariche abusive, le falde acquifereavvelenate dall’arsenico, gli inceneritori in pro-gettazione, ecc.Se un extraterrestre arrivasse improvvisamentenel nostro territorio dopo aver letto e saputoche è una delle aree più ricche di storia, dipaesaggi che sono stati delizia per gli occhi deipiù famosi letterati europei, e leggesse tutti igiorni le cronache locali, avrebbe di che esseresconvolto: centrali a carbone da quasi 2000Mw in costruzione a Civitavecchia, un impiantoche una volta ultimato produrrà inquinamentoquanto se ne produce a Roma e che avrà rica-dute su tutto il viterbese; discariche abusiveche spuntano fuori come i più rinomati funghidei nostri boschi, e, tema molto discusso inquesti giorni, la possibilità di ospitare un ince-neritore, pardon, termovalorizzatore, come sequesto lembo di terra non avesse già subito fintroppo. Lecito chiedersi di quale peccato origi-nale debbano mondarsi le popolazioni dell’AltoLazio per meritarsi tutto questo.Forse la risposta a questa provocazione sta

proprio nella nostra cultura, nella nostra cono-scenza di noi e di ciò che ci circonda, nellanostra capacità critica di informare e far sapereprima a noi stessi e poi agli altri. Partiamo pro-prio dal punto che desta maggiori preoccupa-zioni, se non altro per l’impatto che potrà averesu un territorio molto ampio, come la letteratu-ra scientifica e gli studi di settore hanno ormaidimostrato: il carbone a Civitavecchia.Per certi aspetti, anche la costruzione di unnuovo impianto di produzione energetica èfiglio di una categoria di pensiero, di un model-lo culturale, che funziona pressappoco così: ilcarbone è economicamente conveniente; leinfrastrutture per la diffusione dell’energia esi-stono da decenni in quest’area; le popolazioni,numericamente non rilevanti, sono “socialmen-te affabili” e non coscienti dei rischi che corro-no; l’impianto inoltre porterebbe occupazione(poca in verità) in una zona dove il lavoro èuno dei problemi sociali più scottanti. Si trattadi un modello di pensiero originato da una cul-tura di tipo “aziendalista”, che considera unica-mente gli aspetti economico-strategici e chebasa la sua forza sull’incapacità del territorioospitante di proporre un sistema di sviluppodiverso, sull’impossibilità, atavica, di imporreun suo modello culturale.Questa categoria di pensiero ha ormai permea-to la società locale, tanto da far pensare chenon esistano strade alternative e che la presen-za di grossi impianti di produzione energeticasia un fattore ineludibile non solo per motivi diinteresse generale (espressione con la qualespesso si nascondono solo interessi particolari),ma anche per il territorio stesso, che altrimentiperderebbe la possibilità di ospitare eventi cul-turali limitati nel tempo ma di grande impattosul pubblico.Si tratta della cosiddetta logica compensativa,in base alla quale un’area geografica si sacrifi-ca per ospitare pesanti servitù, in cambio di

manifestazioni cul-turali, di donazioniad enti ed a strut-ture assistenziali(anche questa èuna contraddizioneche sarebbe comi-ca se non riguar-dasse la salute

di LucaGufi

Tarquinia Cultura, energia,

inquinamentoe altro ancora

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delle persone), e, secondo il più moderno dibattito politico, rece-pendo sconti sulle bollette elettriche.Questo modo di pensare, legittimo ma altrettanto criticabile, sem-bra non poter lasciare spazio ad alternative, che eppure esistonoma non si conoscono, sia per la scarsa propensione individualealla ricerca dell’informazione, sia perché il modello culturale chepropone il nostro territorio è sempre stato debole, condito da pic-chi di qualità assoluta, ma da un sottobosco in perenne e lentissi-ma crescita. Ora, l’alternativa che tutto l’Alto Lazio dovrebbe proporre a questomodello di pensiero potrebbe identificarsi con un innalzamento dellivello della qualità della vita. La nostra provincia, nel senso geo-grafico del termine, ha tutte le carte in regola per proporre unsistema basato sulla sostenibilità: ha un patrimonio storico-archeo-logico invidiabile, riconosciuto anche dall’Unesco (in questo sensoè difficile pensare allo sviluppo del turismo culturale in rapportoalla massiccia presenza di impianti di produzione energetica); hauna varietà ambientale circoscritta in pochi chilometri di assolutorilievo; ha - se fossero realizzate politiche per la cultura di ampiorespiro - la possibilità di fare sistema con aree vicine che già sonoa livelli di eccellenza nel panorama dell’ospitalità e dell’offerta cul-turale.Per realizzare tutto questo però è indispensabile la conoscenza; equi ritorniamo al punto di partenza: qual è il nostro grado di con-sapevolezza del problema, quali sono le risposte che siamo ingrado di dare? Purtroppo, lo spazio disponibile per provare ad arti-colare un ragionamento di questo tipo è esiguo, ma comunque suf-ficiente per lanciare qualche sasso nello stagno.In primo luogo la discussione, la capacità e la forza di sollevaretemi e proporre dibattiti. Recentemente, i comitati no coke del lito-rale hanno iniziato una serie di incontri con amministratori e istitu-zioni del territorio per diffondere il patrimonio di conoscenza acqui-

sito dalla loro esperienza in fatto di inquinamento dell’aria, di pato-logie da esso derivanti, di rischi e scenari futuribili. Il primo appun-tamento è stato a Tarquinia il 12 luglio scorso, con grande parteci-pazione di amministratori locali. Il secondo, altrettanto valido, si èsvolto a Corchiano il 27 dello stesso mese e sembra che altri even-ti di questo tipo possano susseguirsi nel breve termine. In effetti, lacreazione di gruppi di discussione in ogni singola località, sarebbegià un passo avanti.Vi sono poi delle risposte assodate, sintetizzabili in quattro paroleche potremmo chiamare le quattro R: riciclaggio, riuso, raccoltadifferenziata, rinnovabili. In quest’ultimo termine può essere com-presa anche l’autoproduzione energetica. La logica è speculare aquella alla quale siamo abituati: raccolta differenziata/termovaloriz-zatori; riciclaggio/discariche; rinnovabili/mega impianti energetici.Aggiungiamo alcuni dettagli tecnici, sui quali sarebbe il caso di tor-nare nei prossimi numeri della rivista: celle a combustibile, pompedi calore geo-termiche, impianti solari fotovoltaici, impianti solaritermici, energia eolica e ultimo ma non ultimo, il risparmio energe-tico. Essere più efficienti nell’utilizzare ciò che già si produce è ilreale obiettivo da perseguire, non costruire ex-novo impianti inutili.La bibliografia sull’argomento è ormai sterminata, basta prenderein considerazione autori come Rifkin, Pallante, Masullo, Coiante,ecc.In conclusione, il sistema culturale sul quale dovrebbe essereimpostato il futuro del nostro territorio dovrebbe reggersi sullequattro R, su una conoscenza più capillare di ciò che siamo e diquello che possiamo diventare, su un modello culturale di ampiorespiro e lungimirante: il contrario di quello dal fiato corto che civiene proposto, a torto, come indispensabile.

