L. Bro wn - Piano B 4.0

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1 titolo originale Plan B 4.0 - Mobilizing to save civilization Copyright © 2009 by Earth Policy Institute Edizione italiana a cura di Gianfranco Bologna Realizzazione editoriale Edizioni Ambiente srl Realizzazione versione italiana online ed integrazione multimediale Dario Tamburrano Coordinamento gruppo di traduzione versione italiana Dario Tamburrano

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MobiIitarsi x Salvare Ia CiviIta'

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titolo originale Plan B 4.0 - Mobilizing to save civilization Copyright © 2009 by Earth

Policy Institute

Edizione italiana a cura di Gianfranco Bologna Realizzazione editoriale Edizioni

Ambiente srl

Realizzazione versione italiana online ed integrazione multimediale Dario Tamburrano

Coordinamento gruppo di traduzione versione italiana Dario Tamburrano

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Traduttori

Alina d’Amelia, Debora Billi, Stefania Bottacin, Pietro Cambi, Giusy Campo, Riccardo

Deliziosi, Erica Giuliani, Chiara Righele, Deborah Rim Moiso, Dario Tamburrano, Ascanio

Vitale

Immagine di copertina © ALNOOR/Shutterstock Coordinamento redazionale Anna

Satolli, Diego Tavazzi

Progetto grafico GrafCo3 Milano Impaginazione versione cartacea Roberto Gurdo

© 2010, Edizioni Ambiente - via Natale Battaglia 10, 20127 Milano tel. 02.45487277, fax

02.45487333

Finito di stampare nel mese di aprile 2010 presso Genesi Gruppo Editoriale – Città di

Castello (Pg). Stampato in Italia – Printed in Italy. Questo libro è stampato su carta riciclata

100%. Edizioni Ambiente è tra gli editori italiani che nella scelta della carta adottano

comportamenti responsabili nella recente classifica di Greenpeace.

i siti di edizioni ambiente: www.edizioniambiente.it - www.nextville.it - www.reteambiente.it -

www.verdenero.it

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L'autore: Lester Brown

Lester R. Brown è presidente dell‟Earth Policy Institute,

un‟organizzazione non profit e interdisciplinare, che ha sede a Washington D.C., fondata nel maggio

2001 insieme a Reah Janise Kauffman. Lo scopo dell‟Earth Policy Institute è l‟elaborazione di un

piano per salvare la civiltà e di individuare il percorso per raggiungere quest‟obiettivo.

Brown è stato definito dal Washington Post come “uno dei pensatori più influenti del mondo”. Il

Telegraph di Calcutta lo ha indicato come “il guru del movimento ambientalista”. Nel 1986, la

Biblioteca del Congresso ha richiesto i suoi scritti per i suoi archivi.

Circa 30 anni fa, Brown contribuì alla definizione del concetto di sviluppo sostenibile, un‟idea che è

alla base del suo progetto di eco-economia. È stato fondatore e presidente del Worldwatch Institute

per i primi 26 anni. Nel corso della sua carriera, iniziata con la coltivazione dei pomodori, Brown è

stato autore e co-autore di numerosi testi e gli sono state conferite 24 lauree honoris causa. I suoi

libri sono stati tradotti in più di 40 lingue.

Brown è membro della Fondazione MacArthur e destinatario di innumerevoli premi e

riconoscimenti, fra i quali nel 1987 il Premio per l‟ambiente delle Nazioni Unite, nel 1989 la

medaglia d‟oro per la natura del WWF e nel 1994 il Premo Blu Planet per “gli eccezionali contributi

alla risoluzione dei problemi ambientali”. Nel 1995, in occasione della cinquantesima edizione del

Who‟s Who, Lester Brown venne selezionato come uno dei 50 americani più importanti.

Recentemente gli è stata conferita una medaglia dal Presidente della Repubblica Italiana e il

Borgström Prize dalla Royal Swedish Academy of Agriculture and Forestry; è stato anche nominato

professore onorario presso la Chinese Academy of Sciences. Vive a Washington D.C.

Prefazione a Piano B 4.0 (di Loretta Napoleoni)

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"Per chi non si rende conto di quanto sia seria l‟emergenza ambientale basta ricordare come si é

disintegrata la civiltà che intorno all‟anno mille si era insediata nell‟Isola di Pasqua. Le due tribù che

si contendevano il potere combattevano una guerra assurda con lo scalpello. Le gigantesche statue

disseminate nell‟isola ne sono la testimonianza. Per costruirle la popolazione tagliò tutti gli alberi

che ricoprivano l‟isola, un tempo lussureggiante. Questi servivano da combustibile per le fornaci che

alimentavano le miniere dove estrarre la pietra, per costruire le corde ed i tronchi con i quali

trascinare le statue e per liberare terreno dove poter coltivare i cereali che servivano ad alimentare

l‟esercito di persone che lavorava giorno e notte alla costruzione delle statue. Finché un giorno ci si

accorse che non c‟erano più alberi, che il clima era cambiato e che l‟isola si era trasformata in un

inferno in mezzo al Pacifico. Senza legno con cui costruire imbarcazioni e navi la popolazione era

intrappolata nell‟isola che distava giorni e giorni di navigazione da qualsiasi altra isola o dalle coste

dell‟America latina.

Nel giro di qualche anno, per alimentarsi i sopravvissuti divennero cannibali. Questo lo scenario

apocalittico descritto in "Collasso" da Jared Diamond e che Lester Brown ci fa magistralmente

intravedere nelle pagine del suo libro. Se il Piano B, il canovaccio del salvataggio ambientale del

pianeta e della nostra esistenza, non viene implementato immediatamente, questo è ciò che ci aspetta.

Il parallelo con l‟emergenza della Seconda Guerra mondiale quindi ben si adatta alla serietà del

problema. Come allora la nostra civiltà è minacciata da un potere occulto, irrazionale e distruttivo

che oggi si chiama annientamento dell‟ambiente. E come allora è difficile visualizzare un mondo

senza „ambiente', arido, o gelido perché contro la natura umana. Come pochi nel 1940 riuscivano a

credere all‟esistenza della „soluzione finale' di Hitler, così oggi pochi intravedono nella quotidianità

della nostra esistenza le fondamenta della distruzione finale del pianeta Terra. Ma sperare in una

Pearl Harbour ambientale è troppo rischioso, meglio invece agire subito e mettere in piedi un

programma di cambiamento sociale “a sandwich”, nel quale un potente movimento dal basso spinge

per mutamenti in un particolare aspetto e una forte leadership politica dall'alto che lo appoggia

pienamente.

Paradossalmente il problema maggiore oggi non è la mobilitazione dal basso, ma riuscire a

convincere i politici ad agire subito e con decisione. E forse il modo migliore per scuoterli

dall‟apatia ambientale in cui sono piombati da almeno due decenni è di profilargli l‟agonia che ci

aspetta se non abbracciamo subito il Piano B. Lester Brown ce ne fa una panoramica agghiacciante

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quando ci spiega come la nuova geopolitica della scarsità del cibo trascinerà intere nazioni lungo la

china del fallimento politico. Una visione che ricorda molto quel capolinea tragico e disumano del

cannibalismo descritto da Diamond in riferimento all'Isola di Pasqua dove ricchezza e status sociale

cessarono di esistere nel momento in cui la carestia climatica si abbatté sulle sue sponde.

Ma c‟è un ulteriore argomento per convincere chi ci governa ad aprire gli occhi, si tratta di un jolly

che Brown tira abilmente fuori dalla manica: la convenienza economica della riconversione

industriale secondo i principi del risparmio e dell'efficienza energetica. è questo un aspetto che

sicuramente attirerà l‟attenzione del politico occidentale e di quello delle economie emergenti.

Investire nell‟industria delle rinnovabili nel lungo periodo riduce ed annulla la dipendenza dagli

idrocarburi e dai paesi quindi che usano queste risorse come un‟arma diplomatica; permette anche

una crescita economica meno costosa e quindi un benessere al quale l‟occidente si è assuefatto.

Senza questa dipendenza non ci sarebbe stata la guerra in Iraq ed i costi astronomici, pari a 3 mila

miliardi di dollari che il contribuente americano ha pagato e paga direttamente e che anche noi,

cittadini del mondo, continuiamo a pagare indirettamente. Razionalmente, quindi, la strada tracciata

da Brown è quella più logica. Allora perché non percorrerla?

Il primo ostacolo è l‟ignoranza, non si vuole credere di camminare su un baratro profondissimo, dal

quale una volta precipitati non riusciremo mai più a risalire. Ambiente, energia e cibo sono la stessa

cosa, sinonimi dell‟olocausto ambientale, al punto che è probabile che le carestie ci stermineranno

prima ancora che l‟inquinamento faccia breccia nei nostri cromosomi condannandoci tutti a morire di

cancro. Il secondo ostacolo è l‟inerzia, la facilità con la quale spingiamo un interruttore, accendiamo

il motore della macchina e gettiamo nella pattumiera bicchieri di carta e plastica. Il terzo è l‟assurda

nozione di onnipotenza: se siamo arrivati fin qui, dominando tutte le altre specie umane un motivo ci

sarà, sapremo quindi vincere anche la battaglia contro la distruzione dell‟ambiente inventandoci

qualcosa, ma lo faremo solo quando sarà necessario combatterla. Peccato che questa guerra sia

iniziata già da più di due secoli, con l'avvento della rivoluzione industriale, e che noi non ce ne siamo

ancora accorti.

Il panorama descritto da Brown è giustamente profondamente preoccupante. Il Piano B è un

lumicino di speranza, forse uno degli ultimi che si sono accessi nelle tenebre in cui siamo ormai

abituati a vivere. Se non agiamo adesso, oggi, in questo preciso istante, allora anche questa luce si

spegnerà. La speranza è che questo libro pieno di informazioni fondamentali, con tutte le sue

immagini apocalittiche del futuro prossimo venturo e le innumerevoli soluzioni economiche e sociali

per evitarlo, faccia svegliare dal torpore dell‟indifferenza ambientale quei politici che hanno il potere

di salvare il mondo. Solo loro possono fermare la bomba ad orologeria sulla quale tutti noi siamo

seduti. Ed allora convinciamoli ad agire, costringiamoli ad aprire gli occhi, forziamoli a salvare

questo pianeta bellissimo che per milioni e milioni di anni è stato la culla delle specie animali e

vegetali che ci circondano. Consegnare questo miracolo quotidiano alla polvere e all'inferno della

soluzione finale ambientale e noi a quella finale per la specie umana, in una una sorta di

cannibalismo, sarebbe un‟assurdità inconcepibile anche per i mediocri e sonnolenti politici che ci

governano."

Loretta Napoleoni

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Chi è Loretta Napoleoni (Tratto da wikipedia)

Loretta Napoleoni, economista e saggista italiana, è nata a Roma nel 1955.

Si è occupata in modo approfondito dello studio dei sistemi finanziari ed economici attraverso cui il

terrorismo finanzia le proprie reti organizzative. Nata e cresciuta a Roma, vive da molti anni nel

Regno Unito, a Londra.

Titoli scientifici

Loretta Napoleoni è stata borsista Fulbright alla Nitze School of Advanced International Studies

(SAIS) della John Hopkins University e studente Rotary alla London School of Economics. Tra i suoi

titoli accademici ci sono un Master in studi sul terrorismo alla London School, un Master in

relazioni internazionali ottenuto alla School of Advanced International Studies (SAIS) e un dottorato

in Scienze economiche dell'Università di Roma "La Sapienza".

Attività

Dal 1980 ha lavorato per alcuni anni a un progetto di fattibilità della Banca nazionale d'Ungheria[1]

sulla convertibilità in monete europee del fiorino ungherese.[2]Loretta Napoleoni ha organizzato e

presieduto nel 2005 la conferenza internazionale sul terrorismo promossa dal Club de Madrid.

Attualmente, insieme al governatore della Banca d'Italia, è stata incaricata dall'UNICRI - l'istituto

delle Nazioni Unite per la prevenzione del crimine - di formare un team di esperti, per elaborare

strategie di contrasto ai finanziamenti al terrorismo. Collabora inoltre con diverse forze di sicurezza,

tra cui l'Homeland Security degli Stati Uniti d'America, l'International Institute of Counter-Terrorism

israeliano, la polizia catalana[3].

Svolge inoltre attività di consulenza per i network televisivi BBC e CNN e scrive per diverse testate

internazionali, tra le quali El Pais, Le Monde, e The Guardian, di cui è editorialista. In Italia scrive

per Internazionale, l'Unità, il Caffè. I suoi saggi usciti in Italia : Terrorismo S.p.A, (Il Saggiatore

2005), Economia Canaglia, (Il Saggiatore 2008), La Morsa (Chiarelettere 2009) e Maonomics

(Rizzoli 2010) stanno riscuotendo ampio successo di critica e di vendite. Nel 2009 ha pubblicato con

Chiarelettere La morsa, il primo libro scritto e pubblicato direttamente in italiano, la lingua madre,

prima che in inglese. Nel saggio la Napoleoni riprende e sviluppa le tesi dei due libri precedenti e

legandoli assieme. Distratti da Al Qaeda e derubati da Wall Street siamo sprofondati in una crisi

economica che non è stata causata dal terrorismo di matrice islamica, che ci hanno fatto credere

potesse distruggere il mondo e costituisse il vero pericolo, bensì dalla politica economica perseguita

dall'amministrazione Bush che ha finanziato la guerra al terrorismo con l'abbassamento del costo del

denaro che ha generato una bolla speculativa mondiale così enorme da mettere in crisi l'intero

sistema capitalistico globale. Una crisi interna al sistema dunque, più che esterna. Loretta Napoleoni

è consulente della Fundaciones Ideas presieduta dal premier spagnolo José Luis Rodríguez Zapatero

Il 5 Gennaio 2010 in una intervista[4] al quotidiano La Repubblica ha annunciato la sua candidatura

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alle primarie del Partito Democratico per concorrere alla carica di Presidente della Giunta Regionale

del Lazio, contro la candidata del PDL Renata Polverini, ma tale candidatura non si è poi

formalizzata.

Opere

*Maonomics, Rizzoli, 2010 ISBN 978-88-17-03993-2

*La morsa, Chiarelettere, 2009 ISBN 9788861900790

* (con Bee J. Ronald), I numeri del terrore. Perché non dobbiamo avere paura, il Saggiatore, 2008

ISBN 8842815357

* Economia canaglia, il Saggiatore, 2008

* Terrorismo S.p.A, il Saggiatore, 2005

* Al Zarqawi, il Saggiatore, 2006

* La nuova economia del terrorismo, Marco Tropea, 2004

Note

1. ^ Loretta Napoleoni su Centro per la riforma dello Stato.

2. ^ Fiera delle vanità della globalizzazione

3. ^ biografie relatori Regione Piemonte (pdf). URL consultato il 03-01-2110.

4. ^ http://rassegnastampa.mef.gov.it/mefnazionale/View.aspx?ID=2010010514607111-1

Link

* Sito ufficiale

* Blog ufficiale

* Master in giornalismo investigativo

* Blog di Beppe Grillo, articolo

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Prefazione di Lester Brown

Diversi mesi fa stavo leggendo un articolo del Newsweek su clima ed energia, quando una frase mi è

saltata agli occhi: “Le parole business as usual stanno cominciando ad assumere il significato di fine

del mondo.”

Sebbene questa sia una conclusione che potrebbe sorprendere molti, certo non stupirà quei ricercatori

che tengono sotto osservazione le tendenze ambientali mondiali come la deforestazione, l‟erosione

dei suoli, il calo delle falde idriche e l‟aumento delle temperature. Da diverso tempo, infatti, ci

avvertono che finiremo nei guai se questi fenomeni continueranno. Era solamente poco chiaro in

quale formasi sarebbero manifestati i guai.

Ora sembra di capire che l‟anello debole sia il cibo, esattamente come accadde in passato per alcune

antiche civiltà. Stiamo entrando in una nuova era alimentare, contraddistinta da alti prezzi del cibo,

da un rapido aumento delle persone affamate e da una crescente competizione per le risorse

territoriali e idriche che già oggi ha superato i confini nazionali, dato che i paesi importatori di cibo

provano ad acquisire o affittare vaste aree agricole in altri stati.

In passato, i picchi del costo dei cereali erano causati da singoli eventi (una stagione di siccità

nell‟Unione Sovietica o un monsone mancato in India...) ed erano in genere compensati dal raccolto

successivo. Oggi, invece, l‟aumento dei costi attuale è la manifestazione di una tendenza sistemica.

Tra le cause troviamo la crescita demografica, il calo delle falde idriche, l‟aumento delle temperature

e l‟uso dei cereali per la produzione di carburanti per le automobili.

Negli scorsi decenni, quando le quotazioni dei cereali si impennavano, il Dipartimento

dell‟Agricoltura degli Stati Uniti semplicemente rimetteva a coltura una parte dei terreni lasciati a

riposo dai programmi di conservazione. Oggi, però, tutti questi terreni sono già utilizzati.

All‟improvviso, la sicurezza alimentare è diventata una problematica estremamente complessa. La

politica energetica potrebbe influenzarla in maniera più incisiva delle politiche agricole.

L‟eradicazione della povertà potrebbe dipendere più dal successo dei programmi di pianificazione

familiare che dall‟abilità degli agricoltori. L‟incremento dell‟efficienza idrica potrebbe garantire il

futuro degli approvvigionamenti alimentari più di quanto possa fare una maggiore disponibilità

d‟acqua per l‟irrigazione.

Nel suo libro The Collapse of Complex Societies, Joseph Tainter osserva che via via che le civiltà si

evolvono aumentano progressivamente il loro grado di complessità, e in certi casi possono arrivare a

punto in cui non sono più in grado di gestirla. Questa considerazione mi è venuta in mente mentre

l‟edizione americana di questo libro stava andando in stampa, quando ho visto il Congresso

scontrarsi durante l‟approvazione della proposta di legge sul clima, cavillando su quali fossero gli

obiettivi da perseguire.

Anche gli organismi internazionali si trovano ad affrontare la complessità. Nel momento in cui

scrivo, tutti gli occhi sono puntati sulla Conferenza sul clima di Copenaghen che si terrà a dicembre.

Dal mio punto di vista, i negoziati internazionali sul clima stanno diventando obsoleti per due

ragioni.

La prima è che, dato il fatto che nessun governo vuole cedere troppo agli altri, gli accordi che

verranno raggiunti sugli obiettivi da perseguire per tagliare le emissioni di carbonio saranno quasi

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sicuramente minimi, neanche vagamente paragonabili ai massicci interventi dei quali abbiamo

bisogno.

In secondo luogo, dal momento che sono necessari anni perché i paesi ratifichino questi accordi,

semplicemente potrebbero arrivare fuori tempo massimo. Questo non significa che non si debba

partecipare ai negoziati e impegnarsi con decisione per ottenere il massimo risultato possibile. Ma

non dobbiamo affidarci a questi negoziati per salvare la civiltà.

Alcuni dei progressi più eclatanti nella stabilizzazione climatica, come il potentissimo movimento

dal basso che ha portato a una moratoria di fatto alla costruzione di nuove centrali elettriche a

carbone, hanno avuto poco a che fare con i negoziati internazionali. In nessun momento i leader di

questo movimento hanno affermato che si sarebbero impegnati per bloccare i nuovi impianti a

carbone solo se lo avessero fatto anche l‟Europa, la Cina o il resto del mondo. Si sono invece mossi

in maniera unilaterale, consci del fatto che se gli Stati Uniti non ridurranno velocemente le emissioni

di carbonio sarà il mondo intero a essere in pericolo.

Siamo in gara tra punti di svolta politici e punti di non ritorno naturali. Siamo in grado di tagliare le

emissioni di carbonio abbastanza in fretta da salvare la calotta glaciale della Groenlandia ed evitare il

conseguente innalzamento del livello del mare? Siamo in grado di chiudere le centrali a carbone

abbastanza in fretta da salvare i ghiacciai himalayani e tibetani, i quali alimentano i principali fiumi e

i sistemi di irrigazione dell‟Asia durante la stagione arida? Saremo in grado di stabilizzare la

popolazione riducendone la prolificità prima che la natura riequilibri la demografia innalzando la

mortalità?

Sul fronte climatico tutto sembra che vada accelerando. Solo qualche anno fa il ghiaccio marino

estivo dell‟Artico cominciava a ridursi, ma si prevedeva avrebbe resistito ancora per decenni. I

rapporti più recenti indicano che potrebbe scomparire nel volgere di pochi anni.

L‟ultimo report dell‟IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) è stato pubblicato nel 2007,

e da allora le emissioni di anidride carbonica, le temperature e il livello del mare sono cresciuti di più

e più rapidamente di quanto previsto nello scenario peggiore elaborato dell‟IPCC.

La buona notizia è che la transizione all‟energia rinnovabile sta avvenendo a un ritmo e a una scala

che non avremmo mai immaginato due anni fa. Si consideri per esempio quello che sta accadendo in

Texas. Gli 8.000 megawatt di capacità generativa eolica in produzione, i 1.000 in costruzione e molti

altri in via di sviluppo forniranno più di 50.000 megawatt di energia elettrica generata dal vento

(paragonabili a 50 centrali a carbone). Ciò basterà a soddisfare le necessità domestiche di uno stato

di 24 milioni di abitanti.

La Cina, con il suo programma Wind Base, sta lavorando a sei mega campi eolici per un potenziale

generativo complessivo di 105.000 megawatt, che andranno ad aggiungersi ai numerosi impianti più

piccoli già operativi e in costruzione.

Di recente, un consorzio europeo di aziende e banche di investimento ha presentato una proposta che

prevede lo sviluppo di una massiccia capacità generativa da fonte solare in Nord Africa.

Complessivamente potrebbe superare i 300.000 megawatt, all‟incirca tre volte la capacità generativa

elettrica della Francia.

Potremmo citare molti altri esempi. La transizione energetica dai combustibili fossili alle fonti di

energia rinnovabili si sta muovendo assai rapidamente, molto più di quanto la maggior parte delle

persone riesca a rendersi conto. Negli Stati Uniti, ad esempio, la capacità generativa eolica è

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cresciuta di 8.400 megawatt nel 2008, mentre quella del carbone solo di 1.400.

L‟interrogativo da sciogliere non riguarda quello che si deve fare, dato che questo è piuttosto chiaro

a coloro che stanno analizzando la situazione globale. La sfida è come farlo in tempo.

Sfortunatamente non sappiamo quanto ne rimanga: la natura tiene il conto, ma noi non siamo in

grado di vedere il suo orologio.

Il Piano B è ambizioso semplicemente perché descrive quello che c‟è da fare per raddrizzare la rotta.

Sarà difficile? Senza dubbio, la posta in gioco è altissima.

Il modo di pensare che ci ha condotto in questa situazione non è certamente quello che ce ne tirerà

fuori. Abbiamo bisogno di un nuovo sistema di pensiero. Lasciatemi citare una frase

dell‟ambientalista Paul Hawken. Nel riconoscere le dimensioni della sfida che abbiamo davanti, ha

detto; “Prima abbiamo bisogno di capire cosa fare. Poi di farlo. E solo allora ci chiederemo se era

possibile”.

Lester R. Brown

Luglio 2009

Earth Policy Institute

1350 Connecticut Ave. NW

Suite 403

Washington, DC 20036

Phone: (202) 496-9290

Fax: (202) 496-9325

E-mail: [email protected]

Sito web: www.earthpolicy.org

Questo libro nella versione in lingua inglese può essere letto e scaricato online sul sito dell'Earth

Policy Institute. I permessi di riproduzione o di diffusione di parti del manoscritto originale possono

essere ottenuti da Reah Janise Kauffman dell‟Earth Policy Institute. Per ulteriori informazioni sugli

argomenti discussi in questo libro, consultate www.earthpolicy.org.

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Perché serve un Piano B: verso la rivoluzione della sostenibilità (di Gianfranco Bologna)

I limiti della nostra crescita sulla terra

Ho iniziato la mia introduzione a Piano B 3.0, pubblicato da Edizioni Ambiente nel 2008, con la

seguente frase: “Mentre sto scrivendo questa introduzione sono connesso al sito dell‟United States

Census Bureau che, nella sua homepage (www.census.gov), presenta il dato in tempo reale degli

abitanti nel mondo e negli Stati Uniti. Oggi, 10 maggio 2008 alle ore 17.30, la popolazione mondiale

è di 6.666.789.904 abitanti”.

Oggi, 7 marzo 2010 alle ore 17.30, mentre sto scrivendo l‟introduzione a Piano B 4.0, il sito

dell‟United States Census Bureau riporta una popolazione mondiale di 6.807.018.917 abitanti.

Secondo, invece, il sito www.worldometers.info, coordinato dal gruppo di ricercatori e volontari

organizzati nel Real Time Statistics (www.realtimestatistics.org), la popolazione mondiale è, alla

stessa data, di più di 6.830.000.000 individui. I migliori demografi e i più autorevoli centri di ricerca

internazionali sul tema ritengono che in questo secolo la popolazione umana andrà stabilizzandosi e

potrebbe probabilmente declinare alla fine del secolo. Ma resta il fatto che la straordinaria crescita

della popolazione che ha avuto luogo dal secolo scorso ad oggi, accoppiata alla continua crescita dei

nostri sistemi economici, all‟inarrestabile crescita della pressione, dell‟utilizzo, della trasformazione

e della distruzione dei sistemi naturali della Terra e al continuo aumento dei rifiuti e degli scarti

prodotti dai metabolismi delle nostre società, ha portato a una società umana sempre più insostenibile

rispetto alle capacità rigenerative e ricettive dei sistemi naturali che ci sostengono.

Avevamo iniziato il secolo scorso con una popolazione di 1,6 miliardi e lo abbiamo concluso

superando i 6 miliardi. Immaginate che cosa ha potuto significare per i sistemi naturali del nostro

pianeta, che garantiscono la vita dell‟uomo, la continua e crescente pressione, in quantità e qualità,

del numero e dell‟incremento dei livelli di consumo di energia e di risorse, in soli cento anni.

Ai primi del 2009, le Nazioni Unite hanno reso noto il nuovo “World Population Prospect: the 2008

Revision” (United Nations, 2009). La Revisione 2008 è il ventunesimo rapporto sul tema pubblicato

dalle Nazioni Unite a partire dal 1950 (negli ultimi anni la sua cadenza è biennale) e rappresenta il

punto di riferimento internazionale più autorevole sui temi della popolazione e della sua evoluzione

nel tempo.

La popolazione mondiale che, come abbiamo visto, ora è di 6,8 miliardi di abitanti dovrebbe

raggiungere i 7 miliardi nel 2012 e si prevede che sorpasserà i 9 miliardi nel 2050.

Più dei 2,3 miliardi di abitanti che si aggiungeranno in questo periodo andranno ad ampliare la

popolazione dei paesi in via di sviluppo, i quali si stima possano crescere dai 5,6 miliardi del 2009 ai

7,9 miliardi del 2050. Invece la popolazione dei paesi sviluppati si modificherà in maniera minima,

passando da 1,23 a 1,28 miliardi, e potrebbe persino declinare a 1,15 miliardi in caso non dovesse

verificarsi la prevista migrazione netta dai paesi in via di sviluppo (calcolata su una media di 2,4

milioni l‟anno dal 2009 al 2050).

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La crescita della maggioranza di questa popolazione, il 95%, avrà luogo nei paesi in via di sviluppo,

e l‟Africa presenta il tasso di crescita superiore rispetto agli altri continenti, il 2,4% all‟anno. Ci si

aspetta che la popolazione africana andrà, seguendo la variante media, al raddoppio nel 2050,

raggiungendo i 2 miliardi.

Cina, India e Stati Uniti sono i paesi più popolosi del mondo. L‟attuale popolazione indiana di 1,1

miliardi dovrebbe raggiungere gli 1,7 miliardi nel 2050, mentre quella cinese, oggi di 1,3 miliardi,

dovrebbe toccare gli 1,4 miliardi entro il 2050. Queste due nazioni da sole rappresentano il 37% della

popolazione mondiale di oggi. Nel 2006 gli abitanti degli Stati Uniti hanno raggiunto quota 300

milioni e nel 2050 dovrebbero arrivare ai 420 milioni.

Come sappiamo, nel 2008 la popolazione urbana ha sorpassato, per la prima volta nella nostra storia

(e probabilmente sarà un passaggio irreversibile), quella rurale. In più di mezzo secolo la

popolazione mondiale urbana è infatti cresciuta dai 732 milioni di abitanti, che erano presenti nel

1950 nelle città di tutto il mondo, ai 3,15 miliardi del 2005. L‟88% della crescita che avrà luogo dal

2000 al 2030 avverrà nelle città dei paesi in via di sviluppo. Un chiarissimo rapporto pubblicato da

un gruppo di esperti riuniti dal parlamento britannico ha dimostrato che gli obiettivi del Millennio

(Millennium Development Goals, voluti dai governi di tutto il mondo nel famoso Millennium

Summit delle Nazioni Unite del 2000, per sradicare l‟estrema povertà e la fame, per ridurre la

mortalità infantile, per avviare la sostenibilità ambientale ecc.) non saranno mai raggiunti, o vi sarà

una significativa difficoltà a raggiungerli, se si continuerà a ignorare un puntuale lavoro di

pianificazione familiare nei paesi in via di sviluppo, destinato soprattutto ai 2 miliardi di persone che

oggi vivono con meno di 2 dollari al giorno (Campbell et al., 2007). È questo un impegno previsto

nel Piano di implementazione scaturito dall‟ultima conferenza delle Nazioni Unite su popolazione e

sviluppo, tenutasi a Il Cairo ormai nel 1994 e completamente disatteso.

Oltre alla popolazione aumenta anche il prodotto globale lordo, sebbene la grave crisi finanziaria ed

economica che attanaglia le società umane abbia contribuito a rallentare questa corsa inarrestabile.

Nel 2006 il prodotto lordo globale, il totale aggregato di tutti i beni finiti e i servizi prodotti a livello

mondiale, ha sorpassato i 65.100 miliardi di dollari (nel 1970 era di 18.600 miliardi di dollari, nel

1980 di 27.600 miliardi di dollari, nel 1990 di 38.100 miliardi di dollari e nel 2000 di 52.300 miliardi

di dollari). L‟incremento rispetto all‟anno precedente (il 2005, durante il quale il PIL globale ha

raggiunto i 62.700 miliardi di dollari) è stato del 3,9%, sul quale la crescita del PIL cinese, da sola,

ha contribuito per oltre un terzo.

Nel 2008 il prodotto globale lordo ha raggiunto la cifra di 69.000 miliardi di dollari, con un aumento

in percentuale che costituisce una decelerazione rispetto alle medie degli anni precedenti a causa

della recessione globale che è andata emergendo durante l‟anno (Worldwatch Institute, 2009 e 2010).

Il prodotto interno lordo degli Stati Uniti è cresciuto nel 2007 di 2,1% circa, mentre quello della Cina

dell‟11,7%, una cifra veramente impressionante che si porta dietro enormi problemi ambientali e

sociali (basti pensare, per citare un solo esempio, che oggi soltanto l‟1% dei 560 milioni di cinesi che

vivono in aree urbane respirano aria che può essere definita non inquinata secondo i parametri

dell‟Unione Europea). La crescita continua del prodotto globale lordo dimostra lo straordinario

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incremento dei metabolismi dei nostri sistemi sociali e quindi dei flussi di energia, materie prime,

risorse naturali, nonché la trasformazione continua di ambienti e le pressioni ecosistemiche esercitate

nei confronti dei metabolismi dei sistemi naturali.

Come scrive nel suo ultimo libro Jeffrey Sachs, direttore dell‟Earth Institute della Columbia

University e Special Adviser del segretario generale delle Nazioni Unite sugli obiettivi di sviluppo

del Millennio, con una popolazione in crescita entro il 2050, il prodotto globale lordo potrebbe

raggiungere l‟incredibile cifra di 420.000 miliardi di dollari. La domanda che sorge spontanea è

come sia veramente possibile che si possa continuare su questa strada senza accrescere i rischi di un

collasso della nostra civiltà rispetto alla capacità della Terra di farsi carico di noi.

L’antropocene

L‟impatto che la continua crescita quantitativa e qualitativa della nostra specie esercita su tutte le

complesse sfere del sistema Terra è ormai veramente preoccupante e non fa che confermare quanto il

periodo che stiamo attraversando possa essere definito, nell‟ambito della geocronologia del nostro

pianeta, Antropocene, dalla felice intuizione del premio Nobel per la chimica Paul Crutzen che ha

proposto tale definizione già nel 2000 (Crutzen e Stoermer, 2000, Crutzen, 2002).

Questa proposta è ormai ben ufficializzata nella comunità scientifica internazionale che, proprio

recentemente, ha fatto presente che il termine può essere accettato dai geologi che elaborano e

verificano la scala geologica del nostro pianeta proprio sulla base delle prove sin qui acquisite, a

dimostrazione della profonda trasformazione che la specie umana ha esercitato sulla Terra

(Zalasiewicz et al., 2008).

Tutte le conoscenze scientifiche sino ad oggi raccolte documentano chiaramente che i sistemi

naturali sono sottoposti a una straordinaria e profonda modificazione e distruzione dovuta alla

pressione umana, basata sulla crescita materiale, quantitativa e continua del nostro intervento. Grazie

ai dati provenienti dai satelliti che scrutano la Terra sono state elaborate vere e proprie mappe

dell‟“impronta umana” sul pianeta (Sanderson et al., 2002). Un‟impronta che ha trasformato

fisicamente le terre emerse dal 75 all‟83% dell‟intera loro superficie.

Sempre ai primi del 2008, un team di noti scienziati esperti di ecosistemi marini ha concluso un

approfondito e interessante lavoro che ha permesso di tratteggiare la mappa globale dell‟impatto

umano su questa tipologia di ecosistemi (Halpern et al., 2008). La mappa fornisce una straordinaria

sistematizzazione dei dati esistenti rispetto al nostro impatto sugli oceani e i mari del mondo, e il

quadro che ne emerge non è certo confortante.

L‟analisi del team di studiosi indica che nessuna area può definirsi non influenzata in qualche modo

dall‟intervento umano e che un‟ampia frazione degli ecosistemi marini (il 41%) risulta fortemente

impattata da diversi fattori antropogenici. Alcuni ecosistemi marini presentano gli effetti sinergici di

numerosi impatti a causa dell‟intervento umano di origine terrestre e marina. Tra queste aree il Mare

del Nord, il Mare di Norvegia, i mari cinesi orientale e meridionale, i Caraibi orientali, il Mare

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orientale nord-americano, il Mar Mediterraneo, il Golfo Persico, il Mare di Bering e i mari attorno

allo Sri Lanka.

Nel 2009, sulla prestigiosa rivista scientifica Nature, nel numero pubblicato proprio mentre a

Pittsburgh aveva luogo il meeting del G20, è apparso un documento di grandissimo valore, non solo

scientifico, frutto della collaborazione di 29 tra i maggiori rappresentanti delle scienze del sistema

Terra e della scienza della sostenibilità, tra i quali il già citato premio Nobel Paul Crutzen. Il lavoro è

dedicato a sottolineare come il nostro impatto sui sistemi naturali stia facendo preoccupare l‟intera

comunità scientifica, perché in molte situazioni siamo ormai vicini a dei punti critici (a delle vere e

proprie “soglie”), oltrepassati i quali gli effetti a cascata che ne derivano possono essere devastanti

per l‟umanità. Per questo motivo i 29 scienziati hanno deciso di tentare di indicare, in questo lavoro,

“i confini del pianeta” (Planetary Boundaries) che l‟intervento umano non può superare, pena il

subire effetti veramente negativi e drammatici per tutti i sistemi sociali.

Il rapporto ricorda che la specie umana ha potuto godere negli ultimi 10.000 anni (nel periodo

geologico che stiamo vivendo, definito Olocene dell‟era Quaternaria) di una situazione, pur nelle

ovvie dinamiche evolutive che interessano tutti i sistemi naturali, di discreta stabilità delle condizioni

che ci hanno permesso di incrementare sia il numero di esseri umani sia le nostre capacità di utilizzo

e trasformazione delle risorse.

Oggi invece, come abbiamo sopra ricordato, ci troviamo in un nuovo periodo definito da Paul

Crutzen Antropocene, a dimostrazione di come la pressione umana sui sistemi naturali del pianeta sia

diventata talmente pesante da essere paragonabile alle grandi forze geologiche che hanno modificato

la Terra durante l‟arco di tutta la sua vita.

Gli studiosi segnalano l‟esistenza di un grave rischio per l‟umanità, dovuto all‟inaccettabile

cambiamento che abbiamo causato nel passaggio dall‟Olocene all‟Antropocene.

Questa pressione è oggi a livelli veramente elevati, come dimostrano tutte le ricerche del Global

Environmental Change, ed è oggetto di approfondite analisi da parte degli scienziati del sistema

Terra (www.essp.org). Pertanto i 29 scienziati individuano nell‟analisi pubblicata su Nature che

rimanda a un rapporto più esteso, pubblicato sulla rivista Ecology and Society

(www.ecologyandsociety.org), nove grandi problemi planetari e sottolineano che per tre di questi le

ricerche svolte sin qui dimostrano che siamo già oltre il “confine” che non avremmo dovuto

sorpassare.

Queste nove problematiche sono: il cambiamento climatico, l‟acidificazione degli oceani, la

riduzione della fascia di ozono nella stratosfera, la modificazione del ciclo biogeochimico dell‟azoto

e del fosforo, l‟utilizzo globale di acqua, i cambiamenti nell‟utilizzo del suolo, la perdita di

biodiversità, la diffusione di aerosol atmosferici, l‟inquinamento dovuto ai prodotti chimici

antropogenici.

Per tre di questi e cioè cambiamento climatico, perdita di biodiversità e ciclo dell‟azoto, come

dicevo, siamo già oltre il limite indicato dagli scienziati. E gli studiosi definiscono per ognuno di

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questi tre grandi ambiti tale limite. Per il cambiamento climatico si tratta sia della concentrazione

dell‟anidride carbonica nell‟atmosfera (calcolata in parti per milione di volume, ppm) sia del

cambiamento del forcing radiativo, cioè per dirla in maniera molto semplice la differenza tra quanta

energia “entra” e quanta “esce” dall‟atmosfera (calcolata in watt per metro quadro). Per la

concentrazione di anidride carbonica nel periodo preindustriale, eravamo a 280 ppm, oggi siamo a

387 ppm e dovremmo invece scendere, come obiettivo, alla soglia già superata di 350 ppm

(immaginatevi la portata della sfida di questo limite che, tra l‟altro, non è stato neanche oggetto di

discussione alla deludente conferenza di Copenaghen del dicembre 2009). Per quanto riguarda il

forcing radiativo in era preindustriale è stato calcolato “zero”, oggi è 1,5 watt per metro quadro,

mentre il confine accettabile viene indicato dagli studiosi a un watt per metro quadro. Su queste

tematiche vale la pena leggere il libro Storms of my grandchildren del celebre climatologo James

Hansen, direttore del Goddard Institute of Space Studies della NASA e professore alla Columbia

University, nonché uno degli autori di questo lavoro apparso su Nature (Hansen, 2009).

Per la perdita di biodiversità si valuta il tasso di estinzione, cioè il numero di specie estinte per

milione all‟anno. A livello preindustriale si ritiene che questo tasso fosse tra 0,1 e 1, oggi viene

calcolato a più di 100, mentre deve rientrare, come obiettivo, nel confine accettabile di 10.

Per il ciclo dell‟azoto si calcola l‟ammontare di azoto rimosso dall‟atmosfera per utilizzo umano (in

milioni di tonnellate l‟anno). A livello preindustriale si stima che tale ammontare fosse zero, oggi è

calcolato in 121 milioni di tonnellate l‟anno, mentre il confine accettabile, come obiettivo, è fissato a

35 milioni di tonnellate annue. Allo stesso modo il team di studiosi segna i “confini”, dove lo

ritengono possibile, anche per gli altri sei ambiti prima ricordati (per ogni ulteriore informazione è

bene visitare il sito dell‟autorevole Stockholm Resilience Centre, www.stockholmresilience.org, i cui

direttori Carl Folke e Johan Rockström sono tra gli autori del rapporto).

Il ragionamento che conduce ai Planetary Boundaries è lo stesso che sta alla base del concetto degli

evidenti limiti biofisici della nostra crescita materiale e quantitativa su questo pianeta

La necessità di un Piano B

Nessuna persona sensata oggi può dubitare del fatto che i modelli di sviluppo socioeconomici

dominanti siano insostenibili rispetto alle capacità del pianeta di supportarci e sopportarci e che,

quindi, sia necessario un urgente cambiamento di rotta. In una situazione di questo tipo diventa

indispensabile per l‟intera umanità pensare seriamente a un vero e proprio Piano B, a percorsi

socioeconomici molto diversi da quelli sin qui perseguiti e alle modalità per attuarli concretamente.

Già nel 1972 il primo rapporto al Club di Roma realizzato dal System Dynamics Group del

prestigioso Massachusetts Institute of Technology (MIT) aveva chiaramente indicato l‟insostenibilità

del nostro modello di crescita economica (Meadows et al., 1972). Nella premessa di quel

lungimirante volume, il team del comitato esecutivo del Club di Roma, creato e presieduto da

Aurelio Peccei (1908-1984), una figura dalle straordinarie qualità umane e intellettuali, e allora

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composto oltre che da Peccei da Alexander King, Saburo Okita, Eduard Pestel, Hugo Thienamm e

Carroll Wilson, scriveva: “Le sue conclusioni (del rapporto, ndr) indicano che l‟umanità non può

continuare a proliferare a ritmo accelerato, considerando la crescita materiale come scopo principale,

senza scontrarsi con i limiti naturali del processo, di fronte ai quali essa può scegliere di imboccare

nuove strade che le consentano di padroneggiare il futuro, o di accettare le conseguenze

inevitabilmente più crudeli di una crescita incontrollata”.

Gli autori del rapporto scrivevano: “Possiamo anticipare le conclusioni che emergono fino a questo

punto del nostro lavoro. Non siamo però i primi a fare affermazioni del genere, giacché a conclusioni

simili sono pervenuti già da diversi decenni tutti coloro che si sono messi a considerare il mondo nel

suo complesso secondo una prospettiva di lunga scadenza (nonostante ciò, la grande maggioranza

delle autorità politiche di tutti i paesi sembra indirizzata a perseguire obiettivi che appaiono in

contrasto con queste indicazioni). 1) Nell‟ipotesi che l‟attuale linea di crescita continui inalterata nei

cinque settori fondamentali (popolazione, industrializzazione, inquinamento, produzione di alimenti,

consumo delle risorse naturali), l‟umanità è destinata a raggiungere i limiti naturali della crescita

entro i prossimi cento anni. Il risultato più probabile sarà un improvviso, incontrollabile declino del

livello di popolazione e del sistema industriale. 2) È possibile modificare questa linea di sviluppo e

determinare una condizione di stabilità ecologica ed economica in grado di protrarsi nel futuro. La

condizione di equilibrio globale potrebbe essere definita in modo tale che vengano soddisfatti i

bisogni materiali degli abitanti della Terra e che ognuno abbia le stesse opportunità di realizzare

compiutamente il proprio sviluppo umano. 3) Se l‟umanità opterà per questa seconda alternativa,

invece che per la prima, le probabilità di successo saranno tanto maggiori quanto più presto essa

comincerà a operare in tale direzione”.

Un Piano B va in questa direzione e dalla pubblicazione del primo rapporto al Club di Roma sono

passati ormai 38 anni.

Il valore del Piano B di Lester Brown

Lester Russell Brown è veramente la persona adatta per scrivere un libro come questo. Nel 1980

l‟amico Adriano Buzzati Traverso, scienziato di fama internazionale e grande esperto di problemi

ambientali (in quel periodo era anche Senior Adviser del Programma delle Nazioni Unite per

l‟Ambiente, UNEP), pubblicò nella collana da lui diretta per Sansoni, dal titolo Il Pianeta, l‟allora

nuovo libro di Lester Brown Il 29° giorno, uscito due anni prima negli Stati Uniti. Un libro

straordinariamente lucido e chiaro che poneva in concreto le basi concettuali e operative di ciò che

oggi definiamo sviluppo sostenibile. Non si trattava certo del primo libro di Lester Brown pubblicato

in italiano. La casa editrice Mondadori, nella sua serie delle Edizioni Scientifiche e Tecniche (EST),

aveva già pubblicato due libri di Brown, I limiti alla popolazione mondiale. Una strategia per

contenere la crescita demografica, nel 1974, con una bella premessa proprio di Adriano Buzzati

Traverso, e Di solo pane. Un piano d‟azione contro la fame nel mondo, nel 1975, scritto in

collaborazione con Erik Eckholm.

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Proprio Lester Brown nel 1974, quindi solo due anni dopo la pubblicazione del rapporto del Club di

Roma sui limiti della crescita, aveva fondato il Worldwatch Institute, un istituto indipendente di

analisi integrata dei problemi ambientali, sociali ed economici del mondo, che ha acquisito negli anni

una straordinaria fama internazionale, grazie proprio alla principale qualità di Lester Brown, vale a

dire la sua capacità di lettura transdisciplinare delle problematiche mondiali.

Brown ha fatto scuola trasmettendo questo “stile” a ogni ricercatore dell‟Istituto (e in tutti questi anni

se ne sono avvicendati parecchi) e facendo diventare i rapporti del Worldwatch dei veri e propri best

seller, nonché punti di riferimento della cultura mondiale sull‟ambiente e la sostenibilità: primo fra

tutti l‟annuario State of the World, uscito per la prima volta nel 1984 e tradotto ogni anno in oltre 30

lingue.

I temi che tratta il Worldwatch Institute sono, in buona sostanza, gli stessi sui quali opera sin dal

1968 il Club di Roma, una struttura internazionale informale, costituita da un centinaio di membri

provenienti da diverse parti del mondo, tutte figure di notevole spessore intellettuale, con

background culturali, formativi e professionali diversi, accomunate dalla preoccupazione per il

nostro futuro e per la scarsa capacità da parte della nostra specie di gestire i problemi che ha

provocato.

Pochi anni prima della pubblicazione de Il 29° giorno, avevo avviato un profondo rapporto di

amicizia con Peccei e Buzzati Traverso, anch‟egli membro del Club di Roma. Successivamente

conobbi anche Lester Brown, con il quale ho intrecciato una bella amicizia e un‟affascinante

collaborazione che mi ha spinto a promuovere l‟edizione italiana di quasi tutti i suoi libri. La prima

edizione italiana di State of the World è del 1988 e, da allora, ho il piacere di esserne il curatore:

un‟esperienza che considero una meravigliosa avventura intellettuale. Dal 1998 l‟annuario è

pubblicato in Italia da Edizioni Ambiente.

I rapporti personali con Peccei, Buzzati Traverso (purtroppo interrotti per la scomparsa di Buzzati

nel 1983 e di Peccei nel 1984), Brown e molti altri, mi hanno in qualche modo consentito di vivere

l‟elaborazione della concezione della sostenibilità del nostro sviluppo sociale ed economico, che ha

visto come momenti ufficiali le due grandi conferenze delle Nazioni Unite: quella su ambiente e

sviluppo di Rio de Janeiro del 1992, e quella sullo sviluppo sostenibile di Johannesburg del 2002. In

veste di esperto non governativo della delegazione italiana ho partecipato a entrambe.

Ancora oggi credo che Il 29° giorno sia un libro fondamentale, perché offre oltre all‟analisi della

situazione in cui ci troviamo anche la proposta di intraprendere una nuova strada, desiderabile e

possibile, verso la sostenibilità della nostra presenza sul pianeta.

Il titolo di quel volume prendeva spunto proprio da un indovinello di cui si servono gli insegnanti

francesi per spiegare ai ragazzi la natura della crescita esponenziale (indovinello che fu comunicato

da Robert Lattès a Donella Meadows, allora al Massachusetts Institute of Technology di Boston, una

delle autrici del primo famosissimo rapporto al Club di Roma, I limiti dello sviluppo). L‟indovinello

recita: “In uno stagno c‟è una foglia di ninfea. Ogni giorno che passa, il numero delle foglie si

raddoppia: due foglie il secondo, quattro il terzo, otto il quarto, e così via”. La domanda che segue è:

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“Se lo stagno si ricopre interamente di foglie il trentesimo giorno, quando si troverà coperto per

metà?”. La risposta è: “Il 29° giorno”.

Brown si serve dell‟indovinello per trattare la tesi centrale del libro: il nostro pianeta può essere

paragonato allo stagno di ninfee. Se la presenza umana, sia in termini semplicemente numerici

relativi alla crescita della popolazione (quando il libro fu pubblicato nel 1978, la popolazione umana

era di 4 miliardi), sia in termini di stili di vita, nonché di utilizzo e trasformazione delle risorse e di

produzione di rifiuti, non modifica la sua strada basata sulla continua crescita materiale e

quantitativa, allora entro la prossima generazione il pianeta potrebbe trasformarsi completamente,

diventando inospitale per l‟uomo.

Brown scrive: “Una lettura attenta dei segnali indica che le pressioni sui principali sistemi biologici e

sulle principali risorse di energia della Terra stanno aumentando. Sollecitazioni molto forti sono

chiaramente percepibili in ciascuno dei quattro principali sistemi biologici – le zone di pesca

oceaniche, i pascoli, le foreste e le terre coltivate – da cui l‟umanità dipende per il cibo e le materie

prime industriali. Se si fa eccezione per i terreni agricoli, sono tutti essenzialmente sistemi naturali,

modificati poco o nulla dall‟uomo. In grandi aree del mondo, la pressione di una domanda umana

crescente su questi sistemi ha raggiunto il punto in cui essa comincia a incidere negativamente sulle

loro capacità produttive. Le discussioni sulle prospettive di crescita economica a lungo termine si

sono concentrate in anni recenti sulle risorse non rinnovabili, specialmente su minerali o combustibili

fossili. L‟attenzione sulle risorse non rinnovabili è stata rafforzata dall‟assunto implicito che, poiché

le risorse biologiche sono rinnovabili, non era il caso di preoccuparsene troppo. In realtà, invece, si

sono andate contraendo le basi tanto delle risorse non rinnovabili quanto di quelle rinnovabili. I

sistemi biologici della Terra costituiscono il fondamento del sistema economico mondiale. Oltre al

cibo, i sistemi biologici forniscono praticamente tutte le materie prime all‟industria, eccezion fatta

per i minerali e per le sostanze sintetiche derivate dal petrolio”.

“Quattro miliardi di esseri umani” – ricordo ancora che la versione originale del libro di Brown risale

al 1978 – “con crescenti aspirazioni esercitano una grande pressione su questi sistemi biologici,

spesso soverchiando la capacità della natura di continuare a far fronte a lungo termine a queste

richieste”.

“Il deterioramento dei sistemi biologici non è un problema secondario che interessi soltanto agli

ecologi. Il nostro sistema economico dipende dai sistemi biologici della Terra. Tutto ciò che

minaccia la vitalità di questi sistemi biologici minaccia anche l‟economia mondiale. Ogni

deterioramento di questi sistemi rappresenta un deterioramento delle prospettive dell‟umanità”.

“La restaurazione di un rapporto stabile fra l‟umanità e i sistemi naturali che sostengono la vita

umana non potrà non preoccupare gli uomini politici nei prossimi anni e nei prossimi decenni. Gli

adattamenti che dobbiamo oggi introdurre nei modelli di consumo, nella politica demografica e nel

sistema economico, se vogliamo preservare i sostegni biologici dell‟economia mondiale, sono

profondi; essi rappresentano una sfida molto impegnativa sia per l‟intelligenza dell‟uomo sia per la

sua capacità di modificare il proprio comportamento”.

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Il libro espone quindi la situazione dei problemi derivanti dalla crescita demografica, dallo

sfruttamento energetico, dalla situazione alimentare, da quella economica, dalla distribuzione della

ricchezza fra le società e dalla distribuzione della ricchezza all‟interno delle società, per poi dedicarsi

alle proposte relative alla necessità di adattamento tra le dimensioni e i bisogni della popolazione

umana e lo stato delle risorse del pianeta, agli elementi fondamentali di tale adattamento e ai mezzi

per concretizzarlo.

Scrive Brown: “Il bisogno di adattare la vita umana simultaneamente alla capacità di rigenerazione

dei sistemi biologici della Terra e ai limiti delle risorse rinnovabili richiederà una nuova etica sociale.

L‟essenza di questa nuova etica è l‟adeguamento: l‟adeguamento del numero e delle aspirazioni degli

esseri umani alle risorse e alle capacità della Terra. Questa nuova etica deve soprattutto arrestare il

deterioramento del rapporto dell‟uomo con la natura. Se la civiltà, quale la conosciamo oggi, deve

sopravvivere, quest‟etica dell‟adeguamento deve sostituire la dominante etica della crescita”.

“La soluzione che daremo al problema di arrestare il deterioramento del rapporto fra la popolazione

umana, che oggi conta già quattro miliardi di individui, e i sistemi e le risorse naturali della Terra,

inciderà su ciò che mangeremo, su quanto pagheremo la casa e su quanti figli potremo avere. Alcuni

considereranno i mutamenti che ci attendono con allarme, o anche in termini apocalittici. Altri, fra i

quali si schiera l‟autore, ritengono che i problemi delineati in questo libro siano solubili, ma che per

risolverli in modo soddisfacente sarà necessaria una dose eccezionale di volontà politica e di

intelligenza”.

L‟etica dell‟adattamento costituisce proprio uno degli elementi centrali del concetto di sostenibilità

del nostro sviluppo. Un concetto che si è andato evolvendo in questi ultimi tre decenni, producendo

una straordinaria e affascinante elaborazione transdisciplinare che, di fatto, sta portando a una vera e

propria Sustainability Science, una scienza della sostenibilità (si veda, tra gli altri, Kates, et al., 2001;

AA.VV., 2003; Bologna, 2003 e 2008).

Nel 2001 Lester Brown – che nel frattempo ha lasciato il Worldwatch Institute, alla cui presidenza è

succeduto il suo “allievo” Christopher Flavin – ha fondato l‟Earth Policy Institute, un istituto di

analisi transdisciplinare che ha l‟obiettivo precipuo di dimostrare la praticabilità immediata di una

vera e propria eco-economia (come viene analizzata e proposta da anni da molti studiosi che nel

1987 hanno dato vita all‟International Society of Ecological Economics). L‟istituto in questi

primissimi anni di vita ha già pubblicato tre volumi, tutti scritti da Lester Brown e tutti

fortunatamente tradotti in italiano. Il primo intitolato Eco-economy, il secondo Bilancio Terra e il

terzo, che qui viene proposto nella sua nuova, aggiornata e fortemente ampliata quarta versione

(dopo che Edizioni Ambiente aveva pubblicato già la prima e la terza), Piano B.

Il Piano B di cui parla Brown in questo volume vuole essere la traccia di un vero e proprio piano

alternativo, che dovrebbe essere varato al più presto, per avviare una concreta inversione dell‟attuale

rapporto negativo esistente tra i sistemi naturali e la specie umana e realizzarne uno nuovo,

certamente più positivo e armonico.

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La cultura scientifica e transdisciplinare della sostenibilità sta facendo progressi ragguardevoli, come

ci dimostra la stessa opera portata avanti da centri come il Worldwatch e l‟Earth Policy Institute. E

non può non colpire la constatazione del gap macroscopico che ancora separa questi progressi e

l‟inadeguata, quando non del tutto assente, risposta politica. La teoria e la prassi della sostenibilità

hanno oggi al loro arco molte frecce, la cui praticabilità è dimostrata da tanti esempi concreti. La

conoscenza scientifica che si sta accumulando sul funzionamento dei sistemi naturali, e sul ruolo

dell‟intervento umano esercitato su di essi, in seno alla comunità scientifica ha consentito di

raggiungere una convergenza su alcune importanti conclusioni.

Non a caso in occasione della prima Open Science Conference intitolata Challenges for a Changing

Earth, organizzata dai grandi programmi internazionali di ricerca sul cambiamento globale nel luglio

2001, da allora riunitisi nell‟Earth System Science Partnership per lavorare in maniera maggiormente

sinergica, è stata sottoscritta una dichiarazione comune che, tra l‟altro, afferma: “I cambiamenti

indotti dalle attività umane nel suolo, negli oceani, nell‟atmosfera, nel ciclo idrologico e nei cicli

biogeochimici dei principali elementi, oltre ai cambiamenti della biodiversità, sono oggi chiaramente

identificabili rispetto alla variabilità naturale. Le attività umane sono perciò a tutti gli effetti

comparabili, per intensità e scala spaziale di azione, alle grandi forze della natura. Molti di questi

processi stanno aumentando di importanza e i cambiamenti globali sono già una realtà nel tempo

presente. (...) I cambiamenti indotti dalle attività antropiche sono causa di molteplici effetti che si

manifestano nel sistema Terra in modo molto complesso. Questi effetti interagiscono fra di loro e

con altri cambiamenti a scala locale e regionale con andamenti multidimensionali difficili da

interpretare e ancor più da predire. Per questo gli eventi inattesi abbondano. (...) Le attività

antropiche hanno la capacità potenziale di fare transitare il sistema Terra verso stati che possono

dimostrarsi irreversibili e non adatti a supportare la vita umana e quella delle altre specie viventi.

Gianfranco Bologna

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I ringraziamenti di Lester Brown

Se è necessario un intero villaggio per far crescere un bambino, allora c‟è bisogno del mondo intero

per scrivere un libro che affronti problemi globali. Si comincia con il lavoro di migliaia di squadre di

scienziati e di squadre di ricercatori esperti in più settori: sono loro la fonte dalla quale attingiamo.

Il processo termina con i gruppi di traduzione che ne permettono la diffusione in più lingue. Siamo in

debito quindi con migliaia di ricercatori, oltre che con una ventina di gruppi di traduttori.

La squadra di ricerca dell‟Earth Policy Institute (EPI) è guidata da Janet Larsen, che ha analizzato

migliaia di relazioni scientifiche, articoli e libri, raccogliendoli, organizzandoli e riportando le

informazioni da includere nel libro.

Janet, oltre a essere il mio alter ego nel lavoro di ricerca bibliografica e nella stesura del testo, è il

mio migliore revisore e una cassa di risonanza per nuove idee.

J. Matthew Roney e Jignasha Rana hanno condotto uno sforzo di ricerca eroico, scoprendo nuovi dati

che hanno innalzato il livello di questa edizione.

Prima di trasferirsi nel Nord Carolina con la sua famiglia, Jonathan G. Dorn ha fornito un aiuto

inestimabile nel delineare il piano energetico di questa come e della precedente edizione.

Jessie Robbins e Jessica Clarke hanno abilmente contribuito alla raccolta dei dati, alla loro verifica e

alla rassegna stampa. Il loro entusiasmo e la loro dedizione ci hanno permesso di completare in

tempo questa edizione. A entrambe va la mia più profonda gratitudine.

Preferisco dettare il testo di un libro piuttosto che scriverlo di mio pugno. I miei ringraziamenti

vanno a Consuela (Sway) Headrick che ha trascritto le varie versioni e che, nel mezzo di questo

impegno, è anche riuscita a mettere al mondo una bellissima bambina, Rinay Steward.

Reah Janise Kauffman, la nostra vicepresidente, oltre a gestire l‟Istituto, permettendomi di

concentrarmi sulla ricerca, si occupa anche delle attività di comunicazione esterna che includono, tra

le altre cose, il coordinamento della nostra rete mondiale di editori, l‟organizzazione dei tour di

presentazione dei libri e il rapporto con i media. La produttività e la versatilità di Reah Janise sono la

chiave del successo del nostro Istituto. Il suo valore è testimoniato da 23 anni di lavoro fianco a

fianco.

Millicent Johnson, la nostra responsabile delle vendite, si occupa del settore pubblicazioni e funge da

direttrice del coordinamento e della gestione della biblioteca. Millicent, che con grande dedizione si

prende cura di migliaia di ordini librari, sostiene con orgoglio di poter rispondere a qualunque

problema entro ventiquattro ore.

Sono numerosi i revisori che mi hanno aiutato a dare la forma al prodotto finito. I miei colleghi

dell‟Earth Policy Institute hanno revisionato le bozze e mi hanno fornito spunti di approfondimento e

suggerimenti.

Peter Goldmark, editore per molti anni dell‟International Herald Tribune, ora a capo del programma

di protezione climatica dell‟Environmental Defense Fund, ha prestato la sua vasta esperienza per

identificare i punti forti e quelli deboli del manoscritto. Peter è uno dei più accaniti sostenitori del

libro e allo stesso tempo uno dei suoi critici più acuti.

Edwin (Toby) Clark, ingegnere ed economista, forte della sua pluridecennale esperienza come

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analista ambientale per il Council on Environmental Quality e come amministratore alla

Environmental Protection Agency degli Stati Uniti, ha fornito sia suggerimenti strutturali generali sia

commenti dettagliati, pagina per pagina.

William Mansfield, membro del consiglio dell‟Earth Policy Institute con una ricca esperienza in

campo ambientale, compresi diversi anni come vicedirettore del Programma delle Nazioni Unite per

l‟Ambiente, ci ha fornito molte indicazioni preziose.

Doug e Debra Baker hanno contribuito con le loro vaste conoscenze scientifiche, che spaziano dalla

fisica alla meteorologia, alla revisione critica di ciascun capitolo in modo costruttivo e incoraggiante.

Maureen Kuwano Hinkle, che vanta un‟esperienza di 26 anni sulle tematiche agricole acquisita

presso l‟Environmental Defense Fund e l‟Audubon Society, ha fornito importanti suggerimenti e

incoraggiamenti nel corso dell‟elaborazione del testo.

Frances Moore, già ricercatore dell‟EPI ora tornato all‟Università, ha messo a disposizione la sua

competenza con preziosi suggerimenti nelle settimane finali della stesura del testo. Anche Bridget

Collins del Patuxent Wildlife Research Center e la nostra nuova collaboratrice Amy Heinzerling

hanno contribuito alla forma finale del libro.

I miei ringraziamenti vanno anche a tutti quelli che sono stati di particolare aiuto nel fornire

specifiche informazioni in questa edizione: Mathias Bell, Euan Blauvelt, Colin J. Campbell, Martha

M. Campbell, Marie Coleman, Robert W. Corell, Ken Creighton, John Crenshaw, Emmet Curley,

Sandra Curtin, Rolf Derpsch, Junko Edahiro, Mark Ellis, David Fridley, Reed Funk, Nathan

Glasgow, Bill Heenan, Michael Hoover, Ryde James, Egil Juliussen, Doug Koplow, Felix Kramer,

Kathleen Krust, Rattan Lal, Alberto Del Lungo, Eric Martinot, Heitor Matallo, Hirofumi Muraoka,

Jack Oortwijn, Richard Register, Lara de Lacerda Santos Rodrigues, William Ryerson, Adam

Schafer, Richard Schimpf, Stefanie Seskin, John E. Sheehy, Kara Slack, J. Joseph Speidel, Jeff

Tester, Jasna Tomic, Martin Vorum, Brian P. Wallace, Wang Tao, Sarah Williams, Walter

Youngquist e Paul Zajac.

Come sempre, siamo in debito con la nostra editor, Linda Starke, che ha messo a nostra disposizione

i suoi 30 anni di esperienza internazionale nella pubblicazione di libri e rapporti sull‟ambiente. Ha

guidato con mano sicura non solo la revisione di questo libro ma anche di tutti quelli che ho scritto in

questi anni.

Questo testo è stato stampato a tempo di record grazie all‟impegno di Elizabeth Doherty, che ne ha

preparato le bozze seguendo scadenze assai serrate. L‟indice è stato abilmente composto da Kate

Mertes.

Per la diffusione di Piano B siamo coadiuvati da una rete di traduttori ed editori specializzati in 23

lingue. Oltre a quella inglese sono disponibili edizioni in: arabo, bulgaro, cecoslovacco, cinese,

coreano, farsi, francese, giapponese, indiano, italiano, marathi, norvegese, polacco, portoghese,

rumeno, russo, spagnolo, svedese, tedesco, thailandese, turco e ungherese.

Abbiamo tre editori in inglese (Usa/Canada, Gran Bretagna/Commonwealth e India/Asia

meridionale), due in spagnolo (Spagna e America Latina) e due in cinese (Cina continentale e

Taiwan).

Queste traduzioni sono spesso effettuate da persone impegnate nel campo ambientale.

In Iran, la squadra composta da Hamid Taravati e Farzaneh Bahar, marito e moglie, ambedue medici,

coordina una Ong ambientalista e traduce le pubblicazioni EPI in lingua farsi. La loro traduzione di

Page 23: L. Bro wn - Piano B 4.0

23

Piano B gli ha fatto vincere un premio letterario nazionale. Il Ministero dell‟Ambiente e

dell‟Agricoltura ne acquista regolarmente un gran numero di copie per distribuirle ai propri

dipendenti.

In Cina, Lin Zixin si è occupato della pubblicazione dei miei libri in cinese per più di 20 anni. Sia il

premier Wen Jiabao sia Pan Yue, viceministro dell‟Ambiente, hanno citato Piano B 2.0 in articoli e

discorsi pubblici. L‟edizione cinese del Piano B ha ricevuto un ambito premio letterario nel 2005 da

parte della National Library of China.

In Giappone, Soki Oda, che lanciò 20 anni fa il Worldwatch Japan, è responsabile delle nostre

pubblicazioni e organizza tour promozionali. Iinfaticabile nel suo lavoro di diffusione, sta già

pianificando la diffusione dell‟edizione giapponese di Piano B 4.0.

Gianfranco Bologna, con il quale intrattengo una piacevole amicizia da più di 25 anni, cura

l‟edizione italiana dei nostri libri. Nella sua qualità di direttore scientifico del WWF Italia gode di

una posizione esclusiva per assisterci in questa impresa. Viene aiutato nel lavoro di traduzione da un

variegato team coordinato da Dario Tamburrano e formato di cittadini attivisti che lavorano in rete e

provengono da varie realtà ambientaliste, dagli amici di Beppe Grillo di Roma agli appartenenti al

nodo italiano del Movimento delle Transition Town.

In Romania, l‟ex presidente Ion Iliescu iniziò a pubblicare i nostri libri circa 20 anni fa, quando

dirigeva la casa editrice Editura Tehnica. Il suo orgoglio è la pubblicazione contemporanea della

versione inglese e rumena. Questo è reso possibile dall‟abilità organizzativa di Roman Chirila della

Editura Tehnica.

In Turchia, la più importante Ong ambientale, TEMA, che lavora soprattutto sulla riforestazione

delle campagne, ha pubblicato per molti anni i miei libri. Con l‟aiuto di Ted Turner hanno distribuito

4.250 copie di Piano B 3.0 a politici, studiosi e altre personalità con poteri decisionali.

Nella Corea del Sud, Yul Choi, fondatore della Korean Federation for Environmental Movement e

attualmente presidente della fondazione Green Korea, ha pubblicato i miei libri e supervisiona la loro

diffusione per la casa editrice Doyosae.

Vanno poi ricordate le persone che sono comparse dal nulla offrendosi di pubblicare e promuovere il

Piano B. Per esempio, Lars e Doris Almström hanno tradotto Piano B 3.0 e in Svezia hanno trovato

un editore eccellente. Ispirati dal libro, hanno realizzato un sito web www.planb3.se per promuovere

il lavoro dell‟Earth Policy Institute e per rendere la versione svedese disponibile per il download,

oltre che per implementare una versione svedese del Piano B.

Olav Randen, il nostro editore norvegese, ci ha contattato due mesi prima che venisse fissata la data

per il lancio dell‟edizione svedese di Piano B 3.0. Grazie a uno sforzo non comune, ha tradotto e

pubblicato il libro in tempo affinché l‟edizione norvegese uscisse solo un giorno dopo quella

svedese.

Pierre-Yves Longaretti e Philippe Vieille in Francia, hanno preso alla lettera l‟appello alla

mobilitazione contenuto in Piano B 2.0 e non solo lo hanno tradotto, ma hanno ingaggiato un editore

di livello mondiale, Calman-Lévy. Successivamente hanno fondato una Ong, Alternative Planetaire,

e un sito web per promuovere il Piano B in Francia (www.alternativeplanetaire.com).

Bernd Hamm, professore dell‟università di Trier, ha personalmente preparato una traduzione per un

editore tedesco, Kai Homilius Verlag, per la pubblicazione di Piano B 2.0. Kai Homlius Verlag ha

poi pubblicato anche Piano B 3.0 e sta preparando Piano B 4.0.

Page 24: L. Bro wn - Piano B 4.0

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L‟edizione spagnola di Piano B 2.0 e di Piano B 3.0 per l‟America Latina è stata seguita da Gilberto

Rincon del Centre of Studies for Sustainable Development in Colombia.

L‟edizione ungherese di Piano B 3.0, disponibile in forma elettronica sul nostro sito web, è il

risultato degli sforzi dell‟infaticabile David Biro, un insegnante scolastico ungherese.

Samir Menon e i suo colleghi del Globally Managed Services (GMS) hanno pubblicato l‟edizione

indiana e inglese per l‟India e ne hanno curato la promozione. Il GSM offre un lavoro di consulenza

presso le aziende dell‟ASEAN (Association of Southeast Asian Nations) su come conciliare le

necessità economico-finanziarie con la tutela delle risorse ambientali. Coloro che sono al lavoro nella

promozione del Piano B (si consulti l‟area “people in action” sul nostro sito web) stanno aumentando

di numero e di entusiasmo.

Desidero ringraziare personalmente i componenti delle nostre “squadre” del Piano B, le diverse

migliaia di persone che hanno acquistato 5 o più copie di Piano B, Piano B 2.0, Piano B 3.0 per

distribuirle agli amici, ai colleghi di lavoro e ai personaggi chiave della collettività di cui fanno parte.

Quando pubblicammo la prima versione del piano B, sei anni fa, ci accorgemmo che circa 700

persone che avevano comprato una copia del testo ne avevano successivamente acquistate 5, 10 o 50

per diffonderlo. A ogni nuova edizione, si sono uniti a questi molti nuovi acquirenti di più copie.

A capo di tutte queste squadre c‟è ora Ted Turner, che distribuisce una copia di ogni nuova edizione

di Piano B ai capi di stato e ai membri del loro gabinetto e ai 500 amministratori d‟azienda inseriti

nella classifica di Fortune. Turner ha distribuito 5.500 copie di Piano B 3.0. Squadre per un Piano B

nazionale si sono formate in Giappone, guidate da Toshishige e Masatsugu Kurosawa, e in Turchia

dall‟associazione TEMA.

Siamo felici di annunciare che un film ispirato a Piano B 4.0 è al momento in lavorazione. Hal e

Marilyn Weiner della ScreenScope stanno preparando un lavoro della durata di due ore che vedrà la

luce nella primavera del 2010.

Dobbiamo molto anche ai nostri finanziatori. Senza il loro aiuto questo libro non esisterebbe. Tra

questi troviamo la Foundation for the Carolinas; i Rockefeller Brothers e l‟United Nations

Population Fund; le fondazioni Farview, McBride Family, Laney Thornton, Shenandoah, Summit,

Turner e Wallace Genetic.

Earth Policy Institute è finanziato anche da singoli donatori. Mi preme ringraziare in maniera

particolare Ray Anderson, Charles Babbs, Junko Edahiro, John Robbins e Jeremy Waletzky per la

loro munifica generosità. Altri donatori sono Doug e Debra Baker, Peter Carter, Judith Gradwohl,

Maureen Kuwano Hinkle, Elaine Marszalek, Peter Seidel e molti altri.

Per concludere, i miei ringraziamenti al team della W.W. Norton & Company: Amy Cherry, la nostra

archivista; Devon Zahn, che ha messo il libro in produzione rapidamente; Ingsu Liu, art director per

la copertina e la grafica; Bill Rusin, direttore del marketing e Drake McFeely, il presidente, che

ringrazio in maniera particolare per il suo aiuto. È un piacere lavorare con un gruppo ricco di talenti

come questo e aver pubblicato libri per più di 30 anni con la W.W. Norton.

E grazie a voi, i nostri lettori. Alla fine, il successo di questo libro e la realizzazione del Piano B

dipendono anche da voi e dal vostro contributo.

Lester R. Brown

Page 25: L. Bro wn - Piano B 4.0

25

I traduttori di Piano B 4.0

Alina d'Amelia

(Provenienza iniziale: Rete Transition Italia)

Laureata nell'Insegnamento dell'Italiano agli Stranieri e Specializzata in

Traduzione. 30 anni. Dopo anni di lavoro all'estero è rientrata in Italia a

Roma dove vive e lavora come insegnante e traduttrice. Diplomata in

Permacultura ha allevato mucche e vitelli e sta avviando un'azienda

agricola senza impiego di derivati petroliferi, per cui si sta specializzando

in lavorazioni agricole a trazione animale.

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Debora Billi

(Provenienza iniziale: Blogosfera)

Laureata in Antropologia. E' nata e vive a Roma. Giornalista free-lance con un passato da

pubblicitaria, ora si occupa principalmente di petrolio, problemi energetici, e dinamiche socio

economiche legate alla scarsità. Socia di ASPO-Italia (Association for the Study of Peak Oil) e cura

il blog Petrolio e Crisis.

Page 27: L. Bro wn - Piano B 4.0

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Stefania Bottacin

(Provenienza iniziale: Rete Transition Italia)

Laureata in Ingegneria dei Materiali, 40 anni, vive a Copparo (FE) si

occupa di metallurgia in una azienda metalmeccanica emiliano-tedesca.

Si interessa di sostenibilità, protezione della diversità e di Transizione

che l'ha recentemente contagiata.

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Pietro Cambi

(Provenienza iniziale: Blogosfera)

Laureato in Geologia ed Ingegneria Ambientale. Nato 46 anni fa a Firenze ove vive e lavora.

Consulente dei Tribunali di Firenze, Palermo e Torino su tematiche inerenti il rischio idrogeologico,

idraulico, dissesti e frane. In questa veste ha seguito per conto della Magistratura importanti

processi penali e civili riguardanti la Tav, i lavori delle Olimpiadi 2006 e ditte e terreni sequestrati a

mafiosi di primo piano. Membro del comitato scientifico di ASPO-Italia, insieme a Debora Billi, ha

aperto e gestisce il blog Crisis. Presidente e fondatore dell'associazione Eurozev, per la conversione

elettrica dei veicoli euro zero e della società Alterenergy srl, nata per realizzare impianti pilota con

tecnologia e modalita‟ innovative nel settore delle energie rinnovabili, in particolar modo il

minieolico e il fotovoltaico a film sottile.

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Giusy Campo

(Provenienza iniziale: Rete Meetup - Roma)

Giusy Campo, laureata in lingue, 53 anni vive a Roma e si occupa di marketing editoriale per una

casa editrice universitaria, dopo esperienze professionali come bibliotecaria e traduttrice. Negli anni

'80 è stata militante del movimento femminista e sindacale. Successivamente si è interessata alle

tematiche ambientali e segue con attenzione i movimenti attivamente impegnati in tal senso

nell'ambito cittadino e nazionale.

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30

Riccardo Deliziosi

(Provenienza iniziale: Rete Transition Italia)

Laureato in Economia e Commercio, 41 anni, vive a Saronno. Direttore commerciale presso

un'azienda e felicemente sposato e padre di 3 figli, è un po' preoccupato per il loro futuro. Amante

della bicicletta, dal 2008 è attivo nel Movimento della Transizione, organizzando incontri ed eventi

sul proprio territorio con l'intento di promuovere consapevolezza e cambiamento. Partecipa a gruppi

di acquisto critico e solidale. E' un permacultore alle prime armi.

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Erica Giuliani

(Provenienza iniziale: Rete Meetup - Roma)

Laureata in Odontoiatria, 29 anni, vive a Roma ove esercita la libera professione di dentista. Sta

frequentando un Master di Specializzazione in Salute Publica Odontoiatrica al King's College di

Londra. All'estero, segue alcuni progetti di cooperazione internazionale, volti in particolare alla

tutela della salute orale della popolazione palestinese. In Italia, si occupa invece di promuovere

l'accesso alle cure odontoiatriche pubbliche.

Page 32: L. Bro wn - Piano B 4.0

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Chiara Righele

(Provenienza iniziale: Rete Transition Italia)

Laureata in Traduzione e Interpretariato, 30 anni, lavora come traduttrice tecnica in un'azienda. Nel

tempo libero si dedica a "forme di vita e di economia alternative", fa parte di un gruppo di acquisto

solidale, coltiva piccoli frutti e qualche ortaggio in maniera disordinata e casuale, pasticcia in

cucina e sferruzza senza metodo.

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33

Deborah Rim Moiso

(Provenienza iniziale: Transition Italia)

Laureata in Comunicazione Internazionale, 28 anni, traduttrice, scrittrice e giornalista. Nata ad Asti

con di origini miste americo/piemontesi ora vive nelle colline dietro Perugia, in Umbria, dove

coltiva un orto che vorrebbe trasformare in un Forest Garden e sogna un mondo in transizione,

pieno di meli e mercatini bio. Parte dell'anno lo trascorre in Irlanda, dove finge di dare una mano in

una fattoria biologica alle isole Aran, quando in realta' e' li per fare le coccole al gatto. Fa parte del

movimento delle Transition Town, anche come facilitatrice, e ha pubblicato racconti per adulti e

bambini in Italiano e in Inglese su riviste, quotidiani e antologie.

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Dario Tamburrano

(Provenienza iniziale: Rete Meetup - Roma)

Laureato in Odontoiatria, 40 anni, nato a Roma ove vive ed esercita la libera professione di

dentista. Si interessa da sempre di tematiche ecologiste, energetiche ed agronomiche. Cofondatore

del Circolo delle Decrescita di Roma e di Transition Italia, è attualmente socio di ASPO-Italia,

dell'associazione Amici di Beppe Grillo di Roma ed iscritto al Movimento 5 Stelle. Coordina il

gruppo di traduzione che ha tradotto Piano B e vari altri libri e documenti inediti in Italia e che

potrete a breve leggere gratuitamente in questo sito. Ha frequentato per un periodo il corso di

Laurea in Progettazione e Gestione dell'Ambiente a Bracciano, per poi scegliere di dedicarsi alla

formazione indipendente, alla divulgazione in rete ed all'attivismo ambientalista. Il suo sogno è di

contribuire alla rinascita in Italia di un movimento ecologista politico e culturale che possa

dolcemente traghettare il paese nell'era post petrolifera. Il suo più intimo desiderio è però la

creazione di un Forest Garden Permaculturale nel Parco Nazionale del Cilento per poterci andare a

vivere con la famiglia.

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35

Ascanio Vitale

(Provenienza iniziale: Rete Meetup - Roma)

Laureato in Ingegneria con doppia formazione, Aerospaziale ed Elettronica Nato a Napoli 35 anni

fa, ha studiato a Londra, vive ora a Roma. Ha collaborato per oltre 15 anni con WWF e Greenpeace,

coprendo le posizioni di responsabile Energia sia a livello nazionale che europeo e partecipando a

progetti internazionali. Ha fatto parte della commissione di garanzia del bollino 100% Energia

Verde e ha partecipato al progetto europeo EQUAL con una ricerca sui sussidi alle fonti fossili

nella UE. Dal 2006 ha fondato una E.S.Co. (Stop CO2) con cui porta avanti progetti di efficienza

energetica e produzione da fonti rinnovabili. Recentemente ha cominciato a collaborare con il Fatto

Quotidiano come articolista su ambiente, energia e rifiuti.

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VIDEO INTERVISTA A LESTER BROWN DEL 14 MAGGIO 2010

La Chernobyl dell'industria petrolifera

(Videointervista tratta dal Blog di Beppe Grillo)

Blog BeppeGrillo.it:

"Qualche settimana fa, una piattaforma petrolifera di BP è esplosa e il petrolio sta riversandosi nel

Golfo del Messico. Nel mentre, in Europa, stanno fallendo gli Stati. Cosa sta capitando al mondo?"

Lester Brown:

"Non sappiamo cosa sia andato storto. Sappiamo però che BP stava perforando in una zona dove

l‟acqua era profonda oltre un miglio, e il giacimento si trovava sotto un ulteriore mezzo miglio di

pietra. Il petrolio si trovava quindi sotto un'enorme pressione. Ci sono due questioni. È andato storto

qualcosa, o forse la pressione di questo giacimento era così elevata che la tecnologia esistente non è

stata in grado di controllarla? Se vale la seconda ipotesi, questo fa alzare una bandiera rossa sulle

trivellazioni in alto mare e ad alte profondità, perché non si sa bene quali condizioni si incontreranno.

Può essere che, nonostante la tecnologia di trivellazione in alto mare sia stata efficace in passato,

potrebbero non essere adeguate per gestire i nuovi problemi che stanno emergendo in condizioni

estreme. Qualcuno ha detto che questo evento potrebbe essere la Chernobyl per l‟industria

petrolifera, almeno per le trivellazioni in alto mare.

Perché, se questi versamenti di petrolio continueranno per mesi, il danno ambientale ed economico

che arrecheranno sarà enorme. La cosa interessante per la contabilità nazionale è che questo evento

farà aumentare il PIL nelle regioni del Golfo del Messico, dal momento che tutti cercheranno di

controllare il problema. Poi certamente calerà, dal momento che danneggerà le economie locali,

spiagge, la fauna marina, la pesca, le industrie locali.

Siamo probabilmente arrivato al limite tecnologico per estrarre comodamente il petrolio dai

giacimenti residui. Questi versamenti stanno influenzando l‟opinione pubblica. Visto che sappiamo

che dobbiamo comunque abbandonare il petrolio, perché corriamo questi rischio solo per estrarre il

poco che ne rimane? Credo che questo cambierà il modo in cui pensiamo al futuro del petrolio e di

tutti i carburanti fossili.

È interessante notare che i valori che guidano il sovra-consumo delle risorse naturali sono gli stessi

valori che guidano il sovra-consumo di risorse finanziare. L‟eccessivo consumo che supera la

capacità dei sistemi creditizi. Lo abbiamo visto negli Stati Uniti con l‟enorme debito del sistema

creditizio degli americani. Ora è calato un po‟, ma gli americani continuano a non preoccuparsi del

domani. Ciò porta a problemi economici e a problemi ambientali, per il sovra-consumo di risorse

naturali e l‟interconnessione tra le due.

Il problema maggiore che il mondo si trova a fronteggiare oggi è l‟aumento dell‟economia negli

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37

ultimi cinquant‟anni - è cresciuta di circa quattro volte - e il conseguente aumento del consumo delle

risorse naturali molto oltre il livello sostenibile. L‟agricoltura sta diminuendo, la pesca sta crollando,

le falde acquifere stanno diminuendo, i suoli si erodono, le savane si stanno desertificando. Stiamo

lentamente distruggendo, e forse non così lentamente, i sistemi naturali di supporto. Nessuna civiltà

può sopravvivere oltre la distruzione dei propri sistemi naturali di supporto.

Mi sono chiesto in quali modi questo sovraconsumo ci danneggerà. La mia previsione è che si

tradurrà in una crisi di disponibilità di cibo, aumento di prezzi e aumento della instabilità politica, e

un numero crescente di Stati falliti. Il numero totale degli Stati in via di fallimento - Stati i cui

governi non sono in grado di garantire la sicurezza personale o sicurezza alimentare - sta

aumentando. Ciò fa nascere una domanda scomoda: quanti Stati sulla via del fallimento ci vogliono

per far fallire la civiltà? Non conosciamo ancora la risposta a questa domanda. Non abbiamo mai

visto niente del genere.

L'ignoranza degli economisti

Gli economisti sono come esclusi dal mondo reale. Sono isolati dalla realtà dal corpo della teoria

economica. Cercano di trovare il modo migliore per operare piccoli aggiustamenti per adattare il

sistema e spiegare ciò che accade, ma la teoria economica fallisce nel tentativo di spiegare le

relazioni fondamentali tra la l‟economia globale e i sistemi naturali di supporto. Mi sono accorto che

gli economisti che consigliano Obama o il Segretario Generale dell‟ONU, o la Banca Mondiale, o il

presidente della UE non capiscono cosa stia accadendo al mondo e non capiscono l‟urgenza di

ristrutturare l‟economia energetica mondiale per esempio.

L‟economia non spiega il cambiamento climatico. Per esempio, la fusione dei ghiacci nell‟estremo

nord dell‟Atlantico potrebbe portare all‟inondazione delle coltivazioni di riso nei delta dei fiumi

asiatici, riducendo drasticamente i raccolti di riso. A meno che non si studino queste cose, non è

ovvio intuire che lo scioglimento dei ghiacci in Groenlandia sta minacciando la raccolta di riso in

Asia, dove vive la metà della popolazione mondiale. È questo genere di complessità che ci troviamo

a gestire. Gli economisti non hanno gli strumenti giusti per definire politiche adeguate.

La metà della popolazione mondiale vive in Paesi dove il livello delle falde acquifere si sta

abbassando. Tra questi i tre grandi produttori di grano: Cina, India e Stati Uniti. Ci sono anche molti

Paesi più piccoli: Arabia Saudita, Yemen, Siria, Pakistan, Messico e altri. Pompando acqua dalle

riserve acquifere oltre il livello di riempimento naturale, stiamo alimentando una bolla nella

produzione di cibo. Stiamo inflazionando la produzione di cibo artificialmente esaurendo le scorte

d‟acqua.

Il picco dell'acqua

Quando avremo esaurito le scorte d‟acqua, il tasso di prelievo dovrà necessariamente ridursi fino al

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tasso di riempimento naturale. Non si tratta di ipotesi o argomenti di dibattito. È la realtà. Quindi

abbiamo bolle della produzione di cibo di dimensione significativa che prima o poi scoppieranno e

non credo che il mondo sia pronto a questo. A me pare che le aree irrigate negli Stati Uniti hanno

raggiunto un picco e stanno ora diminuendo. Ciò vale certamente anche per l‟India. Potrebbe valere

anche per la Cina, non siamo sicuri, e per un numero di piccoli Stati: Arabia Saudita, Siria, Messico.

Ciò significa che probabilmente abbiamo raggiunto il picco di estrazione dell‟acqua

contemporaneamente al raggiungimento del picco di estrazione del petrolio.

Molta gente parla del picco del petrolio, ma pochi parlano del picco dell‟acqua. Ma penso che ci

siamo ora e credo di aver argomentazioni convincenti. Il mondo dopo il picco dell‟acqua sarà un

mondo diverso da quello che conoscevamo prima del picco. Nel corso delle nostre vite l‟uso

dell‟acqua per le aree irrigate che contano per il 70% dell‟acqua utilizzata, diminuirà. Sarà un mondo

molto diverso, che non abbiamo ancora immaginato. Lo stesso vale per il petrolio, naturalmente. Nel

corso delle nostre vite il tasso di estrazione è aumentato e ora diminuisce. Sarà un mondo molto

differente.

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1. SVENDERE IL FUTURO

Di tanto in tanto mi piace andare a rileggere le storie di civiltà antiche che hanno attraversato una

fase di declino e poi si sono estinte, nel tentativo di capire le ragioni della loro scomparsa. Molto

spesso, la risposta sta nella diminuzione delle riserve alimentari. Nel caso dei Sumeri, un aumento di

salinità del suolo, risultato di un errore nel sistema di irrigazione, provocò una graduale riduzione

della produttività delle colture di grano e orzo, fino al declino della civiltà stessa.

Nella civiltà Maya, l‟erosione del suolo moltiplicò gli effetti di anni di siccità prolungata, causando

una pressione sulle riserve alimentari e sulla civiltà nel suo complesso. In molti casi, l‟erosione del

suolo e la conseguente diminuzione dei raccolti segnarono l‟inizio della fine.

La nostra civiltà è forse destinata a subire la stessa sorte? Fino a poco tempo fa, non sarebbe

sembrato possibile. Ho faticato ad accettare l‟idea che una serie di crisi alimentari potrebbe portare al

collasso la civiltà globale e globalizzata del ventunesimo secolo. Eppure i nostri ripetuti fallimenti

nel tentare di arrestare i meccanismi ambientali che stanno attualmente minando la sicurezza

dell‟economia alimentare, mi costringono ad ammettere che, se continueremo a operare come se

nulla fosse, il tracollo di questa civiltà non appare soltanto possibile, bensì probabile.

Il recente aumento del prezzo dei cereali mette in luce la gravità della situazione. Dalla metà del

2006 alla metà del 2008, i prezzi sul mercato mondiale di grano, riso, mais e soia sono praticamente

triplicati, arrivando a quote record. Solo con l‟arrivo della crisi economica globale, nel 2008, le

quotazioni hanno cominciato a scendere, rimanendo comunque molto più alte della media storica.

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Negli ultimi cinquant‟anni, il mondo ha attraversato altri momenti in cui il prezzo dei cereali ha

segnato un‟impennata, ma mai come oggi. Le crisi precedenti erano legate a specifici eventi: un

monsone mancato in India, una severa siccità in Unione Sovietica o un‟ondata di calore abbastanza

intensa da danneggiare le coltivazioni nel Midwest americano. Gli aumenti erano sempre temporanei,

causati da eventi meteorologici che non duravano più di una stagione e generalmente le perdite

venivano recuperate nel raccolto seguente. L‟anomalo balzo del prezzo dei cereali nelle annate 2006-

2008 è diverso poiché è la conseguenza di una tendenza sistemica. Il che significa che ogni speranza

di svincolarci dalla morsa della scarsità alimentare dipende dalla nostra capacità di intervenire sui

trend di sistema che la stanno causando, tra cui l‟erosione dei suoli, l‟abbassamento delle falde

idriche e l‟aumento delle emissioni di anidride carbonica.

Mentre i prezzi del cibo crescono, aumentano anche gli affamati. Uno degli Obiettivi di Sviluppo del

Millennio delle Nazioni Unite è la riduzione di fame e malnutrizione. Alla metà degli anni Novanta,

il numero di persone in questo stato era sceso a 825 milioni. Invece di continuare a calare, ha al

contrario preso a salire, fino ad arrivare ai 915 milioni della fine del 2008, per poi toccare cifre

superiori al miliardo nel 2009. Proiettando nel futuro la situazione attuale, sembra che la

combinazione del previsto aumento demografico, della scelta di produrre carburante per le

automobili a partire dai cereali, della scarsità di risorse idriche e di altri fattori, potrà portare il

numero di chi soffre la fame a 1,2 miliardi, o più, entro il 2015.

L‟aumento del prezzo degli alimenti e l‟ingrossarsi delle fila degli affamati sono tra i primi segnali

che il sistema alimentare globale è ormai alle strette. In un‟epoca in cui il progresso è visto come un

destino ineluttabile, la recente marcia indietro in campo alimentare rappresenta un ostacolo

preoccupante. Ogni giorno di più si fa strada l‟ipotesi del cibo come “anello debole” della nostra

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civiltà, proprio come fu per le passate culture di cui oggi non ci rimangono altro che i resti

archeologici.

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1.1 L’anello debole: il cibo

In un‟epoca in cui il mondo fatica a dare da mangiare a tutti i suoi abitanti, gli agricoltori si trovano a

dover affrontare situazioni piuttosto difficili. Nel mercato alimentare, sul versante della domanda

sono in atto tre processi che vanno nella direzione di un balzo dei consumi: la crescita demografica,

l‟aumento dell‟uso di proteine animali derivate dall‟impiego di mangimi a base di cereali e, in tempi

recentissimi, il loro utilizzo anche per la produzione di carburanti per autotrazione.

Sul lato dell‟offerta sono in atto numerosi fenomeni ambientali che rendono sempre più difficile

incrementare in maniera sufficientemente rapida la produzione alimentare. Tra i fattori principali

troviamo l‟erosione dei suoli, l‟esaurimento delle falde acquifere, ondate anomale di calore che

riducono la produttività delle colture, la fusione delle calotte polari con conseguente innalzamento

dei mari e lo scioglimento dei ghiacciai dai quali dipendono le grandi reti fluviali e i sistemi irrigui.

Inoltre tra le tendenze attuali ve ne sono tre che hanno conseguenze sulla capacità di

approvvigionamento alimentare: l‟uso di terreno agricolo a scopi edilizi, industriali, residenziali, lo

sfruttamento delle riserve idriche per l‟approvvigionamento urbano piuttosto che per l‟agricoltura, e

l‟imminente riduzione della disponibilità di petrolio.

Il fenomeno che desta maggiore preoccupazione è la crescita demografica. Ogni anno 79 milioni di

persone in più si siedono alla nostra tavola. Sfortunatamente, la stragrande maggioranza di queste,

nasce in paesi dove è compromessa la fertilità dei suoli, le falde acquifere sono in via di esaurimento

e i pozzi per l‟irrigazione si stanno prosciugando. Se non riusciremo a frenare la crescita

demografica, potremmo non riuscire a sconfiggere la fame.

Allo stesso tempo, mentre la popolazione aumenta, circa 3 miliardi di persone lottano per ascendere

la catena alimentare, consumando maggiori quantità di carni di animali nutriti da mangimi basati sui

cereali. In cima alla catena alimentare spiccano gli Stati Uniti e il Canada, dove ogni abitante

consuma una media di 800 kg di cereali l‟anno, prevalentemente per via indiretta sotto forma di

carne bovina, suina e ovina, latte e uova. Al fondo della catena troviamo l‟India, dove vi è un

consumo di cereali di meno 200 kg l‟anno pro capite, dei quali la maggior parte in forma diretta,

mentre solo una parte trascurabile sono convertiti in proteina animale.

Come se non bastasse, ci sono nel mondo i proprietari di 910 milioni di automobili: tutti vogliono

mantenere il proprio livello di mobilità attuale e pochissimi sono interessati a sapere se il carburante

che consumano proviene da un pozzo petrolifero o da un campo di mais. La corsa agli investimenti

nelle raffinerie di bioetanolo che ha seguito l‟aumento dei prezzi della benzina (fino a circa 80

centesimi di dollaro al litro) negli Stati Uniti nel 2005, in conseguenza dell‟uragano Katrina, ha

provocato un aumento nella domanda globale di mais da circa 20 milioni di tonnellate l‟anno, a più

di 40 milioni sia nel 2007 che nel 2008, in una competizione epocale per il consumo di cereali tra

macchine ed esseri umani.

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43

Guardando alle sfide dal lato dell‟offerta, l‟erosione dei suoli sta attualmente intaccando la

produttività di circa il 30% delle terre coltivabili. In alcuni paesi, come il Lesotho o la Mongolia, la

perdita di suolo è arrivata a dimezzare la produzione di cereali nell‟arco di trent‟anni. In Kazakistan,

il luogo scelto mezzo secolo fa per il progetto sovietico delle Terre Vergini (Soviet Virgin Lands), il

40% dei campi è stato abbandonato a partire dal 1980. Le gigantesche tempeste di polvere che

prendono origine dall‟Africa subsahariana, dal nord della Cina, dalla Mongolia occidentale e

dall‟Asia Centrale testimoniano che sono sempre più numerose le aree del pianeta che stanno

perdendo la componente organica del suolo.

Mentre il fenomeno della riduzione dello strato superficiale di terreno produttivo è nato con le prime

coltivazioni di grano e orzo, il trend dell‟abbassamento delle falde acquifere è storicamente recente,

dato che la tecnologia necessaria a pompare acqua dal sottosuolo ha appena qualche decennio. La

conseguenza è il calo di livello delle falde idriche in paesi che, sommati insieme, ospitano la metà

della popolazione mondiale. I pozzi si seccano mano a mano che gli acquiferi si esauriscono laddove

si diffonde l‟usanza di pompare acqua di falda in quantità eccessiva. L‟Arabia Saudita ha comunicato

che si sta prosciugando la propria falda acquifera principale di origine fossile e che pertanto il paese

cesserà completamente la produzione di grano entro il 2016. Uno studio della Banca Mondiale

dimostra che 175 milioni di persone in India sono nutrite grazie a falde sovrasfruttate, mentre per la

Cina si parla di altri 130 milioni di persone.

Anche i cambiamenti climatici minacciano la sicurezza alimentare. Da un certo punto in poi,

l‟aumento delle temperature rappresenta un problema per la produzione agricola. Ogni aumento di 1

grado Celsius durante la stagione vegetativa, può significare per i coltivatori una diminuzione del

10% dei raccolti di grano, riso e mais. Dal 1970 ad oggi, la temperatura superficiale media del

pianeta è aumentata di 0,6 ºC. L‟IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) prevede che la

temperatura aumenterà di 6 ºC nell‟arco di questo secolo.

Al crescere della temperatura, i ghiacciai montani stanno fondendo in tutte le località del mondo. Il

continente più colpito è l‟Asia, poiché sono i ghiacciai della catena himalayana e dell‟altopiano

tibetano a rifornire d‟acqua i grandi fiumi che attraversano India e Cina e dai quali sono alimentati i

sistemi di irrigazione durante la stagione secca. In Asia, i campi di riso e di frumento dipendono da

questi corsi fluviali. La Cina è il più grande produttore al mondo di frumento. L‟India è il secondo.

