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INTRODUZIONE Nel marzo del 1996, la rivistaOutside mi inviò in Nepal per partecipare a una spedizione guidata che doveva scalare il monte Everest e per scrivere un servizio sull'impresa. Ero uno degli otto clienti del gruppo condotto da Rob Hall, una nota guida neozelandese. Il 10 maggio raggiunsi la cima della montagna, ma la conquista della vetta richiese un prezzo terribile. Fra i miei cinque compagni di spedizione che riuscirono ad arrivare in cima, quattro, compreso Hall, perirono nel corso di una tormenta insidiosa che ci investì senza preavviso mentre eravamo ancora nella parte alta della montagna. Ero appena riuscito a ridiscendere al campo base, quando appresi che avevano trovato la morte anche nove scalatori che facevano parte di altre quattro spedizioni, mentre altri tre sarebbero periti prima della fine del mese. Quell'esperienza mi lasciò profondamente scosso, al punto che la stesura dell'articolo si rivelò un'impresa difficile. Comunque, cinque settimane dopo il mio ritorno dal Nepal consegnaialla rivista l'articolo, che fu pubblicato nel numero di settembre. Dopo averlo completato, tentai di cancellare l’Everest dalla mia mente per riprendere la vita di sempre, ma ciò si rivelò impossibile. Immerso in una fitta nebbia di emozioni confuse, continuavo a cercare di ricavare un senso dalle vicende di quella tragica spedizione sull'Everest, rimuginando con intensità ossessiva sulle circostanze in cui erano morti i miei compagni. L'articolo di Outside era accurato, almeno per quanto mi era possibile data la situazione, ma il termine di consegna era stato ferreo e il susseguirsi degli avvenimenti tanto complesso da rendere frustrante il tentativo di ricostruirlo, senza contare che i ricordi dei superstiti erano distorti dallo sfinimento, dalla carenza di ossigeno e dallo shock. A un certo punto, durante la fase di documentazione, chiesi ad altre tre persone di riferire un incidente al quale avevamo assistito tutti e quattro in vetta alla montagna, e non riuscimmo a raggiungere un accordo neppure su fatti essenziali quali l'ora, le parole che erano state pronunciate e addirittura l'identità stessa dei presenti. Pochi giorni dopo che l'articolo su Outside era stato dato alle stampe, scoprii che alcuni dei dettagli che avevo riferito erano errati. Per lo più si trattava di piccole inesattezze del tipo di quelle che s'insinuano inevitabilmente negli articoli di cronaca, ma uno degli errori ,non era affatto insignificante, ed ebbe un effetto devastante sugli amici e sui familiari di una delle vittime. Quasi altrettanto sconcertante degli errori veri e propri contenuti nell’articolo era la mole di materiale che era stato necessario omettere per motivi di spazio. Mark Bryant, il direttore di Outside, e Larry Burke, l'editore, mi avevano concesso uno spazio eccezionalmente ampio per raccontare la storia, fino a diciassettemila parole, vale a dire almeno quattro o cinque volte l'estensione di un normale articolo di periodico. Anche così, mi sembrava che il mio racconto avesse ricevuto tagli troppo drastici per rendere giustizia a quella tragedia. La scalata dell'Everest aveva scosso la mia vita fin nel midollo, e per me assunse un'enorme importanza il dovere di registrare quegli eventi con tutti i dettagli, senza sentirmi limitato da un numero prestabilito di colonne. Questo libro è il frutto di quell'impulso coatto. La fragilità della mente umana ad alta quota ha reso problematico il lavoro di ricerca. Per non affidarmi troppo alle mie impressioni personali, ho intervistato a lungo la maggior parte dei protagonisti e in più occasioni. Quando è stato possibile, ho controllato i dettagli consultando i brogliacci della radio compilati dal personale del campo base, dove non era così difficile pensare lucidamente. I lettori che già conoscono l'articolo apparso su Outside potranno notare alcune discrepanze fra certi particolari indicati nella rivista, soprattutto in merito ai tempi, e quelli riportati nel libro; la revisione riflette le nuove Generated by ABC Amber LIT Converter, http://www.processtext.com/abclit.html

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INTRODUZIONE

 