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Minatore ostinato nello scavarein nicchie di materia ostile,

il potenziale entropico dell’uomocoincide con il suo successo evolutivo

e con il fine stesso del suo esistere.(da “Le dodici notti”)

Riflettendo sull’argomento delmio ultimo articolo pubblica-to nella Loggetta (Salviamo il

nostro lago), mi sono reso conto che,in quell’occasione, la nostra comuni-tà è stata vincitrice di una piccolabattaglia, ma che l’esito finale dellaguerra si prospetta, per tutta l’uma-nità, estremamente preoccupante.Non dobbiamo quindi illuderci che ildiplomatico allontanamento delleaggressioni all’ambiente risolva ilproblema. Il consumo delle risorseda parte dell’umanità è paragonabilealla sabbia che scende in una clessi-dra che non si può capovolgere.Abbiamo una scorta virtualmenteillimitata di energia proveniente dalsole, ma non possiamo controllarneil flusso; disponiamo di quantità fini-te di combustibili fossili e minerali,di cui dobbiamo diminuire il tasso diconsumo. Attualmente stiamo usan-do queste risorse in modo incontrol-lato, prendendole in prestito dallagenerazioni future. Questo modo diprocedere non potrà essere sostenu-to a lungo; in sostanza preleviamodall’ambiente energia utile - combu-stibili fossili e minerali - e li trasfor-miamo in rifiuti che aumenterannofino a quando la maggior parte dellerisorse saranno trasformate in detri-ti inutilizzabili. Le aggressioni all’am-biente, quindi, e anche al nostrotranquillo lago non cesseranno, masi svilupperanno anche con formemeno evidenti e più subdole; adesempio come quelle che già oggiprovengono dalle centrali termoelet-triche di Montalto e Civitavecchia, o

quelle che potrebbero scaturire dalpaventato inceneritore di Monteraz-zano.

Le centrali di Montaltoe Civitavecchia

Agli effetti dell’inquinamento am-bientale, le centrali di Montalto eCivitavecchia, essendo fra loro vici-ne, costituiscono un unico gigante-sco polo energetico. Questo poloenergetico ha una potenza di oltre7.000 megawatt ed è il più grandeesistente al mondo; rappresentacirca un quarto dell’energia elettricaprodotta in Italia mediante combu-stibili. Il combustibile bruciato ognigiorno corrisponde a 2.500 autoci-sterne, pari ad una fila che su strada

occuperebbe oltre 30 km. Non ce nerendiamo conto perché il combusti-bile arriva dal mare o da tubazioniinterrate. In nessun altro luogo delmondo si concentra così tanta com-bustione ed emissione di fumi inqui-nanti. La ciminiera di Civitavecchia èalta 254 metri ed è la più altad’Europa. Quella di Montalto è 208metri. Entrambe hanno lo scopo didisperdere i fumi nell’atmosfera e diallontanare le ricadute dal luogo diemissione con l’aiuto del vento. Aduna certa distanza però le sostanzeinquinanti finiscono per caderesotto forma di piogge acide e di par-ticelle solide. Chi è sottovento nericeve la quantità maggiore. In inver-no i venti dominanti provengono dal

Giancarlo Breccola

Salviamoil nostro mondo

Esposizione del comprensoriodel lago alle ricadute dei fumi

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quadrante nord est e quindi il pen-nacchio dei fumi prodotti dal poloenergetico si dirige verso il mare, main estate le brezze dominanti pro-vengono dal quadrante sud ovestper cui il pennacchio dei fumi si diri-ge verso la direzione opposta. Il lagodi Bolsena, e i comuni che lo circon-dano, sono, principalmente nelperiodo estivo, molto esposti ai fumidel polo. Tra i verosimili danni chepotranno scaturire dall’effetto com-binato delle piogge acide, delle parti-celle inquinanti e del gas radon pre-sente nei tufi, si prevede un aumentodelle patologie allergiche ed oncolo-giche; gravi danni alle coltivazioni eai boschi (come avvenuto nelle fore-ste tedesche); l’acidificazione deilaghi di Bolsena e Mezzano (comeavvenuto in Svezia); e, a lungo termi-ne, la parziale desertificazione divaste zone.

L’inceneritoredi Monterazzano

Nel marzo 1997 viene promulgato ildecreto Ronchi, che innova profon-damente la pianificazione dei rifiuti.La provincia si impegna a uniforma-re le proprie scelte politiche alle pro-poste dell’appaltatore vincente.Nonostante la ricchezza dell’appaltopartecipano soltanto tre ditte, etutte propongono il sito diMonterazzano. Il comune di Viterboin un primo tempo non approva lascelta del luogo, ma poi il nuovo con-siglio approva l’impianto. Controogni regola, nel sito di Monterazzanovengono stoccati rifiuti evidente-mente non trattati o trattati male,come il naso degli abitanti testimo-nia meglio di qualsiasi strumento. Laraccolta differenziata è quasi com-pletamente ignorata, mentre grava ilrischio della costruzione di un ince-neritore. Quest’ultima eventualitàsembra tacitamente approvata daipartecipanti al consiglio provincialedel 3 agosto 2006:- ... a gennaio 2007 Monterazzano

sarà chiuso, sarà colmo il secondoinvaso. Viaggiamo a 600 tonnellateal giorno di rifiuti: aumentano inmaniera esponenziale, mentre nonaumenta nella stessa maniera laraccolta differenziata.

- ... sulle tariffe, come comunipaghiamo 59 euro più IVA a tonnel-lata, in seguito sarà di oltre 100euro. La vera emergenza è questa:i comuni andrebbero al collasso. Ilprogramma dell’Unione non preve-de il termovalorizzatore, partiamoda qui. Aspettiamo le linee guidadella Regione. Immaginiamo unapolitica senza il termovalorizzato-re: bisognerebbe portare i rifiutialtrove. Col termocombustorediventeremmo un punto di riferi-mento per altri territori.

- ... la vera emergenza non è l’acquama sono i rifiuti. E’ anche per que-sto che aumentano le tariffe. Lanecessità del pubblico è a maggiorragione nel settore dei rifiuti, chenon è giusto né opportuno venga-no gestiti dal privato. Fare la rac-colta differenziata costa di più, maserve perché il termovalorizzatorebruci meno prodotti e si recuperi-no i rifiuti.

- ... un termovalorizzatore da noi, inuna provincia di 300.000 abitanti,non ha senso. La raccolta differen-ziata ha un costo maggiore, maoccorre partire da qui: una casa sicostruisce dalle fondamenta. InDanimarca ad esempio c’è daglianni ‘60.

- ... la raccolta differenziatanon esclude la termovaloriz-zazione; vanno di paripasso.

La realizzazione di un simileimpianto, che andrebbe acompromettere il precarioequilibrio agricolo e turisticodella Tuscia, non rappresentala soluzione ideale del proble-ma, perché spesso si ha solo iltrasferimento nell’atmosferadi nuovi composti volatili, tal-

volta tossici, formatisi nella combu-stione: è ciò che accade nel casodelle materie plastiche clorurate,con la formazione di acido cloridricogassoso. Purtroppo anche gli incene-ritori più recenti - quelli ad alta tem-peratura in cui la combustione con-sente la diminuzione del volumedelle scorie prodotte e la possibilitàdi recuperare i materiali metallici -possono diffondere sostanze inqui-nanti quali la diossina, tristementecelebre per le sue proprietà tossi-che, mutagene e cancerogene.

Conclusione

La conservazione delle risorse natu-rali e la protezione degli ambientibiologici è oggi uno dei rami piùimportanti dell’ecologia applicata.La gravità delle alterazioni indiscri-minate degli ambienti naturali,determinate dagli sviluppi della tec-nologia, dal miglioramento dellecondizioni di vita delle popolazioni,dall’incremento demografico, è taleda giustificare le più vive apprensio-ni per il prossimo futuro dell’umani-tà. Perciò lo studio dell’ecologia el’applicazione dei suoi risultati aiproblemi concreti si impongono oggisu scala mondiale. La formazione diuna coscienza ecologica è, allo statoattuale, una funzione della massimaimportanza; essa deve essere affida-ta soprattutto all’insegnamento sco-lastico e alla diffusione delle nozioniecologiche e di protezione dell’am-biente tramite i mass media.