(Al terzo posto ci sono gli Stati Uniti). Gli stessi due paesi vantano i più grandi raccolti al mondo di

riso. Qualunque cosa succeda alle produzioni di questa coppia di giganti demografici influenzerà il

prezzo degli alimenti in tutto il mondo. Anzi, la prevista fusione dei ghiacciai da cui dipendono

questi due paesi è probabilmente il più grave pericolo per la sicurezza alimentare mai affrontato

dall‟umanità.

Le ultime informazioni disponibili sull‟aumento del ritmo di fusione delle calotte polari in

Groenlandia e nell‟Antartico occidentale ci dicono che lo scioglimento dei ghiacci, in combinazione

con l‟espansione termica degli oceani, potrebbero far salire il livello del mare di quasi due metri

nell‟arco di questo secolo. Tutti i delta fluviali dell‟Asia, zone di coltivazione del riso, sono

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minacciati dalla fusione delle calotte. Basterebbe un innalzamento di un metro per distruggere le

risaie del delta del Mekong, corrispondente a più della metà del raccolto del riso vietnamita, che ne è

il secondo esportatore al mondo. Una mappa elaborata dalla Banca Mondiale mostra che

l‟innalzamento dei mari di un metro inonderebbe la metà delle terre coltivate a riso in Bangladesh,

dove abitano 160 milioni di persone. Il destino di centinaia di milioni di individui che dipendono dai

raccolti delle risaie poste nei delta fluviali e nelle pianure alluvionali del continente asiatico è legato

a doppio filo al destino delle due grandi calotte polari.

Dopo la Seconda guerra mondiale, all‟aumentare della richiesta di fonti di cibo, il mondo ha

guardato agli oceani per rifornirsi di proteine animali. Dal 1950 al 1996 il pescato mondiale è passato

da 19 milioni a 94 milioni di tonnellate annue. Ma da allora questa crescita ha subito una battuta di

arresto. Siamo giunti al limite prima sul mare che sulla terra: dal 1996 in poi, se la fornitura di pesce,

molluschi e crostacei è aumentata, è stato possibile grazie agli allevamenti, la cui crescente richiesta

di mangimi, la maggior parte dei quali a base di soia e cereali, necessita di ulteriori risorse in termini

di terre coltivabili e acqua.

I deserti avanzano (a causa dello sfruttamento eccessivo delle terre per la pastorizia, dell‟aratura

troppo aggressiva e della deforestazione) e stringono d‟assedio le terre coltivate nell‟Africa

sahariana, nel Medio Oriente, in Asia Centrale e in Cina. L‟espansione dei deserti nel nord e

nell‟ovest della Cina ha costretto la popolazione ad abbandonare, completamente o in parte, oltre 24

mila villaggi con i relativi terreni. In Africa, il Sahara si estende verso sud, invadendo i campi della

Nigeria, e verso nord, dove accerchia le zone di produzione del frumemto dell‟Algeria e del

Marocco.

I contadini stanno perdendo le terre e l‟acqua, che vengono invece destinate ad altri usi. La

cementificazione è particolarmente allarmante in Cina, in India e negli Stati Uniti. La Cina, con i

suoi imponenti progetti industriali ed edilizi, sta asfaltando centinaia di strade, autostrade e parcheggi

per accogliere un parco macchine sempre più numeroso ed è forse lo stato in cui è più forte la perdita

di terreno coltivabile. Negli Stati Uniti, l‟espansione diffusa delle periferie (sprawl) copre vaste aree

di quelli che un tempo erano terreni agricoli.

Dato che in molti paesi non è possibile ottenere ulteriori approvvigionamenti idrici, per soddisfarne

la richiesta da parte delle città, viene sottratta acqua all‟irrigazione. Migliaia di contadini della riarsa

California trovano più conveniente cedere l‟acqua alle metropoli di Los Angeles e San Diego

piuttosto che destinarla agli usi irrigui, lasciando così le terre incolte. In India, i villaggi vendono

l‟acqua dei pozzi di irrigazione alle città vicine. Anche i contadini cinesi perdono i diritti di

sfruttamento dell‟acqua, che va a soddisfare le esigenze urbane.

Sullo sfondo, poi, si staglia la prospettiva di una riduzione nell‟uso del petrolio e degli idrocarburi, a

causa o di un calo di produzione o degli impegni internazionali volti a ridurre le emissioni di anidride

carbonica (o, più probabilmente, da una qualche combinazione delle due cose). Se i raccolti di grano

sono triplicati negli ultimi cinquant‟anni, questo è stato possibile anche grazie al petrolio che pervade

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l‟economia agricola essendo impiegato per arare, irrigare e raccogliere. Al calare delle forniture, gli

stati entreranno in competizione per l‟accesso alle riserve petrolifere pur di mantenere l‟attuale

livello di produzione agricola. Non è stato in effetti molto difficile aumentare la produzione

mondiale di cibo fintanto che il petrolio è stato abbondante e relativamente economico. Sarà molto

più difficile farlo quando ne aumenterà il costo e ne diminuirà la disponibilità.

Nonostante il bisogno crescente di nuove soluzioni per incrementare la produzione, non esistono

molte nuove tecniche agricole da implementare. Nei paesi agricoli avanzati, i contadini stanno

facendo uso di ogni tecnologia conosciuta per ottimizzare la produttività delle terre. Intanto, non

sembra che i ricercatori stiano trovando molti modi nuovi di aumentare i raccolti. In Giappone, la

prima nazione a realizzare in passato un significativo aumento nella produttività dei cereali per

ettaro, la produttività del riso sostanzialmente è ferma da circa 14 anni. In Cina, la rapida impennata

del rendimento delle risaie è ormai parte della storia. In Francia come in Egitto, i tassi di rendimento

agricolo del grano, tra i più alti del mondo, sono in stallo da circa un decennio. Globalmente, il tasso

di aumento nel rendimento delle terre coltivate a cereali è sceso dal 2,1% annuo del periodo 1950-

1990 a un 1,3% nel periodo 1990-2008.

Alcuni analisti suggeriscono che le coltivazioni di organismi geneticamente modificati potrebbero

essere la soluzione al problema. Sfortunatamente, nessun nuovo prodotto di questo tipo ha dato

risultati tali da far ritenere che si possano aumentare significativamente i raccolti. E non è probabile

che accada in futuro: le tecniche tradizionali di selezione genetica hanno già sfruttato praticamente

tutto il potenziale genetico esistente per accrescere la produttività di una specie.

Non resta che concludere che il progresso scientifico in agricoltura trova sempre più difficile

migliorarne il rendimento, dato che con le tecnologie già disponibili ci stiamo ormai avvicinando a

quelli che sono i limiti intrinseci all‟efficienza della fotosintesi. È un limite, questo, che stabilisce il

confine della produttività biologica del pianeta e, di conseguenza, la capacità del pianeta di sostenere

la popolazione umana.

Mano a mano che contadini di tutto il mondo tentano di aumentare i raccolti, i fattori che

condizionano negativamente la produzione controbilanciano in parte i progressi tecnici raggiunti. La

domanda è quindi: i danni ambientali all‟agricoltura globale potrebbero a un certo punto annullare i

progressi dell‟avanzamento tecnologico, come è già successo in Arabia Saudia e nello Yemen, a

causa della scarsità idrica, o come in Lesotho e in Mongolia, per l‟erosione del suolo?

Il quesito da porsi, per il momento, non è se la produzione globale di cereali continuerà ad

aumentare, ma se potrà farlo abbastanza in fretta da soddisfare una domanda costantemente in

crescita. Non è più possibile andare avanti come se nulla stesse cambiando. I livelli di sicurezza

alimentare sono destinati a peggiorare, a meno che stati e popoli non si mobilitino per stabilizzare la

popolazione, il clima, le falde idriche, preservare i terreni, proteggere i campi e limitare la

destinazione dei cereali alla produzione di biocarburanti.

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1.2 Le nascenti politiche dell’emergenza alimentare

Mentre le condizioni di sicurezza alimentare vanno deteriorandosi, sta definendosi una pericolosa

geopolitica della scarsità del cibo, per cui ciascun paese, agendo in nome dell‟interesse nazionale,

contribuisce a rafforzare i processi negativi in atto. La data d‟inizio può essere fissata al tardo 2007,

momento in cui i paesi esportatori di frumento, tra cui Russia e Argentina, posero limiti o divieti alle

esportazioni per cercare di controbilanciare l‟aumento dei prezzi sul mercato interno. Seguendo lo

stesso ragionamento, il Vietnam ha proibito per qualche mese l‟esportazione di riso, e così altri paesi

esportatori più piccoli. Tali provvedimenti, apparentemente rassicuranti per chi in questi paesi ci

abita, hanno creato il panico nelle decine di stati che dipendono dalle importazioni per la fornitura

cerealicola.

A questo punto, mentre il prezzo dei cereali e della soia triplicava, i governi importatori si resero

conto, tutto d‟un tratto, di non poter più fare affidamento sul mercato. Le contromisure, per alcuni

paesi, si sono concretizzate nel tentativo di concludere accordi bilaterali di lungo periodo per

assicurarsi la fornitura negli anni a venire. Le Filippine, un paese che di riso è un forte importatore,

ha negoziato un accordo triennale col Vietnam che ne garantisce la fornitura per un milione e mezzo

di tonnellate l‟anno. Una delegazione proveniente dallo Yemen, che attualmente importa quasi tutto

il frumento del quale ha bisogno, si è recata in Australia nella speranza di negoziare un accordo

simile. L‟Egitto ha siglato un patto con la Russia per oltre 3 milioni di tonnellate di frumento l‟anno.

Altri importatori hanno trovato simili soluzioni. Ma in un mercato dove i venditori hanno la

maggiore forza contrattuale, ben pochi accordi hanno avuto successo.

L‟impossibilità di negoziare intese commerciali di lungo periodo è stata accompagnata, nei più ricchi

tra i i paesi importatori, da una serie di risposte senza precedenti, caratterizzate dal tentativo di

comprare o affittare per lunghi periodi grandi estensioni di terra coltivabile in stati stranieri. Al

diminuire delle scorte alimentari, stiamo assistendo a una gara disperata per accaparrarsi la terra che

va ben al di là dei confini nazionali. La Libia, che importa il 90% dei suoi cereali e guarda con

preoccupazione alla possibilità di poter accedere agli approvvigionamenti alimentari, è stato uno dei

primi stati a guardare oltre le sue frontiere. Dopo più di un anno di negoziati, ha raggiunto un

accordo: i libici coltiveranno 100 mila ettari di terreno in Ucraina, seminando frumento per sfamare

il proprio popolo. Questa forma di acquisizione territoriale è tipica di quei governi che hanno aperto

un nuovo capitolo nella gestione geopolitica del cibo.

Sono particolarmente sorprendenti le cifre relative ai negoziati di questo tipo già raggiunti o in fase

di discussione. L‟International Food Policy Research Institute (IFPRI) ha stilato una lista di circa 50

accordi, basandosi su un‟ampia rassegna stampa mondiale. Dato che non è disponibile un registro

ufficiale di queste transazioni, nessuno sa per certo quante ne esistano. Né quante ce ne saranno.

Questa ondata di acquisizioni territoriali per coltivare alimenti in stati oltre frontiera è uno dei più

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grandi esperimenti di geopolitica mai condotti.

Il ruolo dei governi nel processo di acquisizione non è sempre lo stesso. In alcuni casi, sono aziende

di proprietà statale a comprare le terre, in altri si tratta di privati che agiscono tramite la mediazione

delle strutture diplomatiche governative che si occupano di negoziare un contratto favorevole per gli

investitori.

Gli stati che stanno comprando terra sono soprattutto quelli le cui popolazioni hanno esaurito, o

stanno esaurendo, le proprie risorse di acqua e suolo, inclusi l‟Arabia Saudita, la Corea del Sud, la

Cina, il Kuwait, la Libia, l‟India, l‟Egitto, la Giordania, gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar. L‟Arabia

Saudita sta negoziando l‟acquisto o l‟affitto di terre in almeno 11 stati, tra cui l‟Etiopia, la Turchia,

l‟Ucraina, il Sudan, il Kazakistan, le Filippine, il Vietnam e il Brasile.

Le nazioni che si stanno impegnando a vendere o affittare terre coltivabili sono, invece, paesi a basso

reddito e, nella maggior parte dei casi, in zone dove la fame e la malnutrizione sono all‟ordine del

giorno. Alcuni dipendono dal Programma Alimentare Mondiale (PAM) per parte dei rifornimenti

alimentari. Il Financial Times ha scritto che nel marzo del 2009 i sauditi hanno festeggiato la

consegna del primo carico di riso prodotto su terre acquistate in Etiopia, paese in cui il PAM lavora

per nutrire 4,6 milioni di persone. Altro stato scelto dai sauditi e da numerosi altri paesi importatori

di grano è il Sudan, che per ironia della sorte è anche il paese dove il PAM è più impegnato nella

lotta alla fame.

L‟Indonesia ha accettato di cedere agli investitori sauditi 2 milioni di ettari di terra, la maggior parte

dei quali da destinare a risaie. Il gruppo saudita Binladin sta negoziando lo sfruttamento di 500 mila

ettari di terra per la produzione di riso nella provincia indonesiana di Papua, ma l‟accordo pare sia in

stallo per problemi di natura finanziaria.

Per la dimensione degli investimenti, è la Cina che spicca. La ditta cinese ZTE International si è

assicurata il diritto di produrre olio di palma su 2,8 milioni di ettari nella Repubblica Democratica

del Congo. L‟olio di palma, va sottolineato, può essere impiegato sia in cucina, sia per produrre

biocarburanti, il che indica come la competizione tra cibo e combustibile si stia facendo se ntire

anche nel campo delle acquisizioni di terreno all‟estero. Il dato va messo a confronto con il fatto che

sono 1,9 milioni gli ettari usati in Congo per produrre mais, l‟alimento di base per 66 milioni di

congolesi. Come l‟Etiopia e il Sudan, anche il Congo dipende dalla PAM per la sopravvivenza.

Intanto, la Cina sta negoziando l‟acquisto di altri 2 milioni di ettari in Zambia, da usare per la

coltivazione di Jatropa, un arbusto perenne dai cui semi si può estrarre l‟olio. Inoltre, la Cina ha

acquistato terreni, o ha in progetto di farlo, in Australia, Russia, Brasile, Kazakistan, Myanmar e

Mozambico.

La Corea del Sud, tra i più grandi importatori al mondo di mais, ha investito in diversi paesi:

siglando accordi in Sudan per circa 690 mila ettari coltivabili a frumento, si è posta in prima linea

nella corsa alla sicurezza alimentare. Tanto per farsi un‟idea, è un‟area che equivale ai tre quarti dei

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930 mila ettari attualmente coltivati a riso in Corea del Sud, dove il riso è l‟alimento principale. I

coreani sembrerebbero anche interessati ai territori orientali della Russia, dove progettano

coltivazioni di mais e soia.

Una caratteristica delle acquisizioni territoriali che passa per lo più inosservata è il fatto che queste

sono anche acquisizioni di acqua. Che sia terra irrigata o che ci piova, averne il possesso significa

anche mettere le mani sulle risorse idriche del paese ospitante. Le terre acquistate in Sudan sono

irrigate con l‟acqua del Nilo, fiume che è già soggetto a uno sfruttamento completo. La coltivazione

di questi campi potrebbe significare semplicemente minori risorse idriche per l‟Egitto, che

diventerebbe così sempre più dipendente dalle importazioni di cereali.

Molti interrogativi accompagnano queste acquisizioni territoriali concordate bilateralmente. Tanto

per cominciare, negoziati e accordi mancano di trasparenza. Nella maggior parte dei casi, sono

coinvolti alti ufficiali dell‟esercito, e i termini del contratto sono confidenziali. Come se non bastasse

l‟esclusione di molti diretti interessati dal tavolo delle trattative (pensiamo, ad esempio, i contadini

locali), delle quali non vengono nemmeno informati, se non a giochi fatti. Se consideriamo il fatto

che difficilmente nei paesi in cui i campi sono venduti o affittati le terre produttive verranno lasciate

incolte, aleggia il sospetto che molti contadini locali verranno costretti a spostarsi. I loro terreni

potrebbero essere confiscati oppure acquistati a prezzi imposti dall‟alto. Tutto questo contribuisce a

spiegare come mai la firma di questo tipo di accordi viene spesso accompagnata dall‟ostilità della

popolazione ospitante.

Per fare un esempio, la Cina ha firmato un accordo con il governo delle Filippine per l‟affitto di oltre

un milione di ettari di terra i cui raccolti sarebbero stati portati verso la madrepatria. Non appena si è

sparsa la voce, la rabbia della popolazione, in particolare dei contadini filippini, ha costretto il

governo a fare marcia indietro.

Una situazione simile si è verificata in Madagascar, dove la sudcoreana Daewoo Logistics era

impegnata a negoziare lo sfruttamento di oltre un milione di ettari di terra, un‟area grande come metà

del Belgio. Lo scandalo ha contribuito ad alimentare la rabbia popolare che ha portato a un cambio di

governo e alla cancellazione dell‟accordo. La Cina sta anche affrontando proteste popolari in

Zambia, dove vorrebbe acquisire ben 2 milioni di ettari di terra coltivabile.

Questo nuovo sistema di garantirsi la sicurezza alimentare solleva anche interrogativi relativi alle

conseguenze sul mercato del lavoro. Due paesi coinvolti, Cina e Corea del Sud, intendono in alcuni

casi importare la propria forza lavoro. In ogni caso, ci si può chiedere di quale utilità sia ai paesi

ospitanti l‟introduzione di operazioni di agricoltura fortemente meccanizzata destinata al commercio

su vasta scala in luoghi che sono generalmente caratterizzati da altissimi tassi di disoccupazione.

Al salire dei prezzi nella nazione ospite, riuscirà il paese investitore a mietere il grano cresciuto in

terra straniera? O dovrà circondare i campi di forze di sicurezza per garantirne il raccolto e la

spedizione? Consapevole del potenziale problema, il governo del Pakistan, che sta cercando di

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vendere o affittare 400 mila ettari, offre una forza di sicurezza di 100 mila uomini per proteggere le

terre e gli impianti degli investitori. Contro chi dovranno proteggersi? Contro i pakistani affamati? O

contro i contadini le cui terre sono state confiscate per permetterne la vendita su vasta scala?

Un ulteriore elemento inquietante degli investimenti in terreni coltivabili è rappresentato dal fatto

che si stanno concentrando anche su paesi come il Brasile, l‟Indonesia e la Repubblica Democratica

del Congo, dove aumentare l‟estensione dei campi spesso significa abbattere le foreste tropicali che

oggi sequestrano grandi quantità di CO2. Questo potrebbe significare un aumento delle emissioni

globali di anidride carbonica e, quindi, un impatto negativo su quei cambiamenti che stanno

mettendo a rischio la sicurezza alimentare mondiale.

Il governo Giapponese, l‟International Food Policy Research Institute (IFPRI) e altri soggetti hanno

suggerito l‟introduzione di un codice di condotta per regolare questi accordi verso una forma

rispettosa dei diritti di coloro che vivono nei paesi in cui le terre sono acquistate così come i diritti

degli investitori. Sembra che sia la Banca Mondiale che la FAO che l‟Unione Africana stiano

preparando codici di questo tipo.

La crescente insicurezza alimentare sta quindi introducendo una nuova dimensione nella “geopolitica

della insufficienza di cibo”, con la possibilità di spostarsi al di là dei confini nazionali nella

competizione per l‟acqua e per la terra. Molte acquisizioni si svolgono in paesi affamati e poveri,

dove sottraggono la poca terra fertile agli abitanti. Il rischio è che crescano la fame e l‟instabilità

politica, portando a un aumento del numero di stati in tracollo.

Nessun paese può scampare agli effetti della diminuzione globale delle scorte alimentari, neanche gli

Stati Uniti, il granaio del mondo. Se, ad esempio, la Cina andasse a cercare sul mercato globale

grandi quantità di cereali, come ha fatto da poco per la soia, guarderà necessariamente agli Stati

Uniti, paese leader nell‟esportazione di grano. Per i consumatori statunitensi, l‟idea di dover

competere per i raccolti di grano con i 1,3 miliardi di consumatori cinesi, il cui reddito continua a

salire, è uno scenario da incubo.

In queste condizioni, gli Stati Uniti potrebbero pensare di mettere limiti alle esportazioni, come

hanno fatto negli anni Settanta con cerali e soia in seguito all‟impennata dei prezzi sul mercato

interno. Ma non è una scelta che gli Stati Uniti si possono permettere di fare nei confronti della Cina

che è creditrice verso gli Stati Uniti per oltre 1.000 miliardi di dollari a causa del debito pubblico

statunitense. La Cina è spesso il primo compratore alle aste mensili di Buoni del Tesoro con cui gli

Stati Uniti finanziano il proprio deficit fiscale. In un certo senso, la Cina è diventata il banchiere

degli Stati Uniti. Per quanto i prezzi possano continuare a salire, i consumatori statunitensi si

troveranno ben presto, volenti o nolenti, a condividere il proprio grano con i consumatori cinesi.

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1.3 Lo schema di Ponzi dell’economia globale

La pessima gestione dell‟economia globale contemporanea assomiglia per molti versi a uno schema

di Ponzi. Uno schema di Ponzi raccoglie denaro da un‟ampia base di investitori e lo usa direttamente

per redistribuire rendimenti. Crea l‟illusione di promettenti rendite apparentemente dovute a oculati

investimenti finanziari quando in realtà i proventi non sono altro che le quote di partecipazione

versate dalle nuove reclute. Un fondo di investimento alla Ponzi può durare solo se l‟afflusso di

nuovi investitori è sufficiente a pagare le parti promesse agli investitori precedenti. Quando non

basta più, il sistema collassa, proprio come nel caso del fondo di investimenti da 65 miliardi di

dollari di Bernard Madoff* nel dicembre del 2008.

(*ndr: sulla truffa di Medoff vedi anche playlist integrativa esterna in italiano: Puntata di Report del 29-11-09)

Sebbene l‟economia globale non funzioni esattamente alla stessa maniera di un fondo di investimenti

di Ponzi, ci sono delle somiglianze inquietanti. Fino al 1950 o giù di lì, l‟economia globale viveva

nei limiti delle proprie possibilità, intaccando solo ciò che era sostenibile ovvero la rendita fornita dai

sistemi naturali che la sorreggevano.

Ma nel momento in cui l‟economia ha preso a crescere, moltiplicandosi con una progressione

geometrica e ingigantendosi fino a superare il campo della sostenibilità, ha cominciato a erodere le

sue stesse fondamenta.

In uno studio pubblicato nel 2002 dalla U.S. National Academy of Sciences, un gruppo di scienziati

capitanato da Mathis Wackernagel ha concluso che i consumi globali della popolazione umana

hanno oltrepassato le capacità rigenerative del pianeta intorno all‟anno 1980. Nel 2009, le pressioni

globali sui sistemi naturali eccedevano di circa il 30% il tasso di consumo sostenibile. Questo

significa che per rispondere agli attuali bisogni stiamo consumando il capitale naturale del pianeta e

costruendo una sorta di schema Ponzi in cui, quando questo stesso capitale sarà esaurito, andremo

incontro a un tracollo.

Alla metà del 2009, quasi tutte le grandi falde acquifere del mondo erano sottoposte a uno

sfruttamento eccessivo. In puro stile Ponzi, abbiamo attualmente più acqua per usi irrigui di quanto

ne avessimo prima di avviare questo processo di pompaggio insostenibile. Ci sembra che la

situazione dell‟agricoltura sia buona, ma la realtà è che circa 400 milioni di persone al mondo sono

nutrite usando acqua che ha questo tipo di origine, una situazione che per definizione non può che

essere di breve periodo. Con le falde acquifere destinate all‟esaurimento, la bolla alimentare

permessa dall‟agricoltura di tipo irriguo sta per scoppiare.

Simile è la situazione relativa allo scioglimento dei ghiacciai d‟alta quota. Quando questo processo

ha inizio, l‟acqua che si riversa nei fiumi e nei canali d‟irrigazione presenta un volume maggiore. Ma

a un certo punto, che corrisponde alla scomparsa dei ghiacciai minori e alla riduzione di quelli

maggiori, diminuisce la quantità d‟acqua proveniente dalla fusione del ghiaccio e si riduce la portata

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dei fiumi. Ecco che in agricoltura agiscono simultaneamente due sistemi di Ponzi relativi alle risorse

idriche.

Ma ce ne sono molti altri. Dato che la crescita demografica della popolazione umana e di quella degli

animali da allevamento ha un andamento più o meno parallelo, anche la richiesta di foraggio in

aumento supera a un certo punto la capacità rigenerativa di prati e pascoli. Questi si deteriorano,

lasciando la terra brulla e aprendo lo spazio all‟avanzata dei deserti. Da un certo punto in poi, l‟erba

non basta più a nutrire gli ultimi capi di bestiame che deperiscono e muoiono. In questo schema di

Ponzi, i pastori sono costretti ad affidarsi agli aiuti umanitari, o a emigrare verso le città.

I tre quarti delle riserve di pesca degli oceani sono sfruttate al limite, o oltre, la loro capacità

rigenerativa, oppure si stanno riprendendo da una precedente fase di sovrasfruttamento. Se

continueremo a pescare ai ritmi attuali, molte zone oceaniche arriveranno al collasso. Una zona di

mare, o di acqua dolce, si ritiene sovrasfruttata quando si preleva più pesce di quanto riesca a

riprodursi. L‟esempio classico è la zona di pesca del merluzzo al largo delle coste del Newfoundland

in Canada: per lungo tempo una delle zone più pescose al mondo, è in crisi dall‟inizio degli anni

Novanta e potrebbe non riprendersi mai.

Paul Hawken, l‟autore di "Moltitudine Inarrestabile", sintetizza così il fenomeno: “Al momento

stiamo rubando al futuro, vendendolo nel presente, e questo lo chiamiamo Prodotto interno lordo.

Sarebbe altrettanto facile avere un’economia basata sul miglioramento del futuro anziché sul suo

saccheggio. Possiamo creare ricchezza per il futuro oppure sottrarla da esso. Il primo approccio

possiamo considerarlo come una ricostruzione, il secondo assume il senso di uno sfruttamento”.

La questione che sottende tutto questo è: se continueremo a comportarci come se nulla fosse,

sfruttando oltre misura le falde idriche, i pascoli, i suoli agricoli, le riserve ittiche e sovraccaricando

l‟atmosfera di anidride carbonica, quanto ci vorrà prima che l‟economia alla Ponzi cominci a

sfaldarsi e collassare? Non lo sa nessuno. La nostra civiltà industriale non è mai giunta a questo

punto prima d‟ora.

A differenza dello schema Ponzi di Bernard Madoff, che era stato creato nella consapevolezza che un

giorno sarebbe crollato, la nostra economia globale adotta uno schema simile senza questa

conoscenza. Il collasso non è stato pianificato, ma è il prodotto di forze di mercato, incentivi male

indirizzati e indicatori di sviluppo di scarsa validità. Ci fidiamo del mercato perché è per molti versi

un‟istituzione straordinaria: muove le risorse con un‟efficienza di mille volte superiore a qualsiasi

ente centrale di pianificazione e riesce a mettere rapidamente in equilibrio domanda e offerta.

Eppure anche il mercato ha le sue debolezze, fondamentali e potenzialmente fatali. Non rispetta i

limiti di produzione sostenibile dei sistemi naturali. Inoltre, favorisce il breve sul lungo periodo,

senza mettere in conto i bisogni delle generazioni future. Non incorpora nei prezzi dei beni i costi

indiretti di produzione. Di conseguenza, non può trasmettere segnali che ci dicano che siamo, in

realtà, cascati in una trappola di Ponzi.

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Oltre a consumare il nostro capitale, abbiamo ideato delle tecniche piuttosto intelligenti per non

conteggiare i costi reali, un po‟ come ha fatto la tanto disprezzata compagnia energetica texana

Enron finita in bancarotta qualche anno fa. Per esempio, quando usiamo l‟energia di una centrale a

carbone, ci arriva a casa una bolletta mensile dal gestore locale. Nella bolletta sono inclusi i costi di

estrazione mineraria, trasporto, gestione dell‟impianto, generazione di elettricità e distribuzione

verso le nostre case. Ma non sono inclusi, tra gli altri, i costi indiretti del cambiamento climatico

legati alla combustione. Quella è una bolletta che pagheremo più tardi o che, più probabilmente,

verrà consegnata ai nostri figli. Per loro sfortuna questa sorta di conguaglio per il nostro utilizzo del

carbone sarà molto più costoso di quello che noi paghiamo attualmente.

Quando nel 2006 Sir Nicholas Stern, ex-economista capo della Banca Mondiale, pubblicò il suo

pionieristico studio sui costi previsti per il cambiamento climatico, parlò di un gigantesco fallimento

del mercato. Si riferiva al fatto che il mercato ha fallito per la mancata inclusione dei costi del

cambiamento climatico nel prezzo dei combustibili fossili. Secondo Stern, questi costi sono stimabili

in migliaia di miliardi di dollari. La differenza tra il prezzo di mercato degli idrocarburi e il loro

prezzo reale, comprendendo i costi ambientali e sociali, è stratosferica.

In quanto operatori economici, sia che siamo consumatori, dirigenti aziendali, rappresentanti politici

o finanzieri, tutti noi dipendiamo dal mercato per le informazioni che ci guideranno. Quindi, perché i

mercati continuino a funzionare sul lungo periodo e affinché gli operatori economici possano

prendere decisioni sensate, i mercati devono fornire informazioni attendibili e prima di tutto

comunicare quello che è il costo reale dei prodotti. Ma il mercato fornisce informazioni incomplete,

e si agisce pertanto di conseguenza, prendendo decisioni pessime.

Uno degli esempi più lampanti del fallimento gigantesco del mercato si può trovare negli Stati Uniti,

dove a metà del 2009 il prezzo della benzina oscillava intorno a 80 centesimi di dollaro al litro.

Questo dato riflette solo il costo della ricerca ed estrazione petrolifera, della raffinazione del petrolio

e della distribuzione della benzina fino alle stazioni di servizio. Non prende in considerazione i costi

del cambiamento climatico e quelli dei sussidi statali all‟industria petrolifera (come l‟U.S. Oil

depletion allowance), le crescenti spese militari per la protezione dell‟accesso al petrolio in un Medio

Oriente politicamente instabile e i costi sanitari dovuti all‟aumento di malattie respiratorie legate

all‟inquinamento dell‟aria.

Secondo uno studio dell‟International Center for Technology Assessment, questi costi sarebbero

equivalenti, attualmente, a oltre tre dollari al litro per la benzina consumata negli Stati Uniti.

Aggiunti i costi diretti di 80 centesimi di dollaro al litro, gli automobilisti dovrebbero pagare la

benzina circa 4 dollari al litro. La verità è che bruciare benzina è estremamente costoso, ma il

mercato ci dice che non lo è, distorcendo grossolanamente la struttura stessa dell‟economia.

Simile è la situazione del cibo. Se pagassimo i costi effettivi di produzione, compreso il prezzo reale

del petrolio usato per produrre alimenti, il prezzo da pagare in futuro per le conseguenze del

sovrasfruttamento delle falde acquifere, della devastazione dei terreni causata dall‟erosione e delle

emissioni di anidride carbonica legate al disboscamento, il cibo costerebbe molto di più degli attuali

prezzi esposti sui cartellini del supermercato.

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53

Oltre a ignorare questi costi indiretti, il mercato non dà alcun valore al lavoro della natura. Ciò si è

reso terribilmente evidente nell‟estate del 1998, quando la valle del fiume Yangtze, in Cina, abitata

da circa 400 milioni di persone, è stata devastata da una delle peggiori alluvioni della storia. Il danno

risultante, stimato in circa 30 miliardi di dollari, è stato equivalente al valore della raccolta nazionale

annuale di riso.

Dopo settimane di alluvioni, il governo di Pechino ha imposto il divieto di abbattere alberi nel bacino

dello Yangtze. La decisione è stata accompagnata da una nota in cui si ricordava che un albero vivo

vale almeno tre volte un albero morto: il ruolo svolto dalla foresta nella protezione dalle alluvioni è

stato riconosciuto come più importante del legname lì contenuto. Era come se il prezzo di mercato

del legname fosse sempre stato scontato di un terzo.

Il mercato non rispetta la capacità di carico dei sistemi naturali. Se, per esempio, una zona di pesca è

continuamente sovrasfruttata, ne risulterà che la quantità del pescato tenderà a calare, i prezzi

saliranno incoraggiando sempre maggiori investimenti in reti e pescherecci. Il risultato,

inevitabilmente, sarà un crollo delle quantità pescate e il collasso della riserva ittica.

Oggi abbiamo bisogno di adottare un modo di vedere che sia coerente con la realtà sul rapporto tra

economia e ambiente. Abbiamo anche bisogno, più che mai, di leader politici che riescano a guardare

alle cose in prospettiva. E visto che i consulenti più ascoltati dai governi sono gli economisti,

abbiamo bisogno di economisti che sappiano pensare come ecologisti (Sir Nicholas Stern e Herman

Daly, un pioniere dell‟economia ecologica, ne sono rari esempi) o di un maggior numero di

consulenti ambientali.

Il comportamento del mercato, che evita di includere i costi indiretti di beni e servizi, è incapace di

dare un valore al lavoro della natura e di rispettare limiti sostenibili di produzione, sta portando alla

distruzione del sistema naturale su cui si regge tutto il sistema economico, generando una versione

globale del sistema di Ponzi. A un certo punto, lo sfaldarsi dei rapporti tra economia e risorse

naturali comincerà ad avere un costo sul piano politico, contribuendo al fallimento di un numero

sempre maggiore di stati.

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1.4 Tensioni in aumento, nazioni allo sfascio

Dopo cinquant‟anni contrassegnati dalla formazione di nuove nazioni dai vecchi imperi coloniali e

dalla frammentazione dell‟ex-Unione Sovietica, oggi la comunità internazionale degli stati vive un

periodo di disgregazione. L‟espressione failing state, per intendere uno stato in crisi estrema o in

bancarotta, ha fatto il suo ingresso nel vocabolario delle relazioni internazionali solo nell‟ultimo

decennio, eppure oggi questa tipologia di nazione viene considerata parte integrante del panorama

internazionale. Come riportato da un articolo del Foreign Policy: “Gli stati in declino hanno

compiuto un notevole percorso dalla periferia al centro stesso della politica globale”.

In passato, i governi si sono dovuti preoccupare delle conseguenze di un eccessivo accentramento di

potere in un singolo stato, come nella Germania nazista, nel Giappone imperiale e nel caso

dell‟Unione Sovietica. Oggi, però, è il fallimento degli stati a rappresentare la più grande minaccia

all‟ordine e alla stabilità internazionale. Ancora secondo il Foreign Policy: “Un tempo i leader

mondiali si preoccupavano di chi avesse troppo potere, ora si preoccupano della sua mancanza”.

Gli stati crollano quando ai loro governi sfugge di mano il controllo di parte o di tutto il loro

territorio e non riescono ad assicurare la sicurezza del loro popolo. Quando i governi perdono il

controllo del potere, la legge e l‟ordine cominciano a disgregarsi. Quando non riescono a provvedere

ai servizi basilari come l‟educazione scolastica, l‟assistenza sanitaria, la sicurezza alimentare,

perdono la loro legittimità. Un governo in questa posizione potrebbe non essere più in grado di

ricevere entrate sufficienti a finanziare se stesso in modo efficace. La società si può frammentare al

punto da perdere la coesione necessaria a prendere decisioni.

Gli stati in crisi spesso degenerano in una guerra civile quando gruppi in lotta tra loro si battono per

la conquista del potere. In queste condizioni è facile che i conflitti si estendano verso i paesi

confinanti, come nel caso, del genocidio del Ruanda, che ha oltrepassato il confine con la Repubblica

Democratica del Congo, dove una guerra civile ha fatto strage, dal 1998 ad oggi, di oltre 5 milioni di

persone. Nella maggior parte dei casi si tratta di morti non violente, legate al conflitto in maniera

indiretta: fame, malattie respiratorie, diarrea e altre patologie conseguenza degli spostamenti forzati

di milioni di persone. In Sudan, gli eccidi del Darfur si sono rapidamente diffusi verso il Ciad. Come

osserva l‟Economist: “Come un individuo con gravi disturbi psichici, così uno stato in declino

rappresenta un pericolo non solo per se stesso, ma anche per coloro che lo circondano, e per altri

ancora”.

Gli stati in crisi rappresentano anche possibili campi di addestramento per i gruppi terroristici

internazionali, come in Afghanistan, in Iraq e in Somalia, o basi per il mercato delle droghe, come in

Birmania-Myanmar o in Afghanistan, paese che nel 2008 è stato il fornitore del 92% di oppio nel

mondo, prevalentemente lavorato per produrre eroina. Dati i loro sistemi sanitari estremamente

carenti, gli stati deboli possono diventare focolai di malattie infettive, come accade con la

poliomielite in Nigeria e in Pakistan, che rappresentano due serie minacce agli sforzi internazionali

per eradicare questa terribile malattia.

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I più evidenti indicatori della debolezza di uno stato sono lo smantellamento del sistema di sicurezza

pubblica e la correlata perdita del senso di sicurezza personale. Ad Haiti, bande armate si

contendevano il dominio sui quartieri fino all‟arrivo della forza di pace dell‟ONU nel 2004. Da

allora, la situazione della sicurezza pubblica è migliorata sensibilmente, tuttavia è ancora comune il

fenomeno dei rapimenti per ottenere dei riscatti: per esserne vittima è sufficiente far parte di quel

30% della popolazione abbastanza fortunata da avere un lavoro. In Afghanistan, sono i signori della

guerra locali, e non il governo centrale, a detenere il controllo del paese al di fuori di Kabul. La

Somalia, che ormai esiste soltanto sulle cartine geografiche, è governata, si fa per dire, da capi tribù

che lottano per spartirsi i pezzi di un territorio che una volta era uno stato. In Messico, sono i cartelli

della droga a farla da padroni, segnale della presenza di un possibile stato in bancarotta al confine

con gli Stati Uniti.

Sono molte le organizzazioni nazionali e internazionali a tenere una lista degli stati deboli, in via di

dissoluzione o falliti. Lo sforzo ad oggi più sistematico di analisi è quello svolto dal Fondo per la

Pace (Fund for Peace) in collaborazione con la rivista Foreign Policy, con un indice aggiornato ogni

anno e pubblicato sulla rivista nel numero di luglio/agosto. Questo prezioso lavoro, svolto attraverso

l‟analisi di migliaia di fonti di informazione diverse, offre scorci interessanti sui cambiamenti in atto

nel mondo e ci dà una sorta di panoramica di dove, in un certo senso, siamo diretti.

L‟analisi identifica 60 paesi ordinati in base al “rischio di conflitti violenti sul fronte interno e di

disgregazione sociale” (per l'elenco dei primi 20 vedi sotto la tabella 1.1).

In rapporto a 12 indicatori sociali, economici, politici e militari, mette in cima alla lista di stati in

declino la Somalia, seguita da Zimbabwe, Sudan, Ciad, e dalla Repubblica Democratica del Congo.

Ci sono tre grandi esportatori di petrolio, tra i primi 20 stati: Sudan, Iraq e Nigeria. Il Pakistan,

attualmente al numero 10 della lista, è l‟unico stato in crisi dotato di arsenale nucleare, mentre la

Corea del Nord, il numero diciassette, sta sviluppando il suo piano nucleare.

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Fonte: Fund for Peace and Foreign Policy, “The Failed States Index”, Foreign Policy, luglio/agosto

2009, pp. 80-93.

I punteggi vengono forniti per ogni indicatore con valori da 1 a 10 e sono poi aggregati in un singolo

dato: il Failed States Index, l‟Indice di declino delle nazioni. Un punteggio di 120, il massimo,

significa che ci troviamo di fronte a una società collassata in tutti i sensi. Nel primo indice del

Foreign Policy, stilato con i dati del 2004, solo sette paesi avevano punteggi superiori a 100. Nel

2005, sono diventati nove. Nel 2008 siamo arrivati a 14, il doppio rispetto a quattro anni prima. Una

tendenza rilevata su un periodo così breve non può essere considerata statisticamente significativa,

tuttavia l‟innalzamento dei punteggi delle nazioni più in crisi e il raddoppiamento di quelle con

punteggi oltre 100 suggerisce che il fallimento degli stati stia peggiorando e allo stesso tempo si vada

estendendo.

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La presenza nel Failed States Index è strettamente associata ad alcune variabili demografiche e

ambientali. Tra i primi 20 stati in crisi, 17 hanno tassi di crescita demografica in forte aumento, in

molti casi vicini al 3% annuo, pari a una crescita demografica di 20 volte nell‟arco di un secolo. In

cinque di questi 17 paesi, le donne hanno in media oltre sei figli. In tutti i primi 20 stati tranne sei,

oltre il 40% della popolazione ha meno di 15 anni, una statistica che spesso anticipa anni di

instabilità politica. Uomini giovani, senza possibilità di impiego, spesso disillusi, sono facili reclute

per i movimenti paramilitari.

In quelle nazioni dove da più decenni è in atto una rapida crescita demografica, i governi possono

andare in crisi per la costante diminuzione di terre coltivabili e acqua potabile pro capite, o perché

non riescono a costruire scuole abbastanza in fretta da coprire la domanda di una popolazione in età

scolare in espansione.

Il Sudan è il classico esempio di uno stato caduto nella trappola demografica. Economicamente e

socialmente, è abbastanza sviluppato da ridurre la mortalità, ma non la fertilità. Il risultato è che le

donne hanno in media quattro figli, il doppio per mantenere l‟equilibrio demografico, e la

popolazione sudanese, composta da 41 milioni di persone, sta crescendo di oltre 2.000 individui al

giorno. La pressione è tale che il Sudan, come decine di altri paesi, si sta disgregando.

Sono solo tre i paesi tra i primi 20 stati in declino a non essere vittime della trappola demografica.

Realisticamente, non potranno sfuggirne da soli. Avranno bisogno di aiuto esterno, e non stiamo

parlando di qualche manciata di interventi umanitari, ma di un‟assistenza sistematica alla

ricostruzione dello stato, o la situazione politica non potrà che continuare a peggiorare.

Tra i primi 20 nella classifica degli stati in crisi, sono pochissimi quelli che non stanno perdendo la

gara tra produzione alimentare e crescita demografica. Quasi la metà dei questi stati dipendono per la

sopravvivenza dal Programma alimentare mondiale.

Le carestie possono essere fonte di forte pressione sui governi. In molte nazioni, l‟ordine sociale è

entrato in crisi per la prima volta nel 2007, con l‟aumento del prezzo delle derrate alimentari e il

diffondersi della fame. Rivolte per il cibo e tensioni sociali continuarono durante tutto il 2008 in

dozzine di paesi, dalle “rivolte della tortilla” in Mexico alle scene di violenza nelle file per il pane in

Egitto, e le proteste per il tempeh (un prodotto della lavorazione della soia simile al tofu) in

Indonesia. Tutti segnali della disperazione dei consumatori intrappolati tra i redditi bassi e i prezzi in

salita. Ad Haiti, l‟impennata dei prezzi al consumo dei generi alimentari ha contribuito a far cadere il

governo.

In Pakistan, al raddoppiare del prezzo della farina di frumento, ogni camion di grano è stato protetto

da un soldato armato come scorta, per prevenire furti e impedire che il prezioso cereale fosse

illegalmente trasportato oltre confine, in Afghanistan. A Kandahar, in Afghanistan, i banchi del

mercato sono stati rapinati da ladri armati, fuggiti con in mano qualche sacco di grano. Nel 2008, in

Sudan, camion pieni di grano che stavano consegnando gli aiuti del Programma alimentare sono stati

dirottati prima che potessero raggiungere i campi profughi del Darfur.

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Un‟altra caratteristica degli stati in declino è un graduale peggioramento delle infrastrutture: strade,

rete elettrica, idrica e fognaria. Mentre la gente lotta per la sopravvivenza, la cura per gli ecosistemi

passa in secondo piano. Foreste, praterie e campi vanno in rovina, in una spirale che si avvita verso

l‟autodistruzione. Altro aspetto che contribuisce al declino del sistema è la riduzione degli

investimenti esteri e la disoccupazione che ne deriva.

In molti paesi sono le Nazioni Unite e altre istituzioni internazionali a occuparsi di mantenere la

pace, spesso senza successo. Tra le nazioni in cui sono presenti le forze di pace dell‟ONU troviamo il

Ciad, la Repubblica Democratica del Congo e la Costa d‟Avorio. Altre zone in cui agiscono altre

forze di pace internazionali sono l‟Afghanistan, Haiti e il Sudan. Sin troppo frequentemente sono

presenze più simboliche che reali, che possono impedire il collasso totale, ma non abbastanza forti da

assicurare la stabilità necessaria alla ricostruzione e allo sviluppo sul lungo periodo.

In paesi come Haiti e l‟Afghanistan si sopravvive solo grazie alla respirazione artificiale assicurata

dagli organismi internazionali. Si vive di aiuti, economici e alimentari. Ma non ce ne sono

abbastanza per ribaltare l‟ingravescente tendenza al declino sostituendola con la stabilità politica e

demografica necessaria a sostenere il progresso economico.

In un‟epoca di crescente globalizzazione, il sistema internazionale si regge su una rete cooperativa di

stati: se i governi perdono la capacità di governare un territorio, di riscuotere le tasse, come possono

essere responsabili di debiti e altri impegni internazionali? Più stati falliscono, più saranno i debiti

destinati a restare insoluti. Inoltre, qualunque sforzo di controllare le reti terroristiche internazionali

dipende dalla cooperazione di stati efficienti, ed è messo in crisi dal loro fallimento.

In aggiunta a ciò, la protezione delle specie a rischio di estinzione dipende quasi sempre dalla

cooperazione internazionale. In paesi come la Repubblica Democratica del Congo, dove le

organizzazioni nazionali non esistono praticamente più, la fame imperversa e il caos regna sovrano,

gli esemplari di gorilla di montagna sono diminuiti rapidamente. La storia si ripete simile in tutta

l‟Africa, dove si trovano gli ultimi habitat di tantissime specie di grandi mammiferi.

Al crescere del numero degli stati in declino, si fa sempre più difficoltoso affrontare le crisi a livello

internazionale.

Provvedimenti relativamente facili da prendere in un mondo ordinato, quali il mantenimento della

stabilità monetaria o il monitoraggio di una nuova epidemia, potrebbero diventare difficilissimi, forse

impossibili, in un mondo pieno di nazioni al collasso. Anche lo stesso approvvigionamento di

materie prime potrebbe diventare un percorso a ostacoli. A un certo punto, il diffondersi

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dell‟instabilità politica potrebbe sconvolgere lo sviluppo economico globale, un rischio che ci

suggerisce di affrontare il problema del declino degli stati con rinnovata urgenza.

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1.5 Il Piano B: un piano per salvare la civiltà

Il Piano B è l‟alternativa al "businnes as usual", al mantenimento di questo modello contemporaneo

come se nulla stesse accadendo. Il suo obiettivo consiste nell‟indirizzare il mondo da un cammino

diretto verso il declino e il fallimento totale a un nuovo scenario in cui la sicurezza alimentare possa

essere ritrovata, e la civiltà possa sostenersi nel tempo. Così come le cause che sottendono l‟attuale

crisi alimentare vanno ben al di là del sistema agricolo, anche la risposta al problema dovrà essere

più articolata. In passato, il Ministero dell‟Agricoltura poteva da solo essere responsabile della

ricerca agronomica, offrire credito ai contadini, e seguire tutte quelle altre attività che immaginiamo

essere legate alle competenze di questo ente. Oggigiorno, invece, per assicurare la sicurezza

alimentare dovremo mobilitare ogni parte della nostra società.

Per questo motivo, il Piano B è molto più ambizioso di qualunque altra cosa l‟umanità abbia fatto

fino ad oggi, un‟iniziativa senza precedenti né per dimensione, né per urgenza e importanza. Si

divide in quattro obiettivi:

1) abbassare le emissioni nette di CO2 dell‟80% entro il 2020;

2) stabilizzare la popolazione mondiale al di sotto degli 8 miliardi;

3) sconfiggere la povertà;

4) ripristinare lo stato di salute degli ecosistemi, includendo in questa definizione terreni, falde

acquifere, foreste, praterie e zone di pesca.

Questo piano è ambizioso perché non è basato su ciò che è politicamente realizzabile, ma sulla realtà

scientifica.

Il progetto di tagliare drasticamente le emissioni implica un radicale miglioramento dell‟efficienza

energetica a livello globale, investimenti massicci nello sviluppo delle energie rinnovabili, il blocco

della deforestazione e miliardi di nuovi alberi da piantare. Il Piano B delinea, essenzialmente, una

transizione da un‟economia fondata sul petrolio, il carbone e il gas naturale a una basata sull‟energia

eolica, solare e geotermica.

L‟obiettivo del Piano B in termini demografici è stabilizzare la popolazione verso gli 8 miliardi di

persone o al di sotto. Ma non perché io creda che la popolazione globale raggiungerà mai i 9,2

miliardi e mezzo nel 2050 come previsto dalle Nazioni Unite. La maggior parte di quei 2,4 miliardi

di persone in più rispetto ad oggi sono destinate a nascere in paesi in via di sviluppo, luoghi in cui le

risorse fondamentali quali terra e risorse idriche, sono già in condizioni critiche e la fame sta

aumentando. Molti dei sistemi che sostentano la vita umana in questi paesi sono avviati al declino, se

non al tracollo completo.

La domanda non è quindi se la crescita demografica sia destinata ad arrestarsi prima di arrivare a 9

miliardi e due, bensì se si arresterà perché verrà programmata a livello mondiale una rapida

diminuzione del numero di persone per nucleo famigliare o se si lascerà all‟aumento della mortalità,

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il compito di limitare la crescita demografica. Il Piano B abbraccia la scelta che prevede una

diminuzione della fertilità.

Eradicare la povertà è un obiettivo prioritario per tre motivi. In primo luogo è la chiave per

accelerare la transizione globale verso famiglie meno numerose, permettendo l‟accesso a tutte le

donne in età fertile, e in ogni angolo del mondo, a cure sanitarie, assistenza e servizi di pianificazione

famigliare. Inoltre, contribuisce a riportare i paesi poveri in seno alla comunità internazionale,

permettendogli di fornire il proprio contributo alle questioni globali come la stabilizzazione del

clima. Quando le persone non sanno se avranno da mangiare il giorno dopo, è ben difficile che

dedichino tempo ed energie al cambiamento climatico. In terzo luogo, combattere la povertà è un

gesto umano e umanitario. Una società civile si riconosce anche dalla sua capacità di prendersi cura

degli altri.

Il quarto aspetto del Piano B si occupa di risanare e proteggere gli ecosistemi naturali che permettono

l‟esistenza della razza umana. Questo implica la tutela dei suoli dall‟erosione, il divieto di

deforestazione, la promozione del rimboschimento, la rigenerazione delle riserve ittiche e la messa in

campo di uno sforzo globale per proteggere le falde acquifere migliorando l‟efficienza d‟uso delle

risorse idriche. Fino a quando non saremo in grado di invertire il degrado di questi ecosistemi è assai

improbabile che riusciremo a impedire l‟avanzare della fame.

Il Piano B è un piano integrato con quattro obiettivi interdipendenti fra loro. Non potremo, ad

esempio, stabilizzare la popolazione senza eradicare la povertà. Allo stesso tempo, non riusciremo a

risanare gli ecosistemi del pianeta senza stabilizzare sia la popolazione che il clima, e non

stabilizzeremo il clima senza il riequilibrio della crescita demografica. Né potremo mai sconfiggere

la povertà senza risanare gli ecosistemi terrestri. Il nostro piano per salvare la civiltà è tanto

ambizioso quanto urgente.

Il successo dipende dalla nostra capacità di agire con una rapidità paragonabile solo alle emergenze

belliche, riconvertendo il sistema energetico globale come fu per il sistema industriale degli Stati

Uniti nel 1942, dopo l‟attacco a Pearl Harbor. Nell‟arco di pochi mesi, gli Stati Uniti si

trasformarono da un paese produttore di automobili in una gigantesca fabbrica di aeroplani, carri

armati e navi da guerra. La riconversione di cui abbiamo bisogno non può prescindere da un radicale

cambiamento nel nostro sistema di priorità e valori. E ciò non potrà avvenire senza sacrifici. Va

ricordato che nel 1942 la chiave del successo della conversione industriale fu il divieto mantenuto

per quasi tre anni della vendita di automobili nuove.

Siamo davanti a una sfida straordinaria, ma possiamo permetterci di essere ottimisti. Tutti i problemi

che dobbiamo affrontare possono essere risolti con le tecnologie esistenti. E quasi tutto ciò che è

possibile fare per traslare un‟economia mondiale in declino nella direzione di un percorso

sostenibile, è già stato realizzato in uno o più paesi. Per esempio, sono più di 30 le nazioni che hanno

praticamente stabilizzato la propria crescita demografica.

Alcune tecnologie presenti sul mercato, quindi, ci permettono già di affrontare temi del Piano B.

Relativamente all‟energia, per esempio, possiamo ottenerne di più da una turbina eolica di ultima

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generazione che da un vecchio pozzo di petrolio. I nuovi veicoli ibridi plug-in che stanno per essere

lanciati sul mercato, come la Chevrolet Volt, possono percorrere fino a 240 km con meno di 4 litri di

benzina. Nell‟economia energetica prevista per il 2020 dal Piano B, la maggior parte delle auto in

circolazione negli Stati Uniti saranno ibridi plug-in o auto completamente elettriche e ad alimentarle

sarà principalmente l‟elettricità generata da impianti eolici per un costo inferiore a 30 centesimi di

dollaro al litro di benzina.

Il mondo sta muovendo i primi passi verso una rivoluzione nell‟illuminotecnica. Pochi anni fa

abbiamo capito che una lampada fluorescente compatta poteva dare la stessa quantità di luce delle

vecchie lampadine a incandescenza, usando appena un quarto dell‟energia. Una gran bella notizia.

Ora, stiamo imparando a usare una tecnologia ancora più avanzata: i LED, i diodi a emissione

luminosa che illuminano usando appena il 15% dell‟energia necessaria a una lampadina a

incandescenza. Inoltre, i sensori di movimento possono spegnere le luci dove non servono, mentre

altri sensori sono in grado di adattare l‟emissione luminosa in risposta alla presenza o assenza di luce

solare. Passare dalle lampadine a incandescenza ai LED e installare sensori di movimento e luci

fotosensibili può ridurre la quantità di elettricità usata per l‟illuminazione fino a oltre il 90%.

In quanto all‟esistenza di modelli Piano B a livello nazionale, la Danimarca oggi ottiene oltre il 20%

della sua elettricità dal vento e prevede di arrivare a oltre il 50%. Sono 75 milioni gli europei le cui

case sono alimentate dall‟energia eolica. Ventisette milioni di case cinesi hanno l‟acqua calda grazie

a impianti solari termici sul tetto. L‟Islanda, paese in cui il 90% delle case sono riscaldate grazie

all‟energia geotermica, ha praticamente eliminato il carbone dal sistema di riscaldamento domestico.

Nelle Filippine, il 26% dell‟energia proviene da impianti geotermici.

Il mondo dopo il Piano B potrebbe assomigliare alle montagne riforestate della Corea del Sud. Qui il

65% del territorio, un tempo terra spoglia e deserta, praticamente priva di alberi, è stato riforestato

con successo. Alluvioni ed erosione del suolo sono solo un ricordo, con le campagne coreane

restituite all‟equilibrio e alla stabilità ambientale. Negli Stati Uniti durante gli ultimi 25 anni è stato

deciso di diminuire l‟estensione dei campi coltivati, in gran parte a forte rischio di erosione, del 10%,

destinando parte della restante percentuale a pratiche di aratura meno aggressive: il risultato è per ora

una riduzione dell‟erosione del 40% e nello stesso tempo un incremento del raccolto di cereali di

circa un quinto.

Alcuni degli esempi più innovativi di leadership vengono dalle città. Curitiba, in Brasile, ha avviato

una trasformazione del sistema dei trasporti nel 1974: nei vent‟anni seguenti, il traffico

automobilistico è calato del 30% mentre il numero di abitanti è addirittura raddoppiato. Amsterdam

ha un sistema di trasporti diversificato in cui circa il 40% di tutti gli spostamenti urbani vengono

effettuati in bicicletta. A Parigi, il piano di diversificazione dei trasporti, che assegna un ruolo di

punta alla bicicletta, promette di ridurre il traffico di automobili del 40%. A Londra le macchine che

vogliono entrare in centro devono pagare una tassa, i cui proventi sono reinvestiti nel potenziamento

dei trasporti pubblici.

La sfida non consiste solo nella costruzione di una nuova economia, ma nel farlo con una rapidità

paragonabile a uno sforzo bellico. È necessario evitare di superare i punti di non ritorno degli

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ecosistemi prima che il modello economico attuale cominci a collassare irreversibilmente.

Partecipare alla realizzazione di un‟economia mondiale più stabile è una sfida straordinaria, come

straordinaria sarà la qualità della vita che potremo ottenere. Un mondo in cui si sia arrestata la

crescita demografica, le foreste abbiano ripreso a espandersi e i livelli delle emissioni di anidride

carbonica siano in diminuzione, è nelle nostre possibilità.

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2. LA PRESSIONE DEMOGRAFICA: TERRE COLTIVABILI E RISORSE IDRICHE

I francesi usano un indovinello per insegnare agli studenti la natura della crescita esponenziale. Uno

stagno, dice l‟indovinello, contiene una sola ninfea. Ogni giorno il loro numero raddoppia: due

ninfee il secondo giorno, quattro il terzo, otto il quarto e così via. “Se lo stagno si riempie al

trentesimo giorno, in che giorno è mezzo pieno?”. La risposta è: “Il ventinovesimo giorno.”

Le tendenze mondiali relative alle aree coltivate e la disponibilità di acqua per usi irrigui

suggeriscono che stiamo vivendo nel trentunesimo giorno. Dopo un periodo di modesta espansione

dal 1950 al 1981, la superficie mondiale coltivata a cereali ha smesso di crescere, da quando la

perdita di terreni per l‟erosione e la conversione a usi non agricoli ha superato le nuove terre messe

sotto l‟aratro. In quasi un terzo delle terre coltivate l‟erosione degli strati superficiali è più veloce

della formazione di nuovo suolo dovuta ai processi geologici, riducendo lentamente la produttività

dei terreni.

Le aree irrigate nel mondo si sono triplicate dal 1950 al 2000, ma da allora in poi sono aumentate di

molto poco. Potrebbero presto iniziare a diminuire, come sta già succedendo in alcuni paesi, con

l‟esaurimento delle falde a causa di uno sfruttamento eccessivo e con lo scioglimento e la

progressiva scomparsa dei ghiacciai che alimentano nel mondo la maggior parte dei corsi d‟acqua e

dei sistemi irrigui. L‟irrigazione è pertanto a rischio sia che venga alimentata dalle falde sotterranee

che dall‟acqua dei fiumi.

Non possiamo fare a meno di prendere in considerazione l‟importanza dell‟acqua nella produzione

del cibo. Nel mondo si bevono in media quasi 4 litri d‟acqua al giorno, direttamente oppure nel caffè,

nei succhi, nelle bibite, nei vini e in altre bevande; ma ne sono necessari 2.000 litri per produrre il

cibo che consumiamo quotidianamente, 500 volte quella che beviamo. È come se “mangiassimo”

2.000 litri d‟acqua al giorno.

L‟erosione dei suoli inizialmente riduce la produttività, e successivamente, oltrepassato un certo

punto, porta all‟abbandono dei terreni agricoli. Entrambi questi effetti stanno minando la sicurezza

alimentare mondiale. La combinazione della crescita demografica e dell‟erosione dei suoli ha portato

molte nazioni, un tempo autosufficienti, a diventare pesantemente dipendenti dalle importazioni di

cereali.

Il livello delle falde acquifere è in discesa in quasi tutte le nazioni che utilizzano acque sotterranee

nell‟irrigazione: in molti di questi paesi, quando gli acquiferi si esauriscono e i pozzi si prosciugano,

la perdita dell‟acqua per usi irrigui conduce inesorabilmente alla fame. Il fenomeno

dell‟overpumping, lo sfruttamento che eccede la capacità naturale di ricarica della falda, rappresenta

un classico caso di “sorpasso ecologico” e conseguente collasso. È un modo di soddisfare le attuali

necessità alimentari che comporterà un crollo sicuro della produzione futura, quando le falde saranno

esaurite. In effetti abbiamo creato una “bolla economica alimentare”. Sia l‟erosione dei suoli che

l‟esaurimento delle falde acquifere riflettono l‟enfasi sui consumi attuali a spese delle generazioni

future.

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2.1 L’erosione della civiltà

La civiltà ha le sue fondamenta nel sottile strato superficiale di suolo che ricopre la superficie del

pianeta. Questo strato, normalmente profondo intorno ai 15 centimetri, si è formato con il trascorrere

di lunghe ere geologiche, quando la formazione di nuovo suolo eccedeva il naturale tasso di

erosione. Ma a un certo punto nel corso del secolo scorso, quando la popolazione umana e il

bestiame sono aumentati oltre un certo limite, in aree molto vaste l‟erosione ha superato i ritmi della

formazione di nuovo suolo.

Questa non è una novità. Nel 1938

Walter Lowdermilk, un funzionario del

Soil Conservation Service del

Dipartimento americano per

l‟Agricoltura (USDA, Soil Conservation

Service of the U.S. Department of

Agriculture), fece un viaggio all‟estero

per studiare i territori che erano stati

coltivati per migliaia di anni in modo da

capire come le civiltà più antiche

avessero affrontato l‟erosione dei suoli.

Egli scoprì che alcune di esse avevano

gestito i propri terreni in modo da

mantenerli fertili e prosperando per

lunghi periodi storici. Altre avevano

fallito in questo compito lasciando solo le rovine del loro illustre passato.

In una sezione del suo articolo intitolato “The Hundred Dead Cities” (“Le cento città morte”),

Lowdermilk descrisse un sito nel nord della Siria, vicino Aleppo, dove antichi edifici erano ancora in

piedi come isolati rilievi, ma poggiavano sulla roccia nuda. Nel VII secolo la prosperosa regione fu

invasa prima da un‟armata persiana e più tardi dai nomadi del deserto arabico. Durante le invasioni,

le pratiche di conservazione del terreno e dell‟acqua, adottate per secoli, furono abbandonate.

Lowdermilk scrive: “Qui l‟erosione ha fatto il suo massimo danno (...). Se il suolo fosse rimasto,

persino se le città fossero state distrutte e le popolazioni disperse, l‟area avrebbe potuto essere

ripopolata nuovamente e le città ricostruite, ma ormai quello che nel terreno è stato danneggiato è

andato definitivamente perduto”.

Ora, passiamo rapidamente a quello che ha accertato una missione svolta nel 2002 da un‟équipe delle

Nazioni Unite per studiare la situazione alimentare in Lesotho, una piccola nazione di 2 milioni di

persone al centro del Sudafrica. La loro conclusione è chiarissima: “L’agricoltura in Lesotho

presenta un futuro catastrofico; la produzione agricola è in declino e può cessare del tutto in ampie

aree del paese se non verranno eseguiti interventi atti a contrastare l’erosione del suolo, il degrado

e la perdita della sua fertilità”. Michael Grunwald riporta nel Washington Post che circa la metà dei

"Le rovine delle cento città morte in Siria"

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66

bambini sotto i cinque anni ha uno sviluppo fisico compromesso: “Molti” egli scrive “sono troppo

deboli per poter camminare fino a scuola”.

Gli esperti dell‟ONU avevano visto giusto. Negli ultimi 10 anni il raccolto di cereali in Lesotho è

diminuito del 40%, di pari passo con la diminuzione della fertilità dei suoi suoli. Con una agricoltura

in estrema crisi, il Lesotho dipende pesantemente dalle forniture alimentari del Programma

alimentare mondiale dell‟ONU, che rappresenta la sua unica ancora di salvezza.

Nell‟emisfero occidentale, Haiti, tra i primi stati in declino, era largamente autosufficiente per il

proprio fabbisogno di cereali fino a 40 anni fa. Da allora ha perso le sue foreste quasi per intero e la

maggior parte del suo suolo, trovandosi obbligato ad acquistare quasi la metà del grano del quale ha

bisogno. Come il Lesotho, anche per Haiti il Programma alimentare mondiale rappresenta l‟unica

possibilità di salvezza.

La Mongolia si trova in una situazione simile: nel corso degli ultimi 20 anni tre quarti delle sue terre

produttrici di frumento sono state abbandonate e la resa dei terreni è calata di un quarto, riducendo il

raccolto per un totale di quattro quinti. La Mongolia, una nazione con territorio pari a tre volte quello

della Francia e con una popolazione di 2,6 milioni di persone, oggi è costretta a importare quasi il

70% del frumento.

Che la terra sia in Lesotho, Mongolia, Haiti, o in una delle altre nazioni che stanno perdendo il

proprio suolo, la salute dei popoli che ci vivono non può essere separata dalla salute del suolo stesso.

Una gran parte di quel miliardo di persone che soffre la fame nel mondo, vive su suoli assottigliati

dall‟erosione.

Non c‟è bisogno di visitare una nazione dal suolo devastato per osservare le conseguenze di una forte

erosione. Le tempeste di polvere che si formano nelle nuove zone desertificate sono registrate

fedelmente dalle immagini satellitari. Il 9 gennaio 2005, la National Aeronautics and Space

Administration mostrò le immagini di una grande tempesta di polvere che dall‟Africa Centrale si

muoveva verso ovest. Questa enorme nuvola brunastra si estendeva per 5.300 chilometri,

sufficientemente grande da coprire gli Stati Uniti da costa a costa.

Andrew Goudie, professore di geografia alla Oxford University, riporta che il numero di tempeste di

polvere nel Sahara, un tempo rare, è aumentato di 10 volte nel corso degli ultimi cinquant‟anni. Le

nazioni africane più colpite dalla perdita di suolo per l‟erosione causata dal vento sono il Niger, il

Ciad, la Mauritania, la Nigeria del Nord e il Burkina Faso. In Mauritania, nell‟estremo ovest del

continente africano, il numero di tempeste di polvere registrate ogni anno è passato da due dei primi

anni Sessanta a 80 dell‟epoca attuale.

La depressione di Bodele nel Ciad è il luogo di origine per circa 1,3 miliardi di tonnellate di terriccio

trasportato dal vento, circa 10 volte di più da quando queste misurazioni presero il via nel 1947.

Quasi 3 miliardi di tonnellate di terreno lasciano l‟Africa ogni anno sotto forma di tempeste di

polvere, sottraendone fertilità e riducendo lentamente la produttività di questo continente. Inoltre

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67

queste tempeste attraversano l‟intero oceano Atlantico, depositando così tanta polvere nel Mare dei

Caraibi da intorbidirne l‟acqua e danneggiarne la barriera corallina.

La popolazione cinese è ormai abituata alle tempeste di sabbia che si originano nelle zone a nord-

ovest della Cina e nella Mongolia occidentale, ma anche il resto del mondo viene a conoscenza di

questa catastrofe ecologica quando tempeste cariche di polvere si spostano al di fuori dei confini di

questa regione. Il 18 aprile 2001, la parte occidentale degli Stati Uniti, dall‟Arizona sino al confine

settentrionale con il Canada, fu interamente coperta dalla polvere proveniente da un‟enorme

tempesta che si era formata il 5 aprile nella Cina nord-occidentale e in Mongolia. Quando lasciò la

Cina misurava un‟estensione di quasi 2.000 chilometri e trascinò con sé milioni di tonnellate di

terreno superficiale, una risorsa che la natura impiegherà secoli a rimpiazzare.

Quasi un anno dopo, il 12 aprile del 2002, la Corea del Sud è stata sommersa da una enorme

tempesta di polvere proveniente dalla Cina che lasciò gli abitanti di Seul letteralmente senza fiato. Le

scuole sono state chiuse, i voli aerei sospesi e gli ospedali obbligati a un superlavoro per curare

pazienti con sintomi di soffocamento. I coreani ormai temono a tal punto il ripetersi di un tale

fenomeno da aver dato il nome di “quinta stagione” alle tempeste di polvere che si verificano tra la

fine dell‟inverno e l‟inizio della primavera.

Queste due tempeste di polvere, tra le dieci più grandi che finora si sono verificate in Cina, sono la

dimostrazione palese della catastrofe ecologica in corso nella parte nord-occidentale del suo

territorio. Il sovrasfruttamento dei pascoli ne è il principale responsabile.

Un report dell‟ambasciata degli Stati Uniti, intitolato Desert Mergers and Acquisitions (“La fusione e

la formazione dei deserti”), riporta una serie di immagini satellitari dalle quali si evince che due

deserti nella Cina centro-settentrionale si stanno espandendo e riunendo, sino a formarne uno più

grande che si sovrappone alle province della Mongolia centrale (Nei Monggol) e del Gansu. A ovest

della provincia dello Xinjiang, due aree desertiche ancora più vaste, il Taklimakan e il Kumtag, sono

anch‟esse in procinto di fondersi. Le autostrade che corrono attraverso queste due regioni sono

regolarmente inondate da dune di sabbia.

Anche l‟erosione provocata dall‟acqua dà il suo contributo al deperimento dei suoli. Questo

fenomeno si rileva sia dall‟interramento dei bacini idrici, sia dalle foto satellitari delle chiazze

fangose che i fiumi provocano riversandosi nel mare. I due grandi invasi pakistani, i laghi Mangla e

Tarbela, che raccolgono l‟acqua del fiume Indo per la grande rete di irrigazione del paese, perdono

ogni anno circa l‟1% della loro capacità perché vengono riempiti dal fango proveniente dai propri

bacini deforestati.

L‟Etiopia, una nazione montagnosa con un suolo molto soggetto all‟erosione, sta perdendo quasi 2

miliardi di tonnellate di terra all‟anno, trascinati via dalle piogge. Questa è una delle ragioni per cui il

paese sembra essere permanentemente sull‟orlo della carestia, non riuscendo mai ad accumulare

abbastanza riserve di cereali tali da garantire la sicurezza alimentare.

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L‟erosione dei suoli derivante dal deterioramento dei manti erbosi delle praterie è un fenomeno

ampiamente diffuso. Un numero costantemente in crescita di bovini e ovini pascolano sui due quinti

di quella parte della superficie terrestre che è troppo secca, troppo ripida o non abbastanza fertile da

poter essere coltivata. Questa area sostenta la maggior parte dei 3,3 miliardi di bovini e ovini al

mondo, tutti ruminanti con complessi sistemi digestivi che permettono loro di digerire le fibre e

trasformarle in carne e latte.

Si stima che circa 200 milioni di persone basino il loro sostentamento sulla pastorizia, accudendo

bovini, pecore e capre. Poiché nelle società di tipo pastorale la maggior parte dei terreni sono gestiti

collettivamente, il pascolo eccessivo è difficile da controllare, con il risultato che metà delle praterie

mondiali sono degradate. Il problema è molto evidente in Africa, in Medio Oriente, in Asia Centrale

e nella Cina nord-occidentale, dove la crescita del bestiame è parallela a quella della popolazione.

Nel 1950 in Africa vivevano 227 milioni di persone e 273 milioni di capi di bestiame. Nel 2007 si è

giunti a 965 milioni di persone e 824 milioni di capi. Poiché i bisogni del bestiame superano di oltre

la metà la capacità di sostentamento delle praterie, queste ultime si stanno desertificando.

In Nigeria, la nazione più popolosa dell‟Africa, ogni anno si trasformano in deserto 351 mila ettari di

terreni adibiti a pascolo o a coltura. Mentre la popolazione della Nigeria è quadruplicata dal 1950 al

2007, passando da 37 milioni a 148 milioni di persone, il numero di capi di bestiame è aumentato di

17 volte, da 6 milioni a 102 milioni. Poiché la richiesta di foraggio da parte dei 16 milioni di bovini e

degli 86 milioni di ovini supera la produzione che i terreni a pascolo sono in grado di sostenere, la

parte settentrionale della nazione è in via di lenta desertificazione. Se la popolazione della Nigeria

dovesse continuare a crescere verso gli stimati 289 milioni di persone del 2050, questi fenomeni di

deterioramento non potranno fare altro che accelerare.

L‟Iran, con 73 milioni di persone, è l‟esempio delle pressioni che si trova a fronteggiare il Medio

Oriente. Con 8 milioni di bovini e 79 milioni di ovini, la fonte della lana per la sua famosa industria

di tappeti, le praterie del paese si stanno deteriorando a causa dell‟allevamento eccessivo. Nella

provincia sud-orientale di Sistan-Balochistan le tempeste di sabbia hanno sepolto 124 villaggi

causandone l‟abbandono. Sabbie portate dal vento hanno coperto i terreni a pascolo, affamando le

mandrie e privando gli abitanti del loro sostentamento.

Il vicino Afghanistan deve affrontare una situazione simile. Il deserto del Registan si sta spostando

verso ovest, invadendo le zone agricole. Uno studio del Programma delle Nazioni Unite per

l‟Ambiente (U.N. Environment Programme, UNEP) riporta che “almeno 100 villaggi sono stati

sommersi da sabbia e polvere trascinate dal vento”. Nel nord-ovest della nazione le dune di sabbia

si stanno spostando verso le terre agricole dei lembi più alti del bacino di Amu Darya, dopo che la

perdita di vegetazione stabilizzante, per la raccolta di legna da ardere e il pascolo eccessivo, ha

aperto loro il cammino. Gli osservatori dell‟UNEP hanno visto dune di 15 metri bloccare le strade,

costringendo gli abitanti a trovare nuovi percorsi.

La Cina sta affrontando difficoltà simili. Con la riforma economica del 1978, che ha trasferito la

responsabilità della pianificazione degli allevamenti dallo stato alle famiglie degli allevatori, il

governo ha perso il controllo sul numero dei capi di bestiame. Come risultato il numero di bovini,

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69

pecore e capre in Cina si è impennato. Mentre gli Stati Uniti, una nazione che ha circa le stesse

quantità di pascoli, possiedono 97 milioni di bovini, la Cina ne ha poco meno di 82 milioni. Ma

mentre il numero di pecore e capre degli Stati Uniti è pari a 9 milioni, la Cina ne possiede 284

milioni. Concentrata nelle province della Cina occidentale e settentrionale, questa moltitudine di

ovini sta distruggendo la vegetazione che protegge il terreno. Il vento fa il resto, rimuovendo lo strato

superficiale e trasformando i pascoli produttivi in deserto.

La desertificazione della Cina potrebbe essere la più grave al mondo. Wang Tao, uno dei maggiori

studiosi mondiali di deserti, riporta che dal 1950 al 1975 una media di 1.550 chilometri quadrati si

trasformavano in deserto ogni anno. Alla fine del secolo scorso il fenomeno della desertificazione

interessava annualmente circa 3.600 chilometri quadrati.

La Cina è ormai in una condizione simile a un‟emergenza militare. Non è soggetta all‟invasione di

eserciti, ma dei deserti che la privano dei suoi territori. Le aree desertiche originarie si stanno

espandendo e se ne stanno formando di nuove, metaforica guerriglia che colpisce a sorpresa

costringendo Pechino a combattere su più fronti. Wang Tao riporta che dal 1950 circa 24 mila

villaggi nel nord e nell‟ovest della Cina sono stati interamente o parzialmente abbandonati perché

seppelliti dalla sabbia.

L‟erosione del suolo è frequentemente la conseguenza dell‟espansione verso zone periferiche dei

terreni posti a coltura, che è a sua volta spinta dalla domanda. Durante il corso dell‟ultimo secolo si è

assistito a un‟enorme crescita delle zone coltivate in due nazioni, gli Stati Uniti e l‟Unione Sovietica,

e in tutte e due i casi il risultato è stato un disastro.

Nell‟ultima parte del XIX secolo, milioni di americani si sono spostati a Ovest, stabilendosi nelle

Grandi Pianure e arando vaste zone di prateria per produrre grano. Molta di questa terra, divenuta

altamente erodibile una volta arata, sarebbe dovuta rimanere prateria. Questa eccessiva espansione

culminò in quelle che presero il nome di Dust Bowl, gigantesche tempeste di polvere verificatesi nel

corso degli anni Trenta, un periodo drammatico come raccontato nel romanzo Furore di John

Steinbeck. Con un programma d‟emergenza per la tutela del proprio suolo, gli Stati Uniti riportarono

a prateria larghe aree di terreni erosi, adottarono la coltivazione a strisce e piantarono migliaia di

chilometri di cinture protettive alberate.

La seconda più grande espansione dei terreni coltivati iniziò nella metà degli anni Cinquanta in

Unione Sovietica. In uno sforzo estremo volto a incrementare la produzione cerealicola, i sovietici

ararono un‟area di prateria più grande della somma delle aree coltivate a grano di Australia e

Canada. Come gli agronomi sovietici avevano previsto, il risultato fu un disastro ecologico che è

culminato in un‟altra Dust Bowl. Il Kazakistan, la regione dove si concentrò l‟attività di aratura, ha

abbandonato sin dal 1980 il 40% della terra coltivata a grano. Sulla parte rimanente, la resa è pari a

un sesto di quella che si ha in Francia, che è il più grande produttore di grano dell‟Europa

occidentale.

Una terza massiccia espansione di terra coltivata è attualmente in corso nel bacino del Rio delle

Amazzoni e nel Cerrado, una regione simile alla savana che costeggia la parte meridionale del bacino

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70

amazzonico. La terra del Cerrado, come accadde sia negli Stati Uniti che nell‟Unione Sovietica, è

vulnerabile all‟erosione del suolo. Questa espansione colturale sta spingendo gli allevatori di

bestiame verso la foresta Amazzonica, dove gli ecologisti sono convinti che la pratica della

deforestazione provocherà un altro disastro. Il giornalista Geoffrey Lean, riassumendo

sull‟Indipendent di Londra i risultati di un simposio scientifico brasiliano del 2006, fa notare che

l‟alternativa alla foresta pluviale amazzonica potrebbe esitare nel migliore dei casi in una savana

secca e nella peggiore delle ipotesi in un deserto.

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2.2 Riserve idriche in esaurimento

In nessun altro luogo il calo dei livelli delle falde idriche e la contrazione delle superfici agricole

irrigate è tanto drammatica come in Arabia Saudita, una nazione tanto povera di acqua quanto ricca

di greggio. Dopo l‟embargo delle esportazioni di petrolio arabo degli anni Settanta, i sauditi si resero

conto di essere vulnerabili a un contro embargo sui cereali. Per rendersi autosufficienti rispetto alla

domanda interna di grano, svilupparono un‟agricoltura fortemente sovvenzionata e a carattere irriguo

permessa dal pompaggio dell‟acqua da una profonda falda acquifera fossile.

"I campi sauditi irrigati con acqua fossile parzialmente abbandonati"

Dopo essere stati autosufficienti per più di 20 anni, all‟inizio del 2008 i sauditi hanno annunciato che

la loro falda è prossima all‟esaurimento e che avrebbero ridotto la coltivazione del grano di un ottavo

ogni anno fino al 2016, data nella quale la produzione verrà interrotta. Da allora in poi l‟Arabia

Saudita importerà circa 15 milioni di tonnellate di grano, riso, mais e orzo per i suoi 30 milioni di

abitanti. È la prima nazione al mondo a pianificare pubblicamente una riduzione del raccolto di

cereali di pari passo all‟esaurimento delle riserve degli acquiferi.

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Ma i sauditi non sono i soli. Molte nazioni stanno utilizzando le falde in maniera eccessiva nel

tentativo di soddisfare la loro crescente domanda idrica. Sebbene la maggior parte degli acquiferi

siano rigenerabili, alcuni non lo sono. Per esempio, quando gli acquiferi indiani e quelli superficiali

sotto la pianura della Cina settentrionale si esauriranno, il volume di pompaggio sarà

automaticamente ridotto alla loro velocità di ricarica.

Ma nel caso degli acquiferi fossili l‟esaurimento ha come conseguenza la fine del pompaggio

estrattivo. Esempi di acquiferi fossili sono quello saudita, quello assai esteso di Ogallala sotto le

Grandi Praterie degli Stati Uniti o quello posto nelle profondità della pianura della Cina

settentrionale. Gli agricoltori che perdono in casi come questi l‟approvvigionamento idrico a uso

irriguo, possono solo tornare a colture secche di resa inferiore, quando il livello di precipitazioni lo

permetta. Per questo motivo nelle regioni più aride, come il sud-ovest degli Stati Uniti e una parte

del Medio Oriente, la perdita dell‟irrigazione significa la fine dell‟agricoltura.

Nello Yemen, una nazione con 23 milioni di abitanti, confinante con l‟Arabia Saudita, la falda idrica

si sta abbassando di circa 2 metri all‟anno, poiché l‟uso dell‟acqua eccede la velocità di ricarica degli

acquiferi. Con uno dei più alti tassi di crescita della popolazione al mondo e con le falde ovunque in

calo, lo Yemen sta velocemente diventando un caso disperato di disastro idrico. La produzione di

cereali è diminuita della metà negli ultimi 35 anni. Entro il 2015 i campi irrigati diventeranno una

rarità e la nazione importerà tutti i suoi cereali. Basandosi su un debito idrico che si aggrava con il

tempo, lo Yemen è in testa nella lista degli stati prossimi al fallimento.

Le falde idriche in calo stanno già minando i raccolti in alcune grandi nazioni, compresa la Cina, che

rivaleggia con gli Stati Uniti per il posto di più grande produttore mondiale di cereali. Una ricerca

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73

sullo stato delle acque sotterrane pubblicata a Pechino nell‟agosto del 2001 ha rivelato che la falda

idrica sotto la Pianura della Cina settentrionale, un‟area che produce più della metà del grano

nazionale e un terzo del mais, si sta abbassando rapidamente. Il pompaggio eccessivo ha esaurito

abbondantemente gli acquiferi superficiali, obbligando a trivellare alla ricerca di quelli più profondi,

che non hanno la capacità di ricaricarsi.

La ricerca ha evidenziato che sotto la Provincia di Hebei nel cuore della Pianura della Cina

settentrionale il livello medio degli acquiferi profondi si sta abbassando di quasi 3 metri all‟anno.

Intorno ad alcune città della provincia, il ritmo di questo calo è risultato essere due volte più veloce.

He Qingcheng, responsabile del team di monitoraggio delle acque sotterranee, osserva che, una volta

che sarà esaurito l‟acquifero di profondità, la regione avrà perso la sua ultima riserva idrica, il suo

unico cuscinetto di sicurezza.

Uno studio della Banca Mondiale rivela che la Cina sta estraendo acqua dalle falde sotterranee poste

all‟interno di tre bacini fluviali contigui posti nel nord del paese: il bacino del fiume Hai, che scorre

attraverso Pechino e Tianjin; quello del fiume Giallo e quello del fiume Huai, il più meridionale dei

tre. Poiché per produrre una tonnellata di grano sono necessarie 100 tonnellate d‟acqua, la

diminuzione di quasi 40 miliardi di tonnellate d‟acqua all‟anno del bacino di Hai (una tonnellata

equivale a circa un metro cubo) significa che quando l‟acquifero sarà esaurito il raccolto di grano

diminuirà di 40 milioni di tonnellate e la Cina perderà la fornitura alimentare per 130 milioni di

abitanti.

Se i problemi di scarsità idrica sono seri in Cina, il fenomeno è ancora più grave in India, dove è

precario il margine tra il consumo di cibo e la sopravvivenza. Ad oggi, i 100 milioni di agricoltori

indiani hanno trivellato più di 21 milioni di pozzi, investendo qualcosa come 12 miliardi di dollari se

vengono conteggiati anche i costi per l‟acquisto delle pompe. Nell‟agosto del 2004, Fred Pearce

scrisse sul New Scientist che “la metà dei pozzi tradizionali scavati a mano e milioni dei più

superficiali pozzi a colonna si sono già prosciugati, provocando un‟ondata di suicidi tra coloro che ne

sono dipendenti. I blackout stanno raggiungendo proporzioni epidemiche in quegli stati dove metà

dell‟energia elettrica viene utilizzata per pompare acqua da profondità che arrivano anche a un

chilometro”.

Via via che le falde idriche si abbassano, vengono impiegate trivelle petrolifere modificate per

raggiungere l‟acqua a profondità che in alcune zone superano gli 800 metri. In quelle comunità dove

le fonti di acqua sotterranea si sono completamente esaurite, tutta l‟agricoltura si basa ormai solo

sulla pioggia e l‟acqua potabile deve essere trasportata con i camion. Tushar Shah, responsabile

dell‟International Water Management Institute per la falda freatica di Gujarat, descrivendo la

situazione idrica in India afferma che: “Quando la bolla esploderà, l’India rurale cadrà in

un’anarchia mai vista”.

La crescita della produzione di frumento in India è rallentata a partire dal 2000, schiacciata, sia dalla

scarsità idrica, che dalla perdita di terreni coltivati a favore di usi non agricoli. Uno studio del 2005

della Banca Mondiale riporta che il 15% della produzione indiana di cibo è ottenuto grazie al

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pompaggio di acque sotterranee, il che equivale a dire che 175 milioni di persone vengono nutrite

con il grano prodotto estraendo acqua dal sottosuolo.

Negli Stati Uniti, l‟USDA (U.S. Department of Agriculture) ha rilevato che in parte del Texas,

dell‟Oklahoma e del Kansas, tre stati tra i maggiori produttori di cereali, la falda idrica si è abbassata

di più di 30 metri. Ne è risultato che molti pozzi si sono prosciugati in migliaia di fattorie nelle

Grandi Pianure del sud, obbligando gli agricoltori a ritornare a una agricoltura a secco di resa

inferiore. Sebbene l‟esaurimento delle riserve idriche sotterranee abbia delle serie conseguenze sulla

produzione cerealicola statunitense, le terre irrigate forniscono solo un quinto del raccolto di cereali

degli Stati Uniti, mentre in India rappresentano quasi tre quinti del raccolto e in Cina i quattro

quinti.44

Campi in siccità a causa della "depletion"

dell'acquifero di Ogalalla che finora ha rifornito di

acqua le Grandi Pianure

Anche il Pakistan, una nazione con 177 milioni di persone e con un tasso di crescita demografica di 4

milioni all‟anno, sta estraendo acqua dal sottosuolo. Nella parte pakistana della fertile pianura del

Punjab, l‟abbassamento delle falde idriche sembra essere simile a quello indiano. I pozzi di controllo

vicino alle città gemelle di Islamabad e Rawalpindi mostrano un calo della falda tra il 1982 e il 2000

che varia da un metro a quasi 2 metri l‟anno.

Nella provincia del Belucistan, che confina con l‟Afghanistan, le falde idriche intorno alla capitale

Quetta stanno scendendo di 3 metri e mezzo all‟anno, avvicinando il giorno in cui la città rimarrà

senza acqua. Sardar Riaz A. Khan, già direttore del Pakistan‟s Arid Zone Research Institute a Quetta,

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75

riporta che sei dei bacini del Belucistan hanno esaurito le proprie riserve idriche sotterranee,

rendendone improduttive le terre irrigate.

L‟Iran sta sovrasfruttando i propri acquiferi mediamente per 5 miliardi di tonnellate di acqua

all‟anno, l‟equivalente necessario alla produzione di un quarto del suo raccolto di cereali,

avvicinandosi anch‟esso al giorno della resa dei conti.

Israele, sebbene primeggi nel migliorare il rendimento delle tecniche irrigue, sta esaurendo i suoi due

acquiferi pricipali, uno posto nella zona costiera e l‟altro in quella montuosa, quest‟ultimo condiviso

con i palestinesi. Come contromisura Israele ha istituito il divieto di irrigare il grano, il suo alimento

principale, e sta attualmente importando quasi tutto quello che consuma. I conflitti tra israeliani e

palestinesi per la destinazione delle risorse idriche sono sempre in corso.

La topografia degli acquiferi in Israele

In Messico, la patria di 109 milioni di persone che si stima raggiungeranno i 129 milioni nel 2050, la

domanda d‟acqua supera l‟offerta. I problemi idrici di Città del Messico sono ben noti. Anche le

zone rurali sono in difficoltà. Nello stato agricolo di Guanajuato, la falda idrica sta calando di 2 metri

e più all‟anno. Nello stato nord-occidentale di Sonora, un tempo gli agricoltori pompavano acqua

dall‟acquifero di Hermosillo a una profondità di 10 metri. Oggi devono estrarla da una profondità di

più di 120. A livello nazionale, il 51% di tutta l‟acqua estratta proviene da acquiferi che sono

sovrasfruttati.

Poiché questo sfruttamento eccessivo è in corso in molte nazioni contemporaneamente,

l‟esaurimento degli acquiferi e la risultante riduzione dei raccolti potrebbe avvenire più o meno nello

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stesso momento. L‟accelerazione del processo di svuotamento degli acquiferi inoltre comporta che

questo giorno potrebbe arrivare presto, provocando una carenza alimentare dalle conseguenze

difficilmente immaginabili.

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2.3 Agricoltura sofferta: l’acqua va in città

Mentre la disponibilità mondiale di acqua dolce si va riducendo, gli agricoltori hanno accesso a una

parte sempre più scarsa di questa risorsa in diminuzione. Se le tensioni per l‟acqua tra le nazioni

occuperanno sicuramente i titoli dei giornali, quello che preoccupa di più i politici locali è lo scontro

per l‟uso delle risorse idriche tra le città e le attività agricole. L‟economia dell‟acqua in questa

competizione non volge a favore dell‟agricoltura, semplicemente perché per produrre il cibo ne

occorre un‟ingente quantità. Ad esempio, mentre sono necessarie solo 14 tonnellate d‟acqua per

produrne una di acciaio, ne occorrono 1.000 per ottenere una tonnellata di grano. In quelle nazioni

dove ci si preoccupa di far crescere l‟economia e creare posti di lavoro, l‟agricoltura diventa una

voce a margine.

Molte delle più grandi città del mondo, come Los Angeles, Il Cairo e Nuova Delhi, possono

aumentare il loro consumi idrici solo sottraendo acqua all‟agricoltura. Questa competizione tra città e

campagna per l‟uso dell‟acqua presente nel sottosuolo si va facendo molto aspra in tutta l‟India. Da

nessuna parte il problema è tanto evidente quanto a Chennai (prima Madras), una città di 7 milioni di

abitanti nel sud dell‟India. Poiché i governanti della città si sono dimostrati incapaci di fornire acqua

ad alcuni dei suoi abitanti, è nata una fiorente attività di camion cisterna che l‟acquistano dagli

agricoltori e la trasportano agli assetati residenti urbani.

Per gli agricoltori intorno alla città, il prezzo dell‟acqua supera di molto il valore dei raccolti che vi si

possono ottenere. Sfortunatamente le 13 mila cisterne che portano l‟acqua a Chennai stanno

estraendo dalle riserve idriche sotterranee della regione. Le falde idriche si stanno abbassando e i

pozzi più superficiali si sono seccati. Alla fine anche quelli più profondi si prosciugheranno,

togliendo a queste comunità la loro fonte di cibo e il loro sostentamento vitale.

Gli agricoltori cinesi lungo il corso dello Yuma a valle di Pechino si accorsero nel 2004 che il fiume

aveva smesso di scorrere. Nei pressi della capitale era stata costruita una diga di deviazione per

fornire acqua alla Yanshan Petrochemical, un‟azienda di proprietà statale. Anche se gli agricoltori

protestarono vivamente, fu una battaglia persa. Per i 120 mila agricoltori a valle della diga, la perdita

dell‟acqua potrebbe compromettere la loro capacità di sostenersi con l‟agricoltura.

Nelle grandi pianure meridionali degli Stati Uniti, dove è utilizzata tutta l‟acqua disponibile, il

crescente bisogno idrico delle città e di migliaia di piccole località può essere soddisfatto solamente

sottraendo acqua all‟agricoltura. Un mensile californiano, The Water Strategist, dedica molte pagine

alla lista degli scambi commerciali di partite d‟acqua che sono avvenuti nell‟ovest degli Stati Uniti il

mese precedente. Non passa giorno lavorativo senza una vendita.

In Colorado si svolge uno dei più attivi mercati mondiali d‟acqua. Città e villaggi in uno stato con

un‟alta immigrazione stanno comprando da agricoltori e proprietari di ranch i diritti per gli usi idrici

irrigui. Nel bacino superiore del fiume Arkansas, che occupa un quarto della parte sud-orientale dello

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stato, Colorado Springs e Aurora (un sobborgo di Denver) hanno comprato i diritti per l‟acqua a un

terzo delle aziende agricole del bacino.

Acquisti molto più importanti sono stati conclusi da alcune città della California. Nel 2003, San

Diego ha acquisito i diritti per 247 milioni di tonnellate d‟acqua all‟anno dagli agricoltori della

vicina Imperial Valley, il più grande trasferimento di risorse idriche nella storia degli Stati Uniti con

un accordo valido per i prossimi 75 anni. Nel 2004, il Metropolitan Water District, che fornisce

acqua a 18 milioni di californiani in molte città del sud, negoziò l‟acquisto dagli agricoltori di 137

milioni di tonnellate l‟anno per i prossimi 35 anni. Senza acqua per l‟irrigazione questa terra

fertilissima è un deserto. Gli agricoltori che stanno vendendo i diritti del loro approvvigionamento

idrico desidererebbero continuare a coltivare le loro terre, ma da parte degli amministratori delle città

vengono offerte somme di denaro che mai potrebbero guadagnare con la vendita dei raccolti. Le aree

irrigate in California si sono ridotte del 10% tra il 1997 e il 2007, mano a mano che gli agricoltori

hanno ceduto alle città i loro diritti per l‟utilizzo delle acque irrigue.

Che sia per diretta espropriazione governativa, o perché le città sono in grado di pagare ai contadini

più di quello che guadagnerebbero coltivando, o semplicemente perché le città scavano pozzi più

profondi, che i contadini non possono permettersi, comunque gli agricoltori stanno perdendo la

guerra dell‟acqua.

Storicamente, la scarsità delle risorse idriche è sempre stato un problema locale. Compito dei governi

nazionali è stato il mantenimento dell‟equilibrio tra la domanda e l‟offerta idrica. Oggi ci si trova di

fronte a un cambiamento, perché la penuria supera i confini nazionali a causa del commercio

internazionale di cereali. Poiché produrne una tonnellata comporta l‟utilizzo di 1.000 tonnellate

d‟acqua, importare cereali è la maniera più efficiente di importare acqua, un sistema in ultima analisi

utilizzato dalle nazioni per aggiustare la contabilità dei loro bilanci idrici. Per similitudine, investire

sui futures legati ai cereali è in un certo senso come investire sui futures dell‟acqua.

Il Medio Oriente e il Nord Africa, dal Marocco fino all‟Iran, si sono trasformati nei mercati più

promettenti per il frumento di importazione. Poiché ogni paese posto in queste regioni sta

oltrepassando i propri limiti idrici, la crescente domanda urbana d‟acqua può essere soddisfatta solo

sottraendo le risorse irrigue all‟agricoltura. L‟Egitto negli ultimi anni è diventato il più grande

importatore di grano negli ultimi anni. Attualmente ne compra dall‟estero quasi il 40% del proprio

consumo totale. Questa dipendenza riflette una crescita demografica eccessiva rispetto al grano che

può essere prodotto utilizzando l‟acqua del Nilo. L‟Algeria, con 34 milioni di abitanti, importa più

del 70% del grano di cui ha bisogno.

Complessivamente, nel corso dell‟ultimo anno, l‟acqua richiesta per produrre frumento e altri

prodotti agricoli, importati nel Medio Oriente e nel Nord Africa, è stata pari alla portata annuale del

Nilo all‟altezza della diga di Assuan. In effetti, il deficit idrico della regione può essere immaginato

come un secondo fiume Nilo che scorre nella regione sotto forma di cibo importato.

Si è spesso detto che nel futuro le guerre verranno combattute in Medio Oriente più per l‟acqua che

non per il petrolio: quel che è certo è che la competizione idrica avviene all‟interno dei mercati

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cerealicoli mondiali. Oltre a questo, numerose nazioni dell‟area stanno ora cercando di acquistare

terre in altre nazioni e, quello che è più importante, l‟acqua che contengono. Per sapere dove nel

futuro si concentrerà la penuria cerealicola, è necessario guardare dove oggi è in corso un deficit

idrico. Finora i paesi importatori della maggior parte del loro fabbisogno di grano sono state le

nazioni più piccole. Attualmente stiamo assistendo a crescenti deficit idrici in Cina e in India,

entrambi con più di un miliardo di abitanti. Qual è il momento nel quale la scarsità idrica si trasforma

in scarsità alimentare?

Deficiti idrico medio (1901-1995) nelle aree coltivate

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80

2.4 I conflitti per la terra e l’acqua

Con la terra e l‟acqua che diventano sempre più scarse, la

competizione per queste risorse vitali si intensifica all‟interno delle

società, specialmente tra i ricchi e i poveri e diseredati. La

diminuzione delle risorse vitali pro capite conseguente alla crescita

demografica rischia di far cadere gli standard di vita di milioni di

persone al di sotto del livello di sopravvivenza, portando a tensioni

sociali potenzialmente ingestibili.

