L Cu C ni a d e i Ta b a r C h i n i - HIERACON.it · punto Sergio in questo libro, e ha...

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LA CUCINA DEI TABARCHINI Le immagini utilizzate sono state gentilmente concesse da: Civica Biblioteca Berio di Genova, Secondo Borghero, Nicolo Capriata, Lorenza Garbarino, Antonio Marani, Museo Navale di Genova-Pegli, Nicolo Pomata, Sergio Rossi Direzione e coordinamento editoriale Fabrizio Fazzari Impaginazione e progetto grafico Marco Fiorello Redazione Fabrizio Fazzari, Marco Fiorello Stampa Grafiche G7 Sas per Sagep Editori Srl, ottobre 2010 In copertina L’isola di Tabarca in una veduta di anonimo della seconda metà del XVII secolo (elaborazione grafica da), olio su tela, per gentile concessione del Museo Navale di Genova-Pegli © 2010 Sagep Editori - www.sagep.it ISBN 978-88-6373-099-9 Sergio Rossi storie di cibo mediterraneo fra genova, l’africa e la sardegna A mio padre Municipio VII Genova Ponente Comune di Carloforte Comune di Calasetta

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La CuCinadei TabarChini

Le immagini utilizzate sono state gentilmente concesse da: Civica Biblioteca Berio di Genova, Secondo Borghero, Nicolo Capriata, Lorenza Garbarino, Antonio Marani, Museo Navale di Genova-Pegli, Nicolo Pomata, Sergio Rossi

Direzione e coordinamento editoriale Fabrizio FazzariImpaginazione e progetto grafico Marco FiorelloRedazione Fabrizio Fazzari, Marco FiorelloStampa Grafiche G7 Sas per Sagep Editori Srl, ottobre 2010

In copertina L’isola di Tabarca in una veduta di anonimo della seconda metà del XVII secolo (elaborazione grafica da), olio su tela, per gentile concessione del Museo Navale di Genova-Pegli

© 2010 Sagep Editori - www.sagep.itISBN 978-88-6373-099-9

Sergio Rossi

storie di cibo mediterraneo fra genova, l’africa e la sardegna

A mio padre

Municipio VII Genova Ponente

Comune di Carloforte

Comune di Calasetta

prefazione“Cosa ci faccia quella gente in Sardegna lo sanno in tanti e in pochi, molti sanno che è gente di origine genovese ma pochi ne conoscono davvero la storia”, scrive a un certo punto Sergio in questo libro, e ha perfettamente ragione: anche perché delle comunità tabarchine ultimamente si parla molto, spesso a vanvera. Per certi “genovesi” poi, Carloforte e Calasetta sono diventate una specie di icona, e i loro abitanti gli strenui depositari di tradizioni, suoni, saperi, sapori che i genovesi, dopo averli buttati nella spazzatura, adesso rimpiangono e si commuovono a ritrovare “intatti” a qualche centinaio di chilometri verso sud. Ed è una bella comodità, tutto sommato: dal punto di vista di chi sta sotto la Lanterna, le tradizioni, la lingua, la cucina e quant’altro vivono là come per procura. Ogni tanto qualche presidente assortito di enti locali liguri, associazioni culturali e quant’altro ci fa un salto, ne certifica l’esistenza in vita, mangia un po’ di tonno, dà due pacche sulle spalle, sottoscrive un gemellaggio e se ne torna a casa tutto contento. Il “genovese medio” che ci va in vacanza, poi, sente parlare una lingua che non ha saputo trasmettere ai propri figli e trova da ridire sulla qualità del pesto: così se ne torna a casa tutto contento anche lui, perché è vero che “quelli là” hanno mantenuto la lingua, hanno anche delle belle spiagge se vogliamo, ma per il resto, vuoi mettere! Quanto ai Tabarchini, devono essersene accorti e, giustamente, ci “marciano” sopra: da po-polo di mercanti quali sono sempre stati, sanno che la pubblicità è l’anima del commercio, di commercio (anzi, di turismo) ora essi vivono, e su questo andirivieni di pegliesi in cerca di “radici” e di autoassoluzioni identitarie non è mica il caso di sputarci sopra… Sono pochi quelli che, come Sergio Rossi, approdano a Carloforte e a Calasetta per cercare di capirne qualcosa, e che riportano a casa qualcosa di più che la banale sensazione di un “tuffo” in un passato che non hanno mai vissuto e che non è mai esistito. Quei pochi sanno anzitutto che le comunità tabarchine non rappresentano per niente il “passato” della Geno-va (e tanto meno della Pegli!) di oggi: hanno abbastanza buon senso da rendersi conto che non stanno visitando una specie di museo o di bazar delle cose perdute, ma paesi autentici,