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Era l’ottobre del 1956quando gli studiosi sve-desi scelsero le aree

archeologiche di Blera per ini-ziare le loro famose campagnedi scavo, che videro la parteci-pazione diretta del re GustavoVI Adolfo, e dalle quali scaturi-rono eccezionali scoperte edimportanti pubblicazioni sugliantichi abitati di San Giovenalee Luni sul Mignone. La loropermanenza a Blera ha lasciatoun ricordo indelebile tra lapopolazione per i rapporti diamicizia, per la cordialità, lasimpatia e la magnanimità,specie del re, che fu insignitonel 1963 della cittadinanzaonoraria blerana. Grazie al loroqualificato lavoro si è diffusa laconoscenza e sono state straor-dinariamente valorizzate questezone che da allora sono metacontinua di turisti e visitatori.Oggi, a distanza di mezzosecolo - corsi e ricorsi della sto-ria - anche i tecnici della

Società Rai Way, attratti eaffascinati da questi posti bel-lissimi, hanno deciso di effet-tuare scavi in prossimità diquesti meravigliosi siti. Con ladifferenza che i loro scavi nonavranno finalità archeologiche escientifiche, ma serviranno perla costruzione di una gigante-sca antenna trasmittente aonde medie (alta 180 metri eche sostituirà quella disattivatanella località di Santa Palombavicino Roma), con migliaia dimetri cubi di costruzioni acces-sorie: vatti a fidare dei conna-zionali! Questa volta, ovvia-mente, la popolazione blerananon trarrà alcun beneficio daquesta iniziativa; anzi, vedràcompromesso seriamente il suoequilibrio ambientale, il patri-monio paesaggistico, archeolo-gico (anche gli etruschi si rivol-teranno nelle tombe) e naturali-stico, con fondati timori per lasalute delle persone ed effettimolto negativi per l’economia

locale. E’ comprensibile quindila grande preoccupazione e laferma contrarietà dei cittadini edegli amministratori blerani, aiquali si uniscono i comuni limi-trofi, Regione, Provincia, entivari, associazioni, forze politi-che, sindacali, ecc., che nongradiscono questa vera e pro-pria imposizione e aggressioneal nostro territorio. Ancora unavolta la Tuscia viene relegataal ruolo di pattumiera italianacon le sue discariche abusive,spesso di rifiuti tossici, centraliinquinanti, cave, servitù di ognitipo, opere dannose, inutili omai terminate. Tante sono state le iniziativeprese a 360 gradi e l’impegnoprofuso da tutti per evitare que-sto ennesimo scempio. Dal2004 sono state presentatenumerose interrogazioni al con-siglio regionale del Lazio e alparlamento ed allaCommissione Europea; si ècostituito a Blera un comitato

cittadino spontaneo che ha rac-colto migliaia di firme control’antenna e si sono riuniti i sin-daci e i presidenti delle univer-sità agrarie dei comuni aderential protocollo di intesa per lavalorizzazione della Valle delMignone, per esprimere fermaed unanime opposizione al pro-getto di Rai Way. Anche il con-siglio provinciale di Viterbo havotato all’unanimità una mozio-ne contro l’installazione dell’an-tenna, e nel luglio del 2004 ilsindaco ha inviato vari comuni-cati stampa ai quotidiani localied al corrispondente del TG3. Il 29 luglio si è svolto unincontro tra la giunta comunaleed il responsabile di Rai Wayaccompagnato da una vivacemanifestazione di protesta deicittadini sotto il municipio.Successivamente si sono svolteassemblee pubbliche e dibattitisul tema. Nell’agosto 2004 ilsindaco ha scritto al ministrodelle telecomunicazioni ed al

Felice SantellaBlera

La gigantesca antenna di Rai Waygrazie alla legge Gasparri e un po’ anche a quella del... Menga

Area archeologica di San Giovenale (Blera). Vista panoramica della vallata adiacen-te. L’antenna in questione dovrebbe sorgere in questo contesto.

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direttore generale delle frequen-ze per informare della situazio-ne e chiedere un incontro; sonostate inviate lettere al prefettodi Viterbo e si è costituito uffi-cialmente il comitato cittadinocontro l’antenna denominato“Forum Etruria”. Anche l’uni-versità agraria di Blera è scesain campo con un suo avvocatoper la difesa degli usi civici cheinsistono su questi terreni. Il18 settembre 2004 si è svoltaa Viterbo una imponente mani-festazione di protesta control’antenna che ha sfilato per levie della città fino alla prefettu-ra, dove una delegazione èstata ricevuta dal prefetto.Anche il consiglio regionale havotato all’unanimità una mozio-ne contro la realizzazione del-l’antenna. Successivamente ilcomune di Blera ha negato ilpermesso di costruire l’antennaa Rai Way che ha impugnato ilprovvedimento di diniegodavanti al Tar del Lazio. Ma lamega antenna torna a far par-lare di sé oggi, dopo che il 20luglio 2006 è stata resa nota lasentenza del Tar del Lazio cheaccoglie il ricorso di Rai Waycontro il diniego espresso dalcomune di Blera. Nel frattempo l’area sulla qualedovrebbe sorgere l’antenna èstata giustamente inseritaall’interno delle ZPS (zone diprotezione speciale) per le qualivige una normativa moltoattenta alla conservazione dell’-habitat naturale e dove non èconsentito costruire tralicci eimpianti eolici o quanto altrogiustamente possa alterarel’equilibrio dell’ambiente. E leantenne di queste grandi pro-porzioni? Quelle pare si possa-no costruire, anzi, si vociferache siano anche loro - e primaancora di essere costruite -addirittura protette; figuriamocidopo! A questo punto vale la pena diricordare, fra le tante mozionie interpellanze presentate alGoverno contro la costruzionedell’antenna di Rai Way, quel-la di Alfonso Pecoraro Scaniodel 5 luglio 2004, rivolta

all’allora ministrodell’Ambiente Altero Matteoli,e che ora noi rivolgiamo a lui,visto che è l’attuale ministroper l’Ambiente. Citiamotestualmente la parte finale: “... quali provvedimenti ilGoverno intenda adottare persventare un progetto che dan-neggerebbe per sempre unterritorio ancora integro e diimportanza archeologica mon-diale, oltre ad avere ripercus-sioni gravi sulla salute dellepersone, su un habitat natura-le unico, sul turismo di qualitàe didattico e su un sistemaagro-alimentare incentrato sulbiologico”. Siamo perfettamen-te d’accordo con lui e aspettia-mo con ansia e speranza cherisponda, da ministro, alla suadomanda da parlamentare.In conclusione, sebbene la diffi-cile battaglia per evitare unaprofonda ferita al nostroambiente proseguirà senzasosta, noi non sappiamo cometerminerà questo brutto capito-lo di storia blerana.Sicuramente tutti avremmopreferito che il nostro ricco ter-ritorio fosse stato ancora unavolta oggetto di attenzioni einterventi positivi, come quello- tanto per fare un esempio -intrapreso dagli amici svedesimezzo secolo fa e finalizzato aconservare e valorizzare il pre-gevole patrimonio storico eambientale. Certamente, qualo-ra il progetto dovesse andareavanti, gli amministratori e lapopolazione di Blera nonavranno voglia di festeggiarel’arrivo dei tecnici di Rai Wayper la posa della prima pietra.Non ci saranno ad accoglierli lebandierine e la banda musica-le, né mazzi di fiori, rinfreschi equant’altro, come avvenne per ireali di Svezia nel lontano1963; al massimo ci potràessere qualche striscione condelle scritte che, presumo, nonsaranno certo di cortesia e dibenvenuto.Speriamo bene, e che... “SantaPalomba” ci assista.