L‟accesso alle aree coltivabili è uno dei principali motivi di tensione

sociale. La crescita della popolazione mondiale ha ridotto della metà

la superficie pro capite dei terreni coltivati a grano rispetto al 1950,

fino a un decimo di ettaro nel 2007, corrispondente alla metà di un

lotto edificabile in un sobborgo degli Stati Uniti. La riduzione dei

terreni coltivabili non è solo una minaccia agli stili di vita, ma mina

la sopravvivenza della gran parte dei paesi poveri. Le tensioni

all‟interno delle comunità crescono man mano che le dimensioni

degli appezzamenti si riducono al di sotto del limite necessario al

sostentamento minimo.

La zona del Sahel in Africa, con il suo altissimo tasso di sviluppo demografico, è teatro di crescenti

conflitti. Nel travagliato Sudan, 2 milioni di persone sono morte e più di 4 milioni si sono spostate

nel corso del lungo conflitto tra il nord musulmano e il sud cristiano. Il più recente scontro nella

regione del Darfur nel Sudan occidentale, iniziato nel 2003, è il frutto della crescente tensione tra i

due gruppi musulmani, tra gli allevatori di cammelli e gli agricoltori stanziali. Le truppe del governo

sudanese supportano le milizie arabe nello sterminio dei contadini sudanesi di colore e nel tentativo

di allontanarli dai loro territori per trasferirli nei campi profughi del vicino Ciad. Si stima che circa

300 mila persone siano state uccise nel conflitto o siano morte per fame e malattie all‟interno dei

campi profughi.

Le precipitazioni piovose in diminuzione e il pascolo eccessivo sono due fenomeni che

contribuiscono insieme alla distruzione delle praterie. Ma prima di questi motivi, i semi del conflitto

in Sudan vanno individuati nell‟aumento della popolazione che si è quadruplicata passando dai 9

milioni del 1950 ai 40 del 2007. Contemporaneamente, la popolazione bovina è cresciuta da 7

milioni a 41 milioni, con un aumento di quasi sei volte; le pecore e le capre sono passate da 14

milioni a 94 milioni, una cifra sette volte superiore. Nessun pascolo può sopportare un aumento

continuo del bestiame di tale portata e rapidità.

In Nigeria, dove 151 milioni di persone vivono ammassate in un‟area non più grande del Texas, lo

sfruttamento dei pascoli e l‟aratura eccessiva stanno trasformando praterie e coltivazioni in aridi

deserti, costringendo gli agricoltori e i pastori a una guerra per la sopravvivenza. Come ha dichiarato

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Somini Sengupta al New York Times nel giugno 2004, “in questi ultimi anni, con l‟avanzamento del

deserto, l‟abbattimento degli alberi e la crescita esponenziale delle popolazioni dedite alla pastorizia

e all‟agricoltura, la lotta per la terra è andata intensificandosi”.

Purtroppo, la divisione fra pastori e agricoltori spesso corrisponde anche a quella fra musulmani e

cristiani. La competizione per la terra, amplificata dalle differenze di culto e dalla presenza di

numerosi giovani frustrati e armati, ha creato quello che il New York Times ha descritto come un

“mix infiammabile” che ha “acceso un‟orgia di violenza nella fertile area centrale della Nigeria. Le

chiese e le moschee sono state rase al suolo. I vicini hanno dichiarato guerra ai vicini. Le

rappresaglie sono continuate fino al maggio 2004, quando il governo ha imposto delle rigide misure

di emergenza”.

Divisioni simili esistono tra i pastori e gli agricoltori del Mali settentrionale, dove, come riportato dal

New York Times, “pietre e bastoni hanno lasciato spazio ai kalashnikov, non appena la

desertificazione e l’incremento della popolazione hanno esacerbato la competizione tra gli

agricoltori africani, in gran parte neri, e i pastori delle etnie Fulani e Tuareg. Gli animi sono

infiammati da ambo le parti. La disputa, dopo tutto, è per i mezzi di sostentamento e, ancor di più,

sugli stili di vita”.

Il Ruanda è il classico esempio di come un‟eccessiva spinta demografica possa tradursi in tensione

politica, conflitto e dramma sociale. James Gasana, ministro dell‟Agricoltura e dell‟Ambiente del

Ruanda dal 1990 al 1992, offre alcuni spunti di riflessione. Come presidente di una commissione

nazionale sull‟agricoltura nel 1990, aveva ammonito che in mancanza di “profonde trasformazioni

nel settore agricolo, il Ruanda non sarebbe stato in grado di sostentare in maniera adeguata la

popolazione all’attuale tasso di crescita”. Gasana aveva affermato nel 1990 che, sebbene i

demografi avessero previsto un rilevante aumento della popolazione, il Ruanda non avrebbe potuto

raggiungere i 10 milioni di abitanti senza che questo comportasse dei disordini a livello sociale “a

meno che non si ottengano progressi importanti nell‟agricoltura, così come in altri settori

dell‟economia”.

L‟allarme lanciato da Gasana sui possibili disordini sociali si rivelò profetico. Egli predisse anche

che, con una media di sette bambini per famiglia, al momento di ereditare un piccolo appezzamento

di terreno dai propri genitori, la disponibilità di terra si sarebbe ulteriormente ridotta. Molti

agricoltori si spostarono verso le montagne nel tentativo di conquistare nuovi spazi coltivabili. Nel

1989 in Ruanda quasi la metà dei terreni destinati all‟agricoltura erano posti su declivi con pendenze

comprese tra i 10 e i 35 gradi, universalmente considerati incoltivabili.

Nel 1950, la popolazione del Ruanda ammontava a 2,4 milioni. Nel 1993, si era triplicata

raggiungendo i 7,5 milioni, rendendolo il paese più densamente popolato dell‟Africa. Come

conseguenza, incrementò anche la richiesta di legna da ardere e già nel 1991 tale domanda era

doppia rispetto al rendimento sostenibile delle foreste locali. Con la scomparsa degli alberi, la paglia

e altri residui agricoli vennero usati come combustibile e la produttività dei terreni calò a causa della

ridotta presenza di materia organica.

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Un suolo che perde il suo stato di salute provoca il tracollo della popolazione che da esso dipende.

Semplicemente non viene prodotto cibo in quantità sufficienti. Si diffuse pertanto una disperazione

silenziosa, come in un terreno in piena siccità dove è sufficiente un solo fiammifero per far scoppiare

un incendio. La scintilla scaturì il 6 aprile 1994, quando l‟aereo che trasportava il presidente Juvenal

Habyarimana, di razza Hutu, precipitò vicino alla capitale Kigali. L‟incidente scatenò una

rappresaglia organizzata da parte degli Hutu, che portò alla morte in soli 100 giorni di circa 800 mila

persone tra i Tutsi e gli stessi Hutu moderati. In alcuni villaggi vennero sterminate intere famiglie per

non lasciare superstiti che avrebbero potuto reclamare i propri terreni.

L‟Africa non rappresenta un caso isolato. In India, le tensioni fra gli indù e i musulmani sono sempre

pronte a esplodere. Poiché ogni generazione fraziona ulteriormente i già piccoli appezzamenti che ha

ereditato, la richiesta di terreno è enorme. Quella d‟acqua persino maggiore.

Con la nazione indiana destinata a passare dai 1,2 miliardi del 2008 ai 1,6 miliardi del 2050, sembra

inevitabile un conflitto all‟interno di una popolazione in continua crescita con risorse idriche sempre

più ridotte. Il pericolo per l‟India è quello di guerre civili al cui confronto quelle combattute in

Ruanda rischiano di apparire lievi. Come sottolineato da Gasana, il rapporto tra una popolazione in

crescita e il suo ecosistema è un problema di sicurezza nazionale, che può porre le basi per conflitti

geografici, tribali, etnici o religiosi.

La ripartizione delle risorse idriche tra paesi che condividono lo stesso sistema fluviale è spesso

fonte di conflitti politici internazionali, in particolare dove la crescita demografica è eccessiva

rispetto alla portata del fiume. Nessun altro conflitto potenziale è più preoccupante di quello nella

Valle del Nilo fra l‟Egitto, il Sudan e l‟Etiopia. L‟agricoltura dell‟Egitto, dove piove raramente,

dipende interamente dalle sue acque. Oggi l‟Egitto usufruisce della maggior parte dell‟acqua

derivante dal Nilo ma, con una popolazione di 82 milioni di abitanti destinata a raggiungere i 130

milioni entro il 2050, aumenterà la richiesta idrica e di grano. Il Sudan, con 41 milioni di residenti

anche loro fortemente dipendenti dalle acque del Nilo per la produzione di cibo, raggiungerà i 76

milioni di abitanti entro il 2050. Infine, il numero degli etiopi, la nazione che controlla l‟85% delle

sorgenti del fiume, si prevede che passerà da 81 a 174 milioni. Oltre a questo, i recenti acquisti di

grandi tratti di territorio del Sudan da parte di altre nazioni per scopi agricoli, aumenteranno ancor

più la pressione sul Nilo.

Poiché le acque di questo fiume sono già scarse quando raggiungono il Mediterraneo, se il Sudan o

l‟Etiopia utilizzeranno maggiori quantitativi d‟acqua, l‟Egitto ne avrà meno a disposizione con la

conseguente difficoltà nello sfamare altri 46 milioni di persone. Sebbene fra le tre nazioni ci sia un

accordo sui diritti di sfruttamento dell‟acqua, l‟Etiopia ne usufruisce solo in minima parte.

Considerate le aspirazioni di questa nazione per un miglior standard di vita e con le sorgenti del Nilo

che rappresentano una delle sue poche risorse, l‟Etiopia vorrà sicuramente sfruttarle maggiormente.

Spostandosi verso nord, la Turchia, la Siria e l‟Iraq condividono le acque del Tigri e dell‟Eufrate. La

Turchia, che ne controlla le sorgenti, ha realizzato un enorme progetto per massimizzare l‟irrigazione

e la produzione di energia sfruttando le acque del Tigri. Sia la Siria, la cui popolazione dovrebbe

crescere da 21 a 37 milioni di persone per la metà del secolo, che l‟Iraq, che si stima raddoppierà

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abbondantemente la sua popolazione attuale di 30 milioni, sono allarmate poiché anche loro avranno

bisogno di maggiori risorse idriche.

Nel bacino del lago di Aral, nell‟Asia centrale, esiste un difficile accordo tra cinque nazioni per

l‟utilizzo di due fiumi, l‟Amu Darya e il Syr Darya, che sfocia nel lago. La domanda d‟acqua in

Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan eccede la portata dei due fiumi del

25%. Il Turkmenistan, che è il più a monte sul fiume Amu Darya, sta pianificando di aumentare

ulteriormente le sue terre irrigate. Tormentata dalle insurrezioni, la regione manca della cooperazione

necessaria per gestire le sue scarse risorse idriche. In cima a tutto ciò, l‟Afghanistan, che controlla le

sorgenti dell‟Amu Darya, conta di utilizzarne una parte dell‟acqua per il suo sviluppo. La geografa

Sarah O‟Hara, dell‟Università di Nottingham, che studia i problemi idrici della regione, dice:

“Parliamo del mondo in via di sviluppo e del mondo sviluppato, ma questo è un mondo che si sta

distruggendo”.

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2.5 Automobili e popoli in competizione

Mi dispiace che tu stia morendo di fame, ma io ho questa bocca da sfamare!

Proprio nel momento in cui sorgono grandi preoccupazioni per la pressione eccessiva esercitata sulla

terra e sulle risorse idriche, ecco affacciarsi su questo scenario una nuova massiccia richiesta di terre

coltivabili per produrre combustibile per automobili – domanda che mette a rischio la sicurezza

alimentare mondiale. Sebbene questa situazione abbia iniziato a svilupparsi già da alcuni decenni, fu

solo dopo l‟uragano Katrina nel 2005, quando i prezzi del petrolio superarono i 60 dollari al barile e

il prezzo della benzina negli Stati Uniti toccò gli 80 centesimi di dollaro al litro, che il problema

diventò visibile in tutta la sua portata. Improvvisamente negli Stati Uniti gli investimenti in distillerie

di bioetanolo derivato dal mais diventarono altamente redditizi, dando luogo a una frenesia

speculativa tale da convertire un quarto del raccolto di cereali degli Stati Uniti nel 2009 in

combustibile per automobili.

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Gli Stati Uniti hanno velocemente raggiunto il predominio mondiale nella produzione di combustibili

per autotrazione derivati da colture agricole eclissando nel 2005 il Brasile, precedentemente il primo

produttore mondiale di bioetanolo. In Europa, dove si produce principalmente biodiesel, derivato per

lo più dai semi di colza, si è pianificata la produzione di circa 8 miliardi di litri per il 2009. Per

raggiungere i suoi obiettivi nell‟impiego di biodiesel, l‟Unione Europea, che è già in difficoltà per la

riduzione di terreni coltivabili, sta aumentando le proprie importazioni di olio di palma

dall‟Indonesia e dalla Malesia, una tendenza che fomenta il taglio delle foreste vergini per far posto

alle piantagioni di palme da olio.

Il prezzo dei cereali è attualmente legato al prezzo del petrolio. Storicamente il mercato alimentare e

quello energetico sono sempre stati separati, ma oggi si assiste a un cambiamento in conseguenza

della enorme capacità degli Stati Uniti di convertire cereali in bioetanolo. In questo nuovo scenario,

quando il prezzo del petrolio sale, è seguito da una crescita di quello dei cereali verso il suo valore

equivalente in petrolio. Se il valore dei cereali come combustibile supera il loro valore alimentare, il

mercato sposterà semplicemente questo prodotto verso il mercato dell‟energia. Se il prezzo del

petrolio sale a 100 dollari il barile, il prezzo dei cereali lo seguirà. Se il petrolio arriva a 200 dollari,

anche i cereali ci arriveranno.

Dal 1990 al 2005, il consumo mondiale di cereali, spinto in larga misura dalla crescita della

popolazione e dai consumi in aumento dei mangimi per animali di origine cerealicola, è salito di una

media di 21 milioni di tonnellate all‟anno. Successivamente è arrivata l‟esplosione della richiesta di

cereali per l‟utilizzo nelle distillerie di bioetanolo degli Stati Uniti, passando dai 54 milioni di

tonnellate del 2006 ai 95 del 2008. Questo balzo improvviso di 41 milioni di tonnellate ha

raddoppiato l‟incremento annuale mondiale della domanda di cereali, contribuendo a triplicare i

prezzi mondiali di grano, riso, mais e semi di soia tra la metà del 2006 e quella del 2008. Un analista

della Banca Mondiale ha attribuito il 70% dell‟aumento dei prezzi alimentari a questa destinazione

del cibo per la produzione di combustibili da autotrazione. Successivamente i prezzi sono tornati a

calare leggermente, come conseguenza della recessione economica mondiale, sebbene a metà del

2009 siano ancora ben al di sopra dei livelli storici.

Da un punto di vista agronomico, l‟appetito mondiale di biocarburanti è insaziabile. I cereali

necessari per fare un solo pieno a un suv con un serbatoio da 95 litri potrebbero nutrire una persona

per un anno. Se l‟intero raccolto degli Stati Uniti fosse destinato alla distillazione di bioetanolo,

potrebbe coprire al massimo il 18% delle richieste interne di carburante per autotrazione.

Le proiezioni effettuate da C. Ford Runge e Benjamin Senauer dell‟Università del Minnesota,

effettuate nel 2003, stimavano una diminuzione costante del numero di persone affamate e malnutrite

fino al 2025. Ma la revisione delle loro stime, effettuata nel 2007, tenendo in considerazione l‟effetto

dei biocombustibili sui prezzi alimentari mondiali, mostra numeri in rapido aumento per gli anni a

venire. Coloro che sono posti nei gradini più bassi della scala economica globale riescono a

malapena a rimanere al loro posto e stanno per scivolare ancora più in basso.

Dal momento che i bilanci delle organizzazioni internazionali di assistenza alimentare sono stabiliti

in grande anticipo, un aumento dei prezzi degli alimenti riduce automaticamente l‟entità degli aiuti.

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Il Programma alimentare mondiale, che fornisce assistenza d‟emergenza a più di 30 nazioni, ha

dovuto diminuire le spedizioni con l‟aumentare dei prezzi. La fame nel mondo è in crescita, con 18

mila bambini che muoiono ogni giorno di fame e per malattie collegate.

La competizione che si va profilando tra i proprietari dei 910 milioni di automobili nel mondo e i 2

miliardi di persone più povere è un territorio inesplorato per l‟umanità. Improvvisamente il mondo si

sta affacciando a un problema di ordine morale e politico che non ha precedenti: dovremmo

utilizzare i cereali per farne carburante o per nutrire la popolazione? Il reddito medio di tutti i

possessori di automobili nel mondo è all‟incirca di 30 mila dollari l‟anno; quello dei 2 miliardi di

persone più povere è mediamente di 3.000 dollari annui. Il mercato deciderà che dobbiamo fare il

pieno alle automobili.

Per ogni nuovo ettaro che viene coltivato a mais per produrre biocombustibile, un nuovo ettaro di

terra da qualche altra parte deve essere destinato alle colture alimentari. Ma rimane pochissima

nuova terra da mettere sotto l‟aratro, a meno che non si tratti di aree ottenute dall‟abbattimento delle

foreste tropicali del bacino del Rio delle Amazzoni, del fiume Congo e dell‟Indonesia, oppure dalla

bonifica delle terre del Cerrado brasiliano. Sfortunatamente questo ha dei costi ambientali pesanti: un

rilascio enorme di anidride carbonica, la scomparsa di specie vegetali e animali, una mancata

conservazione nel suolo dell‟acqua piovana e un incremento dell‟erosione dei suoli.

Mentre appare senza senso usare i raccolti destinati all‟alimentazione poiché ciò comporta aumento

dei prezzi del cibo, esistono alternative che permettono di produrre carburante per autotrazione da

alberi a rapida crescita, dalla Panico Verga, da misture di erbe delle praterie o da altro a base di

cellulosa, che può essere coltivato su terreni incolti. Esiste la tecnologia per convertire la cellulosa in

bioetanolo, ma i costi di produzione sono quasi doppi rispetto a quelli dell‟etanolo derivato da

cereali. Non è ancora chiaro se queste fonti di biocombustibile potranno mai diventare competitive

con i cereali.

Esistono delle alternative a questo cupo scenario. La decisione adottata (dal governo statunitense,

ndr) nel maggio del 2009 di aumentare del 40% entro il 2016 gli standard di efficienza delle

automobili, ridurrà la dipendenza dal petrolio degli Stati Uniti molto più che convertendo l‟intero

raccolto di cereali della nazione in bioetanolo. Il prossimo passo è il passaggio diffuso verso auto

ibride a trazione mista benzina-elettrico ricaricabili nelle ore notturne, in modo che la maggior parte

degli spostamenti brevi, come i percorsi lavorativi e il recarsi al supermercato, siano resi possibili

utilizzando l‟energia elettrica.

Essendo i più grandi esportatori di cereali e i maggiori produttori di bioetanolo al mondo, gli Stati

Uniti si trovano nella condizione di poter guidare la partita. Ciò è necessario affinché gli sforzi per

ridurre la propria dipendenza dalle importazioni di petrolio non creino un problema ancora più

grande: il caos nel mercato alimentare mondiale. La scelta è tra un futuro con i prezzi dei generi

alimentari in aumento, il dilagare della fame e della instabilità politica o un‟alternativa con prezzi del

cibo stabili, una brusca riduzione della dipendenza petrolifera ed emissioni di anidride carbonica

molto più basse.

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2.6 Fiumana di profughi ambientali

La nostra civiltà all‟alba del XXI secolo sta per essere sopraffatta dall‟avanzamento dei deserti e

dall‟innalzamento del livello dei mari. Se misurata in base alla porzione di terra biologicamente

produttiva in grado di sostenere l‟insediamento umano, possiamo dire che la terra si sta restringendo.

L‟aumento della densità demografica, un tempo conseguenza della crescita della popolazione, è

adesso sostenuto anche dall‟incessante avanzamento dei deserti e potrebbe essere a breve influenzato

dal previsto innalzamento dei mari. Mano a mano che le riserve idriche degli acquiferi si esauriscono

per il loro eccessivo sfruttamento, milioni di persone sono obbligate a migrare in cerca di acqua.

L‟espansione del deserto nell‟Africa Subsahariana, principalmente nei paesi del Sahel, sta

costringendo all‟emigrazione milioni di persone, forzandole a dirigersi a sud o verso il Nord Africa.

In un congresso delle Nazioni Unite del 2006 sulla desertificazione della Tunisia è stato previsto che

entro il 2020 circa 60 milioni di persone potrebbero migrare dalle regioni subsahariane verso il Nord

Africa e l‟Europa. Questo flusso migratorio è già in corso da diversi anni.

A metà ottobre 2003, le autorità italiane individuarono una nave diretta in Italia che trasportava

profughi provenienti dall‟Africa. Rimasta alla deriva per più di due settimane senza combustibile,

cibo e acqua, aveva perso molti dei suoi passeggeri. Inizialmente i cadaveri erano stati gettati fuori

bordo. Ma poi, i superstiti si erano talmente indeboliti da non riuscire più a sollevarne i corpi. Morti

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e vivi avevano così condiviso gli spazi in quella che uno dei soccorritori ha descritto come “una

scena dall’Inferno di Dante”.

Si pensò che i rifugiati fossero somali imbarcatisi dalla Libia, ma questi non rivelarono mai il loro

paese d‟origine nel timore di essere reimpatriati. Non sappiamo se fossero rifugiati politici,

economici o ambientali. Gli stati in crisi come la Somalia producono infatti tutte e tre le categorie.

Sappiamo che la Somalia è un caso ecologico disperato, sovrappopolata, eccessivamente sfruttata e

con una desertificazione che sta disintegrando la sua economia basata sulla pastorizia.

Forse il più grande flusso migratorio dalla Somalia si svolge in direzione dello Yemen, un‟altra

nazione in declino. Si stima che nel 2008 lo abbiano raggiunto 50 mila emigranti e richiedenti asilo,

il 70% in più che nel 2007. Durante i primi tre mesi del 2009 il flusso migratorio è aumentato del

30% rispetto allo stesso periodo del 2008. Questi numeri vanno ad accrescere la pressione già

insostenibile sulle risorse territoriali e idriche di questo paese, accelerandone il tracollo.

Il 30 aprile 2006, al largo delle coste delle Barbados, un pescatore individuò una barca di 6 metri alla

deriva. A bordo furono trovati i corpi di 11 ragazzi, mummificati dal sole e dagli spruzzi d‟acqua

salata provenienti dall‟oceano. Uno dei naufraghi, prima di morire, lasciò un biglietto: “Vorrei

inviare dei soldi alla mia famiglia a Basada, in Senegal. Per favore scusatemi e arrivederci”. L‟autore

faceva parte di un gruppo di 52 uomini partiti dal Senegal a bordo di una barca destinata alle Isole

Canarie, il punto di passaggio per entrare in Europa. Pare siano andati alla deriva per circa 2.000

miglia, concludendo il loro viaggio nei Caraibi. Questo non rappresenta un caso unico. A settembre

del 2006, la polizia ha intercettato numerose navi provenienti dalla Mauritania, per un totale di quasi

1.200 persone a bordo.

Per gli abitanti delle nazioni del Centro America, come Honduras, Guatemala, Nicaragua ed El

Salvador, il Messico rappresenta di frequente una porta d‟ingresso per gli Stati Uniti. Nel 2008 le

autorità messicane preposte all‟immigrazione hanno verbalizzato qualcosa come 39 mila arresti e 89

mila reimpatri forzati.

Nella città di Tapachula, sul confine tra il Messico e il Guatemala, giovani in cerca di lavoro

aspettano lungo i binari i lenti treni merci diretti verso il nord che attraversano la città. Alcuni

riescono a salire. Altri no. Il rifugio “Jesús el Buen Pastor” ospita 25 mutilati finiti sotto al treno nel

tentativo di salirvi a bordo. Per questi ragazzi, dice Olga Sanchez Martinez, direttrice della struttura,

questa è la “fine del loro sogno americano”. Un sacerdote della zona, Flor Maria Rigoni, li chiama “i

kamikaze della povertà”.

Attualmente, il ritrovamento di cadaveri in mare al largo delle coste italiane, spagnole e turche fa

ormai parte della quotidianità, il risultato di atti disperati di gente disperata. E ogni giorno i

messicani rischiano la vita attraversando il deserto dell‟Arizona nel tentativo di raggiungere un posto

di lavoro negli Stati Uniti. In media, qualcosa come 100 mila messicani o più lasciano ogni anno le

zone rurali, abbandonando appezzamenti di terreno troppo piccoli o troppo erosi per garantire il

sostentamento. Si spostano verso le città messicane o cercano di entrare illegalmente negli Stati

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Uniti. Molti di quelli che provano ad attraversare il deserto dell‟Arizona muoiono sotto il sole

cocente. Dal 2001, circa 200 corpi vengono rinvenuti ogni anno lungo il confine dell‟Arizona.

Poiché la maggior parte dei 2,4 miliardi di persone che andranno ad aggiungersi alla popolazione

mondiale entro il 2050 nasceranno in zone dove le falde idriche sono già in calo, i profughi

dell‟acqua probabilmente diverranno un fatto quotidiano. Questo fenomeno riguarderà

principalmente le regioni aride e semiaride, dove la popolazione sta sorpassando la disponibilità

locale d‟acqua cadendo in una povertà di origine idrica. I villaggi dell‟India nord-occidentale

vengono abbandonati mano a mano che gli acquiferi si esauriscono e la popolazione non è in grado

di approvigionarsi d‟acqua. Milioni di abitanti del nord e dell‟ovest della Cina, e in parte del

Messico, dovranno migrare a causa di deficit idrici.

L‟avanzamento dei deserti sta costringendo i popoli in crescita demografica in aree geografiche

sempre piu ristrette. Mentre la Dust Bowl americana fece spostare 3 milioni di persone, la

desertificazione in corso nelle province colpite della Dust Bowl cinese potrebbe muovere decine di

milioni di persone.

Anche l‟Africa si trova ad affrontare questo problema. Il deserto del Sahara sta spingendo le

popolazioni del Marocco, della Tunisia e dell‟Algeria verso il nord e il Mediterraneo. In un disperato

tentativo di combattere la siccità e la desertificazione, il Marocco sta ristrutturando geograficamente

la propria agricoltura, sostituendo il grano con vigneti e frutteti, che hanno bisogno di meno acqua.

In Iran, i villaggi abbandonati per l‟avanzamento dei deserti o della penuria d‟acqua si contano già a

migliaia. Nei dintorni di Damavand, una piccola cittadina a un‟ora di macchina da Teheran, sono

stati abbandonati 88 villaggi. Anche in Nigeria, l‟avanzamento del deserto obbliga contadini e

mandriani a spostarsi in una zona sempre più piccola di terra produttiva. I profughi vittime della

desertificazione normalmente finiscono nelle città, molti nelle baraccopoli. Altri emigrano all‟estero.

In America Latina, sia in Brasile che in Messico, l‟espansione dei deserti sta obbligando le persone a

spostarsi. In Brasile sono colpiti dalla desertificazione circa 66 milioni di ettari di terra concentrati

per la maggior parte nel nord-est del paese. In Messico, che ha una porzione molto più estesa di terra

arida e semi arida, la degradazione delle terre coltivabili colpisce più di 59 milioni di ettari.

Se la desertificazione e la scarsità d‟acqua oggi stanno costringendo milioni di persone a emigrare,

l‟innalzamento dei mari promette di spostare in futuro un numero molto più cospicuo di persone, a

causa dell‟alta concentrazione della popolazione mondiale nelle città costiere e nei delta fluviali,

luogo di coltivazione del riso. Si potrebbe arrivare a contare centinaia di milioni di profughi,

un‟ulteriore motivazione alla necessità di stabilizzare sia il clima che la crescita demografica.

Alla fine, il problema causato dall‟innalzamento dei mari sarà legato alla capacità dei governi di far

fronte alla pressione politica ed economica che deriva dalla necessità di trovare un posto dove stare a

un gran numero di persone affrontando allo stesso tempo ingenti perdite di strutture residenziali e

industriali lungo le coste.

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90

In questo secolo dobbiamo affrontare gli effetti di fenomeni pressanti, come la rapida crescita

demografica, l‟espansione dei deserti e l‟innalzamento dei mari, che abbiamo messo in moto durante

il secolo scorso. La scelta che abbiamo davanti è molto semplice: invertire queste tendenze o

rischiare di venirne sopraffatti.

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91

3. I CAMBIAMENTI CLIMATICI E LA TRANSIZIONE ENERGETICA

Fin dagli albori della civiltà, ogni generazione ha lasciato alla successiva un pianeta simile a quello

che aveva ereditato, ma noi potremmo essere i primi a interrompere questa tradizione.

La temperatura media della terra sta aumentando. Dal 1970 è cresciuta di 0,6 °C e si stima che

arriverà fino a 6 °C in più entro la fine di questo secolo. Questo innalzamento non sarà uniforme:

sarà molto più accentuato alle latitudini superiori rispetto alle regioni equatoriali, e interesserà

maggiormente la terra che gli oceani e le regioni interne continentali piuttosto che le regioni costiere.

Sta anche salendo il livello dei mari, a causa dell‟espansione termica che avviene quando le acque

degli oceani si riscaldano e i ghiacci che ricoprono i poli si sciolgono. Alcuni studi recenti prevedono

un innalzamento da uno a due metri circa entro la fine del secolo. Nel corso del XX secolo il livello

del mare è aumentato di circa 20 centimetri, ma se crescerà di quasi due metri entro il 2100, vuol dire

che sarà salito in media di circa 20 centimetri per decennio.

Per quanto riguarda la geografia, gli oceani si estenderanno e i continenti si ridurranno. Le isole che

si trovano sotto il livello del mare scompariranno coperte dalle onde. Con l‟innalzamento del mare

verranno inondate le città situate sotto il suo livello e i delta dei fiumi dove viene coltivato il riso,

causando centinaia di milioni di profughi.

Il rapido aumento delle temperature previsto per questo secolo se se non si invertirà il trend con

misure significative, ma si persevererà nel cosiddetto business as usual, porterà alterazioni in ogni

ecosistema terrestre. Fino a un terzo di tutte le specie animali e vegetali potrebbe andare incontro

all‟estinzione. Nonostante le difese che abbiamo disposto intorno ai parchi e alle riserve naturali,

anche gli ecosistemi che vi si trovano all‟interno non sopravviveranno allo stress termico.

L‟agricoltura come la conosciamo oggi si è evoluta in un clima che è rimasto straordinariamente

stabile durante questi 11 mila anni di esperienza. Di fronte a un clima che cambia, invece, le pratiche

agricole si troveranno ad essere sempre meno adeguate. Nello stesso momento in cui l‟aumento della

temperatura sta trasformando l‟ecologia e la geografia della terra, la diminuzione della produzione

petrolifera modificherà l‟economia globale. Il XX secolo è stato il secolo del petrolio. Nel 1900 il

mondo ha estratto 150 milioni di barili di greggio, nel 2000 ne ha prodotti 28 miliardi, un aumento di

185 volte. È stato il secolo in cui il petrolio ha superato il carbone, diventando la principale fonte

energetica mondiale, ed è stato anche il secolo in cui ha cambiato completamente il modo di vivere

di gran parte dell‟umanità.

La rapida espansione delle forniture petrolifere a basso prezzo ha causato il boom della crescita

mondiale della produzione alimentare, della popolazione, dell‟urbanizzazione e della mobilità. Ma la

civiltà odierna, basata sul petrolio, è profondamente dipendente da una risorsa la cui produzione sarà

presto in declino. Dal 1981 in poi la quantità totale di greggio estratto è stata maggiore delle nuove

scoperte di giacimenti, con un distacco che è andato in continua crescita. Nel 2008 sono stati prodotti

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92

quasi 31 miliardi di barili di petrolio nel mondo, ma ne sono stati scoperti solo 7. Le riserve

petrolifere mondiali stanno diminuendo e si riducono di anno in anno.

Le quantità di petrolio scoperte negli anni e la produzione mondiale.

Guardando al futuro del petrolio nel contesto di un Piano B, non sono solo i limiti geologici a

suggerire una riduzione del suo utilizzo, ma anche le crescenti preoccupazioni legate al clima.

Attualmente il 43% delle emissioni di anidride carbonica dovute ai combustibili fossili proviene dal

carbone e il 38% dal petrolio. Il restante 19% deriva dal gas naturale. Dato che il carbone è il

combustibile fossile a più alta concentrazione di carbonio, qualsiasi sforzo indirizzato alla riduzione

di emissioni di CO2 significa per forza di cose ridurre l‟utilizzo del carbone.

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93

3.1 Il riscaldamento globale e le sue conseguenze

Stiamo entrando in una nuova era, un periodo di cambiamenti climatici repentini e imprevedibili. Il

nuovo modello climatico standard è il cambiamento. Dal 1880, anno in cui si è iniziato a tenere

traccia dell‟andamento delle temperature, i 25 anni più caldi sono stati registrati a partire dal 1980, e

tra questi, i dieci anni più caldi si sono registrati dal 1996 ad oggi.

Il riscaldamento è causato dall‟accumulo nell‟atmosfera di “gas serra” e di altri agenti inquinanti che

trattengono il calore. Tra i gas serra, la CO2 è responsabile di circa il 63% dei trend di riscaldamento

recenti, il metano ammonta al 18% circa e il protossido di azoto al 6%. Il restante 13% è da imputarsi

a una serie di altri gas minori. L‟anidride carbonica deriva principalmente dalla produzione di

elettricità, dal riscaldamento, dai trasporti e dall‟industria. Al contrario la produzione di metano e di

protossido di azoto da parte dell‟uomo proviene per la maggior parte dall‟agricoltura; in particolar

modo il metano deriva dalle risaie e dagli allevamenti di bestiame, mentre l‟protossido di azoto

dall‟uso di fertilizzanti azotati.

La concentrazione atmosferica di CO2, la principale responsabile dei cambiamenti climatici, è

aumentata da circa 280 parti per milione (ppm) registrate all‟inizio della Rivoluzione industriale

intorno al 1760, alle 386 ppm nel 2008. L‟incremento annuale del livello di CO2 nell‟atmosfera, che

ormai è uno degli andamenti maggiormente prevedibili per quanto riguarda le questioni ambientali, è

causato dalle emissioni su larga scala, di gran lunga superiori alla naturale capacità di assorbimento

di CO2. Nel 2008 sono state immesse in atmosfera circa 7,9 miliardi di tonnellate di anidride

carbonica derivanti dall‟utilizzo di combustibili fossili e 1,5 miliardi a causa della deforestazione, per

un totale di 9,4 miliardi di tonnellate. La natura è però in grado di assorbirne solo circa 5 miliardi per

anno, negli oceani, nel suolo e attraverso la vegetazione; quel che rimane resta quindi nell‟atmosfera,

facendo innalzare i livelli di CO2.

Il metano, un potente gas serra, viene prodotto dalla decomposizione di materia organica in

condizioni anaerobiche, come avviene negli acquitrini con il materiale vegetale, nelle discariche con

quello organico o nello stomaco delle mucche con il foraggio. Si sprigiona metano anche con lo

scioglimento del permafrost, il terreno ghiacciato presente sotto la tundra, che ricopre quasi 23

milioni e mezzo di chilometri quadrati alle latitudini settentrionali. In totale, nel suolo artico è

presente più CO2 di quanto ve ne sia attualmente nell‟atmosfera, il che è piuttosto preoccupante,

dato che il permafrost si sta fondendo in Alaska, nel Canada settentrionale e in Siberia, causando la

formazione di laghi e liberando metano e anidride carbonica, e tenendo conto anche del fatto che la

temperatura in aumento provoca quel fenomeno che gli scienziati chiamano positive feedback loop

(iterazione di feedback positivo). C‟è il rischio che il rilascio nell‟atmosfera di una quantità

massiccia di metano proveniente dallo scioglimento del permafrost possa semplicemente annullare

gli sforzi impiegati per stabilizzare il clima.

Un altro fenomeno inquietante è l‟effetto che hanno sul clima le cosidette “nubi atmosferiche

marroni” (atmospheric brown clouds, ABC nell‟acronimo inglese), costituite di particelle di

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94

fuliggine derivanti dalla combustione di carbone, gasolio o legna e che provocano tre reazioni

climatiche. Innanzitutto intercettano la luce solare provocando il riscaldamento della parte superiore

dell‟atmosfera. In secondo luogo, dato che sono anche in grado di riflettere la luce solare, hanno un

effetto attenuante, ovvero abbassano la temperatura della superficie terrestre. Infine, se le particelle

di queste nubi marroni si depositano su neve e ghiaccio, ne rendono la superficie più scura,

accelerandone lo scioglimento.

Questi effetti destano particolare preoccupazione in India e in Cina, dove le grandi nubi marroni

atmosferiche sopra l‟altopiano del Tibet stanno contribuendo alla fusione dei ghiacciai d‟alta quota

che alimentano i principali fiumi asiatici. Il deposito di fuliggine è responsabile dello scioglimento

stagionale anticipato delle nevi montane in catene montuose molto differenti tra loro, come

l‟Himalaya in Asia e la Sierra Nevada in California; lo stesso fenomeno è ritenuto responsabile

anche dell‟accelerazione della fusione dei ghiacci nel mare della zona artica. Le particelle di

fuliggine sono state trovate perfino nella neve dell‟Antartico, una regione ritenuta un tempo intatta e

non contaminata dall‟inquinamento.

A differenza della CO2, che può rimanere nell‟atmosfera per un secolo o anche di più, le particelle di

fuliggine contenute in queste nubi vengono trasportate dall‟aria solo per alcune settimane. Per questo

motivo, una volta chiuse le centrali a carbone, e sostituiti i fornelli a legna dei villaggi con cucine

solari, la fuliggine scomparirebbe velocemente dall‟atmosfera.

Se continueremo ad andare avanti senza mettere in atto delle misure di mitigazione, il previsto

aumento in questo secolo della temperatura media terrestre tra 1,1 e 6,4 °C appare fin troppo

realistico. Queste stime sono le ultime fornite dall‟Intergovernmental Panel on Climate Change

(IPCC), un comitato intergovernativo composto da più di 2.500 scienziati da tutto il mondo, che nel

2007 ha elaborato un documento condiviso sul ruolo determinante dell‟uomo rispetto ai cambiamenti

climatici. Sfortunatamente nel corso degli anni durante i quali si è svolto questo studio, sia le

emissioni totali di CO2, sia la sua concentrazione nell‟atmosfera hanno superato le previsioni dello

scenario peggiore elaborato dall‟IPCC.

Ogni anno che passa, la richiesta corale per azioni immediate si fa sempre più pressante all‟interno

della comunità scientifica. Ogni nuovo rapporto ci rivela che siamo oltre il tempo massimo. Ad

esempio, un importante studio del 2009 portato a termine da un gruppo di scienziati del

Massachusetts Institute of Technology (MIT) è arrivato alla conclusione che gli effetti dei

cambiamenti climatici saranno due volte più gravi di quelli prospettati non più di sei anni fa, e

l‟aumento della temperatura di 2,4 °C previsto all‟epoca è ora passato a 5,2 °C.

Un altro studio, elaborato in maniera indipendente come documento di riferimento per i negoziati

internazionali sul clima a Copenaghen del dicembre 2009, indica che si devono mettere in atto tutti

gli sforzi per contenere l‟aumento della temperatura a 2 °C sopra i livelli preindustriali e che un

pericoloso cambio climatico viene comunque ritenuto oramai inevitabile. Per contenere

l‟innalzamento della temperatura a 2 °C, gli scienziati sostengono che l‟immissione in atmosfera di

CO2 dovrebbe essere immediatamente ridotta del 60-80%, ma dal momento che questo non è

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95

realmente possibile, ritengono che “per limitare l‟entità dello sforamento, le emissioni dovrebbero

arrivare al picco massimo in un futuro molto prossimo”.

Gli effetti dell‟innalzamento della temperatura sono pervasivi. Temperature più elevate minacciano i

raccolti, fondono i ghiacciai montani che alimentano i fiumi, generano uragani più violenti,

accrescono la gravità delle inondazioni, acuiscono i problemi di siccità, sono causa di incendi

indomabili più frequenti e devastanti e alterano gli ecosistemi di tutto il mondo.

Con un clima più caldo quello che possiamo aspettarci sono manifestazioni climatiche più estreme. Il

comparto assicurativo è purtroppo consapevole della relazione tra le elevate temperature e l‟intensità

degli uragani. L‟aumento dei rimborsi per danni causati da eventi meteorologici ha portato a un calo

dei profitti e a una raffica di abbassamento delle stime sull‟affidabilità creditizia, sia per le

compagnie assicurative, sia per le società di riassicurazione che le sostengono.

Le assicurazioni che si avvalgono degli archivi storici per calcolare le tariffe assicurative per danni

da uragano si stanno rendendo conto che i dati del passato non sono una base attendibile per le

previsioni sul futuro. Questo non è un problema che interessa solo le compagnie assicurative, ma

anche tutti noi. Stiamo modificando il clima terrestre, dando il via a fenomeni che non sempre

comprendiamo e dei quali non siamo in grado di prevedere le conseguenze.

Negli ultimi anni, le ondate di calore hanno causato la diminuzione dei raccolti nelle regioni chiave

per la produzione alimentare. Nel 2002 le temperature record e la siccità che hanno colpito India,

Stati Uniti e Canada sono state responsabili di una brusca diminuzione del raccolto di grano per 90

milioni di tonnellate, corrispondenti al 5% in meno della domanda. L‟ondata di calore record del

2003 in Europa ha anch‟essa contribuito alla diminuzione globale del raccolto, ancora in questo caso

al di sotto di circa 90 milioni di tonnellate. Nel 2005, il caldo intenso e la siccità nel Corn Belt

statunitense (la cosiddetta “cintura del grano”) ha contribuito a provocare un ammanco di 34 milioni

di tonnellate nella produzione mondiale di cereali.

Ondate di calore così intense hanno causato anche delle vittime: la calura ardente che ha infranto i

record delle temperature in Europa nel 2003 ha provocato la morte di oltre 52 mila persone in nove

paesi. L‟Italia da sola ha perso 18 mila persone, 14.800 i morti in Francia (cifre dedotte dall‟aumento

del numero di decessi nello stesso periodo dell‟anno precedente, ndr). Questa ondata di calore in

Europa ha causato 18 volte i morti dell‟attacco terroristico alle Torri Gemelle nel 2001.

Anche l‟estensione delle aree colpite dalla siccità è aumentata in maniera significativa negli ultimi

decenni. Un gruppo di scienziati del National Center for Atmospheric Research (NCAR) ha reso

noto che le zone interessate da gravi situazioni di siccità sono cresciute, passando da meno del 15%

negli anni Settanta al 30% circa nel 2002. I ricercatori ne individuano la causa in parte nella

riduzione delle precipitazioni, in parte nell‟aumento delle temperature, che si fa sempre più

significativo verso la fine del periodo di tempo preso in esame. La maggioranza delle zone aride si

trova in Europa, Asia, Canada, Africa occidentale e meridionale e nella parte orientale dell‟Australia.

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96

Un rapporto pubblicato nel 2009 dalla National Academy of Sciences statunitense, condotto da

Susan Solomon del National Oceanic and Atmospheric Administration, (un‟agenzia federale che si

interessa di meteorologia, ndr) ha confermato ulteriormente questi dati. Nel rapporto si arriva alla

conclusione che se la concentrazione di CO2 nell‟atmosfera dovesse aumentare da 385 ppm a 450–

600 ppm, in molte aree del mondo si andrà incontro a un‟irreversibile riduzione delle piogge nella

stagione secca. Lo studio ha paragonato queste condizioni a quelle del periodo delle Dust Bowl

statunitensi degli anni Trenta (enormi tempeste di sabbia avvenute in circa dieci anni dal 1930 in poi

che causarono una sorta di era desertica, ndr).

I ricercatori del Department of Agriculture‟s Forest Service, analizzando i dati relativi agli incendi e

alle temperature registrati in 85 anni, hanno previsto che l‟aumento di 1,6 °C delle temperature estive

potrebbe far sì che raddoppi l‟area interessata da incendi indomabili negli 11 stati occidentali degli

Stati Uniti.

Il Pew Center on Global Climate Change ha finanziato l‟analisi di circa 40 ricerche scientifiche che

mettono in relazione l‟aumento delle temperature con i mutamenti degli ecosistemi. Tra i vari

cambiamenti riportati si riscontra l‟arrivo della primavera con quasi due settimane di anticipo negli

Stati Uniti, la nidificazione delle rondini arboricole nove giorni prima rispetto a 40 anni fa e lo

spostamento verso nord dell‟habitat della volpe rossa, che sta ormai invadendo il territorio della

volpe polare. Gli Inuit sono rimasti sorpresi dalla comparsa dei pettirossi, uccelli che non avevano

mai visto prima. Lo dimostra il fatto che nella loro lingua non esiste un vocabolo per identificare il

pettirosso.

La National Wildlife Federation (NWF) ha reso noto che se le temperature continueranno a crescere,

entro il 2040, uno su cinque dei fiumi nord-occidentali che sfociano nel Pacifico sarà troppo caldo

per ospitare salmoni, trote e trote arcobaleno. Paula Del Giudice, direttrice del Northwest Natural

Resource Center della NWF, sottolinea che “il riscaldamento globale comporterà un grave stress per

ciò che è rimasto delle zone di acqua fredda della regione, habitat primario per i pesci”.24

Douglas

Inkley, NWF Senior Science Advisor e autore esperto di uno studio per la Wildlife Society, fa notare

che “ci troviamo di fronte alla prospettiva che il mondo naturale che ora conosciamo, e molti dei

luoghi nei quali abbiamo lavorato per decenni alla conservazione delle specie protette e del loro

habitat, cesseranno di esistere così come siamo abituati a vederli, a meno che non cambieremo queste

previsioni”.

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97

3.2 Ghiacci che si fondono, mari che si innalzano

I ghiacci del pianeta si stanno fondendo così velocemente che persino i climatologi faticano a stare al

passo con il ritmo di ritiro delle calotte glaciali e dei ghiacciai. La fusione delle più estese calotte

della Terra, l‟Antartide occidentale e la Groenlandia, potrebbe far crescere il livello del mare in

maniera drammatica. Se la calotta glaciale groenlandese dovesse fondersi completamente, ciò

causerebbe una crescita del livello del mare di circa 7 metri. Lo scioglimento della calotta glaciale

dell‟Antartico occidentale, la zona più vulnerabile del ghiaccio dell‟Antartide a causa

dell‟esposizione all‟aria e all‟acqua calda proveniente dall‟oceano, provocherebbe un aumento del

livello del mare di quasi 5 metri. Molte delle città costiere mondiali finirebbero sott‟acqua e gli oltre

600 milioni di abitanti della costa sarebbero costretti a spostarsi.

La valutazione delle previsioni riguardanti la calotta glaciale della Groenlandia comincia con

l‟osservazione del fenomeno di riscaldamento che interessa la regione artica. Uno studio del 2005,

intitolato Impacts of a Warming Arctic, è arrivato alla conclusione che la zona artica si sta

riscaldando almeno due volte più rapidamente del resto del pianeta. Lo studio, condotto per conto

dell‟Arctic Climate Impact Assessment (ACIA) da un‟équipe di 300 scienziati internazionali, ha

scoperto che nelle regioni limitrofe all‟Artico, comprese l‟Alaska, il Canada occidentale e la Russia

orientale, le temperature invernali sono aumentate di 3-4 °C nel corso dell‟ultimo mezzo secolo.

Robert Corell, presidente dell‟ACIA, sostiene che questa regione “sta subendo uno dei cambiamenti

climatici più gravi e repentini del pianeta”.

In una testimonianza davanti al Senate Commerce Committee (la Commissione del commercio del

Senato statunitense), Sheila Watt-Cloutier, a nome di 155 mila Inuit che vivono in Alaska, Canada,

Groenlandia e Russia, ha descritto la lotta che conducono per sopravvivere ai rapidi cambiamenti

climatici come “la fotografia perfetta di ciò che sta accadendo al pianeta”. Ad esempio, lo

scioglimento della banchisa minaccia la vita delle foche che vivono sui ghiacci, fonte di

sostentamento fondamentale degli Inuit. Ha poi definito il riscaldamento dell‟Artico “un evento

determinante per la storia del pianeta”.

Lo studio dell‟ACIA ha sottolineato che il ritiro della banchisa ha conseguenze devastanti sulla vita

degli orsi polari, che potrebbero essere addirittura a rischio di sopravvivenza. Uno studio successivo

ha infatti evidenziato che questa specie, alla disperata ricerca di cibo, ha cominciato a mostrare

comportamenti di cannibalismo. Entro il 2050, i due terzi della loro popolazione potrebbe essere

scomparsa.

Esistono altre dimostrazioni che la banchisa dell‟Artico stia sciogliendo più velocemente di quanto

previsto. I ricercatori del National Snow and Ice Data Center e del National Center for Atmospheric

Research (NCAR), analizzando i dati relativi all‟estensione dei ghiacci estivi dell‟oceano Artico dal

1953 in poi, hanno concluso che stanno fondendo molto più rapidamente di quanto previsto nei

modelli climatici. Hanno scoperto che dal 1979 al 2006 la contrazione estiva della banchisa ha

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98

registrato ogni decennio un aumento del 9,1%. Nell‟estate del 2007, un anno record per l‟intensità

del fenomeno, la banchisa artica si è ristretta fino a raggiungere una superficie più piccola del 20%

circa rispetto al precedente primato registrato nel 2005. La recente dimostrazione che questa

banchisa, costituita da strati sovrapposti di anno in anno, non recupera spessore durante l‟inverno e

che quindi si sta assottigliando, incrementa la preoccupazione per il futuro delle calotte polari.

Walt Meier, un ricercatore del National Snow and Ice Data Center, considera allarmante la riduzione

invernale dei ghiacci e afferma che “ci sono buone probabilità” che l‟Artico abbia raggiunto un

punto di non ritorno. Alcuni scienziati ritengono che l‟oceano Artico potrebbe giungere a essere

privo di ghiacci entro l‟estate del 2015, ma già all‟inizio del 2009 Warwick Vincent, direttore del

Center for Northern Studies alla Laval University, in Quebec, ha osservato che questa evenienza

potrebbe avverarsi già entro il 2013. La ricercatrice artica Julienne Stroeve ha evidenziato che la

riduzione della banchisa potrebbe aver raggiunto “un punto critico irreversibile che può innescare

cambiamenti climatici a cascata con effetti sulle regioni temperate della Terra”.

I ricercatori sono da lungo tempo preoccupati per il circolo vizioso che potrebbe prendere il via dalla

riduzione dei ghiacci marini. Quando la luce solare colpisce il ghiaccio dell‟oceano Artico, fino al

70% viene riflessa nello spazio, mentre il restante 30% è assorbito. Tuttavia, a causa della fusione

dei ghiacci artici, la luce solare si trova a colpire una superficie d‟acqua molto più scura, cosicché

solo il 6% della luce è riflessa nello spazio, mentre il 94% è assorbito e trasformato in calore. Questo

effetto albedo ci aiuta a capire l‟accelerazione del restringimento del ghiaccio artico e il rapido

aumento delle temperature regionali.

Se tutto il ghiaccio dell‟oceano Artico dovesse fondersi, trovandosi già nell‟acqua, il livello del mare

non varierebbe, ma ne risulterebbe un riscaldamento significativo della regione artica, poiché una

maggior quota della radiazione solare verrebbe assorbita sotto forma di calore. Poiché la Groenlandia

si trova per lo più all‟interno del Circolo Polare Artico, la sua calotta glaciale, che in alcuni punti è

spessa fino a 1,6 chilometri, sta già iniziando a mostrare gli effetti del riscaldamento.

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99

Numerosi studi

recenti

testimoniano

l‟accelerazione

della fusione

della calotta

glaciale

groenlandese.

Nel settembre

del 2006,

un‟analisi

condotta da un

gruppo di

ricercatori

dell‟Università

del Colorado,

pubblicata

sulla rivista

Nature, ha

rivelato che tra

l‟aprile del 2004 e lo stesso mese del 2006, la Groenlandia ha perso ghiaccio a un ritmo due volte e

mezzo più veloce rispetto ai due anni precedenti. Nell‟ottobre del 2006, un‟équipe di ricercatori della

NASA ha riferito che il flusso dei ghiacciai verso il mare si andava velocizzando. Eric Rignot, un

glaciologo del Jet Propulsion Laboratory della NASA ha affermato che “niente di tutto ciò era stato

previsto dai modelli numerici, perciò tutte le previsioni del contributo della Groenlandia

all‟innalzamento del livello del mare sono sottostimate rispetto alla realtà”.

Verso la fine dell‟estate del 2007, gli scienziati riuniti in un simposio a Ilulissat, in Groenlandia,

hanno affermato che la calotta glaciale della Groenlandia sta fondendo così rapidamente da

provocare leggere scosse di terremoto dovute alla rottura e allo scivolamento in mare di pezzi di

ghiaccio di milioni di tonnellate. Il presidente dell‟ACIA Corell ha riportato: “Abbiamo osservato

una significativa accelerazione della velocità con cui questi ghiacciai cadono in mare”. Il grande

ghiacciaio di Ilulissat (chiamato Jakobshavn Isbrae), sulla costa sud-occidentale della Groenlandia, si

muove alla velocità di 2 metri all‟ora su un fronte di 8 chilometri di larghezza e 900 metri di

profondità.

I dati raccolti dai satelliti della NASA mostrano che le piattaforme di ghiaccio galleggianti della

Groenlandia nel 2007 si sono ridotte di circa 60 chilometri quadrati. Nell‟estate del 2008 questa

perdita è aumentata vertiginosamente fino a raggiungere 184 chilometri quadrati, ovvero quasi il

triplo. Questa contrazione è stata in parte osservata direttamente da un gruppo di ricercatori della

Ohio State University, i quali hanno visto un blocco di 28 chilometri quadrati staccarsi dal ghiacciaio

Lo stato di fusione dei ghiacci in Groelandia nel 2005

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100

Petermann nella Groenlandia settentrionale. Una crepa più a monte sullo stesso ghiacciaio ha fatto

ipotizzare che si sarebbe a breve distaccato un blocco ancor più grande.

Ciò che un tempo gli scienziati pensavano che sarebbe stato un processo semplice e lineare, per cui

una certa superficie delle calotte di ghiaccio fonde ogni anno a causa della temperatura, si è rivelato

essere parte di un meccanismo molto più complesso. Quando la superficie ghiacciata inizia a

liquefarsi, una parte dell‟acqua di fusione filtra in basso attraverso le crepe del ghiaccio stesso e

lubrifica la superficie tra il ghiacciaio e le rocce sottostanti. In questo modo si accelerano, sia lo

scorrimento del ghiaccio, sia il cosiddetto calving, ovvero il distacco di iceberg che precipitano

nell‟oceano. L‟acqua relativamente calda che fluisce attraverso crepe e mulini glaciali (profondi fori)

porta con sé il calore della superficie nelle profondità della calotta molto più rapidamente di quanto

avverrebbe per semplice conduzione.

Dalla parte opposta del pianeta sta iniziando a fondere anche il ghiaccio antartico, che si estende per

una superficie grande quanto la metà degli Stati Uniti, spesso ben 2 chilometri e che contiene il 70%

dell‟acqua dolce mondiale. I lastroni di ghiaccio galleggianti formati dallo scivolamento dei

ghiacciai dal continente nel mare circostante hanno iniziato a frantumarsi a un ritmo allarmante.

Il ciclo del ghiaccio, alimentato da una continua neo

formazione di ghiaccio sulla terraferma e che termina

nella rottura dei lastroni più esterni e nel conseguente

distacco di iceberg, non è un fenomeno nuovo. Ciò che è

nuovo è il ritmo di questo processo. Perfino i glaciologi

più esperti sono sbalorditi dalla sua rapidità. “La

velocità è impressionante” ha affermato David Vaughan,

un glaciologo del British Antarctic Survey, che sta

monitorando da vicino la piattaforma di Larsen. Lungo

la penisola antartica, nelle sue vicinanze, la temperatura

media è aumentata di 2,5 °C negli ultimi cinquant‟anni.

Il distacco nel 1995 di Larsen A, un‟enorme piattaforma

di ghiaccio sulla costa orientale della penisola antartica,

fu il segnale che in quella regione stava avvenendo

qualcosa di anomalo. In seguito, nel 2000, nella parte

meridionale del continente si separò dalla piattaforma di

Ross un gigantesco iceberg vasto quasi quanto il Connecticut, con una superficie pari a 11 mila

chilometri quadrati.

Dopo la frattura di Larsen A, il distacco della vicina piattaforma Larsen B non si è fatta attendere

molto, dato l‟aumento della temperatura nella regione. Quindi lo sprofondamento in mare della sua

parte settentrionale, nel marzo del 2002 (n.d.r. vedi animazione da fonte esterna), non è stato un

evento del tutto inaspettato. Quasi contemporaneamente si staccò dal ghiacciaio Thwaites un enorme

blocco di ghiaccio, delle dimensioni di Rhode Island.

Limiti della banchisa nella zona di Larsen

Page 101: L. Bro wn - Piano B 4.0

101

Nel maggio del 2007, un gruppo di ricercatori della NASA e dell‟Università del Colorado, ha reso

pubblici i dati rilevati dai satelliti che mostrano estese zone di neve sciolta all‟interno della calotta

glaciale dell‟Antartico su di un‟area vasta quanto la California. Questo fenomeno di fusione nel 2005

si trovava 900 chilometri all‟interno, a soli 500 chilometri circa dal Polo Sud. Konrad Steffen, uno

dei membri del gruppo, ha osservato che “l‟Antartide, a eccezione della penisola antartica, non ha

mostrato nel recente passato segni evidenti di surriscaldamento, ma si stanno ora evidenziando i

primi segnali in aree molto estese”.

Le calotte si vanno frantumando a un ritmo inimmaginabile. Sul finire del febbraio del 2008, un

satellite della NASA ha registrato la rottura di un pezzo di ghiaccio grande quanto Manhattan,

staccatosi dalla piattaforma di Wilkins. Nel giro di dieci giorni, sono andati persi circa 414 degli

iniziali 13 mila chilometri quadrati.

Un anno dopo, un satellite della NASA ha

registrato l‟immagine della caduta in mare di un

ponte di ghiaccio, che ha segnato la scomparsa

definitiva della piattaforma di Wilkins: ancora un

altro pezzo della calotta antartica occidentale che

se ne è andato. La NASA segnala che Wilkins è

la decima delle piattaforme glaciali che sono

collassate in epoca recente.

Quando queste piattaforme, che si trovano già per

la maggior parte in acqua, si staccano dalla massa

di ghiaccio continentale, l‟effetto provocato sul

livello del mare non è di per sé significativo. Ma

senza di esse a fungere da barriera allo

scorrimento dei ghiacciai, che normalmente si

spostano di 400-900 metri l‟anno, il flusso del

ghiaccio fuso che si riversa nell‟oceano potrà

accelerare, causando l‟assottigliamento della

calotta glaciale ai margini del continente antartico

e contribuendo pertanto all‟innalzamento del

livello del mare.

L‟accelerazione della fusione delle calotte di

ghiaccio della Groenlandia e dell‟Antartico

occidentale porterà in questo secolo a una crescita del livello dei mari maggiore di quanto previsto.

Le stime dell‟IPCC, che ipotizzava un aumento tra i 18 e i 59 centimetri per questo secolo, non

tengono completamente conto dei processi dinamici di accelerazione della fusione dei ghiacci in

queste due regioni e i ricercatori stanno rivedendo le proprie valutazioni alla luce di questi fenomeni.

In un rapporto del 2008 del Climate Change Science Program statunitense si sostiene che l‟entità

dell‟innalzamento dei mari prevista dall‟IPCC è probabilmente sottovalutata. Nel settembre 2008 un

Immagine ripresa il 10 aprile 2009 dal satellite

NASA MOIDS

Il collasso del ponte di ghiaccio che univa

la Piattaforma di Wilkins all'Isola di Charcot.

Page 102: L. Bro wn - Piano B 4.0

102

gruppo di scienziati, guidati da W. Tad Pfeffer, dell‟Institute of Arctic and Alpine Research

dell‟Università del Colorado, è giunto alla conclusione che con la continua accelerazione della

fusione dei ghiacci, l‟innalzamento globale del livello dei mari potrebbe essere compreso tra gli 80

centimetri e i 2 metri entro il 2100.

L‟International Institute for Environment and Development (IIED) ha analizzato gli effetti provocati

da un innalzamento del mare di 10 metri, fornendo così un‟idea approssimativa di cosa si troverebbe

ad affrontare l‟umanità se queste due calotte glaciali cominciassero a scomparire. Lo studio

dell‟IIED inizia con l‟evidenziare che le persone che vivono lungo le coste a livello del mare, o

addirittura al di sotto di questa quota, sono attualmente 634 milioni, molte delle quali abitano in città

o nelle aree dei delta fluviali dove si coltiva il riso.

Uno dei paesi più vulnerabili è la Cina, con 144 milioni di potenziali rifugiati per eventi climatici.

Seguono India e Bangladesh, rispettivamente con 63 e 62 milioni di persone. Il Vietnam si avvicina

ai 43 milioni e l‟Indonesia a 42. Altri paesi tra i primi dieci sono il Giappone con 30 milioni, l‟Egitto

con 26 e gli Stati Uniti con 23.

È difficile immaginare l‟evacuazione di così tante persone. Alcuni dei rifugiati potrebbero

semplicemente spostarsi nel proprio paese in territori ad altitudini più elevate. Altri invece, di fronte

a un sovraffollamento dell‟entroterra dei propri paesi d‟origine, oppure all‟inondazione totale delle

isole sotto il livello del mare, cercherebbero rifugio altrove. In Bangladesh, che è già uno dei paesi

più densamente popolati, gli sfollati a causa dell‟innalzamento del mare sarebbero costretti a

espatriare, il che spiega perché la vicina India abbia eretto grandi recinzioni lungo i suoi confini.

Alcune tra le città più grandi del mondo, come Shanghai, Calcutta, Londra e New York, potrebbero

essere inondate in parte o del tutto, ma oltre a questo vi è anche la possibilità di perdere vaste zone

agricole produttive. I delta dei fiumi coltivati a riso e le pianure alluvionali asiatiche, compresi il

delta del Gange e del Mekong, potrebbero essere sommersi dall‟acqua salata, privando così l‟Asia di

una parte del suo approvvigionamento alimentare.

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103

3.3 Ghiacciai che scompaiono e calo dei raccolti

Se tutti i ghiacciai montani del mondo si sciogliessero, il livello del mare si innalzerebbe solo di

qualche centimetro. Ma è il ghiaccio che fonde da questi luoghi durante l‟estate che alimenta gran

parte dei fiumi durante la stagione secca. Di conseguenza, l‟aumento della temperatura provocherà la

diminuzione della disponibilità di acqua fluviale per gli usi irrigui. All‟inizio del 2009, il World

Glacier Monitoring Service dell‟Università di Zurigo ha reso noto che il 2007 è stato il diciottesimo

anno consecutivo di ritiro dei ghiacciai, che si stanno fondendo a una velocità doppia rispetto a dieci

anni fa.

I ghiacciai montani si stanno liquefacendo nelle Ande, nelle Rocky Mountains, nelle Alpi e in molti

altri posti, ma in nessun luogo questo fenomeno mina la sicurezza alimentare mondiale quanto la

fusione in corso nella catena himalayana e nell‟altopiano del Qinghai-Tibet, un fattore che potrebbe

presto privare i principali fiumi indiani e cinesi dell‟acqua necessaria ad alimentarli durante la

stagione secca. Nei bacini dell‟Indo, del Gange, dello Yangtze e del Fiume Giallo, dove l‟agricoltura

dipende fortemente dall‟irrigazione proveniente dai fiumi, la perdita dell‟apporto d‟acqua nella

stagione secca provocherà la diminuzione dei raccolti e potrebbe causare un‟inimmaginabile scarsità

di cibo.

Il mondo non ha mai affrontato una tale, prevedibile minaccia alla produzione alimentare come

quella causata dallo scioglimento dei ghiacciai montani in Asia. Come già descritto nel capitolo 1, la

Cina e l‟India sono i maggiori produttori mondiali di grano, oltre ad avere completamente nelle

proprie mani il raccolto del riso.

Secondo l‟IPCC, i ghiacciai himalayani stanno regredendo rapidamente, e tra questi molti potrebbero

liquefarsi completamente entro il 2035. Se scomparisse l‟enorme ghiacciaio Gangotri, che fornisce al

Gange il 70% delle acque nella stagione secca, questo fiume potrebbe diventare a carattere

stagionale, attivo solamente durante il periodo delle piogge e non nella stagione secca, quando è

maggiore il fabbisogno d‟acqua a usi irrigui.

La Cina, che per l‟irrigazione è dipendente dall‟acqua dei fiumi più di quanto non lo sia l‟India,

versa in una situazione particolarmente difficile. I dati governativi mostrano che i ghiacciai

dell‟altopiano del Qinghai-Tibet, che alimentano il Fiume Giallo e lo Yangtze, si stanno fondendo a

un ritmo spaventoso. Il Fiume Giallo, sulle rive del quale abitano circa 147 milioni di persone,

potrebbe subire una forte riduzione della portata nella stagione secca. Il fiume Yangtze, di gran lunga

il maggiore tra i due, è anch‟esso minacciato dalla scomparsa dei ghiacciai e i 369 milioni di persone

che abitano nel suo bacino sono fortemente dipendenti dalle risaie irrigate dalle acque di questo

fiume.

Yao Tandong, uno dei glaciologi più importanti in Cina, prevede che due terzi dei ghiacciai cinesi

potrebbero scomparire da qui al 2050. “La riduzione su vasta scala dei ghiacciai nella regione degli

altipiani”, dice Yao, “porterà a una vera e propria catastrofe ambientale”.

L‟agricoltura nei paesi dell‟Asia centrale, come l‟Afghanistan, il Kazakistan, il Kirghizistan, il

Tagikistan, il Turkmenistan e l‟Uzbekistan, è fortemente dipendente dalla liquefazione delle nevi

delle catene montuose dell‟Hindu Kush e del Tien Shan e dell‟altopiano del Pamir, che forniscono

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104

l‟acqua necessaria per le irrigazioni. Il vicino Iran riceve gran parte dell‟acqua dalla fusione delle

nevi dalla catena montuosa degli Elburz (5.700 metri), che si trova tra Teheran e il Mar Caspio.

In Africa, il Kilimangiaro, la cima imbiancata della Tanzania, potrebbe presto rimanere senza neve

né ghiaccio. Gli studi effettuati dal glaciologo Lonnie Thompson, della Ohio State University,

rivelano che tra il 1912 e il 2007 la più alta montagna africana ha perso l‟84% delle proprie superfici

ghiacciate. Secondo le sue previsioni, la cima innevata del Kilimanjaro potrebbe sparire interamente

da qui al 2015. Il vicino monte Kenya ha perso 7 dei suoi 18 ghiacciai e i fiumi locali alimentati da

questi ghiacciai stanno assumendo un carattere stagionale, provocando conflitti tra quei 2 milioni di

persone che da essi dipendono per gli approvvigionamenti idrici nella stagione secca.

Bernard Francou, direttore della ricerca per l‟Institut de Recherche pour le Développement (IRD) del

governo francese, ritiene che l‟80% dei ghiacciai del Sud America potrebbe sparire nel corso del

prossimo decennio. Questa non è certo una buona notizia per paesi come la Bolivia, l‟Ecuador e il

Perù, che contano sull‟acqua proveniente dai ghiacciai per gli usi domestici e per l‟irrigazione.

Il Perù, che si estende per circa 1.600 chilometri lungo la vasta catena delle Ande e che ospita il 70%

dei ghiacciai tropicali della Terra, si trova in grosse difficoltà. Sta scomparendo il 22% circa dei suoi

ghiacciai, che alimentano i molti fiumi peruviani, e che a loro volta riforniscono le città nelle regioni

costiere semi-aride. Nel 2007 Lonnie Thompson riportava che il ghiacciaio Quelccaya nel Perù

meridionale, che negli anni Sessanta si stava ritirando di 6 metri l‟anno, registrava oramai una

perdita annuale pari a 60 metri. In un‟intervista a Science News, all‟inizio del 2009, ha affermato:

“Attualmente il ghiaccio si sta ritirando verso la cima di circa 45 centimetri al giorno, il che vuol dire

che ci si può quasi sedere e stare a guardare mentre svanisce”.

Molti coltivatori peruviani irrigano il grano e le patate con l‟acqua dei fiumi che nascono da questi

ghiacciai in via di estinzione. Durante la stagione secca, i contadini dipendono completamente

dall‟acqua d‟irrigazione. Per 29 milioni di peruviani, la riduzione dei ghiacciai comporterebbe

un‟analoga perdita della disponibilità di cibo.

Lima, con i suoi 8 milioni di abitanti, dipende per buona parte del suo approvvigionamento idrico dai

tre fiumi andini che sono parzialmente alimentati dalla fusione dei ghiacciai che va a ingrossare i

fiumi. Una volta che i ghiacciai saranno scomparsi, la portata dei fiumi calerà drasticamente,

lasciando Lima con una popolazione in aumento e riserve idriche sempre più scarse.

All‟inizio del 2009 Wilfried Haeberli, a capo del World Glacier Monitoring Service, ha reso noto che

in quest‟ultimo secolo sui Pirenei, in Spagna, è scomparso circa il 90% dei ghiacciai che alimentano i

fiumi Gállego, Cinca e Garona e che, scorrendo verso sud, forniscono l‟acqua durante l‟estate alle

colline pedemontane e alle pianure della regione.

La stessa storia si ripete anche altrove. Daniel Fagre, ecologo dell‟US Geological Survey al Glacier

National Park, nel 2009 ha osservato che i ghiacciai del parco, dei quali si prevedeva la scomparsa

entro il 2030, potrebbero in realtà andarsene già prima del 2020.

Negli Stati Uniti sud-occidentali, la portata del fiume Colorado, la principale fonte per l‟irrigazione

della regione, dipende per la maggior parte dalle distese di neve delle Montagne Rocciose. La

California, oltre al fiume Colorado, conta sulle nevi della Sierra Nevada, nella parte orientale dello

stato. Sia la Sierra Nevada che le catene montuose della zona costiera, forniscono l‟acqua per

l‟irrigazione della Central Valley, dove si produce gran parte della frutta e della verdura dello stato

californiano.

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105

Perseguendo questa politica energetica improntata al business as usual (ovvero in assenza di

cambiamenti di rotta, ndr), i modelli climatici globali prevedono una riduzione del 70% delle nevi

perenni degli Stati Uniti occidentali entro la metà del secolo. Uno studio condotto dal Pacific

Northwest National Laboratory del Dipartimento di stato per l‟energia statunitense prendendo in

esame la Yakima River Valley, una vasta regione di colture di frutta nello stato di Washington,

evidenzia una perdita di raccolti progressivamente sempre più grave in rapporto alla riduzione delle

nevi e quindi della disponibilità idrica destinata all‟irrigazione.

Le masse di neve e ghiaccio che si trovano sulle catene montuose più alte del mondo e l‟acqua che

esse conservano sono date per scontate semplicemente per il fatto che esistevano fin dalla nascita

dell‟agricoltura. Ma con l‟aumento della temperatura terrestre rischiamo di perdere i serbatoi nel

cielo dai quali dipendono le città e gli agricoltori.

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106

3.4 Temperature in aumento e danni alle coltivazioni

Fin dalla nascita dell‟agricoltura migliaia di anni fa, le pratiche colturali si sono evolute in modo da

massimizzare i raccolti in un regime climatico relativamente stabile, ma oggi la situazione sta

cambiando.

Dal momento che le coltivazioni crescono solitamente a una temperatura molto vicina al proprio

optimum termico, anche un aumento relativamente piccolo di uno o due gradi centigradi, nella

stagione vegetativa, può provocare una riduzione significativa del raccolto di cereali nelle regioni in

cui avviene gran parte della produzione alimentare, quali la pianura settentrionale cinese, la piana del

Gange in India e la fascia del grano (Corn Belt) statunitense.

Le temperature elevate possono interrompere la fotosintesi, inibire l‟impollinazione e portare alla

disidratazione delle colture. Anche se le elevate concentrazioni atmosferiche di anidride carbonica,

responsabili dell‟incremento termico, hanno come effetto anche quello di incrementare la resa dei

raccolti, nel caso delle principali colture l‟effetto dannoso delle temperature elevate oltre un certo

punto sovrasta quello positivo della fertilizzazione da CO2.

Due ricercatori indiani, K. S. Kavi Kumar e Jyoti Parikh, hanno calcolato le conseguenze

dell‟aumento delle temperature sui campi di frumento e riso. Basandosi sui dati provenienti da dieci

siti produttivi, hanno concluso che nell‟India settentrionale l‟aumento medio di 1 °C non ha ridotto

in maniera significativa il raccolto di frumento, ma laddove questo aumento sia stato di 2 °C ne è

derivato un calo di resa in quasi tutti i siti presi in esame. Limitandosi ad analizzare la variazione di

temperatura, l‟aumento di 2 °C provocherebbe un calo dal 37 al 58% nel raccolto di frumento

proveniente da campi irrigati. Unendo poi gli effetti negativi dell‟aumento della temperatura e gli

effetti positivi della fertilizzazione da CO2, il calo della produzione nei vari siti colturali si

attesterebbe tra l‟8 e il 38%. L‟innalzamento delle temperature è quindi una prospettiva preoccupante

per un paese che prevede una crescita di 400 milioni di abitanti entro la metà del secolo.

In uno studio sulla sostenibilità degli ecosistemi locali, Mohan Wali e i suoi colleghi della Ohio State

University hanno notato che con l‟aumento della temperatura, l‟attività fotosintetica tende a

incrementare fino a quando si raggiungono i 20 °C, per poi rimanere stabile fino ai 35 °C e

successivamente iniziare a ridursi e fermarsi completamente al raggiungimento dei 40 °C.

Negli ultimi anni, gli agronomi di diversi paesi si sono concentrati sulla puntuale relazione che lega

la temperatura e i raccolti. Uno degli studi più completi è stato condotto dall‟International Rice

Research Institute (IRRI) delle Filippine. Un team di agronomi di alto livello, con l‟ausilio dei dati

del raccolto relativo ai lotti di una coltura sperimentale di riso irrigato, ha confermato la regola

empirica emergente tra gli agronomi: l‟innalzamento sopra la media termica di un grado Celsius

causa una riduzione del 10% nei raccolti di frumento, riso e mais. La rilevazione dell‟IRRI concorda

con altri recenti progetti di ricerca. Si è quindi concluso che “l‟aumento della temperatura legato al

surriscaldamento globale renderà sempre più difficile nutrire la popolazione in crescita del pianeta”.

Il periodo più delicato del ciclo vitale delle piante è quello dell‟impollinazione. Tra le tre principali

colture alimentari di base del mondo, il riso, il grano e il mais, quest‟ultimo è particolarmente

vulnerabile. Per la riproduzione del mais, il polline deve cadere dalle barbe sui filamenti che

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107

emergono dalla fine di ogni chicco. Ognuno di questi fili è attaccato al sito di un seme posto sulla

pannocchia. Il seme si sviluppa quando un granello di polline scivola lungo il filamento e quindi

migra verso questo sito. Quando le temperature sono troppo elevate, i filamenti si essiccano troppo

velocemente, diventando marroni, e non sono in grado di effettuare la loro parte nel processo di

fecondazione.

Gli effetti della temperatura sull‟impollinazione del riso sono stati studiati in dettaglio nelle

Filippine. I ricercatori affermano che l‟impollinazione passa dal 100% a 34 °C a una percentuale

prossima allo zero a 40 °C, causando la perdita della coltura.

Le elevate temperature provocano anche la disidratazione delle piante. Quando le foglie del mais si

arricciano per ridurre l‟esposizione al sole, anche la fotosintesi diminuisce. E quando gli stomi sul

lato inferiore delle foglie si chiudono per limitare le perdite d‟acqua, si riduce anche l‟assorbimento

di CO2, riducendo la normale funzione fotosintetica. Il mais, che in condizioni ideali è

straordinariamente produttivo, a temperature elevate va incontro a uno shock termico.

Moltissimi modelli climatici mondiali dimostrano che all‟aumentare della temperatura, alcune parti

del mondo diventeranno più esposte alla siccità. Gli Stati Uniti sud-occidentali e la regione africana

del Sahel sono due delle zone dove il calore, unito alla siccità, possono rivelarsi letali. Il Sahel è una

vasta regione simile alla savana che si estende attraversando l‟Africa, dalla Mauritania e dal Senegal

a ovest, fino al Sudan, all‟Etiopia e alla Somalia a est, e risente già delle elevate temperature e delle

disastrose siccità che si abbattono periodicamente in questa zona, dato che l‟abituale scarsa piovosità

va riducendosi ulteriormente.

La diminuzione delle piogge e l‟aumento della temperatura sono una minaccia per la sopravvivenza

di milioni di persone che popolano questa regione. Per loro il tempo sta per scadere. Cary Fowler,

direttore del Global Crop Diversity Trust, afferma: “Se aspettiamo che sia troppo caldo per coltivare

il granoturco nel Ciad e nel Mali, allora sarà troppo tardi per evitare un disastro che senz‟ombra di

dubbio potrebbe destabilizzare più che un‟intera regione”.

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108

3.5 Il declino del petrolio e del carbone

I cambiamenti climatici costituiscono una minaccia senza precedenti per la nostra civiltà. Una

politica energetica improntata al business as usual, che non prevede decisi cambiamenti di tendenza,

non è più una scelta possibile. Il punto è: siamo in grado di attuare una transizione rapida dai

combustibili fossili alle energie rinnovabili? Se aspetteremo che siano i cambiamenti climatici su

vasta scala a obbligarci al cambiamento, potrebbe essere troppo tardi.

Per quanto riguarda il petrolio, i limiti geologici stanno causando il declino della produzione in molti

dei paesi produttori. Di pari passo all‟esaurimento del petrolio emergono le preoccupazioni relative

alla sicurezza nei paesi importatori, dato che gran parte della produzione avviene nella regione

politicamente instabile del Golfo Persico. Per gli Stati Uniti, che importano il 60% del petrolio e la

cui forza lavoro si sposta per l‟88% in auto, questa non è una questione secondaria.

Ridurre i consumi di petrolio non è affatto inverosimile. Per numerose ragioni, tra le quali il prezzo

record della benzina, nel 2008 il consumo di petrolio negli Stati Uniti, che è il paese nel mondo che

ne usa di più, è calato del 6%. Questa diminuzione sembra stia continuando nel 2009, mano a mano

che gli automobilisti passano ai trasporti pubblici, alla bicicletta e ad automobili più efficienti.

Le previsioni geologiche in merito al futuro degli approvvigionamenti petroliferi sono già scritte a

chiare lettere. Le scoperte di petrolio convenzionale ammontano a circa 2.000 miliardi di barili, di

cui mille sono già stati estratti. Queste cifre da sole però perdono di vista una questione

fondamentale. Come fa notare l‟analista Michael Klare, esperto in sicurezza internazionale, i primi

mille miliardi di barili sono stati petrolio di facile estraibilità, “petrolio che si trovava sulle coste o in

prossimità di esse; vicino alla superficie o concentrato in grandi giacimenti; estratto insomma in

luoghi ospitali, sicuri e facili da raggiungere”. L‟altra metà, dice Klare, è petrolio difficile, “che si

trova in fondo all‟oceano o seppellito nelle viscere della Terra; disperso in giacimenti piccoli e

difficili da scovare; che deve essere importato da zone scomode, politicamente instabili o

pericolose”.

Un‟altra indicazione sul futuro della produzione di petrolio è il comportamento stesso delle maggiori

compagnie petrolifere. Tanto per cominciare, la produzione totale delle otto principali compagnie

indipendenti ha già raggiunto il picco e sta diminuendo. Ciononostante, non si è assistito a grandi

incrementi nell‟esplorazione e nello sviluppo. Ciò suggerisce che le compagnie petrolifere siano in

linea con quanto affermano i geologi petroliferi, ovvero che nel mondo intero sia stato già scoperto il

95% di tutto il petrolio totale. “L‟intero pianeta è stato già scandagliato con metodiche di tipo

sismico e tutti i dati esaminati”, afferma il geologo indipendente Colin Campbel. “Negli ultimi

trent‟anni le conoscenze geologiche sono migliorate immensamente ed è quindi praticamente

impossibile che esistano dei giacimenti rilevanti che non siano ancora stati scoperti”.

Matt Simmons, un importante investitore petrolifero, afferma a proposito dei nuovi giacimenti:

“Abbiamo esaurito i progetti davvero promettenti. Non è una questione di soldi... se le compagnie

petrolifere avessero in cantiere fantastici progetti, sarebbero là fuori a sviluppare nuovi giacimenti

petroliferi”. Walter Youngquist e A. M. Samsam Bakhtiari dell‟Iranian National Oil Company hanno

entrambi previsto che la produzione mondiale avrebbe raggiunto il picco nel 2007.

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109

Un ulteriore sistema per prevedere la produzione petrolifera consiste semplicemente nel guardare

l‟età dei maggiori giacimenti. Tra i 20 più grandi mai scoperti, 18 lo furono tra il 1917 (Bolivar in

Venezuela) e il 1968 (Shaybah in Arabia Saudita). Le due scoperte più recenti, Cantarell in Messico

e il giacimento di Baghdad East in Iraq, furono effettuate negli anni Settanta, ma nessun‟altra si è

verificata in seguito. Né il bacino di Kashagan, scoperto nel Mar Caspio nel 2000, né quello del

Tupi, trovato in Brasile nel 2006, due giacimenti di dimensioni comunque significative, rientrano

nella lista dei primi 20 del mondo. Controbilanciare l‟invecchiamento e il declino dei maggiori

giacimenti petroliferi con nuove scoperte e tecnologie estrattive più avanzate è un compito che sta

diventando via via sempre più difficile.

La notizia clamorosa del 2008 è stato l‟annuncio da parte della Russia, principale produttrice di

petrolio negli ultimi anni, di aver raggiunto il picco produttivo nel corso degli ultimi mesi del 2007 e

che quindi da allora in poi ne sarebbe conseguito un calo. I dati raccolti fino a metà del 2009

confermano questa diminuzione, a sostegno di coloro che ritengono che sia già stato raggiunto il

picco della produzione petrolifera mondiale.

A parte il greggio convenzionale, che può essere agevolmente pompato in superficie, grandi quantità

di petrolio sono presenti nelle sabbie bituminose e possono essere prodotte dagli scisti bituminosi. Il

deposito di sabbie bituminose di Athabasca in Alberta, Canada, potrebbe racchiudere 1.800 miliardi

di barili, dei quali comunque solamente circa 300 miliardi sarebbero sfruttabili. Anche il Venezuela

possiede vasti depositi di petrolio super pesante, stimati in 1.200 miliardi di barili, dei quali ne sono

utilizzabili forse un terzo.

Gli scisti bituminosi presenti nelle zone degli Stati Uniti del Colorado, Wyoming e Utah, contengono

grandi quantità di kerogene, un materiale organico che può essere trasformato in petrolio e gas. Nei

tardi anni Settanta, gli Stati Uniti si sono molto impegnati nello sfruttamento degli scisti bituminosi

sul versante occidentale delle Montagne Rocciose in Colorado. Quando le quotazioni del petrolio

calarono nel 1982, l‟industria legata a questo tipo di estrazione ebbe un tracollo. L‟Exxon si ritirò dal

suo progetto da 5 miliardi di dollari e le altre compagnie fecero altrettanto.

L‟unico progetto che sta andando avanti è quello relativo alle sabbie bituminose nella provincia di

Alberta in Canada. Iniziato nei primi anni Ottanta, nel 2008 ha prodotto 1,3 milioni di barili al

giorno, sufficienti a soddisfare quasi il 7% dell‟attuale fabbisogno statunitense. Il petrolio prodotto

dalle sabbie bituminose non è economico e diventa redditizio solo quando il prezzo del greggio è pari

a 70 dollari a barile e tra gli esperti qualcuno afferma che per stimolare nuovi investimenti in questo

settore il prezzo dovrebbe raggiungere i 90 dollari al barile.

Si va diffondendo il dubbio che l‟estrazione di petrolio dalle sabbie bituminose e dagli scisti

bituminosi non sia conveniente, tenendo conto anche dei molti effetti negativi, non ultimi gli

sconvolgimenti climatici. Infatti, per ricavare il petrolio dalle sabbie bituminose bisogna “cuocere” la

sabbia per separarla dal greggio, con il risultato che le emissioni di anidride carbonica derivanti da

questo tipo di lavorazione sono tre volte superiori a quelle dell‟estrazione convenzionale. Come

osserva l‟analista petrolifero Richard Heinberg, “attualmente per ricavare un barile di petrolio si

devono scavare due tonnellate di sabbia”. Inoltre, la quantità d‟acqua necessaria per estrarre il

petrolio da sabbie o scisti bituminosi può essere davvero proibitiva, specialmente negli Stati Uniti

occidentali, dove di fatto tutta l‟acqua è già riservata ad altri usi. Considerando quindi le emissioni di

anidride carbonica, la richiesta idrica, l‟inquinamento locale delle acque e la distruzione ambientale

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complessiva derivante dalla lavorazione di miliardi di tonnellate di sabbie o scisti bituminosi, la

civiltà si manterrebbe in uno stato migliore di salute se questo petrolio fosse semplicemente lasciato

sotto terra.

La diminuzione mondiale della produzione di carbone non è invece così imminente, ma qualsiasi

strategia per stabilizzare il clima deve per forza porre come prioritaria la sua eliminazione graduale.

Il carbone infatti, per ogni unità di energia prodotta, rilascia il doppio delle emissioni di CO2 rispetto

al gas naturale e una volta e mezza rispetto al petrolio.

Il carbone è inoltre il combustibile più dannoso per la salute umana: il black lung disease (la silicosi)

è fin troppo comune tra i minatori di carbone. Inoltre, si stima che ogni anno muoiano circa 3 milioni

di persone (più di 8.000 al giorno) a causa dell‟aria inquinata in gran parte dalla combustione del

carbone, la quale è anche la principale fonte di inquinamento da mercurio, una potente neurotossina

particolarmente dannosa per i bambini.

Il mercurio emesso dalle ciminiere che bruciano carbone va letteralmente a ricoprire le superfici

terrestri e acquatiche. Praticamente in tutti gli stati nordamericani vige l‟avvertenza di non mangiare

troppo pesce che arriva dalle acque dolci di laghi e corsi d‟acqua a causa del contenuto

pericolosamente elevato di mercurio.

In Cina, dove il cancro è oggigiorno la principale causa di decesso, l‟inquinamento da carbone è

diventato un fenomeno sempre più preoccupante. Un‟indagine pubblicata nel 2007, condotta dal

Ministero della Sanità in 30 città e 78 contee, ha rivelato un‟ondata crescente di casi di cancro. La

popolazione di quelli che vengono soprannominati “villaggi del cancro” è letteralmente decimata da

questa malattia.

Il carbone è solo una parte del problema, ma in un paese dove si andava costruendo una nuova

centrale a carbone alla settimana, rappresenta una parte statisticamente significativa. La nuova realtà

è che la Cina diventa ogni anno più ricca e più malata. La classe dirigente cinese è sempre più

preoccupata non solo dall‟epidemia di cancro, ma anche dal brusco aumento dei difetti congeniti. La

preoccupazione per gli effetti che la combustione del carbone può avere sulla salute aiutano anche a

spiegare perché la Cina stia dando grande impulso all‟energia eolica e solare, tanto che prevede di

diventare presto il leader mondiale in entrambi i settori.

Un segnale dei cambiamenti in atto in Cina è arrivato quando il New York Times ha riportato, a

luglio del 2009, che il Ministero per la Protezione ambientale ha temporaneamente proibito a tre

delle cinque maggiori aziende produttrici di energia di costruire centrali elettriche a carbone perché

non avevano rispettato le normative ambientali in quelle già esistenti. È un‟azione importante per la

Cina, che non avrebbe avuto luogo senza l‟approvazione dei “piani alti”.

Inoltre, affianco all‟esagerato contributo che fornisce al dissesto climatico e ai danni per la salute

umana, il carbone è anche quello più facile da sostituire tra i tre combustibili fossili. Infatti,

l‟elettricità è sempre tale, sia che venga prodotta da impianti a carbone, sia che provenga da parchi

eolici, impianti solari o geotermici. Al contrario, sostituire il petrolio è più complicato perché è

presente in maniera pervasiva nell‟economia.

Il terzo dei combustibili fossili, ovvero il gas naturale, produce solo il 19% delle emissioni di CO2

provenienti da combustibili non rinnovabili. Poiché è responsabile delle emissioni di CO2 in misura

molto minore rispetto al carbone e ha una combustione più pulita del petrolio, sta prendendo piede

come combustibile di transizione nel periodo di passaggio dai combustibili fossili alle fonti di

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energia rinnovabile. Anche il consumo di gas andrà incontro in futuro a una riduzione, anche se

questo non avverrà così velocemente come con il carbone.

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112

3.6 Una sfida senza precedenti

La nostra civiltà, agli albori del XXI secolo, si trova ad affrontare una sfida senza precedenti nel

dover simultaneamente stabilizzare il clima e la popolazione, eradicare la povertà e ripristinare gli

ecosistemi naturali del pianeta. Rispondere a questi problemi sarà arduo, ma ci siamo messi con le

nostre stesse mani in una situazione nella quale dobbiamo affrontare ognuna di queste singole sfide

in maniera risolutiva e contemporanea, data la loro reciproca interconnessione. E la sicurezza

alimentare dipende dal raggiungimento di tutti e quattro questi obiettivi. Il Piano B non prevede

compromessi.

All‟intensificarsi della pressione politica causata dai cambiamenti climatici e della penuria di cibo e

petrolio, è in aumento il numero di stati che rischiano il tracollo. Inoltre emergono pericolosi segnali

che indicano che è in via di indebolimento quel solido meccanismo di cooperazione internazionale

nato dopo la seconda guerra mondiale e sul quale si è basato il progresso economico mondiale. Ad

esempio, la preoccupazione per l‟accesso alle risorse petrolifere ha spinto gli Stati Uniti a dirottare

parte del proprio raccolto di cereali nella produzione di carburante per autotrazione, incuranti degli

effetti che avrebbe avuto sul prezzo mondiale del cibo e sui consumatori con un basso reddito.

In tempi più recenti abbiamo visto come i paesi esportatori di cereali, allo schizzare in alto dei

prezzi, hanno ristretto o vietato l‟esportazione per tenere sotto controllo l‟aumento interno dei costi

dei generi alimentari, provocando così un senso di insicurezza nei paesi importatori che hanno perso

fiducia nel mercato per soddisfare i propri bisogni. I più benestanti di questi hanno iniziato a

comprare o a prendere in affitto enormi distese di suolo in altri paesi, molti dei quali con

disponibilità limitata di terra e già provati dalla fame. Come fare per capovolgere questa tendenza

che porta ogni paese a erigere barriere piuttosto che lavorare insieme per il bene comune?

Il Piano B è plasmato dalla pressante necessità di fermare l‟aumento della concentrazione

atmosferica di CO2, invertire la tendenza al declino della sicurezza alimentare e fare in modo che si

accorci la lista degli stati in crisi. Per definire l‟obiettivo climatico del taglio dell‟80% entro il 2020

della quantità netta di anidride carbonica immessa in atmosfera, non ci siamo posti domande su quale

sia la percentuale politicamente percorribile. Ci siamo piuttosto interrogati di quanto e quanto

velocemente dobbiamo ridurre queste emissioni se vogliamo avere una possibilità ragionevole di

salvare la calotta della Groenlandia ed evitare un aumento del livello dei mari politicamente

destabilizzante. Quanto rapidamente dobbiamo tagliare le emissioni se vogliamo salvare almeno i

ghiacciai più grandi dell‟Himalaya e dell‟altopiano tibetano, che funzionando da riserva di acqua

permettono nella stagione arida l‟irrigazione dei campi di frumento e di riso in India e Cina?

Per quel che riguarda l‟energia, il nostro obiettivo è la chiusura di tutti gli impianti a carbone entro il

2020, sostituendoli in gran parte con parchi eolici. Nell‟economia del Piano B il sistema dei trasporti

verrà convertito alla trazione elettrica, con un massiccio passaggio sia ai veicoli ibridi plug-in, sia

alle automobili mosse dalla sola trazione elettrica, sia a infrastrutture ferroviarie intercittadine ad alta

velocità. Nel mondo del Piano B infine, le città sono progettate a misura d‟uomo, non di automobile.

Il Piano B non è modellato su ciò che abbiamo fatto finora, ma su ciò che dobbiamo fare nel futuro.

Offriamo una visione di come potrebbe essere quel futuro, elenchiamo i passaggi intermedi e una

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113

tabella di marcia per realizzarli. Il Piano B non è basato sul quel sistema di pensiero convenzionale

che è lo stesso che ci ha portato ad avere questi problemi. Per uscirne è necessario un altro modo di

pensare, delle nuove coordinate concettuali.

Ovviamente il Piano B è ambizioso e ad alcuni sembrerà irrealizzabile. Nel maggio del 2009 Paul

Hawken, imprenditore e ambientalista, riconoscendo l‟enormità della sfida che il mondo deve

affrontare, ha suggerito ai laureati dell‟Università di Portland: “Non lasciatevi scoraggiare da coloro

che pretendono di sapere cosa non è possibile. Fate quel che è necessario fare e solo dopo che avrete

finito potrete verificare se era davvero impossibile realizzarlo”.

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114

4. STABILIZZARE IL CLIMA: UNA RIVOLUZIONE NELL'EFFICIENZA ENERGETICA

Il mondo si trova al principio di due rivoluzioni energetiche. La prima rivoluzione è una transizione

verso le nuove tecnologie ad alta efficienza che sono già disponibili sul mercato. Le possibilità più

ampie per il risparmio energetico sono rappresentate dal passaggio a soluzioni tecnologiche ben più

efficienti di quelle che ancora usiamo e che sono vecchie più di un secolo. Casi emblematici sono la

lampadina a incandescenza e i motori a combustione interna. Le lampadine a incandescenza sono in

via di completa sostituzione con le lampade fluorescenti compatte (LFC), che utilizzano un quarto

dell‟energia elettrica. Un contributo maggiore potrà avvenire dal passaggio ai diodi a emissione

luminosa (LED) che sono capaci di risparmiare metà dell‟energia rispetto alle lampade fluorescenti

compatte e che si stanno affacciando sul mercato. Inoltre, i più avanzati prototipi di auto ibrida plug-

in, ovvero in grado di ricaricarsi dalla rete elettrica, utilizzano solo un quinto del carburante rispetto a

un auto media presente sul mercato attuale degli stati Uniti.

La seconda rivoluzione energetica è già iniziata e sta progredendo rapidamente verso l‟abbandono

dell‟economia basata sul petrolio, il carbone e il gas naturale in direzione di un modello alimentato

da vento, sole ed energia geotermica. In Europa, i nuovi impianti di produzione elettrica da energia

eolica, solare e altre fonti rinnovabili ad oggi superano di gran lunga le nuove installazioni che

dipendono dalle fonti fossili. Negli Stati Uniti, la nuova potenza installata nel 2008 fornita

dall‟eolico è pari a 8.400 megawatt e ha surclassato le nuove installazioni a carbone corrispondenti a

1.400 megawatt. Il nucleare è anch‟esso in declino. Nel mondo nel corso del 2008 la capacità

generativa nucleare è diminuita, mentre quella eolica è aumentata di 27 mila megawatt, energia

sufficiente per 8 milioni di abitazioni americane. Il mondo sta cambiando in fretta.

Questo capitolo comincia con una breve descrizione dell‟obiettivo che si pone il Piano B, la

riduzione delle emissioni nette di anidride carbonica, mentre successivamente illustra nel dettaglio le

componenti della prima rivoluzione, le componenti utili all‟incremento dell‟efficienza energetica

mondiale. Il capitolo 5 descrive la transizione verso un‟economia alimentata principalmente da

energia eolica, solare e geotermica.

La realizzazione del Piano B passa attraverso una riduzione dell‟80% delle emissioni nette di

anidride carbonica entro il 2020. Ciò manterrebbe i livelli di CO2 atmosferica entro il limite delle

400 parti per milione (ppm), un solo modesto incremento rispetto alle 386 ppm del 2008.

Questo processo pone le basi per la riduzione delle concentrazioni di CO2 a 350 ppm, il limite che

James Hansen e altri climatologi ritengono sia necessario per evitare pericolosi cambiamenti

climatici. Manterrà inoltre entro i valori minimi i futuri aumenti della temperatura. Una

ristrutturazione così profonda dell‟economia, in tempo per evitare lo stravolgimento catastrofico del

clima, sarà estremamente impegnativa, ma come possiamo guardare alla prossima generazione se

non proviamo a farlo?

Il processo di ristrutturazione dell‟economia energetica globale è attualmente influenzato da una

serie di problematiche, alcune di lunga data e altre recenti.