LA CUCINA DEI TABARCHINI PREFAZIONE

La storia

Cucina tabarchina

Il tonno

I dolci

Il vino

Per concludere

Ricette

Bibliografia

Ringraziamenti

indice

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Superata la prima fase di piacevole stupore sono comin-ciate le domande: cosa rimane davvero della cultura ge-novese? E il cibo? Quali piatti hanno attraversato il tempo? Insomma il cervello mi fumava e non c’era verso di farlo smettere. Per fortuna un caro amico genovese – Fiorenzo Toso – profondo conoscitore della cultura tabarchina e as-siduo frequentatore di quelle comunità, mi aveva segnala-to alcune persone del posto che poi contattai. Da lì cominciai a capire, e più capivo più mi veniva voglia di sapere. E ovviamente le mie curiosità si orientarono verso il cibo, verso la cucina locale, i prodotti agricoli, il tonno. Così si aprì un altro mondo, infinito, grandioso, smisurato nella sua semplicità. Un mondo di rapporti commerciali e umani con gente di altre culture. Un mondo di contatti e influenze che hanno prodotto una cultura alimentare singolarissima, forse unica, per capire la quale occorre tracciare un minimo di storia delle vicende che queste co-munità hanno affrontato.

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7. Scorci del centro di Calasetta.8. Fioriture primaverili a Carloforte.

9. Veduta della costa vicino a Carloforte, unico centro abitato

dell’Isola di San Pietro (arcipelago del Sulcis).

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Per un genovese il termine scucuzù oggi identifica un formato di pasta secca – cilindretti del diametro di 4/5 millimetri e di altrettanta lunghezza – utilizzato nel classico minestrone di verdura. Per i tabarchini, invece, è una pasta fatta a mano ricavata dalla lavorazione della semola e impiegata per le minestre di ceci e fagioli e per un piatto a base di crostacei definito pilau.Come detto, lo scucuzù si fa adottando lo stesso procedimento di preparazione del cascà, ma prolungando la lavorazione della semola fino ad ottenere piccole sferette che poi si metteranno ad asciugare all’aria o al sole.Una rapida esplorazione su alcuni testi antichi porta a constatare che al termine scucuzù – scritto in modi diversi – nel tempo sono stati attribuiti parecchi significati. Qui sotto riporto alcune citazioni in modo che ciascuno possa valutare da sé. La questione è davvero spinosa.

Sogliono ancora mangiare carne bollita, e insieme cipolle e fave; oppure l’accompagnano con un altro cibo, detto da essi cuscusu [riferito ad una zona interna del Marocco prima del 1518 NdA].…ma il verno mangiano carne allessa, insieme con quella vivanda che è detta cuscusu, la quale si fa di pasta, come i coriandoli, e lo cuocono in certe pignatte forate per ricevere il fumo d’altre pignatte, di poi vi mescolano dentro butirro, e lo bagnano di brodo [riferito alla città di Fez, in Marocco, prima del 1518 NdA].

Al Hassan Ibn Muhammad al Wazzan al Fasi, conosciuto anche come Giovanni Leone l’Africano (1485 – 1554), Della descrizione dell’Affrica [relativa ai viaggi effettuati prima del 1518 NdA], in: Giovambattista Ramusio (1485 – 1557), Il viaggio di Giovan Leone e le navigazioni di Alvise da Ca da Mosto, di Pietro di Cintra, di Annone, di un Piloto Portoghese e di Vasco de Gama quali si leggono nella raccolta di Giovambattista Ramusio – Venezia, 1837

Per fare una vivanda di semolella con diverse altre materie alla moresca, chiamata SucussuBartolomeo ScappiOpera, dell’arte del cucinare, Venezia 1570

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da 37 a 40. Immagini di scucuzù prodotto a macchina

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13. La cUrioSa Vicenda deLLo ScUcUzù