TuscaniAmbiente

Tuscania è stata insigni-ta qualche anno fa del-la Bandiera arancione,

il marchio di qualità turisticoambientale per l’entroterra attribuito dal Touring ClubItaliano a quei territori considerati, tra l’altro, ancoraintegri dal punto di vista ambientale.A guardar meglio, però, la situazione sotto questoaspetto non è che sia proprio soddisfacente. Anzi. Sa-rebbero almeno due le emergenze che, primo o poi,bisognerà affrontare.La prima, rumorosa e maleodorante, riguarda il transi-to di mezzi pesanti lungo la provinciale Tarquiniese,almeno nel suo tratto cittadino. Fino a che non verràultimata la Terni- Civitavecchia, una promessa fatta unpo’ da tutti in campagna elettorale, per raggiungere ilporto di Civitavecchia e l’Aurelia dalle aree industrialidel centro Italia (Terni, Marche, ecc.) bisogna per forzadi cose transitare a Tuscania, con tutto quello che nederiva a livello di inquinamento acustico e polveri sot-tili rilasciate dai grossi camion. Senza considerare chel’apertura qualche anno fa dell’impianto di compostag-gio in località Fontanile delle Donne ha comportato unaumento di tale traffico, per giunta maleodorante, a talpunto che, una volta passati gli automezzi, per almenoun’ora l’aria risulta irrespirabile. Sorvolando sulle con-dizioni del fiume Marta, sulle quali il discorso dovrebbepartire da lontano, sulle servitù militari del confinantepoligono di Monteromano (a parere di chi scrive altret-tanto nocive, anche se in maniera diversa), e sull’inqui-namento elettromagnetico dei ripetitori della telefoniamobile (che la legge Gasparri definisce di “utilità pubbli-ca”, quindi senza possibilità di intervento per comuni ecittadini nel localizzarle), la seconda tipologia riguardaqualcosa di invisibile ma estremamente pericoloso. Miriferisco alle emissioni delle due centrali Enel diTorvaldaliga (Civitavecchia) e Montalto di Castro, i cuifumi, sparati in alto dalle forti pressioni provocate

all’interno delle cimi-niere, finiscono inevita-bilmente per ricadereanche sul territoriotuscanese. Se poi siavrà la loro trasforma-zione in centrali a car-bone l’inquinamentodell’aria sarà ancoramaggiore. Alla facciadella Bandiera arancio-ne!

di GiancarloGuerra

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Sentiamo sempre più spessoparlare, con la forza dei mezzidi comunicazione, di tutela e

salvaguardia dell’ambiente e dellerisorse naturali e fermiamo, talvolta,l’attenzione su quei beni che abbia-mo sempre considerato “inesauribi-li” e che, lentamente ma sensibil-mente, stanno diventando semprepiù preziosi perché “inesauribili”non sono: l’acqua, l’aria pulita, leforeste, il silenzio, l’atmosfera, lepiante, gli animali, i paesaggi natura-li, laghi e fiumi, montagne e colline,mari e ghiacciai... L’attività dell’uo-mo sulla natura sembra non doversiarrestare e con essa la corsa versopunti di non ritorno. Queste proble-matiche sono talmente grandi dacoinvolgere l’intero globo e noi cisentiamo talmente piccoli e insignifi-canti da non avere né la forza né imezzi per affrontarli. Tuttavia anchenoi viviamo e ci muoviamo su un ter-ritorio dove le attività che compia-mo possono essere improntate alrispetto o tendere al danno per l’am-biente che ci circonda. Ogni voltache il nostro operare con superficia-lità o malafede comporta un danno,un degrado, una disarmonia nell’am-biente urbano o naturale, non faccia-mo che tradurre nel nostro piccoloquelle logiche di “predazione” chestanno sconvolgendo il volto del pia-neta Terra. La nostra Tuscia è, senz’ombra didubbio, una delle zone più belled’Italia, così varia e splendida neisuoi paesaggi, così ricca di emergen-ze archeologiche e di testimonianzestoriche, artistiche e architettoni-che, eppure così poco attenta alrispetto e alla conservazione di talitesori.Mi capita sempre più spesso di pas-seggiare e di notare, sia nelle viuzzedei nostri centri storici che in luoghidi grande suggestione paesaggistica,

le brutture che detur-pano il territorio e ilcuore dei nostri borghicome macchie sul vol-to di una bella donna.Non è infrequente no-tare, nella parte anticadei nostri paesi, dal-l’impianto medioevale,tutta una serie di inter-venti in contrasto conl’ambiente circostan-te, che creano disagioe fastidio a vedersi:portoncini in allumi-nio anodizzato; fine-stroni panoramici chehanno cancellato lapresenza di finestrine contornate dipietre irregolari con l’architrave dilegno; brutte ricostruzioni in cemen-to armato dove il cemento non vieneneppure “mascherato” sapientemen-te; loggette e balconcini con ringhie-re elaborate e “baroccheggianti” chesuonano false alla vista; facciateintonacate e tinteggiate in modochiassoso mentre nelle case intornoil tufo dorato, la basaltina e il peperi-no ci rimandano colori più smorzatie connaturati ai colori dell’ambiente;interventi esterni compiuti conmateriali estranei al territorio...E’ vero che talvolta mancano gli stru-

menti normativi (ad esempio unbuon regolamento comunale cheindichi modi, mezzi, tipologie diintervento all’interno delle aree deicentri storici) per bloccare gli scem-pi, ma è pur vero che essi si compio-no sotto gli occhi e tra l’indifferenzadi molti che si sentono a loro voltaautorizzati a fare lo stesso per il pro-prio interesse. Con questo non sivuol dire che i centri storici debbanorestare imbalsamati così come sono,ma è pur vero che interventi chepermettano agli ambienti un recupe-ro e un adeguamento per una vivibi-lità confortevole possono esserecompiuti senza stravolgere il tessutoarchitettonico circostante ed evitan-do la sensazione di “estraneità”, diimpatto visivo ed emotivo, di distur-bo. A volte, per giustificare certebrutture, non si può nemmeno chia-mare in causa “il maggior costo del-l’intervento se fatto con certi crite-ri”, perché spesso, per evitarle,basterebbe soltanto un po’ di buon-senso e un minimo di sensibilitàestetica. Non ci accorgiamo che, inquesto modo, andiamo ad intaccarestabilmente e a stravolgere, il voltodei nostri comuni. Ma anche nei

Marta

diMaria IreneFedeli

Tutto un popolo crea un paesaggio,che costituisce il serbatoio profondo della

sua cultura e reca ‘l’impronta del suo spirito’

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punti più belli del nostro territorio,anche fuori degli abitati, la situazio-ne non è migliore. Nel 1985 la leggen. 431, conosciuta come “leggeGalasso”, fu varata per tutelare zonedi particolare interesse ambientale earcheologico. Tale legge pose vinco-li ben precisi come quello di delimi-tare zone di rispetto fino a 300 metridalle rive dei laghi e dei mari e 150metri dagli argini dei fiumi e dei tor-renti, e regolare, all’interno di questearee, le attività e gli interventiumani. Basta compiere un giro inbarca intorno alle rive del lago pernotare che sono sorti come funghi,ovunque ma soprattutto nei puntipanoramici, casali, casaletti, capan-noni, ville, strutture varie in nome diun “turismo d’assalto” e di una pre-tesa fruibilità che deturpa irrimedia-bilmente un lago che è un gioiello earee di interesse archeologico. Nonparliamo poi dei porticcioli turistici,massicci e sgradevoli nelle realizza-zioni in cemento come quello postoall’incile del fiume Marta che, inol-tre, altera il naturale fluire delleacque provocando spesso l’insab-biamento dell’imbocco fluviale.L’abitato di Marta è collocato in unaposizione particolare perché, oltre allago, è lambito dal corso del fiume.Due presenze che dovrebbero esse-re opportunamente valorizzate,dove la natura e l’opera dell’uomo

dovrebbero fondersi in un unicumpregevole e armonico. Il Rinasci-mento ci ha insegnato che dove lapresenza delle acque e della naturasi è favorevolmente sposata con ilgiusto equilibrio all’opera umana,sono sorti parchi e giardini che sonocapolavori. Ciò che un tempo eraappannaggio di pochi, potrebbeessere oggi fruito da molti. Così unasapiente programmazione e sistema-zione delle aree limitrofe alle rive eagli argini potrebbe dar vita a deisentieri naturalistici, a dei percorsiper passeggiate che costituirebbeun invidiabile biglietto da visita pertutto il paese, mentre oggi lo sguar-do si posa su scorci dove il degradoe l’incuria sono evidenti. Si potrebbecontinuare all’infinito, ma possiamosoltanto tratteggiare ciò che balzaagli occhi in modo prepotente: unlago dal tempo di ricambio lunghissi-mo e dal delicato equilibrio che nonpuò assorbire tutto ciò che vorrem-mo inghiottisse; un fiume che incon-tra interessi diversi nella regolazionedel regime di flusso e che talvoltamette allo scoperto delle aree delsuo letto; acque captate per scopiagricoli anche in regimi di magra;insediamenti abitativi in aree vinco-late in attesa di un “prossimo condo-no”; strutture turistiche dove l’im-patto ambientale e il senso esteticosono spesso gli ultimi criteri a cui sipresta attenzione; la nostra indiffe-renza, la negligenza, il pressappochi-smo, quando non una logica di solointeresse economico nella gestione enella fruizione dell’ambiente e delterritorio; un turismo poco educato,di consumo, frettoloso, che gratificapochi e danneggia molti; la scarsa