Tra le prime troviamo la preoccupazione crescente nei confronti dei cambiamenti climatici, un

aumento del senso di insicurezza riguardante gli approvvigionamenti petroliferi, l‟incremento dei

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115

prezzi dei combustibili fossili unito a una loro sempre maggiore instabilità e le ricadute economiche

dovute all‟importazione di petrolio.

Per quanto riguarda gli accadimenti recenti, la crisi economica globale e il numero record di giovani

che fanno il loro ingresso nel mercato del lavoro nei paesi emergenti hanno spostato l‟attenzione sul

fatto che le nuove politiche energetiche sono anche un obiettivo adatto alla creazione di lavoro. Il

miglioramento dell‟efficienza energetica e lo sviluppo delle fonti di energia rinnovabili sono

entrambi attività che necessitano di forza lavoro in quantità molto maggiori rispetto alla combustione

delle fonti fossili. A ciò si aggiunge la consapevolezza che i paesi e le aziende che si pongono

all‟avanguardia nello sviluppo di queste nuove tecnologie energetiche avranno un forte vantaggio

competitivo sui mercati mondiali.

La componente energetica del Piano B è di facile comprensione: ci si propone di aumentare

l‟efficienza energetica mondiale in quantità sufficiente perlomeno a compensare tutti gli aumenti

previsti della richiesta di energia da adesso al 2020. Ma in aggiunta a ciò, si prevede di sostituire con

l‟energia eolica, solare e geotermica e altre fonti rinnovabili, gran parte dell‟energia prodotta oggi da

petrolio, carbone e gas naturale. Di fatto, il Piano B delinea la transizione dai combustibili fossili alle

fonti di energia rinnovabile per l‟anno 2020.

Difficile? Sì.

Impossibile? Niente affatto!

Stephen Pacala e Robert Socolow, presso la Princeton University, posero le premesse al Piano B

quando nel 2004 pubblicarono un articolo su Science che dimostrò come le emissioni annuali di

anidride carbonica da fonti fossili potrebbero essere mantenute a 7 miliardi di tonnellate invece di

farle aumentare a 14 miliardi nei prossimi 50 anni, come è attualmente previsto nel caso dovessimo

conservare il nostro attuale modello di sviluppo economico. Il loro obiettivo consisteva nel limitare

le concentrazioni atmosferiche di CO2, allora vicine alle 375 ppm, entro le 500 ppm.

Pacala e Socolow descrissero 15 tecnologie collaudate, compresi l‟aumento dell‟efficienza e nuova

energia da varie fonti rinnovabili, ciascuna delle quali avrebbe potuto ridurre le emissioni di carbonio

di un miliardo di tonnellate annue entro il 2054. Combinando insieme sette di una qualunque di

queste tecnologie è possibile impedire l‟incremento delle emissioni di carbonio da oggi al 2054.

Successivamente, teorizzarono che il progresso tecnologico avrebbe permesso di portare le emissioni

a 2 miliardi di tonnellate entro il 2104, un livello tale da poter essere gestito semplicemente

attraverso l‟assorbimento del carbonio all‟interno del suolo e degli oceani.

L‟esercizio di Pacala/Socolow non era né un piano e neanche una proiezione, ma una

concettualizzazione straordinariamente utile agli analisti per ragionare sulle future interrelazioni tra

energia e clima.

Quello attuale è il momento storico nel quale bisogna scegliere le tecnologie energetiche più

promettenti e strutturare un piano concreto per tagliare le emissioni di carbonio. E poiché il clima sta

cambiando più velocemente di quanto fosse stato previsto persino pochi anni fa, crediamo che il

mondo abbia bisogno di bloccare l‟aumento dei livelli di anidride carbonica non a 500 ppm per il

2054, ma a 400 ppm entro il 2020.

Iniziamo con l‟analizzare quali siano le enormi potenzialità nell‟aumento dell‟efficienza energetica

nel settore dell‟illuminotecnica.

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116

4.1 Una rivoluzione nell’illuminotecnica

Dato che il settore dell‟illuminazione si trova sull‟orlo di una spettacolare rivoluzione basata su

nuove tecnologie, probabilmente la strada più rapida ed economicamente conveniente per ridurre a

livello planetario l‟uso di energia è semplicemente quella di sostituire le lampadine.

Il primo progresso ottenuto in questo campo è giunto con le lampadine fluorescenti compatte (LFC),

che consumano il 75% in meno di energia delle vecchie e inefficienti tradizionali lampadine a

incandescenza ancora oggi largamente usate. Rimpiazzarle con le lampade fluorescenti compatte può

ridurre di tre quarti l‟elettricità usata per l‟illuminazione. Lungo il suo arco di vita, ogni lampada

fluorescente compatta standard di potenza pari a 13 watt riduce la bolletta di circa 30 dollari.

Nonostante una lampada fluorescente compatta possa costare il doppio rispetto alle lampadine

tradizionali, essa durerà 10 volte tanto. Ognuna di queste lampadine, durante la sua vita, permette di

ridurre il fabbisogno di energia pari a 90 chilogrammi di carbone. Come riferimento, l‟energia

risparmiata dal rimpiazzo di una lampadina a incandescenza da 100 watt con una equivalente

lampada fluorescente compatta nell‟intero arco di funzionamento è sufficiente a spingere una Toyota

Prius ibrida da New York a San Francisco.

La produzione di lampade fluorescenti compatte in Cina, che copre l‟85% del totale mondiale, è

balzata da 750 milioni di unità nel 2001 ai 2,4 miliardi nel 2006. Le vendite negli Stati Uniti sono

aumentate dai 21 milioni di lampade fluorescenti compatte nel 2000, ai 397 milioni del 2007. Degli

stimati 4,7 miliardi di punti luce negli Stati Uniti, oggi circa un miliardo usa lampade fluorescenti

compatte.

Il mondo si sta indirizzando verso una svolta legislativa diretta alla sostituzione completa delle

lampadine inefficienti. Nel febbraio 2007, l‟Australia ha annunciato di voler progressivamente

sospendere la vendita delle incandescenti per il 2010, sostituendole con lampade fluorescenti

compatte. Successivamente è seguito il Canada con un obiettivo simile per il 2012. All‟inizio del

2009, l‟Unione Europea ha approvato un programma per la sospensione della vendita delle

lampadine incandescenti, capace di far risparmiare ogni anno tra i 25 e i 50 euro al consumatore

europeo.

Il Brasile, colpito da un deficit energetico tra il 2000 e il 2002, ha reagito con un ambizioso

programma di sostituzione delle lampadine a incandescenza con le fluorescenti compatte. Il risultato

è che oggi si stima ne facciano uso la metà dei punti luce in Brasile. Nel 2007, la Cina, in

collaborazione con il Global Environment Facility, ha annunciato un programma di sostituzione

completa entro un decennio delle lampadine a incandescenza con sistemi d‟illuminazione più

efficienti. Anche l‟India sta pianificano l‟eliminazione progressiva delle lampadine a incandescenza

entro il 2012.

I rivenditori stanno partecipando a questo cambiamento. Wal-Mart, la più grande catena di negozi al

mondo, ha lanciato nel 2007 un‟ambiziosa campagna promozionale per portare le proprie vendite

totali di lampadine fluorescenti sul mercato statunitense a oltre 260 milioni di pezzi. Currys, la

maggiore catena di rivenditori di materiale elettrico in Gran Bretagna, è andata anche oltre

interrompendo la vendita delle lampadine a incandescenza nel 2007.

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117

Per gli uffici, i centri commerciali e le industrie, dove i neon sono molto diffusi, la via del risparmio

energetico consiste nella loro sostituzione con modelli più avanzati, anche più efficienti delle

lampade compatte. Dal momento però che i neon hanno un ciclo di vita molto lungo, molti di quelli

utilizzati si affidano ancora a una tecnologia vecchia, con una minore efficienza energetica.

Un altro progresso di grande importanza nell‟illuminotecnica è il diodo a emissione luminosa (LED),

che utilizza fino all‟85% in meno di elettricità rispetto alle lampadine a incandescenza. Nonostante i

LED siano l‟ultima frontiera nell‟efficienza luminosa, presentano un costo ancora elevato per la

maggior parte degli impieghi. Essi stanno comunque rapidamente conquistando quota in numerosi

mercati di nicchia, come ad esempio l‟illuminazione semaforica, dove attualmente coprono il 52%

del mercato statunitense, e l‟illuminazione della segnalazione delle vie d‟uscita negli edifici, per la

quale hanno raggiunto l‟88% delle vendite negli Stati Uniti. La città di New York ha sostituito le

lampadine a incandescenza con i LED in molti semafori, abbattendo i costi energetici e di

manutenzione di 6 milioni di dollari annui. All‟inizio del 2009, il sindaco di Los Angeles Antonio

Villaraigosa ha comunicato che la città avrebbe rimpiazzato i suoi 140 mila lampioni stradali con

LED, facendo risparmiare ai contribuenti 48 milioni di dollari nei prossimi sette anni. La riduzione

nelle emissioni di anidride carbonica che deriva da questi interventi equivale a levare dalla strada

7.000 autoveicoli.

Anche le università stanno partecipando. L‟Università di California-Davis ha dato il via alla Smart

Lighting Initiative. Uno dei suoi primi progetti a concretizzarsi è stato la sostituzione di tutte le

lampadine in un parcheggio del campus con i LED, riducendo drasticamente i consumi elettrici. Il

successo dell‟iniziativa si è evoluto nel “LED University”, un progetto con l‟obiettivo di diffondere

questa tecnologia. Tra i primi ad aver adottato l‟idea troviamo: l‟Università di California-Santa

Barbara, il Politecnico Universitario di Tianjin in Cina e l‟Università dell‟Arkansas.

I LED offrono un altro grande vantaggio economico. Mentre le lampade fluorescenti compatte

durano 10 volte di più di quelle a incandescenza, i LED arrivano a 50 volte tanto. Infatti, un tipico

LED installato al momento della nascita di un bambino funzionerà ancora quando il giovane

terminerà gli studi universitari. I risparmi per le imprese commerciali, sia per le bollette elettriche

basse che per la quasi totale eliminazione dei costi di manutenzione, compensano largamente i

maggiori costi iniziali.

Oltre che con la sostituzione delle lampadine, l‟energia può essere risparmiata semplicemente

spegnendo le luci quando non vengono utilizzate. Ci sono numerose tecnologie per farlo, compresi i

sensori di movimento che spengono le luci negli uffici quando non c‟è nessuno, ma anche nei

soggiorni, nei bagni, nei corridoi e nelle trombe delle scale. Sensori e potenziometri possono anche

essere usati negli ambienti interni per sfruttare la luce naturale in modo da contenere l‟impiego

dell‟illuminazione artificiale. Nelle città i potenziometri possono essere utili pure nella riduzione

dell‟intensità delle luci nelle strade. A conti fatti queste tecnologie intelligenti applicate

all‟illuminazione portano il consumo dei LED a meno del 10% di quanto non richieda una lampadina

a incandescenza.

Per riassumere, il passaggio alle lampade fluorescenti compatte nelle abitazioni, alle tecnologie più

avanzate per i neon negli uffici, nei centri commerciali e nelle fabbriche, e ai LED per i semafori

potrebbe ridurre la quota del consumo elettrico mondiale utilizzata per l‟illuminazione, dal 19 attuale

al 7%. Ciò permetterebbe di risparmiare tanta elettricità da poter chiudere 705 delle 2.670 centrali a

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118

carbone nel mondo. Qualora il costo elevato dei LED scendesse più rapidamente di quanto previsto,

rendendo possibile un‟adozione di massa, i guadagni derivanti dall‟efficienza nell‟illuminazione

sarebbero ancora più consistenti del previsto.

In un mondo che si trova davanti, ormai quotidianamente, a nuove dimostrazioni del cambiamento

climatico e dei suoi effetti, occorre una rapida e decisiva vittoria nella lotta al taglio delle emissioni

di anidride carbonica e alla stabilizzazione del clima. Un passaggio veloce alle più efficienti

tecnologie nell‟illuminazione permetterebbe proprio questa vittoria, dando il via a una spinta ancora

più consistente nella stabilizzazione del clima.

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119

4.2 Apparecchiature elettriche energeticamente efficienti

Così come le lampade fluorescenti compatte permettono notevoli risparmi di energia elettrica rispetto

a quelle a incandescenza, vi sono simili differenze di rendimento per molti elettrodomestici, come ad

esempio i frigoriferi.

L‟Energy Policy Act del 2005 negli Stati Uniti fu concepito proprio per sfruttare alcuni di questi

potenziali di risparmio, innalzando gli standard di efficienza degli elettrodomestici tanto da poter

chiudere 29 centrali elettriche a carbone. Altre disposizioni della legge come incentivi fiscali per

incoraggiare l‟adozione di tecnologie a efficienza energetica, il passaggio a un maggior quantitativo

di produzione combinata di energia elettrica e calore (cogenerazione), l‟adozione di tariffe elettriche

a fasce orarie (una misura che scoraggerà l‟utilizzo dell‟elettricità non necessaria nelle ore di picco

della domanda) dovrebbero ridurre la domanda in modo tale da evitare la costruzione di altre 37

centrali a carbone.

Gli standard di efficienza degli apparecchi elettrici e altri interventi legislativi contribuiranno in

misura sostanziale anche alla contrazione del consumo di gas naturale. Tutte insieme, queste misure

sono progettate per ridurre nel 2020 i consumi elettrici e di gas del settore residenziale di oltre 20

miliardi di dollari.

Sebbene il Congresso degli Stati Uniti abbia approvato leggi mirate a innalzare l‟efficienza di circa

30 categorie di apparecchi domestici e industriali (dai frigoriferi ai motori di taglia industriale) il

Department of Energy (DOE) ha omesso per molti anni la pubblicazione degli standard di

riferimento necessari all‟applicazione della legge.

A fine di porre rimedio a questa situazione, solo pochi giorni dopo l‟insediamento, il Presidente

Barack Obama ha ordinato al DOE di redigere la regolamentazione per rendere operativa la legge.

Nel campo degli elettrodomestici, è in Cina che si svolge la sfida maggiore. Nel 1980 le industrie

cinesi hanno prodotto solo 50 mila frigoriferi, e quasi tutti per uso nazionale; nel 2008 sono stati

assemblati 48 milioni di frigoriferi, 90 milioni di tv a colori, 42 milioni di lavatrici, molti dei quali

per esportazione.

La penetrazione di mercato di questi moderni apparecchi nei contesti urbani della Cina è attualmente

già simile a quella dei paesi industrializzati: ogni 100 abitazioni vi sono 138 tv a colori, 97 lavatrici e

88 condizionatori d‟aria. Persino nelle aree rurali troviamo tv a colori nel 95% delle case e

lavabiancheria nel 46%. La fenomenale crescita della domanda di elettrodomestici in Cina, unita allo

straordinario sviluppo industriale, ha fatto aumentare di undici volte il livello dei consumi nazionali

di elettricità dal 1980 al 2007. Nonostante la Cina abbia definito fin dal 2005 degli standard per la

maggior parte degli elettrodomestici, questi non sono ancora strettamente applicati.

L‟altra maggiore concentrazione di elettrodomestici è nell‟Unione Europea, dove risiedono 495

milioni di persone. Greenpeace fa notare che nonostante gli europei consumino mediamente la metà

di energia elettrica rispetto agli americani, essi hanno anche grandi margini di riduzione dei consumi.

Ad esempio, un frigorifero europeo consuma a malapena la metà di uno americano, ma il modello

più efficiente sul mercato internazionale consuma oggi solo un quarto rispetto a un tipico frigorifero

europeo. Vi è pertanto un grande margine di miglioramento.

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120

Ma il percorso dell‟efficienza non finisce qui, visto che l‟innovazione tecnologica ne aumenta

continuamente il potenziale. Il Top Runner Program giapponese è il sistema più dinamico al mondo

per aggiornare gli standard di efficienza degli elettrodomestici. In questo sistema, il modello con le

migliori performance di oggi impone lo standard di ciò che potrà esser venduto domani. In questo

modo, dalla fine degli anni Novanta alla fine del 2007, il Giappone ha migliorato gli standard di

efficienza degli elettrodomestici, a seconda del tipo, per valori oscillanti dal 15 all‟83%. Questo

processo è in permanente evoluzione poiché sfrutta i miglioramenti tecnologici nel campo

dell‟efficienza energetica. Un rapporto del 2008 indica che il Top Runner Program sta superando le

già ambiziose aspettative, per tutti gli apparecchi e spesso con un ampio margine.

In un‟analisi del potenziale di risparmio energetico al 2030 a seconda del tipo di apparecchio,

l‟Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) pone in cima alla lista il

consumo per lo stand-by, presente anche quando le apparecchiature non sono operative. L‟elettricità

usata nel mondo dagli apparecchi nella modalità di stand-by arriva fino al 10% dei consumi elettrici

totali. A livello di singola unità abitativa, nei paesi dell‟OCSE l‟energia assorbita dallo stand-by si

aggira sui 30 watt mentre negli Usa e in Nuova Zelanda va oltre i 100 watt. Visto che questa energia

elettrica viene richiesta lungo l‟intero arco della giornata, anche se si tratta di un wattaggio basso, il

consumo totale risulta consistente.

Alcuni governi hanno limitato a un watt per apparecchio i valori di potenza di stand-by di televisori,

computer, forni a microonde, lettori CD e DVD e così via. La Corea del Sud, ad esempio, ha

programmato di arrivare al valore di un watt per molti tipi di apparecchi entro il 2010. L‟Australia si

prefigge lo stesso obiettivo entro il 2012 per quasi tutte le apparecchiature.

Uno studio statunitense ha stimato che approssimativamente il 5% della domanda residenziale di

elettricità è da attribuire alle apparecchiature in stand-by. Se questo valore dovesse scendere dell‟1%,

cosa che potrebbe essere fatta facilmente, si avrebbe una riduzione della domanda tale da evitare la

costruzione di 17 centrali a carbone. Se la Cina dovesse ridurre i suoi sprechi si potrebbe evitare la

costruzione di un numero ancora maggiore di centrali.

Una sfida per l‟efficienza si è recentemente affacciata con l‟invasione sul mercato di televisori dotati

di ampio schermo piatto che facilmente consumano il doppio dell‟energia di quelli tradizionali a tubo

catodico. Se lo schermo piatto è un modello al plasma molto grande, può arrivare a utilizzare il

quadruplo dell‟elettricità. Nel Regno Unito, alcuni membri del Consiglio dei ministri stanno

proponendo il bando degli energivori televisori piatti al plasma. La California sta pensando di ridurre

il consumo elettrico di tutti i nuovi televisori di un terzo entro il 2011 e del 49% per il 2013.

I consumatori spesso non acquistano il modello più energeticamente efficiente a causa del più alto

costo iniziale, sebbene questo venga ampiamente ripagato dai ridotti costi operativi lungo il suo arco

di vita. Se, invece, venisse presa in considerazione una carbon tax che riflettesse il costo del

cambiamento climatico, gli elettrodomestici più efficienti diventerebbero molto più convenienti

economicamente. L‟obbligo di esporre un‟etichettatura indicante i consumi energetici aiuterebbe i

consumatori a scegliere più saggiamente.

Uno standard di riferimento mondiale sull‟efficienza degli elettrodomestici, che avesse come

riferimento i modelli più all‟avanguardia sul mercato, porterebbe a un risparmio nel settore delle

apparecchiature domestiche pari o superiore a quel 12% ottenibile con un‟illuminazione efficiente. In

questo modo anche solo i guadagni combinati dati da illuminazione e apparecchiature a maggior

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121

efficienza energetica ci permetterebbero di evitare la costruzione di 1.410 nuove centrali a carbone,

un numero superiore alle 1.283 che l‟International Energy Agency (IEA) stima verranno realizzate

entro il 2020.

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122

4.3 Edifici a emissioni zero

Il settore dell‟edilizia è responsabile a livello mondiale di una buona parte del consumo di energia e

di impiego di materie prime. Negli Stati Uniti gli edifici commerciali e residenziali consumano il

72% dell‟elettricità e sono responsabili del 38% delle emissioni di CO2. Nel mondo, la costruzione

degli edifici utilizza il 40% di tutte le materie prime.

Dato che mediamente gli edifici durano 50-100 anni o più, spesso si considera che il miglioramento

degli standard edilizi in termini di efficienza energetica sia un processo a lungo termine. Ciò non è

vero. Con la riqualificazione energetica (retrofit) di un edificio vecchio e inefficiente si può

risparmiare fino al 20-25% di energia. Se poi a questo si aggiunge, con un passo successivo,

l‟impiego di elettricità che non provochi emissioni climalteranti, prodotta sul posto o acquistata, per

riscaldare, raffrescare o illuminare l‟edificio, si concluderà l‟opera. Subito! Un edificio che opera

senza emissioni di carbonio.

Il settore delle costruzioni e dei beni immobili stanno riconoscendo il valore degli edifici “verdi”.

Una società australiana, la Davis Landgon, ha osservato che è presente un‟aumentata percezione

della “lampante osbsolescenza degli edifici non ecosostenibili”, tale da portare a un‟ondata di

innovazione, sia nel settore edile che in quello immobiliare. Inoltre, Davis Langdon afferma che

“orientarsi verso soluzioni verdi significa dare sicurezza ai propri investimenti”.

Alcuni paesi stanno prendendo impegni concreti. Tra questi, spicca la Germania, che da gennaio

2009 obbliga tutti i nuovi edifici a migliorare drasticamente l‟efficienza energetica o ad

approvvigionarsi da fonti rinnovabili per almeno il 15% dell‟energia utilizzata per il riscaldamento

dell‟acqua e degli ambienti. I proprietari di edifici, sia vecchi che nuovi, hanno a disposizione aiuti

economici statali per l‟installazione di impianti a energia rinnovabile o per migliorare l‟efficienza

energetica. In pratica, una volta che i costruttori e i proprietari di case cominciano a progettare

installazioni di questo genere, essi si rendono conto rapidamente che, nella maggior parte dei casi, sia

economicamente conveniente andare ben oltre gli standard minimi imposti.

Anche negli Stati Uniti si vanno già manifestando segnali di miglioramento. Nel febbraio del 2009, il

Congresso ha approvato e poi il Presidente Barack Obama ha sottoscritto l‟American Recovery and

Reinvestment Act, una legge pensata per stimolare l‟economia degli Stati Uniti. Una prima parte di

questa legge prevede l‟isolamento per oltre un milione di abitazioni, partendo da una valutazione

energetica che identifichi le misure in grado di farne rapidamente calare il consumo di energia. Una

seconda parte della legge si occupa della coibentazione e della riqualificazione energetica di una gran

parte degli edifici residenziali popolari della nazione. Una terza componente di questo intervento

legislativo riguarda il miglioramento dell‟impatto ambientale degli edifici governativi rendendoli più

efficienti energeticamente e installando, dove sia possibile, sistemi come impianti fotovoltaici per la

produzione di energia elettrica e collettori solari termici sul tetto per il riscaldamento degli ambienti

e dell‟acqua. La combinazione di questi progetti ha il fine di facilitare l‟avvio di un nuovo e

massiccio settore produttivo in grado di svolgere un ruolo attivo nell‟aumento dell‟efficienza

energetica degli Stati Uniti e nel conseguente abbattimento delle emissioni di anidride carbonica.

Negli Stati Uniti, tra le aziende private, spicca la Green Building Council (USGBC), un‟associazione

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123

americana per l‟edilizia sostenibile, ben nota per i suoi programmi di certificazione e classificazione

chiamati LEED: Leadership in Energy and Environmental Design. Il suo programma di

certificazione volontaria stabilisce uno standard tanto alto da aver surclassato l‟Energy Star, il

programma di certificazione degli Stati Uniti. LEED prevede quattro livelli: base, silver, gold e

platinum. Un edificio certificato LEED deve rispettare gli standard minimi di qualità ambientale, di

uso dei materiali, di efficienza energetica e di consumo idrico. Gli edifici certificati LEED

attraggono i compratori perché, rispetto agli edifici tradizionali, hanno bassi costi gestionali, alte

rendite e abitanti più soddisfatti e sani.

Gli standard di certificazione LEED per la costruzione di nuovi edifici nascono nel 2000. La

valutazione di un edificio viene effettuata su richiesta del costruttore e dietro il pagamento di un

compenso per la certificazione. Nel 2004, USGBC ha cominciato anche a certificare gli interni degli

edifici commerciali e le migliorie effettuate da proprietari o locatari di edifici esistenti. Nel 2007 ha

dato il via anche a standard di certificazione per i costruttori di singole abitazioni.

Analizzando i criteri della certificazione LEED è possibile ottenere una ampia panoramica dei

diversi modi praticabili per rendere un edificio più efficiente dal punto di vista energetico. Per un

nuovo edificio si parte dalla valutazione del sito di costruzione, quindi si passa all‟efficienza

energetica e dei consumi idrici, per poi considerare anche la qualità dei materiali e dell‟ambiente

interno. Per quanto riguarda la valutazione del sito, viene assegnato un maggior punteggio in caso sia

vicino a un servizio di trasporto pubblico come metropolitane, ferrovie leggere e autobus. Oltre

quanto descritto, un punteggio più alto dipende anche dalla presenza di rastrelliere per le biciclette e

servizi di docce per gli impiegati. I nuovi edifici devono anche massimizzare l‟esposizione alla luce

solare, con un minimo di illuminazione naturale nel 75% dello spazio occupato.

Per quanto riguarda l‟energia, punti addizionali possono essere ottenuti aumentando i livelli di

efficienza richiesti dalla certificazione base. Ulteriori punteggi vengono dati per l‟impiego di

impianti a energia rinnovabile, compresi i moduli fotovoltaici sulla copertura, collettori solari termici

e per l‟acquisto di energia da fonte rinnovabile.

Fino ad oggi, il programma LEED ha certificato 1.600 nuovi edifici negli Stati Uniti, circa altri

11.600 che hanno richiesto la valutazione energetica sono attualmente in costruzione o sotto forma di

progetto. L‟area di edifici commerciali che è stata certificata o registrata per l‟emissione della

certificazione raggiunge un totale di circa 465 milioni di metri quadrati (l‟equivalente di 115 mila

campi di calcio).

Il palazzo degli uffici della Chesapeake Bay Foundation, destinato ai 100 membri del suo staff vicino

Annapolis, nel Maryland, è stato il primo a ottenere una certificazione LEED platino. Tra le sue

caratteristiche spiccano l‟impiego di una pompa di calore geotermica per il riscaldamento e il

raffrescamento, un impianto solare termico sulla copertura e dei servizi igienici accuratamente

progettati per compostare i rifiuti organici, producendo un ricco humus che serve a fertilizzare il

verde che circonda l‟edificio.

Il quartier generale nordamericano della Toyota a Torrance, in California, dove lavorano 2.000

impiegati, vanta una certificazione LEED oro e si distingue per un grande impianto solare

fotovoltaico che produce gran parte dell‟elettricità per l‟edificio. La combinazione di gabinetti che

non richiedono acqua e il riciclo di quella piovana permette all‟edificio di operare con il 94% in

meno di consumo idrico rispetto a un edificio delle stesse dimensioni progettato secondo i criteri

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124

tradizionali. Minore richiesta di acqua significa anche minore energia consumata.

La torre della Bank of America a New York è il primo grande grattacielo che dovrebbe ottenere la

certificazione platino. È dotato di una sua centrale a cogenerazione e raccoglie le acque piovane,

riutilizza quelle di scarico e per la sua costruzione sono stati impiegati materiali riciclati.

Un palazzo per uffici di 60 piani con una classificazione oro sta per essere costruito a Chicago:

utilizzerà l‟acqua del fiume per raffrescare l‟edificio in estate, mentre la copertura verrà occupata da

piante per ridurre le dispersioni idriche e le perdite di calore. Soluzioni per il risparmio energetico

faranno spendere ai proprietari 800 mila dollari all‟anno in meno sulle bollette. L‟inquilino

principale, Kirkland & Ellis LLP, uno studio legale con base a Chicago, ha insistito per l‟ottenimento

dello standard oro e che questa condizione venisse inclusa nel contratto.

Lo stato della California ha commissionato a Capital E, una società di consulenza esperta in edilizia

sostenibile, l‟analisi dei benefici economici nei 33 edifici certificati LEED costruiti nello stato. Lo

studio ha concluso che la certificazione aveva aumentato i costi di costruzione per circa 44 dollari al

metro quadrato, ma poiché i costi operativi così come l‟assenteismo e la turnazione degli impiegati si

erano ridotti e la produttività era aumentata, gli edifici con standard LEED base e argento

dimostravano di fornire un guadagno nel corso dei primi 20 anni di oltre 500 dollari per metro

quadrato, mentre quelli oro e platino di oltre 740 dollari per metro quadrato.

Nel 2002 è nata la versione internazionale della USGBC, il World Green Building Council. Nella

primavera del 2009 raccoglieva gli istituti di Green Building Council di 14 paesi, compresi il Brasile,

l‟India e gli Emirati Arabi Uniti. Altri otto paesi, dalla Spagna al Vietnam, sono impegnati al

raggiungimento dei prerequisiti necessari alla partecipazione. Tra gli attuali membri, l‟India si piazza

seconda nelle certificazioni dopo gli Stati Uniti, con 27 milioni di metri quadrati di area abitabile

certificata LEED, seguita dalla Cina (26 milioni) e il Canada (24 milioni).

Oltre a rendere ecocompatibili le nuove costruzioni c‟è molto anche da fare per rendere più efficienti

gli edifici vecchi. Nel 2007, la Fondazione Clinton ha annunciato un programma di riqualificazioni

energetiche degli edifici denominato “Energy Efficiency Building Retrofit Program” che fa parte del

più ampio progetto della Clinton Climate Initiative. In collaborazione con C40, (un gruppo di grandi

città leader nell‟impegno in campo climatico) questo programma ha unito cinque tra i più importanti

gruppi bancari mondiali e quattro società leader nei servizi energetici (ESCO) a lavorare su di un

gruppo iniziale di 16 città per ristrutturare edifici, riducendone il consumo di energia del 20-50%.

Tra le città coinvolte troviamo alcune delle più grandi del mondo: Bangkok, Berlino, Karachi,

Londra, Città del Messico, Mumbai, New York, Roma e Tokyo. Ognuna delle banche coinvolte

(ABN AMRO, Citi, Deutsche Bank, JP Morgan Chase e UBS) si è impegnata a investire almeno un

miliardo di dollari in questo progetto, sufficiente a raddoppiare l‟attuale numero di riqualificazioni

energetiche nel mondo.

Le quattro ESCO partecipanti, Honeywell, Johnson Controls, Siemens e Trane, hanno il compito non

solo di realizzare la riqualificazione energetica degli edifici, ma devono anche fornire delle garanzie

di prestazione assicurando così che gli interventi effettuati siano convenienti dal punto di vista

economico. Al lancio di questo programma, l‟ex presidente Bill Clinton ha sottolineato che le banche

e le società di servizi avrebbero guadagnato denaro, i proprietari degli edifici avrebbero risparmiato

sulle bollette e le emissioni di CO2 si sarebbero ridotte. Nel febbraio 2009, la Clinton Climate

Initiative era coinvolta in 250 progetti di riqualificazione energetica, per un totale di oltre 46,4

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milioni di metri quadrati di spazio abitabile.

Nell‟aprile del 2009, i proprietari dell‟Empire State Building annunciarono un progetto per la

riqualificazione energetica dei 240 mila metri quadrati dei 102 piani di questo edificio quasi

ottantenne. È prevista una diminuzione di consumo di energia di circa il 40% per un risparmio annuo

di 4,4 milioni di dollari, che andrebbero a coprire le spese di riqualificazione nell‟arco di tre anni.

Oltre a queste misure volontarie, il governo ha fissato per legge standard minimi di efficienza

energetica, che si sono rivelati molto efficaci. Queste norme hanno portato alla luce enormi

differenze nell‟efficienza energetica degli edifici tra la California e la media nazionale statunitense.

Tra il 1975 e il 2002, la domanda energetica residenziale pro capite degli Stati Uniti si è ridotta del

16%. Tuttavia in California, che ha la normativa più severa e restrittiva, il calo è stato del 40%. Da

questi dati è possibile trarre la conclusione che sono possibili enormi riduzioni dei consumi

energetici degli edifici sia negli Stati Uniti, come certamente nel resto del mondo.

Un convinto sostenitore di questo potenziale è Edward Mazria, un architetto del New Mexico attento

alla questione climatica. Mazria, ha proposto un obiettivo per il 2030 denominato “2030 Challenge”.

Il suo principale scopo è quello di far sì che entro questa data tutti gli architetti del paese progettino

edifici che non utilizzino combustibili fossili. Mazria fa notare che il settore edile è quello

maggiormente responsabile delle emissioni di anidride carbonica, in misura nettamente superiore al

comparto dei trasporti. Egli arriva ad affermare “che sono gli architetti che posseggono la chiave per

abbassare il termostato globale”. Per raggiungere questo obiettivo ha costruito una coalizione di

numerose organizzazioni, tra cui l‟American Institute of Architects, la USGBC e la U.S. Conference

of Mayors (la Conferenza dei sindaci statunitensi).

Edward Mazria riconosce la necessità di reimpostare la formazione nelle 124 scuole di architettura

del paese per “trasformare l‟architettura da un affidamento passivo e inconsapevole alle fonti

energetiche fossili a un‟architettura intimamente legata al mondo naturale nel quale viviamo”.

Le soluzioni architettoniche e le tecnologie di costruzione attuali permettono agli architetti di

progettare facilmente nuovi edifici dai consumi dimezzati rispetto al passato. Tra le tecniche di

progettazione vi è lo sfruttamento della luce naturale, la copertura dei tetti con pannelli fotovoltaici e

collettori solari termici per il riscaldamento dell‟acqua per usi sanitari e degli ambienti, gli isolamenti

consistenti, la ventilazione naturale, le pompe di calore geotermiche, gli infissi a taglio termico, i

sanitari a secco, le tecnologie di illuminazione più efficienti e i sensori di presenza per comandare

l‟accensione delle luci. La progettazione e la costruzione di edifici energeticamente efficienti

combinata con una massiccia produzione di energia da fonti rinnovabili rendono l‟esercizio di queste

strutture, non solo possibile, ma anche economicamente conveniente.

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126

4.4 Riorganizzare il sistema dei trasporti

Tra le vie da percorrere per ridurre le emissioni di anidride carbonica va presa in considerazione la

revisione dei sistemi di mobilità urbana (vedi il capitolo 6) e la generale elettrificazione dei mezzi di

trasporto. Il secolo passato ha assistito all‟evoluzione di un sistema di trasporti spinto dal petrolio:

benzina per le automobili e gasolio per autocarri e treni. Oggi tutto questo è in via di trasformazione.

Nelle auto come nel trasporto ferroviario, il petrolio verrà rimpiazzato dall‟elettricità che sarà fornita

in quantità sempre maggiori da centrali eoliche, impianti solari e geotermici. Con il picco del petrolio

alle porte, il mondo ha un disperato bisogno di una nuova economia energetica per i trasporti che

fortunatamente ha le sue fondamenta in due nuove tecnologie: automobili ibride a benzina ed

elettriche di tipo plug-in (ovvero in grado di ricaricarsi anche dalla rete) e automobili completamente

elettriche.

La Toyota Prius l‟auto ibrida più venduta al mondo, riesce a percorrere l‟impressionante cifra di 20

chilometri con un litro di benzina nell‟uso combinato urbano/autostradale, quasi il doppio della

media delle automobili presenti attualmente sul mercato degli Stati Uniti. Si potrebbe facilmente

ridurre della metà l‟uso della benzina semplicemente convertendo il parco auto americano esistente

con auto ibride estremamente efficienti. Ma questo è solo l‟inizio.

Ora che le auto ibride sono ben collaudate, costruire modelli che siano spinti principalmente

dall‟energia elettrica diventa un passo relativamente breve da compiere. Passare alle batterie a ioni di

litio per incrementarne la capacità di accumulazione e aggiungere una prolunga per caricarle dalla

rete elettrica, permetterebbe agli automobilisti di recarsi al lavoro, fare la spesa e coprire altri tragitti

a breve raggio praticamente utilizzando solo elettricità e conservando la benzina per gli occasionali

tragitti di maggiore percorrenza. Ancora più esaltante è sapere che caricare le batterie con l‟energia

elettrica prodotta da centrali eoliche, lontano dalle ore della giornata nelle quali vi è un picco di

richiesta elettrica, costerebbe l‟equivalente di circa 26 centesimi di dollaro al litro.

A metà del 2009, quasi tutti i produttori di automobili avevano annunciato piani per portare sul

mercato auto ibride plug-in o completamente elettriche. Il primo veicolo ibrido plug-in è stato messo

in vendita in Cina nel dicembre 2008. Mentre l‟attenzione mondiale si concentrava sulla

competizione tra Toyota e General Motors, la BYD (Build Your Dreams) cinese senza troppi clamori

aveva già superato i concorrenti, presentando un suo modello di auto ibrida plug-in in produzione e

in vendita a un prezzo altamente competitivo di 22 mila dollari. Si prevede che questa automobile

farà la sua comparsa sui mercati dell‟Europa e degli Stati Uniti nel 2010.

Nel frattempo, la Toyota sembra aver superato la General Motors annunciando il lancio sul mercato

entro la fine del 2009 di un limitato numero di plug-in ibride per settori specifici. Si prevede che la

Chevrolet Volt della General Motors raggiungerà i 63 chilometri con un litro, principalmente grazie

all‟adozione di una batteria più capiente e quindi a una maggiore autonomia elettrica. È la

prospettiva di raggiungere questi livelli di consumo, ridotti fino a tre volte, che sta invogliando i

consumatori a passare alle auto ibride plug-in.

La Nissan si sta concentrando sullo sviluppo di un‟auto completamente elettrica, che pensa di

introdurre sul mercato nel 2010. La Chrysler progetta di produrre una versione elettrica per molti dei

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127

suoi modelli, offrendo ai suoi clienti una scelta completa tra veicoli a benzina o elettrici. Think, una

ditta norvegese, che già costruisce un‟auto completamente elettrica in Norvegia, sta realizzando per

il 2010 un impianto di assemblaggio negli Stati Uniti in grado di produrre fino a 60 mila autoveicoli

elettrici all‟anno.

Il passaggio a veicoli elettrici plug-in e completamente elettrici non richiede nuove e costose

infrastrutture, dato che esistono già reti di distribuzione dell‟energia elettrica e di benzina. Uno

studio del 2006 dell‟U.S. Pacific Northwest National Laboratory ha stimato che oltre l‟80% della

richiesta di energia elettrica di un parco auto plug-in nazionale potrebbe essere soddisfatta

dall‟infrastruttura energetica esistente, dato che la ricarica avverrebbe principalmente nelle ore

notturne, quando è presente un eccesso di produzione. Ciò di cui si avrebbe bisogno è l‟installazione

di colonnine di ricarica nei parcheggi e nei garage, dotandole di un dispositivo per permettere agli

utenti di pagare tramite carta di credito.

Shai Agassi, un imprenditore della Silicon Valley, sta lavorando con la Nissan e i governi di Israele,

Danimarca, Australia, con la Provincia dell‟Ontario in Canada, e negli Stati Uniti con le Hawaii e

l‟area della baia di San Francisco, per realizzare una rete di stazioni di servizio adatta ai veicoli

elettrici. Queste stazioni rimpiazzerebbero le batterie esaurite con altre appena caricate, eliminando i

lunghi tempi di attesa per il processo di ricarica. Allo stato attuale va ancora verificato se

effettivamente il tipico tragitto quotidiano sarà compatibile con l‟investimento necessario alla

sostituzione della batteria.

Mentre il futuro della mobilità cittadina si basa su di un mix di ferrovie leggere, autobus, biciclette,

automobili e spostamenti a piedi, il futuro dei collegamenti tra le città appartiene ai treni ad alta

velocità. Il Giappone è stato pioniere in questo campo: i suoi treni-proiettile trasportano quasi un

milione di passeggeri al giorno e viaggiano a velocità superiori ai 300 chilometri l‟ora, su alcune

delle linee ferroviarie più utilizzate i treni partono ogni tre minuti.

Iniziata nel 1964, con la linea da 520 chilometri da Tokyo a Osaka, la rete ferroviaria ad alta velocità

del Giappone ora si estende per 2.200 chilometri, collegando quasi tutte le principali città. La linea

più utilizzata è proprio quella tra Tokyo e Osaka, dove i treni-proiettile trasportano 413 mila

passeggeri al giorno. Il tempo di percorrenza di due ore e trenta minuti tra le due città equivale a un

percorso automobilistico della durata di 8 ore. I treni ad alta velocità risparmiano tanto in tempo di

percorrenza quanto in energia.

Nonostante i treni proiettile giapponesi abbiano trasportato miliardi di passeggeri in grande comfort

per oltre 40 anni ad alte velocità, non vi è stato neanche un incidente mortale. Il ritardo medio

viaggia sui 6 secondi. Se dovessimo selezionare sette meraviglie del mondo moderno, il sistema di

treni ad alta velocità del Giappone sicuramente potrebbe trovarsi tra queste.

Nonostante la prima tratta ad alta velocità europea, da Parigi a Lione, abbia iniziato a operare non

prima del 1981, da allora sono stati fatti grandi passi in avanti, tanto che nel 2009 vi erano in Europa

oltre 5.000 chilometri di binari ad alta velocità. L‟obiettivo è di triplicarne la lunghezza entro il 2020

ed eventualmente unire in una rete continentale i paesi dell‟Est, come la Polonia, la Repubblica Ceca

e l‟Ungheria.

Se Francia e Germania sono state inizialmente le nazioni capofila nelle linee ferroviarie

intercittadine, anche la Spagna sta rapidamente costruendo la propria rete ad alta velocità. Dopo un

anno dall‟inaugurazione del collegamento tra Barcellona e Madrid, le linee aree interne hanno perso

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circa un quinto dei passeggeri in favore dei treni ad alta velocità. La Spagna progetta di unirsi con i

sistemi ad alta velocità francesi per connettere strettamente la propria linea con la rete europea.

I collegamenti internazionali esistenti, come quello tra Parigi e Bruxelles, sono stati uniti alle linee

tra Parigi e Stoccarda, Francoforte e Parigi, così come tra Parigi e Londra (attraverso il tunnel sotto

la Manica). Nelle nuove linee, i treni viaggiano a oltre 320 chilometri l‟ora. Come fa notare

l‟Economist, “l‟Europa è nel pieno della rivoluzione dei treni ad alta velocità”.

Quando i collegamenti ad alta velocità tra città diventano operativi, il numero di persone che

scelgono di usare il treno aumenta vertiginosamente. Per esempio, da quando la distanza di 310

chilometri tra Parigi e Bruxelles venne coperta da un tragitto ferroviario ad alta velocità di 85 minuti,

la percentuale di coloro che si muovono tra le due città in treno è salita dal 24 al 50%, gli

spostamenti in automobile sono scesi dal 61 al 43%, mentre quelli effettuati per via aerea si sono

praticamente azzerati.

Sui treni ad alta velocità le emissioni di anidride carbonica, a chilometro per passeggero, sono un

terzo di quelle delle automobili e solamente un quarto di quelle degli aerei. Nell‟economia del Piano

B, le emissioni di CO2 prodotte dai treni saranno praticamente nulle, dato che essi verranno

alimentati da elettricità proveniente da fonti rinnovabili. Oltre alla comodità e alla convenienza,

questi collegamenti ferroviari riducono l‟inquinamento dell‟aria, il numero di veicoli in circolazione,

rumore e incidenti; liberano i passeggeri dalla frustrazione della congestione del traffico e delle

lunghe attese in coda per i controlli di sicurezza negli aeroporti.

Rispetto ai treni ad alta velocità c‟è una profonda differenza tra il Giappone e l‟Europa da una parte e

il resto del mondo dall‟altra. Tuttavia la Cina sta cominciando a sviluppare la propria rete ad alta

velocità collegando alcune delle sue città più importanti. Un collegamento ad alta velocità tra

Pechino e Shanghai dovrebbe essere completato entro il 2013 e dimezzerà i tempi di percorrenza in

treno, da 10 a 5 ore. La Cina possiede attualmente circa 6.300 chilometri di ferrovia che permettono

velocità fino ai 200 chilometri orari. Il progetto è quello di triplicare la lunghezza delle linee ad alta

velocità entro il 2020.

Gli Stati Uniti hanno un treno ad “alta velocità”, l‟Acela Express, che unisce Washington, New York

e Boston, ma sfortunatamente né la sua velocità, né la sua affidabilità si avvicinano lontanamente a

quelle dei treni giapponesi ed europei. La buona notizia è che il piano statunitense di iniziativa

economica, contenuto in una legge firmata nel febbraio 2009, prevede circa 8 miliardi di dollari

destinati al decollo di una nuova era del trasporto ferroviario ad alta velocità.

Negli Stati Uniti, la necessità di abbattere le emissioni di anidride carbonica e di prepararsi nello

stesso tempo alla riduzione delle scorte di petrolio impone uno spostamento degli investimenti da

strade e autostrade a favore delle ferrovie. Nel 1956 il Presidente degli Stati Uniti Dwight

Eisenhower diede il via al sistema delle autostrade interstatali, motivandolo per fini di sicurezza

nazionale territoriale. Oggi la minaccia del cambiamento climatico e la scarsità di petrolio sono

entrambi argomenti che motivano la costruzione di un sistema ferroviario elettrico ad alta velocità,

sia per i passeggeri, sia per il trasporto merci. La relativamente esigua quantità di elettricità

supplementare potrebbe provenire da fonti rinnovabili, principalmente da centrali eoliche.

Il sistema ferroviario per il trasporto passeggeri dovrebbe essere progettato sul modello giapponese

ed europeo. Una linea transcontinentale ad alta velocità in grado di viaggiare alla media di 270

chilometri l‟ora renderebbe possibile spostarsi da una costa all‟altra in 15 ore, anche considerando le

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129

fermate nelle principali città lungo il percorso. Contemporaneamente si ravvisa la necessità di

sviluppare una rete elettrificata nazionale dedicata al trasporto merci che possa ridurre sensibilmente

l‟impiego di tir viaggianti su gomma per lunghi percorsi.

Nel novembre 2008 gli elettori in California hanno approvato un referendum per destinare quasi 10

miliardi di dollari alla costruzione di una ferrovia ad alta velocità che unisca il nord con il sud dello

stato. Questa soluzione permetterebbe la riduzione dell‟uso dell‟auto e, unendo le principali città

californiane, l‟eliminazione di molti voli aerei di corto raggio assetati di carburante.

Ogni sforzo mondiale per l‟abbattimento delle emissioni di anidride carbonica del settore dei

trasporti, per essere significativo deve partire dagli Stati Uniti, che da soli consumano più carburante

dei 20 maggiori emettitori messi assieme, compresi Giappone, Cina, Russia, Germania e Brasile. Gli

Stati Uniti con 249 milioni di veicoli sui 912 milioni presenti totalmente nel mondo, non solo

possiedono il più imponente parco automobilistico, ma sono vicini ai valori massimi in chilometri

percorsi per veicolo e prossimi al minimo per quanto riguarda l‟efficienza nei consumi.

Il primo passo per ridurre questo enorme spreco statunitense di carburante è di aumentare i livelli di

efficienza energetica. L‟incremento del 40% degli standard di efficienza entro il 2016, annunciato

dall‟amministrazione Obama nel maggio del 2009, ridurrà notevolmente il consumo di carburante

degli Stati Uniti e lo avvicinerà ai livelli europei e cinesi. Un programma di rottamazione per la

transizione del parco auto statunitense verso veicoli plug-in ibridi, o completamente elettrici,

contribuirebbe a un ulteriore passo in avanti. Inoltre, spostare gli investimenti pubblici dalla

costruzione di autostrade al potenziamento del trasporto collettivo, ridurrebbe il numero di

automobili necessario, avvicinandoci all‟obiettivo di abbattimento delle emissioni di CO2 dell‟80%

entro il 2020.

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130

4.5 Un’economia basata su nuovi materiali

La produzione, la lavorazione e lo smaltimento dei materiali nell‟attuale modello economico dell‟usa

e getta sprecano non solamente materie prime, ma allo stesso tempo energia. In natura i flussi lineari

a senso unico non durano a lungo, e ancor meno possono sopravvivere in un‟economia globale in

espansione. L‟economia basata sull‟usa e getta che si è diffusa nell‟ultima metà del secolo è

un‟aberrazione, un modello destinato a essere cestinato dalla storia.

La possibilità di ridurre drasticamente il consumo di materie prime fu proposta la prima volta in

Germania, inizialmente da Friedrich Schmidt-Bleek nei primi anni Novanta e poi da Ernst von

Weizsäcker, un leader ambientalista membro del Parlamento tedesco. Essi sostenevano la tesi che le

moderne economie industriali avrebbero potuto funzionare molto efficientemente utilizzando

solamente un quarto delle materie prime. Pochi anni dopo, Schmidt-Bleek, il quale fondò il Factor

Ten Institute in Francia, dimostrò che incrementare la produttività delle risorse di un fattore 10 era

nelle capacità tecnologiche e gestionali esistenti, una volta avviata una corretta politica incentivante.

Nel loro libro Dalla culla alla culla: come conciliare tutela dell‟ambiente, equità sociale e sviluppo

(Cradle to Cradle: Remaking the Way We Make Things), l‟architetto americano William

McDonough e il chimico tedesco Michael Braungart giunsero alla conclusione che rifiuti e

inquinamento sono completamente da bandire. “L‟inquinamento”, disse McDonough, “è

l‟espressione di un errore di progettazione”.

Oltre alla riduzione del consumo di materie prime, i risparmi energetici ottenibili con il riciclaggio

sono enormi. L‟acciaio prodotto da scarti riciclati richiede solo il 26% dell‟energia rispetto a quello

ottenuto dai minerali ferrosi. Per l‟alluminio questa cifra scende al solo 4%. Riciclare la plastica

necessita del 20% dell‟energia che serve a sintetizzarla. La carta ne richiede il 64% e con molte

meno sostanze chimiche. Se le quote mondiali di riciclaggio di questi materiali base salissero ai

livelli delle economie più efficienti, le emissioni di anidride carbonica precipiterebbero

drasticamente.

Le attività industriali, comprese la produzione di materie plastiche, fertilizzanti, acciaio, cemento e

carta, incidono per più del 30% sul consumo planetario di energia. Tra i vari settori manifatturieri,

quello petrolchimico, attivo nella produzione di plastiche, fertilizzanti e detergenti, è il più

energivoro poiché consuma un terzo dell‟energia industriale globale.

In conseguenza del fatto che la quota maggiore del carburante fossile usato nell‟industria è impiegato

come materia prima per la sintesi di plastiche e altri materiali, l‟incremento del riciclaggio può

ridurre la necessità di estrarre nuove materie prime. A livello mondiale, incrementando i tassi di

riciclaggio e adottando i sistemi di produzione più efficienti, oggi si potrebbe ridurre del 32%

l‟energia consumata dall‟industria petrolchimica.

L‟industria metallurgica mondiale, con una produzione di oltre 1,3 miliardi di tonnellate nel 2008, è

responsabile del 19% del consumo di energia nel settore manifatturiero. Adottare misure di

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efficienza energetica, come i migliori sistemi di fusione oggi disponibili e il recupero completo

dell‟acciaio usato, potrebbe ridurre del 23% l‟energia consumata nel settore metallurgico.

La riduzione dell‟uso delle materie prime comincia dal riciclaggio dell‟acciaio, la cui richiesta supera

di gran lunga quella di tutti gli altri metalli messi insieme. L‟acciaio viene impiegato principalmente

in tre settori: quello dell‟automobile, degli elettrodomestici e dell‟edilizia. In teoria negli Stati Uniti

tutte le automobili sono riciclate, infatti sono troppo preziose per essere lasciate arrugginire

abbandonate negli sfasciacarrozze. La percentuale di riciclaggio degli elettrodomestici negli Stati

Uniti è stimata intorno al 90%, per le lattine è di circa il 63% e per pilastri e travi nelle strutture delle

costruzioni siamo sul 98%, mentre solo il 65% dell‟acciaio da armatura viene riciclato. L‟acciaio

recuperato ogni anno da varie fonti è comunque sufficiente a soddisfare il fabbisogno dell‟industria

automobilistica statunitense.

Il riciclaggio dell‟acciaio iniziò a prender piede più di una generazione fa con l‟avvento del forno

elettrico ad arco, tecnologia che produce acciaio partendo dai rottami e utilizzando solamente un

quarto dell‟energia necessaria per ottenerlo dal materiale grezzo. Oltre metà della produzione di

acciaio in più di 20 paesi proviene da acciaio di recupero processato in forni elettrici ad arco. Alcuni

paesi, compresi il Venezuela e l‟Arabia Saudita, impiegano questa tecnologia per tutta la loro

produzione di acciaio. Se i tre quarti della produzione di acciaio provenisse da forni elettrici ad arco

utilizzando materiale di recupero, l‟impiego di energia nell‟industria metallurgica potrebbe essere

ridotto di quasi il 40%.

L‟industria del cemento, che nel 2008 ne ha prodotto 2,9 miliardi di tonnellate, ha anch‟essa un ruolo

importante nel consumo di energia. La Cina, vicina alla metà della produzione mondiale, non solo

produce più cemento dei 20 maggiori paesi produttori messi assieme, ma lo fa con straordinaria

inefficienza. Se la Cina adottasse le stesse tecnologie dei forni del Giappone, potrebbe ridurre del

45% l‟energia destinata ai cementifici. A livello mondiale, se tutti i produttori di cemento

utilizzassero il più efficiente processo dei forni a secco, il consumo di energia nei cementifici

potrebbe essere abbattuto del 42%.

Anche la riorganizzazione del sistema dei trasporti possiede un grande potenziale nella riduzione del

consumo di materie prime. Ad esempio, nel caso del potenziamento del trasporto collettivo si

consideri che un autobus da 12 tonnellate può sostituire 60 automobili che pesano 1.500 chilogrammi

cadauna per un totale di 90 tonnellate, permettendo quindi una riduzione dell‟87% nel consumo di

materiali. Ogni volta che qualcuno decide di sostituire un‟automobile con una bicicletta il consumo

di materiali cala del 99%.

La grande sfida per il risparmio energetico nelle città è rappresentata dal riciclaggio del maggior

numero possibile delle varie componenti dei rifiuti. Teoricamente tutti i prodotti di carta oggi

possono essere riciclati e quindi, oltre a quotidiani e riviste, le scatole dei cereali, le pubblicità

spedite via posta e le buste di carta. Nella stessa maniera il riciclaggio è possibile anche per i metalli,

il vetro e la maggior parte delle plastiche.

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132

Le economie industriali avanzate con una popolazione numericamente stabile, come quelle in Europa

e in Giappone, possono contare prima di tutto sul quantitativo di materiali già in circolazione

piuttosto che usare materia prima grezza. I metalli come l‟acciaio e l‟alluminio possono essere usati e

riciclati all‟infinito.

Negli Stati Uniti, l‟ultimo rapporto sullo stato della gestione dei rifiuti (State of Garbage in America)

mostra che il 29% dei rifiuti viene riciclato, il 7% è incenerito e il 64% finisce in discarica. I tassi di

riciclaggio tra le varie città statunitensi varia da meno del 30% a più del 70% in San Francisco, il più

alto della nazione. Quando San Francisco raggiunse la quota del 70% nel 2008, il sindaco Gavin

Newsom annunciò immediatamente un piano per arrivare al 75%. Tra le grandi città degli Stati Uniti,

i tassi di riciclaggio variano dal 34% di New York al 55% di Chicago, al 60% di Los Angeles. A

livello statale, la Florida ha concretamente fissato un obiettivo del 75% di riciclaggio dei rifiuti entro

il 2020.

Uno dei metodi più efficaci per incoraggiare il riciclaggio è quello di prevedere una tassa sulla

frazione conferita in discarica. Ad esempio quando lo stato del New Hampshire adottò un sistema di

pagamento che spingeva i comuni a tassare i propri residenti secondo il numero di buste di rifiuti

prodotte (pay-as-you-throw), il flusso di materiali verso la discarica calò drasticamente. Nella piccola

città di Lyme, con quasi 2.000 abitanti, l‟introduzione di un sistema tariffario basato sul quantitativo

conferito in discarica, ha aumentato la quota di rifiuti riciclati dal 13 al 52%.

La quantità di materiale riciclato a Lyme, che è balzata dalle 89 tonnellate del 2005 alle 334 del

2006, comprende: cartone ondulato, venduto a 90 dollari a tonnellata; carta, 45 dollari a tonnellata;

alluminio, 1.500 dollari a tonnellata. Questo programma riduce i costi di gestione della discarica

cittadina e contemporaneamente genera un flusso di cassa dalla vendita di materiale riciclato.

In aggiunta alle misure che incentivano il riciclaggio dei materiali, ci sono quelle che incoraggiano o

obbligano il riuso dei prodotti come i contenitori per le bevande. La Finlandia, per esempio, ha

proibito l‟uso di contenitori usa e getta per le bibite. Sulla costa orientale del Canada, l‟isola di

Prince Edward ha adottato un divieto simile su tutti i contenitori per bevande che non siano

riutilizzabili. Il risultato in entrambi i casi è una brusca riduzione del flusso dei rifiuti verso le

discariche. Una bottiglia di vetro richiede, ogni volta che viene riutilizzata, quasi il 10% dell‟energia

impiegata per riciclare una lattina di alluminio. Pulire, sterilizzare e rietichettare una bottiglia usata

richiede poca energia in confronto al riciclaggio delle lattine di alluminio che fondono a 660 °C.

Vietare i contenitori non riutilizzabili è un‟opzione cinque volte conveniente: per la contemporanea

riduzione dell‟uso di materie prime, di emissioni di anidride carbonica, del flusso di rifiuti verso le

discariche, dell‟inquinamento di aria e acqua. A ciò si aggiungano i risparmi di carburante per il

trasporto, dato che i contenitori riutilizzabili vengono semplicemente raccolti dai camion delle

consegne e riportati agli impianti di imbottigliamento.

San José in California, incentivando le pratiche del riutilizzo e del riciclaggio, impedisce che il 62%

dei propri rifiuti urbani finisca in discarica e attualmente sta spostando la propria attenzione

sull‟ingente flusso di materiale di scarto proveniente da cantieri edili e demolizioni. Questo materiale

viene trasportato a una delle circa 24 aziende cittadine specializzate nel riciclaggio. Ad esempio, fino

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133

a 300 tonnellate di macerie al giorno vengono consegnate alla Premier Recycle; qui il materiale

viene abilmente separato in calcinacci, rottami metallici, legno e plastiche. Alcuni materiali sono

venduti, altri regalati e per quelli rimanenti qualcuno viene pagato affinché li ritiri.

Prima che si avviasse questo programma, solamente 100 mila tonnellate di materiali da costruzione e

da demolizione venivano riutilizzate o riciclate ogni anno, ora si è intorno al mezzo milione. Il

metallo di scarto che viene recuperato è indirizzato a impianti di riciclaggio, il legno può essere

trasformato in compost per giardini o in cippato per alimentare centrali elettriche, i calcinacci

possono essere impiegati nelle massicciate stradali. Quando un edificio viene disassemblato anziché

demolito, la maggior parte dei materiali può essere riutilizzata o riciclata, riducendo così in maniera

drastica la domanda di energia e le emissioni di anidride carbonica. San Josè sta diventando un

modello per le città di tutto il mondo.

La Germania, e più recentemente il Giappone, stanno richiedendo che i prodotti come le automobili,

gli elettrodomestici, gli arredi per l‟ufficio siano progettati per un facile smontaggio e riciclaggio.

Nel maggio 1998 il parlamento giapponese ha votato una legge severa sul riciclaggio delle

apparecchiature che ha proibito di gettare gli elettrodomestici, come lavatrici, tv o condizionatori

d‟aria, facendo sostenere ai cittadini il costo del disassemblaggio sotto forma di un contributo alle

aziende di riciclaggio che può arrivare a 60 dollari per un frigorifero o 35 dollari per una lavatrice.

Ciò ha portato a una forte spinta a progettare elettrodomestici che siano più agevolmente ed

economicamente smontabili.

Poiché ormai il progresso della tecnologia fa sì che i computer diventino obsoleti in pochi anni, il

poterli velocemente disassemblare e riciclare è una sfida fondamentale nell‟ottica di un‟economia

sostenibile. In Europa, le aziende informatiche si stanno chiaramente orientando verso il riuso dei

componenti di maggiore durata dei computer. Poiché la legge europea obbliga i produttori a pagare

per la raccolta, lo smontaggio e il riciclaggio dei materiali tossici delle apparecchiature informatiche,

i fabbricanti hanno cominciato a concentrare l‟attenzione su come smontare ogni cosa, dai computer

ai cellulari. La finlandese Nokia, per esempio, ha progettato un telefono cellulare che si smonterà

virtualmente da solo.

Sul fronte dell‟abbigliamento, Patagonia, un marchio sportivo, ha avviato un programma di

riciclaggio degli abiti a cominciare dai suoi capi in fibra poliestere. Lavorando con Teijin, un‟azienda

giapponese, Patagonia ora sta riciclando non solo i capi in poliestere che vende, ma anche quelli dei

suoi concorrenti. Patagonia ha stimato che un indumento fatto con poliestere riciclato, che è

indistinguibile dall‟iniziale poliestere prodotto dal petrolio, utilizzi meno di un quarto dell‟energia. A

fronte di questo successo, Patagonia ha esteso l‟attività di riciclaggio alle magliette di cotone e agli

indumenti di nylon e lana.

La rigenerazione è un‟altra attività addirittura più efficiente nella quale la Caterpillar si è affermata

come leader nel settore dell‟industria pesante. In una fabbrica a Corinth, Mississipi, ogni giorno si

riciclano qualcosa come circa 17 camion carichi di motori diesel. Ritirati dai clienti di Caterpillar,

vengono smontati a mano da operai che non buttano via un solo componente, nemmeno un bullone o

una vite. Una volta disassemblato, il motore viene poi rimontato con tutte la parti rimesse a nuovo. Il

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134

comparto di rigenerazione di Caterpillar sta guadagnando oltre un miliardo di dollari l‟anno nelle

vendite e cresce del 15% ogni anno, contribuendo significativamente al bilancio della compagnia.

Un‟altra industria emergente è il riciclaggio degli aerei di linea. Daniel Michaels scrive nel Wall

Street Journal che Boeing e Airbus, che hanno costruito aerei di linea in competizione per quasi 40

anni, ora sono in gara per la leadership nell‟efficienza dello smantellamento. La prima tappa è

smontare dall‟aereo le componenti smerciabili, come i motori, i carrelli di atterraggio e centinaia di

altri parti. Per un jumbo jet, queste componenti principali hanno un valore di rivendita complessivo

anche di 4 milioni di dollari. Successivamente si passa allo smantellamento finale e al riciclaggio

dell‟alluminio, del rame, della plastica e di altri materiali. Poco tempo dopo questo stesso alluminio

si ritrova in automobili, biciclette o altri aerei di linea.

L‟obiettivo è quello di riciclare il 90% dell‟aeroplano e forse un giorno il 95% e più. Con più di

3.000 aerei, questa flotta in pensione si è trasformata nell‟equivalente di una miniera di alluminio.

Un‟altra alternativa per abbattere le emissioni di CO2 è quella di disincentivare le attività ad alto

consumo energetico che non siano necessarie. L‟industria dell‟oro, quella dell‟acqua imbottigliata e

dei sacchetti di plastica sono degli esempi rappresentativi. La produzione di 2.380 tonnellate all‟anno

di oro, la maggior parte delle quali impiegata nell‟oreficeria, richiede la lavorazione di 500 milioni di

tonnellate di minerali. Per fare un confronto, mentre una tonnellata di acciaio richiede la lavorazione

di 2 tonnellate di minerale grezzo, per una tonnellata di oro è necessario lo straordinario quantitativo

di 200 mila tonnellate di minerale grezzo. L‟industria di lavorazione dei minerali auriferi consuma

una quantità di energia enorme ed emette tanta CO2 quanto 5,5 milioni di automobili.

In un mondo che sta tentando di stabilizzare il clima, è molto difficile da giustificare

l‟imbottigliamento dell‟acqua, che spesso equivale all‟acqua di rubinetto, il suo trasporto su lunghe

distanze e la vendita a prezzi assurdi. Sebbene un abile marketing teso a minare la fiducia nella

qualità e sicurezza degli acquedotti cittadini abbia convinto molti consumatori che l‟acqua in

bottiglia è più sicura e salutare di quella che viene erogata dai loro rubinetti, uno studio dettagliato

del World Wide Fund for Nature non è riuscito a trovarne alcuna conferma. Piuttosto sottolinea che

negli Stati Uniti e in Europa la normativa che regola la qualità dell‟acqua corrente è più stringente di

quella venduta nelle bottiglie. Per la popolazione dei paesi in via di sviluppo, dove l‟acqua è

malsana, è molto più economico far bollire o filtrare l‟acqua che comprarla imbottigliata.

Produrre circa 28 miliardi di bottiglie di plastica per l‟acqua negli Stati Uniti richiede l‟equivalente

di 17 milioni di barili di petrolio. Se da un lato l‟acqua del rubinetto è trasportata attraverso una rete

ad alta efficienza energetica, quella imbottigliata è trasportata da camion, a volte per centinaia di

chilometri. Se si comprende l‟energia che serve al trasporto verso i punti vendita e alla

refrigerazione, il settore statunitense dell‟acqua imbottigliata consuma circa 50 milioni di barili di

petrolio ogni anno, abbastanza da alimentare 3 milioni di auto per un anno.

La buona notizia è che le persone stanno cominciando a rendersi conto di quanto quest‟industria sia

distruttiva per il clima e di quali sprechi comporti. I sindaci delle città degli Stati Uniti si stanno

rifiutando di spendere milioni di dollari dei contribuenti per comprare a prezzi esorbitanti acqua

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135

imbottigliata per i loro dipendenti, quando è già disponibile quella di rubinetto di ottima qualità. Il

sindaco di Salt Lake City, Rocky Anderson, ha evidenziato “la completa assurdità e

l‟irresponsabilità, sia economica che ambientale, nell‟acquisto e l‟impiego di acqua imbottigliata,

quando abbiamo una sorgente sicura e perfettamente sana dal rubinetto”.

Newsom, il sindaco di San Francisco, ha proibito l‟uso dei fondi comunali per l‟acquisto di acqua

imbottigliata. Altre città che stanno seguendo simili strategie sono Los Angeles, Salt Lake City e St.

Louis. La città di New York ha lanciato una campagna pubblicitaria da 5 milioni di dollari per

promuovere la sua acqua di rubinetto, liberandosi così dall‟acqua in bottiglia e dalla flotta di camion

che congestionava il traffico. In risposta a iniziative come queste, le vendite statunitensi di acqua

imbottigliata hanno cominciato a calare dal 2008.

Come le bottiglie per l‟acqua, anche le buste di plastica usa e getta sono ottenute da combustibili

fossili, possono richiedere secoli per decomporsi e sono quasi sempre non necessarie. In aggiunta a

iniziative locali, molti governi nazionali si stanno indirizzando verso il divieto completo o a forti

limitazioni al loro uso, tra cui Cina, Irlanda, Eritrea, Tanzania e la Gran Bretagna.

In definitiva, esiste un potenziale vasto e globale per abbattere le emissioni di anidride carbonica

attraverso la riduzione dell‟uso delle materie prime a partire dai metalli principali, l‟acciaio,

l‟alluminio e il rame, il riciclaggio dei quali richiede solo una frazione dell‟energia necessaria per

produrli a partire dal materiale grezzo. Continua con la progettazione di automobili, elettrodomestici

e prodotti elettronici, in maniera tale da poter essere smontati facilmente nelle loro componenti per

riutilizzarli o riciclarli, e si conclude evitando l‟uso di prodotti superflui.

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136

4.6 Reti più intelligenti, apparecchi e consumatori

Sempre più operatori elettrici stanno cominciando a realizzare che la costruzione di grandi centrali

solamente per gestire i picchi di consumo giornalieri e la domanda stagionale è una maniera molto

costosa di gestire un sistema elettrico. Le reti elettriche esistenti sono costituite dalla somma di reti

locali che sono nello stesso tempo inefficienti, dispendiose e spesso inadeguate perché incapaci, ad

esempio, di spostare la sovrapproduzione elettrica verso aree che ne hanno bisogno. La rete di

distribuzione statunitense assomiglia oggi al sistema stradale e autostradale della metà del XX

secolo, prima che fosse costruita la rete delle autostrade interstatali. Quello di cui abbiamo bisogno

oggi è un modello basato sul sistema delle autostrade interstatali applicato all‟energia elettrica.

L‟impossibilità di portare elettricità a basso costo ai consumatori, a causa della congestione delle

linee di trasmissione, ha ripercussioni economiche simili a quelle associate alle congestioni del

traffico. La mancanza di capacità di distribuzione nella parte orientale degli Stati Uniti si stima costi

ai consumatori 16 miliardi di dollari l‟anno solamente in questa regione.

Negli Stati Uniti, una solida rete nazionale permetterebbe all‟energia elettrica di essere spostata

continuamente dalle regioni con sovrapproduzione a quelle in deficit, riducendo così la capacità

generativa totale necessaria. Cosa ancora più importante, la nuova rete collegherebbe regioni ricche

di energia eolica, solare e geotermica con le aree di consumo. Una rete nazionale, attingendo da una

gran varietà di fonti di energia rinnovabile, sarebbe essa stessa un fattore di stabilizzazione.

Tuttavia, la costruzione di robuste reti nazionali che possano spostare elettricità se necessario e che

mettano in collegamento le nuove fonti energetiche con i consumatori è solo metà della battaglia.

Anche le reti locali e gli apparecchi elettrici devono diventare “più intelligenti”. In termini più

semplici, una rete intelligente sfrutta gli avanzamenti dell‟informatica, integrando questa tecnologia

nella generazione, nel trasporto e nell‟uso finale dell‟elettricità, permettendo alle compagnie

elettriche di comunicare direttamente con i consumatori e, se questi ultimi lo consentono, con i loro

elettrodomestici.

Le tecnologie delle reti intelligenti possono ridurre il numero delle interruzioni di fornitura e delle

fluttuazioni che costano, secondo l‟Electric Power Research Institute, all‟economia statunitense circa

100 miliardi di dollari all‟anno. In uno studio eccellente del 2009 elaborato dal Center for American

Progress, “Wired for Progress 2.0: Building a National Clean-Energy Smart Grid” (Cablati per il

progresso 2.0: costruire una rete elettrica nazionale intelligente a energia pulita), Bracken Hendricks

sottolinea il vasto potenziale di incremento dell‟efficienza della rete ottenibile con l‟adozione di

numerose tecnologie informatiche: “un punto fondamentale sarebbe lo stimolo all‟uso diffuso di

sincrofasori per monitorare in tempo reale il voltaggio e la corrente lungo la rete elettrica. È stato

stimato che un migliore uso di questo tipo di informazioni in tempo reale lungo l‟intera rete elettrica,

potrebbe permettere un miglioramento dell‟efficienza energetica negli Stati Uniti di almeno il 20%”.

Questo e molti altri esempi ci danno un‟idea del potenziale insito nell‟incremento dell‟efficienza di

rete.

Una rete intelligente non solamente distribuisce l‟elettricità in maniera più efficiente in termini

geografici; essa permette anche la distribuzione dell‟elettricità nel tempo, per esempio, dai periodi di

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137

picco della domanda ai momenti di calo. Raggiungere questo obiettivo significa lavorare con

consumatori dotati di “contatori intelligenti” per vedere esattamente quanta elettricità è richiesta in

un determinato momento. Ciò rende possibile la comunicazione bilaterale tra la società elettrica e il

consumatore in maniera da farli cooperare per la riduzione della domanda di picco in un modo

conveniente per entrambi. Inoltre, permette l‟uso di contatori bidirezionali cosicché gli utenti in

possesso di un impianto solare fotovoltaico o di una propria turbina eolica possano vendere l‟energia

in sovrapproduzione al fornitore elettrico.

Contatori intelligenti accoppiati con elettrodomestici intelligenti, in grado di ricevere segnali dalla

rete, permettono di rimodulare la domanda elettrica lontano dal periodo di picco. Oltretutto, i

maggiori costi dell‟elettricità durante i momenti di massima richiesta spingono i clienti a cambiare le

loro abitudini, migliorando di conseguenza l‟efficienza del mercato. Per esempio, una lavastoviglie

può essere programmata per entrare in funzione alle 3 del mattino invece che alle 8 di sera, quando la

domanda energetica è decisamente minore, oppure i condizionatori d‟aria possono essere spenti per

un breve periodo per ridurre il carico di domanda.

Un altro tipo di approccio, introdotto per primo in Europa, può raggiungere lo stesso obiettivo, ma

usa una tecnologia diversa. In ogni rete locale, c‟è un minimo margine di fluttuazione nell‟elettricità

distribuita. Un gruppo di ricerca italiano sta testando dei frigoriferi che possono monitorare il flusso

di rete e, quando la domanda aumenta o la fornitura cala, semplicemente possono spegnersi per un

periodo di tempo sufficiente. Un articolo sul New Scientist dimostra che, se questa tecnologia

venisse applicata ai 30 milioni di frigoriferi installati in Gran Bretagna, la domanda di picco si

ridurrebbe di 2.000 megawatt di capacità generativa, permettendo al paese di spegnere quattro

centrali termoelettriche a carbone.

Un approccio simile potrebbe essere adottato dagli impianti di condizionamento d‟aria, sia negli

edifici commerciali che in quelli residenziali. Karl Lewis, direttore esecutivo di GridPoint, una

società statunitense che progetta reti intelligenti, dichiara che “si può spegnere il compressore in un

impianto di condizionamento di un utente per 15 minuti senza modificare la temperatura

nell‟abitazione”. L‟aspetto fondamentale di una rete intelligente è che un modesto investimento in

tecnologie informatiche può ridurre la domanda di picco, producendo sia risparmi in elettricità che

una conseguente riduzione delle emissioni di anidride carbonica.

Alcune società elettriche stanno sperimentando per prime la tariffazione a tempo dell‟elettricità,

fissando un prezzo ben più basso per la fornitura lontana dai momenti di picco, rispetto a quelli

durante i quali avviene il massimo della domanda. Allo stesso modo, nelle regioni con temperature

estive più elevate si registra spesso un costoso aumento della domanda stagionale. La Baltimore Gas

and Electric (BGE), per esempio, ha avviato un programma pilota nel 2008 nel quale gli utenti che vi

partecipavano permisero all‟operatore elettrico di spegnere i loro condizionatori a intervalli

selezionati duranti i giorni più caldi in cambio di un generoso rimborso per l‟energia risparmiata.

Il prezzo per quella regione è di circa 14 centesimi di dollaro per kilowattora. Tuttavia, per un

kilowattora risparmiato durante le ore di picco nei giorni di massima domanda, gli utenti venivano

pagati fino a 1,75 dollari, più di 12 volte tanto. In questa maniera, se risparmiavano 4 kilowattora di

elettricità in un pomeriggio, ricavavano un credito di 7 dollari sulla loro bolletta elettrica. Gli utenti

ridussero il loro consumo elettrico di picco di un terzo, spingendo BGE a progettare un programma

simile con tecnologie anche più “intelligenti” per l‟estate del 2009.

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Negli Stati Uniti il passaggio ai contatori intelligenti sta procedendo alacremente, con circa 28

società elettriche che hanno in programma la loro messa in opera nei prossimi anni. Come capofila

troviamo le due più grandi compagnie elettriche della California, la Pacific Gas e la Electric and

Southern California Edison, rispettivamente con 5,1 e 5,3 milioni di utenti, e che stanno pianificando

la copertura totale dei loro clienti entro il 2012. Entrambi offriranno una tariffazione variabile al fine

di ridurre il consumo durante il picco. Tra le molte altre società elettriche che mirano alla

sostituzione totale ci sono l‟American Electric Power nel Midwest (5 milioni di utenti) e la Florida

Power and Light (4,4 milioni di utenti).

Anche in Europa, con in testa la Finlandia, si stanno installando contatori di questo tipo. Una società

di ricerca svedese, la Berg Insight, prevede che l‟Europa avrà 80 milioni di contatori intelligenti

operativi entro il 2013.

Sfortunatamente, il termine “contatori intelligenti” descrive un‟ampia gamma di contatori, a partire

da quelli che forniscono al cliente semplicemente dati in tempo reale sul consumo elettrico, ai

modelli in grado di permettere una comunicazione bilaterale tra l‟azienda fornitrice e il cliente o

persino tra l‟azienda e i singoli elettrodomestici. Quel che va sottolineato è che, più intelligente è il

contatore, maggiori saranno i risparmi.

Sfruttare i progressi nelle tecnologie informatiche per aumentare nello stesso tempo l‟efficienza della

rete, dei sistemi di distribuzione e dell‟uso dell‟elettricità è di per sé una mossa intelligente. In parole

povere, una rete intelligente combinata a contatori sofisticati permette di essere molto più efficienti,

sia alle società elettriche che ai consumatori.

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4.7 Il potenziale dei risparmi energetici

L‟obiettivo di questo capitolo era quello di identificare soluzioni in grado di compensare quel 30% di

aumento del fabbisogno energetico prospettato dalla International Energy Agency (IEA) tra il 2006 e

il 2020. Io e i miei colleghi siamo fiduciosi che le misure proposte andranno anche oltre

l‟annullamento della crescita prevista della domanda energetica.

Passare a un‟illuminazione più efficiente energeticamente può far calare la domanda elettrica

mondiale del 12%. Per quanto concerne le apparecchiature, la chiave per aumentare l‟efficienza

energetica è quella di stabilire degli standard internazionali che rispecchino i modelli più efficienti

sul mercato, aumentando regolarmente questo livello man mano che le tecnologie progrediscono.

Questo è in realtà non altro, se non la versione globale del programma giapponese Top Runner per

aumentare l‟efficienza degli elettrodomestici. Questo intervento ha delle potenzialità tali da

permettere un risparmio energetico entro il 2020 almeno corrispondente ai risparmi nel settore

dell‟illuminotecnica. La combinazione di lampadine ed elettrodomestici più efficienti, con una rete

intelligente che usa tariffe diversificate in funzione dell‟orario, sensori di picco della domanda e le

molte altre tecnologie descritte in questo capitolo, aprono enormi possibilità per ridurre sia la

richiesta globale di elettricità che il suo picco di domanda.

È facile sottostimare il potenziale per la riduzione della domanda elettrica. Negli Stati Uniti, il Rocky

Mountain Institute calcola che se almeno i 40 stati peggiori nella lista dell‟efficienza energetica,

raggiungessero i primi 10 più virtuosi, la domanda di elettricità nazionale potrebbe essere abbattuta

di un terzo. Ciò permetterebbe la chiusura del 62% delle centrali elettriche a carbone degli Stati

Uniti. Tuttavia, anche i paesi più efficienti hanno un sostanziale potenziale di risparmio aggiuntivo

del consumo elettrico e certamente stanno pianificando di continuare a ridurre le emissioni di CO2 e

risparmiare denaro.

Per quanto riguarda i mezzi di trasporto, la chiave a breve termine per la riduzione della richiesta di

petrolio e delle emissioni di anidride carbonica, si identifica nel passaggio ad automobili efficienti a

basso consumo di carburante (compresi i veicoli elettrici), diversificando i sistemi di trasporto

urbano e costruendo linee ferroviarie ad alta velocità tra le città, modellate sull‟esempio di quelle

giapponesi ed europee. Questo passaggio da sistemi di trasporto basati sull‟automobile a sistemi

diversificati si manifesta nelle azioni di centinaia di sindaci in tutto il mondo che affrontano ogni

giorno la congestione del traffico e l‟inquinamento dell‟aria. Si stanno inventando soluzioni

ingegnose per limitare non soltanto l‟uso dell‟automobile, ma anche la sua vera e propria necessità.

Al calare della presenza delle auto nelle zone urbane, la natura della città stessa cambierà.

All‟interno del settore industriale il potenziale per la riduzione del consumo di energia è grande.

Nell‟industria petrolchimica, passare alle più efficienti tecnologie di produzione attualmente

disponibili e riciclare più plastica rende possibile una riduzione del 32% della domanda di energia.

Per quanto riguarda l‟industria metallurgica, i miglioramenti nell‟efficienza produttiva possono

ridurre i consumi del 23%. Risparmi ancora maggiori sono a portata di mano nella produzione del

cemento: solamente con l‟adozione di migliori tecnologie come il forno a secco, si prevedono

risparmi del 42%.

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Relativamente al settore edile, persino negli edifici più antiquati esiste una redditizia possibilità di

risparmio energetico poiché le riqualificazioni energetiche possono abbattere i consumi del 20-50%.

Come abbiamo sottolineato, una riduzione dei consumi di energia, combinata con l‟utilizzo di

elettricità verde per riscaldare, raffrescare e illuminare l‟edificio sta a significare che è possibile

realizzare edifici a emissioni zero più facilmente di quanto si possa immaginare.

Un modo semplice per raggiungere questi risultati passa attraverso una tassa sulle emissioni di

anidride carbonica (carbon tax), che aiuterebbe a porre l‟attenzione sui reali costi insiti del bruciare

carburanti fossili. Si suggerisce di incrementare l‟imposta sulla CO2 di 20 dollari a tonnellata ogni

anno per i prossimi 10 anni, fino a un totale di 200 dollari (in media 55 dollari a tonnellata). Sebbene

questa cifra possa apparire eccessiva, in realtà non riesce nemmeno a coprire tutti i costi indiretti dei

carburanti fossili, purtuttavia incoraggia lo stanziamento di investimenti, sia nell‟efficienza

energetica che nelle fonti di energia a emissioni zero.

Nel tentativo di migliorare l‟efficienza energetica, come descritto in questo capitolo, abbiamo trovato

delle piacevoli sorprese nello scoprire il vasto potenziale esistente per realizzarla. Adesso sposteremo

l‟attenzione verso lo sviluppo delle fonti di energia rinnovabile del pianeta, dove vi sono altrettante

fantastiche possibilità.

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5. STABILIZZARE IL CLIMA: PASSARE ALLE ENERGIE RINNOVABILI

In questi anni, mentre il prezzo dei combustibili fossili aumenta, l‟incertezza per il futuro delle

risorse petrolifere si acuisce e le preoccupazioni per il cambiamento climatico proiettano un‟ombra

sul futuro del carbone, è in via di affermazione una nuova economia energetica. Quella vecchia,

basata sul petrolio, il carbone e il gas naturale, sta per essere rimpiazzata da una basata sull‟energia

eolica, solare e geotermica. Nonostante la crisi economica globale, questa transizione energetica sta

avanzando in tutto il mondo a una velocità e su una scala inimmaginabili anche solo due anni fa.

Il Texas, uno stato famoso per aver a lungo primeggiato nella produzione del petrolio negli Stati

Uniti, ora domina anche nel campo della generazione eolica, avendo superato la California tre anni

fa. In Texas sono stati installati 7.900 megawatt di potenza eolica, ulteriori 1.100 sono in fase di

realizzazione e un‟enorme quantità è in via di sviluppo. Quando tutti questi parchi eolici saranno

completati, saranno disponibili 53 mila megawatt di potenza eolica, la stessa erogabile da 53 centrali

a carbone e sufficiente a soddisfare i fabbisogni energetici per usi residenziali di 24 milioni di

persone. Inoltre, il Texas avrà la possibilità di esportare energia, esattamente come è accaduto finora

con il petrolio.

Il Texas non è un‟eccezione. In Sud Dakota, uno stato a bassissima densità demografica e ricco di

vento, è iniziato lo sviluppo di un parco eolico da 5.050 megawatt (un megawatt di eolico produce

elettricità per 300 famiglie americane) che, una volta completato, produrrà circa 5 volte il fabbisogno

energetico dei 796 mila abitanti dello stato. Dieci stati statunitensi, la maggior parte dei quali

nell‟area delle Grandi Pianure, e diverse province canadesi stanno progettando di esportare energia

eolica.

Sull‟altra sponda dell‟Atlantico, il governo della Scozia sta trattando con due fondi sovrani

mediorientali un investimento da 7 miliardi di dollari, destinato alla realizzazione di una centrale nel

Mare del Nord, al largo delle coste orientali scozzesi. Questa centrale permetterà al paese di

sviluppare una potenza eolica offshore di circa 60 mila megawatt, un valore molto vicino ai 79 mila

che rappresentano il totale della capacità elettrica del Regno Unito.

Stiamo assistendo all‟adozione di energia da fonti rinnovabile su una scala mai vista per i

combustibili fossili o per l‟energia nucleare. Questo non accade solamente nei paesi industrializzati:

l‟Algeria, consapevole che non potrà esportare petrolio e gas per sempre, sta progettando la

costruzione di impianti solari termici per 6.000 megawatt da esportare via cavo in Europa. Gli

algerini fanno notare che i deserti del loro paese sono investiti da un flusso di energia solare

sufficiente ad alimentare l‟intera economia mondiale. Non è un errore di calcolo: l‟energia solare che

colpisce la Terra in una sola ora è infatti sufficiente ad alimentare l‟economia mondiale per un anno.

La Turchia, che attualmente produce 39 mila megawatt di potenza elettrica, nel 2007 ha emesso un

bando per la costruzione di impianti eolici, ricevendo offerte da aziende nazionali e straniere per 78

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142

mila megawatt complessivi. Dopo avere selezionato le proposte più promettenti, il governo sta ora

rilasciando i permessi di costruzione per un totale di 15 mila megawatt.

Alla metà del 2008, l‟Indonesia, un paese con 128 vulcani attivi e quindi molto ricca in energia

geotermica, ha annunciato che svilupperà una potenza geotermica di 6.900 megawatt con la

collaborazione di Pertamina, la compagnia petrolifera statale. Negli ultimi decenni la produzione

petrolifera indonesiana è declinata stabilmente, e da quattro anni il paese è un importatore netto

petrolio. Visto che Pertamina sta indirizzando i propri investimenti nello sviluppo dell‟energia

geotermica, potrebbe divenire la prima compagnia petrolifera, privata o statale, a realizzare la

transizione dal petrolio all‟energia rinnovabile.

Queste sono solo alcune delle iniziative con cui si sta cercando di sfruttare le energie rinnovabili

della Terra. Le risorse a disposizione sono immense. Nord Dakota, Kansas e Texas possiedono nel

complesso una potenzialità eolica in grado di alimentare l‟intera economia americana. In Cina

l‟eolico diverrà probabilmente la principale sorgente di energia. L‟Indonesia potrebbe un giorno

soddisfare il suo fabbisogno energetico solamente con il geotermico. L‟Europa sarà alimentata in

larga parte dai campi eolici del Mare del Nord e dagli impianti solari termici del deserto nord

africano.

Gli obiettivi del Piano B sullo sviluppo delle energie rinnovabili entro il 2020 esposti in questo

capitolo non sono basati su ciò che viene ritenuto politicamente possibile, ma su ciò che

consideriamo necessario. Questo non è il Piano A, quello del business as usual, quello del continuare

come se nulla fosse. Questo è il Piano B, una mobilitazione da tempo di guerra, una risposta globale

per evitare la destabilizzazione economica e le tensioni politiche conseguenti a cambiamenti

climatici ingestibili.

Per ridurre le emissioni globali di CO2 dell‟80% entro il 2020, la priorità è sostituire le centrali

elettriche a carbone e a oli combustibili con impianti a energia rinnovabile. Se il XX secolo è stato

caratterizzato dalla globalizzazione dell‟economia energetica mondiale, con la maggior parte dei

paesi che si è affidata al petrolio proveniente essenzialmente dal Medio Oriente, in questo secolo si

assisterà alla localizzazione della produzione dell‟energia con l‟adozione globale dell‟energia eolica,

solare e geotermica.

In questo secolo, inoltre, l‟elettricità assumerà un posto centrale nell‟economia. Il settore dei trasporti

si sposterà dalle automobili alimentate a benzina a mezzi ibridi elettrici ricaricabili, ad auto

completamente elettriche, alle metropolitane leggere e alle ferrovie intercittadine ad alta velocità. Per

i trasporti merci a lunga distanza si passerà dai camion alimentati a gasolio a sistemi di trasporto

elettrici su rotaia.

Il trasporto di merci e persone si svolgerà prevalentemente con mezzi alimentati dall‟energia

elettrica. In questa nuova economia energetica, gli edifici si baseranno quasi esclusivamente

sull‟elettricità rinnovabile per riscaldamento, raffrescamento e illuminazione.

Page 143: L. Bro wn - Piano B 4.0

143

Nell‟elettrificazione dell‟economia non teniamo conto dello sviluppo del nucleare. La nostra

assunzione è che il limitato numero di nuovi impianti nucleari in costruzione nel mondo servirà solo

a compensare la dismissione delle vecchie centrali, senza un aumento sostanziale della capacità

totale di generazione entro il 2020. Se si valutano i costi complessivi (che comprendono quelli per lo

smaltimento delle scorie, quelli per la dismissione degli impianti a fine vita e per l‟assicurazione dei

reattori nei confronti di possibili incidenti e attacchi terroristici) costruire un impianto nucleare in un

mercato dell‟energia elettrica competitivo è semplicemente una decisione antieconomica.

Al di là dei costi dell‟energia nucleare vanno considerate anche le questioni politiche. Se affermiamo

che l‟energia nucleare è una parte importante del futuro della nostra energia, questo vale per tutti i

paesi o solo per alcuni? Se è vera quest‟ultima tesi, chi stilerà la lista dei paesi eletti? E chi la farà

rispettare?

Nel valutare le componenti climatiche del Piano B, abbiamo escluso l‟opzione del sequestro del

carbonio nelle centrali a carbone. Considerato il costo e la mancanza di interesse tra gli stessi

sostenitori del carbone, è improbabile che questa tecnologia sia praticabile su una scala

economicamente significativa entro il 2020.

L‟uso delle energie rinnovabili si potrà diffondere con una velocità sufficiente? La risposta è

affermativa, e i tassi di crescita dell‟utilizzo di telefoni cellulari e computer dimostrano come le

nuove tecnologie si possano imporre velocemente. Nel 1986, la vendita complessiva dei cellulari

aveva raggiunto il milione di unità, ma lo scenario era pronto per una crescita esplosiva e, infatti, nei

tre anni successivi gli abbonamenti di telefonia mobile sono raddoppiati ogni anno. Nei successivi

12, ogni biennio i proprietari di un cellulare sono più che raddoppiati, fino ad arrivare nel 2001 a 961

milioni di apparecchi, una cifra 1.000 volte superiore a quella di 15 anni prima. Oggi in tutto il

mondo gli utenti stimati sono più di quattro miliardi.

Le vendite di computer hanno seguito lo stesso andamento. Nel 1980 era stato commercializzato

approssimativamente un milione di pezzi, ma si stima che nel 2008 i computer in circolazione

fossero 270 milioni, 270 volte in più nel giro di soli 28 anni. Adesso si assiste a una crescita simile

nel settore delle tecnologie relative alle energie rinnovabili. L‟installazione di pannelli solari

raddoppia ogni due anni e anche la crescita annuale della capacità di generazione eolica non è da

meno. Così come l‟economia dell‟informazione e delle telecomunicazioni si sono trasformate oltre

ogni aspettativa nello scorso ventennio, allo stesso modo cambierà il settore dell‟energia nel

decennio che verrà.

C‟è comunque una differenza sostanziale: mentre il cambiamento dell‟economia dell‟informazione è

stato definito solo dalle nuove tecnologie e dal mercato, la riforma dell‟economia energetica sarà

guidata anche dalla presa di coscienza che il destino della nostra civiltà non dipende solo dalla

decisione di agire, ma da un‟azione immediata.

Page 144: L. Bro wn - Piano B 4.0

144

5.1 Passare all’eolico

Il vento è l‟elemento centrale dell‟economia energetica del Piano B. È abbondante, a basso costo e

disponibile quasi ovunque; è facilmente scalabile e può essere sviluppato in tempi rapidi. I pozzi di

petrolio si prosciugano e il carbone sembra aver fatto il suo tempo, ma il vento non può esaurirsi.

Un‟indagine mondiale sullo sfruttamento del vento effettuata dal team di Cristina Archer e Mark

Jacobson dell‟università di Stanford ha concluso che lo sfruttamento di un quinto dell‟energia eolica

mondiale potrebbe fornire una quantità di elettricità sette volte superiore a quella attualmente

necessaria nel mondo. La Cina, ad esempio, con le sue estese pianure spazzate dal vento nelle regioni

settentrionali e occidentali del paese, un incalcolabile numero di rilievi montuosi e una lunghissima

linea costiera, tutte particolarmente ventose, dispone di potenziale di energia eolica sufficiente a

raddoppiare la sua attuale capacità di generazione elettrica.

Anche le condizioni degli Stati Uniti sono ottimali. Oltre ad avere abbastanza energia eolica terrestre

per superare di diverse volte il fabbisogno nazionale, il National Renewable Energy Lab (Laboratorio

nazionale per le energie rinnovabili) ha identificato 1.000 gigawatt (1 gigawatt equivale a 1.000

megawatt) di energia eolica che attendono di essere sfruttati sulla costa orientale e altri 900 gigawatt

sulla costa occidentale. Questa capacità generativa offshore è sufficiente, da sola, ad alimentare

l‟intera economia statunitense.

L‟Europa sta già sperimentando l‟eolico offshore: un rapporto del 2004 della Garra Hassan, una

società di consulenza tecnica sull‟energia eolica, ha concluso che se i governi sviluppassero con

decisione le risorse eoliche marine, il vento potrebbe fornire elettricità per usi residenziali a tutto il

continente europeo entro il 2020.

Da diversi anni a questa parte, un numero limitato di paesi ha dominato la crescita del settore, ma la

recente espansione sul mercato globale sta modificandone gli assetti. Ad oggi, 70 paesi nel mondo

stanno sfruttando le risorse eoliche. L‟energia eolica mondiale sta crescendo a un ritmo frenetico.

Dal 2000 al 2008 la potenza eolica installata è cresciuta da 18 mila a un quantitativo stimato pari a

circa 120 mila megawatt. Le nazioni in testa per potenza installata sono in questo momento gli Stati

Uniti, seguiti da Germania (che è stata fino a poco tempo fa la prima in classifica), Spagna, Cina e

India; considerando però che la potenza eolica in produzione in Cina sta raddoppiando ogni anno, il

primato degli Stati Uniti potrebbe durare ancora per poco.

La Danimarca è prima nel mondo per la quota di energia elettrica nazionale proveniente dall‟eolico,

con il 21% del totale. Quattro Läender del nord della Germania ricavano più di un terzo della loro

elettricità dal vento, mentre a livello nazionale la copertura è pari all‟8%, ed è in continua crescita.

Attualmente, la Danimarca sta progettando l‟espansione del parco eolico per coprire il 50% del suo

fabbisogno elettrico nazionale, in gran parte sfruttando gli impianti offshore. Quando hanno

individuato nell‟eolico la fonte principale di approvvigionamento elettrico, i responsabili della

pianificazione danesi hanno radicalmente rivoluzionato la politica energetica del loro paese. Il piano

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145

consiste nel considerare la fornitura di origine eolica la fonte principale del sistema di produzione

elettrico e di usare centrali alimentate da fonti fossili per riempire i vuoti creati dall‟intermittenza del

vento.

La Spagna, che ha già al suo attivo circa 17 mila megawatt, punta a 20 mila megawatt entro il 2010.

In Francia, dove è appena cominciato lo sviluppo dell‟eolico, il governo ha posto un obiettivo di 25

mila megawatt entro il 2020, di cui 6.000 saranno offshore.

All‟inizio del 2009 gli Stati Uniti disponevano di poco più di 28 mila megawatt di potenza eolica, 38

parchi eolici in costruzione e altri in programmazione per una potenza totale di 300 mila megawatt,

in attesa della costruzione della rete di distribuzione.

Oltre al Texas e alla California, che sta progettando un complesso di parchi eolici da 4.500 megawatt

nell‟estremo lembo meridionale dello stato, diversi altri stati stanno emergendo come superpotenze

eoliche. Clipper Windpower e BP si stanno alleando per costruire Titan, il parco eolico da 5.050

megawatt nell‟est del Sud Dakota a cui abbiamo accennato in precedenza. Philip Anschutz,

miliardario del Colorado, ne sta sviluppando uno da 2.000 megawatt nel centro-sud del Wyoming;

genererà elettricità da trasferire in California, Arizona e Nevada.

Nella parte occidentale degli Stati Uniti, il Maine, dove lo sviluppo dell‟eolico è iniziato da poco, sta

pianificando lo sviluppo di 3.000 megawatt di potenza, molto più del fabbisogno del milione e 300

mila residenti. Lo stato di New York, che già possiede 1.300 megawatt di potenza eolica, sta

progettando di aggiungerne altri 8.000, la cui generazione avverrà per la maggior parte nei dintorni

dei laghi Erie e Ontario. Presto l‟Oregon raddoppierà la sua capacità eolica con il parco da 900

megawatt che verrà realizzato nelle gole del fiume Columbia.