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Il filone delle farinate comprende anche la panissa, sorta di polenta di farina di ceci anch’essa fortemente radicata nella tradizione alimentare genovese e ligure. Una volta pronta, ovvero ridotta alla consistenza di una polenta, la panissa viene versata dentro piatti fondi a raf-freddare. Infine viene tagliata a pezzetti per essere condita in insalata, saltata in padella oppure fritta a listarelle de-nominate panissette, eccellenti se mangiate come aperiti-vo e stuzzichino, o in mezzo a un panino o ad una focac-cetta, come si fa a Savona.Questo settore della cucina, che a Genova è tipico del-le sciamadde e dei negozi di torte e farinate, include fra l’altro il capitolo che riguarda le verdure ripiene e le torte pasqualine.Le cipolle ripiene occupano un posto di rilievo nella cucina tabarchina e sono preparate in un modo piuttosto singo-lare, almeno confrontandolo con quello genovese. Dopo aver sfogliato e riempito le brattee della cipolla con un miscuglio a base di verdura, uova, formaggio e erbe aromatiche, si friggono in padella per poi metterle in cas-seruola ultimando la cottura in salsa di pomodoro. Fino alla frittura siamo in parallelo con il metodo antico adottato a Genova. Infatti, in questo modo le verdure ripiene si po-tevano cuocere direttamente per strada, vendendole così, in diretta, ai passanti. Della successiva stufatura in casse-ruola, invece, non ci sono più tracce salvo in poche aree dell’entroterra dove questa pratica rimane ancora viva.

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90. Panissa.

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Iniziando questa ricerca, stimolato soprattutto dalle forti analogie fra la cucina tabarchina e quella ligure, ho sem-pre mantenuto la stessa rotta, sulla scia delle due culture alimentari e alla continua ricerca di punti di contatto. Alcuni fra questi, tipo la farinata, la panissa o le verdure ripiene, mi hanno portato nell’ambito dei più popolari cibi di strada genovesi e da lì è nata spontanea una do-manda: i tabarchini fanno le torte di verdura?

La risposta è sì, le conoscono e le fanno in casa, ma la loro analoga specialità è il præve, cioè il prete.Il nome è quantomeno singolare e sono convinto che non sia del tutto casuale anche se, nonostante le ricer-che e le indagini, non mi è stato possibile scoprirne le origini né le motivazioni. Il præve è una specie di torta salata simile alla versione più classica genovese, cioè con il ripieno formato da bie-tole e formaggio fresco. Pare non sia legata ad una ricorrenza particolare ed è un piatto veloce e semplice che a volte aiuta a risolvere il consueto problema di “cosa fare da mangiare”. Si fa con bietole, ricotta, uova, sale, maggiorana e un pizzico di spezie, che qui chiamano saporita, dal nome di una miscela preconfezionata. Oggi il præve si cuoce in forno, mentre in passato spes-so si “sottestava”, impiegando i due tegami con la brace sotto e sopra, come spiegato poc’anzi.

38. U præVe

91, 92. U præve.

Intraprendere l’impresa di scrivere un libro sulla cucina ta-barchina è in qualche modo un atto di presunzione: lo cre-do sul serio. Non parliamo, poi, dell’argomento “tonno”, che trovo davvero arduo sviluppare in modo chiaro e sintetico. Per tentare di farlo al meglio ho cercato libri, documenti e testimonianze, provando ad individuare il corridoio luminoso che guidasse il racconto. Qualcuno mi aveva parlato di una interessante tesi di laurea presentata da una studentessa di Calasetta. Chiedendo un po’ in giro non fu difficile rintracciare la sua famiglia. Mi recai allora nel negozio del signor Parodi, padre di Angela, l’autrice della ricerca. Fui subito accolto con molta cortesia anche perché, condividendo l’amicizia di Gio-vanni Rebora, u Prufessù, l’approccio fu assai agevolato. Il mio scopo era quello di consultare e studiare la tesi sul ton-no, per apprendere qualcosa di interessante soprattutto in relazione alle ricette di cucina e ai racconti dei testimoni che avevano lavorato in tonnara. La difficoltà stava nel riuscire a parlare con la dottoressa Parodi, la quale, non vivendo più a Calasetta, era piuttosto difficile da contattare. La fortuna volle che in occasione di una telefonata alla mamma – che Rebora mi descriveva come cuoca eccellente – trovai Angela a casa, in visita ai genitori. Sapevo che la tesi non era mai stata pubbli-cata e sapevo anche che di un tale lavoro, probabilmente, l’au-trice avrebbe voluto, prima o poi, pubblicare almeno un estrat-to. Ciò suggeriva una notevole cautela nel cercare di spiegare alla dottoressa Parodi le mie intenzioni, ovvero la volontà di consultare la tesi ed eventualmente citarne alcune parti.