attenzione pre-stata a ciò che èpatrimonio ditutti perché “tan-to non è mio equindi mi per-metto ciò chevoglio o mi facomodo”...Con questo nonvogliamo dire

che il nostro ambiente debba esseremuseificato o che non si debbanopermettere le ordinarie e quotidianeattività umane, ma che ogni inter-vento dell’uomo sia improntato alogiche di rispetto, di attenzione, disalvaguardia, anche a costo di rinun-ciare a qualcosa se questa dovessetradursi in un danno.Da sempre le attività dell’uomohanno interagito, modificato, tra-sformato la natura e hanno dato vitaal paesaggio. Il grande geografo delsecolo scorso Martin Schwind hascritto: “Ogni paesaggio è comeun’opera d’arte ma molto più com-plessa: un pittore dipinge un quadro,un poeta scrive una poesia, ma tuttoun popolo crea un paesaggio, checostituisce il serbatoio profondo dellasua cultura e reca ‘l’impronta del suospirito’. Ogni popolo instaura un suorapporto con la natura e crea luoghiche divengono lo specchio della sto-ria, della cultura e della società che liha prodotti”.L’ambiente in cui ci muoviamo sicaratterizza come il luogo che acco-glie le relazioni tra l’uomo e la natura,è il risultato irreversibile di un movi-mento continuo di trasformazionirisalenti alle origini stesse del territo-rio. La natura è vita spontanea, il pae-saggio è vita “organizzata”. In essoc’è il nostro passato e il nostro pre-sente, da tramandare alle generazio-ni future con sentimenti di rispetto edi tutela. Per questi motivi i singoli ele comunità devono adoperarsi epromuovere con ogni mezzo la for-mazione di una coscienza dell’am-biente e del paesaggio sia da parte dichi ne fruisce, sia da parte di chi èincaricato di proteggerlo.

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Mia nonna di storie ne raccontava tante, fra unpunto dato con la macchina da cucire e unosguardo che si posava su di me passando tra il

taglio degli occhiali e il sopracciglio. Alcune le racconta-va cantando. Filastrocche o versi che avevano attraver-sato i campi nel periodo dell’ara, avvolto covoni, imbe-vuto fette di pane asciutto e della polvere calda delleestati monteromanesi avevano ancora l’odore.Tenendo in mano l’ago immaginavo di cucirmi addossoqueste storie: un mantello che da grande avrei indossa-to per affrontare mille avventure sulle tracce di queiricordi. Fra tutte, la leggenda di una caverna che conte-neva un carro tutto d’oro era la mia preferita.Camminando con lei nei pomeriggi di giugno, con losguardo sempre fisso a terra, erano le tracce del carroche cercavo. Antichi romani avevano costruito la lorocasa su quella che ora era la mia terra. Terra che genero-sa mostrava a tutti gloriosi o umili resti della loro storia.Terra polverosa, piena di sassi che rendevano scomodoil lavoro dei contadini e incerto il passo delle nonneverso gli orti. Sassi che vengono ora raccolti da pesantimacchine per costruire banchine al mare.Tutti, a Monte Romano, sono cresciuti convivendo con

reperti etruschi e romani, considerandoli come parte delterritorio o come fonte di arricchimento non propriolecito. Fu solo nel 1981, con la costituzione di un Gruppodi Ricerca, che si cominciò a tracciare i confini di unnuovo punto di vista: quello dell’indagine e della conser-vazione del patrimonio archeologico locale. Furono cen-siti ed esplorati siti variamente frequentati dalla proto-storia al medioevo. Con la ricerca di superficie si resenecessario ben presto individuare un luogo dove conser-vare e valorizzare i materiali che venivano rinvenuti perrendere fruibile il loro valore documentario. Così, l’annoseguente, venne inaugurato l’Antiquarium. A più di vent’anni di distanza, con tristezza si guardanogli escavatori sollevare imponenti massi a poche decinedi metri da gloriose ville romane. Con l’ansia che qualco-sa vada irrimediabilmente perso, ci si avventura su queiterreni sperando di vedere salve antiche mura e galleriemisteriose, mai esplorate. E la tutela di quei resti sembrafarsi sempre più urgente.Lo scorso anno un nuovo gruppo di appassionati hacostituito una sezione GAR locale, cercando di ridestarequel sentimento di protezione del patrimonio monumen-tale e archeologico, di trasmettere nuovamente l’amore

per la ricerca e la valorizza-zione di un territorio vissu-to superficialmente, i cuiabitanti non sembrano pre-occuparsi di una futuracentrale a carbone aCivitavecchia, o di un poli-gono militare che coprel’area più archeologicamen-te ricca di Monte Romano.Fra tutte, la leggenda di unacaverna che nasconde uncarro tutto d’oro è la miapreferita. Camminando oracon i miei amici, con losguardo sempre fisso aterra, sono le tracce delcarro che cerchiamo. E spe-riamo che altri ci seguanotenendo gli occhi aperti,perché la caverna nonvenga spazzata via da unapala meccanica.

Monte Romano

diPatriziaFiorucci

Camminando suitegoloni romani

Muro di una villa romana in località “Monumenti” a Monte Romano

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Montefiascone, come altripaesi del comprensorio vol-sinio, si adagia su un letto di

lapillo - retaggio dell’incandescenteorigine ctonia del territorio - e, comealtri paesi del comprensorio, hapagato il costo di questa natura conferite profonde, ancora testimoniateda imbarazzanti cicatrici. L’aggres-sione in questione è avvenuta neglianni a ridosso del boom economico,nel clima d’esaltazione che si respi-rava nell’emblematico periodo con-trassegnato dal ‘68. Le responsabili-tà del fatto affiorano dall’inevitabilepalleggio dialettico a cui le parti incausa si dedicarono per imporreall’opinione pubblica la verità o, piùesattamente, la loro personale inter-pretazione della realtà.

L’accusa

... Ciò che soprattutto piace e dà sicu-rezza è l’aspetto monolitico della col-lina su cui si erge Montefiascone. Da

qualche tempo, però, l’impressionedi solidità e l’armoniosa visione d’in-sieme sta venendo meno a causa diuna inopportuna quanto dannosacava di lapillo che con le spaccateche si sono dovute creare per annet-tere l’estrazione di tonnellate dimateriale, ha sfregiato e mutilato unodegli squarci più belli che offre ilpanorama nontefiasconese. Quel chepiù meraviglia è che l’Autorità, pre-posta alla salvaguardia dei paesaggisolitamente molto solerte nell’impe-dire distruzione o alterazioni dellebellezze naturali dei luoghi tutelati,lasci che si compia questo scempiosenza interventi di sorta. L’errore piùgrave l’ha compiuto, certo, chi hapermesso che venisse aperta unacava di lapillo proprio sotto le fonda-menta del paese; si sbaglia, però,ancora, permettendo che l’inopinataescavazione continui con pregiudiziograve per l’aspetto paesistico e,forse, per la stessa stabilità della cit-tadina [...] Nessuno contesta la legit-

timità della proprietà, ma è opinioneradicata nella coscienza di tutti cheanche lo sfruttamento della proprie-tà avendo una precisa funzionesociale trova un limite invalicabilenel bene e nell’utile comune. (“LaVoce”, settembre 1968)