        Nel marzo del 1996, la rivistaOutside mi inviò in Nepal per partecipare a una spedizione guidatache doveva scalare il monte Everest e per scrivere un servizio sull'impresa. Ero uno degli otto clienti delgruppo condotto da Rob Hall, una nota guida neozelandese. Il 10 maggio raggiunsi la cima dellamontagna, ma la conquista della vetta richiese un prezzo terribile. Fra i miei cinque compagni dispedizione che riuscirono ad arrivare in cima, quattro, compreso Hall, perirono nel corso di una tormentainsidiosa che ci investì senza preavviso mentre eravamo ancora nella parte alta della montagna. Eroappena riuscito a ridiscendere al campo base, quando appresi che avevano trovato la morte anche novescalatori che facevano parte

di altre quattro spedizioni, mentre altri tre sarebbero periti prima della fine del mese.

        Quell'esperienza mi lasciò profondamente scosso, al punto che la stesura dell'articolo si rivelòun'impresa difficile. Comunque, cinque settimane dopo il mio ritorno dal Nepal consegnaialla rivistal'articolo, che fu pubblicato nel numero di settembre. Dopo averlo completato, tentai di cancellarel’Everest dalla mia mente per riprendere la vita di sempre, ma ciò si rivelò impossibile. Immerso in unafitta nebbia di emozioni confuse, continuavo a cercare di ricavare un senso dalle vicende di quella tragicaspedizione sull'Everest, rimuginando con intensità ossessiva sulle circostanze in cui erano morti i mieicompagni.

        L'articolo di Outside era accurato, almeno per quanto mi era possibile data la situazione, ma iltermine di consegna era stato ferreo e il susseguirsi degli avvenimenti tanto complesso da renderefrustrante il tentativo di ricostruirlo, senza contare che i ricordi dei superstiti erano distorti dallosfinimento, dalla carenza di ossigeno e dallo shock. A un certo punto, durante la fase di documentazione,chiesi ad altre tre persone di riferire un incidente al quale avevamo assistito tutti e quattro in vetta allamontagna, e non riuscimmo a raggiungere un accordo neppure su fatti essenziali quali l'ora, le parole cheerano state pronunciate e addirittura l'identità stessa dei presenti. Pochi giorni dopo che l'articolo suOutside era stato dato alle stampe, scoprii che alcuni dei dettagli che avevo riferito erano errati. Per lopiù si trattava di piccole inesattezze del tipo di quelle che s'insinuano inevitabilmente negli articoli dicronaca, ma uno degli errori ,non era affatto insignificante, ed ebbe un effetto devastante sugli amici e suifamiliari di una delle vittime.

        Quasi altrettanto sconcertante degli errori veri e propri contenuti nell’articolo era la mole dimateriale che era stato necessario omettere per motivi di spazio. Mark Bryant, il direttore di Outside, eLarry Burke, l'editore, mi avevano concesso uno spazio eccezionalmente ampio per raccontare la storia,fino a diciassettemila parole, vale a dire almeno quattro o cinque volte l'estensione di un normale articolodi periodico. Anche così, mi sembrava che il mio racconto avesse ricevuto tagli troppo drastici perrendere giustizia a quella tragedia. La scalata dell'Everest aveva scosso la mia vita fin nel midollo, e perme assunse un'enorme importanza il dovere di registrare quegli eventi con tutti i dettagli, senza sentirmilimitato da un numero prestabilito di colonne. Questo libro è il frutto di quell'impulso coatto.

        La fragilità della mente umana ad alta quota ha reso problematico il lavoro di ricerca. Per nonaffidarmi troppo alle mie impressioni personali, ho intervistato a lungo la maggior parte dei protagonisti ein più occasioni. Quando è stato possibile, ho controllato i dettagli consultando i brogliacci della radiocompilati dal personale del campo base, dove non era così difficile pensare lucidamente. I lettori che giàconoscono l'articolo apparso su Outside potranno notare alcune discrepanze fra certi particolari indicatinella rivista, soprattutto in merito ai tempi, e quelli riportati nel libro; la revisione riflette le nuove

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informazioni venute alla luce dopo la pubblicazione del servizio sul periodico.