In effetti Angela Parodi fu molto gentile e disponibile. Ci parlammo al telefono e dopo averle illustrato il mio pro-getto e ottenuto il suo assenso ad avere la tesi, per una serie di fortuite coincidenze, passata neppure una settimana ne avevo già in mano una copia. È davvero un bel lavoro, chiaro e puntuale nell’inquadramen-to storico e molto interessante nella parte delle interviste ai tonnarotti e nelle ricette di cucina.Ciò che più mi ha colpito è la sensibilità con la quale è stata condotta la ricerca, studiando ed esponendo la parte storica, certo, ma accostandola ad un autentico spaccato di vita quo-tidiana affidato direttamente alle voci degli anziani locali.Sono loro, stimolati dalle domande di Angela, a parlare in prima persona dei trascorsi in tonnara, dell’ impiego stagio-nale nella lavorazione del tonno e dei legami con quella vita di mare che ogni primavera riproponeva le stesse gioie, le stesse incognite e purtroppo, per un certo periodo, le stesse delusioni dovute ad una penosa vicenda di inquinamento ambientale che, fra le altre, ebbe anche la terribile respon-sabilità di allontanare quella straordinaria e attesa risorsa rappresentata dai tonni. Nei racconti degli intervistati c’è gioia, la gioia di chi ha vis-suto una stagione di lavoro e di fatica sapendo apprezzarne gli aspetti positivi: due o tre mesi di salario certo, l’assisten-za medica gratuita per tutta la famiglia dal primo maggio fino a tutto dicembre, gli assegni familiari e i versamenti dei contributi per la pensione [Angela Parodi, intervista ad A.R.]. E poi qualche beneficio in natura: quando la mattanza era stata abbondante, ci davano sempre un po’ di tonno (2-3 kg). Quando stivavamo il tonno, un po’ di provvista di scabeccio la facevamo sempre [Angela Parodi, intervista a P.F.]. Infine diversi momenti di festa condivisi con i compagni di lavoro: di sera, dopo aver finito di mangiare, giocavamo a carte […] era un divertimento scherzarci e farci dispetti a vicenda. La-vorare in tonnara significava che quell’uomo, che a Calasetta era sempre stato considerato per bene, pacato e dedito alla famiglia, quando prendeva la via del mare per raggiungere la tonnara, perdeva la sua dignità. S’intende in senso buono! Non era più l’uomo che era a Calasetta, perché di norma un uomo grande, non fa dispetti per ridere. …Era proprio un di-vertimento! [Angela Parodi, intervista ad A.R.].

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46. ViTa di Tonnara

Giovanni ReboraGiovanni Rebora (Genova nel 1932, Genova 2007) è stato professore di Storia Economica e di Storia Agraria Medievale e direttore del Dipartimento di Storia Moderna e Contemporanea dell’Università di Genova.

Durante la sua lunga carriera ha collaborato con alcuni fra gli storici più importanti del XX secolo (Fernand Braudel). Ha condotto studi e ricerche sulla storia dell’alimentazione e scritto importanti pubblicazioni come La cucina medievale italiana tra Oriente e Occidente (Genova 1992), Colombo a tavola (Savona 1992), La civiltà della forchetta (Roma-Bari 1998) e La cucina dei papi Della Rovere (Savona 2003).

È stato presidente del Conservatorio delle Cucine Mediterranee e ha studiato in profondità la storia della cucina mediterranea, sia sotto il profilo economico, sia sotto il profilo enogastronomico. È riconosciuto come uno dei massimi studiosi di storia dell’alimentazione in Europa.