La difesa

Con la presente ci piace chiarire unequivoco che tempo addietro hatratto in inganno anche la locale civi-ca Amministrane Comunale. Sappia,che la cava che Lei vede percorren-do la meravigliosa panoramica Lago-Montefiascone non è opera nostra;la medesima esiste da alcuni anni;essa fu eseguita dalla Ditta Cellubloce noi abbiamo rilevato il luogo comesi trova. Oggi, noi utilizziamo la stes-sa unicamente per ammassare e poicaricare il lapillo che rileviamo dallacava in coltivazione sul versanteopposto. Teniamo a precisare che inquella cava, posta sul retro e quindinon visibile dalla panorama; abbia-mo investito 15.000.000 dopo avereavuto tutti i necessari permessi dagliorgani competenti. Si tenga contoche dalla cava, dove estraiamo unmateriale primo per fare un manufat-to conosciuto ed apprezzato in tuttaItalia, traggono lavoro e quindi ilpane quotidiano 200 operai le lorofamiglie. La chiusura della cava, vor-rebbe dire gettare sul lastrico 200famiglie e non sono poche [...] Quin-di La preghiamo di non ostacolarcinel nostro lavoro ma di aiutarci; cosìfacendo farà del bene al prossimo...(“La Voce”, novembre 1968)

La replica

La considerazione che attualmentegli scavi si eseguono su fronte diver-so da quello iniziale, che gli impiantisono costati una cospicua somma,che da questa iniziativa traggonolavoro 200 operai (montefiascone-

Giancarlo BreccolaMontefiascone

Una cava di lapillo a ridosso del paese

In evidenza la zona dello scavo e uno dei frontidella cava come si palesa oggi

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si?), non sposta di un millimetro itermini del problema, che è squisita-mente di ordine sociale e collettivo.Non è lecito né consentito, ancheper comprovare esigenze attuali,pregiudicare o danneggiare il patri-monio di coloro che verranno [...] LaDitta F.lli Andrei, attuale concessio-naria della famigerata cava, escava,in forza di un decreto prefettizio,che, a quel che si dice, non esiste,ogni settimana circa 90 mc. di lapilloil che significa che procedendo suun fronte di 20 m., si mangia unafetta di panorama lunga m. 2 ognimese e poiché gli scavi vengono ese-guiti a terrazzamenti in pratica lefondamenta del paese vengono scal-zate per un’estensione ancora mag-giore e con pregiudizio paesaggisti-co ancor più evidente e provocante.Ma c’è di più: la strada dellaPalombara, sempre transitata dainostri agricoltori, nel suo tratto ini-ziale è stata soppressa perché il fron-te della cava la minacciava; è veroche è stata sostituita con altra cheha inizio dalla strada del Fuso, ma ilnuovo tratto è di proprietà dellaDitta, la quale a suo piacimentopotrebbe negare il transito agli uten-ti della strada pubblica. [...] Ma l’art.104 del D.P.R. 9/4/1959 n. 128, nonimpone che gli scavi a cielo apertovengano eseguiti a distanza non infe-riore a m. 10 dalle strade di uso pub-blico? La medesima legge non fadivieto di scavi a cielo aperto adistanza minore di m. 50 da acque-dotti? Nel nostro caso si raggiungel’assurdo di constatare che la cava èproprio sopra l’acquedotto tanto èvero che un tratto di esso è allo sco-perto, cosicché, in caso di frana, l’in-tero paese rimarrebbe senza acqua enon si sa per quanto tempo...(“LaVoce”, novembre 1968)

La scavo, comunque, proseguì peralcuni altri anni, e la “Ragione” riuscìa prevalere sulla “Regione” soltantonei primi anni ‘70, quando il permes-so fu revocato e la cava chiusa.

Di solito quando si parla di ambientee attività umane in senso lato, vienealla mente una serie di divieti. Si

sente dire: non bisogna fare questo, nonbisogna fare quello; difficilmente, anchefacendo esplicite domande, si riesce adottenere risposte su quello che si può oancor meglio si deve fare. Di solito ci sitrincera dietro posizioni assunte quasi perfede ed il confronto diventa molto difficile,se non impossibile. Si sente spesso direche il problema è molto complesso, ... cheè una problematica vasta e solo in parteesplorata; ... che la “scienza ufficiale” nondà le necessarie spiegazioni (chiaramentese queste non sono di nostro gradimento),ed a volte pur di non capitolare dallenostre posizioni ci si affida a qualche sco-nosciuto guru esotico, magari trovato suinternet (dove, è il caso di ricordare, tuttipossono affermare qualsiasi verità o pre-sunta tale senza essere sottoposti al con-trollo ed alla verifica delle loro affermazio-ni).Prendendo lo spunto da queste situazioni,semplificate e portate per esigenze di spa-zio quasi al paradosso, tenendo conto dellaveste divulgativa della Loggetta, proviamoa fare un esempio tra i molti di quello cheè possibile fare per mitigare l’impatto delnostro modo di vita sull’ambiente, e coniu-gare le esigenze di sviluppo con il rispettodella natura.Chissà quanti di noi andando in montagnaper le vacanze avranno notato su alcunipendii “muri” realizzati con tronchi d’alberoe si saranno domandati incuriositi qualefosse la loro funzione e la loro durata.Chiedendo ai residenti o osservando inmaniera approfondita, si viene a scoprireche si tratta di interventi volti a mitigare leconseguenze dell’azione antropica sul terri-torio, che vengono realizzati ormai da moltianni a questa parte. La loro maggiorepeculiarità consiste nell’utilizzo, anche, dimateriali “vivi” appartenenti all’ambientestesso; inoltre, sia la loro funzione che ladurata risultano comparabili con quelladelle opere tradizionali che siamo abituatiad osservare, normalmente realizzate incalcestruzzo.Le tecniche di consolidamento che utilizza-no anche le piante per la loro realizzazione

sono inquadrabili nell’ambito della cosid-detta ingegneria naturalistica. Questa pre-vede l’impiego di piante autoctone vive, oparti di esse, negli interventi di difesa delsuolo dall’erosione e di consolidamento ingenere, in abbinamento ad opere strutturalie di sostegno in materiali vari (paglia,legno, pietrame, reti metalliche, biostuoie,geotessuti, ecc.); in breve, si tratta dell’uti-lizzo delle piante come “materiale dacostruzione”.Le situazioni dove è possibile applicarequeste tecniche sono molteplici e spazianodall’erosione dei versanti, alle frane, allesistemazioni idrauliche, a quelle di reinseri-mento ambientale delle infrastrutture viarie(scarpate stradali e ferroviarie), al ripristinodi cave e discariche, alla protezione dellesponde dei corsi d’acqua, ai consolidamen-ti costieri, fino alla ricostruzione di elementidelle reti ecologiche. In breve, le tecnichedi ingegneria naturalistica (foto 1), attraver-

so l’uso di piante o di parti di esse svolgo-no funzioni idrogeologiche, naturalistiche epaesaggistiche, non dimenticando anchel’aspetto economico: 1) idrogeologiche,come il consolidamento di una sponda o diuna scarpata stradale, la protezione dei ter-reni dall’erosione provocata dagli agentiatmosferici, il miglioramento del drenaggio;2) naturalistiche, con il recupero di areedegradate e di ambienti naturali, promuo-vendo lo sviluppo di associazioni vegetalimediante l’impiego di specie autoctone; 3)paesaggistiche, di “reinserimento” nel pae-saggio naturale attraverso il minore impattoambientale delle opere costruite; 4) econo-miche, in quanto si tratta di interventicompetitivi ed alternativi alle opere tradi-zionali.Ma è proprio vero che solamente in monta-gna queste tecniche vengono o possono

di Luciano Papacchini

Come ridurre l’impatto ambientale? Niente di nuovo sotto il sole:nuove tecniche o riscoperta di antiche?