Mentre finora l‟attenzione degli Stati Uniti si è focalizzata sulle Grandi Pianure, un‟altra zona sta

cominciando a suscitare interesse. Per anni l‟unico progetto eolico offshore nell‟Est in corso di

approvazione era uno da 400 megawatt al largo delle coste di Cape Cod, nel Massachusetts. Ora al

Massachusetts si sono uniti Rhode Island, New York, New Jersey e Delaware. Quest‟ultimo sta

progettando un parco offshore da più di 600 megawatt, un‟installazione che potrebbe soddisfare metà

della domanda di elettricità a uso residenziale dello stato.

Ci sono tre ragioni che rendono attraente l‟eolico offshore sulla costa orientale degli Stati Uniti. La

prima è che il vento è forte e costante. L‟area che si estende dal Massachussets verso sud, fino al

Nord Carolina ha una capacità potenziale di generazione che supera il fabbisogno degli stati di

questa regione. Secondo motivo: la costa orientale ha un litorale esteso e poco profondo che rende le

piattaforme offshore meno costose. Infine, questa fonte di energia è vicina ai consumatori.

A nord, il Canada, con il suo esteso territorio e una popolazione di soli 33 milioni di abitanti, è il

paese con uno dei rapporti più elevati tra eolico e popolazione. In questo momento Ontario, Quebec e

Alberta sono le regioni principali con la maggior potenza installata, ma negli ultimi mesi tre delle

quattro province atlantiche del Canada, New Brunswick, Prince Edward Island e Nova Scotia, hanno

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146

iniziato a discutere dello sviluppo congiunto e dell‟esportazione di parte della loro ricchezza in

energia eolica verso le regioni densamente popolate nel nordest degli Stati Uniti.

Per quanto sia impressionante la crescita statunitense, lo è ancor di più l‟espansione in corso in Cina.

La Cina ha circa 12 mila megawatt di potenza eolica, distribuita per la maggior parte in parchi eolici

di dimensioni da 50 a 100 megawatt, con molti altri di taglia media in arrivo. Oltre a questo sta

creando, attraverso il programma Wind Base, sei giganteschi parchi eolici, ognuno dei quali avrà una

potenza di almeno 10 gigawatt, e che saranno posizionati nella provincia del Gansu (15 gigawatt),

Mongolia Interna Occidentale (20 gigawatt), Mongolia interna Orientale (30 gigawatt), Hebei (10

gigawatt), vicino alla città di Hami, nella regione dello Xinjiang (20 gigawatt) e lungo la costa a nord

di Shanghai nella provincia di Jiangsu (10 gigawatt). Una volta completati, avranno una capacità pari

a 105 gigawatt, corrispondente alla potenza eolica mondiale all‟inizio del 2008.

Uno degli aspetti più interessanti dei parchi eolici è la loro straordinaria efficienza in termini di

terreno impegnato. Per esempio, un coltivatore di granoturco nel Nord dello Iowa può installare in

un‟area di poco più di 4.000 metri quadrati una turbina eolica che ogni anno produce energia per 300

mila dollari. Dalla stessa porzione di terreno coltivata a granoturco si otterrebbero circa 1.900 litri di

etanolo, per un valore di mercato di 960 dollari. La straordinaria resa energetica del terreno usato per

alloggiare le turbine eoliche aiuta a spiegare il motivo per cui gli investitori considerano i parchi

eolici così allettanti.

Inoltre, visto che le turbine occupano solo l‟1% dello spazio complessivo di un parco eolico, questa

tecnologia permette agli agricoltori e agli allevatori di continuare a coltivare grano e foraggio e a

pascolare le loro mandrie. Quindi, di fatto, possono raddoppiare la resa dei loro terreni, producendo

contemporaneamente alimenti (grano, mais o bestiame) ed energia. Agricoltori e allevatori, senza

alcun investimento a loro carico, ricevono in media da 3.000 a 10.000 dollari l‟anno di diritti per

ognuna delle turbine erette nei loro terreni. Migliaia di allevatori nella zona delle Grandi Pianure nel

giro di pochi anni guadagneranno più dalla vendita dell‟energia prodotta sui propri terreni che dai

bovini.

Nel passato, uno dei dubbi avanzati nei confronti dell‟eolico era il pericolo che rappresentava per

l‟avifauna, rischio che, tuttavia, può essere gestito conducendo accurate ricerche prima della scelta

dell‟area di installazione per evitare di interferire con le aree di migrazione e di riproduzione. Lo

studio più recente indica che le morti tra i volatili dovute a impianti eolici sono insignificanti in

confronto a quelle causate dall‟impatto con i grattacieli, dalle collisioni con gli autoveicoli o dalla

cattura da parte dei gatti.

Altri sono critici a causa dell‟impatto sul paesaggio. Quando alcuni guardano una centrale eolica,

percepiscono un degrado del panorama. Altri ci vedono una fonte di energia che salverà la civiltà.

Sebbene vi siano problemi legati alla sindrome NIMBY (Not In My BackYard, “non nel mio

giardino”), la risposta PIMBY (Put In My BackYard, “mettila nel mio giardino”) è sempre più

diffusa. Nelle comunità rurali degli Stati Uniti, che siano proprietari di ranch nel Colorado o

allevatori della parte settentrionale dello stato di New York, la competizione per le centrali eoliche è

agguerrita. Ciò non sorprende, visto che i posti di lavoro che si creano, i diritti e i proventi generati

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147

dalle tasse provenienti dalle turbine eoliche sono i benvenuti nelle comunità locali.

Il cuore del Piano B è costituito da un programma immediato di sviluppo di 3.000 gigawatt (tre

milioni di megawatt) di potenza eolica entro il 2020, sufficienti a garantire il 40% del fabbisogno

elettrico mondiale.

Questo progetto, che contribuirà a stabilizzare il clima globale, richiederà l‟installazione di un

milione e mezzo di turbine da 2 megawatt. Costruirne una tale numero entro i prossimi 11 anni

sembra un‟impresa titanica, almeno finché non si paragona questo piano con i 70 milioni di

autoveicoli prodotti nel mondo ogni anno. Considerato un costo medio di 3 milioni di dollari a

turbina installata, questo significa un investimento di 4.500 miliardi di dollari entro il 2020, ovvero

409 miliardi l‟anno. Una cifra come questa è comparabile con quella del settore del petrolifero e del

gas, dove è previsto che gli investimenti raggiungano la cifra di 1.000 miliardi di dollari l‟anno entro

il 2016.

Le turbine eoliche possono essere prodotte in grande quantità in catena di montaggio, come avvenne

durante la Seconda guerra mondiale per i bombardieri B24 nell‟enorme stabilimento di assemblaggio

Ford di Willow Run, nel Michigan. L‟industria automobilistica americana dispone di risorse

sufficienti per costruire il numero di turbine necessarie a portare a compimento il Piano B. Non solo

esistono le fabbriche per costruirle, ma c‟è anche personale esperto, impaziente di tornare al lavoro.

Nello stato del Michigan, ad esempio, cuore della regione ventosa dei Grandi Laghi, molti degli

impianti di produzione automobilistica attualmente non sono operativi.

L‟eolico ha diversi punti a suo favore. Per le aziende elettriche, essere in grado di firmare contratti a

lungo temine a prezzo fisso è una manna per sé e per i propri clienti. Se si rivolgono al gas naturale,

si affidano a una fonte di energia dal prezzo estremamente volatile. Se invece scelgono l‟energia

prodotta tramite carbone, devono affrontarne l‟incertezza del costo futuro.

Il potere di attrazione dell‟energia eolica traspare dalla sua crescita nei confronti delle altre fonti di

energia. Ad esempio, nel 2008 l‟eolico costituiva il 36% della nuova potenza installata in Europa in

confronto al 29% del gas naturale, 18% del fotovoltaico, 10% del petrolio e solo il 3% del carbone.

Negli Stati Uniti la nuova capacità eolica realizzata ogni anno ha superato con largo margine il

carbone a partire dal 2005.

A livello mondiale, nel 2008 non è stata installata nuova potenza nucleare mentre l‟eolico ha

realizzato un totale di 27 mila megawatt. La struttura mondiale dell‟economia energetica non sta solo

cambiando, ma lo sta facendo molto velocemente.

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148

5.2 Celle fotovoltaiche e collettori solari termici

L‟energia solare può essere sfruttata tramite celle fotovoltaiche (PV) e collettori solari termici. Il

fotovoltaico, a base di semiconduttori di silicio o a film sottili, converte direttamente la luce del sole

in elettricità. I collettori solari termici, a loro volta, convertono i raggi solari in calore che può essere

usato, ad esempio, per riscaldare acqua per gli usi domestici. In altri casi, i collettori possono essere

usati per concentrare i raggi del sole in un serbatoio d‟acqua, per produrre vapore e generare

elettricità.

Nel 2008 nel mondo sono stati installati circa 5.600 megawatt di celle fotovoltaiche, portando la

potenza totale a circa 15 mila megawatt. Essendo una delle fonti energetiche con la crescita

maggiore, la produzione delle celle fotovoltaiche sta salendo del 45% l‟anno, raddoppiando ogni due.

Nel 2006, la Germania installò 1.100 megawatt di potenza fotovoltaica e divenne il primo paese a

crescere di più di un gigawatt in un solo anno.

Fino a poco tempo fa, la produzione di celle fotovoltaiche era concentrata in Giappone, Germania e

Stati Uniti, ma oggi sono numerosi i nuovi attori che stanno entrando in gioco, compresi Cina,

Taiwan, Filippine, Corea del Sud ed Emirati Arabi Uniti. Nel 2006 la Cina ha superato gli Stati Uniti

nella produzione di pannelli fotovoltaici. Taiwan ha fatto lo stesso nel 2007. Oggi sono numerose le

aziende che competono sul mercato mondiale, investendo sia nella ricerca sia nella produzione.

Attualmente ci sono circa 1,6 miliardi di persone che vivono in comunità non ancora connesse a una

rete elettrica: spesso è più economico installare pannelli fotovoltaici sul tetto piuttosto che costruire

un impianto centralizzato e una rete per raggiungere i potenziali consumatori. Per gli abitanti dei

villaggi andini, ad esempio, che hanno sempre usato candele di sego per l‟illuminazione, la rata

mensile per l‟installazione di un sistema a pannelli solari, con dilazione a 30 mesi, è minore del costo

mensile per le candele.

Quando l‟abitante di un piccolo villaggio compra un impianto fotovoltaico, sta in realtà acquistando

una fornitura di elettricità per 25 anni: non dovendo poi sostenere costi per il combustibile e

necessitando di una manutenzione minima, deve ricorrere a un finanziamento solo per l‟investimento

iniziale.

La Banca Mondiale e L‟UNEP (United Nations Environment Programme, Programma delle Nazioni

Unite per l‟ambiente) hanno promosso dei programmi per aiutare gli istituti locali a creare forme di

credito dedicate al finanziamento di questa fonte di elettricità. Un prestito della Banca Mondiale ha

aiutato 50 mila persone in Bangladesh, proprietarie di una casa, a installare sistemi fotovoltaici. Un

secondo pacchetto di finanziamenti, più corposo, aiuterà altre 200 mila famiglie a fare lo stesso.

Gli abitanti dei villaggi indiani che non sono raggiunti dalla rete elettrica e dipendono dalle lampade

a cherosene, affrontano costi analoghi. Installare un sistema solare domestico in India, batterie

comprese, costa circa 400 dollari e può alimentare due, tre o quattro piccoli apparecchi o punti luce.

Sono soluzioni molto usate nelle case e nei negozi al posto delle lampade a petrolio, inquinanti e

sempre più costose. In un anno una lampada brucia circa 75 litri di cherosene che, a 80 centesimi di

dollaro al litro, significa 60 dollari a lampada. Un sistema di illuminazione a pannelli solari, che

rimpiazzi due lampade, si ripaga da solo entro quattro anni per poi diventare una fonte di elettricità

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149

praticamente gratuita.

Passare dal cherosene alle celle solari è particolarmente utile per combattere il cambiamento

climatico. Anche se il miliardo e mezzo stimato di lampade a cherosene attualmente in uso

costituisce meno dell‟1% di tutta l‟illuminazione residenziale, esso contribuisce al 29% delle

emissioni di CO2 del settore dell‟illuminazione domestica. Queste lampade utilizzano l‟equivalente

di un milione e trecentomila barili di petrolio ogni giorno, circa la metà della produzione del Kuwait.

Il costo dell‟energia solare sta diminuendo velocemente nei paesi industrializzati. Michael Rogol e la

sua società di consulenza Photon stimano che, entro il 2010, nelle nazioni sviluppate le aziende

integrate che si occuperanno di tutte le fasi della produzione di pannelli fotovoltaici inizieranno a

installare sistemi per produrre elettricità a 12 centesimi di dollaro per kilowattora nell‟assolata

Spagna e a 18 centesimi nella Germania meridionale. Anche se questi costi scenderanno al di sotto di

quelli dell‟elettricità convenzionale in molte regioni, questo non si tradurrà automaticamente in una

completa conversione alle celle solari. Ma, come osserva un esperto del settore, il “big bang” è in

arrivo.

Gli investitori, dopo avere iniziato con installazioni residenziali da tetto relativamente piccole, si

stanno ora interessando anche a impianti solari di grande scala. Una centrale da 20 megawatt

completata nel 2007 in Spagna è stata, ma non per molto, il più grande impianto di questo tipo al

mondo. Sempre la Spagna, infatti, nel 2008 ha rilanciato con un altro complesso da 60 megawatt.

Installazioni ancora più grandi sono oggi in progettazione, compresi impianti da 80 megawatt in

California e Israele.

Alla metà del 2008 Pacific Gas and Electric (PG&E), una delle due compagnie di servizi della

California, ha annunciato un contratto con due aziende per realizzare installazioni fotovoltaiche con

capacità di generazione complessiva di 800 megawatt. Questo complesso, che si estenderà su una

superficie di 30 chilometri quadrati, genererà tanta energia alla sua massima potenza quanta un

impianto nucleare. L‟asticella è stata alzata ancora una volta.

All‟inizio del 2009, i gruppi China Technology Development Group Corporation e Qinghai New

Energy Group hanno annunciato una alleanza per la costruzione di un impianto solare fotovoltaico da

30 megawatt nella remota provincia di Qinghai. Questo è il primo passo per quello che si prevede

essere un impianto da 1.000 megawatt. È un enorme salto nel futuro per un paese che è arrivato alla

fine del 2008 con soli 145 megawatt di potenza installata in celle fotovoltaiche.

Un numero sempre maggiore di paesi, stati e provincie stanno fissando obiettivi ambiziosi nel campo

delle installazioni solari. L‟industria solare italiana punta a 16 mila megawatt e il Giappone a 14 mila

megawatt di potenza installata entro il 2020. Lo stato della California ha fissato un obiettivo per il

2017 di 3.000 megawatt. Il New Jersey si propone di realizzare 2.300 megawatt in installazioni

fotovoltaiche entro il 2021, e il Maryland 1.500 megawatt entro il 2022.

Ora che le nuove installazioni di pannelli solari raddoppiano ogni due anni (e presumibilmente

continueranno a farlo almeno fino al 2020), i 5.600 megawatt messi in produzione nel 2008 saliranno

a 500 mila annui nel 2020. Prima di quella data, la capacità installata supererà i 1.500 gigawatt.

Anche se questa stima può sembrare ottimistica, potrebbe in realtà risultare prudente se non altro

perché se molti dei circa 1,6 miliardi di individui che oggi non hanno elettricità ne disporranno entro

il 2020, ciò avverrà con buona probabilità grazie a impianti solari domestici.

Un altro sistema molto promettente per sfruttare l‟energia solare su larga scala utilizza

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150

semplicemente degli specchi per concentrare la luce su un serbatoio chiuso contenente acqua o un

altro fluido; riscaldandolo si produce vapore che fa muovere una turbina.

Quest‟applicazione della tecnologia solare termica, spesso chiamata “solare a concentrazione” (nota

in inglese come CSP, Concentrating Solar Power), è apparsa per la prima volta dopo la costruzione

di un impianto di generazione solare termica da 350 megawatt in California. Da quando è stato

completato nel 1991, è rimasto l‟unico complesso solare termico al mondo su grande scala fino alla

realizzazione di un secondo impianto da 64 megawatt in Nevada nel 2007. All‟inizio del 2009, gli

Stati Uniti contavano su 6.100 megawatt di impianti di generazione solare termica in fase di sviluppo

e per l‟energia da loro prodotta sono già stati firmati contratti di acquisto a lungo termine.

Alla metà del 2009 Lockheed Martin, una azienda specializzata in difesa aerospaziale e information

technology, ha annunciato che stava costruendo un impianto solare a concentrazione da 290

megawatt in Arizona. Questo impianto, al pari di altre installazioni dello stesso tipo, avrà una

autonomia di sei ore, grazie alla energia immagazzinata, e quindi sarà in grado di generare elettricità

fino a mezzanotte e oltre. L‟ingresso nel campo del solare da parte di un gruppo con un giro di affari

da 43 miliardi di dollari e con una grande capacità di progettazione, è un altro segnale di un nuovo

impegno generale a catturare l‟energia solare presente in abbondanza sulla Terra.

Come già riportato, il governo dell‟Algeria ha un piano per realizzare una capacità di generazione

elettrica da solare termico di 6.000 megawatt, da esportare in Europa con cavi sottomarini. Il governo

tedesco ha risposto velocemente all‟iniziativa algerina con un piano per la costruzione di una linea di

trasmissione ad alta tensione di 3.000 chilometri da Adrar, in pieno deserto algerino, fino ad Aachen,

città tedesca al confine con l‟Olanda.

Il primo impianto in costruzione in Algeria è un‟installazione ibrida solare/gas naturale, nella quale il

gas interviene nella generazione di elettricità nel momento in cui il sole tramonta. Benché i primi

impianti di questo enorme progetto siano ibridi, New Energy Algeria, l‟azienda governativa creata

per incoraggiare lo sviluppo delle energie rinnovabili, prevede di passare al più presto al solare

termico in forma esclusiva. Questi centrali probabilmente useranno sali fusi o altri fluidi per

immagazzinare calore ed estendere di diverse ore la generazione di elettricità oltre il tramonto e

superare le ore serali, quando la domanda di energia è elevata.

Gli impianti statunitensi in via di sviluppo e l‟annuncio di questo piano algerino sono stati i primi

segnali dell‟ingresso del mondo nell‟era del solare termico su grande scala. Entro la fine del 2008

erano in realizzazione già 60 di questi impianti destinati a un uso commerciale, la maggior parte dei

quali negli Stati Uniti e in Spagna. Otto dei dieci impianti più grossi (con dimensioni da 250 a 900

megawatt) verranno costruiti negli Stati Uniti, la maggior parte dei quali in California. Nei primi

mesi del 2009 ne sono stati annunciati diversi altri. BrightSource Energy ha dichiarato, insieme a

Southern California Edison, un pacchetto “bomba” di sette progetti con una capacità totale di 1.300

megawatt; subito dopo ha svelato un identico accordo con PG&E. NRG, una azienda con sede in

New Jersey, ed eSolar hanno annunciato che svilupperanno insieme 500 megawatt di impianti a

concentrazione solare nel sud-ovest degli Stati Uniti.

La Spagna, un‟altra superpotenza solare, ha circa 50 impianti, ognuno dei quali con dimensione

vicina a 50 megawatt, in varie fasi di sviluppo. Esiste un fiorire di impianti a concentrazione in fase

di proposta in altri paesi, come Israele, Australia, Sudafrica, Emirati Arabi ed Egitto. Almeno una

dozzina di paesi, baciati dal sole, hanno riconosciuto il potenziale di questa fonte di elettricità

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151

inesauribile e a basso costo e si stanno muovendo per approfittarne.

L‟India è uno dei paesi per cui gli impianti a concentrazione sono ideali. Benché questa nazione non

abbia le stesse potenzialità eoliche di Cina e Stati Uniti, il Grande Deserto Indiano, nella parte nord-

occidentale del paese, offre enormi opportunità per gli impianti solari termici. Centinaia di

installazioni posizionate nel deserto potrebbero soddisfare la maggior parte del fabbisogno indiano.

Data inoltre la particolare conformazione geografica di questo paese, le linee di trasmissione con cui

connettere i siti di produzione ai centri maggiormente popolati potrebbero essere relativamente corte.

I costi dell‟elettricità ricavata dal solare termico stanno diminuendo velocemente. Oggi il costo si

aggira dai 12 ai 18 centesimi di dollaro per kilowattora. L‟obiettivo del Dipartimento dell‟Energia

degli Stati Uniti è investire in ricerca per abbassare il costo entro il 2020 a 5-7 centesimi di dollaro

per kilowattora.

Sappiamo che l‟energia solare è abbondante. La American Solar Energy Society dichiara che

esistono sufficienti risorse di solare termico nel sud-ovest degli Stati Uniti per coprire un fabbisogno

pari a quasi quattro volte l‟attuale richiesta di energia americana. L‟ U.S. Bureau of Land

Management, l‟agenzia che gestisce i terreni pubblici, ha ricevuto richieste di concessione di diritti

per sviluppare impianti solari termici e complessi fotovoltaici per una potenza totale di 23 mila

megawatt in Nevada, 40 mila megawatt in Arizona e oltre 54 mila megawatt nelle regioni desertiche

della California meridionale.

A livello globale, Greenpeace, l‟European Solar Thermal Electricity Association e il programma

SolarPACES della International Energy Agency hanno sottoscritto un progetto mondiale per lo

sviluppo di impianti solari termici per un milione e mezzo di megawatt di potenza entro il 2050. Noi,

per il Piano B, suggeriamo un obiettivo mondiale più immediato di 200 mila megawatt entro il 2020,

limite che potrebbe anche essere superato, a mano a mano che il potenziale economico di questa

applicazione diverrà più evidente.

La diffusione dell‟energia solare sta accelerando in conseguenza anche dell‟impiego del solare

termico nel campo del riscaldamento dell‟acqua per usi sanitari e per il riscaldamento per gli edifici.

In Cina, ad esempio, i termocollettori solari sono già stati installati su 27 milioni di tetti. Con 4.000

compagnie cinesi che li producono, questa tecnologia relativamente semplice e a basso costo si è

diffusa nei villaggi dove manca ancora l‟elettricità. Per appena 200 dollari, i loro abitanti possono

installare un collettore solare e godersi per la prima volta una doccia calda. Questa tecnologia si sta

diffondendo a macchia d‟olio in Cina, e in alcune aree ha già saturato il mercato. Pechino sta

pianificando di incrementare gli attuali 14 milioni di metri quadrati di collettori solari termici

portandoli a 300 milioni entro il 2020.

L‟energia raccolta in Cina con queste installazioni è pari a quella generata da 49 centrali a carbone.

Altri paesi in via di sviluppo come l‟India e il Brasile potrebbero vedere presto milioni di case

convertirsi a quest‟economica tecnologia di riscaldamento dell‟acqua. La diffusione nelle aree rurali

prive di rete elettrica è simile a quella avvenuta per la telefonia mobile, che ha soppiantato la

tradizionale rete fissa, fornendo servizi a milioni di persone che sarebbero ancora in lista d‟attesa se

si fossero affidate alle reti tradizionali. La grande attrattiva dei termocollettori è che, una volta pagata

l‟installazione, l‟acqua calda è praticamente gratuita.

Anche in Europa, dove i costi dell‟energia sono relativamente alti, i collettori solari termici si stanno

diffondendo rapidamente. In Austria, il 15% delle case li usa per l‟acqua calda. Come in Cina, in

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152

alcuni villaggi austriaci si trovano già su quasi tutte le abitazioni. Anche la Germania sta avanzando

rapidamente. Janet Sawin, del Worldwatch Institute, sottolinea che circa due milioni di tedeschi

vivono in case in cui sia l‟acqua calda a uso sanitario sia quella per il riscaldamento è fornita dai

termocollettori solari.

Sulla scia della rapida adozione del solare termico per questi utilizzi, la European Solar Thermal

Industry Federation (ESTIF) ha stabilito l‟ambizioso traguardo di 500 milioni di metri quadrati di

collettori solari, ovvero un metro quadrato per ogni europeo entro il 2020, obiettivo che supera gli

0,93 metri quadrati pro capite attualmente installati a Cipro, il leader mondiale. Molte installazioni

sono progettate come sistemi combinati per riscaldare sia l‟acqua che gli ambienti.

I collettori solari presenti in Europa sono concentrati in Germania, Austria e Grecia, con Francia e

Spagna che stanno muovendo i primi passi. L‟iniziativa della Spagna è stata promossa da un decreto

del marzo 2006 che imponeva l‟installazione di collettori in tutti gli edifici nuovi o ristrutturati. Il

Portogallo si è mosso rapidamente con un decreto analogo. L‟ESTIF stima che l‟Unione Europea ha

un potenziale di sviluppo a lungo termine di 1.200 gigawatt di solare termico per il riscaldamento di

acqua e ambienti, il che significa che il sole potrebbe soddisfare gran parte del fabbisogno di

riscaldamento a bassa temperatura degli europei.

L‟industria statunitense dei termocollettori solari da installare sui tetti si è finora concentrata su un

mercato di nicchia, vendendone e commercializzandone 10 milioni di metri quadrati tra il 1995 e il

2005, utilizzati per il riscaldamento di piscine. Nonostante questa ristretta base di partenza,

l‟industria è stata comunque in grado di soddisfare le richieste del mercato residenziale dei sistemi

solari di riscaldamento nel momento in cui nel 2006 sono stati introdotti gli sgravi fiscali federali.

Infatti, con in testa le Hawaii, la California e la Florida, l‟installazione di questi sistemi è triplicata

nel 2006 e da allora ha continuato a crescere velocemente.

Abbiamo ora i dati per fare delle proiezioni globali. Con la Cina che ha stabilito un obiettivo di 300

milioni di metri quadrati di capacità solare termica entro il 2020, e il target dell‟ESTIF di 500 milioni

di metri quadrati in Europa per la stessa data, è sicuramente realizzabile l‟installazione negli Stati

Uniti di 300 milioni di metri quadrati entro quell‟anno grazie agli incentivi fiscali recentemente

adottati. Il Giappone, che possiede oggi 7 milioni di metri quadrati di termocollettori solari per

l‟acqua, ma che importa quasi tutto il suo fabbisogno di combustibile fossile, potrebbe facilmente

raggiungere 80 milioni di metri quadrati per il 2020.

Se la Cina, gli Stati Uniti, il Giappone e l‟Unione Europea raggiungessero i loro obiettivi, entro il

2020 si avrebbe una capacità solare termica complessiva di 1.180 milioni di metri quadrati.

Considerando anche i paesi in via di sviluppo, Cina esclusa, il totale potrebbe superare il miliardo e

mezzo di metri quadrati, per una capacità termica solare mondiale entro il 2020 di 1.100 gigawatt

termici, l‟equivalente della produzione di 690 centrali a carbone.

La notevole espansione del solare termico, per il riscaldamento di acqua e ambienti, prevista nei

paesi industrializzati potrebbe portare alla chiusura di alcuni impianti a carbone esistenti e a ridurre

l‟utilizzo del gas naturale, dal momento che gli impianti solari rimpiazzerebbero i boiler elettrici e a

gas. In altri paesi come India e Cina, comunque, gli impianti solari termici ridurranno semplicemente

il bisogno di nuovi impianti a carbone.

Una delle ragioni che spiegano la crescita esplosiva dei termocollettori in Europa e Cina è la loro

attrattiva economica. In media, nei paesi industrializzati questi sistemi si ripagano da soli, in termini

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153

di risparmio di energia, in meno di dieci anni, oltre a essere una buona risposta ai timori relativi alla

sicurezza energetica e al cambiamento climatico.

Con il costo dei termocollettori in discesa, specialmente in Cina, diversi altri paesi tenderanno ad

allinearsi con Israele, Portogallo e Spagna nel richiedere per legge che tutti i nuovi edifici siano

muniti di impianti solari termici. Non più una moda passeggera, questi dispositivi sui tetti stanno

entrando rapidamente nell‟uso comune.

Per concludere, lo sfruttamento dell‟energia solare si sta espandendo su ogni fronte al crescere dei

timori relativi ai cambiamenti climatici e alla sicurezza energetica, grazie alla diffusione degli

incentivi governativi per lo sfruttamento dell‟energia solare, al diminuire dei costi relativi e alla

contemporanea ascesa del prezzo dei combustibili fossili. Nel corso del 2009 la nuova potenza da

fonti solari installata negli Stati Uniti ha superato per la prima volta quella dei nuovi impianti a

carbone.

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154

5.3 Energia dalla terra

Pochi sanno che il calore contenuto nei dieci chilometri più esterni della crosta terrestre equivale a 50

mila volte l‟energia di tutte le riserve di petrolio e di gas esistenti. Nonostante tale abbondanza, sono

sfruttati a livello mondiale solo 10.500 megawatt di capacità generativa geotermica.

Anche a causa del predominio del petrolio, del gas e del carbone, che hanno fornito carburanti

economici, omettendone però i costi indiretti dovuti al cambiamento climatico e all‟inquinamento

atmosferico, sono state investite relativamente poche risorse nello sviluppo della geotermia. Nello

scorso decennio, il suo utilizzo è cresciuto appena del 3% l‟anno.

La metà della capacità generativa mondiale è concentrata negli Stati Uniti e nelle Filippine. Altri

quattro paesi, Messico, Indonesia, Italia e Giappone producono la maggior parte della quota

rimanente. Nel complesso, circa 24 paesi oggi convertono l‟energia geotermica in elettricità. Islanda,

Filippine ed El Salvador ricavano dal geotermico rispettivamente il 27%, il 26% e il 23% della loro

elettricità.

È enorme il potenziale dell‟energia geotermica nel riscaldamento residenziale, nella generazione di

energia elettrica e nel fornire calore per i processi industriali. Tra i paesi ricchi di questa risorsa,

troviamo quelli che costeggiano il Pacifico nel cosiddetto “anello di fuoco”: Cile, Perù, Colombia,

Messico, Stati Uniti, Canada, Russia, Cina, Giappone, Filippine, Indonesia e Australia. Altri paesi

ricchi dal punto di vista geotermico si trovano lungo la Great Rift Valley e intorno al Mediterraneo

orientale.

In aggiunta alla generazione di energia elettrica, si stima che 100 mila megawatt di energia

geotermica siano utilizzati direttamente, senza conversione in elettricità, per riscaldare le case e le

serre e come calore nei processi industriali. È il caso, ad esempio, dell‟energia usata nei bagni

termali in Giappone, per riscaldare le case in Islanda e le serre in Russia.

Un gruppo interdisciplinare di 13 scienziati e ingegneri, riunito dal Massachusetts Institute of

Technology (MIT) nel 2006, ha valutato il potenziale geo-termoelettrico statunitense. Utilizzando le

tecnologie più recenti, comprese quelle usate dalle compagnie petrolifere e del gas per la

perforazione e l‟estrazione assistita di petrolio, il gruppo ha stimato che sistemi geotermici avanzati

potrebbero essere usati per sviluppare estesamente il geotermico negli Stati Uniti. Questa tecnologia

prevede la trivellazione per raggiungere gli strati rocciosi caldi e fratturarli, l‟iniezione all‟interno

della roccia di acqua in pressione e la successiva estrazione di acqua surriscaldata per alimentare una

turbina a vapore. Il gruppo del MIT ha stimato che questo metodo fornirebbe agli Stati Uniti energia

geotermica pari a oltre 2.000 volte il fabbisogno nazionale.

Benché sia ancora costosa, questa tecnologia può essere utilizzata praticamente ovunque per

convertire calore geotermico in elettricità. L‟Australia è, ad oggi, il leader nello sviluppo di impianti

pilota che sfruttano questo metodo, seguita da Germania e Francia. Per sfruttare completamente il

potenziale statunitense, il gruppo del MIT ha stimato che il governo dovrebbe investire nei prossimi

anni più di un miliardo di dollari in ricerca e sviluppo nel geotermico, all‟incirca il costo di una

grande centrale a carbone.

Anche prima che lo sviluppo di questa interessante tecnologia sia completo, gli investitori si stanno

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155

interessando a quella attualmente disponibile. Per diversi anni il geotermico americano è rimasto

praticamente confinato al progetto Geyser a nord di San Francisco, che con i suoi 850 megawatt di

potenza è il più grande complesso di generazione di energia da geotermico al mondo.

Oggi gli Stati Uniti, che possiedono più 3.000 megawatt di origine geotermica, stanno assistendo al

rinascimento di questa fonte energetica. I 126 impianti di generazione in sviluppo in 12 stati quasi

triplicheranno la capacità geotermica statunitense. Con California, Nevada, Oregon, Idaho e Utah a

segnare il cammino e molte nuove imprese entrate in questo campo, si profila lo scenario per uno

sviluppo enorme del geotermico negli Stati Uniti.

L‟Indonesia, che ha un vasto potenziale di energia geotermica, nel 2008 ha annunciato un piano di

sviluppo da 6.900 megawatt di potenza. Le Filippine, attualmente secondo produttore mondiale di

elettricità da fonte geotermica, stanno mettendo in cantiere diversi nuovi progetti in questo settore.

Tra i paesi della Rift Valley africana, come Tanzania, Kenya, Uganda, Eritrea Etiopia e Gibuti, il

Kenya è stato pioniere. Ora possiede oltre 100 megawatt di potenza geotermica e per il 2015 ne sta

progettando altri 1.200, che raddoppieranno la sua attuale capacità di generazione elettrica, pari a

1.200 megawatt complessivi da tutte le altre fonti.

Il Giappone, con 18 centrali geotermiche per un totale di 535 megawatt, è stato in passato il leader in

questo campo. Ora, dopo quasi due decenni di inattività, questo paese geotermicamente ricco, da

sempre noto per le migliaia di bagni termali, sta riprendendo a costruire impianti geotermici.

Per quanto riguarda l‟Europa, la Germania possiede quattro centrali geotermiche già operative e circa

altre 180 in corso di realizzazione. Werner Bussmann, a capo della German Geothermal Association,

sostiene che “il geotermico può fornire energia per soddisfare oltre 600 volte la richiesta di elettricità

della Germania”. Monique Barbut, capo del Global Environmental Facility, prevede che il numero di

paesi che ricavano elettricità dal geotermico aumenterà dai circa 20 dell‟inizio del secolo a 50 entro

il 2010.

Oltre alle centrali geotermiche sono attualmente molto utilizzate le pompe di calore a scambio

geotermico sia per il riscaldamento sia per il raffrescamento degli edifici. Questi impianti sfruttano la

stabilità della temperatura del suolo vicino alla superficie terrestre e la usano come fonte di calore

durante l‟inverno, quando la temperatura dell‟aria è bassa, e come fonte di raffrescamento durante

l‟estate, quando la temperatura esterna è elevata. Il vantaggio di questa tecnologia è la possibilità di

riscaldare come di raffrescare, con un consumo di elettricità del 25-50% inferiore rispetto a quanto

sarebbe necessario con i sistemi convenzionali. In Germania, ad esempio, esistono attualmente 130

mila pompe di calore geotermiche attive in costruzioni residenziali o commerciali e il loro numero

sta crescendo stabilmente, con 25 mila nuove pompe installate ogni anno.

Nell‟uso diretto di energia geotermica, l‟Islanda e la Francia sono tra i leader. In Islanda, l‟impiego

di energia geotermica nel riscaldamento di quasi il 90% delle case ha in gran parte eliminato l‟uso di

carbone per questo uso. L‟energia geotermica rappresenta più di un terzo dell‟energia totale utilizzata

dall‟Islanda. In seguito ai due picchi del prezzo del petrolio negli anni Settanta, circa 70 centrali di

riscaldamento geotermico furono costruite in Francia, e oggi forniscono calore e acqua calda a circa

200 mila abitazioni. Negli Stati Uniti le case sono riscaldate con calore geotermico a Reno, in

Nevada e a Klamath Falls, nell‟Oregon. Altri paesi che hanno un esteso sistema di teleriscaldamento

basato sul geotermico sono la Cina, il Giappone e la Turchia.

Il calore geotermico è ideale per le serre dei paesi nei climi freddi, come quelli del nord. La Russia,

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156

l‟Ungheria, l‟Islanda e gli Stati Uniti lo utilizzano per produrre verdure in inverno. Con l‟aumento

del prezzo del petrolio, che sta facendo esplodere il costo del trasporto dei prodotti freschi, questa

pratica diverrà probabilmente molto comune negli anni a venire.

Tra i sedici paesi che usano l‟energia geotermica per l‟acquacoltura troviamo Cina, Israele e Stati

Uniti. In California, ad esempio, quindici aziende ittiche producono circa 4 milioni e mezzo di

chilogrammi di tilapia, pesce persico e pesce gatto utilizzando acque calde sotterranee.

È in rapida crescita anche il numero di paesi che si stanno convertendo all‟energia geotermica per la

generazione di elettricità e di calore; inoltre, si sta allargando il ventaglio delle sue applicazioni La

Romania, ad esempio, la usa per il teleriscaldamento, per le serre e per fornire acqua calda a case e

fabbriche.

L‟acqua calda sotterranea è spesso usata per i bagni e le piscine. Il Giappone ha 2.800 terme, 5.500

piscine pubbliche e 15.600 hotel e alberghi che utilizzano acqua calda di origine geotermica.

L‟Islanda usa l‟energia geotermica per riscaldare un centinaio di piscine pubbliche, molte delle quali

all‟esterno e aperte tutto l‟anno, e in Ungheria il numero delle piscine sale a 1.200.

Se i quattro paesi più popolosi che si trovano sull‟“anello di fuoco” del Pacifico (Stati Uniti,

Giappone, Cina e Indonesia, che insieme hanno circa 2 miliardi di abitanti) volessero investire

seriamente nello sviluppo delle loro risorse geotermiche, potrebbero rendere questa forma di energia

una delle principali fonti per la produzione di elettricità al mondo. Con un potenziale geo-

termoelettrico, stimato per difetto, di 240 mila megawatt soltanto negli Stati Uniti e in Giappone, è

facile immaginare un mondo con 200 mila megawatt di elettricità generata dalla geotermia come

obiettivo per il Piano B entro il 2020.

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157

5.4 Energia dalle biomasse

Via via che le riserve di petrolio e gas naturale si esauriscono cresce l‟attenzione anche per le fonti di

energia da biomassa. Queste includono, oltre alle coltivazioni destinate a produrre energia discusse

nel capitolo 2, i sottoprodotti dell‟industria del legno, di quella dello zucchero, i rifiuti urbani e

d‟allevamento, le piantagioni di alberi a rapido accrescimento, i residui dell‟agricoltura, della

potatura e della manutenzione dei parchi urbani, ognuno dei quali può essere usato per generare

elettricità, riscaldare o produrre carburanti per veicoli.

L‟uso potenziale della biomassa per la produzione di energia è limitato dato che perfino il mais, il

più efficiente tra le coltivazioni cerealicole, può convertire solamente lo 0,5% dell‟energia solare in

forma utilizzabile. Al contrario, gli impianti fotovoltaici o i termocollettori sono in grado di

trasformare circa il 15% della radiazione solare in elettricità. In un mondo con una disponibilità di

suolo sempre più ridotta, le coltivazioni dedicate a impieghi energetici non sono in grado di

competere con il solare e tanto meno con l‟eolico, considerata la sua maggiore efficienza per unità di

superficie.

Nelle industrie dei prodotti forestali, incluse le segherie e le cartiere, i rifiuti sono usati da tempo per

generare elettricità. Le imprese americane bruciano gli scarti del legno sia per produrre calore

utilizzato nelle proprie attività, sia per generare elettricità da vendere alle aziende elettriche locali.

Negli Stati Uniti, quasi 11 mila megawatt di elettricità di origine vegetale proviene principalmente

dalla combustione di scarti forestali.

Gli scarti del legno sono anche usati nelle aree urbane per la cogenerazione di energia e calore,

distribuito attraverso sistemi di teleriscaldamento. In Svezia, quasi la metà degli edifici residenziali e

commerciali è collegata alla rete di teleriscaldamento. Fino al 1980, il petrolio importato forniva più

del 90% del calore per questi impianti, ma al 2007 era stato quasi interamente rimpiazzato da trucioli

di legno e rifiuti urbani.

Negli Stati Uniti, St. Paul, nel Minnesota (una città di circa 275 mila abitanti) ha iniziato a sviluppare

il teleriscaldamento più di 20 anni fa. Venne costruito un impianto combinato per energia e calore

che utilizzava rifiuti provenienti dagli alberi dei parchi della città, scarti dell‟industria del legno e

cellulosa da altre fonti. L‟impianto, che utilizza 250 mila tonnellate di scarti lignei l‟anno, ora

fornisce il teleriscaldamento a circa l‟80% del centro della città, pari a quasi due chilometri quadrati

di spazi residenziali e commerciali. Questo passaggio agli scarti lignei ha in gran parte sostituito il

carbone, riducendo al contempo le emissioni di anidride carbonica di 76 mila tonnellate l‟anno,

smaltendo i rifiuti del legno e fornendo una fonte sostenibile di calore ed elettricità.

Oglethorpe Power, un grosso gruppo fornitore di servizi nello stato della Georgia, ha annunciato un

progetto di costruzione di alcune centrali (massimo tre) a biomassa da 100 megawatt ognuna. Il

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158

combustibile principale sarà legno in trucioli, scarti di segheria, residui di legno e altri scarti

provenienti dalla manutenzione delle foreste e, quando disponibili, noccioli di pecan e gusci di

arachide.

L‟industria dello zucchero ha recentemente iniziato a bruciare i suoi residui per cogenerare calore ed

energia. Questa iniziativa ha ricevuto un grosso impulso in Brasile, quando le distillerie di etanolo a

base di canna da zucchero hanno realizzato che bruciare la bagassa, il residuo fibroso della

spremitura della canna da zucchero, permette di produrre calore per il processo di fermentazione e

contemporaneamente di generare elettricità, che può essere rivenduta alle compagnie elettriche

locali. Questo sistema, ben collaudato dall‟industria dell‟etanolo brasiliana, si sta diffondendo agli

zuccherifici degli altri paesi che producono il restante 80% dello zucchero mondiale.

Nelle città, una volta raccolti i materiali riciclabili, i rifiuti possono essere inceneriti per produrre

calore ed energia. In Europa, gli inceneritori forniscono calore a 20 milioni di utenti. La Germania

(che possiede 67 di questi impianti) e la Francia (con 128 impianti) sono i leader europei. Negli Stati

Uniti, una novantina di impianti convertono 20 milioni di tonnellate di rifiuti in energia per 6 milioni

di consumatori. Tuttavia sarebbe più vantaggioso puntare sul modello “rifiuti zero” in cui l‟energia

contenuta nella carta, nel cartone, nella plastica e negli altri materiali combustibili venga in gran

parte recuperata con il riciclo, dato che bruciare la spazzatura non è un modo intelligente per gestire

il problema dei rifiuti.

Fino a che non si realizzerà l‟obiettivo dei rifiuti zero, però, il metano (gas naturale) prodotto nelle

discariche esistenti quando la frazione organica dei rifiuti si decompone può essere raccolto per

produrre calore per i processi industriali o per generare elettricità in impianti combinati

termoelettrici. L‟impianto da 35 megawatt, alimentato dai gas di discarica, progettato dalla Puget

Sound Energy e destinato a ricavare metano dalla discarica di Seattle, si aggiungerà agli altri

impianti simili, più di 100, attivi negli Stati Uniti.

Interface (il principale produttore mondiale di moquette industriali, con base vicino ad atlanta, in

Georgia) ha convinto la città a investire 3 milioni di dollari per catturare il biogas dalla discarica

municipale e a costruire una condotta di 15 chilometri fino a un suo stabilimento. Il metano di questa

condotta, che costa il 30% in meno rispetto al prezzo di mercato, soddisfa il 20% del fabbisogno

della fabbrica. La discarica è progettata per fornire metano per 40 anni, facendo guadagnare alla città

35 milioni di dollari rispetto ai 3 milioni di investimento iniziale, oltre ad alleggerire i costi operativi

di Interface.

Come già discusso nel capitolo 2, anche le colture agricole possono essere usate per produrre

carburanti per veicoli, tra cui l‟etanolo e il biodiesel. Nel 2009 sono stati prodotti nel mondo 50

miliardi di litri di bioetanolo e 8,7 miliardi di litri di biodiesel. Metà dell‟etanolo è stato prodotto

dagli Stati Uniti, un terzo dal Brasile e il rimanente da una dozzina di altri paesi, in testa Cina e

Canada. Germania e Francia sono responsabili, ognuna, del 15% della produzione di biodiesel

mondiale; gli altri maggiori produttori sono Stati Uniti, Brasile e Italia.

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159

I biocombustibili, che per un certo periodo sono stati considerati come la vera alternativa al petrolio,

negli ultimi anni sono stati messi sotto esame in seguito ai dubbi emersi sulla loro effettiva

sostenibilità. Negli Stati Uniti, che hanno superato il Brasile nella produzione di etanolo nel 2005, il

raddoppio della produzione tra il 2007 e il 2008 ha contribuito a spingere il prezzo mondiale dei

generi alimentari a livelli mai raggiunti in passato.

In Europa, che ha fissato obiettivi ambiziosi per l‟uso del biodiesel e nel contempo possiede un

ridotto potenziale di espansione per la produzione di oli di semi, le raffinerie che producono

biodiesel si stanno spostando all‟uso di olio di palma proveniente da Malesia e Indonesia,

incentivando la distruzione della foresta pluviale per fare spazio alle piantagioni di palma.

In un mondo in cui non c‟è quasi più terreno a disposizione per le coltivazioni alimentari, ogni ettaro

coltivato a mais destinato a etanolo comporta che un altro ettaro deve essere reso disponibile altrove

per la produzione di generi alimentari. Uno studio dell‟inizio del 2008 condotto da Tim Searchinger,

della Princeton University, pubblicato su Science, ha usato un modello agricolo globale per

dimostrare che, prendendo in considerazione la deforestazione tropicale, la produzione statunitense

di biocarburanti ha aumentato decisamente le emissioni annuali di gas serra invece di ridurle, al

contrario di quanto affermato da altri studi basati su un modello più ristretto.

Un altro studio pubblicato da Science, questa volta da un gruppo dell‟University of Minnesota, ha

raggiunto conclusioni simili. Concentrandosi sulle emissioni di carbonio collegate alla

deforestazione tropicale ha dimostrato che la conversione delle foreste pluviali e delle praterie alla

produzione di biocombustibile da mais, soia od olio di palma, ha portato a un aumento delle

emissioni di carbonio almeno 37 volte maggiore rispetto alla riduzione di gas serra risultante dal

passaggio dai combustibili fossili ai biocarburanti.

Il sostegno ai biocarburanti si è ulteriormente indebolito quando il gruppo guidato da Paul Crutzen,

chimico presso il Max Planck Institute for Chemistry in Germania e vincitore di un premio Nobel, ha

presentato i risultati di uno studio sulle emissioni di protossido d‟azoto. Questo potente gas serra,

proveniente dai fertilizzanti sintetici azotati utilizzati nella coltivazione di colture quali mais e colza

per la produzione di biocombustibile, può annullare ogni riduzione di emissioni di CO2 derivante

dalla sostituzione dei combustibili fossili con i biocombustibili, rendendoli una minaccia per la

stabilità climatica. Anche se l‟industria dell‟etanolo negli Stati Uniti ha rifiutato queste conclusioni, i

risultati sono stati confermati in un rapporto del 2009 dell‟International Council for Science, una

federazione internazionale di associazioni scientifiche.

Più aumentano le ricerche sui biocarburanti liquidi, meno essi risultano sostenibili. Oggi la

produzione di bioetanolo si basa quasi completamente sulla canna da zucchero e sull‟amido, ma si

sta cercando di sviluppare tecnologie efficienti per convertire i materiali cellulosici. Diversi studi

indicano che le sterpaglie e i pioppi ibridi potrebbero fornire una resa relativamente buona di etanolo

su terreni marginali, ma non esiste una tecnologia a basso costo in grado di sintetizzarlo a partire

dalla cellulosa che sia disponibile da subito o entro tempi brevi.

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160

Un terzo rapporto pubblicato da Science indica che bruciare raccolti di cellulosa per generare

direttamente elettricità destinata a veicoli elettrici è molto più efficiente che convertirli in

combustibili liquidi poiché permette di percorrere l‟81% in più di chilometri.

La domanda è quanto i materiali vegetali possano contribuire alla fornitura energetica mondiale.

Basandoci su uno studio del Departments of Energy and Agriculture statunitense stimiamo che gli

Stati Uniti potrebbero sviluppare più di 40 gigawatt di capacità elettricità entro il 2020 dalla

combustione di rifiuti lignei provenienti da boschi e parchi urbani, oltre a residui di arbusti e alberi a

rapida crescita messi a dimora su terreni non agricoli, circa quattro volte il valore attuale.

Prevediamo che l‟uso mondiale di biomassa per generare elettricità potrebbe contribuire al Piano B

con 200 gigawatt entro il 2020.

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161

5.5 Energia dai fiumi, dalle maree e dalle onde

Il termine “idroelettrico” è stato tradizionalmente collegato alle grandi dighe, ma oggi comprende

anche lo sfruttamento dell‟energia delle maree e delle onde nonché l‟utilizzo di micro-turbine da

flusso con cui catturare direttamente l‟energia dei fiumi e delle maree senza bisogno di sbarramenti.

Circa il 16% dell‟elettricità mondiale proviene dal comparto idroelettrico, principalmente dalle

grandi dighe. Alcuni paesi come il Brasile e la Repubblica Democratica del Congo ottengono la

maggior parte della loro elettricità dall‟energia dei fiumi. La costruzione di grandi dighe è fiorita

nella seconda metà del secolo scorso ma è successivamente rallentata. I siti adatti alla costruzione di

una diga ancora accessibili sono diminuiti e contemporaneamente vi è stata una maggiore

consapevolezza dei danni agli ecosistemi e dei costi connessi al trasferimento forzato delle

popolazioni indigene e all‟inondazione di terre produttive.

Continuano a essere considerati con favore quei progetti su piccola scala che non sono altrettanto

devastanti. Nel 2006 nelle aree rurali cinesi sono state costruite piccole dighe per una potenza totale

di 6.000 megawatt. Per molte comunità locali esse rappresentano, ad oggi, l‟unica fonte di energia

elettrica. Sebbene la Cina sia in prima posizione nelle nuove realizzazioni, molti altri paesi stanno

costruendo impianti di piccola taglia, via via che i cambiamenti nell‟economia rendono competitive

le fonti rinnovabili rispetto ai combustibili fossili. Esiste anche un interesse crescente per le micro-

turbine che non hanno bisogno di dighe e hanno quindi minori impatti ambientali.

L‟energia ricavata dalle maree suscita interesse a causa del suo enorme potenziale. La Baia di Fundy,

in Canada, per esempio, ha una capacità di generazione pari a più di 4.000 megawatt. Altri paesi

ancora stanno esaminando possibili progetti nella scala dei 7.000-15.000 megawatt.

Il primo grande impianto di sfruttamento delle maree, lo sbarramento di La Rance, in Bretagna, con

capacità una generativa di 240 megawatt, fu costruito 40 anni fa in Francia ed è attivo ancora oggi.

Negli ultimi anni, l‟interesse per l‟energia mareomotrice si è diffuso rapidamente.

La Corea del Sud, ad esempio, sta realizzando un progetto da 254 megawatt sulla sua costa

occidentale. Quando sarà completato questo impianto fornirà elettricità sufficiente per il mezzo

milione di persone che vivono nella vicina città di Ansan.

30 chilometri più a nord, vicino a Inchon, gli ingegneri stanno progettando un impianto per lo

sfruttamento delle maree da 812 megawatt. Nel marzo 2008, Lunar Energy, una compagnia inglese,

ha aggiunto un accordo con Korea Midland Power per sviluppare un parco di turbine al largo della

costa del Sud Corea che genererà 300 megawatt. La Cina sta progettando una centrale da 300

megawatt alla foce del fiume Yalu, vicino alla Corea del Nord. Molto più a sud, la Nuova Zelanda

sta progettando un impianto da 200 megawatt nel porto di Kaipara, sulla costa settentrionale del

paese.

Progetti colossali sono allo studio in numerosi altri paesi, tra cui India, Regno Unito e Russia.

L‟India prevede di costruire una barriera di oltre 60 chilometri attraverso il Golfo di Khambat, sulla

costa nord-occidentale del paese, con una capacità generativa di 7.000 megawatt. In Gran Bretagna

molti leader politici stanno facendo pressioni per un impianto a marea da 8.600 megawatt

nell‟estuario del Severn, sulla costa sud-occidentale del paese, equivalente all‟11% della capacità di

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162

produzione elettrica britannica. Progettisti russi sono impegnati nell‟ideazione di impianti a marea

per 15 mila megawatt nel Mar Bianco, nella parte nord-occidentale del paese vicina alla Finlandia.

Una parte dell‟energia prodotta in questo sito sarà probabilmente esportata in Europa. È poi in

discussione un impianto che dovrebbe essere realizzato nella Baia di Turgurski, sulla costa della

regione più a est del paese, dovrebbe fornire 8.000 megawatt di energia all‟industria locale.

Negli Stati Uniti, l‟attenzione è rivolta agli impianti a marea di taglia più piccola. A partire dal 2007,

la Federal Energy Regulatory Commission ha concesso più di trenta permessi preliminari, che

comprendono i progetti a Puget Sound, nella baia di San Francisco e nell‟East River di New York.

Quello della baia di San Francisco, della Oceana Energy Company, avrà almeno 40 megawatt di

potenza.

L‟energia delle onde, pur essendo alcuni anni indietro rispetto a quella delle maree, sta iniziando ad

attrarre l‟attenzione di tecnici e investitori. Negli Stati Uniti, l‟azienda di servizi PG&E del nord

della California ha registrato un progetto di sviluppo di un parco da 40 megawatt al largo della costa

nord del paese. Alla Green Wave Energy Solutions sono stati concessi i permessi per due progetti di

potenza fino a 100 megawatt ognuno, al largo della costa californiana, uno a nord e uno a sud.

Inoltre, San Francisco sta cercando di ottenere il permesso per sviluppare un progetto di energia da

onde marine da 10-30 megawatt lungo le proprie coste.

Il primo parco di questo tipo al mondo, un impianto da due megawatt costruito dalla inglese Pelamis

Wave Power, è in attività al largo della costa del Portogallo. In una seconda fase se ne prevede

l‟espansione a 22 megawatt. Le aziende scozzesi Aquamarine Power e Airtricity stanno collaborando

per la costruzione di 1.000 megawatt di capacità di generazione da onde e maree lungo la costa

dell‟Irlanda e della Gran Bretagna. Anche l‟Irlanda ha un obiettivo di sviluppo energetico da moto

ondoso ambizioso: 500 megawatt di potenza generativa entro il 2020, abbastanza per generare il 7%

della sua elettricità. A livello mondiale la raccolta di energia dalle onde marine potrebbe generare la

strabiliante quantità di elettricità di 10 mila gigawatt, un valore più che doppio rispetto all‟attuale

potenza elettrica mondiale generata da tutte le fonti, pari a 4.000 gigawatt.

Prevediamo che i 945 gigawatt (945 mila megawatt) di energia idroelettrica in funzione nel mondo

nel 2008 aumenteranno fino a 1.350 entro il 2020. Secondo le proiezioni ufficiali della Cina, saranno

aggiunti 270 gigawatt, in gran parte provenienti dalle grandi dighe del sud-ovest del paese. I restanti

135 della nostra previsione di crescita verranno da un gruppo di grandi dighe in costruzione in paesi

come il Brasile e la Turchia, da numerosi impianti idroelettrici di piccola taglia, da un numero

crescente di progetti alimentati a maree e da numerosi piccoli progetti di energia generata dal moto

ondoso.

Negli Stati Uniti, dove l‟attenzione per la costruzione di nuove dighe è modesta, si assiste comunque

a una rinascita dell‟interesse per l‟installazione degli impianti di generazione su dighe che ne sono

prive e per il potenziamento di impianti idroelettrici già esistenti. Se l‟interesse per l‟energia delle

maree e delle onde continuerà a crescere in tutto il mondo, la capacità aggiuntiva generata da queste

due fonti potrebbe facilmente superare i 400 gigawatt necessari a raggiungere l‟obiettivo del Piano B

entro il 2020.

Page 163: L. Bro wn - Piano B 4.0

163

5.6 L’economia energetica planetaria nel 2020

Come descritto in questo capitolo, il passaggio dal petrolio, dal carbone e dal gas naturale verso

l‟energia eolica, solare e geotermica è già in atto. Nel vecchio sistema l‟energia veniva prodotta

attraverso la combustione con le conseguenti emissioni di carbonio che si sono rivelate essere il

tratto distintivo del nostro sistema economico. La nuova economia sfrutta l‟energia del vento, del

sole e del calore dell‟interno del pianeta e sarà in gran parte alimentata dall‟energia elettrica. Oltre

all‟illuminazione e all‟alimentazione degli apparecchi domestici, l‟elettricità verrà utilizzata anche

per i trasporti e per la climatizzazione degli ambienti. I combustibili fossili, dannosi per il clima,

scompariranno nel passato mentre i paesi si convertiranno a fonti di energia rinnovabili, pulite e non

alteranti per il clima.

L‟abbandono dei combustibili fossili parte dal comparto elettrico, dove lo sviluppo di 5.300 gigawatt

di nuova capacità mondiale generativa rinnovabile per il 2020 (di cui oltre la metà di origine eolica)

sarà più che sufficiente a rimpiazzare tutto il carbone e il petrolio e il 70% del gas naturale che sono

attualmente usati per produrre energia elettrica.

L‟aggiunta di quasi 1.500 gigawatt termici entro il 2020 ridurrà drasticamente l‟uso di petrolio e di

gas per il riscaldamento dell‟acqua e degli edifici. Circa due terzi di questa crescita proverranno da

collettori termici solari per riscaldamento di acqua e ambienti (vedi tabella 5.1). Nota 110.

Page 164: L. Bro wn - Piano B 4.0

164

Fonte: vedi nota 110.

Osservando il cambiamento macroscopico dall‟economia energetica del 2008 a quella del 2020

suggerita dal Piano B, si nota che l‟elettricità generata da combustibili fossili mostra un calo

mondiale del 90%. Questa riduzione è più che compensata dall‟aumento di cinque volte

dell‟elettricità prodotta da fonti rinnovabili. Nel settore dei trasporti, l‟uso di energia da combustibili

fossili diminuisce del 70%. Ciò avviene principalmente grazie al passaggio a veicoli elettrici e a

efficienti veicoli ibridi plug-in che sono alimentati quasi interamente dall‟elettricità, in gran parte

proveniente da fonti rinnovabili.

Inoltre, si deve prendere in considerazione anche il passaggio ai treni elettrici, molto più efficienti di

quelli a gasolio. Diverse costruzioni saranno alimentate unicamente da elettricità (riscaldamento,

condizionamento, illuminazione) prodotta da fonti rinnovabili senza emissioni di carbonio.

A livello regionale e nazionale verrà sviluppato un profilo energetico modellato sulla specifica

dotazione locale di fonti rinnovabili. Alcuni paesi, come stati Uniti, Turchia e Cina probabilmente si

affideranno a un ampio spettro di fonti rinnovabili, eolico, solare e geotermico. Ma sarà l‟eolico,

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165

terrestre e offshore, la principale fonte per ognuno di questi paesi.

Nel giugno 2009, Xiao Ziniu, direttore del Centro climatico nazionale cinese, ha affermato che la

Cina ha un potenziale di generazione eolica che raggiunge 1.200 gigawatt, che è compatibile con

l‟attuale capacità totale di generazione elettrica del paese, circa 790 gigawatt. Xiao ha detto che la

nuova valutazione a cui si riferisce “ci assicura che l‟intera richiesta elettrica del paese può essere

soddisfatta dall‟energia eolica”. Oltre a questo, lo studio ha identificato un potenziale eolico offshore

di 250 gigawatt. Un ex funzionario cinese aveva dichiarato già in passato che la capacità eolica

avrebbe raggiunto 100 gigawatt entro il 2020, che significa che avrebbe oltrepassato il nucleare

molto presto.

Altri paesi, inclusi Spagna, Algeria, Egitto, India e Messico, si serviranno prevalentemente di

impianti solari termici e fotovoltaici per alimentare le proprie economie. Per Islanda, Indonesia,

Giappone e Filippine l‟energia geotermica sarà probabilmente il filone principale. Ancora, altri paesi

(come Norvegia, Repubblica Democratica del Congo e Nepal) si affideranno all‟idroelettrico. Alcune

tecnologie, come i termocollettori solari da tetto, saranno usate ovunque.

L‟economia energetica del Piano B del 2020 per gli Stati Uniti implica che il 44% dell‟elettricità

verrà dall‟eolico. Gli impianti geotermici forniranno un altro 11%. Celle fotovoltaiche, la maggior

parte delle quali installate sui tetti, genereranno un ulteriore 8%; gli impianti termici solari un altro

5%. Circa il 7% verrà dall‟idroelettrico, mentre il rimanente 25% proverrà in ordine decrescente dal

nucleare, dalle biomasse e dal gas naturale (vedi tabella 5.2). Nota 112.

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166

Nota: la somma delle cifre in ogni colonna potrebbe dare un totale diverso dal numero citato in

tabella a causa degli arrotondamenti.

Fonte: vedi nota 112.

Al progredire della transizione energetica il sistema di distribuzione dell‟energia dalla fonte ai

consumatori si trasformerà al punto da essere irriconoscibile. Nel vecchio sistema energetico gli

oleodotti trasportano il petrolio dai pozzi ai consumatori o ai porti, dove viene caricato nelle cisterne

e avviato ai paesi di destinazione. Un‟enorme flotta di petroliere sposta il petrolio dal Golfo Persico

ai mercati in ogni continente.

Il Texas offre un modello per la realizzazione di una rete di distribuzione adatta allo sfruttamento

delle energie rinnovabili. Dopo un‟analisi che ha definito la presenza nello stato di due aree in cui

sono concentrate le fonti eoliche, una nell‟ovest del Texas e l‟altra nel Panhandle, la Public Utility

Commission ha coordinato la progettazione di una rete di linee di trasmissione ad alta tensione per

connettere queste regioni ai centri di consumo come Dallas, Fort Worth e San Antonio. Dopo 5

miliardi di dollari di investimento e più di 4.500 chilometri di linee di trasmissione si è arrivati al

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167

punto di poter raccogliere 18.500 megawatt di potenza eolica, solo in queste due regioni, sufficienti

ad alimentare metà dei 24 milioni di residenti dello stato.

In questo momento i principali fornitori di servizi e investitori privati stanno già proponendo di

costruire linee a corrente continua in alta tensione a elevata efficienza (HVDC, High-Voltage Direct-

Current) per connettere le regioni molto ventose con i centri ad alto consumo di energia. Ad esempio,

TransCanada sta proponendo di sviluppare due linee ad alta tensione: la Zephyr Line, che collegherà

il Wyoming con il mercato della California, e la Chinook Line, che farà lo stesso per il Montana.

Queste linee, con una lunghezza attorno ai 1.600 chilometri ognuna, sono state progettate per gestire

3.000 megawatt di elettricità generata per via eolica.

Nelle pianure del nord e nel Midwest, ITC Holdings Corporation sta proponendo ciò che ha definito

il Green Power Express. Questa struttura, 4.800 chilometri di linee di trasmissione ad alta tensione,

dovrebbe connettere 12 mila megawatt di potenza eolica dal Nord Dakota, dal Sud Dakota, dallo

Iowa e dal Minnesota con più densamente popolato Midwest industriale. Queste linee di trasmissione

di base potrebbero diventare parte della rete nazionale che vuole costruire il segretario dell‟Energia

degli Stati Uniti, Steven Chu.

Una rete nazionale forte ed efficiente ridurrà il fabbisogno di capacità produttiva, abbasserà i costi al

consumo e abbatterà le emissioni di carbonio. Dato che non esistono due impianti eolici con lo stesso

profilo, l‟aggiunta di ognuno di loro alla rete rende il vento una fonte di elettricità più stabile.

Considerata l‟esistenza di migliaia di impianti eolici sparsi in tutti gli Stati Uniti, il vento è diventato

una fonte stabile di energia, entrando a far parte delle sorgenti di energia di base. Tutto ciò, in

aggiunta alla possibilità di prevedere almeno con un giorno di anticipo la velocità dei venti e

l‟intensità solare in tutto il paese, rende possibile gestire efficientemente la varietà delle risorse in

energie rinnovabili.116

L‟India beneficerebbe enormemente di una rete di trasmissione nazionale, principalmente per il fatto

che renderebbe possibile sfruttare l‟enorme potenziale solare del Grande Deserto Indiano.

Anche l‟Europa sta iniziando seriamente a investire in una super rete che si estenderà dalla Norvegia

all‟Egitto e dal Marocco alla Siberia occidentale e che permetterà alla regione di sfruttare gli enormi

quantitativi di energia eolica (in particolare offshore, nell‟Europa occidentale) e le risorse quasi

illimitate di energia solare del nord del Sahara e della costa meridionale europea. Come per la

proposta rete nazionale statunitense, la rete europea sarebbe composta di linee ad alta tensione in

corrente continua che trasferisce elettricità con molta più efficacia di quelle attualmente esistenti.

Un‟azienda irlandese, Mainstream Renewable Power, sta proponendo una super rete offshore

europea costituita da cavi sottomarini HDVC (a corrente continua in alta tensione). Questa rete si

estenderebbe dal Mar Baltico al Mare del Nord, quindi verso sud attraverso la Manica verso l‟Europa

meridionale. L‟azienda fa notare che questo impianto potrebbe evitare i lunghi processi di

acquisizione dei terreni che sarebbero necessari se il sistema venisse costruito sulla terraferma. Il

gruppo svedese ABB, che ha appena completato un collegamento sottomarino HDVC lungo circa

650 chilometri, che collega la Norvegia all‟Olanda, si sta alleando con la Mainstream Renewable

Power per proporre la costruzione del primo segmento della super rete.

Una progetto di vecchia data del Club di Roma, chiamato DESERTEC, va oltre, proponendo una

connessione tra Europa e Nord Africa e Medio Oriente, ricchi di energia solare. Nel luglio 2009, 11

delle principali aziende europee, comprese Munich Re, Deutsche Bank, ABB e Siemens, e la

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168

compagnia algerina Cevital hanno annunciato il progetto per la creazione della “DESERTEC

Industrial Initiative”. Questa impresa avrà l‟obiettivo di installare abbastanza capacità di generazione

da solare termico in Nord Africa e in Medio Oriente da esportare elettricità in Europa e da soddisfare

le richieste dei paesi produttori.

Questo progetto, la cui capacità di generazione solare termica potrebbe superare i 300 mila

megawatt, è senza paragone sotto ogni punto di vista. È spinto dai timori generati dai dirompenti

cambiamenti climatici e dall‟esaurimento delle riserve di gas e petrolio. Caio Koch-Weser, vice

presidente di Deutsche Bank, ha detto: “Il progetto mostra le dimensioni e la scala su cui si deve

pensare se si vuole padroneggiare la sfida del cambiamento climatico”.

Il XX secolo ha assistito alla globalizzazione dell‟economia energetica mondiale nel momento in cui

il pianeta intero è divenuto fortemente dipendente dal petrolio presente in una manciata di paesi,

molti dei quali localizzati nella stessa regione. Questo secolo, invece, sarà testimone della

localizzazione dell‟economia energetica mondiale, quando le varie nazioni inizieranno ad attingere

alle proprie risorse locali di energia rinnovabile.

La localizzazione dell‟economia energetica porterà alla localizzazione dell‟economia alimentare. Ad

esempio, al crescere dei costi di trasporto legati al prezzo del petrolio dei prodotti freschi provenienti

da mercati lontani, aumenteranno i mercati contadini locali. Lo spostamento verso il basso nella

catena alimentare (ottenuto acquistando direttamente dai produttori) e la riduzione dei chilometri

percorsi dal cibo ridurranno drasticamente l‟uso di energia nell‟economia alimentare.

A mano a mano che procederà il processo di localizzazione dell‟agricoltura, l‟allevamento di bovini,

suini e pollame probabilmente si allontanerà dal modello intensivo oggi dominante. Ci saranno meno

fattorie specializzate e un numero maggiore di aziende che si occuperanno sia di allevamento sia di

coltivazione. Il modello di alimentazione negli allevamenti si trasformerà nel momento in cui

aumenterà la necessità di riciclare i nutrienti, a causa dell‟esaurimento delle riserve – finite – di

fosfati e dell‟aumento del prezzo dei fertilizzanti. Con ogni probabilità continuerà anche a crescere il

numero delle piccole fattorie negli Stati Uniti. Al montare dell‟incertezza alimentare mondiale, un

numero sempre maggiore di persone cercheranno di produrre il proprio cibo nei giardini, nei cortili,

sui terrazzi, negli orti comuni e altrove, contribuendo ulteriormente alla localizzazione

dell‟agricoltura.

La nuova economia energetica sarà facilmente visibile dall‟alto. Alcuni anni fa, durante un viaggio

da Helsinki a Londra, ho contato 22 parchi eolici volando sulla Danimarca, a lungo leader mondiale

dell‟eolico. “È uno scorcio sul futuro che ci aspetta?”, ho pensato allora. Un giorno i viaggiatori che

sorvoleranno gli Stati Uniti vedranno migliaia di impianti eolici nelle Grandi Pianure, che si

estendono dalla costa del Golfo del Texas fino al confine canadese, dove agricoltori e allevatori

guadagneranno, oltre che dalla coltivazione del mais, del grano e dell‟allevamento delle mandrie,

anche dalla vendita prodotta con l‟energia eolica.

Il deserto degli Stati Uniti sudoccidentali accoglierà gruppi di impianti solari termici, con vaste

griglie di specchi, ognuna delle quali può coprire diversi chilometri quadrati. I parchi eolici e gli

impianti solari a concentrazione saranno i segni più visibili della nuova economia energetica. I tetti

di milioni di abitazioni e costruzioni commerciali saranno sovrastati da file di celle fotovoltaiche, che

consentiranno alle coperture di trasformarsi in fonti di energia. Quanto oltre potrà spingersi la

localizzazione? Ci saranno anche milioni di collettori solari per scaldare acqua e ambienti.

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169

I governi stanno usando una varietà di strumenti politici per sostenere la ristrutturazione energetica.

Tra questi, le ristrutturazioni fiscali (aumento delle tasse sulle emissioni di carbonio e diminuzione

delle tasse sul reddito) e sistemi di scambio delle quote di concessione sulle emissioni (cap-and-

trade). Il primo dei due è più trasparente e facilmente gestibile e non così facilmente manipolabile

quanto il secondo.

Nella ristrutturazione del settore elettrico sono state decisamente efficaci le tariffe feed-in (ne è un

esempio in Italia il Conto energia, ndr) che impongono alle aziende di servizi di pagare un prezzo

superiore per l‟elettricità generata da fonti rinnovabili. L‟enorme successo che questa misura ha

avuto in Germania alla sua prima applicazione ha portato alla sua adozione da parte di più di 40 altri

paesi, inclusi i membri dell‟Unione Europea. Negli Stati Uniti almeno 33 stati hanno adottato una

normativa che impone alle aziende di servizi elettrici di ottenere una certa percentuale della loro

elettricità da fonti rinnovabili. Gli Stati Uniti hanno anche introdotto crediti fiscali per l‟eolico, il

geotermico, il fotovoltaico, i termocollettori e le pompe di calore geotermiche.121

Per raggiungere alcuni obiettivi i governi stanno semplicemente utilizzando delle norme impositive,

come quelle che rendono obbligatori i collettori solari in tutte le nuove costruzioni, valori di

maggiore efficienza per automobili e apparecchiature elettriche o il divieto di vendita delle

lampadine a incandescenza. Ogni governo deve scegliere gli strumenti politici più adatti alla propria

particolare situazione economica e culturale.

Nella nuova economia energetica le nostre città saranno diverse da come le abbiamo conosciute.

L‟aria sarà pulita e le strade silenziose a eccezione dei ronzii dei motori elettrici. Quando le centrali a

carbone verranno smantellate e riciclate e quando i motori diesel e a benzina saranno praticamente

scomparsi, gli allarmi per l‟inquinamento atmosferico saranno un ricordo del passato.

In questo momento la transizione sta acquisendo slancio, alimentata dall‟eccitazione dovuta alla

consapevolezza che stiamo accedendo a fonti energetiche che possono durare quanto la Terra stessa.

I pozzi petroliferi si stanno esaurendo e il carbone sta finendo, ma per la prima volta dall‟inizio della

Rivoluzione industriale stiamo investendo in fonti energetiche che possono durare per sempre.

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170

6. PROGETTARE CITTA' A MISURA D'UOMO

Nel 1988, mentre attraversavo Tel Aviv diretto dal mio hotel a un centro per conferenze, non potei

non notare l‟invasiva presenza di auto e parcheggi. Era evidente che Tel Aviv si era evoluta nell‟era

dell‟automobile, espandendosi dal piccolo agglomerato di mezzo secolo fa all‟odierna città di quasi

tre milioni di abitanti. In quell‟occasione capii che il rapporto fra parchi e parcheggi è il migliore

indicatore della vivibilità di una città e un indizio per capire quanto sia stata progettata per le persone

e quanto invece per le automobili.

Tel Aviv non è l‟unica città in rapida espansione. L‟urbanizzazione è la seconda tendenza

demografica del nostro tempo, dopo la crescita della popolazione stessa. Nel 1900, 150 milioni di

persone vivevano in contesti cittadini. Nel 2000 erano 2,8 miliardi, con un incremento di 19 volte.

Dal 2008 più della metà della popolazione mondiale vive nelle città, e per la prima volta l‟uomo è

diventato una specie urbana.

Nel 1900 esistevano soltanto una manciata di città con un milione di abitanti. Oggi 431 città

raggiungono o superano questo valore. Ci sono poi 19 megalopoli con 10 o più milioni di residenti.

La più grande è Tokyo, che con i suoi 36 milioni ha più abitanti del Canada. I 19 milioni di persone

che vivono nell‟area metropolitana di New York eguagliano gli abitanti dell‟Australia. Città del

Messico, Mumbai (la ex Bombay), San Paolo, Delhi, Shanghai, Calcutta e Dacca seguono da vicino.

Le aree urbane di tutto il mondo stanno affrontando problemi senza precedenti. A Città del Messico,

Teheran, Calcutta, Bangkok, Pechino e in centinaia di altre città l‟aria non è più respirabile. In alcuni

casi è così inquinata che inalarla equivale a fumare due pacchetti di sigarette al giorno. L‟incidenza

delle malattie respiratorie è enormemente cresciuta. In molti luoghi, il numero di ore che i pendolari

spendono fermi nel traffico congestionato di strade e autostrade, aumenta ogni anno, aumentandone

la frustrazione.

In risposta a queste condizioni, assistiamo alla nascita di un nuovo concetto di urbanizzazione, una

filosofia di progettazione che, come dice l‟ambientalista Francesca Lyman, “cerca di recuperare la

pianificazione urbana tradizionale, appartenente a un‟epoca nella quale le città erano progettate per

gli esseri umani invece che per le automobili”. Una delle trasformazioni urbane più interessanti si è

verificata a Bogotà, in Colombia, città della quale Enrique Peñalosa è stato sindaco per tre anni.

Quando fu eletto nel 1998 non si chiese come migliorare la vita al 30% della popolazione che

possedeva un‟automobile; cercò di capire cosa si poteva fare per il restante 70%, la maggioranza, che

non ne era dotata.

Peñalosa si rese conto che un ambiente piacevole per bambini e anziani sarebbe stato migliore per

tutti. In pochi anni ha trasformato la qualità della vita urbana grazie alla sua visione di una città

progettata a misura d‟uomo. Sotto la sua direzione, la città ha impedito il parcheggio delle auto sui

marciapiedi, avviato o recuperato 1.200 parchi, introdotto un ottimo sistema di trasporto rapido

basato su autobus (Bus based Rapid Transit, BRT), costruito centinaia di chilometri di piste ciclabili

e di strade pedonali, ridotto del 40% il traffico nelle ore di punta, piantato 100 mila alberi

coinvolgendo direttamente i cittadini nel miglioramento dei propri quartieri. Così facendo, ha

contribuito alla creazione di un senso di orgoglio civico negli 8 milioni di residenti, rendendo le

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171

strade di Bogotà, un paese lacerato dai conflitti sociali, più sicure di quelle di Washington.

Peñalosa osserva che “generalmente uno spazio pubblico pedonale di alta qualità, e in modo

particolare i parchi, sono la testimonianza di una democrazia che funziona. I parchi e gli spazi

pubblici sono anche importanti per una società democratica perché sono gli unici posti dove le

persone si incontrano in modo egualitario. In una città, i parchi sono essenziali per la salute fisica ed

emotiva quanto la fornitura dell‟acqua”. Afferma inoltre che questo non è un fatto scontato nella

maggior parte dei bilanci comunali, dove i parchi sono ritenuti un lusso. Al contrario, “le strade, che

sono lo spazio pubblico delle auto, ricevono infinitamente molte più risorse e meno tagli di bilancio

rispetto ai parchi, che sono lo spazio pubblico per i bambini. Perché”, chiede, “gli spazi pubblici per

le auto sono considerati più importanti degli spazi pubblici per i bambini?”.

Peñalosa non è l‟unico ad aver sposato questa nuova filosofia urbanistica. Alcune città, sia nei paesi

industrializzati sia in quelli in via di sviluppo, stanno fortemente incrementando la mobilità urbana a

discapito dell‟automobile. Jaime Lerner, mentre era sindaco di Curitiba in Brasile, ha inaugurato il

progetto e l‟adozione di un sistema alternativo di trasporti a basso costo e di comoda fruizione per i

pendolari. Dal 1974 il sistema dei trasporti di Curitiba è stato totalmente ristrutturato. Malgrado il

60% dei cittadini possieda un‟auto, i trasporti pubblici, le biciclette e i pedoni rappresentano l‟80%

della mobilità urbana.

Attualmente gli urbanisti in diverse parti del mondo stanno sperimentando ed esplorando le strategie

per rendere le città a misura d‟uomo e non d‟automobile. Le auto promettono mobilità e la

garantiscono in contesti prevalentemente rurali. Ma in un mondo in via di urbanizzazione esiste un

conflitto tra l‟automobile e la città. Superata una certa soglia, quando il loro numero si moltiplica, le

automobili sono piuttosto causa di immobilità.

Page 172: L. Bro wn - Piano B 4.0

172

6.1 L’ecosistema cittadino

L‟evoluzione delle città moderne è strettamente collegata allo sviluppo dei trasporti, dapprima navi e

treni. Ma è stato il motore a combustione interna, unito alla disponibilità di carburante a basso costo,

che ha consentito l‟esplosione della mobilità di persone e merci e ha promosso la fenomenale

crescita urbana del XX secolo.

Le città necessitano di una concentrazione di cibo, acqua, energia e materiali che la natura non può

fornire. La gestione dell‟approvvigionamento di questi materiali, che poi vengono smaltiti sotto

forma di rifiuti, liquami e sostanze inquinanti dell‟aria e dell‟acqua, è una sfida per le

amministrazioni municipali di tutto il mondo.

Le città antiche usavano il cibo e l‟acqua provenienti dalle campagne circostanti, ma oggi spesso

dipendono da fonti lontane per soddisfare i loro fabbisogni. Los Angeles, per esempio, copre la

maggior parte del suo consumo idrico prelevando acqua dal fiume Colorado, distante quasi 1.000

chilometri. La popolazione di Città del Messico dipende attualmente da un oneroso sistema di

pompaggio dell‟acqua, che viene prelevata a 160 chilometri di distanza e portata a 3.000 metri di

altitudine. Pechino ha in progetto di attingere acqua dal bacino del fiume Yangtze, a circa 1.300

chilometri.

Il cibo percorre distanze persino maggiori, come avviene ad esempio a Tokyo. Mentre la città ancora

si procura il riso dagli efficienti contadini giapponesi, le cui terre sono ben tutelate dalla politica

governativa, il frumento proviene principalmente dall‟Australia e dalle grandi pianure dell‟America

del Nord. Il mais viene dal Midwest degli Stati Uniti, e la soia arriva anche dal Cerrado brasiliano.

Il carburante stesso, che viene usato per muovere queste risorse, dentro e fuori le città, spesso

proviene da giacimenti petroliferi remoti. L‟aumento dei prezzi del petrolio colpirà le città, e ancor di

più le periferie che sono proliferate intorno a esse. La crescente carenza d‟acqua e l‟alto costo

dell‟energia impiegata per trasportarla a lunghe distanze possono frenare la crescita di alcuni

insediamenti urbani. Richard Register, autore del libro Ecocities: Rebuilding Cities in Balance with

Nature, propone una visione alternativa, e sostiene che è giunto il momento di rivedere totalmente i

criteri con cui vengono progettate le città. Register concorda con Peñalosa non solo sul fatto che gli

insediamenti urbani devono essere disegnati per le persone e non per le auto, ma si spinge oltre e

parla di città concepite come comunità pedonali, in modo che le persone non abbiano bisogno

dell‟auto poiché possono andare ovunque a piedi o utilizzando i mezzi pubblici. Register afferma che

una città deve essere considerata come un sistema funzionante sulla base della sua totalità e non delle

sue parti, e sostiene in modo convincente che le città dovrebbero essere integrate all‟interno degli

ecosistemi locali, piuttosto che imporsi su di essi.

Register descrive con orgoglio un‟integrazione di questo tipo realizzata a San Luis Obispo, una città

di 43 mila abitanti a nord di Los Angeles: “È previsto un progetto di recupero della sua insenatura

che contempla diverse strade e percorsi che passano attraverso gli edifici, delimitati da negozi che si

raccordano alla principale via commerciale della città. La gente se ne è innamorata. Prima di

chiudere le strade, di trasformare un piccolo parcheggio in un parco, di ripristinare i corsi d‟acqua, il

centro della città aveva il 40% di negozi sfitti; ora ne ha zero. Si può andare al ristorante

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173

sull‟insenatura, dove la brezza soffia fra gli alberi in un mondo indisturbato dal rumore delle auto e

da fastidiosi scarichi”.

Per Register, la forma della città e dei suoi edifici deve diventare parte del paesaggio, e deve trarre

ricchezza dagli ecosistemi locali. Ad esempio, gli edifici possono essere progettati in modo da essere

riscaldati e rinfrescati il più possibile in modo naturale. A mano a mano che il prezzo del petrolio

salirà, frutteti e orti urbani si espanderanno sulle aree libere, sui tetti e sulle terrazze dei palazzi. Le

città possono vivere in gran parte di acqua riciclata, depurata e riutilizzata diverse volte. Nell‟epoca

successiva al picco del petrolio, l‟utilizzo delle acque basato sullo scarico senza il riciclo diventerà

troppo oneroso per molte zone urbane con carenze idriche.

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174

6.2 Riprogettare il trasporto urbano

Sistemi di mobilità cittadina basati su una combinazione di trasporti su rotaia, autobus, piste ciclabili

e percorsi pedonali offrono i migliori risultati in termini di spostamenti delle persone, trasporti a

basso costo e ambienti urbani salutari. Il trasporto ferroviario è fondamentale in un sistema di

mobilità urbana. Le rotaie sono fisse e rappresentano un mezzo di trasporto permanente e affidabile.

Una volta consolidato questo sistema, i suoi snodi costituiscono i luoghi attorno ai quali si

concentreranno naturalmente uffici, grattacieli e negozi. La scelta tra metropolitana sotterranea o di

superficie, o entrambe, dipende in parte dalla dimensione della città e dalla sua conformazione.

Berlino, ad esempio, le ha entrambe. Le megalopoli in genere optano per le metropolitane

sotterranee, mentre per le città di media grandezza la metropolitana leggera è spesso un‟opzione più

vantaggiosa.

Come osservato prima, alcuni dei sistemi di trasporto pubblico più innovativi, quelli che riescono a

spostare in massa i cittadini dall‟auto all‟autobus, sono stati sviluppati a Curitiba e a Bogotà. Il

sistema a transito rapido degli autobus di Bogotà (BRT), il TransMilenio, che ricorre a corsie

preferenziali dedicate al trasporto delle persone, sta per essere replicato in sei città della Colombia,

oltre che a Città del Messico, San Paolo, Hanoi, Seoul, Istanbul e Quito. In Cina, Pechino è una delle

8 città che già usufruisce di sistemi BRT.

A Città del Messico, il corridoio BRT dell‟Avenue Insurgentes è stato ulteriormente ampliato,

passando da 20 a 30 chilometri e, grazie a 26 nuovi bus articolati, è in grado di trasportare fino a 260

mila passeggeri al giorno. La città prevede di avere 10 linee BRT operative entro il 2012. Nel sud

della Cina, entro la fine del 2009, la città di Canton avvierà il suo BRT, disegnato per più di 600 mila

passeggeri al giorno. Oltre a essere collegato a tre stazioni della metropolitana, sarà interamente

costeggiato da una pista ciclabile. Canton avrà anche 5.500 parcheggi per biciclette destinati a coloro

che si avvalgono della mobilità mista bicicletta-BRT.

In Iran, Teheran ha lanciato la sua prima linea BRT nel 2008. Diverse altre sono in fase di progetto e

saranno integrate con quelle della nuova metropolitana. Numerose città africane stanno pianificando

sistemi BRT. Anche città di paesi industrializzati, come Ottawa, Toronto, New York, Minneapolis,

Chicago, Las Vegas e Los Angeles, hanno inaugurato o stanno attualmente prendendo in

considerazione sistemi BRT.

Alcune città stanno riducendo traffico e smog imponendo il pagamento di un pedaggio per l‟accesso

alla città. Singapore, da tempo leader nell‟innovazione dei trasporti urbani, lo prevede per l‟accesso a

tutte le strade che conducono in centro. Sensori elettronici riconoscono l‟auto e l‟importo viene

addebitato sulla carta di credito del proprietario. Questo sistema ha ridotto il numero di automobili a

Singapore, garantendo ai residenti una migliore mobilità e un‟aria più pulita.

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175

L‟esperienza di Singapore è stata replicata da tre città norvegesi, Oslo, Bergen e Trondheim, oltre

che da Londra e Stoccolma. A Londra, dove la velocità media di un‟automobile qualche anno fa era

paragonabile a quella di una carrozza a cavalli del secolo scorso, all‟inizio del 2003 è stata introdotta

una tassa sul traffico. Il pedaggio iniziale di 5 sterline (quasi 6 euro), valido per tutti i mezzi

motorizzati in entrata al centro della città tra le 7 e le 18 e 30, ha immediatamente fatto diminuire il

numero di veicoli in circolazione, rendendo il traffico più fluido e riducendo inquinamento e rumore.

Dopo un anno dall‟introduzione del pedaggio, il numero di persone che utilizzano gli autobus per

recarsi in centro è cresciuto del 38% e la velocità dei veicoli nelle vie principali è aumentata del

21%. Nel luglio del 2005, il pedaggio è stato portato a 8 sterline (quasi 9 euro). Poi, nel febbraio

2007 l‟area interessata è stata estesa verso ovest. Il ricavato della tassa viene usato per migliorare i

trasporti pubblici e i londinesi stanno stabilmente continuando a sostituire l‟auto con gli autobus, le

biciclette e la metropolitana. Da quando è stata adottato il ticket, il flusso quotidiano di automobili e

furgoni verso il centro è sceso del 36% nelle ore di punta, e il numero di biciclette è cresciuto del

66%.

Nel gennaio 2008, Milano ha adottato una tassa sull‟inquinamento denominata Eco Pass (con un

importo variabile a seconda del tipo di veicolo) per i mezzi che entrano nel centro durante le ore del

giorno. Anche San Francisco, Torino, Genova, Kiev, Dublino e Auckland stanno valutando

l‟opportunità di adottare misure simili.

Il sindaco di Parigi, Bertrand Delanoë, dopo essere stato eletto nel 2001, ha dovuto fronteggiare uno

dei più gravi problemi di traffico e di smog d‟Europa. Ha stabilito che la congestione automobilistica

si sarebbe dovuta ridurre del 40% entro il 2020. Il primo passo è stato quello di investire nel

miglioramento dei collegamenti fra Parigi e gli insediamenti del circondario, in modo che i residenti

nell‟area metropolitana parigina potessero accedere a trasporti pubblici di alta qualità. Il passo

successivo è stato quello di creare corsie preferenziali per gli autobus e per le biciclette nelle vie più

trafficate, riducendo di conseguenza le corsie dedicate alle automobili. Con il progressivo incremento

della velocità degli autobus, la gente ha cominciato a usare di più i trasporti pubblici.

Una terza iniziativa è stata l‟attuazione di un programma di noleggio di biciclette: ne sono state

messe a disposizione circa 20.600 collocate in 1.450 rastrelliere disseminate nella città. L‟accesso al

noleggio avviene tramite carta di credito, con una scelta tra tariffe giornaliere, settimanali o annuali

da 1 a 29 euro all‟anno. Se la bici viene usata per meno di 30 minuti, il noleggio è gratuito. Il

successo nei primi due anni è stato enorme, con ben 48 milioni di noleggi effettuati. Patrick Allin,

entusiasta utilizzatore delle bici, dice che sono ottime per conversare: “Non siamo più isolati nelle

nostre macchine, ma socializziamo. È cambiata l‟atmosfera; la gente chiacchiera alle stazioni di

noleggio e persino ai semafori”.

Serge Schmemann, in un articolo sul New York Times, ritiene che questa sia “una lezione per tutte le

grandi città: un‟idea per la quale i tempi sono maturi”. Delanoë è sulla strada giusta per il

raggiungimento dei suoi obiettivi di riduzione del traffico e delle emissioni di anidride carbonica. Il

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176

successo del programma di bici sharing ha portato alla sua estensione anche in 30 sobborghi

cittadini, e ha indotto altre città, come Londra, a imitarlo.

Negli Stati Uniti, molto indietro rispetto all‟Europa nello sviluppo di sistemi di trasporto urbano

diversificati, si sta diffondendo rapidamente il movimento “Complete Streets”, che tenta di rendere

utilizzabili le strade a pedoni e biciclette tanto quanto lo sono alle automobili. Molte comunità

americane sono prive di marciapiedi e di piste ciclabili, e gli spostamenti di pedoni e ciclisti sono

difficili e pericolosi, specie nelle strade intensamente trafficate. A Charlotte, nella Carolina del Nord,

l‟assessore alla mobilità Norm Steinman afferma: “Non abbiamo costruito marciapiedi negli ultimi

50 anni. Le strade progettate dagli ingegneri del traffico negli anni Sessanta, Settanta, Ottanta e

Novanta sono state concepite favorendo le automobili”.

Questo modello incentrato sulla mobilità automobilistica è stato sfidato dalla National Complete

Streets Coalition, un‟influente coalizione di comitati cittadini alla quale aderiscono il Natural

Resources Defense Council, con un milione di soci, l‟AARP (un‟organizzazione di 40 milioni di

anziani) e numerose organizzazioni di ciclisti locali e nazionali. Il Complete Streets è un movimento

prodotto da “una tempesta perfetta composta da numerose questioni connesse tra loro”, dice Randy

Neufeld, coordinatore della Chicagoland Bicycle Federation‟s Healthy Streets Campaign. Tra le

problematiche che hanno contribuito a dar forza a questo movimento si trovano le preoccupazioni

per l‟epidemia di obesità, il rialzo dei prezzi della benzina, l‟urgenza di ridurre le emissioni di CO2,

l‟inquinamento atmosferico e le difficoltà di mobilità della generazione nata tra il dopoguerra e il

boom economico degli anni Sessanta (baby boomer) che ora sta invecchiando. Gli anziani, che

vivono in zone urbane senza marciapiedi e che non guidano più, sono praticamente imprigionati

nelle proprie case.

La National Complete Streets Coalition, guidata da Barbara McCann, riporta che nel luglio 2009 le

linee guida per la realizzazione di strade accessibili a tutti (complete streets policies) sono state

recepite in 18 stati, inclusi la California e l‟Illinois, e in 46 città. Gli stati e le città si sono resi conto

che prevedere già in fase di progetto piste ciclabili, marciapiedi e altri interventi di questo tipo è

meno costoso che aggiungerli in un secondo tempo. Come sottolinea McCann, “è più economico

realizzare queste cose fin dal principio”. Una proposta per le complete streets a livello nazionale è

stata presentata al Congresso nel 2009.

Strettamente collegato a tale approccio è il movimento che incoraggia e facilita l‟andare a scuola a

piedi. Avviato nel 1994 nel Regno Unito, è ora diffuso in 40 paesi inclusi gli Stati Uniti. Quaranta

anni fa, più del 40% dei bambini americani si recava a scuola in bici o a piedi: oggi siamo sotto il

15%. Attualmente il 60% va a scuola in automobile direttamente o accompagnato. E ciò non solo

contribuisce all‟obesità infantile, ma la American Academy of Pediatrics (Società americana di

pediatria) riporta incidenti molto più frequenti tra i bimbi che vanno a scuola in auto rispetto a coloro

che ci vanno a piedi o con lo scuolabus. Tra i potenziali benefici derivanti dal camminare fino a

scuola ci sono la riduzione dell‟obesità e del diabete infantile.

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177

I paesi che hanno sistemi di trasporto urbano e di piste ciclabili ben sviluppati sono più preparati ad

affrontare le tensioni provocate dal ribasso mondiale della produzione di petrolio, rispetto ai paesi

nei quali l‟unico mezzo di trasporto è l‟automobile. Con una piena disponibilità di scelte per

spostamenti a piedi o in bicicletta, la percentuale di tragitti automobilistici può essere ridotta del 10-

20%.

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178

6.3 Il ritorno delle biciclette

La bicicletta è molto attraente sotto il profilo della mobilità individuale: alleggerisce la congestione

stradale, diminuisce l‟inquinamento atmosferico, riduce l‟obesità, migliora la forma fisica, durante

l‟uso non produce emissioni di anidride carbonica e ha un prezzo accessibile anche a quei miliardi di

individui che non possono permettersi un‟automobile. Le biciclette riducono il traffico e

l‟occupazione di suolo, dato che nello spazio occupato da un‟auto possono essere parcheggiate fino a

20 biciclette.

La produzione mondiale di bici, che aveva mantenuto una media di circa 94 milioni di pezzi all‟anno

dal 1990 al 2002, ha raggiunto i 130 milioni nel 2007, distanziando di gran lunga la produzione di

automobili, ferma a 70 milioni. Le vendite di bici stanno ora aumentando, dato che molti governi

hanno previsto una serie di incentivi per incoraggiarne l‟uso onde diminuire traffico e smog. Il

governo italiano nel 2009 ha per esempio introdotto un sostanzioso incentivo per incoraggiare

l‟acquisto di bici o di bici elettriche, con un rimborso diretto del 30% del loro prezzo di acquisto, allo

scopo di migliorare la qualità dell‟aria nelle città e ridurre il numero di autoveicoli.

La Cina, con i suoi 430 milioni di biciclette, ha la flotta più grande del mondo, ma le percentuali di

possesso sono più alte in Europa. L‟Olanda ha più di una bici a persona, mentre la Danimarca e la

Germania poco meno di una a testa.

La bicicletta non è soltanto un mezzo di trasporto flessibile, ma anche un modo ideale per ripristinare

l‟equilibrio tra le calorie assunte e quelle consumate. Andando in bici al lavoro si pratica ad esempio

un‟attività regolare che riduce il rischio di malattie cardiovascolari, osteoporosi, artrite e che rafforza

il sistema immunitario. Pochi metodi sono tanto efficaci per ridurre le emissioni di anidride

carbonica come l‟uso della bicicletta in sostituzione dell‟auto per i tragitti brevi. La bicicletta è un

capolavoro di efficienza ingegneristica, dato che l‟utilizzo di 10 chilogrammi di metallo e gomma

incrementa di tre volte la mobilità individuale; inoltre, per percorrere 12 chilometri in bici si

consuma una quantità di energia equivalente a quella fornita da una patata. Un‟autovettura, che

necessita di almeno una tonnellata di materiale per trasportare una persona, è in confronto

straordinariamente inefficiente.

La capacità della bicicletta di offrire mobilità a popolazioni a basso reddito è stata ampiamente

dimostrata in Cina.

Nel 1976 questo paese ha prodotto 6 milioni di biciclette. Dopo le riforme del 1978, che hanno

portato a un‟economia di libero mercato e all‟aumento dei redditi, la produzione di biciclette ha

iniziato a crescere, fino a quasi 90 milioni nel 2007. Questo balzo improvviso – nel 2007 i proprietari

di biciclette in Cina erano 430 milioni – rappresenta il più grande incremento nella mobilità umana

della storia. Nonostante i 24 milioni di automobili e la congestione urbana che causano destino molta

attenzione, sono le biciclette che consentono la mobilità a centinaia di milioni di cinesi.