104. Tonno di trecento chili.

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A Carloforte c’è una pasticceria che fa dolcetti identici agli attuali canestrelli del Genovesato. Se però si chiede una confezione di canestrelli, si vie-ne serviti con le ciambelle di cui abbiamo parlato prima; per ottenere i dolci a forma di fiore bisogna chiedere le rusette (rosette). Riflettendo su questa stranezza, in un primo momento pensai che avrebbe potuto rappresen-tare la corretta chiave di lettura per definire la questio-ne canestrelli a fiore o a ciambella, ma nulla da fare: a Genova niente rusette. Tuttavia a Borzonasca, piccolo paese della valle Sturla, nell’entroterra ligure, a circa cinquanta chilometri da Genova, si fa un dolce tradizionale a forma di fiore, esat-tamente identico ai canestrelli, chiamato però ruetta (ro-tella). E qua e là, nel Genovesato, capita ancora di sentir chiamare ruette i canestrelli.Alla fine, perciò, la questione di uno stesso nome per diversi prodotti si complica tremendamente e rischia di diventare solo un’inutile esercizio intellettuale. E se per caso si decide di allargare l’interrogativo alle regioni limi-trofe, è ancora peggio. Basti pensare ad alcuni canestrelli del vercellese, che sono cialde, oppure ai canestrelli corsi, che sono dolcetti rettangolari.Tornando in Liguria, io credo che i canestrelli “originali” siano quelli tabarchini e gli altri siano davvero ruette o tal-volta rusette, intese come rosette, ovvero simboli araldici riferiti alla rosa a cinque petali con bottone centrale.

Come, quando e perché i primi siano spariti dalla circolazio-ne lasciando spazio e nome ai secondi, non saprei proprio dirlo, ma ho l’impressione che si sia trattato di qualcosa accaduto nel secolo scorso, e non nei primissimi anni.Certamente il problema non è tanto quello di individua-re una data di morte dei canestrelli vecchia maniera o determinare la nascita degli altri, quanto, piuttosto, ca-pire perché, come e quando si sia verificato il passaggio dagli uni agli altri. Ma dato che questo libro avrebbe la pretesa di occupar-si della sola cucina tabarchina, rimanderò l’indagine ad un’altra occasione, magari dopo aver ulteriormente ap-profondito la questione.

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53. rUeTTe, rUSeTTe e caneSTreLLi

Una ricetta storica genoveseCiambelle (Canestrelletti) di pasta di mandorle:Prendete tre ettogrammi di mandorle, mettetele in molle, sbucciatele e pestatele in mortaio affinché divengano una pasta aggiungendovi poco per volta duecento grammi di zucchero e tre cucchiaini di fior d’arancio e formatene le ciambelle, mettetele in tegame unto leggermente, indi ponetelo al fuoco, pochissimo di sotto e molto di sopra, osservandole frequentemente, appena avranno preso un bel colore d’oro toglietele, bagnatele leggermente alla superficie di sciroppo e spargetevi sopra semenzina confettata (semensetta). [G. B. e Giovanni Ratto, La Cuciniera Genovese ossia la vera maniera di cucinare alla genovese Genova, 1863]

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128. Rusette.

Quest’elenco è stato pubblicato nel 1838 ed è il frutto del-le ricerche effettuate dal professor Giuseppe Giacinto Moris (1796 – 1869), piemontese, medico e botanico, il quale per un periodo lavorò a Cagliari e lì condusse i suoi studi botanici. Riporto integralmente la parte dedicata alle uve perché credo sia molto interessante per fissare nel tempo le più importanti varietà coltivate.

1. Uve ad acini rossicci o neri, rotondi.amabilis – Nascu. Delle migliori: il vino è conosciuto sotto ugual nome.abundans – Nuràgus. Di estesa coltivazione.rubella – Rosa. Uva da tavola. suavis – Girò. Serve ancora essa per tavola; il vino, d’ugual nome, è molto amabile.nectarea – Monica. Il vino monica è stimato aver il vanto sopra tutti i vini sardi.affinis – Bovàli. Simile al precedente e vi hanno due sorta. Il Bovàli mannu ha gli acini più grossi ma eziando più rari, e siccome di solito mette troppi pampini, è meno coltivato.nigra-mollis – Niedda-moddi.præstans – Cannonau. Dà vino eccellente e ricercato.nigra-vera – Niedda era. infectiva – Zinzillosu (Le Teinturier Roz. Dict. agric. X, p. 178, tab. 9).coacervata – Merdulinu. Uva da tavola.

2. Uve ad acini rossicci o neri, bislunghi.

trifera – Axina de tres biàs; Axina de tres bortas. Vite da pergola.jucunda – Apesorgia niedda. hierosolymitana – Axina de Gerusalem.Tutte e tre queste sorta d’uve servono per le mense.

3. Uve ad acini bianchi, bislunghi.cucumerina – Corniola (Cornichon blanc Duh.)mammillaris – Tita de bacca. serotina – Axina de Angiulus.latifolia – Galoppu.laxissima – Apesorgia bianca.Isidori – Muscatellò; Muscateglio.(Muscat d’Alexandrie; Passe longue musquée Duh.). Vite da pergola. Queste tre ultime sorta forniscono uve da tavola.