        Alcuni autori e consulenti editoriali per i quali nutro un grande rispetto mi hanno sconsigliato discrivere il libro cosi in fretta, invitandomi ad aspettare due o tre anni per mettere una certa distanza fra mee la spedizione, in modo da acquistare il senso della prospettiva. Il consiglio era valido, ma alla fine l'hoignorato, soprattutto perchè quello che era accaduto sulla montagna mi stava rodendo le viscere. Hopensato che scrivere il libro potesse consentirmi di cancellare l'Everest dalla mia vita.

        Naturalmente non e stato così. Inoltre concordo sul fatto che spesso i lettori restano insoddisfattiquando un autore scrive per compiere un atto catartico, come ho fatto io in questo caso; ma speravo diottenere un risultato positivo mettendo a nudo la mia anima subito dopo la sciagura, ancora in preda altumulto delle passioni. Volevo che il mio resoconto avesse un tono crudo e spietato di onestà, che forsecorreva il rischio di sbiadire col passare del tempo e con l'attutirsi della sofferenza.

        Alcuni di coloro che mi hanno sconsigliato di scrivere in fretta erano fra coloro che avevanocercato di dissuadermi dal tentare la scalata dell'Everest. C'erano parecchie ragioni per non andare lassù,ma tentare di scalare l'Everest e un atto irrazionale di per se, un trionfo del desiderio sul buonsenso.Chiunque prenda in seria considerazione questa idea si colloca quasi per definizione al di fuori dellapossibilità di una valutazione razionale.

        La verità pura e semplice e che sono salito sull'Everest pur sapendo di sbagliare, e così facendo hocontribuito alla morte di tante brave persone, cosa che probabilmente mi peserà sulla coscienza permolto, moltissimo tempo.

 

JON KRAKAUER

Seattle, novembre 1996

DRAMATIS PERSONÆ

 

 

Monte Everest, primavera 1996[1]

 

Spedizione guidata della Adventure Consultants

 

 

Rob Hall                                                          Nuova Zelanda, organizzatore e

prima guida

Mike Groom                                                       Australia, guida

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Andy «Harold» Harris                                         Nuova Zelanda, guida

Helen Wilton                                                      Nuova Zelanda, responsabile del

campo base

Caroline Mackenzie                                           Nuova Zelanda, medico del

campo base

Ang Tshering Sherpa                                         Nepal, sirdar del campo base

Ang Dorje Sherpa                                              Nepal, sirdar scalatore

Lhakpa Chhiri Sherpa                                    Nepal, sherpa scalatore

Kami Sherpa                                                      Nepal, sherpa scalatore

Tenzing Sherpa                                               Nepal, sherpa scalatore

Arita Sherpa                                                      Nepal, sherpa scalatore

Ngawang Norbu Sherpa                                     Nepal, sherpa scalatore

Chuldum Sherpa                                                      Nepal, sherpa scalatore

Chhongba Sherpa                                             Nepal, cuoco del campo base

Pemba Sherpa                                                 Nepal, sherpa del campo base

Tendi Sherpa                                                     Nepal, sguattero

Doug Hansen                                                     USA, cliente

Seaborn Beck Weathers                                   USA, cliente e medico

Yasuko Namba                                                Giappone, cliente

Stuart Hutchison                                                     Canada, cliente

Frank Fischbeck                                             Hong Kong, cliente

Lou Kasischke                                                USA, cliente

John Taske                                                        Australia, cliente e medico

Jon Krakauer                                                    USA, cliente e giornalista

Susan Allen                                                      Australia, trekker

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Nancy Hutchison                                                      Canada, trekker

 

Spedizione guidata della Mountain Madness

 

Scott Fischer                                                      USA, capo e guida principale

Anatoli Boukreev                                                      Russia, guida

Neal Beidleman                                              USA, guida

Ingrid Hunt                                                        USA, responsabile del campo

base e medico della spedizione

Lopsang Jangbu Sherpa                                    Nepal, sirdar scalatore

Ngima Kale Sherpa                                            Nepal, sirdar del campo base