Molte città si stanno orientando verso le biciclette per diversi utilizzi. Negli Stati Uniti, quasi il 75%

dei dipartimenti di polizia dei centri con almeno 50 mila abitanti dispongono di pattuglie di

sorveglianza in bicicletta. I poliziotti in bici sono più veloci e possono raggiungere il luogo di un

incidente o di un crimine in silenzio. Operano mediamente il 50% in più di arresti al giorno rispetto

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ai colleghi in auto. Inoltre, i costi di manutenzione di una bicicletta sono insignificanti in confronto a

quelli di un‟autovettura.

College e università si stanno anch‟essi convertendo alla bici. I campus sono congestionati dalle auto

e dal traffico, e la necessità di costruire nuovi edifici residenziali costringe a scoraggiare l‟uso della

macchina. La St. Xavier University di Chicago ha lanciato un programma di bike sharing

nell‟autunno del 2008. È ispirato a quello di Parigi, ma gli studenti usano le tessere identificative

universitarie anziché le carte di credito. L‟università di Emory ad Atlanta in Georgia ha introdotto un

sistema di bike sharing gratuito, anch‟esso basato sulle tessere universitarie. Jamie Smith,

responsabile del progetto, dice: “Ci piace l‟idea di promuovere qui la cultura della bicicletta”.

Il Ripon College del Wisconsin e l‟University of New England nel Maine sono andati oltre. Hanno

trovato più conveniente fornire una bici a ogni matricola, se accetta di lasciare a casa l‟auto.

Rimpiazzare le auto con le bici non solo riduce traffico e inquinamento, ma stimola il senso di

appartenenza a una comunità.

I servizi postali in bicicletta sono comuni nelle più grandi città del mondo semplicemente perché

consegnano i piccoli plichi in modo più veloce e conveniente delle auto. Con l‟espansione dell‟e-

commerce, il bisogno di consegne rapide e affidabili sta crescendo. Per le aziende che vendono su

Internet, consegne veloci significano più clienti.

La chiave per sviluppare il potenziale delle biciclette è la creazione di un sistema di trasporti

compatibile con esse. Ciò significa sia la realizzazione di rastrelliere per il parcheggio sia la

costruzione di piste ciclabili. I paesi leader nella progettazione di sistemi di trasporto ciclabile sono

l‟Olanda, dove il 27% di tutti i tragitti viene percorso in bici, la Danimarca con il 18% e la Germania

con il 10%. Al contrario, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sono fermi entrambi all‟1%.

Uno studio di John Pucher e Ralph Buehler della Rutgers University analizza le ragioni di queste

disparità. I due autori notano che “l‟uso estensivo della bicicletta in Olanda, Danimarca e Germania è

coadiuvato da ampi parcheggi, piena integrazione col trasporto pubblico, educazione al traffico e

training degli automobilisti e dei ciclisti. Questi paesi scoraggiano l‟uso dell‟auto attraverso un

sistema di tasse e restrizioni sulla proprietà e il parcheggio... È l‟implementazione coordinata di

queste politiche multifattoriali che spiega il successo di questi tre paesi nel promuovere la bicicletta.

Ed è la carenza di queste politiche che spiega la marginalità della bicicletta in Inghilterra e negli Stati

Uniti”.

Fortunatamente, molti americani si stanno dando da fare per cambiare le cose. Tra questi, spicca il

deputato Earl Blumenauer dell‟Oregon. Appassionato ciclista, è il fondatore e il coordinatore del

comitato ciclistico del Congresso, che conta oggi 180 membri.

In Olanda, leader indiscussa per l‟uso della bici, è stato implementato un Bicycle Master Plan che,

oltre a creare piste ciclabili e rastrelliere in tutte le città, concede ai ciclisti la precedenza sulle auto

nelle strade e ai semafori. Alcuni segnali stradali permettono ai ciclisti di passare prima delle

automobili. Nel 2007, Amsterdam è diventata la prima città occidentale industrializzata in cui il

numero di spostamenti in bicicletta ha superato quelli in automobile.

Sempre in Olanda, un‟organizzazione non governativa, la Interface for Cycling Expertise (I-ce), ha

lo scopo di divulgare l‟esperienza olandese di progettazione di un moderno sistema di trasporto che

valorizzi principalmente il ruolo della mobilità ciclabile. Attualmente la I-ce sta collaborando con

gruppi di lavoro in Botswana, Brasile, Cile, Colombia, Ecuador, Ghana, India, Kenya, Perù, Sud

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180

Africa e Uganda per facilitare l‟uso della bicicletta. Roelef Wittink, il capo dell‟I-ce, osserva che “se

si progetta pensando unicamente alle autovetture, gli automobilisti si sentiranno i re della strada. Di

conseguenza l‟atteggiamento per il quale la bicicletta viene considerata un‟abitudine retrograda si

rafforzerà ed essa finirà per essere usata solo dai poveri. Ma se si progetta per le biciclette,

l‟atteggiamento pubblico cambia”.

Sia l‟Olanda sia il Giappone hanno portato avanti uno sforzo di integrazione tra bicicletta e servizi

ferroviari per pendolari mettendo a disposizione parcheggi per bici alle stazioni, rendendo così più

semplice ai ciclisti recarsi al lavoro con il treno. In Giappone, l‟uso delle biciclette da parte dei

pendolari ferroviari ha un tale successo che alcune stazioni hanno investito in parcheggi multipiano

verticali solo per biciclette, esattamente come si fa per le auto.

Le vendite di biciclette elettriche, un genere relativamente nuovo di veicolo, sono decollate. Questi

mezzi sono simili alle auto elettriche, ma la doppia propulsione in questo caso è rappresentata dalla

forza muscolare e dalle batterie che possono essere ricaricate alla rete elettrica quando serve. Le

vendite di bici elettriche in Cina, dove la tecnologia ha avuto grande successo, sono balzate dalle 40

mila unità del 1998 ai 21 milioni del 2008. La Cina ha oggi quasi 100 milioni di biciclette elettriche e

solo 14 milioni di automobili. Queste bici stanno attirando l‟attenzione di altri paesi asiatici oppressi

dalla piaga dell‟inquinamento, e anche degli Stati Uniti e dell‟Europa, dove le vendite hanno

oltrepassato i 300 mila pezzi l‟anno.

Contrariamente alle auto plug-in, le biciclette elettriche non usano direttamente alcun combustibile

fossile. Se riusciremo ad attuare la transizione dall‟energia prodotta dalle centrali a carbone a quella

eolica, solare e geotermica, allora anche le bici elettriche saranno completamente indipendenti dai

combustibili fossili. L‟integrazione di vie pedonali e piste ciclabili nei sistemi di trasporto urbano

rende una città di gran lunga più vivibile rispetto a quella che conta soltanto sulla mobilità privata. Si

riducono il rumore, l‟inquinamento, il traffico, la frustrazione, e il pianeta e i suoi abitanti ne

guadagnano in salute.

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181

6.4 Il risparmio idrico nelle città

Utilizzare l‟acqua una sola volta e per smaltire i rifiuti umani e industriali è un sistema antiquato e

che, a causa delle carenze di risorse idriche, rischia di produrre gravi danni. L‟acqua che entra in una

città viene contaminata da rifiuti di origine umana e industriale e ne esce pericolosamente inquinata.

I rifiuti industriali tossici scaricati nei fiumi, nei laghi o nei pozzi inoltre si infiltrano nelle falde,

rendendo l‟acqua di superficie e quella sotterranea pericolose da bere.

L‟attuale impostazione prevede l‟impiego di enormi quantità di risorse idriche per riversare i rifiuti

in un sistema fognario nel quale l‟acqua può essere o meno trattata prima di essere scaricata nei corsi

d‟acqua locali. L‟abitudine a disfarsi dell‟acqua senza pensarci (flush and forget) rimuove i nutrienti

che si trovano nei terreni e li disperde nei corsi d‟acqua. Questa prassi ha due conseguenze: da un

lato i terreni si impoveriscono, dall‟altro le eccessive concentrazioni di nutrienti causano la

formazione di zone morte (dead zones) lungo le coste oceaniche (attualmente ne sono censite circa

400). Questo sistema è quindi costoso, usa l‟acqua in modo intensivo, interrompe il ciclo dei

nutrienti del terreno ed è fonte di malattie e decessi. In tutto il mondo, lo scarso livello della

disinfezione e dell‟igiene personale sono responsabili della morte di due milioni di bambini all‟anno,

pari a un terzo di quei sei milioni causati da fame e malnutrizione.

Sunita Narain, del Centre for Science and Environment, sostiene in modo convincente che in India

un sistema fognario basato sull‟uso dell‟acqua e di depuratori non è sostenibile né ambientalmente né

economicamente. Fa notare che una famiglia indiana di cinque persone che produce in un anno 250

litri di escrementi, usando un normale sciacquone contamina con gli scarichi 150 mila litri di acqua.

Per come è attualmente progettata, la rete fognaria indiana è in pratica un sistema di diffusione di

microrganismi patogeni. È sufficiente una piccola quantità di contaminanti per sottrarre all‟uso

umano grandi quantitativi di acqua. Con questo sistema, Narai sostiene che “i nostri fiumi e i nostri

bambini stanno morendo”. Il governo indiano, come quello di molti altri paesi in via di sviluppo, sta

inutilmente cercando di estendere sistemi fognari basati sull‟uso dell‟acqua e strutture per la loro

depurazione a tutto il paese. Pur non essendo in grado di colmare l‟enorme divario tra i servizi

necessari e quelli erogati, non vuole comunque ammettere che si tratta di un‟opzione

economicamente irrealizzabile.

Fortunatamente esiste un‟alternativa economica: la compost toilette. Si tratta di un gabinetto che non

usa acqua, è inodore, è collegato a un piccolo impianto di compostaggio e a volte a un serbatoio di

raccolta separata dell‟urina. L‟urina raccolta può poi essere utilizzata dalle aziende agricole come

fertilizzante. La compostiera converte il materiale fecale umano in humus, che è privo di odori e

occupa meno del 10% del volume originale. La compostiera va svuotata circa una volta l‟anno, a

seconda del modello e delle dimensioni. I rivenditori periodicamente prelevano l‟humus e lo

rivendono come concime, assicurando così che i nutrienti e le materie organiche ritornino al terreno e

riducendo il bisogno di fertilizzanti chimici la cui produzione richiede molta energia.

Questa tecnologia abbatte considerevolmente i consumi idrici delle abitazioni e le loro bollette,

riducendo nel contempo la quantità di energia necessaria al pompaggio dell‟acqua e alla sua

depurazione. Inoltre, nel caso vengano aggiunti anche gli scarti alimentari riduce la produzione di

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rifiuti solidi, ripristina il ciclo dei nutrienti e risolve il problema del trattamento delle acque nere. La

Environmental Protection Agency degli Stati Uniti elenca diverse marche di toilette compost

legalmente approvate. Questi gabinetti, usati inizialmente in Svezia, hanno dimostrato di funzionare

benissimo in tutte le condizioni in cui sono stati sperimentati, inclusi condomini svedesi, case

americane e villaggi cinesi. Per i 2,5 miliardi di persone che non hanno un sistema fognario, le

compost toilet possono rappresentare la risposta.

Rose George, autore di The Big Necessity: The Unmentionable World of Human Waste and Why It

Matters ci ricorda che il sistema flush and forget (scarica e dimentica) divora energia per due ragioni.

La prima è che l‟energia è necessaria per trasportare grandi quantità di acqua potabile (lo sciacquone

è responsabile fino al 30% dei consumi idrici abitativi). La seconda è che ci vuole molta energia per

gestire un impianto di depurazione. Molti anni fa il presidente americano Theodore Roosevelt

osservava che “i popoli civilizzati devono trovare un sistema alternativo allo smaltimento dei propri

escrementi che non sia quello di gettarli nell‟acqua potabile”.

In sostanza, ci sono varie ragioni perché le compost toilet più avanzate meritano la priorità: sempre

maggiori penurie idriche, prezzi dell‟energia crescenti, aumento delle emissioni, riserve di fosfati in

via di esaurimento, un grande numero di zone morte oceaniche a causa degli scarichi in mare,

l‟incremento dei costi sanitari per malattie intestinali e un aumento dei capitali da investire per la

realizzazione dei sistemi fognari tradizionali.

Una volta che il gabinetto è separato dal sistema idrico, anche riciclare l‟acqua domestica diventa

molto più semplice. Nelle città, il metodo più efficiente per aumentare la produttività idrica è

l‟adozione di un sistema di trattamento e riciclaggio idrico che usi sempre la stessa acqua. Con un

sistema di questo genere, che è assai semplificato se sono assenti le cosiddette acque nere, solo una

piccola parte d‟acqua si perde per evaporazione durante il ciclo.

E con le tecnologie oggi disponibili è possibile riciclare quasi all‟infinito le acque urbane. Alcune

città che affrontano il problema della penuria idrica e dell‟aumento dei prezzi stanno cominciando a

riutilizzare la loro acqua. Singapore, ad esempio, che compra acqua dalla Malesia a prezzi molto alti,

la sta già riciclando riducendone così le importazioni. Windhoek, capitale della Namibia, uno dei

luoghi più aridi dell‟Africa, ricicla le acque grigie traendone acqua potabile. Nella California, ove vi

è una carenza idrica, la contea di Orange ha investito 481 milioni di dollari in un sistema di

depurazione che, aperto all‟inizio del 2008, converte le acque grigie in acqua pulita e sicura destinata

al ripristino delle falde acquifere locali. Los Angeles sta per seguirne l‟esempio. Nella Florida

meridionale nel 2007 è stato approvato un piano per riciclare l‟acqua usata in acqua potabile. Per un

numero sempre maggiore di città, il riciclaggio idrico sta diventando una questione di sopravvivenza.

Molte industrie stanno sperimentando situazioni di carenza idrica e si stanno orientando verso

sistemi di smaltimento dei rifiuti che non utilizza acqua. Alcune aziende convogliano i flussi

dell‟acqua di scarico trattandoli con prodotti chimici appropriati e con sistemi di filtrazione a

membrana, al fine di riutilizzarli. Peter Gleick, curatore della relazione biennale The World‟s Water

scrive: “Alcune attività, come quelle di lavorazione finale dei metalli, le cartiere, le lavanderie

industriali, stanno cominciando a sviluppare sistemi a ciclo chiuso grazie a cui tutte le acque reflue

vengono riutilizzate all‟interno dell‟industria, e in questo modo necessitano di modeste quantità di

nuova acqua per recuperare quella che evapora o che viene incorporata nei vari prodotti”. Le

industrie si stanno muovendo più velocemente rispetto alle città, ma le tecnologie che hanno

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sviluppato possono essere usate anche per il riciclo dell‟acqua urbana.

A livello domestico, l‟acqua può essere risparmiata anche tramite l‟uso di docce, gabinetti,

lavastoviglie e lavatrici ad alta efficienza idrica. Alcuni paesi stanno adottando standard di efficienza

idrica degli elettrodomestici e le relative etichettature, analoghe a quelle per l‟efficienza energetica.

Quando i costi dell‟acqua saliranno, cosa che accadrà inevitabilmente, anche in ambito domestico

diventeranno economicamente attraenti le toilette a compostaggio e gli elettrodomestici ad alta

efficienza idrica.

A livello domestico, gabinetti e docce sono insieme responsabili di più della metà dei consumi

d‟acqua domestici. Mentre i gabinetti a scarico tradizionale hanno bisogno di quasi 23 litri per ogni

utilizzo, negli Stati Uniti il limite massimo per quelli nuovi è di 6 litri e in quelli dotati di tasto per la

scelta tra due opzioni, soltanto 4 litri o 6 litri. Passare da una doccia che fa scorrere circa 20 litri al

minuto a una da meno di 10 litri dimezza il consumo dell‟acqua. Per le lavatrici, quelle a carico

frontale progettate in Europa usano il 40% in meno d‟acqua rispetto ai tradizionali modelli americani

con carica dall‟alto.

Il sistema di smaltimento attuale basato sull‟acqua non è sostenibile. Vi sono troppe abitazioni,

fabbriche e allevamenti per potersi permettere di continuare a lavare e a smaltire sprecando le risorse

idriche del nostro pianeta sovrappopolato. Continuare con questo approccio è da incoscienti oltre che

retrogrado, un sistema appartenente a un‟epoca nella quale c‟erano molto meno persone e attività

produttive.

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184

6.5 Coltivare in città

Mentre mi trovavo a Stoccolma per una conferenza, nell‟autunno del 1974, mi capitò di passare

accanto a un orto comunitario vicino a un grande condominio. Era un bel pomeriggio di ottobre, con

tanta gente che curava il proprio orto a pochi passi da casa. A distanza di 35 anni ricordo ancora la

scena grazie all‟aura di soddisfazione che emanava da quelle persone che producevano verdure e

fiori. Ricordo che pensai: “È il segno di una società civilizzata”. Nel giugno 2005, la FAO ha riferito

che le fattorie urbane e periurbane, quelle che si trovano nelle città o nelle loro immediate vicinanze,

forniscono cibo a circa 700 milioni di residenti urbani in tutto il mondo. Si tratta soprattutto di

piccoli appezzamenti, terreni abbandonati, cortili e persino tetti di palazzi.

All‟interno e nelle vicinanze di Dar Es Salaam, la capitale della Tanzania, ci sono circa 650 ettari di

terra dove si coltivano ortaggi. Questi terreni forniscono prodotti freschi alla città, e danno

sostentamento a 4.000 contadini che lavorano intensamente i loro piccoli appezzamenti per tutto

l‟anno. Lontano, dall‟altra parte del continente africano, un progetto della FAO permette ai cittadini

di Dakar, nel Senegal, di produrre fino a 30 chilogrammi annui di pomodori per metro quadrato, con

un ciclo continuo di coltivazione di orti collocati sui tetti dei palazzi.

A Hanoi, in Vietnam, l‟80% degli ortaggi freschi proviene da fattorie all‟interno o subito fuori dalla

città che producono anche il 50% della carne di maiale e pollo che vi viene consumato. La metà del

pesce d‟acqua dolce viene fornito da intraprendenti allevatori di pesce urbani. Il 40% delle uova si

produce all‟interno della città o nelle periferie. I contadini urbani riciclano in modo ingegnoso i

rifiuti umani e animali per nutrire le piante e per fertilizzare le vasche da itticoltura.

Gli acquacultori di Calcutta, in India, gestiscono vivai utilizzando le acque di scarico e producono 18

mila tonnellate di pesce ogni anno. I batteri delle vasche di depurazione demoliscono i rifiuti organici

provenienti dal sistema fognario cittadino. Ciò favorisce la crescita delle alghe che vanno a nutrire i

pesci. Questo sistema fornisce alla città approvvigionamenti di pesce fresco costanti e di qualità

decisamente migliore rispetto a qualsiasi altro presente sul mercato di Calcutta.

La rivista Urban Agriculture descrive come Shanghai sia riuscita a creare intorno alla città un

sistema di riutilizzo continuo delle sostanze nutritive. L‟amministrazione comunale gestisce 300 mila

ettari agricoli in cui vengono riciclati i rifiuti di origine umana provenienti da aree prive di sistemi

fognari moderni. Metà del maiale e dei polli consumati a Shanghai, il 60% delle verdure, il 90% di

latte e uova arrivano dalla città e dai dintorni.

A Caracas, in Venezuela, un progetto della FAO finanziato dal governo ha realizzato nei quartieri

della città 8.000 micro orti di un metro quadrato ciascuno, molti dei quali a pochi passi dalle cucine

delle famiglie. Non appena un ortaggio è maturo viene raccolto e al suo posto sono interrate nuove

piantine. Ogni metro quadrato, coltivato in continuazione, può produrre 330 cespi di lattuga all‟anno,

18 chilogrammi di pomodori o 16 chilogrammi di cavoli. L‟obiettivo del Venezuela è di raggiungere

in tutta la nazione 100 mila micro orti nelle aree urbane del paese e 1.000 ettari di appezzamenti

fertilizzati con il compost.

C‟è una lunga tradizione di orti collettivi nelle città europee. Sorvolando Parigi se ne possono vedere

in gran numero alla periferia della città. La Community Food Security Coalition (CFSC) riferisce che

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il 14% dei londinesi produce da sé una parte del proprio cibo. Per Vancouver, la più grande città

della costa occidentale del Canada, la percentuale è pari a un impressionante 44%.

In alcuni paesi, come gli Stati Uniti, vi è un potenziale enorme e inespresso per gli orti urbani.

Un‟indagine ha indicato che Chicago ha 70 mila lotti liberi e Filadelfia ne ha 31 mila. I lotti liberi a

livello nazionale sarebbero centinaia di migliaia. La relazione della Community Food Security

Coalition elenca i motivi per i quali la coltivazione urbana è una soluzione da perseguire. Essi hanno

“un effetto rigenerativo (...) quando i lotti liberi si trasformano da pugni in un occhio, o da pericolose

discariche, in giardini generosi, belli e sicuri, che nutrono i corpi e le anime delle persone”.

Nella città di Filadelfia, negli Stati Uniti, fu chiesto a coloro che si dedicavano all‟orticoltura la

motivazione della loro attività. Il 20% rispose che lo faceva per svagarsi, il 19 per migliorare il

proprio benessere psicologico e il 17 per mantenersi in forma. Un ulteriore 14% ha affermato di

desiderare l‟alta qualità dei prodotti freschi garantita da un orto. Altri hanno dichiarato che era

soprattutto per motivi di costi e di convenienza.

Una tendenza parallela alla diffusione degli orti urbani sono i mercati contadini locali, dove i

coltivatori vendono direttamente ai cittadini frutta e ortaggi freschi, carne, latte, uova e formaggio

prodotti nelle zone limitrofe alla città.

Con l‟inevitabile aumento dei prezzi del petrolio i benefici economici della diffusione

dell‟agricoltura urbana e del consumo di cibo prodotto localmente diventeranno ancora più evidenti.

A parte la disponibilità di prodotti più freschi, ciò aiuterà molti a scoprire i benefici sociali e

psicologici arrecati dagli orti urbani e dal consumo di prodotti locali.

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6.6 Risanare le baraccopoli

Tra il 2000 e il 2050 è previsto che la popolazione mondiale crescerà di circa 3 miliardi, ma solo una

piccola parte di questo aumento si verificherà nei paesi industrializzati o nelle aree rurali dei paesi in

via di sviluppo. L‟incremento riguarderà principalmente le città dei paesi poveri e si tradurrà

soprattutto in una crescita delle baraccopoli.

Che si tratti di favelas in Brasile, di barriadas in Perù o di gecekondu in Turchia, le baraccopoli sono

aree urbane abitate da persone poverissime che non possiedono la terra su cui vivono. Esse

semplicemente “occupano” (squat) una zona libera, pubblica o privata.

La vita in questi insediamenti è caratterizzata da abitazioni totalmente inadeguate e senza accesso ai

servizi cittadini. Come scrive Hari Srinivas, coordinatore del Global Development Research Center,

questi emigranti “agro-urbani” attuano “la drastica scelta di occupare illegalmente un pezzo di terra

libero per costruirsi un rifugio rudimentale” semplicemente perché non hanno altre possibilità.

Spesso sono trattati con indifferenza, o addirittura con esplicita ostilità dagli enti pubblici, che li

considerano invasori e fonte di problemi. Alcuni vedono gli insediamenti abusivi come un “male”

sociale, qualcosa che deve essere estirpato.

Uno dei metodi più validi per gestire al meglio i flussi migratori dalla campagna alla città consiste

nel migliorare le condizioni di vita negli ambienti rurali. Ciò significa non solo fornire i servizi

sociali di base, come l‟assistenza sanitaria e la scuola dell‟obbligo (come descritto nel capitolo 7),

ma anche di incentivare gli investimenti industriali nelle piccole cittadine sparse nella campagne,

piuttosto che concentrarli nelle metropoli come Città del Messico o Bangkok. Questa linea politica

dovrebbe rallentare il flusso migratorio verso le grandi città rendendolo più ordinato.

L‟evoluzione delle città dei paesi in via di sviluppo è spesso condizionata dalla natura imprevedibile

delle baraccopoli. Permettere a occupanti abusivi di installarsi ovunque possano, su pendii scoscesi,

in aree soggette ad allagamenti o esposte ad altri rischi rende difficoltosa la fornitura dei servizi di

base come trasporti, acqua e assistenza sanitaria. La città di Curitiba, punta di diamante nella nuova

urbanizzazione, ha individuato apposite zone per gli insediamenti che nascono in conseguenza dei

flussi migratori. Grazie alla pianificazione, lo sviluppo di questi insediamenti può almeno essere reso

coerente con le direttive contenute nei piani regolatori.

Fra i servizi più semplici che possono essere offerti in una baraccopoli ci sono i rubinetti per l‟acqua

corrente e potabile e le toilette comunitarie a compostaggio. Questi due accorgimenti possono

contribuire a scongiurare i rischi sanitari delle aree sovraffollate. I trasporti pubblici regolari

consentono ai lavoratori che vivono nelle baraccopoli di raggiungere i luoghi di lavoro. Se l‟esempio

di Curitiba venisse seguito su vasta scala, i parchi e altre aree comuni potrebbero essere inglobate

nella comunità fin dall‟inizio.

Alcune élite politiche vorrebbero semplicemente demolire le baraccopoli, ma ciò rimuoverebbe

soltanto i sintomi dell‟indigenza urbana, e non le loro cause. L‟opzione di gran lunga preferibile è

quella di risanare e migliorare le condizioni abitative sul posto, e il mezzo per ottenere che ciò

avvenga è assicurare la proprietà agli occupanti tramite piccoli mutui, permettendo loro di effettuare

migliorie nel tempo.

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Il risanamento delle baraccopoli dipende dalle amministrazioni locali che decidono di affrontare il

problema piuttosto che ignorarlo. I progressi nello sradicamento della povertà e nella creazione di

comunità stabili e innovative si basano sulla capacità di stabilire legami costruttivi con chi governa.

La concessione di mutui e microcrediti supportati dal settore pubblico può aiutare non solo a istituire

un collegamento tra le amministrazioni locali e le comunità di occupanti abusivi, ma anche a dare

loro speranza.

Nonostante i leader politici sperino che questi insediamenti siano un giorno abbandonati, la realtà è

che continueranno a espandersi. La sfida è quella di integrarli umanamente nella vita cittadina in

modo che abbiano speranza e possibilità di evolversi. L‟alternativa è un crescente risentimento, attriti

sociali e violenza.

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6.7 Città pensate per le persone

C‟è un‟evidenza crescente che dimostra l‟innato bisogno umano di un contatto con la natura.

Ecologhi e psicologi ne sono coscienti da tempo. Gli ecologi, guidati dal biologo dell‟Università di

Harvard E.O. Wilson, hanno formulato l‟“ipotesi della biofilia” (biophilia hypothesis), la quale

sostiene che le persone private del contatto con la natura soffrono psicologicamente e che questa

privazione porta a una misurabile perdita di benessere.

Nel frattempo, anche gli psicologi hanno coniato un proprio termine, l‟ecopsicologia, col quale

esprimono lo stesso concetto. Theodore Roszak, un leader nel campo, riporta uno studio sulle

percentuali di guarigione dei pazienti di un ospedale in Pennsylvania. Quelli che erano in camere che

si affacciavano su giardini con erba, alberi, fiori e uccelli guarivano dalla propria malattia più

velocemente rispetto a quelli ricoverati in stanze che davano su aree di parcheggio.

Nelle città vivibili le persone escono dalle loro auto e stanno più a contatto con la natura. La novità è

che ci sono segni di cambiamento in questa direzione, quotidiane indicazioni dell‟interesse nel

riprogettare le città a misura d‟uomo. Gli utenti del trasporto pubblico negli Stati Uniti sono cresciuti

del 2,5% l‟anno dal 1996, e ciò indica che i cittadini stanno gradualmente abbandonando le

automobili a favore di autobus, metropolitane e ferrovie leggere. Il prezzo crescente della benzina

incoraggia i pendolari a prendere il bus, la metro o a salire in sella alla propria bicicletta.

I sindaci e gli urbanisti in tutto il mondo cominciano a ripensare il ruolo dell‟auto nei sistemi di

trasporto urbano. Un gruppo di eminenti scienziati, in Cina, ha impugnato la decisione di Pechino di

puntare su un sistema di trasporto incentrato sull‟automobile. Hanno fatto notare un semplice dato: la

Cina non ha territorio sufficiente per ospitare le auto e contemporaneamente sfamare la popolazione.

Questo vale anche per l‟India e altri paesi in via di sviluppo densamente popolati.

Quando il 95% dei lavoratori di una città dipende dalle auto per recarsi al lavoro, come ad Atlanta,

nello stato della Georgia, la città è nei guai. Al contrario, ad Amsterdam il 35% dei residenti si reca

al lavoro in bicicletta o si sposta a piedi, il 40% usa l‟automobile mentre il 25% i mezzi pubblici. A

Parigi, meno della metà dei pendolari dipende dall‟auto e questa percentuale si va riducendo grazie

agli interventi che il sindaco Delanoë sta attuando. Sebbene queste città europee siano antiche e con

molte vie strette, il traffico è meno congestionato che ad Atlanta.

Esistono molti modi per riorganizzare un sistema di trasporto capace di soddisfare le esigenze di tutte

le persone, offrendo allo stesso tempo mobilità e non immobilità e migliorando la salute piuttosto che

accrescere i costi sanitari. Un modo è quello di eliminare le sovvenzioni, spesso indirette, che molti

datori di lavoro offrono ai propri dipendenti per parcheggiare. Nel suo libro The High Cost of Free

Parking, Donald Shoup stima che queste sovvenzioni per il parcheggio negli Stati Uniti ammontino

ad almeno 127 miliardi di dollari l‟anno, cosa che ovviamente incoraggia la gente ad andare al lavoro

in macchina.

Nel 1992 la California ha obbligato i datori di lavoro a sostituire i buoni parcheggio con denaro

contante da utilizzare per i biglietti dei bus o per comprare una bici. Le aziende che hanno adottato

questi sistemi hanno ridotto del 17% l‟uso dell‟automobile. A livello nazionale, è stata inserita una

clausola nel Transportation Equity Act del 1998 per modificare il sistema di tassazione, in modo che

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chi usa il trasporto pubblico o il car pooling potesse godere delle stesse esenzioni di coloro che

ricevono i buoni parcheggio. Quello che le società dovrebbero sforzarsi di ottenere non sono gli

incentivi a parcheggiare, ma piuttosto sistemi di calcolo dei costi dei parcheggi realistici, con tariffe

che riflettano i costi del traffico e il deteriorarsi della qualità di vita nelle città strette nella morsa

delle automobili.

Molte città, tra cui New York, Stoccolma, Vienna, Praga e Roma, hanno istituito zone pedonali.

Parigi ha impedito la presenza delle automobili lungo le rive della Senna durante le domeniche e i

giorni festivi e sta valutando l‟ipotesi di trasformare in isola pedonale gran parte del centro della città

a partire dal 2012.

Oltre a garantire il funzionamento e la convenienza delle metropolitane, l‟idea di renderle attraenti e

di trasformarle in poli culturali sta guadagnando consensi. A Mosca, la rete metropolitana, che ospita

opere d‟arte nelle sue stazioni, è giustamente definita il gioiello della corona della Russia. Nella città

di Washington, la stazione Union, che connette il sistema della metro con le linee ferroviarie

intercittadine, è una delizia architettonica. Da quando è stata completata nel 1988 è diventata un

luogo di incontro dove sono presenti negozi, sale conferenze e una ricca scelta di ristoranti.

La riprogettazione delle città e dei trasporti urbani sta producendo conseguenze molto profonde. Gli

sforzi iniziali, volti a diminuire la presenza di automobili, erano basati su misure come i ticket per

entrare in centro durante le ore di punta (a Singapore, Londra e Milano), gli investimenti in linee

BRT (Curitiba, Bogotà e Canton) o l‟incentivazione dell‟uso della bicicletta (Amsterdam e

Copenaghen). Queste misure hanno fatto diminuire le vendite di auto in molti paesi europei e in

Giappone. Le vendite automobilistiche nel mercato giapponese hanno raggiunto il picco nel 1990, un

anno di boom, con 7,8 milioni di veicoli venduti, e potrebbero essere scese sotto i 5 milioni nel 2009.

Declini analoghi si sono visti in Europa, e potrebbero verificarsi anche negli Stati Uniti. Ad esempio,

alla metà del 2008, il numero delle auto demolite in USA ha superato le nuove unità vendute, una

tendenza che è continuata nel 2009. La crisi finanziaria del 2008-2009 spiega in parte queste

tendenze, ma, come si è detto, sono in corso trasformazioni culturali profonde.

Possedere un‟auto, che una volta era uno status symbol universale, sta cominciando a perdere la sua

attrattiva. Un articolo del 2009 nel The Japan Times riporta che molti giovani giapponesi non

desiderano più possedere automobili. Le considerano uno spreco e, particolarmente in città come

Tokio, più fonte di problemi più che di vantaggi.

L‟atteggiamento dei giovani giapponesi si è diffuso anche in altri paesi, dove l‟interesse per gli

apparecchi elettronici sta soppiantando quello per le automobili. I giovani sono più interessati ai

computer, ai Blackberries, agli iPod e alla società virtuale che ad “andare a fare un giro” in

macchina. Hanno molto meno interesse nei nuovi modelli di auto di quanto non ne avesse la

generazione dei loro genitori.

Esistono due modi di gestire le sfide ambientali che dovranno affrontare le città. Uno, è modificare

quelle esistenti. Nell‟Earth Day del 2007, il sindaco di New York Michael Bloomberg ha annunciato

il PlaNYC, un progetto completo per migliorare l‟ambiente cittadino, rafforzare la sua economia e

rendere la città un posto migliore in cui vivere. Cuore del progetto è una riduzione del 30% delle

emissioni di gas serra entro il 2030. Nel 2009 il PlaNYC, con quasi 130 iniziative, stava già

mostrando progressi. Ad esempio, il 15% della flotta di taxi è stata convertita in efficienti ibridi

elettrici/benzina. Sono stati piantati quasi 200 mila alberi. E anche il miglioramento dell‟efficienza

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energetica degli edifici, un obiettivo primario, procede in dozzine di palazzi, principalmente privati,

incluso il celebre Empire State Building.

L‟altro sistema è costruire da zero città nuove. Ad esempio, l‟imprenditore edile Sidney Kitson ha

acquistato i quasi 37 mila ettari del Babcock Ranch nel sud della Florida per costruirvi una città. Il

primo passo è stato vendere più di 29 mila ettari mila al governo statale per conservarli come riserva

naturale assicurando l‟abbondanza di verde pubblico. Il cuore della città, destinata a ospitare 45 mila

persone, includerà un centro congressi con incluse le attività commerciali e uno sviluppo abitativo ad

alta densità. Svariate comunità satellite, incluse nel piano di sviluppo, saranno collegate alla cittadina

con i mezzi pubblici.

Lo scopo di questa città è di essere un modello di comunità ecologica e un centro nazionale per

aziende che fanno ricerca e sviluppo delle energie rinnovabili. Tra le principali caratteristiche di

questa nuova comunità troviamo la fornitura elettrica integralmente di origine fotovoltaica, tutti gli

edifici costruiti in base ai criteri stabiliti dalla Florida Green Buildings Coalition, e più di 64

chilometri di strade “verdi” che permetteranno ai cittadini di andare al lavoro in bici o a piedi.

A mezzo mondo di distanza, in quella Abu Dhabi ricca di petrolio, ha preso il via un altro progetto:

Masdar City, disegnata per 50 mila persone. Scopo del governo è la creazione di un centro

internazionale sullo sviluppo e la ricerca delle energie rinnovabili, una sorta di Silicon Valley

orientale, che ospiterà 1.500 aziende (incluse svariate start-up) e i centri di ricerca delle maggiori

multinazionali.

Masdar City ha diverse caratteristiche importanti. Oltre a essere alimentata principalmente

dall‟energia solare, questa città di edifici ben isolati sarà senza automobili, e conterà su un network

di trasporti individuali basati su veicoli su rotaie, a trazione elettrica e controllati via computer.

Somiglianti alle vetturette da golf, questi veicoli saranno messi in fila alle stazioni di tutta la città per

offrire un passaggio diretto verso ogni destinazione. Il progetto per la città prevede l‟impiego di

acqua riciclata, elemento fondamentale per una città che sorgerà in una delle zone più aride del

mondo. E nulla finirà in discarica; tutto sarà riciclato, compostato o gassificato per produrre energia.

Stiamo appena cominciando a intuire la direzione verso cui vogliamo dirigerci. Finora, i

cambiamenti nei trasporti urbani hanno avuto come risultato negativo un crescente numero di

automobili in città. Ma il modo di pensare sta iniziando a mutare. Nel 2006, History Channel ha

sponsorizzato la City of the Future Competition, in cui alcuni studi di architettura hanno avuto una

settimana di tempo per progettare la New York del 2016. Terreform, uno studio capeggiato

dall‟architetto Michael Sorkin, ha proposto la graduale eliminazione delle automobili e la

conversione di metà dello spazio stradale in parchi, orti e fattorie. I designer hanno previsto che,

entro il 2038, il 60% dei newyorkesi andrà al lavoro a piedi, e la città potrebbe trasformarsi in un

paradiso per i pedoni.

Al momento attuale la proposta di Terreform può sembrare estrema, ma i quotidiani ingorghi di

Manhattan devono essere risolti, semplicemente perché sono diventati un danno economico e una

minaccia alla salute pubblica. La Partnership for New York City, che rappresenta una coalizione di

importanti aziende e imprese newyorkesi, stima che la congestione del traffico dentro e intorno alla

città costa alla regione più di 13 miliardi di dollari l‟anno, in termini di tempo perso e produttività,

carburante sprecato e affari non conclusi.

Con il procedere del secolo, il mondo sta riconsiderando il ruolo urbano delle automobili, in uno dei

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più profondi ripensamenti sul concetto di mobilità dell‟ultimo secolo. La sfida è ridisegnare le

comunità in modo che il trasporto pubblico diventi centrale, e le strade siano compatibili con

biciclette e pedoni. Ciò significa anche piantare alberi e giardini e rimpiazzare i parcheggi con

parchi, aree per bambini e campi sportivi. Possiamo progettare uno stile di vita urbano che migliori

sistematicamente la salute includendo l‟attività fisica nella routine quotidiana, riducendo allo stesso

tempo le emissioni di gas serra e quella fonte di danni alla salute rappresentata dall‟inquinamento

atmosferico.

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7. DEBELLARE LA POVERTA' E STABILIZZARE LA POPOLAZIONE

Il nuovo secolo era iniziato con un segnale di speranza: i paesi appartenenti alle Nazioni Unite si

erano proposti l‟obiettivo di dimezzare, entro il 2015, il numero di coloro che vivono al di sotto della

soglia di povertà. All‟inizio del 2007 il mondo sembrava essere sulla buona strada nel

raggiungimento di questo traguardo, ma dopo il dilagare della crisi economica e a prospettive sempre

più incerte gli sforzi in questa direzione dovrebbero essere rafforzati.

Tra tutte le nazioni, la Cina è quella che ha riportato i successi più evidenti nella lotta all‟indigenza.

Il numero di cinesi che vivono in estrema povertà è sceso da 685 milioni nel 1990 a 213 milioni nel

2007. Con una crescita demografica limitata, la percentuale dei suoi abitanti sotto la soglia

dell‟indigenza si è ridotta dal 60 al 16%, un risultato impressionante da ogni punto di vista.

I progressi dell‟India sono meno netti. Tra il 1990 e il 2007, il numero di indiani in povertà è

leggermente aumentato, da 466 milioni a 489 milioni, ma si è verificata una riduzione in percentuale

dal 51 al 42%. Nonostante la sua crescita economica, del 9% annuo negli ultimi 4 anni, e il forte

supporto agli sforzi della collettività per eradicare la povertà da parte del primo ministro Manmohan

Singh, l‟India ha ancora molta strada da percorrere.

Il Brasile è riuscito a ridurre la povertà grazie al progetto denominato “Bolsa Familia”, fortemente

sostenuto dal presidente Luiz Inácio Lula de Silva. Si tratta di un programma di assistenza che offre

fino a 35 dollari al mese alle madri povere, a patto che tengano i figli iscritti a scuola, li facciano

vaccinare e visitare regolarmente. Tra il 1990 e il 2007 la percentuale di popolazione brasiliana al di

sotto della soglia di indigenza è scesa dal 15 al 5%. Ne hanno beneficiato 11 milioni di famiglie,

all‟incirca un quarto degli abitanti del paese, e negli ultimi cinque anni il programma ha elevato del

22% il reddito delle famiglie. In confronto, i redditi dei contribuenti più ricchi sono cresciuti soltanto

del 5%. Rosani Cunha, direttrice del programma a Brasilia, ha osservato che “sono davvero pochi i

paesi che sono riusciti a ridurre contemporaneamente diseguaglianze e povertà”.

Molti paesi del Sudest asiatico, come la Thailandia, il Vietnam e l‟Indonesia hanno compiuto

progressi notevoli. Questi risultati nel continente asiatico sembravano confermare che, salvo

imprevisti economici di più ampia scala, la povertà avrebbe potuto essere dimezzata entro il 2015,

obiettivo incluso tra i Millennium Development Goal (Obiettivi di Sviluppo del Millennio) delle

Nazioni Unite. Infatti, in una valutazione del 2008, la Banca Mondiale affermava che tutte le regioni

in via di sviluppo, con l‟evidente eccezione dell‟Africa subsahariana, si stavano muovendo nella

giusta direzione per ridurre entro il 2015 la percentuale di coloro che vivono al di sotto della soglia di

povertà.

Tuttavia, questa valutazione ottimistica è stata presto modificata. All‟inizio del 2009, la Banca

Mondiale ha dichiarato che, tra il 2005 e il 2008, l‟incidenza della povertà è aumentata nell‟Estremo

e Medio Oriente, nell‟Asia Meridionale e nell‟Africa subsahariana, soprattutto in conseguenza

dell‟aumento dei prezzi dei generi alimentari che ha colpito duramente i più poveri. A questo

fenomeno si è aggiunta la crisi economica globale che ha drammaticamente aumentato le fila dei

disoccupati e ha ridotto i flussi delle rimesse da parte dei parenti emigrati all‟estero. Secondo le

stime dalla Banca Mondiale, il numero di coloro che vivono in “estrema povertà”, ovvero con meno

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di 1,25 dollari al giorno, è aumentato di almeno 130 milioni di individui. La Banca Mondiale ha

osservato che “44 milioni di bambini potrebbero aver riportato danni fisici e cognitivi permanenti

causati dalla malnutrizione come conseguenza del rincaro dei generi alimentari avvenuto nel corso

del 2008”.

Gli 820 milioni di abitanti dell‟Africa subsahariana stanno scivolando verso uno stato di indigenza

ancora più profondo. Fame, analfabetismo e malattie sono in aumento, annullando parzialmente i

risultati raggiunti in Cina e in Brasile. Anche i paesi inclusi nel gruppo degli stati in fallimento

stanno facendo dei passi indietro. Secondo la Banca Mondiale, infatti, il numero di persone che

vivono in condizioni di povertà estrema in questi stati è raddoppiato rispetto al 1990.

Oltre alla lotta all‟indigenza, gli altri Obiettivi del Millennio prevedono di dimezzare il numero di

coloro che soffrono la fame e che non hanno accesso all‟acqua potabile, di raggiungere l‟educazione

primaria universale e di contrastare la diffusione delle malattie infettive, in particolare della malaria e

dell‟HIV. Strettamente correlati sono poi gli obiettivi della riduzione della mortalità materna di tre

quarti, e di due terzi quella dei bambini al di sotto dei 5 anni.

Sotto il profilo dell‟alimentazione, è cresciuto il numero delle persone affette da fame e

malnutrizione. Si è così invertito il trend che ha caratterizzato la seconda metà del XX secolo, e si è

passati dagli 825 milioni della metà degli anni Novanta, a circa 850 milioni nel 2000 fino a oltre un

miliardo nel 2009. A questo aumento hanno contribuito una serie di fattori, ma il principale è

senz‟altro la massiccia conversione di grano in etanolo nelle raffinerie americane. I cereali usati negli

Stati Uniti nel 2009 per la sintesi di carburante per autotrazione avrebbero potuto nutrire 340 milioni

di persone per un anno.

L‟obiettivo di dimezzare entro il 2015 la percentuale di coloro che soffrono la fame non appare

raggiungibile se persevereremo nel modello economico del business as usual. Di contro, il numero di

bambini che accedono all‟istruzione primaria sembra in crescita, ma gran parte dei progressi sono

concentrati in pochi grandi paesi, tra i quali l‟India, il Bangladesh e il Brasile.

Quando le Nazioni Unite hanno delineato gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, hanno omesso

qualsiasi riferimento relativo alla pianificazione familiare e demografica, nonostante, come si legge

nel report di una Commissione interparlamentare britannica del gennaio 2007, “gli Obiettivi del

Millennio saranno difficili o impossibili da raggiungere con gli attuali livelli di crescita demografica

nei paesi e nelle regioni meno sviluppate”. Seppur tardivamente, le Nazioni Unite hanno in seguito

approvato un nuovo obiettivo che mira all‟accesso universale ai servizi di salute riproduttiva entro il

2015.

In qualunque paese, l‟unica alternativa praticabile è quella di puntare a una media di due figli per

coppia. Ogni popolazione che cresce di numero in maniera incontrollata sopravanza i suoi naturali

mezzi di sostentamento. E ogni popolazione che diminuisce costantemente nel lungo periodo è

destinata a scomparire.

In un mondo sempre più integrato, con un numero crescente di paesi in difficoltà, eliminare la

povertà e stabilizzare la popolazione sono diventati questioni di sicurezza nazionale. Rallentare la

crescita demografica aiuta a sradicare la povertà e le sue conseguenze, ed eliminare l‟indigenza aiuta

a rallentare la crescita della popolazione. Con un tempo così limitato per arrestare il declino dei

sistemi naturali di supporto all‟economia, è evidente l‟urgenza di muoversi simultaneamente su

entrambi i fronti.

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7.1 Istruzione per tutti

L‟istruzione universale è uno dei modi per ridurre le diseguaglianze tra ricchi e poveri. Affinché ciò

avvenga, è però necessario che i 75 milioni di bambini che non seguono nessun programma di

scolarizzazione siano messi in condizione di farlo. Chi cresce senza un‟educazione formale incontra

infatti con grossi limiti, che quasi certamente lo condanneranno a rimanere in condizioni di povertà.

In un mondo sempre più integrato, questa disparità crescente diventa di per sé una causa di

instabilità. Il premio Nobel per l‟economia Amartya Sen mette chiaramente a fuoco questo punto:

“L‟incapacità di leggere, scrivere e far di conto è una minaccia per l‟umanità più grave del

terrorismo”.

Al fine di raggiungere l‟istruzione di base universale, la Banca Mondiale ha introdotto il programma

Education for All, grazie al quale ogni nazione che presenti un piano ben definito può ottenere un

supporto finanziario. I tre requisiti che devono essere soddisfatti dai paesi richiedenti sono: un piano

ragionevole per raggiungere gli obiettivi, investimenti significativi nel progetto e una gestione

trasparente dei fondi. Se questo programma sarà pienamente implementato, tutti i bambini dei paesi a

basso reddito potranno ottenere un‟educazione scolare primaria entro il 2015, facilitandone così

l‟uscita dalla povertà.

Alcuni risultati sono già stati raggiunti. Nel 2000, circa il 78% dei bambini nei paesi in via di

sviluppo ha completato la propria istruzione primaria, mentre nel 2006 questo valore è salito

all‟85%. Gli incrementi sono stati notevoli ma disomogenei, tanto che la Banca Mondiale ha

concluso che solo 58 dei 128 paesi a basso reddito raggiungeranno l‟obiettivo dell‟istruzione

universale entro il 2015.

Una larga maggioranza di coloro che ancora oggi vivono in povertà è costituita da figli di persone

povere. Si può in effetti affermare, che la povertà è in gran parte una condizione ereditaria.

L‟istruzione, in particolare quella femminile, è la via per uscire dalla povertà. Al crescere del livello

di educazione delle donne diminuisce il tasso di fertilità. Le madri con almeno cinque anni di scuola

perdono inoltre meno figli durante il parto o nella prima infanzia, rispetto alle loro pari meno istruite.

Dopo uno studio condotto su 72 paesi l‟economista Gene Sperling è arrivato alla conclusione che

“l‟aumento dell‟istruzione secondaria delle donne potrebbe essere la miglior singola misura per

ottenere riduzioni sostanziali della fertilità”.

L‟istruzione di base permette anche l‟incremento della produttività agricola, poiché ci si può

avvalere di materiale stampato per diffondere informazioni per migliorare le pratiche di coltivazione.

È evidente il vantaggio per un contadino che sappia leggere le istruzioni su una confezione di

fertilizzante; allo stesso modo, la capacità di leggere l‟etichetta di un pesticida può salvare la vita.

La scuola può poi informare i giovani sui rischi dell‟infezione da HIV. L‟età scolare, e non quando

sono già infetti, è il momento giusto per informare e istruire i ragazzi sul virus e sui comportamenti

che ne favoriscono la diffusione. I giovani possono anche essere mobilitati per condurre campagne

preventive tra i loro coetanei.

È indispensabile formare un corpo insegnante nei paesi a basso reddito, in particolare in quelli dove i

docenti sono stati decimati dall‟AIDS. Istituire borse di studio per gli studenti più promettenti

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provenienti dalle famiglie povere in cambio della promessa di svolgere un periodo di insegnamento

di almeno cinque anni potrebbe essere un investimento molto proficuo. Un sistema simile aiuterebbe

ad assicurare la disponibilità delle risorse umane necessarie per il raggiungimento dell‟istruzione

universale, e aprirebbe nel contempo la porta ai talenti provenienti dai segmenti più poveri della

società.

Gene Sperling crede che i vari progetti debbano essere destinati agli strati della società più difficili

da raggiungere, in particolare alle ragazze povere delle aree rurali. L‟Etiopia ha svolto un ruolo

pionieristico con le Girls Advisory Committees. Le rappresentanti di questi gruppi si recano dai

genitori, che cercano di far sposare il prima possibile le loro figlie, e li incoraggiano a lasciarle

continuare la scuola. Alcuni paesi, come il Brasile e il Bangladesh, attualmente elargiscono borse di

studio o incentivi alle famiglie bisognose, aiutando così le ragazze di nuclei familiari indigenti a

ricevere l‟istruzione di base.

Si stima siano necessari 10 miliardi di dollari in più rispetto alla spesa attuale per raggiungere

l‟obiettivo dell‟istruzione universale di base: non è più accettabile che ci siano bambini che non

hanno mai frequentato una scuola.

Via via che il mondo diventa più integrato dal punto di vista economico, gli 800 milioni di adulti

analfabeti subiscono limitazioni crescenti. Questo deficit potrebbe essere fronteggiato lanciando, col

supporto di volontari, campagne di alfabetizzazione dirette agli adulti. La comunità internazionale

potrebbe offrire fondi, materiale educativo e consulenti esterni, prendendo ad esempio il modello

adottato in Bangladesh e in Iran, che hanno entrambi efficaci programmi di istruzione. Una

campagna di questo tipo aggiungerebbe alla spesa altri 4 miliardi di dollari l‟anno.

Pochi incentivi alla scolarizzazione risultano essere efficaci come l‟istituzione delle mense

scolastiche, soprattutto nei paesi più poveri. Negli Stati Uniti, dal 1946 in poi, ogni bambino della

scuola pubblica ha avuto accesso a un programma di mensa scolastica che garantisce almeno un

pasto completo al giorno. I benefici ottenuti da questo programma a copertura nazionale sono

innegabili.

I bambini ammalati o affamati perdono molti giorni di scuola e, anche quando possono frequentarla,

non ottengono buoni risultati. Jeffrey Sachs, dell‟Earth Institute della Columbia University, osserva

che “i bambini ammalati vanno incontro a riduzioni della produttività a causa dell‟interruzione della

frequentazione scolastica, a cui si aggiungono malesseri fisici e cognitivi”. Una volta lanciati i

programmi di mensa scolastica nei paesi a basso reddito, aumentano le iscrizioni nelle scuole,

crescono i tassi di apprendimento e i bambini rimangono a scuola più anni.

Le bambine ne beneficiano particolarmente. Attratte a scuola dal pranzo, passano più tempo a

studiare, si sposano più tardi e hanno meno figli. Questa è una strategia vincente su più fronti.

Adottare programmi di mensa scolastica nei 44 paesi col reddito più basso costerebbe

approssimativamente 6 miliardi di dollari l‟anno in più rispetto alla cifra che le Nazioni Unite

stanziano attualmente per la lotta alla fame.

È inoltre indispensabile migliorare lo stato nutrizionale dei bambini anche nell‟età prescolare. L‟ex

senatore George McGovern osserva che “anche nei paesi più poveri dovrebbe essere disponibile un

programma per le donne, i neonati e i bambini (Woman, Infant, Child, WIC), che offra supplementi

alimentari alle donne in gravidanza e alle madri in allattamento”. È chiaro che il WIC statunitense,

con 33 anni di esperienza, ha conseguito successi enormi nel migliorare lo stato nutrizionale, la

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196

salute e lo sviluppo dei bambini in età prescolare provenienti da famiglie povere. Se questo

programma potesse essere esteso fino a raggiungere le donne in gravidanza, le madri in allattamento

e i neonati dei 44 paesi a reddito più basso, aiuterebbe a sfamare milioni di bambini in una fase della

loro vita nella quale ciò potrebbe fare un‟enorme differenza.

Questi tentativi, seppur costosi, non lo sono se paragonati alle perdite di produttività annuali dovute

alla fame. McGovern pensa che questa iniziativa possa aiutare a “prosciugare la palude della fame e

della disperazione, che rappresenta un potenziale terreno di reclutamento per i terroristi”. In un

mondo in cui immense ricchezze vengono accumulate da pochi ricchi, è assurdo che ci siano ancora

luoghi in cui dei bambini vanno a scuola affamati.

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197

7.2 Verso un futuro di salute

Se tumori, patologie cardiache, obesità e fumo sono le principali cause di mortalità nei paesi

industrializzati, in quelli a basso reddito le malattie infettive rappresentano l‟emergenza sanitaria più

grave. Le patologie più preoccupanti sono la diarrea, le malattie respiratorie, la tubercolosi, la

malaria, il morbillo e l‟AIDS. La mortalità infantile è comunque elevata poiché anche malattie come

il morbillo, facilmente prevenibili con la vaccinazione, causano gravi perdite.

L‟obiettivo delle Nazioni Unite di ridurre la mortalità infantile di due terzi tra il 1990 e il 2015 è

molto lontano dall‟essere raggiunto. Al 2007, solo 33 dei 142 paesi in via di sviluppo erano nella

giusta direzione. Nessuno dei paesi dell‟Africa subsahariana era tra questi e, anzi, in sette stati della

regione il tasso di mortalità infantile era persino aumentato rispetto al 1990. Si stima poi che solo

uno dei 34 paesi classificati come fragili dalla Banca Mondiale riuscirà a raggiungere l‟obiettivo

entro il 2015.

Parallelamente alla lotta contro la fame, è essenziale assicurare l‟accesso a una fonte sicura e

affidabile di acqua potabile, per migliorare la salute degli 1,1 miliardi di persone che si ritiene ne

siano privi. In molte città, l‟opzione attualmente percorribile potrebbe essere quella di evitare la

costruzione di costose fognature e di impianti di trattamento delle acque reflue, e di optare invece per

sistemi che non utilizzano acqua (vedi al capitolo 6 la descrizione di una compost toilette). Questa

scelta potrebbe contemporaneamente alleggerire il problema della carenza dell‟acqua, ridurre la

disseminazione di agenti patogeni nei sistemi idrici e aiutare a chiudere il ciclo dei nutrienti: si tratta

evidentemente di una strategia vantaggiosa da più punti di vista.

Uno dei risultati più impressionanti nel campo della salute è stato ottenuto grazie alla campagna di

un piccolo gruppo non governativo del Bangladesh, il BRAC, che ha insegnato a ogni madre del

paese come preparare una soluzione reidratante per il trattamento della diarrea per via orale,

semplicemente aggiungendo all‟acqua precise quantità di zucchero e sale. Fondato da Fazle Hasan

Abed, il BRAC è riuscito a ridurre notevolmente la mortalità infantile e neonatale causata dalla

diarrea in un paese densamente popolato, strozzato dalla povertà e con scarsi livelli di istruzione.

Il modello del BRAC è stato ripreso dall‟Unicef, che lo ha utilizzato per il suo programma mondiale

di trattamento delle malattie diarroiche. La diffusione globale di questa tecnica di reidratazione è

stata estremamente efficace e ha ridotto le morti per diarrea tra i bambini da 4,6 milioni nel 1980 a

1,6 milioni nel 2006. Solo in Egitto la terapia di reidratazione orale ha fatto diminuire le morti

infantili per diarrea dell‟82% dal 1982 al 1989.

Ad oggi, la principale attività finanziata privatamente sul fronte della lotta alle malattie infettive è

probabilmente il programma di vaccinazione infantile. In un tentativo di colmare le carenze

internazionali nel settore, la Bill e Melinda Gates Foundation ha investito 1,5 miliardi di dollari nel

2006 per proteggere i bambini da malattie infettive come il morbillo.

Ulteriori investimenti potrebbero aiutare i paesi che non possono permettersi i vaccini per le malattie

infantili e che stanno rimanendo indietro nei loro programmi di vaccinazione. Se oggi mancano i

fondi da investire, domani queste nazioni pagheranno un prezzo molto più alto. In questo ambito,

anche solo pochi centesimi spesi per ogni bambino possono fare una grandissima differenza.

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Lo stesso vale per l‟AIDS: un piccolo investimento nella prevenzione previene gli altissimi costi

delle cure. Ad oggi, più di 25 milioni di persone sono morte per cause legate all‟infezione da HIV.

Nonostante si stiano facendo progressi nel contrastare questa epidemia, nel 2007 sono stati registrati

2,7 milioni di nuovi casi, e nello stesso anno 2 milioni di persone sono morte di AIDS. Due terzi dei

sieropositivi vivono nell‟Africa subsahariana.

La chiave per limitare l‟epidemia di AIDS, che ha arrestato così pesantemente lo sviluppo sociale ed

economico in Africa, è l‟istruzione alla prevenzione. Sappiamo come si trasmette la malattia, non è

un mistero medico. Dove prima era un tabù persino nominare la malattia, i governi stanno iniziando

a delineare programmi efficaci per l‟istruzione alla prevenzione. Il primo obiettivo è ridurre

rapidamente il numero di nuovi casi, possibilmente al di sotto del numero di morti per la malattia, in

modo da far calare il numero di individui potenzialmente contagiosi.

Concentrarsi in maniera specifica sui gruppi più a rischio si è rivelato un approccio particolarmente

efficace. In Africa, i camionisti sieropositivi che viaggiano lontano da casa per lunghi periodi spesso

ricorrono al sesso a pagamento, diffondendo così l‟HIV da un paese all‟altro. Le prostitute sono un

altro gruppo centrale nella dinamica del contagio. In India, ad esempio, i 2 milioni di donne che si

prostituiscono hanno una media di due rapporti al giorno: informarle riguardo ai rischi dell‟HIV e al

valore salvavita dell‟uso del profilattico consente notevoli progressi.

Un altro gruppo a rischio è rappresentato dai soldati. Una volta contagiati, di solito dopo rapporti a

pagamento, ritornano alle loro comunità di origine dove diffondono ulteriormente l‟infezione. In

Nigeria, dove il tasso di contagio negli adulti è del 3%, l‟ex presidente Oluseng Obasanjo ha

introdotto la distribuzione gratuita di profilattici a tutto il personale militare. Un quarto gruppo a

rischio, i tossicodipendenti che utilizzano sostanze per via endovenosa e che condividono gli stessi

aghi, è il principale responsabile della diffusione del virus nelle repubbliche dell‟ex Unione

Sovietica.

Il primo passo per affrontare la minaccia dell‟HIV prevede la distribuzione di circa 13,5 miliardi di

profilattici l‟anno nei paesi a basso reddito e nell‟Europa orientale. Considerando quelli a scopo

contraccettivo, se ne aggiungono altri 4,4 miliardi. Ma dei 17,9 miliardi che sarebbero necessari, ne

vengono effettivamente distribuiti solo 3,2, con un deficit complessivo di 14,7 miliardi di unità.

L‟investimento necessario per salvare un gran numero di vite risulta irrisorio, se si considera un

preservativo costa 3 centesimi, equivalenti a un totale di 441 milioni di dollari.

Nell‟eccellente studio Condoms Count: Meeting the Need in the Era of HIV/AIDS, la Population

Action International osserva che “rendere disponibili agli utenti i profilattici (attraverso il

miglioramento dell‟accesso, la logistica e la capacità di distribuzione, lo stimolo alla consapevolezza

e la promozione dell‟utilizzo) costa molto di più del prodotto in sé”. Se si considerano che questi

costi sono sei volte maggiori del prezzo dei profilattici stessi, colmare questa carenza costerebbe

comunque meno di 3 miliardi di dollari.

Le risorse finanziarie e il personale medico attualmente disponibili per curare le persone già

sieropositive sono fortemente insufficienti se messi a confronto con le effettive necessità. Ad

esempio, nell‟Africa subsahariana, dei 7 milioni di persone che necessitano del trattamento a fine

2007 solo poco più di 2 milioni avevano ricevuto i farmaci antiretrovirali, ampiamente disponibili

nei paesi ad alto reddito. Tuttavia, nonostante i pazienti trattati siano solo un terzo del totale, questo

numero è raddoppiato rispetto all‟anno precedente.

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199

Le cure per l‟infezione da HIV sono relativamente costose, ma non trattarle è un errore strategico,

poiché il trattamento rafforza gli sforzi diretti alla prevenzione, dando alle persone una ragione per

fare il test. L‟Africa sta pagando un prezzo pesantissimo per il ritardo con cui ha risposto

all‟epidemia. Quel che è accaduto rappresenta una finestra sul futuro di paesi come l‟India e la Cina

nel caso in cui non assumano le misure atte ad arginare la diffusione del virus, già ampiamente

diffuso all‟interno dei loro confini.

Una dei successi più rilevanti per la comunità internazionale è stato l‟eradicazione del vaiolo, un

impegno portato avanti dall‟Organizzazione mondiale della sanità (OMS). Il successo

nell‟eliminazione di questa malattia assai temuta, che ha richiesto un programma di immunizzazione

mondiale, ha salvato milioni di vite e ogni anno ha fatto risparmiare centinaia di milioni di dollari per

i programmi di vaccinazione e miliardi in spese sanitarie.

Allo stesso modo, una coalizione internazionale guidata dall‟OMS con la partecipazione del Rotary

International, dell‟Unicef, del Center for Disease Control and Prevention (CDC) degli Stati Uniti e

della Ted Turner‟s Foundation delle Nazioni Unite ha condotto una campagna mondiale per

eradicare la poliomielite, malattia che ha reso invalidi milioni di bambini. Dal 1988 il Rotary

International ha devoluto a questa causa la straordinaria cifra di 800 milioni di dollari. Grazie a

questa iniziativa, denominata “Global Polio Eradication Initiative”, il numero di casi di polio nel

mondo è sceso da circa 350 mila l‟anno nel 1988 a soli 700 nel 2003.

Nel 2003, si registravano ancora casi di polio in Nigeria, India, Pakistan, Niger, Ciad e Burkina Faso.

In seguito, a causa di alcune voci secondo cui il vaccino avrebbe reso sterili o provocato l‟AIDS,

diversi stati a prevalenza musulmana della Nigeria del nord sospesero la campagna di vaccinazioni.

Alla fine del 2004, una volta chiarito che si era trattato di disinformazione, le vaccinazioni ripresero.

Tuttavia, durante questo intervallo, la polio si era di nuovo diffusa in alcune regioni, apparentemente

favorita dal pellegrinaggio annuale dei musulmani nigeriani alla Mecca. Nuovi casi sono stati

registrati nella Repubblica Centroafricana, in Costa d‟Avorio, Indonesia, Mali, Arabia Saudita,

Somalia, Sudan e Yemen: nel 2006 vennero registrati quasi 2.000 nuovi casi di poliomielite.

Nel 2007, il numero di nuovi casi stava di nuovo diminuendo, quando emerse un nuovo ostacolo.

All‟inizio dell‟anno, la frontiera nord-occidentale del Pakistan fu investita da una violenta ondata di

opposizione alle vaccinazioni: un medico e un operatore sanitario coinvolti nel programma di

eradicazione della polio furono uccisi. Di recente, i Talebani hanno impedito agli operatori sanitari di

continuare le vaccinazioni nella provincia della Swat Valley, rallentando ulteriormente la campagna.

Nonostante questi episodi, all‟inizio del 2009 la comunità internazionale ha lanciato una nuova

iniziativa con l‟obiettivo di sconfiggere la malattia. Questo programma da 630 milioni di dollari è

stato sottoscritto dalla Gates Foundation, dal Rotary International e dai governi britannico e tedesco.

Inoltre, durante una conferenza che si è tenuta al Cairo nel giugno 2009, il presidente Obama ha

annunciato un‟iniziativa globale contro la polio, in cooperazione con l‟Organizzazione della

Conferenza Islamica. Dal momento che molte delle sacche residue di polio si trovano in paesi

musulmani, questo aumenta le prospettive di eradicare definitivamente la malattia.

Uno dei risultati più rilevanti nel campo della salute è la quasi completa scomparsa della filariosi

della Guinea (o dracunculosi), una campagna portata avanti dall‟ex presidente degli Stati Uniti

Jimmy Carter e dal Carter Center. Questo parassita, le cui larve vengono ingerite bevendo acqua non

filtrata di laghi e fiumi, cresce all‟interno dell‟organismo, a volte raggiungendo lunghezze superiori

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200

ai sessanta centimetri; in seguito fuoriescono lentamente attraverso la cute, un‟esperienza

estremamente dolorosa e debilitante che può durare diverse settimane.

In assenza di vaccini per prevenire l‟infezione e di farmaci per il trattamento, la strategia consiste nel

filtrare l‟acqua potabile per evitare l‟ingestione delle larve, debellando così il parassita che può

sopravvivere soltanto all‟interno di un ospite umano. Nel 1986 il Carter Center ha assunto la guida

della campagna mondiale lanciata dal CDC sei anni prima, e da allora ha condotto l‟iniziativa con il

supporto di partner come l‟OMS, l‟Unicef e la Gates Foundation. Il numero di persone infettate dal

parassita si è ridotto da 3,5 milioni nel 1986 a meno di 5.000 casi nel 2008, una sorprendente

riduzione del 99%. Nei tre paesi al di fuori dell‟Africa nei quali è presente la malattia, India, Pakistan

e Yemen, la scomparsa è stata completa. I casi residui sono localizzati principalmente in Sudan,

Ghana e Mali.

Altre cause di mortalità prematura sono legate allo stile di vita, come nel caso del fumo. L‟OMS

stima che 5,4 milioni di persone sono morte nel 2005 per malattie correlate all‟uso di tabacco, più di

ogni malattia infettiva. A oggi si rilevano 25 malattie conosciute che sono legate al fumo, tra cui

patologie cardiache, ictus, malattie respiratorie, molti tumori, impotenza maschile. Il fumo di

sigaretta uccide più persone ogni anno che tutti gli altri inquinanti atmosferici combinati, oltre 5

milioni contro 3 milioni.

Nella riduzione del fumo di sigaretta sono stati compiuti importanti passi avanti. Dopo un secolo nel

quale si è assistito alla diffusione del tabagismo, il mondo si sta allontanando dalle sigarette grazie

alla Tobacco Free Initiative dell‟OMS. Adottata all‟unanimità a Ginevra nel 2003, la Framework

Convention on Tobacco Control, primo accordo internazionale per affrontare in maniera organica un

tema concernente la salute, ha dato ulteriore slancio all‟iniziativa. Tra l‟altro, il trattato richiede

l‟aumento delle tasse sulle sigarette, la limitazione del fumo nei luoghi pubblici e severi avvertimenti

sanitari sui pacchetti. In aggiunta all‟iniziativa dell‟OMS, la Bloomberg Global Initiative to Reduce

Tobacco Use, finanziata da Michael Bloomberg, l‟attuale sindaco di New York, ha come scopo la

riduzione del fumo nei paesi a medio e basso reddito, tra i quali la Cina.

Per ironia della sorte, il paese nel quale il tabacco ha avuto origine sta ora guidando il mondo contro

di esso. Negli Stati Uniti il numero medio di sigarette fumate a persona è sceso da un picco di 2.814

nel 1976 a 1.225 nel 2006, con un calo del 56%. Nel resto del mondo, in ritardo rispetto agli Stati

Uniti di circa dodici anni, l‟utilizzo è sceso dal picco storico di 1.027 sigarette fumate a persona nel

1988 a 859 nel 2004, con una riduzione del 16%. La risonanza mediatica degli effetti del fumo sulla

salute, gli avvertimenti obbligatori sui pacchetti di sigarette e i forti aumenti della tassazione hanno

contribuito a questo costante declino.

Negli Stati Uniti, la prospettiva di ridurre ulteriormente l‟abitudine al fumo ha avuto una spinta

importante nell‟aprile 2009, quando, per ridurre il deficit fiscale, la tassa federale sul singolo

pacchetto di sigarette è stata innalzata da 39 centesimi a 1,01 dollari. Molti stati stanno ipotizzando,

per lo stesso motivo, di innalzare la tassa statale sulle sigarette.

In realtà, l‟abitudine al fumo è in calo quasi in tutti i paesi, inclusi i grandi “resistenti” come Francia,

Cina e Giappone. Nel 2007, il numero di sigarette fumate per persona in Francia è sceso del 20%

rispetto al picco massimo del 1991, del 5% in Cina dal 1990 e del 20% in Giappone dal 1992.

In seguito alla ratifica della Framework Convention, nel 2004 molti paesi hanno intrapreso passi

decisi per la riduzione del fumo. L‟Irlanda ha imposto un divieto nazionale nei luoghi di lavoro, nei

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201

bar e nei ristoranti; l‟India lo ha proibito nei locali pubblici; la Norvegia e la Nuova Zelanda nei bar e

nei ristoranti; la Scozia negli edifici pubblici. Il Bhutan, un piccolo paese himalayano, ha vietato del

tutto la vendita di tabacco.

Nel 2005, il fumo è stato vietato nei locali pubblici del Bangladesh e l‟Italia lo ha proibito in tutti gli

spazi pubblici chiusi, compresi i bar e i ristoranti. Più di recente, l‟Inghilterra lo ha vietato sul posto

di lavoro e negli spazi pubblici chiusi, e la Francia ha imposto un divieto simile nel 2008. A seguire,

anche la Bulgaria e la Croazia hanno fatto lo stesso.

Un‟altra malattia spesso legata allo stile di vita, il diabete, è in crescita, e sta raggiungendo livelli

quasi epidemici, ad esempio negli Stati Uniti e in alcune città dell‟India. Per invertirne il trend

positivo, che sembra peraltro correlato con una maggiore incidenza della malattia di Alzheimer, è

necessario modificare le abitudini di vita, ridurre le calorie ingerite con la dieta e aumentare l‟attività

fisica.

Tuttavia, molti problemi sanitari emergenti non sono di esclusiva competenza dei Ministeri della

Salute. Ad esempio, in Cina la morte per tumori ha raggiunto livelli epidemici. I difetti congeniti

sono aumentati del 40% tra il 2001 e il 2006, con i maggiori incrementi nelle province produttrici di

carbone dello Shanxi e della Mongolia interna. Per invertire queste tendenze, è necessario modificare

le politiche energetiche e ambientali del paese, compito che va al di là delle sole competenze del

Ministero della Sanità. Dal canto loro, i medici non possono fermare il numero crescente di morti per

tumore, ad oggi la principale causa di morte in Cina.

Più in generale, uno studio dell‟OMS del 2001 che prende in analisi gli aspetti economici delle cure

sanitarie nei paesi a basso reddito ha concluso che la sola erogazione di prestazioni sanitarie di base,

ovvero il tipo di cure che possano essere fornite dagli ambulatori di un villaggio, renderebbe enormi

benefici economici ai paesi stessi e al mondo in generale. Gli autori stimano che fornire tali servizi

richiederebbe un investimento medio di 33 miliardi di dollari fino al 2015. In aggiunta alle cure di

base, in questa cifra sono inclusi anche i finanziamenti per il Global Fund to Fight Aids,

Tuberculosis and Malaria e per le vaccinazioni universali all‟infanzia.

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202

7.3 Stabilizzare la popolazione

Ad oggi esistono due tipologie di paesi in cui la popolazione sta diminuendo: in alcuni ciò è dovuto a

un calo della fertilità, in altri a un aumento della mortalità. Al primo gruppo appartengono 33 paesi

con 674 milioni di abitanti, la cui popolazione è essenzialmente stabile o in lieve declino a causa di

una riduzione delle nascite. Nei paesi con i più bassi tassi di fertilità, tra i quali troviamo il Giappone,

la Russia, la Germania e l‟Italia, la popolazione probabilmente diminuirà in maniera avvertibile nei

prossimi cinquant‟anni.

Il secondo gruppo, comprendente le nazioni la cui popolazione sta diminuendo per un aumento del

tasso di mortalità, è relativamente nuovo. Le proiezioni del 2008 del Population Reference Bureau di

Washington mostrano che in due paesi di questo gruppo, Lesotho e Swaziland, si combinano alti

tassi di infezione da HIV e fame diffusa. Purtroppo, è possibile che molti altri paesi a basso reddito

entreranno a far parte di questo gruppo in futuro, a mano a mano che la popolazione sopravanzerà le

risorse idriche e territoriali disponibili.

Oltre ai 33 paesi con popolazioni essenzialmente stabili o in declino, esiste un altro gruppo di paesi,

tra cui Cina e Stati Uniti, in cui il tasso di fertilità è sceso al livello di ricambio o appena al di sotto.

Tuttavia, dato che un gran numero di giovani sta entrando nell‟età riproduttiva, queste popolazioni

sono ancora in crescita. A mano a mano però che queste fasce di popolazione invecchieranno, si

raggiungerà un livello di stabilità. I 29 paesi inclusi in questa categoria contano complessivamente

2,5 miliardi di abitanti.

In forte contrasto con queste situazioni, si prevede che la popolazione di un ampio gruppo di paesi

continuerà a espandersi negli anni a venire. In Etiopia, Repubblica Democratica del Congo e Uganda

sarà più che raddoppiata entro il 2050.

Le proiezioni delle Nazioni Unite considerano tre possibili scenari correlati ai livelli di fertilità. La

proiezione media, quella più comunemente usata, prevede che la popolazione mondiale raggiungerà i

9,2 miliardi di persone entro il 2050. La più alta calcola 10,8 miliardi. La più bassa, invece, presume

che il tasso di fertilità mondiale scenderà rapidamente al di sotto del livello di ricambio, 1,5 figli per

coppia entro il 2050, e ipotizza un massimo di 8 miliardi nel 2042, seguito poi da un declino. Se

vogliamo eliminare la povertà, la fame e l‟analfabetismo non ci resta che la terza opzione.

Per rallentare la crescita demografica mondiale occorre che tutte le donne che desiderino pianificare

le proprie gravidanze possano accedere agli appositi servizi di pianificazione familiare.

Sfortunatamente, ad oggi 201 milioni di donne non hanno questa opportunità. L‟ex funzionario

dell‟Agency for International Development degli Stati Uniti, J. Joseph Speidel, ha affermato che “se

chiedete agli antropologi che soggiornano e lavorano nei villaggi a contatto con la popolazione

indigente, questi spesso rispondono che le donne vivono nel terrore della loro prossima gravidanza.

Semplicemente non vogliono restare incinte”.

La buona notizia è che i paesi che vogliono aiutare le coppie a pianificare le nascite possono farlo

rapidamente. La mia collega Janet Larsen scrive che in un decennio l‟Iran ha ridotto il suo tasso di

crescita demografica fino a farlo diventare uno dei più bassi tra i paesi in via di sviluppo. Quando

l‟ayatollah Khomeini salì al potere in Iran nel 1979, smantellò immediatamente il programma in

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203

corso di pianificazione familiare, invitando invece all‟allargamento delle famiglie. Durante la guerra

con l‟Iraq, tra il 1980 e il 1988, Khomeini desiderava famiglie numerose per incrementare i ranghi

dei soldati, con l‟obiettivo di avere un esercito di 20 milioni di uomini.

In risposta al suo invito, i livelli di fertilità si impennarono, spingendo l‟incremento annuale della

popolazione iraniana a un picco di crescita del 4,2% nei primi anni Ottanta, un livello vicino al

massimo biologico. Quando questa crescita sproporzionata iniziò a sovraccaricare l‟economia e

l‟ambiente, i leader del paese capirono che il sovraffollamento, il degrado ambientale e la

disoccupazione stavano minando il futuro dell‟Iran.

Nel 1989 il governo tornò sui suoi passi e ripristinò il programma di pianificazione familiare. Nel

maggio del 1993 venne approvata un‟apposita legge nazionale. Al fine di incentivare la formazione

di nuclei familiari più piccoli vennero poi investite le risorse di diversi ministeri, tra cui quello

dell‟Istruzione, della Cultura e della Salute. Ai mezzi di comunicazione iraniani fu affidata la

responsabilità di far crescere nella popolazione la consapevolezza su questi temi e di promuovere i

servizi di pianificazione familiare. Vennero aperte circa 15 mila cliniche che fornivano servizi

sanitari e familiari alle popolazioni rurali.

I leader religiosi furono coinvolti direttamente in quella che rappresentò una crociata per promuovere

nuclei familiari meno numerosi. L‟Iran introdusse un‟intera gamma di misure contraccettive, inclusa

la possibilità di sterilizzazione maschile, e fu il primo tra i paesi musulmani a farlo. Divennero

gratuite tutte le forme di controllo delle nascite, tra cui i mezzi di contraccezione come la pillola e la

sterilizzazione. Di fatto, l‟Iran fu un pioniere in questo ambito, ed è l‟unico paese nel quale le coppie

sono obbligate a seguire un corso sulla moderna contraccezione prima di avere il permesso di

sposarsi.

Oltre alle misure specificamente sanitarie è stato intrapreso un intervento su larga scala per

aumentare l‟alfabetizzazione femminile, che è salita dal 25% nel 1970 a più del 70% nel 2000. Le

iscrizioni scolastiche femminili sono aumentate dal 60 al 90%. La televisione è stata utilizzata per

diffondere informazioni sulla pianificazione familiare in tutto il territorio nazionale, dato che gli

apparecchi sono presenti nel 70% delle residenze rurali. In conseguenza di questa politica, la

famiglia iraniana media è diminuita da sette figli a meno di tre. Dal 1987 al 1994 l‟Iran ha dimezzato

il suo tasso di crescita demografica raggiungendo un risultato sorprendente.

Mentre l‟attenzione dei ricercatori si è focalizzata sul ruolo dell‟istruzione nella riduzione della

fertilità, le soap opera radiofoniche o televisive possono essere ancora più efficaci nel modificare

l‟atteggiamento delle persone nei confronti della salute riproduttiva, della parità dei sessi, della

dimensione della famiglia e della protezione ambientale. Una soap opera ben scritta può esercitare

effetti notevoli sulla crescita demografica. Inoltre, è relativamente economica da realizzare e può

essere utilizzata mentre vengono ampliati i sistemi di istruzione.

L‟efficacia di questo approccio è stata dimostrata da Miguel Sabido, vicepresidente di Televisa, un

network televisivo messicano che ha lanciato una serie di soap opera sull‟analfabetismo. In uno degli

episodi, uno dei protagonisti della serie si reca in un ufficio di alfabetizzazione per imparare a

leggere e scrivere, e il giorno dopo circa 250 mila persone hanno visitato agli uffici di Mexico City.

Dopo aver visto la serie, circa 840 mila messicani si sono iscritti a corsi di alfabetizzazione.

Sabido ha affrontato il tema della contraccezione in una soap opera intitolata Acompáñeme, che

significa “Vieni con me”. Nel giro di un decennio, questa serie ha contribuito alla riduzione del tasso

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204

di natalità messicano del 34%.

Altri gruppi al di fuori del Messico hanno rapidamente adottato questo approccio. Il Population

Media Center (PMC) negli Stati Uniti, guidato da William Ryerson, ha avviato progetti in almeno 15

paesi. Il lavoro del PMC in Etiopia negli ultimi anni ne fornisce un esempio pratico. Le serie

radiofoniche in lingua amarica e oromo hanno affrontato temi come la salute riproduttiva e la parità

dei sessi, l‟HIV e l‟AIDS, la pianificazione familiare e l‟istruzione femminile A due anni dall‟inizio

delle trasmissioni, cominciate nel 2002, un sondaggio ha rivelato che il 63% dei nuovi utenti dei 48

centri etiopi di salute riproduttiva aveva seguito una delle serie della PMC.

Tra le donne sposate della regione di Amhara che hanno seguito queste serie vi è stato un aumento

del 55% di coloro che utilizzano metodi di pianificazione familiare. Gli ascoltatori maschi che hanno

fatto il test dell‟HIV erano quattro volte più numerosi, mentre le donne tre volte di più. La media di

figli per donna è scesa da 5,4 a 4,3, e la richiesta di contraccettivi è salita del 157%.

I costi dei servizi di salute riproduttiva e pianificazione familiare sono bassi se confrontati con i

benefici che apportano. Joseph Speidel stima che la loro diffusione a tutte le donne dei paesi a basso

reddito richiederebbe circa 17 miliardi di dollari in fondi addizionali, sia da parte dei paesi

industrializzati sia di quelli in via di sviluppo.

Le Nazioni Unite hanno stimato che se i 201 milioni di donne che oggi non hanno accesso a efficaci

misure contraccettive potessero usufruirne, si potrebbero prevenire ogni anno 52 milioni di

gravidanze non desiderate, 22 milioni di aborti provocati e 1,4 milioni di decessi neonatali. In parole

povere, la necessità di colmare le carenze nei servizi di pianificazione familiare dovrebbe essere il

tema più urgente nell‟agenda globale. Un fallimento su questo punto potrebbe comportare costi

sociali enormi, maggiori di quanto si possa accettare.

Il passaggio a famiglie meno numerose porta inoltre dividendi economici più generosi. Per il

Bangladesh, ad esempio, gli analisti hanno concluso che per ogni 62 dollari investiti dal governo

nella prevenzione delle nascite indesiderate si risparmiano 615 dollari di spese in altri servizi sociali.

Investire nella salute riproduttiva e nella pianificazione familiare lascia più risorse finanziarie a

disposizione per l‟istruzione e la salute di ogni bambino, accelerandone così il processo di uscita

dalla povertà. Se i paesi donatori potessero garantire alle coppie di ogni paese l‟accesso a questi

servizi, ciò si tradurrebbe in un considerevole ritorno nel campo dell‟istruzione e della salute.

L‟aiuto a quelle nazioni che vogliono rallentare la crescita della propria popolazione porta a quello

che gli economisti chiamano “bonus demografico”. Quando i paesi passano rapidamente a una

struttura sociale in cui prevalgono i nuclei familiari piccoli, anche il numero dei giovani individui

dipendenti, ovvero coloro che hanno bisogno di cure e istruzione, diminuisce in relazione al numero

di adulti in età lavorativa. In questa situazione, la produttività cresce, i risparmi e gli investimenti

aumentano e la crescita economica è più rapida.

Il Giappone, che ha dimezzato la sua popolazione tra il 1951 e il 1958, è stato uno dei primi paesi a

beneficiare del bonus demografico. Successivamente, prima la Corea del Sud e Taiwan, e più di

recente la Cina, la Thailandia e il Vietnam, hanno goduto dei benefici dell‟evidente riduzione dei

tassi di natalità. Questo effetto ha una durata limitata a pochi decenni, che sono tuttavia sufficienti a

rilanciare un paese verso la modernizzazione. Infatti, escludendo solo alcuni paesi ricchi di petrolio,

non c‟è stato paese a basso reddito che si sia sviluppato con successo senza aver prima rallentato la

crescita demografica.

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205

7.4 Il salvataggio degli stati in fallimento

Una delle sfide fondamentali che la comunità internazionale si trova ad affrontare è come aiutare gli

stati che stanno fallendo. I programmi tradizionali di aiuto internazionale non sono più efficaci, e la

posta in gioco non potrebbe essere più alta. Se il numero di nazioni in crisi dovesse continuare ad

aumentare, questo trend si tradurrà in un collasso generalizzato della civiltà. In qualche modo, è

necessario invertire questa tendenza.

Fino ad ora la progressione verso il fallimento è stata a senso unico: solo alcuni paesi, tra cui la

Liberia e la Colombia, sono riusciti a invertire questa tendenza. Secondo la classifica annuale degli

stati in fallimento stilata da Foreign Policy, nel 2005 la Liberia era al nono posto. Dopo 14 anni di

brutale guerra civile, che ha provocato 200 mila morti, la situazione è cominciata a migliorare nel

2005, con l‟elezione a presidente di Ellen Johnson-Sirleaf, laureata alla Kennedy School of

Government di Harvard e funzionario della Banca Mondiale. Grazie a uno sforzo energico per

sradicare la corruzione, e ai 15 mila uomini del contingente multinazionale di pace dell‟ONU che

hanno garantito la sicurezza, ricostruito strade, scuole e ospedali e addestrato le forze di polizia,

questo paese lacerato dalla guerra ha potuto ricominciare a prosperare. Nel 2009, la Liberia era scesa

al trentatreesimo posto nella classifica di Foreign Policy.

In Colombia, il miglioramento dell‟economia, legato alle alte quotazioni del caffè e alla crescente

legittimità del governo, ha favorito l‟inversione di tendenza. Quattordicesima nel 2005, nel 2009 era

quarantunesima nella classifica di Foreign Policy. Certamente né la Colombia né la Liberia sono

ancora fuori pericolo, ma si stanno entrambe muovendo nella giusta direzione.

Gli stati in bancarotta sono un fenomeno relativamente nuovo che richiede risposte specifiche. I

programmi tradizionali di assistenza non sono più adeguati. Il fallimento di uno stato è un problema

sistemico, e richiede quindi un approccio sistemico. Il Regno Unito e la Norvegia hanno riconosciuto

che le nazioni in crisi richiedono una speciale attenzione e hanno messo a disposizione fondi per il

coordinamento tra le agenzie che si occupano dei meccanismi di risposta. È presto per dire se questi

interventi saranno efficaci; tuttavia, questi due paesi sono stati i primi a prendere atto della necessità

di una specifica strategia di tipo istituzionale.

L‟impegno degli Stati Uniti a favore dei paesi deboli o a rischio di bancarotta è al momento

frammentario. La responsabilità ricade su diversi dipartimenti governativi, compreso il Dipartimento

di Stato, quello del Tesoro e quello dell‟Agricoltura, solo per nominarne alcuni. All‟interno del solo

Dipartimento di Stato, diversi uffici si occupano a loro volta del problema. Questa mancanza di

coordinamento è stata sottolineata dalla Commissione Hart-Rudmand sulla sicurezza nazionale nel

XXI secolo: “Allo stato attuale, la responsabilità per la prevenzione e risoluzione delle crisi è

dispersa tra molteplici agenzie di sviluppo internazionale, tra i loro amministratori, gli uffici statali e

i sottosegretariati di Stato. In pratica, pertanto, nessuno è responsabile”.

È quindi necessaria la creazione di una nuova agenzia a livello di gabinetto del Presidente, un vero e

proprio Dipartimento per la Sicurezza Globale (Department of Global Security, DGS) che possa

sviluppare una politica coerente nei confronti di ogni stato in via di fallimento o falliti. Questa

raccomandazione, presentata in un report della Commission on Weak States and U.S. National

Page 206: L. Bro wn - Piano B 4.0

206

Security, sottolinea che le minacce alla sicurezza degli Stati Uniti provengono in misura sempre

minore dalle potenze militari e sempre di più dalle situazioni di instabilità (rapida crescita

demografica, povertà, deterioramento degli ecosistemi, carenze idriche). La nuova agenzia dovrebbe

incorporare le altre già esistenti, e tutti i programmi di assistenza agli stati esteri attualmente in corso

presso differenti dipartimenti. In questo modo si centralizzerebbe la responsabilità degli Stati Uniti

sugli aiuti allo sviluppo all‟estero. Il Dipartimento di Stato dovrebbe fornire a questa nuova agenzia

il supporto diplomatico, collaborando allo sforzo necessario a invertire il processo di fallimento degli

stati più fragili.

Questo nuovo Department of Global Security potrebbe essere finanziato riallocando le risorse fiscali

del Dipartimento della Difesa. In realtà quello del DGS diventerebbe il nuovo budget della difesa

stessa, e dovrebbe essere focalizzato sullo studio delle cause del fallimento degli stati, sull‟aiuto alla

stabilizzazione della popolazione, al ripristino ambientale, allo sradicamento della povertà, alla

diffusione della scolarizzazione primaria, al rispetto della legalità attraverso il rafforzamento delle

forze dell‟ordine e del sistema giudiziario.

Il DGS si dovrebbe occupare anche della produzione e del traffico internazionale degli stupefacenti e

potrebbe affrontare questioni come la cancellazione del debito e l‟accesso al mercato, rendendoli

parte integrante della politica americana. Potrebbe anche diventare il centro di coordinamento della

politica estera e interna statunitense, in modo da evitare che le politiche interne, come i sussidi

all‟esportazione del cotone o i sussidi per convertire cereali in carburante, possano contribuire al

fallimento di altri paesi. Potrebbe diventare, per gli Stati Uniti, uno strumento per concentrarsi sui

problemi e assumere la guida di un crescente sforzo internazionale per ridurre il numero degli stati in

fallimento. E infine, questa agenzia, attraverso prestiti garantiti, potrebbe incentivare gli investimenti

privati negli stati in difficoltà, favorendone così lo sviluppo.

Gli Stati Uniti potrebbero inoltre rinforzare il Peace Corps, un corpo di volontari capaci di supportare

i programmi di base, come l‟insegnamento o l‟assistenza ai programmi di pianificazione familiare, la

riforestazione e il microcredito. Questa iniziativa sarebbe destinata soprattutto ai giovani,

promuovendo la nascita di un senso d‟orgoglio e responsabilità civile.

Gli Stati Uniti hanno poi una riserva di pensionati altamente specializzati in settori come il

management, la contabilità, la normativa, l‟educazione e la medicina. Le loro competenze potrebbero

essere mobilitate attraverso l‟istituzione di un servizio civile senior con cui fornire aiuto agli stati in

difficoltà.

Esiste già un certo numero di organizzazioni volontarie che si affidano ai talenti e all‟entusiasmo dei

giovani e dei meno giovani, come i Peace Corps, il Teach for America e i Senior Corps. La

situazione attuale richiede però uno sforzo molto più ambizioso e sistematico.

Il mondo è entrato in una nuova era, nella quale non esiste sicurezza nazionale senza sicurezza

globale. Dobbiamo riconoscerlo e riorganizzare i nostri sforzi per rispondere a questa nuova realtà.

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207

7.5 Un’agenda e un budget per sconfiggere la povertà

Per eliminare la povertà sono necessari interventi molto più ampi dei soli programmi di aiuto

internazionale. Queste misure includono la cancellazione del debito, cosa della quale i paesi più

poveri hanno bisogno per sfuggire alla povertà, e la revisione del sistema dei sussidi all‟agricoltura

nei paesi donatori. Un settore agricolo orientato all‟esportazione può essere una via per uscire

dall‟indigenza. Purtroppo, per molti paesi a basso reddito, questa strada è preclusa a causa dei sussidi

che i paesi donatori erogano a se stessi. Gli incentivi all‟agricoltura industriale, che ammontano a

258 miliardi di dollari, equivalgono al doppio dei flussi di denaro destinati dai paesi donatori

all‟assistenza allo sviluppo.

Questi sussidi incoraggiano la sovrapproduzione di prodotti agricoli, che sono poi venduti all‟estero

grazie a ulteriori incentivi alle esportazioni. Il risultato è una riduzione dei prezzi su scala mondiale,

in particolare per quel che riguarda zucchero e cotone, prodotti sui quali i paesi a basso reddito hanno

più da perdere.

Nonostante l‟Unione Europea fornisca più della metà dei 120 miliardi di dollari di aiuti globalmente

erogati da tutti i paesi, gran parte del vantaggio economico derivato nel passato da questi interventi è

stato compensato dal deprezzamento annuale, da parte dell‟UE, di circa 6 milioni di tonnellate di

zucchero sul mercato mondiale. Fortunatamente, nel 2005 l‟Unione europea ha annunciato che

ridurrà del 40% i sussidi ai produttori di zucchero, diminuendo così le proprie esportazioni a 1,3

milioni di tonnellate nel 2008.

Allo stesso modo, i sussidi alla produzione garantiti agli agricoltori americani hanno consentito loro

di esportare cotone a basso prezzo. E dal momento che gli Stati Uniti sono il principale esportatore

mondiale di questo prodotto, questi incentivi abbassano il prezzo per tutti gli esportatori di cotone.

Di conseguenza, i sussidi americani a questo tipo di coltura sono stati denunciati con vigore da

quattro paesi produttori di cotone dell‟Africa centrale: il Benin, il Burkina Faso, il Ciad e il Mali.

Inoltre, il Brasile si è opposto con successo agli incentivi statunitensi all‟interno del World Trade

Organization (WTO), ed è riuscito a convincere la giuria del WTO che questi sussidi hanno depresso

i prezzi mondiali del prodotto e danneggiato i produttori brasiliani.

Dopo il verdetto del WTO a favore del Brasile nel 2004, gli Stati Uniti hanno fatto qualche tentativo

formale di adeguarsi, ma il WTO si è nuovamente pronunciato a favore del Brasile nel dicembre

2007, concludendo che i sussidi americani stavano ancora deprimendo i prezzi mondiali del mercato

del cotone. I paesi donatori non possono più permettersi politiche agricole che intrappolano nella

povertà milioni di persone nei paesi riceventi, tagliando la loro principale via di fuga.

Mentre la gran parte degli incentivi americani abbassano i prezzi delle esportazioni dai paesi in via di

sviluppo, quelli per la conversione di cereali in etanolo innalzano il prezzo dei cereali, che molti

paesi a basso reddito sono costretti a importare. Nei fatti, i contribuenti americani stanno

sovvenzionando un aumento della fame nel mondo.

La cancellazione del debito è un‟altra componente essenziale nel più vasto sforzo dell‟eradicazione

della povertà. Ad esempio, nell‟Africa subsahariana la spesa per estinguere il debito è quattro volte

maggiore di quella sanitaria: cancellare il debito può aiutare a migliorare gli standard di vita in quello

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208

che è l‟ultimo bastione dell‟indigenza.

Nel luglio del 2005, i capi dei paesi industrializzati del G8, incontratisi a Gleneagles, in Scozia,

hanno acconsentito alla cancellazione del debito multilaterale che molti dei paesi più poveri avevano

contratto con la Banca Mondiale, il Fondo monetario internazionale e l‟African Development Bank.

Questa iniziativa mirava ad aiutare i paesi più deboli a raggiungere gli Obiettivi del Millennio.

L‟intervento ha avuto un impatto diretto sui 18 paesi (14 in Africa e 4 in America Latina) più poveri

e oppressi dal debito, offrendo loro una nuova opportunità di vita.

L‟anno dopo l‟incontro di Gleneagles, Oxfam International ha comunicato che il Fondo monetario

internazionale ha cancellato il debito di 19 paesi, il primo importante passo avanti verso la sua

eliminazione stabilita al meeting del G8. Per lo Zambia, la cancellazione dei 6 miliardi di debito ha

consentito all‟ex presidente Levy Mwanawasa di annunciare che le cure sanitarie di base sarebbero

state, da quel momento in poi, gratuite. Nelle parole di Oxfam: “Il privilegio di pochi diventa il

diritto di tutti”. Nell‟Africa orientale, il Burundi ha annunciato che avrebbe eliminato le tasse

scolastiche, permettendo a 300 mila bambini di famiglie povere di iscriversi a scuola. In Nigeria, il

debito cancellato è stato usato per creare un fondo di azione contro la povertà e una parte è stata

investita nella formazione di migliaia di insegnanti.

Nonostante la riduzione del debito, gli aiuti allo sviluppo da parte dei paesi donatori, in termini di

percentuale del Pil, sono andati diminuendo nel 2006 e nel 2007. Pur essendo risaliti nel 2008, gli

aiuti sono ancora 29 miliardi di dollari al di sotto dell‟obiettivo di 130 miliardi per il 2010, stabilito

dai governi nel 2005. La cattiva notizia è che molti di quegli stessi paesi oberati dal debito estero

sono stati duramente colpiti dalla crisi economica globale che ha portato alla caduta dei prezzi delle

esportazioni minerarie e delle rimesse dall‟estero, oltre che dal rialzo dei prezzi delle importazioni di

cereali.

La Banca Mondiale stima che gli aumenti dei prezzi del carburante e del cibo hanno spinto 130

milioni di persone al di sotto della soglia di povertà e le proiezioni suggeriscono che altri 53 milioni

subiranno la stessa sorte nel 2009. Riferendosi alle difficoltà che molti paesi a basso reddito stanno

sperimentando per raggiungere gli Obiettivi del Millennio, nel marzo 2009 il presidente della Banca

Robert Zoellick ha detto che “ad oggi questi obiettivi appaiono ancora più distanti”.