4. Uve ad acini bianchi, rotondi.generosa – Muscadeddu (Muscat blanc Duh.) Il vino Muscàu che se ne trae è dolcissimo.malvatica – Malvasia.austera – Varnaccia; Carnaccia. Vino amaro ed aspretto ma gra-dito al palato; contiene minor dose di alcool.læta – Semidànu. Acini piccioli ma dolci e sugosi.acidula – Manzèsu. Acini piccioli duri, agretti.speciosa – Arremungiau. Il nome latino le venne imposto a moti-vo de’ grossi suoi acini.inæqualis – Sarravèsa. Fornisce il vino che porta questo nome.robusta – Arbumannu. Primaticcia e gradita alle tavole.decolor – Bianchedda.pellucens – Arrettallau Le bucce degli acini sono di una straordi-naria sottigliezza.

Quest’elenco, come avverte l’autore [chi scrive cita il Moris NdA], è ben lungi dal comprendere tutte le uve sarde, altre molte essendovene, massime nelle parti setten-trionali dell’isola, delle quali per ora non poté dare un’esatta descrizione; di questo numero è la Bariadorgia del territorio di Sassari, uva primaticcia e saporitissima; nep-pure vi manca il Muscat noir, del Duhamel (Muscadeddu-nieddu dei Sardi), ma viene piantato in pochissimi siti.[G. G. Moris, Flora Sardoa… Torino, 1837 in: “Biblioteca Italiana o sia Giornale di Let-teratura, Scienze ed Arti compilato da varj Letterati”, tomo LXXXIX – Milano, 1838]

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56. Le UVe Sarde neL 1838

vitis vinifera

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VITI DA PERGOLA}

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Lessare in acqua della bottarga di tonno fresca, scolarla e ripulirla dalle impurità.In una padella mettere dell’olio extravergine d’oliva, aglio, pomodorini freschi, un’acciuga salata e saltare leggermente. Aggiungere poi le uova di tonno lessate e pulite, un po’ di prezzemolo e sfumare con della vernaccia. Scolare la pasta molto al dente e aggiungerla al composto in padella. Far saltare per ultimare la cottura.

Vino consigliato Bianco Funtanaliras

Solitamente la bottarga si degusta dopo essere stata salata ed essiccata. In questa preparazione, tuttavia, esprime un sapore fresco e delicato. Le uova di tonno fresche si trovano nel periodo primaverile quando questi pesci intraprendono la loro lunga migrazione che talvolta termina in tonnara.

Ingredienti per 4 persone

350 g di spaghetti

150 g di bottarga fresca di tonno (uova di tonno)

olio extravergine d’oliva qb

aglio a piacere

12 pomodorini freschi

1 acciuga salata

1 ciuffetto di prezzemolo

Vernaccia qb

Ristorante L’Oasivia Gramsci, 59Carloforte

In un tegame di terracotta mettere dell’olio e la mezza cipolla affettata; lasciare appassire e aggiungere le fave secche (non vanno messe a ba-gno!). Fare imbiondire e aggiungere la maggiorana, i pomodori schiac-ciati, le zucchine a pezzi, le due foglie di basilico.

Quindi dosare il sale e aggiungere dell’acqua lasciando cuocere per cir-ca tre ore a fuoco lento e mescolando di frequente affinché il composto non si attacchi al fondo del tegame. A fine cottura aggiungere due foglie di basilico. Servire con un filo d’olio e crostini di pane.

La bobba ricorda le minestre di lunga cottura, piatto classico della cuci-na popolare. E le fave secche, in particolare, comparivano già fra i pro-dotti normalmente consumati dai corallatori liguri.

Ingredienti per 4 persone

500 g di fave secche

½ cipolla

olio extravergine sardo qb

4 foglie di basilico

1 rametto di maggiorana fresca

2 zucchine verdi

2 pomodori perini

sale qb

crostini di pane a piacere

Ristorante Da Andrea, Osteria della tonnaracorso Battellieri, 36

Carloforte

SpaGHeTTi aLLa BoTTarGa di Tonno freSca(ricetta del ristorante “L’Oasi”)

BoBBa: SUpreMa di faVe SeccHe

(ricetta del ristorante “Da Andrea, Osteria della tonnara”)