foto 1

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venire utilizzate, o anche neinostri territori hanno visto laluce esperienze di questo tipo?Per quanto riguarda gli inter-venti pubblici, da alcuni anni,la Regione Lazio consiglia efavorisce questo tipo di opere,anche mediante la realizzazio-ne di seminari e materialedidattico-illustrativo per addettiai lavori e non. Su questa sciaalcuni interventi realizzati conle tecniche dell’ingegneria natu-ralistica hanno iniziato a fare laloro comparsa nei dintorni, sol-lecitando anche l’interesse deiprivati cittadini e non solamen-te della pubblica amministra-zione. Osservando intorno anoi, si riesce a scoprire chedeterminati impieghi di mate-riali vegetali, magari non chia-mati con il nome altisonante diingegneria naturalistica (foto 2),

ma ugualmente finalizzati allaprotezione del suolo da feno-meni franosi e dall’erosione,venivano realizzati da sempreanche nelle nostre campagne,ma che da pochi decenni ven-gono invece visti come unqualcosa di inutile e stantio. Inquesto ambito si possono faredue esempi: 1) le canne messea dimora al bordo dei fossi,con la duplice funzione sia diconsolidamento delle spondeche di utilizzo, una volta taglia-te, nelle vigne; 2) l’utilizzo delletalee di sambuco, magari in

abbinamento con fascine nonappena queste avevano attec-chito, per consolidare i pendii eper trattenere i terreni al bordodegli orti o delle strade.Attualmente questa pratica, senon in sporadiche eccezioni,non viene più utilizzata ed èsempre più raro vedere questetalee messe a dimora per con-trastare la tendenza a franaredi piccole scarpate. Si preferi-sce al contrario intervenire conmuri, magari in calcestruzzo,che si ritengono “più robusti”,ma che al contrario, a secondadel substrato, per via della lororigidità finiscono per esseredanneggiati irrimediabilmentecon il conseguente annulla-mento della loro funzione,come nel caso della foto 3.Al contrario, per via della loro“elasticità” potrebbero essereproficuamente impiegate, peresempio, delle palificate inlegname e talee. Queste palifi-cate sono una sorta di “muro”realizzato con legname dicastagno o resinose, riempitocon terreno al cui interno ven-gono posizionate talee di piantead elevata capacità di radica-zione (salici, pioppi, sambuco,fico, ecc.) scelte a secondadelle piante presenti nell’area.Nel dettaglio si tratta di unastruttura costituita da livelli ditronchi sovrapposti e perpendi-colari tra loro a formare unagabbia di contenimento per ilmateriale di riporto ed il mate-riale vegetale vivo (foto 4).Viene utilizzata per consolidareversanti in erosione o per rico-

struire pendii e scarpate strada-li; infatti viene posta alla basedi queste contrapponendosi aldissesto con la sua massa;inoltre favorisce il drenaggiodelle acque.I vantaggi di questa soluzionesono la facile reperibilità delmateriale vivo da utilizzare, ilbasso impatto ambientale e laveloce realizzazione, che com-porta un rapido consolidamen-to esercitato prima dalla strut-tura, poi anche dall’apparatoradicale del materiale vivo chenel tempo andrà a sostituire illegname destinato a decompor-si. Quindi la durata non è datasolamente dal legname, maanche e soprattutto delle pianteinserite al suo interno.Gli svantaggi sono rappresenta-ti: dalla limitazione allo svilup-po in altezza, determinato dalle

caratteristiche strutturali e distabilità dell’opera (ma se iltipo di dissesto lo richiede e lamorfologia della zona lo con-sente, è possibile superare que-sto inconveniente realizzandopiù palificate a diverse altezzesul versante); da fattori quali ilperiodo di esecuzione dei lavo-ri, la tipologia del suolo, laluce, ecc.; dal periodo di ese-cuzione dei lavori, poiché letalee devono essere necessaria-mente inserite al suo internodurante il riposo vegetativo(rami senza foglie); dalla rego-lare manutenzione scaglionatanel tempo.Per concludere, è chiaro chenon tutti gli interventi possonoessere realizzati con tali tecni-che. E’ altrettanto vero peròche il loro impiego sia da partedel privato cittadino (perchéno?, magari ricominciando dalsuo piccolo orto) che dellapubblica amministrazione, puòportare degli innegabili vantag-gi nella mitigazione degliimpatti che tutti gli interventiantropici, volenti o nolenti,hanno sull’ambiente. Infatti,anche se le opere vengono rea-lizzate nell’ottica di uno svilup-po compatibile, non avrannomai un impatto uguale a zero;ma è possibile, oltreché dove-roso, mitigarlo, ponendo ancheattenzione alla scelta dellepiante da utilizzare per evitarel’impiego di specie vegetali nonpresenti nell’area di intervento(robinia, ailanto, ecc.).

foto 2

foto 3

foto 4

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di LuigiCimarra

Storie di parole, storia di cultura: alcune osservazioni sul lessico dei pescatori del lago di Bolsena

Lo scorso numero della Loggetta(interessante e bello comesempre) è stato dedicato,

come avviene ormai da qualche tem-po, ad un tema/argomento monogra-fico: il lago. Vi figurano numerosicontributi di vario genere (testimo-nianze, documenti, esperienze per-sonali, racconti e leggende, relazioni,poesie, riflessioni, proposte) legatiall’acqua, elemento primordiale emisterioso, di importanza vitale. Io,che mi considero terrigeno e terrico-lo come tutte le genti dell’Etruriainterna, con una ripulsa istintiva perla perigliosa acqua, ho ritenuto dinon dover inviare nulla. Ma, a letturaavvenuta, me ne sono pentito e cosìho deciso, seppure tardivamente, dirimediare alla manchevolezza conquesto intervento di carattere lingui-stico, anzi etimologico. Nel contem-po è mia intenzione tributare undoveroso omaggio alla memoria diun eminente studioso, scomparso di

recente, dedicandogli questa brevenota, che egli avrebbe senz’altro gra-dito, ma alla quale avrebbe, graziealla sua sterminata dottrina linguisti-ca, sicuramente replicato e contro-battuto. Intendo riferirmi al prof.Vincenzo Valente, che formatosiintorno agli anni ‘40 nell’ateneo pisa-no, ha sviluppato i suoi interessi dia-lettologici in varie direzioni, special-mente in senso filologico, critico elinguistico. Autore di numeroseopere, egli ha privilegiato nella sualunga attività soprattutto le ricerchesul lessico storico, sulla onomasiolo-gia, sulla etimologia, coniugandonella sua metodologia la sistematicaindagine sul campo con una rigorosaimpostazione teorica. Tra gli ultimilavori prodotti da questo infaticabilestudioso è da annoverare il saggio dietimologie intitolato “Cultura conta-dina e cultura pastorale nel lessicodei pescatori del lago di Bolsena”. Inesso vengono riprese e sviluppatealsune osservazioni, che furono pro-poste nell’ormai lontana giornata distudi tenutasi a Marta il 23 novem-bre del 1991, e si cerca di documen-

tare gli scambi linguistici intercor-renti tra i diversi tipi di culture -piscatoria, contadina, pastorale -determinando una vicenda che, purin forme, dimensioni e storie diver-se, si ripropone anche per i corredilinguistici degli altri laghi italiani.Viene preso in esame un esiguo cam-pione di 20 voci, tra le quali spiccainnanzi tutto l’ormai desueto mésta,‘tratto di lago concesso ai pescatoricon diritto esclusivo a mezzo di retea strascico’, del quale il prof. Valentericostruisce suggestivamente il per-corso a ritroso fino a giungere nelleremote contrade di Spagna. Vale lapena ricordare che la parola in que-stione riveste un notevole interesse:costituisce un elemento preziosoper conoscere sia la storia dei dirittidi pesca nel lago, sia la tecnica pisca-toria. Secondo la ricostruzione dellostudioso si tratterebbe di un ispani-smo, giacché in lingua spagnolamesta, nell’accezione di ‘diritto e pri-vilegio di pascolo’ in alcune provin-ce spagnole (Castiglia, Leòn, Estre-madura), indicava una sorta di soc-cida tra pastori e padroni di greggi.Dunque la voce, derivata dal latinomixta, ‘unione’, con esempi a partiredal secolo XVI, “rappresenta unesempio caratteristico di conversio-ne ed estensione di usi e termini giu-ridici dal mondo pastorale a quellodei pescatori”. A questo punto c’è dadire che, a parte il significato del ter-mine, che è stato recentemente conmaggior precisione chiarito dal prof.Antonio Quattranni di Bolsena,anche la soluzione etimologica pro-posta si presta ad obiezioni.Da parte mia ritengo preferibile l’ipo-tesi interpretativa che ne privilegial’origine, per così dire, ‘indigena’:per spiegare questa voce del lessicodei pescatori farei più volentieri rife-rimento ad un deverbale mésta, deri-vato dal participio passato mésto(da mettere), ancora oggi ampiamen-te diffuso nell’Alto Viterbese, secon-do un procedimento del tutto identi-co a quello della parola posta (da