I passi necessari per eradicare la povertà e accelerare il passaggio a famiglie meno numerose sono

chiari. È necessario colmare numerose carenze nei finanziamenti, tra cui quelli: per ottenere

l‟istruzione primaria universale; per combattere le malattie infantili e quelle infettive; per fornire

servizi di salute riproduttiva e di pianificazione familiare; per contenere l‟epidemia di HIV.

Complessivamente, il costo delle iniziative presentate in questo capitolo è stimato intorno ai 77

miliardi di dollari l‟anno (vedi tabella 7.1). Nota 90

Gli investimenti più costosi in questa lotta sono quelli relativi all‟istruzione e alla salute, che sono

basilari sia per lo sviluppo del capitale umano sia per la stabilizzazione della popolazione.

L‟istruzione include l‟educazione primaria universale e una campagna globale per eliminare

l‟analfabetismo negli adulti. Le cure sanitarie includono gli interventi di base necessari al controllo

delle malattie infettive, iniziando dalle vaccinazioni infantili.

Come ci ricorda regolarmente Jeffrey Sachs, economista alla Columbia University, per la prima volta

nella storia abbiamo a disposizione le tecnologie e le risorse finanziarie per sconfiggere la povertà.

Gli investimenti nell‟istruzione, nella salute e delle mense scolastiche forniscono una risposta

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umanitaria alle necessità dei paesi più poveri del mondo. Ma quel che è più importante, sono

investimenti che contribuiranno a invertire le tendenze demografiche e ambientali che stanno

minando le basi della nostra civiltà.

Fonte: vedi nota 90.

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210

8. RISANARE LA TERRA

La nostra sopravvivenza dipende direttamente dall‟ecosistema terrestre sia per quanto riguarda i beni

che ci offre, dai materiali da costruzione al cibo, sia per quanto riguarda i servizi che svolge, dal

controllo delle inondazioni all‟impollinazione. Pertanto se i terreni agricoli si erodono e i raccolti si

riducono, se si abbassa il livello delle falde freatiche e i pozzi si prosciugano, se i pascoli diventano

deserti e il bestiame muore, noi siamo in difficoltà. Se i meccanismi di sostenibilità ambientale

dovessero venire meno, la civiltà stessa non potrebbe sopravvivere.

La devastazione causata dalla deforestazione e dall‟erosione del suolo è esemplificata da Haiti, dove

più del 90% delle foreste è scomparso per fare spazio ai campi da coltivare e per trarne legna da

ardere. Quando gli uragani si abbattono sull‟isola condivisa da Haiti e dalla Repubblica Dominicana,

spesso i danni sono più gravi per Haiti semplicemente perché non ci sono alberi che stabilizzano il

suolo e prevengono smottamenti e allagamenti.

Commentando questa terribile situazione, Craig Cox, direttore esecutivo della Soil and Water

Conservation Society (organizzazione non profit statunitense per la conservazione del suolo e delle

acque) ha scritto: “Ci siamo resi conto che i vantaggi offerti dalla tutela delle risorse naturali sono al

di là della comprensione dei più, anche a livello elementare. I collassi ecologici e sociali si sono

rafforzati a vicenda e hanno provocato una spirale di povertà, degrado ambientale, ingiustizia sociale,

malattie e violenza”. Sfortunatamente la situazione che Cox descrive è ciò che accadrà in un numero

sempre maggiore di paesi se non ci affrettiamo a rimediare ai danni che abbiamo causato.

Risanare la Terra richiederà un enorme impegno internazionale, di gran lunga più arduo del famoso

Piano Marshall che contribuì a ricostruire l‟Europa e il Giappone devastati dalla guerra. Un impegno

di questa portata va inoltre affrontato con una velocità da stato di assedio per impedire che il

deterioramento ambientale si trasformi nel declino economico e nel fallimento degli stati, come è

avvenuto a quelle antiche civiltà che hanno infranto i principi della natura senza tener conto dei suoi

limiti.

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211

8.1 Proteggere e ripristinare le foreste

Dal 1990 a oggi il manto forestale terrestre è diminuito di più di 7 milioni di ettari all‟anno, con una

perdita annuale di 13 milioni di ettari nei paesi emergenti e una ripresa di quasi 6 milioni di ettari nei

paesi industrializzati. La tutela dei circa 4 miliardi di ettari di foreste attualmente esistenti e il

ripristino di quelle che sono andate perdute, sono entrambi interventi fondamentali per ristabilire la

salute del pianeta, un‟importante base di partenza per un nuovo modello economico.

Inondazioni ed erosioni del suolo sono collegate al deflusso troppo rapido delle acque piovane;

migliorando il manto forestale e diminuendone lo sfruttamento si facilitano sia il riciclo idrico in

atmosfera necessario al verificarsi delle precipitazioni nell‟entroterra, sia il ripristino delle riserve

idriche sotterranee.

In tutte le nazioni esistono grandi potenzialità di diminuzione della domanda di prodotti forestali

perché sia portata a livelli sostenibili: nei paesi industrializzati è necessario ridurre la quantità di

legno usato per produrre la carta; nei paesi in via di sviluppo occorre diminuire l‟impiego di legna da

ardere.

La carta, forse più di ogni altro prodotto, riflette la mentalità usa e getta che si è diffusa durante il

secolo scorso. Vi sono ampie possibilità di ridurre l‟uso della carta, semplicemente sostituendo

fazzoletti, tovaglioli, pannolini e sacchetti della spesa con analoghi prodotti riutilizzabili in tessuto.

Prima di tutto serve diminuire l‟uso della carta, poi occorre riciclarne il più possibile. Fra i dieci

paesi principali produttori di carta, i tassi di riciclaggio variano molto: il Canada e la Cina sono agli

ultimi posti, riciclano infatti poco più di un terzo della carta che usano; il Giappone e la Germania

sono ai primi posti della classifica, entrambi con il 70% di carta riciclata, nonché la Corea del Sud

con uno sbalorditivo 85%. Gli Stati Uniti, i principali consumatori di carta al mondo, sono molto

lontani dai primi posti della classifica, ma hanno aumentato la percentuale di riciclaggio dal 25% dei

primi anni Ottanta al 55% del 2007. Se ogni paese riciclasse tanto quanto la Corea del Sud, per

produrre carta occorrerebbe un terzo in meno della polpa di legno che si usa oggi.

La domanda più alta di legna viene dalla richiesta di combustibile, responsabile di oltre il 50% del

legname sottratto alle foreste. Alcune organizzazioni internazionali di assistenza ai paesi in via di

sviluppo, compresa l‟Agency for International Development (AID), sponsorizzano progetti per

l‟utilizzo efficiente di legna da ardere. Uno dei più promettenti progetti dell‟AID è la distribuzione in

Kenia di 780 mila stufe a legna da cucina altamente efficienti, che non solo richiedono molto meno

combustibile di una stufa tradizionale, ma inquinano in misura minore.

Sempre in Kenia è stato avviato un progetto sponsorizzato dalla Solar Cookers International che

produce cucine solari economiche costruite con cartone e fogli di alluminio, del costo di 10 dollari

l‟una. In meno di due ore di sole si prepara un pasto completo, risparmiando sia la legna da ardere sia

i lunghi tragitti che le donne sono costrette a fare per raccoglierla. Queste cucine possono essere

utilizzate anche per pastorizzare l‟acqua e quindi per salvare vite umane.

Sul lungo termine lo sviluppo di fonti energetiche alternative sarà la vera chiave per ridurre lo

sfruttamento delle foreste nei paesi in via di sviluppo. Cucine a pannelli solari o piastre elettriche

alimentate da fonti eoliche, geotermiche, o solari a concentrazione, ridurranno l‟impatto sulle foreste.

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212

Malgrado l‟alto valore ecologico ed economico delle foreste intatte, soltanto 290 milioni circa di

ettari di aree forestali sono protetti legalmente dallo sfruttamento. Altri 1.400 milioni di ettari non

sono economicamente convenienti da tagliare perché inaccessibili geograficamente o per lo scarso

valore del legname. Pertanto della rimanente area forestale non protetta, ci sono 665 milioni di ettari

virtualmente inesplorati e circa 900 milioni di ettari in stato semi vergine e non coltivati.

Esistono fondamentalmente due approcci al taglio degli alberi. Uno è l‟abbattimento totale (clear-

cutting). Questa pratica, spesso la preferita dalle compagnie del legname, ha un impatto ambientale

devastante poiché causa erosione del suolo e melmosità nei corsi d‟acqua, nei fiumi e nei fondali

delle riserve idriche destinate all‟irrigazione. L‟alternativa è quella di tagliare soltanto alberi maturi

selezionati, lasciando così la foresta intatta. Ciò consente di mantenere inalterata nel tempo la

produttività della foresta.

Di recente la Banca Mondiale ha iniziato a valutare in modo sistematico le sovvenzioni ai progetti di

silvicoltura sostenibile. Dal 1997 la Banca ha costituito con il WWF l‟Alliance for Forest

Conservation and Sustainable Use che, da allora fino alla fine del 2005, ha contribuito a creare 56

milioni di ettari di nuove aree forestali protette e ha certificato 32 milioni di ettari di foreste da taglio

sostenibile. Nel 2005 l‟organizzazione ha dichiarato che si era data l‟obiettivo di ridurre a zero la

deforestazione globale entro il 2020.

Molti programmi di certificazione dei prodotti forestali consentono ai consumatori ecologicamente

responsabili di conoscere le pratiche di gestione applicate nelle aree di provenienza del legname. Il

più rigoroso programma internazionale, certificato da un gruppo di organizzazioni non governative, è

il Forest Stewardship Council (FSC), che garantisce la gestione sostenibile di circa 114 milioni di

ettari in 82 nazioni. Tra i paesi leader troviamo il Canada con 27 milioni di ettari certificati, seguito

da Russia, Stati Uniti, Svezia, Polonia e Brasile.

Le piantagioni di alberi da taglio riducono lo sfruttamento delle foreste primarie a patto che non

vadano a sostituire aree di alberi a crescita lenta. Dal 2005 sono stati censiti nel mondo 205 milioni

di ettari di piantagioni di alberi da taglio, pari a quasi un terzo delle aree seminate a cereali (700

milioni di ettari). Tali alberi forniscono per lo più la materia prima utilizzata per la carta e per il

legno “ricostituito” (pannelli in fibra di legno rilavorata per diverse applicazioni). Il legno ricostituito

è impiegato con sempre maggior frequenza al posto del legno naturale poiché l‟industria si è adattata

alla minore disponibilità di grandi tronchi provenienti da foreste naturali.

La produzione di legname sotto forma di tronchi è stimata in circa 432 milioni di metri cubi all‟anno,

corrispondenti al 12% della produzione mondiale di legno. Il 60% delle aree destinate a piantagione

di alberi da taglio è localizzato in sei nazioni: la Cina, dove sopravvivono poche foreste vergini, è il

paese che ha la maggiore estensione di piantagioni, più di 54 milioni di ettari; l‟India e gli Stati Uniti

seguono con 17 milioni di ettari ciascuno. Seguono a distanza ravvicinata la Russia, il Canada e la

Svezia. Più l‟attività di riforestazione si espande, più tende a muoversi verso i tropici, zone

geograficamente più piovose. Al contrario delle colture cerealicole, che sono più produttive a mano a

mano che ci si allontana dall‟equatore, grazie alle giornate estive più lunghe, la produttività delle

piantagioni arboree aumenta avvicinandosi all‟equatore dove le condizioni di crescita sono stabili

tutto l‟anno.

Nel Canada orientale, per esempio, la produzione media di un ettaro coltivato ad alberi è di 4 metri

cubi di legna all‟anno. Nel sud-est degli Stati Uniti, la produttività annuale è di 10 metri cubi per

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ettaro. Ma in Brasile, le piantagioni più giovani possono arrivare a fornire ogni anno fino a 40 metri

cubi per ettaro. In pratica, mentre il rendimento dei raccolti di mais degli Stati Uniti è circa tre volte

superiore a quello del Brasile, la produttività del legno è superiore in Brasile in un rapporto di quasi

quattro a uno.

Le piantagioni arboree talvolta possono essere avviate con profitto su terreni precedentemente

deforestati e degradati, ma è anche possibile che crescano a spese di una foresta preesistente. Inoltre

sussiste competizione con l‟agricoltura, poiché i terreni adatti alla coltivazione alimentare sono

anche idonei alla crescita di alberi. Un altro limite è dato dalla scarsità idrica, dove le piantagioni

arboree a crescita rapida hanno invece bisogno di abbondante umidità.

Tuttavia la FAO ha stimato che con l‟espansione delle aree destinate a piantagioni arboree e

l‟aumento della produttività, il raccolto potrebbe più che raddoppiare nei prossimi trent‟anni. È

corretto pensare che le piantagioni possano un giorno arrivare a soddisfare la gran parte della

richiesta mondiale di legname industriale, proteggendo quindi le foreste residue.

Tradizionalmente, nei paesi industrializzati, alcuni terreni agricoli soggetti a gravi fenomeni di

erosione venivano riforestati sfruttando la ricrescita naturale. Così accadde ad esempio nel New

England, negli Stati Uniti: questa regione impervia fu uno dei primi insediamenti europei e venne

disboscata precocemente; il suolo s‟impoverì e il terreno roccioso, scosceso e vulnerabile

all‟erosione divenne improduttivo. Nel XIX secolo, quando nel Midwest e nelle Grandi Pianure

presero il via attività agricole ad alto rendimento, diminuirono le pressioni sui territori del New

England, permettendo alle foreste di riappropriarsi di molti terreni. L‟area boschiva si è infatti estesa

dai valori minimi di due secoli fa, quando era pari a circa un terzo del territorio, all‟attuale 80%,

recuperando lentamente l‟equilibrio naturale e la biodiversità.

Oggi si sta verificando una situazione analoga in alcune regioni dell‟ex Unione Sovietica e in molti

paesi dell‟Europa orientale dopo che, all‟inizio degli anni Novanta, la pianificazione statale è stata

sostituita dal libero mercato agricolo e i territori periferici non redditizi sono stati abbandonati. E

difficile fare delle valutazioni precise, ma la foresta sta di nuovo tornando a crescere su milioni di

ettari di terreno agricolo di scarsa qualità.

La Corea del Sud è, sotto molti aspetti, un modello di riforestazione per il resto del mondo. Alla fine

della guerra, mezzo secolo fa, le regioni montuose furono in gran parte deforestate, ma dal 1960,

sotto la leadership dell‟attento presidente Park Chung Hee, il governo del paese si impegnò in un

grande progetto di riforestazione. Affidandosi all‟istituzione di cooperative all‟interno dei villaggi,

centinaia di migliaia di persone vennero mobilitate per scavare fossati e costruire terrazzamenti su

montagne brulle in modo da piantarvi gli alberi. Se-Kyung Chong, ricercatore presso il Korea Forest

Research Institute, dichiara che “il risultato fu una sorta di miracolo, dalle lande desolate si assistette

a una risurrezione dei boschi”.

Oggi le foreste coprono il 65% del paese, un‟area di circa 6 milioni di ettari. Attraversando la Corea

del Sud nel 2000, notai con gioia la lussureggiante presenza di alberi su quelle stesse montagne che

erano spoglie solo una generazione fa. Ciò sta a dimostrare che è possibile riforestare il pianeta!

In Turchia, paese montuoso le cui foreste sono state abbattute nel corso dei millenni, un gruppo

ambientalista di primo piano, la Turkiye Erozyona Mucadele, Agaclandirma (TEMA) ha fatto della

riforestazione la sua attività principale. Fondata da due illustri uomini d‟affari turchi, Hayrettin

Karuca e Nihat Gokyigit, TEMA lanciò nel 1998 la campagna “10 miliardi di ghiande” per

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ripristinare il manto boschivo e ridurre il deflusso troppo veloce delle acque piovane e l‟erosione del

suolo. Da allora sono stati piantati 850 milioni di querce da ghianda. Il programma ha anche favorito

la diffusione a livello nazionale di una maggiore consapevolezza sul ruolo delle foreste.

Reed Funk, professore di biologia vegetale alla Rutgers University, ritiene che nelle vaste aree

deforestate si possano crescere miliardi di alberi che producano cibo (più che altro vari tipi di noci),

combustibili e altro. Funk considera le noci come un supplemento proteico di alta qualità per le diete

povere di carne degli abitanti dei paesi in via di sviluppo.

In Niger, negli anni Ottanta, gli agricoltori che si erano trovati a fronteggiare gravi siccità e

desertificazione cominciarono a lasciare qualche acacia nata spontaneamente nei loro campi.

Crescendo, questi alberi rallentarono il vento e ridussero l‟erosione del suolo. L‟acacia è una

leguminosa che, fissando l‟azoto, arricchisce il terreno e aiuta a incrementare il rendimento dei

raccolti. Durante la stagione secca le foglie e i baccelli assicurano il foraggio per il bestiame. Gli

alberi inoltre forniscono legna da ardere.

Questa scelta di lasciar crescere 20-150 piantine spontanee di acacia per ettaro, su una superficie

complessiva di circa tre milioni di ettari, ha ridato nuova vita alle comunità agricole del Niger.

Presumendo che in media 40 alberi a ettaro raggiungano la maturità, arriviamo a un totale di 120

milioni di alberi. Questa metodica è stata fondamentale anche per il recupero di 250 mila ettari di

terreni agricoli abbandonati. Il successo dell‟operazione è da identificare nel fatto che la proprietà

degli alberi è stata trasferita dallo stato ai singoli agricoltori, attribuendo loro la responsabilità di

prendersene cura.

Trasformare gli attuali incentivi alla costruzione delle strade per il taglio e il trasporto dei tronchi in

sovvenzioni alle attività di riforestazione aiuterebbe la protezione del manto forestale del pianeta. La

Banca Mondiale avrebbe il ruolo e i mezzi necessari ad assumere la guida di un programma

internazionale in grado di emulare il successo della Corea del Sud e ricoprire di boschi colline e

montagne.

Inoltre la FAO e le organizzazioni di aiuto potrebbero collaborare con i singoli agricoltori nei

programmi nazionali al fine di integrare la silvicoltura con le attività agricole. Se scelti e posizionati

accuratamente, gli alberi assicurano ombra, combattono l‟erosione del suolo contrastando l‟azione

del vento e possono fissare l‟azoto, limitando così l‟uso dei fertilizzanti.

Tutto contribuisce ad alleggerire la pressione sulle foreste mondiali: la riduzione dell‟uso della legna

grazie allo sviluppo di stufe efficienti e di sistemi di cottura alternativi, il riciclo sistematico della

carta e il divieto di usare prodotti usa e getta a base di cellulosa. Ma un programma di riforestazione

globale ha scarse probabilità di successo se non sarà accompagnato dalla stabilizzazione

demografica. Un approccio integrato di questo tipo, coordinato paese per paese, può rigenerare le

foreste a livello mondiale.

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215

8.2 Piantare alberi per contrastare l’effetto serra

Negli ultimi tempi la riduzione delle foreste nelle regioni tropicali ha causato il rilascio in atmosfera

di 2,2 miliardi di tonnellate di carbonio all‟anno, mentre le zone boschive in espansione nelle zone

temperate ne hanno assorbito 700 milioni di tonnellate. Ogni anno perciò, a causa della perdita di

aree forestali, vengono rilasciate circa 1,5 miliardi di tonnellate di carbonio, che vanno a contribuire

al surriscaldamento del pianeta.

La deforestazione delle zone tropicali dell‟Asia è dovuta principalmente alla aumentata domanda di

legname e sempre più alla richiesta di olio di palma come biocarburante. In America Latina invece

l‟espansione del mercato della soia, della carne e della canna da zucchero per la produzione di

bioetanolo sta deforestando l‟Amazzonia. In Africa le cause principali del disboscamento sono il

taglio per legna da ardere e la necessità di disporre di nuove aree da coltivare, via via che i terreni

agricoli esistenti vengono abbandonati perché degradati. Due nazioni, l‟Indonesia e il Brasile, sono

responsabili di più della metà della deforestazione globale e posseggono quindi il più alto potenziale

di riduzione delle emissioni legate a questa attività. La Repubblica Democratica del Congo,

anch‟essa ai primi posti nella lista, è uno stato in grave crisi che ha difficoltà nella gestione delle

foreste.

Gli obiettivi del Piano B prevedono simultaneamente la fine delle attività di deforestazione e la

cattura di CO2 tramite una molteplicità di iniziative di riforestazione e l‟adozione di migliori

tecniche di gestione dei terreni agricoli. Oggi la distruzione delle foreste è una delle principali cause

di emissione di anidride carbonica. L‟obiettivo è quello di espandere il manto forestale della Terra,

piantando più alberi per assorbire il carbonio in eccesso nell‟atmosfera.

Benché proibire la deforestazione possa sembrare impraticabile, tre nazioni, la Thailandia, le

Filippine e la Cina hanno imposto divieti totali o parziali in seguito alle devastanti inondazioni e alle

frane causate dalle deforestazioni.

Nelle Filippine, ad esempio, è stato vietato il taglio degli alberi nella maggior parte dei boschi più

antichi e delle foreste vergini soprattutto perché il paese è diventato molto vulnerabile alle

inondazioni, alle erosioni e agli smottamenti. Una volta era una nazione ricoperta da un folto strato di

foresta tropicale a legno duro, ma dopo anni di taglio indiscriminato, i prodotti e i servizi che la

foresta offriva sono andati persi e le Filippine importano ora più prodotti forestali di quanti ne

vendano all‟estero.

Nel 1998 in Cina, dopo le terribili conseguenze di varie settimane di alluvione continua nel bacino

del fiume Yangtze, il governo notò che se la politica forestale viene esaminata non con gli occhi del

singolo taglialegna, ma attraverso quelli dell‟intera società, a livello economico non aveva alcun

senso continuare la deforestazione. Si dichiarò che la funzione di controllo delle inondazioni svolta

dagli alberi residui aveva valore triplo rispetto a quello del legname ottenuto dai tronchi tagliati.

Pechino diede così il via all‟inconsueta pratica di pagare i taglialegna perché diventassero piantatori

di alberi.

Anche altre nazioni che stanno disboscando grandi aree forestali si troveranno a fronteggiare gli

effetti ambientali della deforestazione, inondazioni comprese. Se la foresta amazzonica continuerà a

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216

ritirarsi, e dunque a inaridirsi, diventerà vulnerabile agli incendi. Se dovesse scomparire, verrebbe

sostituita principalmente da aree desertiche e da una macchia di vegetazione bassa e stentata.

Andrebbe perduta la capacità della foresta pluviale di riciclare l‟acqua nell‟entroterra del continente

e nelle aree agricole meridionali e occidentali. A questo punto, una calamità locale si trasformerebbe

in poco tempo in un disastro economico mondiale, e dato che l‟Amazzonia in fiamme rilascerebbe

nell‟atmosfera miliardi di tonnellate di CO2, anche in un disastro sotto il profilo climatico.

Come le preoccupazioni nazionali legate alla continua deforestazione hanno eclissato gli interessi

locali, così i problemi globali stanno cominciando a porre in secondo piano quelli nazionali. Dunque

non sono più in ballo solo i fenomeni alluvionali che si verificano localmente. La deforestazione è

fra le principali cause del surriscaldamento del pianeta, le conseguenze quindi sono lo scioglimento

dei ghiacciai, le ondate di calore responsabili della riduzione dei raccolti, l‟innalzamento dei livelli

del mare e tutti gli altri fenomeni connessi al cambiamento climatico a livello mondiale. Di fatto la

natura ha alzato la posta sulla protezione delle foreste.

Per raggiungere l‟obiettivo di un livello di deforestazione nullo sarà necessario ridurre la domanda

che ora deriva dalla crescita della popolazione, dall‟aumento del benessere, dalla crescente domanda

di biodiesel e dal rapido incremento dell‟utilizzo della carta e degli altri derivati del legno.

Proteggere le foreste del pianeta significa bloccare il prima possibile l‟aumento demografico. E per i

popoli ricchi della Terra, responsabili della crescente domanda di carne e di soia che è causa della

deforestazione del bacino amazzonico, significa scendere di livello nella catena alimentare

orientandosi verso una dieta con meno carne. Per porre termine alla deforestazione potrebbe essere

necessario il divieto di costruzione di nuove raffinerie di biodiesel e distillerie di etanolo.

Data l‟importanza delle foreste nella regolazione climatica, l‟Intergovernmental Panel on Climate

Change (IPCC) ha preso in esame la possibilità di piantare alberi e migliorare la gestione forestale

come strategia per contrastare l‟effetto serra. Gran parte dei vantaggi della riforestazione e della

creazione di foreste ex novo si possono meglio esprimere ai tropici poiché ogni albero messo a

dimora a quelle latitudini sottrae all‟atmosfera in media 50 chilogrammi di anidride carbonica

all‟anno per circa 20-50 anni, mentre un albero nelle regioni temperate si limita a 13 chilogrammi.

Assai variabili sono le stime sulla potenzialità della piantumazione arborea nel sequestro della CO2.

Analizzando i modelli globali, l‟IPCC sottolinea la estrema variabilità dei costi: in alcuni casi si

stima che la piantumazione di alberi e un miglioramento della gestione forestale potrebbero assorbire

ogni anno qualcosa come 2,7 miliardi di tonnellate di anidride carbonica entro il 2030 con una spesa

(carbon price) di meno di 367 dollari per tonnellata. In altri casi si ritiene che si possano ottenere

quasi due terzi di questa riduzione, all‟incirca 1,7 miliardi di tonnellate di CO2 all‟anno, con una

spesa pari alla metà di quella sopracitata. Il Piano B, che ha come termine ultimo il 2020, è una

media tra le due previsioni IPCC, con lo scopo di ottenere 860 milioni di tonnellate di CO2 assorbite

annualmente entro il 2020 a un costo inferiore ai 200 dollari per tonnellata di anidride carbonica.

Per raggiungere questo obiettivo sarebbe necessario piantare miliardi di alberi su milioni di ettari di

terreni degradati che hanno perso il manto forestale originale e su terreni agricoli marginali e pascoli

abbandonati. Raggiungere il tasso di assorbimento annuo di 860 milioni di tonnellate di CO2 entro il

2020 significherebbe investire 17 miliardi all‟anno perché si possa ottenere una spinta decisiva alla

stabilizzazione climatica.

Questo progetto di riforestazione globale dovrebbe essere finanziato dai paesi industrializzati, i

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principali responsabili delle emissioni. A confronto con altre strategie di mitigazione, piantare alberi

e fermare la deforestazione sono metodi relativamente economici e che si ripagano da soli di molte

volte. Si potrebbe istituire un organismo indipendente per amministrare e monitorare questa

iniziativa globale. Bisogna affrettarsi a stabilizzare il clima, per dare a questi alberi maggiori

possibilità di sopravvivenza.

Vi sono già molte iniziative di riforestazione in programma o in corso, ispirate da una gamma di

preoccupazioni che vanno dal cambiamento climatico all‟espansione dei deserti, dalla conservazione

del suolo alla vivibilità nei contesti urbani.

Il premio Nobel keniota Wangari Maathai, che anni fa organizzò un‟iniziativa tra le donne del suo

paese e di quelli confinanti per la messa a dimora di 30 milioni di alberi, ha ispirato la Billion Tree

Campaign, gestita dal Programma delle Nazioni Unite per l‟Ambiente (UNEP). L‟obiettivo iniziale

era quello di piantare un miliardo di alberi entro il 2007. Se di questi ne fosse sopravvissuta anche

solo la metà, si sarebbero assorbite 5,6 milioni di tonnellate di CO2 in un anno. Una volta raggiunto

questo obiettivo, l‟UNEP ne trovò un altro: quello di piantare 7 miliardi di alberi entro la fine del

2009, che equivale a piantare un albero per ogni persona sulla Terra. A luglio del 2009 era già stato

superato il numero di 6,2 miliardi dei 7 promessi, con 4,1 miliardi di alberi già messi a dimora.

Fra i più impegnati in questa iniziativa troviamo l‟Etiopia e la Turchia, ognuno con oltre 700 milioni

di alberi piantati. Il Messico è saldamente al terzo posto con qualcosa come 537 milioni di alberi. Il

Kenya, Cuba e l‟Indonesia hanno piantato ognuno più di 100 milioni di piantine.

Alla campagna hanno partecipato anche alcuni governi di stati federati. In Brasile, lo stato del

Paranà, che nel 2003 ha lanciato un‟iniziativa di piantumazione di 90 milioni di alberi per risanare le

proprie sponde fluviali, si è impegnato a piantare 20 milioni di alberi entro il 2007. Nell‟Uttar

Pradesh, lo stato più popoloso dell‟India, sono state mobilitate 600 mila persone per la messa a

dimora in un solo giorno del luglio del 2007 di 10,5 milioni di alberi su terreni agricoli, nelle foreste

di proprietà statale e sui terreni delle scuole.

Anche molte città stanno piantando alberi. Tokyo ad esempio sta mettendo a dimora alberi e arbusti

sui tetti degli edifici per raffrescare la città e controbilanciare l‟effetto provocato dalle isole di calore

urbano. Washington è nella fase iniziale di un‟ambiziosa campagna di ripristino delle zone d‟ombra

alberate.

Un‟analisi sull‟utilità della messa a dimora degli alberi nelle strade e nei parchi di cinque città degli

Stati Uniti, da Cheyenne (Wyoming) a Berkeley (California), ha concluso che, per ogni dollaro speso

nella piantumazione e manutenzione di un albero, si ottengono vantaggi per la comunità che

superano i due dollari. La chioma di un albero adulto in città ombreggia gli edifici e può abbassare la

temperatura dell‟aria fino a 5,5 °C e quindi contenere l‟energia necessaria agli impianti di

condizionamento. Nelle città con inverni rigidi come Cheyenne, la riduzione della velocità del vento

invernale, grazie agli alberi sempreverdi, abbassa i costi di riscaldamento. Il valore immobiliare degli

edifici che si affacciano su strade alberate è in genere più alto del 3-6% rispetto a quelli dove non ci

sono alberi.

Le attività di piantumazione arborea sono solo uno dei tanti modi per sequestrare quantità

significative di anidride carbonica. Anche le tecniche migliorate di gestione agro-pastorale che

incrementano il contenuto organico presente nel terreno, contribuiscono a catturare la CO2.

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8.3 Conservare e ricostituire il suolo

La letteratura sull‟erosione del suolo presenta in continuazione il riferimento alla “perdita di

vegetazione protettiva”. Negli ultimi cinquant‟anni anni l‟uomo, con il taglio indiscriminato, il

pascolo intensivo e l‟aratura eccessiva, ha eliminato tanta di quella vegetazione protettiva che il

pianeta sta velocemente perdendo il terreno accumulato durante il trascorrere delle ere geologiche.

Per evitare il degrado del suolo e la sua desertificazione occorre tutelare la produttività biologica dei

terreni agricoli altamente erodibili con coltivazioni erbose e arboree.

La Dust Bowl, l‟enorme tempesta di polvere che nel 1930 minacciò di trasformare le Grandi Pianure

americane in un immenso deserto, fu un‟esperienza traumatica che portò cambiamenti rivoluzionari

ai metodi adottati nelle tecniche colturali americane, tra le quali la messa a dimora di barriere arboree

frangivento (file di alberi piantati a fianco dei campi per rallentare il vento e l‟erosione del suolo) e

lo strip-cropping, l‟alternarsi di strisce coltivate a grano con strisce di terreno a maggese (strisce

arate, ma non coltivate, nelle quali si lascia crescere una vegetazione spontanea). Lo strip-cropping

consente all‟umidità di accumularsi nelle strisce a maggese, e l‟alternanza della coltivazione riduce

la velocità del vento e quindi l‟erosione sugli appezzamenti a riposo.

Nel 1985 il Congresso americano, appoggiato vigorosamente dalla comunità degli ambientalisti, ha

avviato il Conservation Reserve Program (CRP) per la riduzione dell‟erosione del suolo e il controllo

delle sovrapproduzioni alimentari. Nel 1990 circa 14 milioni di ettari di terreni altamente erodibili

risultavano coperti da vegetazione di tipo permanente ed erano garantiti da contratti decennali. In

base a questo programma, gli agricoltori erano pagati per seminare erba o alberi sui suoli sfruttati.

Tutto ciò, insieme all‟adozione di tecniche conservative sul 37% di tutti i terreni agricoli, ha ridotto

l‟erosione del suolo negli Usa da 3,1 a 1,9 miliardi di tonnellate tra il 1982 e il 1997. Questo

approccio offre un modello al resto del mondo.

Un altro metodo relativamente nuovo per la conservazione del suolo è la tecnica nota come

conservation tillage, che a sua volta si distingue in lavorazioni no-till e lavorazioni minimum tillage.

In pratica, invece di utilizzare i metodi tradizionali di aratura, rivoltando la terra per preparare il letto

di semina e quindi sradicando le erbe indesiderate con metodi meccanici, gli agricoltori

semplicemente inseriscono i semi forando il terreno ancora coperto dai residui del precedente

raccolto e tengono sotto controllo la vegetazione infestante con gli erbicidi.

L‟unico intervento nel suolo è il piccolo foro in superficie dove sono introdotti i semi, mentre il resto

del terreno rimane inalterato e protetto dai residui vegetali e perciò resistente all‟erosione sia

dell‟acqua che del vento. Questo metodo, oltre a prevenire l‟erosione del suolo, consente al terreno di

trattenere l‟acqua, ne aumenta i livelli di azoto e riduce i costi di aratura.

Nel corso degli anni Novanta, sempre negli Usa, per poter accedere ad alcune forme di incentivo,

agli agricoltori venne richiesto di adottare sistemi di conservazione del suolo del tipo no-till, sui

terreni soggetti a erosione. Da allora i terreni no-till sono passati dai 7 milioni di ettari del 1990 ai 27

milioni di ettari del 2007. Ampiamente impiegate nella coltivazione di mais e soia, le coltivazioni

no-till si sono diffuse rapidamente nell‟emisfero occidentale: sono stati censiti 26 milioni di ettari in

Brasile, 20 milioni in Argentina e 13 milioni in Canada. L‟Australia, con 12 milioni di ettari, si

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aggiudica il quinto posto nella classifica dei paesi no-till.

Una volta che gli agricoltori hanno acquisito questa tecnica, il suo uso si può diffondere rapidamente,

soprattutto laddove i governi garantiscono incentivi agganciati a progetti di tutela del suolo. Rapporti

recenti della FAO riportano la diffusione avvenuta negli ultimi anni della tecnica agricola no-till, in

Europa, Africa e Asia.

Una parte di queste pratiche agricole possono avere l‟ulteriore effetto benefico di aumentare i livelli

di azoto immagazzinato nel suolo sotto forma di materia organica. Di solito quando una pratica

colturale riduce l‟erosione del suolo e aumenta la resa dei raccolti, tende anche ad aumentare il

contenuto d‟azoto nel terreno. Fra queste pratiche vi sono il passaggio al minimum till e al no-till,

l‟uso più diffuso del sovescio, la restituzione al suolo di tutto il letame e di tutta la pollina,

l‟espansione delle aree irrigate, un ritorno all‟agricoltura che combina allevamento e coltivazione e la

conversione a bosco delle aree agricole marginali.

Esistono anche altri approcci per fermare l‟erosione del suolo e la desertificazione dei terreni

agricoli. Nel luglio 2005 il governo del Marocco, in reazione a una grave siccità, ha annunciato lo

stanziamento di 778 milioni di dollari per cancellare i debiti degli agricoltori e convertire le aree

coltivate a cereali in frutteti e oliveti, che sono colture meno vulnerabili.

L‟Africa subsahariana fronteggia una situazione analoga con il deserto che avanza verso sud su tutta

la fascia che va dalla Mauritania al Senegal, lungo la costa occidentale, per arrivare al Sudan sulla

costa orientale. C‟è preoccupazione per i crescenti fenomeni migratori causati dalla desertificazione.

L‟Unione Africana ha lanciato la “Green Wall Sahara Initiative”, un progetto che intende realizzare

una barriera boschiva sahariana. Proposta da Olusegun Obasanjo quando era presidente della

Nigeria, l‟iniziativa prevede che vengano piantati 300 milioni di alberi su 3 milioni di ettari di

territorio, lungo una fascia che si estende attraverso l‟Africa. Il Senegal, che sta perdendo ogni anno

50 mila ettari di terreni produttivi, dovrebbe rappresentare il punto di ancoraggio di questo fronte

verde sul confine occidentale.

Il ministro dell‟Ambiente senegalese Modou Fada Diagne ha dichiarato che: “Invece di aspettare che

il deserto ci raggiunga, dobbiamo attaccarlo”. Da quando questa iniziativa è stata inaugurata,

l‟obiettivo stesso si è ampliato fino a comprendere un miglioramento della gestione del territorio

grazie a pratiche quali la rotazione dei pascoli.

Anche la Cina sta realizzando una cintura boschiva per proteggere i terreni dall‟espansione del

deserto del Gobi. Questo muro verde, una versione moderna della Grande Muraglia, dovrebbe

estendersi per circa 4.480 chilometri, da Pechino fino alla Mongolia centrale. Inoltre la Cina

sovvenziona gli agricoltori delle province minacciate dall‟avanzare del deserto affinché piantino

alberi sui loro terreni agricoli. L‟obiettivo è ottenere zone alberate su 10 dei circa 100 milioni di

ettari di terreni oggi coltivati a cereali. Sfortunatamente le recenti pressioni per l‟aumento della

produzione di cibo pare abbiano rallentato questa operazioni.

Nella Mongolia centrale, gli sforzi per arrestare l‟avanzata del deserto e recuperare le terre a fini

produttivi sono affidati all‟impianto di arbusti per stabilizzare le dune di sabbia. In alcune situazioni

pecore e capre sono state bandite. Nella provincia di Helin, a sud del capoluogo di Honot, questa

tecnica ha ormai stabilizzato il suolo sui primi 7.000 ettari di appezzamenti recuperati e, sulla base di

questo successo, le iniziative di recupero sono aumentate.

Nella provincia di Helin la strategia è incentrata sulla sostituzione degli allevamenti di pecore e di

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capre con quelli di bovini da latte. Le mucche stanno in aree recintate, vengono nutrite con i residui

delle colture di mais e frumento e con un foraggio simile all‟erba medica che resiste alla siccità e che

viene coltivato per evitare la desertificazione del suolo. I funzionari locali stimano che questo

programma raddoppierà le entrate di questa provincia entro il decennio.

Per alleggerire la pressione sui pascoli, Pechino ha chiesto ai pastori di ridurre del 40% le dimensioni

dei greggi di pecore e di capre. Ma nelle comunità rurali, dove la ricchezza si misura in base al

numero dei capi di bestiame e laddove gran parte delle famiglie vive nell‟indigenza, questi tagli non

sono accettabili, a meno che non vengano offerte fonti di sostentamento alternative, come avviene

nella provincia di Helin.

L‟unica via percorribile per eliminare lo sfruttamento intensivo dei due quinti di superficie terrestre

classificata a pascolo è quella di ridimensionare greggi e mandrie. Non è pericoloso solo l‟eccessivo

numero di capi, soprattutto di pecore e di capre, anche gli zoccoli degli animali sono dannosi perché

polverizzano la crosta superficiale del terreno, che si forma grazie alle piogge e controlla

naturalmente l‟erosione del vento. In alcuni casi si preferisce allevare il bestiame in aree recintate,

portando loro il foraggio. L‟India, la cui fiorente industria lattiero-casearia ha adottato con successo

questo metodo, rappresenta un modello per gli altri paesi.

La protezione del suolo implica anche il divieto globale del taglio forestale a raso di tutti gli alberi di

una zona (clearcutting), che va sostituito con tagli selettivi: ogni attività di clearcutting comporta

gravi perdite di suolo per tutto il lungo tempo necessario alla ricrescita degli alberi e pertanto una

resa inferiore a ogni taglio successivo. Rigenerare le aree forestali e le zone a prato del pianeta,

insieme all‟applicazione delle metodiche di agricoltura conservativa, protegge il suolo dall‟erosione

riducendo il rischio di alluvioni e contemporaneamente assorbe anidride carbonica dall‟atmosfera.

Rattan Lal, un agronomo del Carbon Management and Sequestration Center dell‟Ohio State

University, ha calcolato gli spettri di assorbimento della CO2 di una serie di differenti pratiche

agricole. Ad esempio un uso diffuso a livello mondiale del sovescio per proteggere il suolo durante i

periodi di riposo, può stoccare dai 68 ai 338 milioni di tonnellate di carbonio all‟anno. Secondo le

stime in difetto, grazie a tutte queste pratiche si potrebbero assorbire 400 milioni di tonnellate di

carbonio all‟anno. Calcolando il sequestro totale per tutti i metodi citati, si ottiene un potenziale di

1,2 miliardi di tonnellate di CO2 assorbite annualmente. Secondo le nostre previsioni, probabilmente

prudenti, si stima che l‟adozione di queste tecniche agronomiche e di gestione territoriale

consentirebbe di assorbire 600 milioni di tonnellate di CO2.

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8.4 Ripristinare le riserve ittiche

Per decenni ogni paese ha cercato di salvare specifiche zone di pesca limitando la cattura di

determinate specie: talvolta queste regole hanno funzionato, altre volte hanno fallito portando al

collasso le riserve ittiche. Negli ultimi anni si sta diffondendo un sistema differente, quello della

creazione di parchi o riserve marine, dove la pesca è vietata e che svolgono la funzione di vivai

naturali che contribuiscono al ripopolamento dell‟area circostante.

Nel 2002, al Summit mondiale per lo sviluppo sostenibile a Johannesburg, le nazioni costiere si sono

impegnate a creare un sistema di riserve marine che arrivi a coprire il 10% delle acque oceaniche del

pianeta entro il 2012. Insieme queste aree formerebbero una rete mondiale di parchi marini.

I progressi sono lenti: nel 2006 si contavano 4.500 aree marine protette (Marine Protected Area,

MPA) per lo più di ridotte dimensioni, che coprivano 2,2 milioni di chilometri quadrati, equivalenti a

meno dell‟1% del totale degli oceani. Delle aree coperte dalle MAP, solo lo 0,01% rientrava in una

riserva marina dove la pesca era vietata. E un‟analisi condotta su 225 riserve marine indicava che

solo 12 di queste venivano regolarmente sorvegliate affinché il divieto fosse rispettato.

I biologi marini hanno scoperto che esistono punti “biologicamente caldi” (biological hotspots), sia

nell‟oceano che sulla terra ferma, nei quali si concentra una rara biodiversità di specie viventi. La

conservazione degli ecosistemi marini passa per l‟identificazione di queste zone e della conoscenza

dei presupposti che ne permettono l‟esistenza per istituirvi successivamente delle riserve marine.

Tra le imprese finora più ambiziose nel campo dell‟istituzione di parchi marini vale la pena di citarne

una negli Stati Uniti e un‟altra in Kiribati. Nel 2006 il Presidente degli Stati Uniti, George Bush, ha

istituito una riserva marina nel nord-ovest delle Hawaii su un‟area di 140 mila miglia quadrate

denominata il Papahanaumokuakea Marine National Monument, ed è più esteso della somma di tutti

i parchi statunitensi presenti a terra. Vi risiedono più di 7.000 specie marine, un quarto delle quali

sono presenti soltanto nell‟arcipelago hawaiano. Nel gennaio del 2009, negli ultimi giorni del suo

mandato, il Presidente Bush ha dichiarato monumenti nazionali altre tre regioni particolarmente

ricche in biodiversità e situate nelle vicinanze, portando il totale delle aree protette a 195 mila miglia

quadrate, con un‟estensione superiore allo stato di Washington e dell‟Oregon messi insieme. In

queste aree monumentali la pesca è sottoposta a vincoli e sono vietate le attività petrolifere e

minerarie.

All‟inizio del 2008 il Kiribati, una nazione su un‟isola di 98 mila abitanti situata nel Pacifico

meridionale, a metà strada fra le Hawaii e la Nuova Zelanda, ha istituito quella che al tempo, con una

superficie di circa 158 mila miglia quadrate, era la più grande area marina protetta del mondo.

Paragonabile alle dimensioni dello stato della California, questa riserva comprende otto atolli

corallini, due barriere coralline sommerse e una zona di riproduzione dei tonni.

Un gruppo di scienziati britannici, guidati da Andrew Balmford del Conservation Science Group

della Cambridge University, ha analizzato 83 riserve relativamente piccole e ben gestite, per valutare

i costi di esercizio di parchi marini su larga scala. La conclusione è che la gestione di aree marine

protette con una superficie pari al 30% degli oceani mondiali costerebbe circa 12-14 miliardi di

dollari l‟anno. Questa stima non tiene conto dei promettenti ritorni economici legati al ripristino delle

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riserve ittiche che ne ridurrebbero i costi effettivi.

Un‟opportunità economica connessa all‟istituzione di un sistema mondiale di riserve marine è il

possibile incremento della pesca oceanica fino a un valore stimato di circa 70-80 miliardi di dollari

all‟anno. Balmford ha dichiarato: “I nostri studi dimostrano che saremmo in grado di conservare i

mari e le loro risorse per sempre e a un costo minore di quello che affrontiamo oggi per incentivare il

loro sfruttamento non sostenibile”.

Callum Roberts, della University of York e coautore dello studio, ha commentato: “Abbiamo a

malapena iniziato a creare parchi marini. Qui, in Gran Bretagna, solo un cinquantesimo dell‟1% dei

nostri mari è protetto, e solo un cinquantesimo di quest‟area è chiuso alla pesca”. Il mare è ancora

devastato da metodi di pesca non sostenibili, dall‟inquinamento e dallo sfruttamento minerario.

L‟istituzione di una rete mondiale di riserve marine, una sorta di “Serengeti del Mare”, potrebbe

anche portare più di un milione di posti di lavoro. Roberts ha aggiunto che: “Vietare la pesca in

alcune zone è il sistema più efficace per permettere agli animali di vivere più a lungo, di aumentare

le proprie dimensioni e di moltiplicarsi”.

Nel 2001 Jane Lubchenco, già presidente dell‟American Association for the Advancement of

Science, e attualmente direttore del National Oceanic and Atmospheric Administration, ha

pubblicato una dichiarazione firmata da 161 ricercatori marini di primo piano che reclamava un

intervento urgente per istituire un network mondiale di parchi marittimi. Attingendo alle ricerche

sulle situazioni delle riserve marine, la Lubchenco affermava che: “Nel mondo ci sono realtà diverse,

ma il messaggio di base è lo stesso: i parchi marini funzionano e stanno dando velocemente dei

risultati. Non si discute più se sia opportuno creare riserve marine integrali, ma dove farle”.

I firmatari della dichiarazione sottolineano quanto sia rapido il miglioramento della vita degli

organismi marini dopo l‟apertura di una riserva. Un caso di studio relativo a una zona di pesca dello

snapper (un pesce oceanico della famiglia Lutianidi simile all‟orata, ndr), al largo della costa del

New England, ha evidenziato che i pescatori, nonostante si fossero violentemente opposti

all‟istituzione della riserva, ora la difendono avendo constatato che la popolazione locale di snapper

è aumentata di 40 volte.

Nell‟ambito di una ricerca nel Golfo del Maine, in tre riserve marine (per un totale di 17 mila

chilometri quadrati) sono stati proibiti tutti i metodi di pesca che mettono a rischio i pesci del

fondale. A sorpresa, il mollusco scallop (un bivalve della famiglia Pectinidi simile alla capasanta,

ndr) ha prosperato tanto che la sua popolazione è aumentata di 14 volte negli ultimi cinque anni.

Questi incrementi all‟interno delle riserve accrescono notevolmente la popolazione ittica al loro

esterno. Ben 161 ricercatori hanno osservato che dopo uno o due anni dall‟istituzione di un parco

marino, la densità della popolazione ittica aumenta del 91%, la taglia media dei pesci del 31% e la

varietà delle specie cresce del 20%.

Sebbene l‟istituzione di riserve marine sia evidentemente la priorità assoluta, si rendono necessarie

anche altre misure per proteggere gli ecosistemi marini. Una è quella di ridurre i flussi verso il mare

di sostanze provenienti da scarichi fognari e dal rapido deflusso di fertilizzanti, che sono responsabili

di circa 400 zone morte oceaniche (dead zones), veri e propri deserti degli abissi. Un‟altra misura

necessaria è quella di ridurre gli scarichi chimici di sostanze tossiche, metalli pesanti e interferenti

endocrini direttamente nel mare o indirettamente in atmosfera. Tutte queste sostanze si accumulano

nella catena alimentare degli oceani minacciando non solo i mammiferi marini predatori, come le

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foche, i delfini e le balene, ma anche i grandi pesci come il tonno e il pesce spada, oltre che

ovviamente gli umani che se ne nutrono.

Su una scala più vasta, l‟accumularsi di anidride carbonica nell‟atmosfera sta causando

l‟acidificazione degli oceani che potrebbe mettere in grave pericolo ogni forma di vita marina. Il

pericolo più imminente è quello che grava sulle barriere coralline, le cui strutture di carbonato di

calcio sono altamente vulnerabili al processo di acidificazione che è in corso e che si va aggravando

mano a mano che aumentano i livelli atmosferici di anidride carbonica. La protezione delle barriere

coralline, le cui acque poco profonde rappresentano indubbiamente dei punti di alta concentrazione

di biodiversità vegetale e animale, dipende dalla progressiva chiusura delle centrali elettriche a

carbone, operazione che permetterebbe di raggiungere anche tanti altri obiettivi di tutela ambientale.

In conclusione i governi dovrebbero abolire gli incentivi alla pesca. Una parziale conseguenza di tali

sussidi è l‟esistenza di talmente tanti pescherecci attrezzati per la pesca a strascico che il loro

potenziale predatorio è quasi il doppio di quello possibile in un quadro di pesca sostenibile.

Amministrare un sistema di parchi marini che gestisca il 30% delle aree del mare costerebbe in

pratica la metà di quanto si spende oggi in dannosi incentivi ai pescatori.

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8.5 Proteggere la diversità vegetale e animale

I due passaggi fondamentali da intraprendere per proteggere la straordinaria biodiversità del pianeta

consistono nella stabilizzazione della popolazione e del clima mondiali. Se arriveremo, come

previsto, a 9 miliardi di individui entro la metà del secolo, moltissime specie animali e vegetali

scompariranno dal pianeta semplicemente per mancanza di spazio. Se la temperatura dovesse

continuare a salire, ogni ecosistema terrestre subirà delle trasformazioni.

La tutela dell‟ampia biodiversità del pianeta è una delle ragioni per cui occorre stabilizzare la

popolazione umana intorno agli 8 miliardi entro il 2040. Aumentare la produttività dei terreni

agricoli è sempre più difficile e se la crescita demografica dovesse perdurare, arriveremo ad

abbattere le foreste tropicali dei bacini dell‟Amazzonia, del Congo e delle più lontane isole

dell‟Indonesia per far spazio all‟agricoltura.

Per proteggere le specie marine e d‟acqua dolce è fondamentale una migliore gestione delle risorse

idriche. Se i fiumi verranno prosciugati per soddisfare i crescenti bisogni irrigui delle colture e di

acqua per le città, i pesci e le altre specie acquatiche non potranno sopravvivere.

Il più noto e popolare sistema per tutelare piante e animali consiste nella realizzazione di riserve

naturali, e già milioni di chilometri quadrati (pari al 13% della superficie terrestre) sono stati

selezionati a questo scopo. Molti di questi parchi però, soprattutto nei paesi in via di sviluppo,

esistono soltanto sulla carta e per diventare realtà hanno bisogno di maggiori risorse.

Circa 20 anni fa Norman Myers, insieme ad altri scienziati, aveva concepito l‟idea dei cosiddetti

hotspots della biodiversità, quelle aree che essendo particolarmente ricche dal punto di vista

biologico meritano protezione speciale. I 34 hotspots allora identificati si estendevano sul 16% della

superficie terrestre, ma oggi ne coprono meno del 3%, soprattutto a causa della distruzione degli

habitat naturali. Sia i gruppi ambientalisti sia i governi condividono l‟importanza della protezione di

queste regioni biologicamente speciali.

Nel 1973 gli Stati Uniti si sono dotati dell‟Endangered Species Act, la legge per la tutela delle specie

in pericolo di estinzione. Questa normativa proibisce attività quali la deforestazione per attività

agricole, lo sviluppo edilizio e il prosciugamento di terreni paludosi quando rappresentino una

minaccia per le specie considerate in pericolo o in via d‟estinzione. Se non fosse stato per questa

legge molte specie sarebbero già scomparse, tra queste anche il bald eagle (l‟aquila dalla testa

bianca), il simbolo degli Stati Uniti d‟America.

Vi è un‟altra promettente scuola di pensiero che auspica l‟estensione della tutela delle specie anche

alle aree agricole, urbane, stradali e così via. Una tale iniziativa avrebbe fra i vari effetti benefici

quello di proteggere e rinforzare i corridoi per gli animali selvatici. I piani d‟azione sviluppati

dall‟U.S. Fish and Wildlife Service per la tutela degli animali selvatici nei diversi Stati dell‟Unione

potrebbero essere utilizzati come modello di riferimento.

L‟approccio tradizionale di recintare un‟area e chiamarla riserva naturale o parco non è più

sufficiente per proteggere la biodiversità: non esiste alcun ecosistema sul pianeta che siamo in grado

di tutelare se contemporaneamente non ci impegniamo a stabilizzare il clima e la crescita

demografica.

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8.6 Il budget per rigenerare la terra

Con l‟obiettivo di ottenere stime ragionevoli e senza la pretesa di fornire numeri precisi, siamo in

grado di calcolare il budget necessario alla rigenerazione del pianeta, effettuando una stima

approssimativa della spesa per la riforestazione, per la protezione del suolo, per il ripristino dei

pascoli e delle riserve ittiche, per la stabilizzazione della falda freatica e per la protezione della

biodiversità (vedi tabella 8.1). Nota 63.

Il calcolo del costo della riforestazione è reso più complicato dalla diversità degli approcci adottati. Il

successo straordinario ottenuto nella riforestazione della Corea del Sud si è basato quasi

completamente sul lavoro locale. Altre nazioni, compresa la Cina, hanno cercato di riforestare su

larga scala, ma in condizioni di maggiore aridità e con minore successo. Nel calcolo dei costi bisogna

concentrarsi sui paesi emergenti, poiché nelle nazioni industrializzate le aree boschive sono già in

espansione. Nelle nazioni in via di sviluppo, per soddisfare la richiesta di legna sono necessari

qualcosa come 55 milioni di ettari in più di foresta. La conservazione del suolo e il ripristino della

stabilità idrogeologica necessitano approssimativamente di altri 100 milioni di ettari situati in

migliaia di bacini idrografici dei paesi emergenti. Individuando alcune sovrapposizioni tra queste due

necessità, si ridurrebbero gli ettari necessari da 155 a 150 milioni. A ciò vanno aggiunti altri 30

milioni di ettari per la produzione di legname, carta e altri derivati forestali.

Presumibilmente le vere e proprie piantagioni potranno contribuire solo in piccola parte a fornire gli

alberi necessari. Molti altri alberi saranno piantati ai margini dei villaggi, lungo i bordi dei campi e

delle strade, su piccoli appezzamenti di terreni e sui fianchi spogli delle colline. Sarà necessario il

lavoro locale, in parte retribuito, in parte volontario, da svolgere principalmente nei periodi dell‟anno

meno impegnativi a livello agricolo. In Cina gli agricoltori che piantano alberi dove una volta

coltivavano cereali sono ripagati in grano (proveniente dalle riserve di stato) per un periodo di cinque

anni, durante i quali gli alberi attecchiscono.

Se le piantine da vivaio, come stima la Banca Mondiale, costano 40 dollari al migliaio e se in media

ne sono necessarie 2.000 per ettaro, il costo totale è di 80 dollari a ettaro. Il costo della manodopera

per la piantumazione degli alberi è elevato, ma poiché la maggior parte del lavoro potrebbe essere

svolto da volontari locali, possiamo presumere un totale di 400 dollari per ettaro, comprese le

piantine e la messa a dimora. Per il totale di 150 milioni di ettari da piantare nel prossimo decennio,

si possono calcolare circa 15 milioni di ettari l‟anno, a un costo di 400 dollari l‟uno, pari a una spesa

annuale di 6 miliardi di dollari.

E questo per quanto riguarda la protezione del suolo, la riduzione delle inondazioni e la fornitura di

legna da ardere, con conseguente sequestro di anidride carbonica. Ma dato che la stabilizzazione del

clima è essenziale, è utile conteggiare separatamente il costo di riforestazione ai fini del puro

stoccaggio di CO2. Così facendo si potrebbero rimboschire centinaia di milioni di ettari di territori

marginali nel corso dei prossimi dieci anni. Trattandosi di un‟iniziativa più strettamente

commerciale, mirata esclusivamente al ripristino di territori degradati e allo stoccaggio della CO2,

potrebbe rivelarsi più costosa. Utilizzando il prezzo stimato di 200 dollari per tonnellata di anidride

carbonica sequestrata, l‟intervento costerebbe 17 miliardi di dollari l‟anno.

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Conservare la superficie del suolo terrestre riducendo l‟erosione fino a portarla a un ritmo analogo a

quello della formazione di nuovo suolo comporta due attività principali. La prima è di mettere a

riposo i terreni altamente erodibili che non possono sostenere le coltivazioni: si stima che si tratta di

un decimo dei terreni agricoli del mondo, responsabili però di circa la metà di tutta l‟erosione. Per gli

Stati Uniti, questo ha significato mettere a riposo 14 milioni di ettari. Il costo dell‟inattività di queste

aree è di 125 dollari a ettaro per anno. In totale, i versamenti annuali agli agricoltori per piantare erba

e alberi su questi terreni, sotto forma di contratti decennali, si sono avvicinati ai due miliardi di

dollari.

Il secondo passo consiste nell‟adozione di metodi di conservazione sul resto del territorio che è

soggetto a erosione eccessiva, ovvero eccedente il ritmo naturale di formazione di nuovo suolo.

Significa incentivare gli agricoltori perché adottino metodi di conservazione quali la recinzione dei

terreni, la coltivazione a strisce alternate a maggese (strip-crossing) e le tecniche no-till e minimum

till. Queste spese per gli Stati Uniti ammontano a circa un miliardo di dollari l‟anno.

Estendendo queste valutazioni al resto del mondo, si può presumere che il 10% circa dei terreni

agricoli siano altamente erodibili e dovrebbero essere convertiti a pascolo o a foresta prima che lo

strato superficiale del suolo si disperda e si trasformi in terreno improduttivo.

Per gli Stati Uniti e la Cina – i principali produttori agricoli che insieme raccolgono più di un terzo

dei cereali prodotti nel mondo – l‟obiettivo ufficiale (del Piano B) è di mettere a riposo un decimo di

tutti i terreni agricoli.

In Europa l‟obiettivo potrebbe essere molto inferiore a questo 10%, mentre in Africa e nei paesi

andini dovrebbe essere molto più elevato. A livello mondiale convertire a prateria o a foresta il 10%

dei terreni agricoli altamente erodibili sembra un obiettivo ragionevole.

Poiché negli Stati Uniti, che detengono un ottavo di tutti i terreni agricoli mondiali, questa spesa

ammonta a circa due miliardi di dollari, la spesa globale totale dovrebbe essere di circa 16 miliardi di

dollari all‟anno.

Presumendo che la necessità di adottare metodi per la conservazione del suolo sia ovunque

paragonabile a quella degli Stati Uniti, dobbiamo ancora moltiplicare la spesa statunitense di un

miliardo annuo per otto, per un totale di 8 miliardi di dollari per l‟intero pianeta. Sommando le due

componenti,16 miliardi di dollari per la messa a riposo dei terreni e 8 miliardi per la conservazione

del suolo, arriviamo a una spesa mondiale annua di 24 miliardi di dollari.

Per i dati sul costo della protezione e rigenerazione dei pascoli diamo un‟occhiata al piano ONU

chiamato Plan of Action to Combat Desertification, che si concentra sulle regioni aride e che

comprende circa il 90% di tutti i pascoli. Si valuta una spesa di circa 183 miliardi di dollari su un

periodo ventennale, il che equivale a circa 9 miliardi di dollari l‟anno. I sistemi di rigenerazione

comprendono miglioramenti nella gestione dei pascoli, incentivi per eliminare la sovrapproduzione,

attività di rinverdimento grazie a periodi di riposo con divieto di pascolo.

È un‟impresa costosa, ma ogni dollaro investito nella rigenerazione delle aree a pascolo produce un

ritorno di 2,5 dollari grazie all‟aumento di produttività dell‟ecosistema del pascolo stesso. Da un

punto di vista sociale, i paesi con una popolazione principalmente dedita alla pastorizia, hanno le

aree da pascolo più deteriorate e sono invariabilmente tra i più poveri del mondo. Non prendere

provvedimenti contro il deterioramento porta non solo alla perdita di produttività del territorio, ma

anche alla scomparsa delle fonti di sostentamento e dunque genera milioni di rifugiati. E infine,

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anche se il dato non è qui quantificato, la rigenerazione dei territori vulnerabili porterà anche a

benefici legati al sequestro della CO2.

Il ripristino delle zone di pesca oceaniche è incentrato soprattutto sulla realizzazione di un sistema

mondiale di riserve marine, che coprirebbe circa il 30% della superficie oceanica. Utilizzando i

calcoli dettagliati della ricerca inglese già citata in questo capitolo, si ha una valutazione di spesa di

circa 13 miliardi l‟anno.

Per la protezione della fauna selvatica, il conto è un po‟ più alto. Il World Parks Congress valuta che

il deficit annuo negli stanziamenti necessari a gestire e a proteggere le aree esistenti destinate a parco

è di circa 25 miliardi di dollari l‟anno. Inoltre, sono necessarie aree supplementari, fra le quali quelle

che comprendono gli hotspots della biodiversità, che costerebbero forse altri 6 miliardi di dollari

l‟anno, per un totale complessivo di 31 miliardi di dollari.

Per stabilizzare le falde freatiche possiamo solo fare ipotesi. La chiave per tutelare le risorse idriche è

incrementarne la resa e per questo abbiamo l‟esperienza accumulata in circa mezzo secolo di crescita

sistematica della produttività dei terreni. Gli elementi necessari per valutare un modello delle risorse

idriche sono: la ricerca di metodologie e di tecniche di irrigazione più efficienti, la diffusione dei

risultati delle ricerche agli agricoltori e infine gli incentivi economici che li incoraggino ad adottare

tali tecnologie e pratiche irrigue.

Le aree agricole in cui applicare queste tecniche d‟irrigazione più efficienti sono molto più ridotte

rispetto alle zone dove sono adottabili sistemi di efficienza di produzione del terreno. Infatti, solo

circa un quinto dei terreni agricoli del mondo sono irrigati. Per la diffusione dei risultati delle

ricerche sull‟irrigazione oggi abbiamo a disposizione due opzioni. Una è lavorare attraverso i

consorzi agrari e le associazioni di categoria, che hanno anche la funzione di diffondere fra gli

agricoltori le informazioni su un ampio spettro di temi, compresa l‟irrigazione. L‟altra è lavorare

attraverso le associazioni degli utenti dei servizi idrici che si sono formate in molti paesi. Il

vantaggio dell‟ultima soluzione è che queste associazioni sono dedicate esclusivamente all‟uso

dell‟acqua.

Per gestire le risorse idriche sotterranee in maniera efficiente bisogna conoscere il quantitativo

d‟acqua che viene pompato e la velocità di ripristino degli acquiferi. In gran parte delle nazioni

questa informazione semplicemente non è disponibile: per avere questi dati bisognerebbe installare

contatori sulle pompe dei pozzi di irrigazione come è stato fatto in Giordania e in Messico.78

In alcuni paesi il capitale necessario a sovvenzionare un programma sulle risorse idriche può essere

reperito eliminando i sussidi che spesso incoraggiano lo spreco d‟acqua. Talvolta sono sussidi di tipo

energetico, come in India; altre volte forniscono acqua a un prezzo ben inferiore al costo reale, come

negli Stati Uniti. Eliminare questi incentivi avrà come effetto l‟aumento del prezzo dell‟acqua e di

conseguenza ne favorirà un utilizzo più efficiente. In termini di risorse economiche extra, tra

stanziamenti per la ricerca e incentivi agli agricoltori per diffondere l‟uso di tecnologie idriche più

efficienti, si suppone che sarà necessario un investimento di 10 miliardi di dollari all‟anno.79

In totale quindi rigenerare la Terra richiederà una spesa supplementare di 110 miliardi di dollari

l‟anno. Molti si chiederanno se il mondo possa affrontare questa spesa. Ma la sola domanda corretta

è se possa permettersi di non farlo.

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Fonte: vedi nota 63.

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9. NUTRIRE BENE OTTO MILIARDI DI PERSONE

Mentre ci prepariamo a nutrire una popolazione mondiale che raggiungerà gli 8 miliardi di persone

entro i prossimi vent‟anni, stiamo entrando in una nuova era alimentare. I primi segnali degli scenari

che si vanno delineando sono i prezzi record dei cereali, le restrizioni sulle esportazioni cerealicole

da parte dei paesi esportatori e l‟acquisizione all‟estero di vaste estensioni di terreno da parte delle

nazioni importatrici. E poiché alcuni fra i paesi ove i terreni vengono acquistati non hanno

abbastanza terra per nutrire adeguatamente la propria popolazione, vengono poste le basi per futuri

conflitti fra i cosiddetti “predoni delle terre” (land grabber) e le popolazioni locali ridotte alla fame.

Arabia Saudita, Corea del Sud e Cina, paesi afflitti da una crescente insicurezza alimentare, sono

anche le nazioni che stanno acquisendo più terreni all‟estero. I raccolti di frumento dell‟Arabia

Saudita si stanno riducendo di pari passo alla perdita di acqua per irrigazione dovuta

all‟impoverimento delle falde acquifere. La Corea del Sud è fortemente dipendente dalle

importazioni di mais per alimentare i propri allevamenti di bestiame e pollame, ma il suo principale

fornitore, gli Stati Uniti, usano il mais per sintetizzare combustibile per autotrazione piuttosto che

esportarlo. La Cina sta perdendo acqua per irrigazione a mano a mano che le sue falde acquifere si

prosciugano e i suoi ghiacciai scompaiono.

La crescente competizione per le terre oltre i confini nazionali è indirettamente una competizione per

l‟acqua. In effetti, le acquisizioni di terre sono anche acquisizioni di acqua. Se per esempio il Sudan

vende o affitta suoli ad altri paesi, l‟acqua per irrigarli proverrà molto probabilmente dal Nilo, e ciò

la sottrarrà all‟Egitto.

L‟attenzione si è giustamente focalizzata sull‟insicurezza petrolifera, ma l‟insicurezza alimentare è

una cosa diversa. Se esistono alternative al petrolio, non ce ne sono per il cibo.

Nell‟economia alimentare mondiale, così come avviene nell‟economia energetica, il raggiungimento

di un equilibrio accettabile fra domanda e offerta passa attraverso la riduzione della domanda e

l‟espansione dell‟offerta. Questo equilibrio si può ottenere con il passaggio verso famiglie meno

numerose, in modo da ridurre la popolazione futura. Per coloro che vivono nei paesi ricchi, significa

consumare meno proteine di origine animale. Per i paesi in una situazione di insicurezza petrolifera,

vuol dire individuare dei sostituti per il petrolio diversi dai combustibili derivanti da prodotti

alimentari.

Come osservato in precedenza, garantire le future forniture alimentari significa oggi andare oltre il

solo settore dell‟agricoltura. In questo pianeta sovrappopolato e in via di surriscaldamento, le

politiche riguardanti l‟energia, la demografia, l‟acqua, il clima e i trasporti hanno tutte un effetto

diretto sulla sicurezza alimentare. Detto ciò, ci sono molte cose che possono essere fatte per

incrementare la produttività dei suoli e dell‟acqua.

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9.1 Incrementare la produttività dei suoli

Negli ultimi due decenni, gli investimenti nel settore agricolo delle agenzie internazionali per lo

sviluppo sono stati fortemente rallentati. Alcuni fra i paesi in via di sviluppo più importanti come

Cina e Brasile si sono mossi per conto loro, ma molti altri ne hanno risentito.

Prima del 1950, l‟espansione delle forniture alimentari derivava quasi interamente dall‟aumento delle

superfici coltivabili. Dopo la Seconda guerra mondiale, non appena i confini nazionali vennero

superati dalla nascente globalizzazione e la crescita demografica prese ad accelerare, si registrò un

rapido aumento della produttività dei suoli. Fra il 1950 e il 2008 le rese sono quasi triplicate,

balzando da 1,1 a 3,2 tonnellate per ettaro. Fra il 1950 e il 1973 gli agricoltori hanno raddoppiato i

raccolti di cereali in quella che è stata una delle conquiste più spettacolari della storia dell‟agricoltura

mondiale. In altre parole, nell‟arco di questi 23 anni la crescita del raccolto cerealicolo ha eguagliato

quella dei precedenti 11 mila anni.

Dopo diversi decenni di rapida crescita, è oggi sempre più difficile incrementare la produttività dei

suoli. Dal 1950 al 1990 la produttività mondiale dei terreni destinati a cereali è aumentata del 2,1%

all‟anno, ma dal 1990 al 2008 l‟incremento annuale è stato solo dell‟1,3%.

Gli aumenti delle rese sono dovuti prevalentemente a tre fattori: il crescente uso di fertilizzanti, il

diffondersi dell‟irrigazione e lo sviluppo di varietà più produttive. Non appena gli agricoltori

provarono a superare i vincoli imposti dai nutrienti naturalmente presenti nei terreni colturali, l‟uso

di fertilizzanti balzò da 14 milioni di tonnellate nel 1950 a 175 milioni di tonnellate nel 2008. In

alcuni paesi, tra cui gli Stati Uniti, molte nazioni dell‟Europa occidentale e il Giappone l‟uso di

fertilizzanti si è stabilizzato. Ciò dovrebbe esser fatto anche in Cina e in India, in quanto ognuna

delle due attualmente utilizza più fertilizzanti degli Stati Uniti.

Per l‟irrigazione dei loro terreni gli agricoltori usano sia acque di superficie sia acque da falde

sotterranee. Le aree irrigate a livello mondiale sono aumentate da 94 milioni di ettari nel 1950 a 278

milioni nel 2000. Da allora sono cresciute molto poco. In futuro, ulteriori incrementi potranno

probabilmente essere ottenuti attraverso miglioramenti dell‟efficienza irrigua piuttosto che con

l‟espansione delle forniture di acqua.

Il terzo fattore dell‟incremento delle rese dei suoli è rappresentato dall‟adozione di varietà più

produttive. Alla fine del XIX secolo alcuni scienziati giapponesi riuscirono a rimpicciolire le piante

di frumento e di riso. Ciò ridusse la quota di glucosio prodotto dalla fotosintesi destinato alla paglia e

aumentò quella destinata al chicco, il che si tradusse spesso nel raddoppio dei raccolti.

Per quanto riguarda il mais, attualmente il cereale più coltivato a livello mondiale, i primi successi

vennero ottenuti grazie all‟ibridazione realizzata negli Stati Uniti. Attualmente, i raccolti di mais

sono ancora in aumento, grazie agli avanzamenti spettacolari consentiti dai mais ibridi e ai più

modesti risultati dovuti alle modificazioni genetiche.

Di recente, gli scienziati cinesi hanno sviluppato delle varietà ibride di riso commerciabili.

Nonostante abbiano incrementato i raccolti, i vantaggi sono stati trascurabili in confronto a quelli

ottenuti con il rimpicciolimento della pianta.

Vi sono chiari segnali di stabilizzazione dei raccolti presso i maggiori produttori che pure utilizzano

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tutte le tecnologie disponibili. Per quanto riguarda il frumento, sembra che una volta che siano state

raggiunte le 7 tonnellate di raccolto per ettaro sia quasi impossibile andare oltre. Ciò è confermato

dal livellamento dei raccolti di frumento su questo valore in Francia e in Egitto, rispettivamente i più

importanti produttori dell‟Europa e dell‟Africa.

Nell‟economia asiatica del riso, i maggiori raccolti si ottengono in Giappone, Cina e Corea del Sud.

Tutti e tre questi paesi hanno raggiunto le 4 tonnellate per ettaro, e superare le 5 tonnellate è difficile.

In Giappone si è arrivati alle 4 tonnellate per ettaro nel 1967, ma non si sono ancora raggiunte le 5

tonnellate. In Cina i raccolti di riso sembrano essersi livellati dopo aver raggiunto i valori giapponesi.

La Corea del Sud è stabile attorno alle 5 tonnellate.

Fra i tre cereali, il mais è l‟unico il cui raccolto continua ad aumentare nei paesi ad alta produzione.

Gli Stati Uniti, che forniscono il 40% dei raccolti mondiali di mais, si stanno avvicinando allo

stupefacente quantitativo di 10 tonnellate per ettaro. Anche se l‟uso dei fertilizzanti non è aumentato

dal 1980, i raccolti di mais continuano a essere in ascesa in seguito agli enormi investimenti

effettuati per migliorare la qualità dei semi. Lo stato dello Iowa, con i raccolti di mais fra i più

abbondanti del mondo, attualmente produce più cereali del Canada.

Nonostante gli enormi progressi registrati in passato, sta diventando sempre meno facile

incrementare la produzione alimentare mondiale. Ci sono sempre meno nuovi terreni produttivi da

porre a coltura, espandere le aree di irrigazione è sempre più difficile e i profitti derivanti

dall‟utilizzo di fertilizzanti in molti paesi stanno diminuendo.

Il raggiungimento di raccolti abbondanti è legato alla possibilità di avere un suolo che sia

abbondantemente umidificato, sia con le piogge, come nel caso delle coltivazioni di mais del

Midwest degli Stati Uniti e quelle di frumento dell‟Europa occidentale, sia con l‟irrigazione, come in

Egitto, Cina e Giappone. I paesi che hanno suoli cronicamente aridi come l‟Australia, gran parte

dell‟Africa e le grandi pianure del Nord America, non hanno realizzato incrementi significativi delle

rese cerealicole. I raccolti di mais degli Stati Uniti sono quasi quadruplicati rispetto a quelli di

frumento, in parte perché quest‟ultimo viene coltivato in condizioni di piogge scarse. I raccolti di

frumento in India attualmente sono quasi doppi di quelli australiani, e non perché gli agricoltori

indiani siano più bravi, ma perché dispongono di più acqua.

Alcuni paesi in via di sviluppo hanno incrementato notevolmente la produzione agricola. In India,

dopo le inondazioni provocate dai monsoni del 1965, che resero necessaria l‟importazione di un

quinto dei raccolti di grano dagli Stati Uniti per evitare la carestia, venne attuata un nuova strategia

agricola. Venne eliminato il prezzo massimo per i cereali destinati all‟alimentazione delle città e

vennero introdotti sussidi per i cereali, al fine di incoraggiare gli agricoltori a investire

nell‟incremento della produttività del suoli. La costruzione di stabilimenti per la sintesi di

fertilizzanti passò dal settore pubblico a quello privato, il che ne permise una realizzazione più

veloce. I frumenti ad alta produttività che erano stati sviluppati in Messico e già sperimentati in

India, furono introdotti grazie al trasporto navale. Questi sviluppi consentirono all‟India di

raddoppiare i propri raccolti di frumento nel giro di sette anni. Nessun paese era mai riuscito a

raddoppiare il raccolto di un alimento di base in un tempo così breve.

Una situazione simile si verificò in Malawi, un paese di 15 milioni di abitanti, dopo che la siccità del

2005 causò fame e morti per inedia. In risposta il governo emise dei buoni che garantivano ai piccoli

agricoltori 90 chilogrammi di fertilizzante a un prezzo fortemente ridotto e confezioni gratuite di

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semi di mais di qualità. Grazie a questa politica di sussidi, il cui costo ammontava a circa 70 milioni

di dollari all‟anno ed era in parte finanziata da donazioni estere, il raccolto di mais del Malawi quasi

raddoppiò nel giro di due anni, generando una situazione di sovrapproduzione. Per fortuna, i raccolti

in eccesso vennero esportati nel vicino Zimbabwe, che stava attraversando una grave carestia.

Alcuni anni prima, un‟iniziativa simile era stata intrapresa in Etiopia. Anch‟essa portò a un notevole

incremento della produzione. Ma poiché non vi era modo né di distribuire il raccolto alle aree più

remote né di esportare il surplus, si verificò un crollo dei prezzi che danneggiò gli agricoltori e

minacciò la sicurezza alimentare dell‟Etiopia. Questa esperienza evidenzia che la mancanza di

infrastrutture è un grave limite allo sviluppo agricolo di gran parte dell‟Africa: senza strade il

trasporto dei fertilizzanti agli agricoltori e dei loro prodotti ai mercati è molto difficoltoso.

Nei paesi più aridi dell‟Africa, come il Ciad, il Mali, la Mauritania e la Namibia, non piove

abbastanza per incrementare in modo significativo i raccolti. Con il miglioramento delle tecniche

agricole sarebbero possibili incrementi modesti, ma molti di questi paesi non hanno beneficiato della

rivoluzione verde per gli stessi motivi dell‟Australia: l‟aridità del suolo e i limiti conseguenti

nell‟utilizzo di fertilizzanti.

La riduzione progressiva della disponibilità di nuove tecniche agronomiche che possano

incrementare i raccolti è fenomeno che si sta verificando su scala globale e che segnala la necessità

di una rivoluzione concettuale per aumentare il rendimento delle colture. Un modo è quello di

impiegare varietà che tollerano meglio freddo e siccità. I coltivatori statunitensi di mais hanno

sviluppato varietà più resistenti alla siccità, rendendo possibile lo spostamento delle coltivazioni

verso ovest in Kansas, Nebraska e Sud Dakota. Per esempio il Kansas, un tempo leader nella

produzione di frumento, ora produce più mais che grano. Allo stesso modo, la produzione di mais si

sta spostando verso nord in Nord Dakota e in Minnesota.

Un altro sistema per incrementare la produttività dei suoli, laddove possibile, è quello di espandere le

aree che consentono di ottenere più di un raccolto all‟anno. In effetti, il triplicarsi dei raccolti

mondiali verificatosi fra il 1950 e il 2000 fu in parte ottenuto grazie ai raccolti multipli asiatici. Le

combinazioni più comuni sono quelle di frumento e mais nella Cina settentrionale, frumento e riso

nell‟India settentrionale e i doppi o tripli raccolti di riso nel sud della Cina e nell‟India meridionale.

La diffusione dei doppi raccolti di frumento invernale e di mais nelle pianure cinesi settentrionali ha

contribuito a far balzare la produzione della Cina al punto da renderla competitiva con quella degli

Stati Uniti. Il raccolto del frumento invernale e del mais arrivano ognuno a 5 tonnellate per ettaro.

Insieme, coltivati a rotazione, possono raggiungere le 10 tonnellate annuali per ettaro. Il doppio

raccolto di riso in Cina supera le 8 tonnellate per ettaro.

Circa quarant‟anni fa, la produzione di cereali nel nord dell‟India si limitava quasi esclusivamente al

frumento, ma con l‟introduzione delle varietà precoci e ad alto rendimento di frumento e riso, il

grano può essere raccolto in tempo per piantare il riso. Questa combinazione è attualmente molto

utilizzata in Punjab, nell‟Haryana e in alcune zone dell‟Uttar Pradesh. 3 tonnellate di frumento e 2 di

riso significano una produzione totale di 5 tonnellate per ettaro, e ciò contribuisce a sfamare 1,2

miliardi di indiani.

Nel Nord America e nell‟Europa occidentale, che in passato hanno ridotto le aree coltivate per tenere

sotto controllo la sovrapproduzione, esistono potenzialità non sfruttate per ottenere doppi raccolti.

Negli Stati Uniti nel 1996 si pose fine alla sospensione delle coltivazioni per limitare la produzione,

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aprendo nuove opportunità per i raccolti multipli. La più comune combinazione negli Stati Uniti è il

frumento invernale abbinato alla soia estiva. Poiché la soia fissa nel suolo l‟azoto atmosferico

rendendolo disponibile per l‟assorbimento radicolare, si ha l‟ulteriore vantaggio di una riduzione

della quantità di fertilizzanti impiegata per il frumento.

Se gli Stati Uniti investissero di più nello sviluppo di varietà a maturazione precoce e di tecniche di

coltivazione per facilitare i raccolti multipli, si potrebbe registrare un‟impennata nella produzione. Se

gli agricoltori cinesi possono raddoppiare il raccolto di frumento e mais, gli agricoltori statunitensi, a

latitudini e condizioni climatiche simili, potrebbero fare di più se la ricerca agronomica e le politiche

agrarie fossero riorientate a tale scopo. L‟Europa occidentale, con inverni miti e abbondanti raccolti

di frumento invernale, potrebbe anche raddoppiare le rese impiegando un cereale estivo come il mais

o coltivando semi oleosi. In Brasile e Argentina, dove durante le stagioni di coltivazione non si

verificano gelate, si effettuano comunemente raccolti multipli di frumento o mais e soia.

La coltivazione simultanea di cereali e leguminose arboree è un valido sistema per incrementare la

produttività dei suoli in Africa. In principio gli arbusti leguminosi crescono lentamente, permettendo

ai cereali di maturare e arrivare al raccolto; quando le leguminose si sono sviluppate, le foglie che

cadono forniscono al terreno azoto e materiale organico, ambedue estremamente necessari al suolo

africano. I tronchi (che possono superare i due metri di altezza) vengono quindi tagliati e impiegati

come combustibile. Questa semplice tecnologia, sviluppata dagli scienziati del Centre for Research

in Agroforestry di Nairobi e adattata a livello locale, ha consentito agli agricoltori di raddoppiare i

raccolti di cereali nel giro di pochi anni.

Un altro fattore spesso trascurato è l‟effetto della proprietà dei terreni sulla produttività. In Cina nel

marzo 2007 il National People‟s Congress ha approvato una legge che protegge i diritti di proprietà.

Gli agricoltori che avevano occupato le loro terre con concessioni della durata di 30 anni godono ora

di una maggiore protezione contro le confische da parte degli amministratori locali i quali, per anni,

hanno frazionato i terreni di circa 40 milioni di agricoltori, spesso per renderli edificabili. La certezza

della titolarità della proprietà terriera incoraggia gli agricoltori a investire e a migliorare i propri

terreni. Una ricerca del Rural Development Institute ha rilevato che gli agricoltori cinesi che

usufruivano di diritti formalizzati sulle loro terre erano due volte più inclini a fare investimenti a

lungo termine come l‟acquisto di serre, frutteti o vasche per pesci.

In sintesi, mentre la produzione di cereali è in caduta in alcune aree, sia per le dilaganti carestie

idriche sia per l‟aggravamento dell‟erosione dei suoli, la stragrande maggioranza dei paesi ha ancora

un sostanziale potenziale produttivo da realizzare. La sfida per ciascuna nazione è quella di elaborare

politiche agricole ed economiche al fine di attuare il proprio specifico potenziale. Paesi come l‟India

alla fine degli anni Sessanta o il Malawi negli anni più recenti esemplificano in quali modi è

possibile incrementare gli approvvigionamenti alimentari.

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234

9.2 Aumentare la produttività idrica

Per evitare che le carenze idriche compromettano la produzione alimentare, il mondo ha bisogno di

uno sforzo per accrescere la disponibilità di acqua simile a quello che nella seconda metà del XX

secolo fece triplicare la produttività dei suoli. Poiché sono necessarie 1.000 tonnellate di acqua per

produrre una tonnellata di cereali, non sorprende che il 70% dell‟acqua utilizzata nel mondo sia

destinata a usi irrigui. Di conseguenza, migliorare l‟efficienza dell‟irrigazione è un elemento centrale

nella più ampia problematica dell‟incremento della produttività idrica.

I dati riguardanti l‟efficienza dei progetti relativi alle acque di superficie, ovvero di dighe che

forniscono acqua agli agricoltori attraverso reti di canali, dimostrano che non si riesce mai ad

arrivare a una resa del 100% semplicemente perché una parte dell‟acqua evapora, un‟altra frazione

ritorna nelle falde e un‟altra ancora si disperde. Sandra Postel e Amy Vickers, analiste delle politiche

idriche, hanno rilevato che “l‟efficienza irrigua delle acque di superficie varia tra il 25 e il 40% in

India, Messico, Pakistan, Filippine e Tailandia; tra il 40 e il 45% in Malesia e Marocco e tra il 50 e il

60% in Israele, Giappone e Taiwan”.

L‟efficienza irrigua dipende dal tipo e dalle condizioni dei sistemi di irrigazione, oltre che dalle

caratteristiche del suolo, dalla temperatura e dall‟umidità. Nelle regioni calde e aride, l‟evaporazione

dell‟acqua è molto più rilevante che non in quelle più fredde e umide. In un congresso del maggio

2004, il ministro delle risorse idriche cinese Wang Shucheng illustrò i piani per incrementare

l‟efficienza irrigua dal 43% nel 2000 al 51% nel 2010, fino al 55% nel 2030. Il progetto

comprendeva l‟aumento del prezzo dell‟acqua, la fornitura di incentivi per l‟adozione di tecnologie

di irrigazione più efficienti e lo sviluppo di istituzioni locali per gestire questi passaggi. Secondo

Wang, il raggiungimento di questi obiettivi avrebbe assicurato la futura sicurezza alimentare in Cina.

Incrementare l‟efficienza dell‟irrigazione normalmente significa passare dai sistemi a inondazione, o

a solco, all‟irrigazione per aspersione, che imita la pioggia, o a gocciolamento, il sistema più

efficiente in assoluto. Il passaggio dai sistemi a inondazione o a solco a quelli con diffusori a bassa

pressione comporta una riduzione stimata del consumo di acqua del 30%, mentre il passaggio al

sistema a goccia dimezza i consumi di acqua.

I sistemi a goccia incrementano i raccolti perché forniscono acqua costantemente e azzerano quasi

del tutto l‟evaporazione; pur assicurando un‟alta efficienza idrica richiedono molta manodopera, e

sono quindi adatti ai paesi con abbondanti disponibilità di lavoro e scarsità d‟acqua. Alcune nazioni

poco estese come Cipro, Israele e la Giordania utilizzano in forma intensiva il sistema a

gocciolamento. Fra i tre più grandi produttori agricoli, questa tecnologia estremamente efficiente

viene utilizzata per l‟1-3% delle terre irrigate in India e Cina, per il 4% negli Stati Uniti.

Di recente, i sistemi a gocciolamento di piccole dimensioni, in pratica un secchio con un tubo

flessibile di plastica per distribuire l‟acqua, si sono diffusi per l‟irrigazione di piccoli orti con circa

un centinaio di piante (una superficie di circa 25 metri quadrati). Alcuni sistemi leggermente più

grandi irrigano fino a 125 metri quadrati. In entrambi i casi i serbatoi sono leggermente rialzati, in

modo che l‟acqua possa essere distribuita sfruttando la gravità. Si stanno diffondendo anche strutture

di grosse dimensioni che si avvalgono di tubature in plastica facilmente rimovibili. Questi sistemi si

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235

ammortizzano in genere entro un anno dall‟acquisto grazie alla riduzione dei consumi di acqua e

all‟incremento dei raccolti che determina un‟impennata negli introiti dei piccoli proprietari.

Sandra Postel sostiene che la combinazione di queste tecnologie consentirebbe di irrigare in modo

efficace 10 milioni di ettari di suolo indiano, quasi un decimo del totale. Lo stesso vale per la Cina,

che sta attualmente ampliando le aree irrigate con i sistemi a goccia per risparmiare la scarsa acqua

disponibile.

Nel Punjab, dove vengono effettuati doppi raccolti di frumento e riso, il rapido crollo dei livelli delle

falde freatiche registrato nel 2007 ha indotto la State Farmers‟ Commission (Commissione agricola

statale) a raccomandare il rinvio della semina del riso dal mese di maggio a fine giugno o anche ai

primi di luglio. Ciò dovrebbe ridurre il consumo di acqua per l‟irrigazione di circa un terzo, poiché la

semina coinciderebbe con l‟arrivo del monsone. Questa riduzione nell‟utilizzo dell‟acqua sotterranea

dovrebbe contribuire alla stabilizzazione delle falde, che in alcune zone dello stato sono scese da 5

metri sotto la superficie a 30 metri di profondità.

I cambiamenti istituzionali, in particolare il trasferimento della responsabilità della gestione dei

sistemi di irrigazione dalle agenzie governative alle associazioni locali degli utenti, possono facilitare

un uso dell‟acqua più efficiente. In molti paesi gli agricoltori si stanno organizzando a livello locale

per assumersi questa responsabilità e, poiché hanno un interesse economico nella miglior gestione

possibile dell‟acqua, tendono a svolgere i loro compiti meglio di quanto possano fare le distanti

istituzioni governative.

Il Messico è all‟avanguardia nello sviluppo di associazioni di utenti di servizi idrici. Nel 2008, le

associazioni di agricoltori gestivano più del 99% delle aree irrigate nelle zone a gestione pubblica.

Un vantaggio che questo cambiamento ha comportato per lo stato è la riduzione dei costi della

manutenzione dei sistemi di irrigazione, che sono sostenuti localmente, alleviando così il peso per

l‟erario. Ciò significa che le associazioni devono spesso spendere di più per l‟irrigazione; tuttavia, gli

incrementi nei raccolti derivanti dalla gestione diretta delle forniture idriche sono sufficienti a

compensare i maggiori esborsi.

In Tunisia, dove le associazioni di utenti gestiscono sia l‟acqua per l‟irrigazione sia quella per gli usi

residenziali, il loro numero è aumentato da 340 nel 1987 a 2.575 nel 1999, coprendo gran parte del

paese. Nel 2009, in Cina erano presenti più di 40 mila associazioni di utenti che gestiscono le risorse

idriche locali e ottimizzano l‟efficienza dell‟uso dell‟acqua. In molti altri paesi le risorse idriche sono

attualmente gestite in modo simile. Sebbene i primi gruppi furono costituiti per gestire i grossi

sistemi di irrigazione sviluppati dalle pubbliche amministrazioni, recentemente ne sono stati costituiti

alcuni per la gestione dell‟irrigazione di falde freatiche locali. Il loro obiettivo è stabilizzarne i livelli

per evitare il prosciugamento degli acquiferi e le conseguenze economiche che ciò avrebbe sulla

comunità.

Una scarsa produttività idrica è spesso conseguenza di tariffe troppo basse. In molti paesi i sussidi

portano a tariffe troppo basse che creano la percezione di un‟abbondanza di risorse idriche, che

invece scarseggiano. Se l‟acqua è scarsa, le tariffe devono salire di conseguenza. È necessario un

nuovo modo di pensare ai consumi idrici. Per esempio orientarsi verso colture che richiedono meno

acqua, laddove possibile, incrementa fortemente la produttività idrica. La produzione di riso nella

zona di Pechino è calata a causa della grande quantità d‟acqua di cui il riso ha bisogno. L‟Egitto ha

ugualmente ridotto la produzione del riso in favore del frumento.

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236

Qualunque misura incrementi i raccolti sulle terre irrigate incrementa anche la produttività

dell‟acqua. Spostare verso il basso la catena alimentare delle popolazioni che consumano quantità

insane di prodotti di origine animale contribuisce a ridurre i consumi di acqua. Negli Stati Uniti,

dove il consumo annuale di cereali per alimentazione e allevamento è in media di 800 chilogrammi a

persona, una riduzione dei consumi di carne, latte e uova potrebbe ridurre il consumo individuale di

cereali di 100 chilogrammi. Moltiplicando questa riduzione per 300 milioni di americani, si

otterrebbe un taglio dei consumi cerealicoli di 30 milioni di tonnellate e un taglio dei consumi di

acqua per irrigazione di 30 miliardi di tonnellate.

La riduzione mondiale del consumo idrico a livelli sostenibili, rispetto alle risorse delle falde

acquifere e dei fiumi, è da attuarsi mediante molteplici misure che riguardano non solo l‟agricoltura,

ma tutta l‟economia. I passi più ovvi, oltre a sistemi di irrigazione più efficienti e a coltivazioni più

razionali, comprendono l‟adozione di processi industriali che ottimizzano i consumi idrici e che

riducono i consumi domestici. Il riciclaggio delle acque urbane, è un sistema ragionevole che può

essere valutato nei paesi che si trovano ad affrontare criticità idriche.

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237

9.3 Produrre proteine in modo più efficiente

Un altro modo per aumentare la produttività, sia quella della terra sia quella idrica, consiste nel

produrre proteine animali in modo più efficiente. Se circa il 36% (750 milioni di tonnellate) dei

raccolti mondiali di cereali è destinato all‟allevamento per la produzione di proteine animali, anche

un piccolo incremento di efficienza può consentirne di risparmiare grandi quantità.

Il consumo mondiale di carne è cresciuto da 44 milioni di tonnellate nel 1950 a 260 milioni nel 2007,

con un incremento del consumo procapite da 17 chilogrammi a 39. Anche i consumi di uova e latte

sono cresciuti. In ogni società nella quale si è registrato un aumento di reddito si è avuto un

incremento del consumo di carne, anche in risposta a un gusto che si è evoluto in 4 milioni di anni di

storia delle popolazioni di cacciatori-raccoglitori.

Considerando che la pesca oceanica e la produzione di bovini da pascolo si sono ormai stabilizzate,

si è verificato un passaggio alla produzione di proteine animali basata sui cereali al fine di

incrementarne la resa. Nel mercato della carne, le preoccupazioni per la salute e le differenze di

prezzo stanno inducendo i consumatori a preferire alla carne bovina e suina il pollame e il pesce,

carni che provengono da animali che convertono i cereali in proteine in modo più efficiente.

L‟efficienza con cui le varie specie convertono i cereali in proteine è assai variabile. Un bovino di

allevamento necessita di circa 7 chilogrammi di cereali per ottenere un chilogrammo di aumento di

peso. Per i suini il valore è di poco superiore a 3 chilogrammi di cereali per un chilogrammo di

aumento di peso, per il pollame è poco più di 2 chilogrammi e per le specie erbivore di pesci di

allevamento (come le carpe, il pesce gatto e i pesci di acqua dolce) è inferiore a 2 chilogrammi. I

cambiamenti del mercato spingono verso l‟incremento delle produzioni che richiedono minor

dispendio di cereali, aumentando la produttività della terra e dell‟acqua.

La produzione globale di carne bovina, gran parte della quale proviene dai pascoli, è cresciuta di

meno dell‟1% annuo dal 1990 al 2007. La crescita del numero di allevamenti di bovini è stata

minima. La produzione di carne suina è cresciuta del 2% all‟anno e il pollame di quasi il 5%.

La produzione mondiale di carne suina, metà della quale attualmente proviene dalla Cina, ha

sorpassato la produzione di carne bovina nel 1979 e da allora ha continuato ad aumentare il proprio

vantaggio. La crescita della produzione di pollame è passata da 41 milioni di tonnellate nel 1990 a 88

milioni di tonnellate nel 2007, sopravanzando la produzione bovina nel 1995 e attestandosi in

seconda posizione dietro la carne suina.

Anche gli allevamenti di pesce, che sono in rapida espansione e sono estremamente efficienti nel

convertire i cereali in proteine, potrebbero superare la produzione bovina nei prossimi anni.

L‟acquacoltura è stata infatti la fonte di proteine animali sviluppatasi più rapidamente dal 1990,

soprattutto perché i pesci erbivori convertono il cibo in proteine in modo molto efficiente. La

produzione dell‟acquacoltura è passata da 13 milioni di tonnellate nel 1990 a 50 milioni di tonnellate

nel 2007, con una crescita di più dell‟8% annuo.

L‟attenzione del pubblico si è focalizzata sugli stabilimenti di acquacoltura inefficienti o distruttivi

dal punto di vista ambientale, come gli allevamenti di salmone, una specie carnivora, e dei gamberi.

Questi allevamenti producono poco più del 10% del pesce allevato globalmente. Gli allevamenti di

salmoni sono inefficienti perché vengono alimentati con mangime di origine ittica, proveniente in

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238

genere dagli scarti della lavorazione del pesce, o con pesci di scarso valore pescati appositamente.

Gli allevamenti di gamberi spesso comportano la distruzione delle foreste di mangrovie costiere per

creare delle aree dedicate. L‟allevamento di salmoni e di gamberi in vasche in mare aperto, creano

concentrazioni di scarti che contribuiscono alla formazione di zone morte e all‟eutrofizzazione.

A livello mondiale, nell‟acquacoltura prevalgono le specie erbivore, soprattutto le carpe in Cina e

India, ma anche il pesce gatto negli Stati Uniti e pesci d‟acqua dolce in diversi paesi. A queste specie

si affiancano poi i crostacei. Questi allevamenti hanno le maggiori potenzialità di sviluppo della

produzione di proteine animali. La Cina produce il 62% delle forniture globali di pesce di

allevamento. Il settore dell‟acquacoltura è dominato dai pesci d‟acqua dolce (soprattutto carpe) che

vengono allevati in vasche di acqua dolce, laghi, riserve e risaie, e dai crostacei (soprattutto ostriche,

cozze e vongole), che vengono prodotti soprattutto nelle zone costiere.