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porre). La prima attestazione a menota per il Viterbese si rinviene neicapitoli della pesca sottoscritti nelnovembre del 1463 dai deputati dellecomunità di Montefiascone, Bolse-na, San Lorenzo, Grotte, Gradoli eMarta. In uno dei capitoli, che com-mina la grave pena di dieci ducatid’oro a chiunque impedisca la posadelle “reti maggiori” nelle acque dellago, si legge: “Qualunqua homopescatori o vero altre presumesseguastare o vero jmpedire alcuna me-sta de rithi magiuri con sassi e ceppio simile cose [...]”.Anche in ambito agricolo l’impiegorisulta abbastanza antico, comedimostra lo statuto degli ortolani diViterbo (anno 1486), nel quale lavoce assume il significato di ‘immis-sione del lino nelle piscine’ per la

macerazione degli steli: “[...] li duirectori della nostra compagnia [...]stiano (et) stare debano nel piano diBagni (con)tinuame(n)te, ad tenererascione (et) vedere le piscine (et)dare le meste a chi loro parrà”.Un altro termine, sulla cui etimolo-gia mi sembra sia difficile concorda-re, è jjùmmica, ‘sostanza vischiosasecreta dalle ghiandole della pelledelle anguille’, che lo studioso farisalire al latino gluma, ‘pula, pellico-la del grano, scoria’. Egli spiega mor-fologicamente la parola come undeverbale (nome derivato da unverbo) di un *glumicare col sensooriginario di ‘spulare, mondare ilgrano dalla pula’. Molto opportuna-mente nella parte introduttiva delsuo saggio il prof. Valente prevedevache il corpo dell’intera inchiesta lin-

guistica nei centri rivieraschi avreb-be potuto fornire altri esempi percompletare il quadro prospettato. Ineffetti, non si tratta di una voce iso-lata; già lo spoglio dell’edito ci con-sente di arricchire con altri apportila serie: dal recente studio “Il Ver-nacolo di Bolsena” (Sistema musea-le del lago di Bolsena, Quaderni n. 3,a c. di M. Casaccia e P. Tamburini,2005) ricaviamo il verbo pronomina-le jjumicasse, ‘sporcarsi, imbrattarsidi jjumica’ (pag. 67), e il volumetto“Grotte in pigiama”, pubblicato qual-che decennio fa dal compiantoEdoardo Ruggirello, restituisce l’ag-gettivo iumecoso, ‘appiccicoso’(pag. 39).In alternativa io avanzo una nuovaproposta, facendo riferimento ad unaltro ambito, ugualmente legato almondo agricolo tradizionale: inmolti dialetti viterbesi il trasudaredell’acqua dalle pareti fesse di unabrocca, orcio ed altro recipiente dicoccio o terracotta è detto umà, maqui siamo prossimi al confine con laToscana, nelle cui parlate all’italianogemere corrisponde il frequentativogeminare / gemicare (forme proprie,per esempio, del senese). C’è daaggiungere che nei dialetti centrali ilnesso iniziale ge- / gi- subisce oscilla-zioni con rese non rare in giu- e conulteriore processo di palatizzazionein jju-. Un caso del tutto analogo èrappresentato dal toscano giumella[dal latino gemella (manus)], ‘quanti-tà che può essere contenuta nelcavo delle due mani accostate’, chenelle parlate dell’orvietano diventajjummèlla (Montegabbione, Allero-na, Ficulle) o jjumèlla (Castel Gior-gio). E’ evidente che il trasudamentodella pelle dell’anguilla è concettual-mente simile a quello dell’acqua chetrapela dalle sottili crepe che si for-mano nello spessore delle brocche.Accessorio risulta, invece, il concet-to di ‘appiccitaticcio’, che può trova-re giustificazione nella vischiositàdella sostanza secreta dall’animale.

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Noi “gente acquatica”

Cara Loggetta, voglio dirti uncaloroso grazie per l’argomentotrattato nel numero di maggio-giugno: “Il lago nostro”;“attenzione tardiva”, come diceil direttore, ma... “meglio tardiche mai”! Ancora una volta seiriuscita a toccare le corde sotti-li del mio intimo; è bastato leg-gere i primi articoli perchéricordi e sensazioni affiorasseroimprovvisi. E’ la magia del lagoche ti prende, e, nel mio casoparticolare, un profondo lega-me affettivo con il paese; sonoimmagini, colori, profumi, can-zoni e storie raccontate chefanno parte del mio vissuto.Io sono nata a Capodimonte elì ho trascorso felicemente lamia infanzia e la mia giovinez-za, con l’azzurro dell’acquanegli occhi, con la tramontanasferzante che punge sulla pellee “giù per i Pioppi” ti spingeda portarti via. Anche l’umiditàfa parte del mio DNA, ma nonmi ha fatto mai paura: chi vivecon “i piedi a mollo” imparapresto a difendersene. Per noi“gente acquatica” (e lo dicocon un pizzico di orgoglio), illago è una malìa, è simbiosiarmonica che crea dipendenzaed appartenenza, ti fa sognaree ti innamora tanto da subirnequotidianamente il fascinoanche da lontano.Quando trentasei anni fa misono trasferita a Grotte diCastro, ho scelto, senza esita-zione, di abitare in una confor-tevole casa del centro storicoche mi permette di abbracciarecon lo sguardo quasi tutto il

periplo del lago, e non potevaessere altrimenti. Il lago lovedo dall’alto, in lontananza; inprimo piano ci sono i tetti diGrotte e poi le colline, ma ognifinestra aperta di casa mia èuna “veduta”, una cartolinasplendida dell’isola Bisentina,di Bolsena, Montefiascone eMarta, e il lago mi muta sottogli occhi insieme alle morbidecolline che lo circondano.D’estate mi abbaglia il turchinodell’acqua; d’autunno, quandoil verde del colle di Tojènaimpallidisce man mano cheavanza la stagione, anche illago si scolora; il grigio sfumatodell’inverno mi invita al riposoe favorisce le mie riflessioni;poi, a primavera, tutti i coloridella natura esplodono nell’ac-qua e... il mio lago è sempre làin fondo, pieno di fascino, adinnamorarmi e a sorprendermitra incredibili sensazioni diarmonia e di serenità. E chedire delle notti di luna, quandouna striscia d’argento a pelod’acqua lega come un nastrosottile le mille luci dei paesirivieraschi? Allora il lago ticalamita e ti ci vorresti tuffaredentro.Quando torno a Capodimontemi fermo spesso al “Cantone”(il largo di fronte al porto) e misiedo a guardare e riguardarequella manciata di case messecon maestria su un lembo diterra che s’incunea nell’acqua eche termina con un ciuffo diverde rigoglioso (per noi capo-dimontani è la Pontonata):l’occhio si appaga, io mi riap-proprio della mia storia e sentoforte l’orgoglio delle mie radicilacustri.

Teresa Moschini