La Cina ha sviluppato policolture ittiche che utilizzano quattro tipi di carpa in grado di alimentarsi a

livelli diversi della catena alimentare, emulando così gli ecosistemi acquatici naturali. La carpa

argentata e quella a testa grossa si nutrono di microrganismi sospesi nell‟acqua, rispettivamente di

fitoplancton e zooplancton. La carpa erbivora, come dice il nome stesso, si ciba soprattutto di alghe e

piante sommerse, mentre la carpa comune si nutre di sostanze finali, ovvero i detriti. Queste quattro

specie costituiscono quindi un piccolo ecosistema, ognuna collocandosi in una nicchia particolare.

Questo allevamento multispecie, che converte il cibo in proteine di alta qualità con notevole

efficienza, ha permesso alla Cina di produrre circa 14 milioni di tonnellate di carpe nel 2007.

Sebbene la produzione di pollame sia cresciuta rapidamente in Cina e in altri paesi in via di sviluppo,

è stata messa in ombra dalla crescita fenomenale dell‟acquacoltura. Quella cinese è di 31 milioni di

tonnellate, doppia rispetto a quella del pollame, e ciò fa della Cina il primo fra i grandi paesi in cui

l‟allevamento di pesci ha superato quello del pollame.

L‟acquacoltura in Cina è spesso integrata con l‟agricoltura per dare agli agricoltori la possibilità di

utilizzare i detriti agricoli, letami dei maiali e delle oche, per fertilizzare le vasche, favorendo così la

crescita del plancton che serve come alimento ai pesci. La policoltura dei pesci, che comunemente

incrementa di almeno il 50% la produttività rispetto ai vivai monocolturali, è largamente diffusa sia

in Cina sia in India.

Via via che i redditi aumentano in Asia, altri paesi nel continente si dedicano all‟acquacoltura. Fra

questi vi sono la Thailandia e il Vietnam. Quest‟ultimo, ad esempio, nel 2001 ha elaborato un

progetto per destinare all‟acquacoltura 700 mila ettari di terra del delta del Mekong, dove

attualmente già si producono più di un milione di tonnellate di pesce e gamberi.

Negli Stati Uniti il pesce gatto è il prodotto più importante dell‟acquacoltura con 272 mila tonnellate

annue (circa 907 grammi a persona) concentrate negli allevamenti del sud. Il Mississippi, che ne

produce metà del totale, è la capitale mondiale del pesce gatto.

Quando cerchiamo proteine di alta qualità, pensiamo alla soia in forma di tofu, hamburger vegetali o

altri sostituti della carne. Tuttavia, la maggior parte dei raccolti mondiali di soia a rapida crescita

viene consumata indirettamente attraverso il manzo, il maiale, il pollame, il latte, le uova e il pesce di

allevamento di cui ci nutriamo. Anche se in modo non visibile nella nostra dieta, l‟inserimento della

soia nei mangimi ha infatti rivoluzionato l‟industria alimentare mondiale. Nel 2008 gli agricoltori

hanno prodotto complessivamente 213 milioni di tonnellate di soia, una ogni 10 tonnellate di cereali

prodotti. Di queste, circa 20 milioni venivano consumate direttamente in forma di tofu o di sostituti

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239

della carne. Dei restanti 193 milioni, dopo averne salvati una piccola parte per la semina, la gran

parte sono stati macinati per ottenere 36 milioni di tonnellate di olio di soia, separandolo dalla farina

ad alto valore proteico.

I circa 150 milioni di tonnellate di farina di soia che rimangono dopo l‟estrazione dell‟olio vengono

utilizzati come mangime per mucche, maiali, polli e pesci. La combinazione di farina di soia e farina

di cereali, con circa una parte di farina di soia su quattro di cereali, aumenta considerevolmente

l‟efficienza della trasformazione dei cereali in proteine animali, a volte quasi raddoppiandola. I tre

maggiori produttori mondiali di carne, Cina, Stati Uniti e Brasile, attualmente utilizzano in modo

massiccio la farina di soia come integratore proteico dei mangimi.

L‟uso massiccio di farina di soia per migliorare l‟efficienza dei mangimi contribuisce a spiegare

perché la quota mondiale di cereali utilizzata come mangime non sia cresciuta negli ultimi 20 anni,

nonostante l‟impennata della produzione di carne, latte, uova e pesce da allevamento. Spiega anche

perché la produzione mondiale di soia sia aumentata di circa 13 volte dal 1950.

Le crescenti pressioni sulle risorse terrestri e acquatiche hanno condotto all‟evoluzione di

promettenti sistemi di produzione di proteine animali che si avvalgono di foraggio grezzo piuttosto

che di cereali. Un esempio in questo senso è la produzione di latte in India che dal 1970 si è

quintuplicata, da 21 milioni di tonnellate a 106. Nel 1997 l‟India ha sorpassato gli Stati Uniti

diventando il maggior produttore mondiale di latte e di altri prodotti caseari.

La scintilla di questa crescita esplosiva si accese nel 1965, quando un intraprendente giovane

indiano, Verghese Kurien, organizzò il National Dairy Development Board (Comitato nazionale per

lo sviluppo caseario), un‟organizzazione di supporto alle cooperative casearie. Lo scopo principale di

queste cooperative era la vendita del latte proveniente da mandrie minuscole, composte in media da

due o tre mucche, e la creazione di un collegamento fra il mercato in crescita dei prodotti caseari e i

milioni di famiglie che abitavano nei villaggi e che disponevano di piccoli surplus da vendere.

La creazione del mercato del latte ne spronò la produzione fino a quintuplicarla. In un paese in cui la

carenza di proteine compromette drammaticamente la crescita infantile, incrementare la fornitura del

latte da meno di mezza tazza al giorno a persona di 30 anni fa alla attuale tazza giornaliera

rappresenta un grosso avanzamento.

Ciò che è straordinario è che l‟India ha costruito la più grande industria casearia del mondo quasi

interamente sul foraggio grezzo: paglia di grano, paglia di riso, steli di cereali, erba raccolta sui cigli

delle strade. Anche così, il valore del latte prodotto ogni anno supera attualmente quello del raccolto

di riso.

Un secondo modello di produzione di proteine, anch‟esso basato sui ruminanti e il foraggio grezzo,

si è sviluppato in quattro province della Cina orientale (Hebei, Shangdong, Henan e Anhui), nelle

quali il doppio raccolto invernale di grano e mais è abituale. Anche se la paglia residuata dal

frumento e gli steli dei cereali sono spesso usati come combustibile per cucinare, gli abitanti dei

villaggi stanno cercando di ricorrere ad altre fonti di energia al fine di preservare la paglia e gli steli

per nutrire le mucche.

Queste quattro province cinesi, soprannominate la “cintura della carne” dai funzionari statali,

utilizzano i residui dei raccolti per produrre molta più carne di quanto avviene dalle province del

nord-ovest ricche di pascoli. L‟impiego dei residui dei raccolti per produrre latte in India e carne in

Cina permette agli agricoltori di effettuare una doppia mietitura da un unico raccolto, innalzando così

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la produttività sia della terra sia dell‟acqua. Sistemi simili potrebbero essere adottati anche in altri

paesi, specie laddove la pressione demografica si va intensificando (con il conseguente aumento

nella richiesta di carne e latte) e dove gli agricoltori cercano nuovi modi di convertire i prodotti

vegetali in proteine animali.

Il mondo ha disperatamente bisogno di tecniche come quelle appena descritte per produrre proteine

in forma più efficiente. I consumi di carne stanno crescendo del doppio rispetto alla crescita della

popolazione, quelli di uova quasi del triplo e la domanda di pesce, sia dagli oceano sia dagli

allevamenti, sta anch‟essa sopravanzando la crescita demografica.

Mentre il mondo ha avuto a disposizione parecchi decenni per capire come alimentare 70 milioni di

persone in più ogni anno, non è in grado di affrontare i circa 5 miliardi di persone che lottano per

consumare più proteine. Per farsi un‟idea di ciò che significa, considerate quello che è successo in

Cina, dove una crescita economica record ha in effetti accelerato la storia, dimostrando come la dieta

cambia quando i redditi crescono rapidamente. Nel 1978, il consumo di carne in Cina consisteva per

la gran parte di ridotte quantità di maiale. Da allora, il consumo di carne, ossia maiale, manzo,

pollame e montone è aumentato notevolmente, spingendo i consumi totali di carne della Cina a livelli

di gran lunga superiori a quelli degli Stati Uniti.

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241

9.4 La localizzazione dell’agricoltura

Negli Stati Uniti si assiste a un crescente interesse per il cibo locale, in risposta alle crescenti

preoccupazioni per gli effetti sul clima causati dal consumo di alimenti provenienti da luoghi distanti

e per i problemi di obesità e di salute associati a una dieta basata su cibo spazzatura. Ciò si riflette

nella nascita di orti urbani, corsi di orticoltura e mercati dei contadini.

Il movimento in favore degli alimenti locali è in rapida espansione e sta modificando le diete, che

sono sempre più basate su alimenti stagionali e locali. In un tipico supermercato è spesso difficile

capire quale sia la stagione in corso, dato che qualunque prodotto è disponibile per tutto l‟anno. Con

l‟aumento del prezzo del petrolio, ciò avverrà sempre più di rado: la riduzione dell‟uso del petrolio

per il trasporto dei generi alimentari a lunga distanza, per via aerea, su gomma o per nave, finirà

infatti per rilocalizare l‟economia alimentare. Questa tendenza alla localizzazione trova conferma

nell‟incremento del numero di piccole fattorie verificatosi di recente negli Stati Uniti, che costituisce

un‟inversione di tendenza rispetto alla concentrazione delle attività colturali tipica dello scorso

secolo. Fra il censimento agricolo del 2002 e quello del 2007, il numero di fattorie negli Stati Uniti è

aumentato del 4% raggiungendo circa 2,2 milioni. Le nuove fattorie sono per la maggior parte di

piccole dimensioni e gestite da donne, la cui presenza in agricoltura è balzata da 238 mila nel 2002 a

306 mila nel 2007, con un aumento di quasi il 30%.

Molte delle nuove fattorie riforniscono i mercati locali. Alcune producono frutta fresca e ortaggi

esclusivamente per i mercati contadini (farmer‟s market) o per la vendita diretta. Altre hanno

produzioni specializzate, come gli allevamenti di capre che producono latte, formaggio e carne,

oppure si orientano alla floricoltura o alla produzione di legna per camini. Altre sono specializzate in

alimenti biologici. Il numero di fattorie che producono alimenti biologici negli Stati Uniti è schizzato

da 12 mila nel 2002 a 18.200 nel 2007, con un incremento del 50% in cinque anni.

L‟orticoltura ha avuto un grosso impulso nella primavera del 2009, quando la first lady Michelle

Obama, insieme ai bambini di una scuola locale, trasformò in orto una parte del prato della Casa

Bianca. Già in passato era successa una cosa simile. Durante la Seconda guerra mondiale Eleanor

Roosevelt piantò un victory garden (orto della vittoria) alla Casa Bianca. La sua iniziativa incoraggiò

la creazione di milioni di victory garden, che riuscirono a fornire il 40% dei prodotti freschi della

nazione.

Sebbene in quegli anni fosse molto più facile espandere gli orti privati, dato che gli Stati Uniti erano

una società in gran parte rurale, vi è ancor‟oggi un enorme potenziale per la diffusione

dell‟orticoltura, dal momento che i prati erbosi che circondano le residenze americane occupano più

di 7 milioni di ettari. Convertirne anche una piccola parte coltivando ortaggi e alberi da frutta

potrebbe contribuire a migliorare l‟alimentazione.

Molte città e cittadine degli Stati Uniti e dell‟Inghilterra stanno creando orti collettivi che possono

essere utilizzati da coloro che diversamente non avrebbero la possibilità di coltivarne uno. Fornire

spazi per gli orti collettivi è considerato da molte amministrazioni locali un servizio essenziale, al

pari degli spazi di gioco per i bambini, dei campi da tennis e degli altri impianti sportivi.

Molti mercati locali stanno aprendo le proprie porte ai prodotti locali. Forse i più conosciuti sono i

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mercati contadini, nei quali gli agricoltori portano i loro prodotti. Negli Stati Uniti, il numero dei

mercati di questo tipo è aumentato da 1.755 nel 1994 a più di 4.700 a metà del 2009, quasi

triplicandosi in 15 anni. I mercati contadini ristabiliscono quei legami personali fra produttori e

consumatori che non esistono all‟interno degli impersonali confini del supermercato.

Negli orti scolastici, i bambini apprendono come viene prodotto il cibo, un sapere che spesso è

carente nei contesti urbani, e possono gustare per la prima volta verdura e frutta fresche. Gli orti

scolastici forniscono anche cibo sano per le mense scolastiche. La California, leader in questo

settore, ha già 6.000 orti scolastici.

Molte scuole e università considerano prioritario l‟acquisto di prodotti locali, sia perché sono più

freschi, gustosi e nutrienti sia perché questa scelta è coerente con i piani di studio nei settori

dell‟ecologia che sono sempre più diffusi. Alcune università fanno il compost dai rifiuti alimentari

delle caffetterie e delle mense rendendolo disponibile ai contadini che forniscono loro prodotti

freschi. I supermercati stanno stringendo rapporti sempre più stretti con gli agricoltori del luogo. I

ristoranti alla moda inseriscono nei loro menu prodotti di provenienza locale. Alcuni supermercati si

stanno specializzando nei prodotti locali, e vendono frutta e verdura, carne, formaggio, uova e altri

prodotti agricoli.

Trasportare alimenti da luoghi distanti fa aumentare le emissioni di anidride carbonica e comporta

una perdita di sapore e nutrienti. Una ricerca sul cibo consumato nello Iowa evidenziava che i

prodotti convenzionali viaggiavano in media per circa 2.600 chilometri, senza considerare gli

alimenti importati da altri paesi. Al contrario, i prodotti locali dimostrarono di avere una filiera lunga

in genere 80 chilometri, una differenza enorme in termini di consumi di carburante e di emissioni di

CO2. Un altro studio effettuato in Canada, nell‟Ontario, ha rilevato che i 58 alimenti importati presi

in esame avevano viaggiato per circa 4.000 chilometri. I consumatori sono sempre più preoccupati

per la sicurezza degli alimenti in un sistema agroalimentare con filiere così lunghe. Questa tendenza

ha prodotto un nuovo vocabolo, “localivoro”, che dovrebbe completare la gamma dei più noti termini

erbivoro, carnivoro e onnivoro.

Le preoccupazioni riguardanti gli effetti sul clima del consumo di alimenti trasportati da luoghi

distanti hanno spinto la Tesco, la più grande catena di supermercati del Regno Unito, a inserire sui

prodotti un‟etichetta che riporta il loro impatto in termini di emissioni di gas serra (carbon foot

print), dalla fattoria allo scaffale del supermercato.

La transizione dal modello agro-industriale per la produzione di latte, carne e uova verso quelle

fattorie ad attività miste di allevamento e coltivazione, facilita anche il riciclo di nutrienti che

avviene quando gli agricoltori restituiscono il letame alla terra. La combinazione degli alti prezzi del

gas naturale, che viene utilizzato per sintetizzare i fertilizzanti a base azotata, e l‟esaurimento delle

riserve minerarie di fosfato, ha come conseguenza la maggiore importanza che assumerà in futuro il

riciclo dei nutrienti, un settore in cui i piccoli agricoltori che producono per i mercati locali hanno un

chiaro vantaggio sugli stabilimenti impostati secondo principi industriali.

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243

9.5 Strategie di riduzione della domanda

Nonostante i notevoli avanzamenti su scala locale, la perdita globale di slancio della produzione

alimentare impone di pensare alla riduzione della domanda attraverso la stabilizzazione della crescita

demografica, la semplificazione della catena alimentare e la riduzione dell‟impiego dei cereali per la

sintesi dei biocarburanti. L‟obiettivo del Piano B è di arrestare la crescita della popolazione

mondiale, che dovrebbe limitarsi a 8 miliardi entro il 2040. Ciò richiederà uno sforzo educativo che

coinvolga tutta la popolazione e aiuti a far comprendere quanto il rapporto fra noi e gli ecosistemi

che ci supportano si stia rapidamente deteriorando. Significa anche che abbiamo bisogno di una

terapia immediata e sostanziosa per poter rendere disponibili i servizi di salute riproduttiva e di

controllo demografico a quei 201 milioni di donne che oggi vogliono pianificare le loro famiglie, ma

che non hanno accesso ai mezzi per farlo.

Mentre gli effetti della crescita demografica sulla domanda di cereali sono abbastanza chiari, lo sono

molto meno gli effetti di una maggiore ricchezza. Una delle domande che spesso mi vengono rivolte

è “quante persone la Terra è in grado di sostenere?”. Io rispondo con un‟altra domanda: “Con quali

consumi alimentari?”. Arrotondando le cifre, all‟attuale livello pro capite di consumo statunitense di

800 chilogrammi di cereali per l‟alimentazione e il mangime, considerando la disponibilità di 2

miliardi di tonnellate annuali di raccolto cerealicolo mondiale, avremmo una quantità sufficiente per

nutrire 2,5 miliardi di persone. Se prendiamo come riferimento i consumi italiani di 400 chilogrammi

a testa, si potrebbero nutrire 5 miliardi di persone. Il consumo medio degli indiani di 200

chilogrammi potrebbe bastare per 10 miliardi di persone.

Dei quasi 800 chilogrammi di cereali consumati individualmente ogni anno negli Stati Uniti, circa

100 chilogrammi sono assunti sotto forma di pane, pasta e cereali per la colazione, mentre gran parte

dei cereali viene assunta indirettamente sotto forma di prodotti di origine animale. In India, dove la

popolazione consuma poco meno di 200 chilogrammi di cereali all‟anno, quasi tutti i cereali vengono

assunti direttamente per soddisfare le necessità alimentari energetiche basilari. Solo una minima

quantità viene destinata alla conversione in prodotti di origine animale.

Fra gli Stati Uniti, l‟Italia e l‟India, l‟aspettativa di vita più alta è in Italia anche se le spese mediche

per abitante negli Stati Uniti sono molto più alte. Le popolazioni che hanno apporti proteici molto

bassi o molto alti non vivono a lungo quanto quelle che si collocano in una posizione intermedia.

Coloro che seguono una dieta di tipo mediterraneo, che comprende quantità moderate di carne,

formaggio e pesce godono di una salute migliore e vivono più a lungo. Le popolazioni che assumono

grandi quantità di proteine, come gli americani o i canadesi, possono migliorare la loro salute

riducendone la quantità. Per coloro che vivono nei paesi a basso reddito come l‟India, dove un

alimento a base amidacea come il riso, fornisce il 60% o più dell‟apporto calorico totale, consumare

cibi più ricchi di proteine può migliorare la salute e innalzare l‟aspettativa di vita.

Anche se raramente prendiamo in considerazione gli effetti delle varie scelte alimentari sul clima,

essi sono a dir poco sostanziali. Gidon Eshel e Pamela A. Martin hanno studiato questo argomento,

rilevando che esiste una relazione di equivalenza tra l‟energia usata nella tipica dieta americana e

quella impiegata per garantire la mobilità individuale. Relativamente alle emissioni di gas serra,

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244

infatti, il rapporto tra le differente scelte in tema di mobilità e le opzioni dietetiche è in entrambi i

casi di 4 a 1. La Toyota Prius, per esempio, utilizza circa un quarto di carburante rispetto al SUV

Chevrolet Suburban. Parimenti, una dieta basata su vegetali richiede circa un quarto dell‟energia di

una dieta ricca di carne rossa. Passare da una dieta basata sulla carne rossa a una incentrata sui

vegetali taglia le emissioni dei gas serra tanto quanto il passaggio da un SUV a una Prius.

Anche il passaggio dalle proteine animali ad alta intensità di cereali a quelle a bassa intensità riduce

la pressione sulle risorse idriche e terrestri. Per esempio, passare dal bovino, che necessita di circa 7

chilogrammi di cereali concentrati al giorno per ciascun chilogrammo di peso vivo, al pollame o al

pesce gatto, che necessitano di circa 2 chilogrammi di cereali al giorno per ogni chilogrammo di

peso, contribuisce a tagliare drasticamente l‟impiego di cereali.

Quando si valuta quante proteine di origine animale consumare, è utile distinguere fra prodotti

derivanti da animali allevati o con l‟erba o con i cereali. Per esempio, gran parte dei bovini del

mondo sono alimentati con l‟erba. Anche negli Stati Uniti, ove abbondano i pascoli, più della metà

dell‟incremento di peso dei bovini deriva dall‟erba. L‟area globale dei pascoli, che è più del doppio

delle aree coltivate mondiali e che normalmente è in pendenza o troppo arida da arare, può

contribuire alla produzione alimentare solo se viene utilizzata come pascolo per il bestiame per

produrre carne, latte e formaggio.

Oltre al ruolo dell‟erba nella fornitura di proteine nobili per la nostra dieta, si ritiene che si possa

aumentare l‟efficienza dei suoli e quella idrica passando dalle proteine di origine animale alle

proteine di origine vegetale di alta qualità, come la soia. È evidente, d‟altra parte, che poiché i

raccolti di mais del Midwest degli Stati Uniti sono il triplo o il quadruplo dei raccolti di soia,

produrre mais e convertirlo in pollame o pesce gatto con un rapporto di due a uno rappresenta un uso

delle risorse più efficiente che non far diventare tutti dipendenti dalla soia.

Da quando esiste l‟agricoltura, la crescita demografica ha sempre causato maggiori richieste di

alimenti. Tuttavia, la conversione su larga scala dei cereali in proteine animali è iniziata solamente

dopo la Seconda guerra mondiale, mentre la trasformazione di cereali in carburanti per auto ha avuto

inizio solo qualche anno fa. Se vogliamo evitare il verificarsi di carestie, dovremo quasi certamente

ridurre quest‟ultima modalità di utilizzo dei cereali. Va infatti ricordato che i 104 milioni di

tonnellate di grano impiegate per la produzione di etanolo nel 2009 negli Stati Uniti rappresentano la

razione alimentare necessaria a sfamare 340 milioni di persone con un livello di consumo di cereali

medio.

Il rapido passaggio a famiglie meno numerose, la semplificazione della catena alimentare, che può

avvenire consumando meno proteine di origine animale o indirizzandosi verso proteine di animali

più efficienti nella trasformazione di cereali, l‟eliminazione degli incentivi per la conversione del

cibo in carburante: tutte queste azioni potranno assicurare cibo a sufficienza a ognuno di noi.

Ridurranno anche i motivi che spingono a sovrasfruttare le falde idriche e ad abbattere le foreste

pluviali tropicali, aiutandoci pertanto a raggiungere gli obiettivi del Piano B.

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245

9.6 Agire su più fronti

In questa nuova era, la futura sicurezza alimentare dipende dall‟assunzione di una maggiore

responsabilità su questo tema da parte di tutti gli organi di governo. Per quanto possano essere

competenti, non ci può aspettare che i ministri dell‟Agricoltura siano in grado da soli di assicurare la

sicurezza alimentare. Le politiche dei Ministeri dell‟Energia possono condizionare la sicurezza

alimentare più di quanto possano fare quelle dei Ministeri dell‟Agricoltura. Gli sforzi dei Ministeri

della Salute e della pianificazione familiare per accelerare il passaggio a famiglie meno numerose

possono avere effetti più importanti sulla sicurezza alimentare dei tentativi dei Ministeri

dell‟Agricoltura volti a incrementare i raccolti.

Se i Ministeri dell‟Energia non riusciranno a tagliare rapidamente le emissioni di anidride carbonica,

il mondo dovrà affrontare ondate di calore che potranno ridurre i raccolti in maniera massiccia e

imprevedibile. Una terra più calda significherà la fusione delle banchise, l‟innalzamento del livello

del mare e l‟inondazione dei delta dei fiumi asiatici, aree che producono elevate quantità di riso.

Preservare i ghiacciai che forniscono acqua a gran parte delle terre coltivate nel mondo è di

competenza dei Ministeri dell‟Energia, non dei Ministeri dell‟Agricoltura.

Se i ministri dell‟Energia non riusciranno a formulare politiche condivise per ridurre rapidamente le

emissioni di CO2, la riduzione dei ghiacciai dell‟Himalaya e degli altopiani del Tibet comprometterà

i raccolti di India e Cina.

Se i Ministeri delle Risorse idriche non riusciranno a incrementare la produttività idrica e ad arrestare

l‟esaurimento delle falde acquifere, i raccolti di cereali verranno compromessi non solo nei paesi più

piccoli, come l‟Arabia Saudita e lo Yemen, ma anche nei paesi più grandi come India e Cina. Se

proseguiamo con il modello economico finora adottato, questi due paesi, i più popolati al mondo,

dovranno affrontare carenze idriche dovute sia al prosciugamento delle falde idriche sia allo

scioglimento dei ghiacciai.

Se i Ministeri delle Foreste e dell‟Agricoltura non lavoreranno assieme per ripristinare la copertura

arborea e ridurre l‟erosione dei suoli e le inondazioni, ci troveremo di fronte a una situazione in cui i

raccolti di cereali non saranno compromessi solamente nei piccoli paesi come Haiti e la Mongolia,

ma anche nei paesi più grandi come la Russia e l‟Argentina, ambedue esportatori di frumento.

E dato che l‟acqua è il fattore fondamentale per l‟incremento della produzione alimentare, più di

quanto non lo sia il suolo, toccherà ai ministeri che gestiscono le risorse idriche intraprendere le

azioni per aumentare l‟efficienza idrica. Per quanto riguarda l‟acqua, così come per l‟energia, le

opportunità principali attualmente sono da individuare nell‟aumento dell‟efficienza della domanda,

non negli incrementi delle forniture.

In un mondo in cui i terreni coltivabili sono scarsi e lo diventeranno sempre più, le decisioni dei

Ministeri dei Trasporti a favore di sistemi di trasporto su gomma – che consumano quantità di suolo

sempre maggiori – piuttosto che di sistemi più diversificati, come ferrovie leggere, autobus e

biciclette, che implicano un dispendio minore di suolo, avranno un effetto diretto sulla sicurezza

alimentare mondiale. Nel nostro mondo sovrappopolato e minacciato dai cambiamenti climatici e

dalla scarsità idrica, la sicurezza alimentare è una questione che riguarda l‟intera società e tutti i

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ministeri di tutti i governi. Poiché la fame è quasi sempre dovuta alla povertà, sradicare la fame

dipende dall‟eliminazione della povertà. E laddove le popolazioni sono in eccesso rispetto alle loro

risorse territoriali e idriche, ciò dipende dalla stabilizzazione demografica.

Infine, se i Ministeri delle Finanze non possono ridistribuire le risorse secondo modalità che tengano

conto delle minacce alla sicurezza derivanti dal deterioramento dei sistemi naturali di sostentamento,

della continua crescita demografica, dei cambiamenti climatici indotti dall‟uomo e delle crescenti

carenze idriche, allora la mancanza di cibo potrebbe davvero far collassare la civiltà. Alcuni dei

maggiori importatori di cereali stanno investendo decine di miliardi di dollari in acquisizioni

territoriali, il che significa che non mancano i capitali da indirizzare nello sviluppo agricolo. Perché

allora non investire oltre i propri confini aiutando i paesi a basso reddito a incrementare la loro

produzione alimentare, in modo che possano esportare più cereali?

Gli Stati Uniti possono rovesciare rapidamente questa situazione riducendo la quantità di cereali

destinata alla sintesi di carburanti per autotrazione. Visto lo sconvolgimento verificatosi nei mercati

cerealicoli mondiali negli ultimi tre anni, è giunta l‟ora che il governo statunitense abolisca i sussidi

e le concessioni alla produzione di biocarburanti. Ciò contribuirebbe a stabilizzare i prezzi dei cereali

e creerebbe le condizioni per allentare le tensioni politiche che sono emerse all‟interno dei paesi

importatori.

E infine, noi tutti abbiamo un ruolo da giocare anche come singoli individui. Ognuno di noi gioca un

ruolo nel condizionare le emissioni di anidride carbonica, i cambiamenti climatici e la sicurezza

alimentare. La dimensione dell‟auto che guidiamo per andare al supermercato e i suoi effetti sul

clima possono indirettamente influenzare quello che è il conto alla cassa. Se consumiamo troppe

proteine di origine animale, possiamo ridurle, migliorando la nostra salute mentre aiutiamo il clima a

stabilizzarsi.

La sicurezza alimentare è una questione in cui siamo tutti coinvolti e responsabili.

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10. POSSIAMO MOBILITARCI ABBASTANZA VELOCEMENTE?

Ci sono molte cose che non sappiamo sul nostro futuro, ma una cosa di cui possiamo essere certi è

che il business as usual, l‟attuale modello di sviluppo economico, non sopravviverà ancora a lungo. È

inevitabile un cambiamento profondo.

“La morte della nostra civiltà non è più una semplice teoria o una possibilità accademica: è la strada

che stiamo percorrendo”, dice Peter Goldmark, ex presidente della Fondazione Rockfeller e attuale

direttore del programma sul clima presso l‟Environmental Defense Fund (EDF). Possiamo trovare

un‟altra strada prima che sia troppo tardi?

L‟idea che la nostra civiltà si stia avvicinando alla propria fine non è facile da afferrare e tantomeno

da accettare. È difficile immaginare qualcosa che non abbiamo mai sperimentato prima. Possediamo

a malapena il vocabolario per discutere di questa prospettiva. Sappiamo a quali indicatori economici

guardare per scorgere i segni di una recessione, ad esempio una produzione industriale in

diminuzione, la disoccupazione in aumento o la fiducia dei consumatori in calo, ma non abbiamo un

analogo insieme di indicatori che segnalino il collasso di una civiltà.

Dato il ruolo delle carestie nel declino delle civiltà più antiche, dovremmo tenere d‟occhio i prezzi

dei generi alimentari e la diffusione della fame nel mondo. Il numero crescente di persone affamate e

la mancanza di un piano per affrontare questa situazione dovrebbero essere oggetto di

preoccupazione per i leader politici di tutto il mondo.

La diffusione della fame (con le minacce che ciò comporta) non avviene in un vuoto politico. I paesi

ricchi importatori di cereali stanno comprando grandi estensioni di terreni nei paesi più poveri, in una

emergente competizione trans-nazionale per il controllo della terra e delle risorse idriche. Questo

apre un nuovo capitolo nella geopolitica della scarsità del cibo. Dove porterà tutto questo? Non lo

sappiamo, non ci siamo mai trovati in una situazione come questa.

Per molti aspetti, l‟indicatore più chiaro della gravità di questa situazione è il numero di stati in

fallimento. Ogni anno la lista si allunga: quanti stati dovranno collassare prima che la nostra civiltà

cominci a cadere a pezzi? Di nuovo, non conosciamo la risposta perché non vi sono precedenti. Il

nostro futuro dipende da come riusciremo ad affrontare l‟espansione della fame e a evitare che

sempre più stati falliscano. Ma questo non potrà accadere se continuiamo con il business as usual.

Invertire questi trend richiederà una mobilitazione di tipo “bellico” su scala mondiale: è quello che

chiamiamo Piano B, e questo piano, o qualcosa di simile, è la nostra unica via d‟uscita.

Il Piano B prevede massicci interventi per ristrutturare l‟economia mondiale e per farlo a una

velocità da stato di guerra.

L‟analogia più vicina è la mobilitazione degli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale. Ma,

diversamente da quel capitolo della storia, quando un singolo paese ristrutturò completamente la

propria economia industriale nel giro di pochi mesi, il Piano B richiede azioni radicali su scala

mondiale.

I quattro obiettivi del Piano B, stabilizzare il clima, stabilizzare la popolazione, sradicare la povertà e

ricostruire i sistemi di supporto naturali dell‟economia, sono mutuamente dipendenti e sono tutti

imprescindibili se vogliamo ripristinare la sicurezza alimentare.

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Sradicare la povertà non è soltanto la chiave per la stabilizzazione demografica e politica, ma dà

anche la speranza di una vita migliore. Come ha fatto presente il premio Nobel Mohammed Yunus,

fondatore di Grameen Bank, la prima e più importante banca per il microcredito, nel Bangladesh “la

povertà porta alla disperazione che spinge la gente a compiere gesti disperati”.

Stabilizzare la popolazione non solo aiuta a sradicare la povertà, ma rende più facile raggiungere gli

obiettivi che ci siamo prefissati. Abitiamo un pianeta finito e stiamo spingendo i sistemi naturali oltre

i loro limiti: ogni paese dovrebbero avere una politica di stabilizzazione demografica.

Come detto nel capitolo 7, i programmi di assistenza internazionali devono prevedere componenti

speciali mirate al soccorso dei paesi che stanno fallendo. Proprio come gli ospedali hanno reparti di

terapia intensiva che forniscono speciali attenzioni a chi è gravemente malato, così anche i

programmi di assistenza internazionale hanno bisogno di strutture dedicate che si prendano cura

degli stati più compromessi.

Dalle analisi sui cambiamenti climatici e sul crescente declino dei sistemi naturali che supportano

l‟economia, e dalle nostre previsioni sulla disponibilità futura di risorse, sappiamo che il modello

economico occidentale non durerà ancora a lungo se continuerà a basarsi sui combustibili fossili,

sull‟automobile e sull‟economia dell‟usa e getta. Abbiamo bisogno di costruire una nuova economia,

alimentata dalle fonti energetiche rinnovabili, con un sistema di trasporti diversificato e che riutilizzi

e ricicli qualsiasi cosa. Possiamo descrivere questa economia nel dettaglio, ma la questione è: come

possiamo arrivarci partendo da dove siamo prima che sia troppo tardi?

In effetti è in corso una sorta di competizione tra politica e punti di non ritorno naturali. La politica

riuscirà ad agire prima che lo scioglimento dei ghiacciai himalaiani diventi irreversibile? Saremo in

grado di fermare la deforestazione in Amazzonia prima che la foresta si trasformi in una landa

desolata?

La chiave per costruire un‟economia mondiale che possa sostenere il progresso economico è la

creazione di un mercato onesto e che dica la verità sui propri costi ecologici. Per crearlo, abbiamo

bisogno di ristrutturare i metodi di tassazione riducendo le imposte sul lavoro e alzando quelle sulle

emissioni di anidride carbonica e sulle altre attività distruttive per l‟ambiente, in modo da

incorporare le esternalità nei prezzi di mercato.

Se riusciremo a far dire la verità al mercato, potremo evitare di continuare a essere accecati da un

sistema di contabilità difettoso, e che rischia di condurci al fallimento. Come ha osservato Øystein

Dahle, ex vicepresidente della Enron per la Norvegia e il Mare del Nord, “il socialismo è crollato

perché non permetteva al mercato di dire la verità sull‟economia. Il capitalismo potrebbe crollare

perché non permette al mercato di dire la verità sull‟ambiente”.

Alcuni paesi stanno cominciando a rendersi conto della necessità di un cambiamento coraggioso e

sostanziale. Diversi governi, fra cui quelli della Norvegia, del Costarica e delle Maldive hanno

annunciato che intendono diventare carbon neutral (neutrali dal punto di vista delle emissioni di

CO2) e hanno aderito al Climate Neutral Network, un programma lanciato dal Programma

ambientale dell‟Onu (UNEP) nel 2008.

Le Maldive, un arcipelago di isole abitato da quasi 385 mila persone e direttamente minacciato

dall‟innalzamento del livello del mare, sta rapidamente sviluppando le sue risorse eoliche e solari per

sostituire i combustibili fossili entro il 2021. Le Maldive e il Costarica sono i primi paesi ad aver

adottato un programma di riduzione delle emissioni di anidride carbonica più ambizioso di quello del

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249

Piano B.

Secondo Achim Steiner, direttore esecutivo dell‟UNEP, la neutralità climatica è “un‟idea i cui i

tempi sono maturi, spinta dall‟urgente necessità di affrontare i cambiamenti climatici, ma anche dalle

abbondanti opportunità economiche che stanno emergendo per coloro che vogliono abbracciare una

transizione a una economia verde”. Lo strumento politico di gran lunga più efficace per conseguire la

neutralità climatica è la ristrutturazione delle imposte e dei sussidi.

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10.1 Redistribuire imposti e sussidi

La proposta di riallocare le tasse, abbassando quelle sul reddito e innalzando invece quelle sulle

attività dannose all‟ambiente, è stata ampiamente caldeggiata da numerosi economisti. Ad esempio,

una tassa sul carbone che tenga conto dei costi delle aumentate prestazioni sanitarie, conseguenza

delle operazioni di estrazioni in miniera e delle esalazioni inquinanti, dei danni da piogge acide e dei

cambiamenti climatici incoraggerebbe gli investimenti verso fonti di energia rinnovabili e pulite

come l‟eolico e il solare.

Un mercato al quale viene permesso di ignorare i costi indiretti nell‟attribuzione dei prezzi di beni e

servizi è irrazionale, dissipatore di risorse e, alla fine, autodistruttivo. Il primo passo per creare un

mercato “onesto” consiste quindi nel calcolare i costi indiretti. Forse il miglior esempio per un

modello del genere è lo studio del governo degli Stati Uniti sui costi sociali del fumo di sigaretta,

realizzato nel 2006 dal Center for Disease Control and Prevention (CDC). Il CDC ha calcolato che il

costo sociale del fumo, se vengono presi in considerazione i costi degli interventi sanitari necessari

per il trattamento delle patologie correlate e le perdite di produttività causate dai lavoratori che si

ammalano, è pari a 10,47 dollari per pacchetto di sigarette.

Questo studio ha fornito il supporto concettuale all‟innalzamento delle tasse sulle sigarette. A New

York, oggi, i fumatori pagano 4,25 dollari di tasse locali e federali per ogni pacchetto acquistato e

Chicago, con 3,66 dollari, non è lontana da questa cifra. A livello dei singoli stati, Rhode Island ha

l‟imposta sul fumo più elevata, 3,46 dollari. Poiché ogni 10% di aumento dei prezzi in genere riduce

il consumo di sigarette del 4%, i benefici indotti dall‟incremento della tassazione sono sostanziali.

Per quel che riguarda la tassazione sulla benzina, l‟analisi più dettagliata si trova nel documento The

Real Price of Gasoline, realizzato dall‟International Center for Technology Assessment. I numerosi

costi indiretti della benzina, che comprendono i cambiamenti climatici, gli sgravi fiscali, i sussidi

all‟industria del petrolio e la difesa delle filiere di rifornimento, il trattamento delle malattie

respiratorie connesse all‟inquinamento veicolare, assommano a 3,17 dollari al litro, poco più dei

costi indiretti di un pacchetto di sigarette.

Se questo costo esterno o “sociale” fosse sommato ai circa 80 centesimi di dollaro che si pagano in

media per un litro di carburante negli Stati Uniti, ecco che un litro costerebbe poco più di 4 dollari.

Questi sono i prezzi reali che prima o poi qualcuno dovrà pagare. Se non noi, toccherà i nostri figli.

Il costo indiretto della benzina di 3,17 dollari al litro indica il livello a cui dovranno essere portate le

imposte per rispecchiare i veri costi ambientali. Le tasse sui carburanti in Italia, Francia, Germania e

Regno Unito sono in media di un dollaro al litro, e costituiscono un buon punto di partenza. La

tassazione media negli USA, circa 10 centesimi di dollaro al litro, a malapena un decimo di quella

europea, aiuta a comprendere perché gli Stati Uniti da soli brucino più carburante dei venti paesi che

li seguono nella classifica dei consumi.

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Gli alti livelli di tassazione dei carburanti in Europa hanno contribuito a migliorare l‟efficienza

dell‟economia e hanno prodotto investimenti di gran lunga maggiori nei sistemi di trasporto

pubblico.

Un aumento progressivo della tassazione sui carburanti, di 10 centesimi di dollaro al litro all‟anno

per i prossimi dieci anni, compensato da una diminuzione delle tassazioni dirette, porterebbe la

tassazione USA allo stesso livello di quelle europee. Tale valore sarebbe ancora molto lontano dai

3,17 dollari di costi indiretti associati alla combustione di un litro di benzina ma, combinato con il

crescente costo di produzione del carburante e con la molto più ridotta carbon tax discussa in

precedenza, dovrebbe essere sufficiente a incoraggiare gli automobilisti a usare di più i trasporti

pubblici e a comprare automobili sia ibride plug-in sia completamente elettriche, nel momento in cui

arriveranno sul mercato, a partire dal 2010.

Le tasse sulla CO2 e sulla benzina possono sembrare alte, ma c‟è almeno un precedente da ricordare.

Nel novembre del 1998, l‟industria del tabacco americana, in seguito a una serie di azioni legali,

accettò di rimborsare ai governi degli Stati Uniti 251 miliardi di dollari per i costi sanitari sostenuti

per il trattamento di patologie collegate al fumo, quasi 1.000 dollari per ogni cittadino statunitense.

Questo storico accordo ha in effetti rappresentato un‟imposta retroattiva sulle sigarette fumate nel

passato, definita con lo scopo di coprirne i costi indiretti. Per pagare questa somma enorme, le

compagnie alzarono il prezzo delle sigarette, portandolo più vicino al costo reale e scoraggiando

ulteriormente il fumo.

La riallocazione della pressione fiscale non è una novità in Europa. Un piano quadriennale, adottato

in Germania nel 1999, ha sistematicamente spostato le tasse dal lavoro all‟energia. Al 2003 questo

piano aveva contribuito a ridurre le emissioni di anidride carbonica di 20 milioni di tonnellate e a

creare circa 250 mila nuovi posti di lavoro. Ha anche sostenuto la crescita nel settore delle energie

rinnovabili, generando al 2006 circa 82 mila posti di lavoro nel solo settore eolico, un numero che si

prevede salirà di altre 60 mila unità nel 2010.

Dal 2001 al 2006 la Svezia ha spostato circa 2 miliardi di dollari di entrate dai redditi di lavoro alle

attività ambientalmente dannose. Gran parte di questa riallocazione, pari a circa 500 dollari per

famiglia, è stata ottenuta attraverso imposizioni fiscali sul trasporto stradale (prezzo dei veicoli e

tasse sui carburanti). Anche Francia, Italia, Norvegia, Spagna e Regno Unito utilizzano questo

strumento di politica economica. Sondaggi effettuati in Europa e negli Stati Uniti indicano che

almeno il 70% dei cittadini votanti si dichiara d‟accordo con una riforma della tassazione in senso

ambientale, quando questa gli viene loro spiegata.

Circa 2.500 economisti, compresi nove premi Nobel per l‟economia, hanno appoggiato il concetto di

riallocazione fiscale. Gregory Mankiw, professore di economia a Harvard ed ex presidente del

Council of Economic Advisors di Bush, ha dichiarato alla rivista Fortune: “Tagliare le tasse sui

redditi e contemporaneamente alzare le imposte sulla benzina significherebbe una crescita

economica più rapida, una circolazione più fluida, strade più sicure e minori rischi dovuti al

riscaldamento globale; il tutto senza compromettere il gettito fiscale a lungo termine. Questa

potrebbe essere la cosa più simile a un pasto gratis che l‟economia possa offrire”.

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La tassazione ambientale è attualmente utilizzata per scopi diversi. Le tasse sul conferimento in

discarica si vanno diffondendo a livello nazionale e locale. Alcune città tassano le auto che entrano

nei centri storici, altre hanno introdotto imposte sulla proprietà dell‟automobile. In Danimarca le

tasse sull‟acquisto di un‟auto nuova sono superiori al prezzo dell‟auto stessa nella misura del 180%.

Un‟auto nuova con prezzo di listino di 20 mila dollari ne costa al compratore più di 56 mila.

A Singapore la tassa su una Ford Focus da 14.200 dollari, ad esempio, arriva a triplicarne il prezzo,

portandolo a 45.500. Altri governi si stanno muovendo in questa direzione. A Shangai la tassa

d‟immatricolazione è in media di circa 4.500 dollari per automobile.

I sistemi di commercializzazione dei permessi del tipo cap-and-trade sono in qualche caso

un‟alternativa alla ristrutturazione delle imposte in chiave ambientale. La principale differenza

consiste nel fatto che con questi permessi i governi stabiliscono a priori i limiti entro cui deve

svolgersi una determinata attività (ad esempio il quantitativo massimo prelevabile in una data riserva

di pesca), lasciando che sia il mercato a stabilire il prezzo dei permessi quando vengono messi

all‟asta. Con le tasse ambientali, invece, il costo delle attività distruttive per l‟ambiente viene

incorporato all‟origine e il mercato determina la quantità di attività che potrà essere svolta a quel

dato prezzo. Entrambi gli strumenti possono essere usati per scoraggiare comportamenti

ambientalmente irresponsabili.

L‟uso dei sistemi cap-and-trade è stato spesso efficace a livello nazionale, come nel caso della

riduzione delle emissioni di zolfo negli Stati Uniti e delle restrizioni alla pesca in Australia. Il

governo australiano, preoccupato per il sovrasfruttamento delle risorse ittiche, in particolare delle

aragoste, ne ha stimato la produzione sostenibile e poi ha emesso dei permessi di cattura pari alla

quantità calcolata, ponendoli all‟asta. In pratica il governo ha deciso quante aragoste potevano essere

pescate e ha lasciato decidere al mercato quale fosse il loro valore. Dal 1992, anno in cui è stato

introdotto questo sistema, la pesca si è stabilizzata e sembra che stia operando su basi sostenibili.

Sebbene i permessi commerciabili siano ben noti all‟interno del mondo degli affari, i loro

meccanismi sono più complicati da gestire e meno comprensibili di quello delle tasse. Edwin Clark,

un economista del White House Council on Environmental Quality oggi in pensione, osserva che la

commercializzazione dei permessi “richiede un complesso quadro normativo che li definisca, ne

stabilisca le regole e impedisca di operare al di fuori di esse”. A differenza del pagamento delle

imposte, con il quale si ha un‟ampia familiarità, i permessi commerciabili sono un concetto non

facilmente comprensibile al pubblico, il che rende più difficile ottenere un ampio consenso da parte

dell‟opinione pubblica.

L‟altra faccia della riallocazione delle imposte è la revisione della destinazione dei sussidi. Ogni

anno, i contribuenti pagano a livello mondiale circa 700 miliardi di dollari di sussidi per attività

distruttive per l‟ambiente come la combustione dei carburanti fossili, il taglio delle foreste, il

sovrasfruttamento delle riserve ittiche e delle falde acquifere. Uno studio dell‟Earth Council,

Subsidizing Unsustainable Development, rileva che “c‟è qualcosa di incredibile nel fatto che il

mondo spenda centinaia di miliardi di dollari per incentivare la propria stessa distruzione”.

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In molti paesi le emissioni di CO2 potrebbero essere tagliate semplicemente eliminando i sussidi ai

combustibili fossili. L‟Iran fornisce un classico esempio di incentivi “estremi”, dal momento che

vende il petrolio per l‟uso interno a un decimo del prezzo del mercato mondiale, incoraggiando

fortemente l‟utilizzo delle auto e il consumo di benzina. Secondo la Banca Mondiale, se venissero

eliminati questi incentivi, pari a 37 miliardi di dollari l‟anno, le emissioni di anidride carbonica

dell‟Iran diminuirebbero di uno stupefacente 49%. Questa mossa inoltre ne rinforzerebbe

l‟economia, liberando fondi pubblici da investire nello sviluppo del paese. Sempre secondo la Banca

Mondiale, la rimozione degli aiuti all‟energia fossile ridurrebbe le emissioni di CO2 del 14% in

India, dell‟11% in Indonesia, del 17% in Russia e del 26% in Venezuela.

Alcuni paesi lo stanno già facendo. Il Belgio, la Francia e il Giappone hanno tagliato tutti gli

incentivi al carbone. In Germania si è deciso di ridurli, e si è passati dal picco di 6,7 miliardi di euro

raggiunto nel 1996 a 2,5 nel 2007. L‟uso del carbone è calato del 34% tra il 1991 e il 2006, e la

Germania prevede di eliminare completamente questi incentivi entro il 2018. Con la crescita dei

prezzi del petrolio, un certo numero di paesi, tra cui Cina, Indonesia e Nigeria, ha fortemente ridotto

o eliminato i sussidi che tenevano i prezzi molto al di sotto di quello di mercato.

Uno studio realizzato per conto del partito inglese dei Verdi, l‟Aviation‟s Economic Downside,

descrive i massicci sussidi governativi alle linee aeree inglesi. Si tratta di 18 miliardi di dollari di

riduzioni fiscali, compresa la totale esenzione dalla tassazione nazionale. Vanno inoltre calcolati i

costi esterni e indiretti che non vengono pagati, come il trattamento delle patologie connesse agli

inquinamenti degli aerei, il costo dei cambiamenti climatici, per un totale di circa 7,5 miliardi di

dollari. In conclusione i sussidi per le linee aeree in Inghilterra pesano per un totale di 426 dollari

annui per ogni abitante. Si tratta di una politica fiscale iniqua, perché colpisce anche quella parte

della popolazione inglese che non può permettersi di volare e che contribuisce a sussidiare i viaggi

dei concittadini più abbienti.

Mentre alcuni paesi industrializzati stanno riducendo i sussidi ai combustibili fossili (specialmente al

carbone, il più dannoso per il clima), gli Stati Uniti li hanno aumentati, non solo all‟industria

petrolifera, ma anche a quella nucleare. Doug Koplow, fondatore di Earth Track, ha calcolato in uno

studio del 2006 che il totale dei sussidi federali degli Stati Uniti destinati all‟energia ammontano a 74

miliardi di dollari. Di questi, l‟industria del petrolio e del gas ne ricevono 39 miliardi, il carbone 8 e

il nucleare 9. Egli fa presente che, dal 2006, questi numeri potrebbero essere aumentati e non di

poco. In un momento nel quale vi è un‟assoluta necessità di conservare le risorse petrolifere, i

contribuenti americani ne stanno incentivando l‟esaurimento.

In un mondo che si prepara ad affrontare cambiamenti climatici distruttivi per l‟economia, gli

incentivi alla combustione di petrolio e carbone non sono più giustificabili. Destinare questi capitali

allo sviluppo di fonti che non danneggiano il clima, come il vento, il solare, le biomasse e il

geotermico, aiuterà a stabilizzare il clima del pianeta. Spostare i sussidi dalla realizzazione di strade

a quella di linee ferroviarie aumenterà la mobilità in molte situazioni, tagliando contemporaneamente

le emissioni. La revoca dei sussidi annuali all‟industria della pesca, pari a 22 miliardi di dollari, e la

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loro destinazione alla creazione di parchi marini, sarebbe un passo da gigante verso la ricostituzione

delle risorse ittiche oceaniche.

In una situazione travagliata come quella attuale, in cui molti governi stanno fronteggiando enormi

deficit fiscali, una riorganizzazione degli incentivi e delle imposte come quella proposta in queste

pagine può contribuire a riequilibrare i bilanci, creare nuovi posti di lavoro e salvare gli ecosistemi di

supporto all‟economia. La riallocazione delle tasse e dei sussidi permette una maggiore efficienza

energetica, tagli nelle emissioni di anidride carbonica, e una riduzione nelle devastazioni ambientali,

una situazione win-win. Una tassa sul carbone, ad esempio, che incorpori i costi reali per il clima e

per la salute che derivano dalla sua combustione, porterebbe rapidamente alla sua uscita di scena.

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255

10.2 Carbone: il principio del declino

Negli ultimi due anni si è diffuso un potente movimento d‟opposizione alla costruzione di nuove

centrali a carbone negli Stati Uniti. Inizialmente guidato da gruppi ambientalisti nazionali e locali, è

stato poi affiancato da leader politici nazionali di primo piano e dai Governatori di molti stati. Il

principale motivo per opporsi agli impianti di carbone è che stanno cambiando il clima della Terra.

Vi sono poi gli effetti sulla salute derivanti dalle emissioni di numerosi inquinanti, tra i quali il

mercurio, e le 23.600 morti che solo negli Stati Uniti sono ogni anno riferibili all‟inquinamento

dell‟aria causato dalle centrali.

Negli ultimi anni l‟industria del carbone ha subito una sconfitta dopo l‟altra. Il Sierra Club afferma

che dei 229 impianti di cui è stata proposta la costruzione dal 2000 46 sono stati effettivamente

realizzati, 101 sono stati bocciati, altri 59 stanno affrontando un‟opposizione in tribunale e solo 23

hanno qualche chance di ottenere i permessi necessari di costruzione ed essere infine allacciati alla

rete. Costruire una centrale a carbone potrebbe presto diventare impossibile.

Quella che era cominciata come una piccola increspatura è diventata un‟imponente ondata di

opposizione sostenuta dalle organizzazioni ambientali e da quelle per la salute.

In un sondaggio condotto su scala nazionale da Opinion Research Corporation. che chiedeva quale

fosse la fonte di energia preferita, solo il 3% ha scelto il carbone. Nonostante una pesante campagna

pubblicitaria a favore del cosiddetto “carbone pulito”, che ricorda in qualche modo i primi sforzi

compiuti dalle case produttrici di tabacco per convincere i consumatori che le sigarette non erano

dannose per la salute, l‟opinione pubblica è sempre più contraria.

Una delle peggiori sconfitte dell‟industria del carbone si è verificata all‟inizio del 2007, quando un

imponente movimento si è schierato conto la società Texana TXU.

Una coalizione guidata dall‟Enviromental Defence Fund (EDF) ha condotto una massiccia campagna

di stampa contro la realizzazione di 11 nuove centrali a carbone. Il crollo nelle quotazioni delle

azioni della TXU, causato dal clamore mediatico, ha portato a un‟offerta pubblica d‟acquisto per 45

miliardi di dollari da parte di due società, la Kohlberg Kravis Roberts e la Company and Texas

Pacific Group.

Le aziende hanno potuto procedere all‟acquisto solo dopo aver negoziato un accordo con la Natural

Resources Defense Council e l‟EDF, e dopo aver ridotto da 11 a 3 il numero degli impianti proposti.

È stata una grande vittoria per la comunità ambientalista, che è riuscita a raccogliere un supporto da

parte dell‟opinione pubblica sufficiente a fermare immediatamente otto impianti e a imporre

regolamentazioni più stringenti sui restanti tre. Nel frattempo, il Texas si è concentrato sullo

sfruttamento delle sue risorse di energia eolica, e ciò gli ha consentito di sopravanzare la California

in termini di energia elettrica prodotta da fonte eolica.

Nel maggio 2007, la Public Service Commission dello stato della Florida, ha rifiutato

l‟autorizzazione per la costruzione di una centrale a carbone da 1.960 megawatt e da 5,7 miliardi di

dollari, poiché l‟azienda elettrica non è stata in grado di provare che la costruzione dell‟impianto

sarebbe stata economicamente vantaggiosa rispetto all‟investire nell‟efficienza energetica e nelle

fonti di energia rinnovabile. Questo precedente, reso possibile da Earthjustice, un gruppo legale

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256

ambientalista non profit, e da un‟opinione pubblica dichiaratamente contraria a qualsiasi nuova

centrale a carbone in Florida, ha avuto come conseguenza anche il ritiro dei progetti per la

costruzione di altre quattro centrali a carbone nello stato.

Il futuro del carbone è sempre più incerto, anche perché Wall Street ha voltato le spalle alle industrie

del settore. Nel luglio 2007, la Citicorp ha abbassato le sue stime su tutte le industrie del carbone

quotate e ha raccomandato ai suoi clienti di spostare i propri investimenti verso altri settori

energetici. Nel gennaio 2008 Merrill Lynch ha declassato le azioni del carbone. Un mese dopo, le

banche d‟affari Morgan Stanley, Citi e J.P. Morgan Chase hanno annunciato che, per ottenere prestiti

per la costruzione delle centrali a carbone, le compagnie avrebbero dovuto dimostrare che gli

impianti avrebbero prodotto profitti anche con i costi più alti derivanti dalle future restrizioni

ambientali federali sulle emissioni di CO2.

Più tardi anche Bank of America ha annunciato che avrebbe seguito lo stesso approccio.

Nell‟agosto 2007, la lobby del carbone ha subito un altro colpo quando il capogruppo di

maggioranza del Senato, il senatore Harry Raid, del Nevada, che già si era opposto alla realizzazione

di tre nuove centrali nel suo stato, ha dichiarato che le avrebbe combattute dappertutto nel mondo.

L‟ex vicepresidente Al Gore ha dato voce a una forte opposizione contro questi impianti, e lo stesso

hanno fatto anche molti governatori, fra cui quelli della California, della Florida, del Michigan, di

Washington e del Wisconsin.

Nel suo discorso sullo stato dello Stato del 2009, la governatrice, Jennifer Granholm, ha affermato

che il Michigan non dovrebbe importare carbone dal Montana e dal Wyoming, ma dovrebbe

piuttosto investire in tecnologie che aumentino l‟efficienza energetica e sfruttare le risorse

rinnovabili, cose che creerebbero migliaia di posti di lavoro, aiutando a recuperare quelli persi nel

settore automobilistico.

Nel dicembre del 2008 l‟industria del carbone ha subito un‟altra sconfitta. Oltre alle ingenti

emissioni di CO2, la combustione del carbone produce grandi quantità di ceneri tossiche, che si

stanno accumulando in 194 discariche e in 161 bacini di raccolta in 47 stati. Queste ceneri sono

difficili da smaltire perché sono cariche di arsenico, piombo, mercurio e di molte altre sostanze

tossiche. Pochi giorni prima del Natale 2008, il crollo di un muro di contenimento in un bacino di

raccolta delle ceneri di carbone nel Tennessee orientale causò il rilascio di quasi 4 miliardi di litri di

liquami tossici, e sollevò il velo sul segreto più sporco dell‟industria del carbone.

Sfortunatamente, l‟industria del carbone non ha un piano per smaltire in modo sicuro i 130 milioni di

tonnellate di ceneri prodotte ogni anno, sufficienti a riempire un milione di vagoni ferroviari. I rischi

sono così alti che il Department of Homeland Security ha cercato di inserire 44 dei siti di stoccaggio

più vulnerabili su una lista segreta, per evitare che possano essere attaccati dai terroristi.

Nell‟aprile 2009 il capo della potente Federal Energy Regulatory Commission degli Stati Uniti, Iohn

Wellinghoff, ha osservato che gli Stati Uniti non hanno alcun bisogno di nuove centrali a carbone o

nucleari.

I decisori, le banche d‟investimento e i leader politici stanno cominciando a vedere quello che da

parecchio tempo era evidente ai climatologi come James Hansen, che afferma che non ha senso

costruire impianti a carbone quando invece dovremmo demolirli al più presto.

Nell‟aprile 2007, la Suprema Corte degli USA ha deciso che l‟EPA (Enviromental Protecion

Agency), l‟Agenzia per l‟Ambiente degli Stati Uniti, è obbligata a regolare le emissioni di CO2 sulla

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base del Clean Air Act. In base a questa storica decisione, nel novembre 2008 l‟Environmental

Appeals Board dell‟EPA ha concluso che gli uffici regionali dell‟EPA devono definire i limiti di

emissione della CO2 prima di rilasciare permessi per la costruzione di nuovi impianti a carbone.

Questo non solo ha bloccato la costruzione dell‟impianto per il quale era nata la questione, ma ha

anche stabilito un precedente, bloccando l‟iter autorizzativo di altri casi simili nel resto degli Stati

Uniti. Agendo sulla base della stessa decisione della Corte Suprema, nel marzo 2009 l‟EPA ha

presentato un‟analisi dei rischi alla Casa Bianca, confermando che le emissioni di CO2 minacciano

la salute umana e il benessere sociale e devono pertanto essere regolamentate, ponendo così

un‟ulteriore ipoteca su tutte le nuove centrali a carbone.

La conclusione è che negli Stati Uniti vige ora una moratoria de facto sulla realizzazione di nuove

centrali elettriche a carbone. Ciò ha portato il Sierra Club, il soggetto più attivo sulla questione, a

estendere la sua campagna per la riduzione delle emissioni di CO2 affinché venga presa in analisi

anche la chiusura delle centrali esistenti.

Dato l‟enorme potenziale per la riduzione dei consumi elettrici negli Stati Uniti, come illustrato nel

capitolo 4, ciò potrebbe essere molto più facile di quanto sembri. Se tutti gli stati americani fossero

efficienti come quello di New York, il risparmio che ne deriverebbe sarebbe sufficiente a chiudere

l‟80% delle centrali a carbone. I pochi impianti rimasti potrebbero essere sostituiti con il passaggio

alle energie rinnovabili: campi eolici, centrali solari termiche, pannelli fotovoltaici sui tetti e impianti

geotermici.

I dati parlano chiaro. Nel 2008 sono state realizzate solo cinque piccole centrali a carbone la cui

costruzione era stata pianificata molti anni fa, che hanno aggiunto solo 1.400 megawatt di capacità

produttiva termoelettrica. Nello stesso anno, sono stati connessi alla rete quasi 100 parchi eolici, per

un totale di 8.400 megawatt di capacità produttiva.

Questa moratoria de facto è un messaggio per il resto del mondo. La Danimarca e la Nuova Zelanda

hanno già proibito nuove centrali a carbone. Altri paesi si uniranno probabilmente a questo sforzo.

Perfino la Cina, che stava costruendo una nuova centrale alla settimana, sta vertiginosamente

aumentando il suo impegno nelle energie rinnovabili e supererà presto gli Stati Uniti nella

produzione di energia elettrica di origine eolica. Questi e altri sviluppi suggeriscono che l‟obiettivo

di ridurre le emissioni di CO2 dell‟80% entro il 2020 potrebbe essere più raggiungibile di quanto si

creda.

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10.3 Stabilizzare il clima

In precedenza abbiamo sottolineato la necessità di tagliare le emissioni nette di CO2 dell‟80% entro

il 2020 per minimizzare i futuri aumenti della temperatura. Qui riassumiamo le proposte del piano B

per realizzare questo obiettivo, comprese le riduzioni nell‟uso dei combustibili fossili e un crescente

sequestro biologico del carbonio.

Una volta che la domanda di energia sarà stata stabilizzata con un deciso miglioramento

dell‟efficienza, la sostituzione dei combustibili fossili con fonti di energia rinnovabili per la fornitura

di energia elettrica e di calore potrà ridurre le emissioni di CO2, al 2020, di più di 3,2 miliardi di

tonnellate (vedi tabella 10.1).

Fonte: si veda la nota 41.

Il maggior taglio di emissioni arriverà dall‟eliminazione progressiva dell‟uso del carbone per

generare elettricità. Altre importanti riduzioni potranno provenire dall‟eliminazione del petrolio e da

un calo del 70% nell‟impiego del gas per la produzione di elettricità. Nota 41.

Nel settore dei trasporti, una forte riduzione nell‟uso del petrolio potrà eliminare 1,4 miliardi di

tonnellate di emissioni di CO2. Questo calo sarà legato alla diffusione di auto ibride a tecnologia

plug-in o completamente elettriche, alimentate da energia a emissioni zero come quella eolica. La

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259

rimanente riduzione si otterrà in larga misura dallo spostamento del trasporto merci su gomma al

trasporto ferroviario e dall‟utilizzo di treni mossi da elettricità prodotta da fonti rinnovabili.

Si stima che oggi la deforestazione sia responsabile dell‟emissione di 1,5 miliardi di tonnellate di

CO2 all‟anno. Il Piano B ha due obiettivi: portare la deforestazione a zero entro il 2020 e aumentare

il numero di alberi sulla Terra, allo scopo di sequestrare la CO2 contenuta nell‟atmosfera. La

riforestazione delle terre incolte e deforestate potrebbe fissare più di 860 milioni di tonnellate di

carbonio all‟anno. Inoltre, il programma di riforestazione per il controllo delle inondazioni, del

deflusso delle precipitazioni e dell‟erosione del suolo porterà a sottrarre altra CO2 dall‟atmosfera.

L‟altro metodo con cui sequestrare il carbonio attraverso meccanismi biologici passa attraverso una

migliore gestione dell‟utilizzo del territorio. Ciò include l‟espansione delle zone coltivate con

tecnologie a basso impatto ambientale (tecniche minimum till o no-till), la coltivazione di specie

vegetali che offrono maggiore copertura del terreno durante il fermo vegetativo e un maggior uso di

specie perenni nella distribuzione delle coltivazioni Quest‟ultima iniziativa significherebbe, ad

esempio, usare meno mais e più panico verga per la produzione di bioetanolo. Si stima che, con

l‟adozione di queste pratiche agricole, si potrebbero fissare circa 600 milioni di tonnellate di

carbonio annue.

Nell‟insieme, rimpiazzando i combustibili fossili con fonti rinnovabili per la generazione elettrica,

spostandosi sull‟utilizzo di auto ibride plug-in o completamente elettriche, impiegando linee

ferroviarie elettrificate, mettendo al bando la deforestazione, piantando alberi e migliorando la

gestione del suolo si potrebbe arrivare entro il 2020 a un livello di emissioni inferiore dell‟80%

rispetto a quello attuale. Questa riduzione stabilizzerebbe la concentrazione di CO2 atmosferica sotto

le 400 parti per milione, limitando i futuri aumenti della temperatura.

Il sistema più efficiente per ristrutturare l‟economia energetica al fine di stabilizzare i livelli

atmosferici di anidride carbonica è la creazione di una carbon tax (tassa sulla CO2). Come già

affermato nel capitolo 4, proponiamo una carbon tax di 200 dollari a tonnellata che andrebbe

raggiunta al ritmo incrementale di 20 dollari annui dal 2010 al 2020.

Pagata dai produttori principali, le compagnie del petrolio e del carbone, la carbon tax potrebbe

trasformare l‟intera economia dell‟energia basata sui carburanti fossili. La tassa sul carbone sarebbe

quasi doppia di quella sul gas naturale, dato che la combustione del carbone produce molta più CO2

di quanto faccia quella del gas naturale. Una volta reso operativo il progressivo incremento della

tassazione sulle emissioni e il simultaneo decremento delle imposte sul reddito, il nuovo scenario dei

prezzi farà in modo che i decisori politici ed economici effettuino scelte più intelligenti. A differenza

dell‟approccio del sistema cap-and-trade, nel quale il prezzo della CO2 è variabile, nel caso della

carbon tax questo è predicibile. Per gli investitori si tratta di una riduzione dei rischi di grande

importanza.

Per tutti i paesi, e in particolare per quelli in via di sviluppo, la buona notizia è che l‟economia del

Piano B richiede molta più manodopera rispetto a quella necessaria al modello basato sui

combustibili fossili. Per esempio in Germania, un paese all‟avanguardia nella transizione energetica,

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le filiere industriali delle energie rinnovabili impiegano già più lavoratori di quelle dei combustibili

fossili e del nucleare insieme. In un mondo dove l‟obiettivo auspicato da tutti è l‟aumento

dell‟occupazione questa è davvero una buona notizia.

Inoltre, la ristrutturazione dell‟industria energetica qui delineata non soltanto farà crollare i livelli di

emissione di CO2, aiutando a stabilizzare il clima, ma eliminerà la maggior parte degli inquinanti

atmosferici. L‟idea di un ambiente libero da contaminazioni per noi è addirittura difficile da

immaginare, semplicemente perché nessuno di noi ha mai conosciuto un‟economia energetica che

non fosse altamente inquinante. Il lavoro nelle miniere di carbone sarà storia, molte malattie

respiratorie potrebbero scomparire, così come gli allarmi da condizioni di inquinamento estremo.

Infine, a differenza di quanto avviene per i giacimenti petroliferi e le miniere di carbone, per cui è

inevitabile un progressivo depauperamento seguito dall‟abbandono, le nuove fonti di energia sono

inesauribili. Sebbene le turbine eoliche, le celle fotovoltaiche e i pannelli solari termici richiedano

tutti manutenzione e occasionali sostituzioni, l‟investimento iniziale può durare per sempre. Questo

pozzo non si prosciugherà mai.

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10.4 Tre modelli di cambiamento sociale

Possiamo cambiare abbastanza rapidamente? Quando penso all‟enorme bisogno di cambiamenti

sociali necessari a indirizzare l‟economia mondiale verso un percorso sostenibile, trovo utile

guardare ai vari modelli di cambiamento. Ce ne sono tre che a mio avviso spiccano tra i tanti. Uno è

il modello di cambiamento catastrofico, che io chiamo “modello stile Pearl Harbor”, nel quale un

evento drammatico stravolge in modo radicale il modo in cui agiamo e pensiamo. Il secondo, che io

chiamo “modello del muro di Berlino”, è quello in cui una società raggiunge un punto critico in un

particolare aspetto, spesso dopo un periodo prolungato di cambiamenti graduali del modo di pensare

e dei comportamenti. Il terzo è il modello di cambiamento sociale “a sandwich”, nel quale un potente

movimento dal basso spinge per cambiamenti in un particolare aspetto, mentre una forte leadership

politica lo appoggia pienamente dall‟alto.

L‟attacco a sorpresa giapponese a Pearl Harbor, il 7 dicembre del 1941, cambiò completamente

l‟atteggiamento dell‟opinione pubblica americana nei confronti della guerra mondiale. Se il 6

dicembre qualcuno avesse chiesto agli americani se volevano entrare in guerra, con ogni probabilità

il 95% avrebbe risposto di no. Lunedì 8 dicembre, il 95% avrebbe, con ogni probabilità, risposto di

sì.

La debolezza di questo modello risiede nel fatto che, se dobbiamo attendere un evento catastrofico

per modificare i nostri comportamenti, esso potrebbe verificarsi troppo tardi, portando le società a

livelli di stress tali da rischiare di farle collassare. Quando si chiede agli scienziati quale potrebbe

essere un evento “Pearl Harbor” dal punto di vista climatico, spesso indicano la possibile

frammentazione della penisola occidentale dell‟Antartide. Pezzi relativamente piccoli si sono già

staccati nell‟ultimo decennio, ma si teme il distacco di settori molto più grandi. Se ciò dovesse

avvenire, nel giro di pochi anni si registrerebbe un innalzamento del livello del mare compreso tra i

60 e i 90 centimetri. Sfortunatamente, se e quando raggiungeremo questo stadio sarà già troppo tardi

per tagliare le emissioni di gas serra abbastanza in fretta da salvare il resto della piattaforma

occidentale antartica o la calotta glaciale della Groenlandia, la cui fusione sta parimenti accelerando.

Non è questo il modello che desideriamo seguire per un cambiamento sociale riguardante il clima.

Il modello “muro di Berlino” è interessante perché la caduta del muro nel 1989 fu la manifestazione

visibile di un cambiamento sociale molto più profondo. A un certo punto, gli abitanti dell‟Europa

dell‟Est, rinfrancati dai cambiamenti che stavano avvenendo a Mosca, rifiutarono il “grande

esperimento socialista” con il suo sistema politico monopartitico e un‟economia pianificata

centralmente. Sebbene non fosse stato previsto, l‟Europa dell‟Est sperimentò una rivoluzione

politica, essenzialmente senza spargimento di sangue, che cambiò la forma di governo in ogni paese

della regione. Senza preavviso, essa aveva raggiunto il suo punto critico.

Cercate sui giornali degli anni Ottanta: non troverete un articolo sull‟imminente rivoluzione politica

nell‟Europa dell‟Est. A Washington la CIA “non aveva idea, nel gennaio 1989, che un‟onda di marea

della storia stava per abbattersi sui noi tutti”, spiegava in una intervista del 1996 Robert Gates, ai

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tempi impiegato nella CIA e attuale Segretario della Difesa.

Molti cambiamenti sociali avvengono quando le società raggiungono punti di non ritorno o superano

livelli di soglia critici. Quando ciò accade, il cambiamento avviene rapidamente e in modo

imprevedibile. Uno dei più conosciuti punti critici nella storia degli Stati Uniti è stata la crescente

opposizione al fumo che si è manifestata durante la seconda metà del XX secolo. Questo movimento

antifumo è stato alimentato da un flusso continuo di informazioni sugli effetti dannosi per la salute

dei fumatori, un processo che è cominciato con il primo rapporto sul fumo e la salute del Surgeon

General del 1964. Il punto critico è arrivato quando questo flusso di informazione ha finalmente

superato la campagna di disinformazione massicciamente finanziata dalle industrie del tabacco.

Pubblicato quasi ogni anno, il Surgeon‟s General Report ha attirato l‟attenzione su quello che via via

si apprendeva sugli effetti del fumo sulla salute e ha stimolato innumerevoli progetti di ricerca su

questo settore. Ci sono stati momenti, negli anni Ottanta e Novanta, nei quali sembrava che ogni

settimana uscissero nuovi studi sui danni provocati dal fumo. Alla fine, il fumo è stato associato con

almeno 15 forme di cancro, malattie cardiache e ictus.

Mentre cresceva la consapevolezza pubblica sugli effetti dannosi del fumo, furono adottati numerosi

provvedimenti per proibirlo dai locali pubblici, dagli aerei, dagli uffici, dai ristoranti. Anche in

seguito a questi interventi, il numero di sigarette fumato per persona, dopo aver raggiunto un picco

nel 1970, ha cominciato un declino che continua ancora oggi.

Uno degli eventi fondamentali in questo processo di cambiamento sociale si è verificato quanto

l‟industria del tabacco ha accettato di compensare i governi degli Stati per i costi delle cure mediche

prestate in passato alle persone colpite da malattie causate dal fumo. Nel giugno 2009, il Congresso

ha approvato con larghissimo margine, e il Presidente Obama ha controfirmato, un decreto che dà

alla Food & Drugs Administration l‟autorità di regolamentare i prodotti del tabacco, inclusa la

pubblicità. Questa decisione ha aperto un nuovo capitolo nello sforzo di ridurre i danni alla salute

prodotti dal fumo.

Il modello di cambiamento sociale “a sandwich” è, per molti aspetti, il più attraente, in parte perché

ha un buon potenziale per cambiamenti rapidi. A metà del 2009, il forte interessamento popolare al

taglio delle emissioni di CO2 e lo sviluppo delle energie rinnovabili si è fuso con le attività del

Presidente Obama e della sua amministrazione. Un risultato, come notato precedentemente, è la

moratoria de facto sulle centrali a carbone.

Ci sono molti segni che anche gli Stati Uniti potrebbero essere vicini a un punto critico riguardo alla

percezione della questione climatica, in modo simile a quello che avvenne negli anni Sessanta

riguardo ai diritti civili. Sebbene molti indicatori siano influenzati dalla difficile situazione

economica, è probabile che il consumo di carbone abbia raggiunto il picco negli Stati Uniti nel 2007

e abbia cominciato quello che sarà un lungo declino. Carbone e petrolio, le principali fonti di gas

serra, potrebbero essere in procinto di essere abbandonate. E il numero totale di auto negli Stati Uniti

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potrebbe analogamente aver cominciato a calare. Le automobili demolite nel 2009 hanno quasi

superato quelle acquistate, a dimostrazione che la “flotta” automobilistica degli USA potrebbe aver

raggiunto un picco per avviarsi a una diminuzione.

Negli ultimi due anni il passaggio ad auto più efficienti è stato stimolato dai costi più alti della

benzina, dai nuovi standard automobilistici di efficienza e dalle pressioni sulle compagnie

automobilistiche in occasione della concessione del “pacchetto di salvataggio”. Nel settore

energetico la riallocazione di risorse verso l‟eolico e il solare sta rapidamente crescendo mentre nel

settore del carbone e del petrolio gli investimenti vanno declinando. Questo è un altro segnale di un

profondo cambiamento nei valori di base, un cambiamento che potrebbe potenzialmente interessare

ogni settore dell‟economia.

Se è cosi, questi fenomeni, uniti a una leadership nazionale che li comprende e li approva potrebbero

portare a un cambiamento sociale su una scala e a una velocità che possiamo a stento immaginare.

È abbastanza probabile, ad esempio, che il consumo di petrolio degli Stati Uniti abbia raggiunto il

picco. Standard di consumo per il settore automobilistico molto più stringenti, un deciso aumento dei

fondi destinati al trasporto pubblico e un incoraggiante spostamento verso auto più efficienti e verso

ibride plug-in e completamente elettriche potrebbero drammaticamente ridurre le vendite dei

carburanti nel paese. Il Dipartimento dell‟energia degli Stati Uniti aveva previsto una crescita

sostanziale dei consumi di petrolio del paese, ma ha rivisto pesantemente al ribasso le sue stime. La

domanda non è ora se il consumo di petrolio declinerà negli Stati Uniti, ma quanto velocemente lo

farà. Anche le emissioni di CO2, di conseguenza, potrebbero aver raggiunto il loro picco.

Dei tre modelli di cambiamento sociale, affidarsi al modello “Pearl Harbor” è di gran lunga l‟opzione

più rischiosa, perché quando si verifica un evento catastrofico in grado di innescare un cambiamento

sociale potrebbe esser troppo tardi. Il modello “muro di Berlino” funziona, nonostante la mancanza

di un supporto governativo, ma richiede tempo. Ci sono voluti quasi quaranta anni dopo che i

comunisti avevano preso il potere nei paesi dell‟Est Europa, prima che l‟opposizione si allargasse a

sufficienza da diventare abbastanza forte da rovesciare i regimi autoritari e passare a governi

democraticamente eletti. La situazione ideale per progressi rapidi e storici si verifica quando un

crescente movimento dal basso si unisce a una leadership nazionale vocata allo stesso cambiamento.

Questo potrebbe spiegare perché il mondo nutre speranze così elevate nei confronti della nuova

leadership americana, mentre affronta le sfide descritte nei capitoli precedenti.

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264

10.5 Una mobilitazione da tempi di guerra

L‟ingresso degli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale offre un caso di studio emblematico sulla

mobilitazione rapida. Proponendo una mobilitazione volta a salvare la civiltà, è interessante notare

somiglianze e differenze con quel precedente. Durante la guerra ci fu una ristrutturazione

dell‟economia, ma solo temporanea. La mobilitazione per salvare la civiltà richiede invece una

duratura riorganizzazione economica.

Inizialmente, gli Stati Uniti furono restii a farsi coinvolgere nella guerra e risposero in maniera

massiccia solo dopo essere stati attaccati a Pearl Harbor il 7 dicembre 1941. E grazie a un impegno

senza tentennamenti, il loro intervento permise di ribaltare la situazione bellica, portando le forze

alleate alla vittoria in tre anni e mezzo.

Nel suo discorso sullo Stato dell‟Unione del 6 gennaio 1942, un mese dopo il bombardamento di

Pearl Harbor, il Presidente Franklin. D. Roosevelt annunciò al paese gli obiettivi di produzione

militare. Disse che gli Stati Uniti avrebbero prodotto, ogni anno, 45 mila carri armati, 60 mila

aeroplani, 20 mila cannoni antiaerei e migliaia di navi. E aggiunse: “Fate che nessuno possa dire che

è impossibile”.

Simili livelli di produzione di armamenti non si erano mai visti, e vennero accolti con scetticismo,

ma Roosevelt e membri del suo governo avevano compreso che a livello mondiale il più importante

potere industriale era rappresentato dall‟industria automobilistica statunitense. Perfino durante la

Grande depressione, gli Stati Uniti avevano prodotto 3 milioni di vetture all‟anno.

Roosevelt si incontrò con i leader dell‟industria automobilistica e dichiarò che il paese avrebbe fatto

affidamento su di loro per raggiungere i livelli di produzione militare che erano stati annunciati. Gli

industriali volevano continuare a costruire auto, e intendevano semplicemente aggiungere la

produzione di armamenti a quella esistente, ma non sapevano che la produzione di vetture sarebbe

stata bloccata per legge. Dall‟inizio del 1942 alla fine del 1944, per quasi tre anni, negli Stati Uniti

non furono sostanzialmente prodotte automobili.

In aggiunta al divieto di produzione e vendita di auto private, venne sospesa la costruzione di edifici

residenziali e di autostrade, e fu proibito l‟uso ricreativo dell‟automobile. I beni strategici, come

gomma, carburanti e zucchero furono razionati a partire dal 1942. Il taglio dei consumi privati liberò

risorse materiali vitali per lo sforzo bellico.

Nel 1942 si verificò la più grande crescita industriale nella storia della nazione, diretta

esclusivamente a fini militari. La richiesta di aerei da guerra era enorme (non solo caccia,

bombardieri e aerei da ricognizione, ma anche velivoli adibiti al trasporto truppe e cargo necessari

per combattere una guerra su fronti lontani). Dall‟inizio del 1942 e per tutto il 1944, gli Stati Uniti

superarono di gran lunga l‟obiettivo iniziale di 60 mila aerei, producendo l‟incredibile numero di

229.600 velivoli. E più di 5.000 navi si andarono ad aggiungere alle circa 1.000 che componevano la

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flotta mercantile americana nel 1939.

Nel suo libro No Ordinary Time, Doris Kearns Goodwin ha descritto la conversione di svariate

attività. Una fabbrica di candele per auto iniziò a produrre mitragliatori. Una industria di stufe si

trovò a costruire scialuppe; una di giostre a realizzare affusti per cannoni; una di giocattoli a produrre

bussole; una manifattura di corsetti fu impegnata a realizzare cinture porta-granate e una fabbrica di

flipper cominciò a fornire proiettili perforanti per artiglieria.

In retrospettiva, la velocità della conversione da un‟economia da tempo di pace a un‟economia

bellica è stata stupefacente. Lo sfruttamento della potenza industriale degli Stati Uniti spostò la

bilancia decisamente a favore delle forze alleate, rovesciando le sorti della guerra. La Germania e il

Giappone, già convertite al 100%, non poterono controbattere a questo sforzo. Il primo ministro

inglese, Winston Churchill, spesso citava le parole del suo segretario agli Affari esteri, Sir Edward

Grey: “Gli Stati Uniti sono come una caldaia gigante, una volta che il fuoco è acceso, non v‟è limite

alla potenza che può generare”.

Questa mobilitazione nell‟arco di pochi mesi dimostra che un paese, e in realtà il mondo intero,

possono ristrutturare rapidamente l‟economia, se sono convinto della necessità di farlo. Molte

persone, sebbene non la maggioranza, sono già convinte della necessità di una completa

riconversione economica. Lo scopo di questo libro è di convincerne ancora di più, contribuendo a

spostare la bilancia verso le forze del cambiamento e della speranza.

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10.6 Mobilitarsi per salvare la civiltà

Mobilitarsi per salvare la civiltà significa fondamentalmente ristrutturare l‟economia globale per

riequilibrare il clima, sradicare la povertà, stabilizzare la popolazione, recuperare i sistemi naturali di

supporto dell‟economia e, soprattutto, ridare la speranza. Abbiamo le tecnologie e gli strumenti

economici e finanziari per farlo. Gli Stati Uniti, la più ricca società mai esistita, possiedono le risorse

per guidare questo sforzo.

Riguardo allo sradicamento della povertà, Jeffrey Sachs, dell‟Earth Institute della Columbia

University, riassume bene la situazione: “La tragica ironia di questo momento è che i paesi ricchi

sono così ricchi e i poveri così poveri che basterebbe una frazione dell‟1% del prodotto interno lordo

dei più facoltosi nel corso dei prossimi decenni a rendere possibile ciò che non è mai stato fatto in

tutta la storia dell‟umanità: assicurare che i bisogni fondamentali di salute e istruzione siano

soddisfatti per tutti i bambini poveri del pianeta”.

Possiamo dare alcune stime grossolane degli sforzi necessari per muovere la nostra civiltà del XXI

secolo fuori dal tracciato del declino e del collasso, incamminandoci su un percorso capace di

sostenere la civiltà. Quello che non possiamo calcolare è il costo della mancata adozione del Piano B.

È possibile mettere una targhetta con il prezzo sul collasso della civiltà e sulle innumerevoli

sofferenze e morti che l‟accompagnerebbero?

Come illustrato nel capitolo 7, i fondi aggiuntivi necessari per garantire un‟istruzione primaria ai

paesi in via di sviluppo sono stimati prudenzialmente intorno ai 10 miliardi di dollari all‟anno.

Il finanziamento di analoghi programmi di istruzione di base per adulti, largamente basati sul

volontariato, richiederebbe altri 4 miliardi di dollari annui. Secondo l‟Organizzazione Mondiale della

Sanità, servirebbero 33 miliardi di dollari per fornire l‟assistenza sanitaria di base ai paesi in via di

sviluppo. I fondi addizionali necessari per garantire assistenza sanitaria, assistenza alla salute

riproduttiva e alla pianificazione familiare a tutte le donne dei paesi in via di sviluppo sono stimati in

17 miliardi di dollari annuali.

Colmare il cosiddetto condom gap, con la fornitura di 14,7 miliardi di profilattici necessari per

controllare la diffusione dell‟HIV nei paesi del terzo mondo e nell‟Europa dell‟Est richiede 3

miliardi di dollari, dei quali 440 milioni per i preservativi e 2,5 miliardi per la loro distribuzione e

l‟educazione alla prevenzione. Il costo per l‟avvio di programmi di refezione scolastica nei 44 paesi

più poveri del mondo è di circa 6 miliardi. Negli stessi paesi, circa 4 miliardi di dollari all‟anno

coprirebbero il costo dell‟assistenza ai bambini in età prescolare e alle donne in gravidanza.

Nell‟insieme, il costo per il raggiungimento degli obiettivi relativi ai servizi sociali di base sarebbe

dunque di 77 miliardi di dollari all‟anno. Nota 63.

Ma, come notato nel capitolo 8, qualsiasi intervento per debellare la povertà è destinato al fallimento

se non sarà accompagnato da uno sforzo per il ripristino degli ecosistemi terrestri. Proteggere il

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suolo, riforestare il pianeta, ricostituire le riserve ittiche richiederanno circa 110 miliardi di dollari di

spese aggiuntive annuali. Le attività più costose, la protezione della biodiversità richiederebbe 31

miliardi di dollari, la conservazione del suolo altri 24, assorbirebbero circa la metà delle risorse

necessarie annualmente al recupero del pianeta. Nota 64.

La somma dei costi previsti nel budget del Piano B è di 187 miliardi di dollari all‟anno, all‟incirca un

terzo dell‟attuale bilancio della difesa degli Stati Uniti e il 13% di quello mondiale (tabelle 10.2 e

10.3). In un certo senso è questo il nuovo budget della difesa, quello che affronta le minacce più serie

alla nostra sicurezza. Nota 65.

Fonte: vedi note 63 e 64.

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Fonte: vedi nota 65.

Sfortunatamente, gli Stati Uniti continuano a concentrarsi sul rinforzo delle forze armate, e ignorano

quasi completamente i rischi posti dal deterioramento dell‟ambiente, dalla crescita demografica e

dalla povertà. Il bilancio per la difesa degli Stati Uniti del 2008 è di 607 miliardi di dollari, il 41%

del totale mondiale di 1.464 dollari. Gli altri paesi che spendono maggiormente nel settore militare

sono la Cina, 85 miliardi, la Francia, 66 miliardi, il Regno Unito, 65 miliardi, e la Russia, 59

miliardi.

Alla metà del 2009 i costi dell‟occupazione dell‟Iraq, che è già durata più della Seconda guerra

mondiale, sono arrivati a 642 miliardi di dollari. Gli economisti Joseph Stiglitz e Linda Bilmes hanno

calcolato che se si venissero compresi anche i costi collaterali, come quelli per le cure e il supporto

psicologico di chi ha subito traumi psicologici e andrà assistito per tutta la vita, la guerra potrebbe

arrivare a costare 3.000 miliardi di dollari. L‟impegno bellico in Iraq potrebbe rivelarsi uno dei più

costosi errori della storia non solo per l‟emorragia di risorse economiche, ma anche perché ha

distratto l‟attenzione del mondo dal cambiamento climatico e dalle altre minacce alla civiltà.

È tempo di decisioni. Possiamo scegliere di perseverare nel business as usual, e assistere al declino

del sistema economico seguito dal possibile collasso della nostra civiltà, oppure possiamo decidere di

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muoverci lungo un nuovo percorso, che sia in grado di sostenere il progresso economico. In questa

situazione, il non agire equivale però ad andare verso il declino.

Nessuno può oggi sostenere che non ci sono risorse sufficienti. Possiamo stabilizzare la popolazione

mondiale, sbarazzarci della fame, dell‟analfabetismo, delle malattie e della povertà e possiamo

ripristinare i suoli, le foreste e le aree di pesca. Spostare un sesto dei bilanci militari mondiali al

budget del Piano B sarebbe più che sufficiente a porci su un cammino in grado di sostenere il

progresso. Possiamo costruire una comunità globale capace di soddisfare le necessità elementari di

chiunque, un mondo che permetterà a noi stessi di considerarci uomini veramente civilizzati.

Questa ristrutturazione economica dipende, come abbiamo già detto, da una revisione del sistema

fiscale capace di rendere il mercato corrispondente alla realtà ecologica. I politici dovranno essere

valutati in base alla loro capacità di riformulare il sistema fiscale, spostando le tasse dal lavoro alle

attività distruttive per l‟ambiente: questa riforma fiscale, condotta senza imporre imposte ulteriori, è

la chiave per ristrutturare l‟economia energetica e per stabilizzare il clima.

È facile spendere centinaia di miliardi di dollari in risposta alle minacce del terrorismo, ma la realtà è

che le risorse necessarie a distruggere un‟economia moderna sono assai piccole e che il Department

of Homeland Security, per quanto ben fornito, non potrà che offrire una minima protezione dai

terroristi suicidi. La sfida non è tanto quella di dare al terrorismo una risposta militare ad alto

contenuto tecnologico, ma quella di costruire una società globale equa e sostenibile, che possa

restituire a ognuno la speranza. Uno sforzo di questo tipo sarebbe molto più efficace di qualsiasi

possibile aumento delle spese militari o di qualunque nuovo equipaggiamento bellico, per quanto

avanzato.

Proprio come le forze distruttive possono rinforzarsi le une con le altre, così può avvenire anche per

le forze del progresso. Gli aumenti di efficienza, che riducono la dipendenza dal petrolio, tagliano

anche le emissioni di anidride carbonica e l‟inquinamento atmosferico. Le misure che sradicano la

povertà aiutano a stabilizzare la popolazione. La riforestazione sequestra la CO2, contribuisce al

ripristino degli acquiferi e riduce l‟erosione del suolo. Una volta che avremo operato in modo che un

numero sufficiente di fenomeni vadano nella giusta direzione, questi si rinforzeranno gli uni con gli

altri.

Per rinforzare la speranza nel futuro, il mondo ha bisogno di un deciso passo in avanti nella riduzione

delle emissioni e dalla dipendenza dal petrolio. Se gli Stati Uniti, per esempio, dovessero lanciare un

forte programma di conversione della produzione automobilistica verso vetture ibride plug-in e

completamente elettriche, e contemporaneamente investissero nella costruzione di migliaia di

centrali eoliche, gli americani potrebbero effettuare la maggior parte dei loro spostamenti utilizzando

l‟energia catturata dal vento. Ciò ridurrebbe radicalmente la necessità di petrolio.

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Dato che negli Stati Uniti numerosi stabilimenti per la costruzione delle auto sono attualmente

inattivi, sarebbe relativamente semplice riorganizzarne qualcuno per la produzione di turbine eoliche,

permettendo al paese di utilizzare le sue grandi potenzialità di sfruttamento dell‟energia del vento.

Questa, se comparata alla riconversione industriale della Seconda guerra mondiale, sarebbe

un‟iniziativa modesta, ma aiuterebbe l‟intero pianeta, dimostrando che la ristrutturazione

dell‟economia è realizzabile rapidamente e con profitto, e in una forma che aumenta la sicurezza

nazionale, sia riducendo la dipendenza dagli insicuri approvvigionamenti petroliferi, sia

scongiurando cambiamenti climatici distruttivi.

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10.7 Cosa possiamo fare tutti noi

Una delle domande che mi viene rivolta più di frequente è: cosa posso fare io? Le persone spesso si

aspettano da me che gli parli di cambiamenti nello stile di vita, di riciclare i giornali o di sostituire le

lampadine. Queste cose sono essenziali, ma non sono assolutamente sufficienti. Oggi abbiamo

bisogno di ristrutturare l‟economia globale, e dobbiamo farlo molto velocemente. Ciò significa

diventare politicamente attivi, impegnandosi affinché avvengano i cambiamenti che sono necessari.

Salvare la civiltà non è uno sport da spettatori.

Informatevi, leggete, studiate le varie questioni. Se volete sapere cosa è accaduto alle antiche civiltà

che si trovarono coinvolte in problematiche di tipo ambientale, leggete Collasso di Jared Diamond, o

Breve storia del progresso di Ronald Wright, o The Collapse of Complex Societies di Joseph Tainter.

Se avete trovato utile questo libro condividetelo con altre persone. Può essere scaricato gratuitamente

dal sito Web dell‟Istituto Earthpolicy.org.

Scegliete un argomento che è significativo per voi, per esempio la riforma del sistema fiscale, la

proibizione delle lampadine inefficienti, lo smantellamento delle centrali a carbone, oppure lavorare

per far diventare le strade della vostra comunità a misura di pedone e ciclista, o unitevi a un gruppo

che sta lavorando per stabilizzare la popolazione mondiale. Cosa potrebbe esserci di più eccitante e

appagante che essere coinvolti direttamente nel tentativo di salvare la civiltà?

Potreste voler procedere da soli, ma potreste anche desiderare di organizzare un gruppo di persone

che condividono le vostre idee. Potete cominciare parlando con gli altri per definire una o più

questioni su cui lavorare e comunicare con i vostri rappresentanti politici. A parte la questione

particolare su cui deciderete di lavorare, ci sono due sfide politiche che si accavallano: ristrutturare le

tasse e riordinare le priorità fiscali.

Scrivete o mandate e-mail ai vostri rappresentanti relativamente alla necessità di riformare il fisco

riducendo le tasse sul reddito da lavoro e alzando quelle ambientali. Ricordategli che lasciare i costi

ambientali fuori dai libri contabili è un modo di procedere da “Schema Ponzi”: nel breve termine può

offrire un‟apparenza di prosperità, ma a lungo andare porta al collasso.

Fate in modo che i vostri rappresentanti politici comprendano che un mondo che spende quasi 1.500

miliardi di dollari l‟anno in spese militari è semplicemente fuori sincronia con la realtà, poiché non

sta rispondendo alle minacce più serie per il nostro futuro. Chiedetegli se 187 miliardi di dollari

annui, il budget calcolato nel Piano B, sia una spesa irragionevole per salvare la civiltà. Chiedetegli

se dirottare un ottavo del budget globale degli armamenti per salvare la nostra civiltà sia troppo

costoso.

Ricordategli di come gli Stati Uniti si sono mobilitati durante la Seconda guerra mondiale.

E, sopratutto, non sottostimate quello che potete fare. L‟antropologa Margaret Mead una volta ha

detto: “Non dubitate mai che un piccolo gruppo di cittadini preoccupati possa cambiare il mondo. In

realtà è l‟unica cosa che sia mai accaduta”.

In aggiunta, non fa male sottolineare i vostri sforzi politici con cambiamenti dello stile di vita. Ma

ricordatevi sempre che essi devono affiancarsi alla vostra azione politica, non sostituirla. Il

pianificatore urbano Richard Register racconta di aver incontrato un amico attivista in bicicletta con

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una maglietta che recitava “ho appena perso una tonnellata e mezzo. Chiedetemi come”. Quando

glielo chiedevano rispondeva che aveva semplicemente venduto la macchina.

Rimpiazzare una macchina che pesa 1.700 chilogrammi con una bicicletta che ne pesa 12

ovviamente riduce fortemente il consumo di energia, ma abbatte l‟uso di materie prime del 99%,

facendo risparmiare ancora più energia in forma indiretta.

I cambiamenti di dieta fanno anch‟essi una grande differenza. Sappiamo che la differenza di

impronta ecologica fra una dieta ricca in carne e una vegetariana è all‟incirca la stessa che passa tra

guidare un SUV assetato di carburante e una ibrida/elettrica altamente efficiente. Quelli di noi che

hanno una dieta ricca di prodotti animali ricchi di grassi possono fare un favore sia a se stessi sia alla

civiltà scendendo lungo la catena alimentare.

Oltre a questi cambiamenti di stile, non dolorosi e potenzialmente benefici per la nostra salute,

dobbiamo anche pensare ad affrontare qualche sacrificio. Durante la Seconda guerra mondiale

milioni di uomini misero a repentaglio la propria vita. Per fortuna, noi non abbiamo bisogno di

arrivare a tanto per salvare la civiltà. Ci viene chiesto solo di essere politicamente attivi e di cambiare

le nostre abitudini. All‟inizio della Seconda guerra mondiale il presidente Roosevelt chiedeva spesso

ai suoi concittadini di cambiare il loro stile di vita. Che contributo personale possiamo dare oggi in

termini di tempo, denaro o riduzione dei consumi per salvare la nostra civiltà?

La scelta è nostra, vostra e mia. Possiamo continuare con il business as usual e assistere impotenti a

una economia che continua a fagocitare i sistemi naturali che la supportano fino a distruggere se

stessa o possiamo adottare il Piano B ed essere la generazione che inverte la direzione, muovendo il

mondo verso un percorso di progresso sostenibile. La scelta spetta alla nostra generazione, ma

influenzerà la vita di tutte quelle che verranno sulla Terra nel futuro.