Ngawang Topche Sherpa                                   Nepal, sirdar scalatore

Tashi Tshering Sherpa                                    Nepal, sirdar scalatore

Ngawang Dorje Sherpa                                   Nepal, sirdar scalatore

Ngawang Sya Kya Sherpa                                  Nepal, sirdar scalatore

Ngawang Tendi Sherpa                                              Nepal, sirdar scalatore

Tendi Sherpa                                                     Nepal, sirdar scalatore

«Big» Pemba Sherpa                                           Nepal, sirdar scalatore

Pemba Sherpa                                                  Nepal, sguattero del campo base

Sandy Hill Pittman                                            USA, cliente

Charlotte Fox                                                     USA, cliente

Tim Madsen                                                       USA, cliente

Pete Schoening                                               USA, cliente

Klev Schoening                                               USA, cliente

Lene Gammelgaard                                           Danimarca, cliente

Martin Adams                                                 USA, cliente

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Dale Kruse                                                               USA, cliente e medico

Jane Bromet                                                      USA, giornalista

 

Spedizione della McGillivray Freeman IMAX/IWERKS

 

David Breashears USA,                                            organizzatore e regista

cinematografico

Jamling Norgay Sherpa                                            India, vice capo della spedizione

e attore cinematografico

Ed Viesturs                                                        USA, scalatore e attore

cinematografico

Araceli Segarra                                                 Spagna, scalatore e attore

cinematografico

Sumiyo Tsuzuki                                               Giappone, scalatore e attore

cinematografico

Robert Schauer                                                Austria, scalatore e uomo di

cinema

Paula Barton Viesturs                                     USA, responsabile del campo

base

Audrey Salkeld                                                 Gran Bretagna, giornalista

Liz Cohen                                                        USA, produttore cinematografico

Liesl Clark                                                       USA, produttore cinematografico

e scrittore

 

 

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Spedizione nazionale di Taiwan

 

 

«Makalu» Gau Ming-Ho                                            Taiwan, capo della spedizione

Chen Yu-Nan                                                     Taiwan, scalatore

Kami Dorje Sherpa                                            Nepal, sirdar scalatore

Ngima Gombu Sherpa                                    Nepal, sherpa scalatore

Mingma Tshering Sherpa                                 Nepal, sherpa scalatore

 

 

 

Spedizione del Sunday Times di Johannesburg

 

Ian Woodall                                                        Gran Bretagna, capo della

spedizione

Bruce Herrod                                                     Gran Bretagna, vice e fotografo

Cathy O'Dowd                                                 Sudafrica, alpinista

Deshun Deysel                                               Sudafrica, alpinista

Edmund February                                             Sudafrica, alpinista

Andy de Klerk                                                 Sudafrica, alpinista

Andy Hackland                                               Sudafrica, alpinista

Ken Woodall                                                      Sudafrica, alpinista

Tierry Renard                                                    Francia, alpinista

Ken Owen                                                       Sudafrica, sponsor e trekker

Philip Woodall                                                 Gran Bretagna, responsabile del

campo base

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Alexandrine Gaudin                                          Francia, assistente

amministrativa

Charlotte Noble                                               Sudafrica, medico della

spedizione

Ken Vernon                                                       Sudafrica, giornalista

Richard Shorey                                               Sudafrica, fotografo

Patrick Conroy                                                Sudafrica, operatore radio

Ang Dorje Sherpa                                              Nepal, sirdar

Pemba Tendi Sherpa                                         Nepal, sherpa scalatore

Jangbu Sherpa                                               Nepal, sherpa scalatore

Ang Babu Sherpa                                              Nepal, sherpa scalatore

Dawa Sherpa                                                     Nepal, sherpa scalatore

 

Spedizione guidata della Alpine Ascents International

 

Todd Burleson                                                USA, organizzatore e guida

Pete Athans                                                       USA, guida

Jim Williams                                                      USA, guida

Ken Kamler                                                       USA, cliente e medico della

spedizione

Charles Corfield                                              USA, cliente

Becky Johnston                                              USA, trekker e sceneggiatrice

 

Spedizione dell'International Commercial

 

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Mal Duff                                                          Gran Bretagna, organizzatore

Mike Trueman                                                Hong Kong, vice

Michael Burns                                                Gran Bretagna, responsabile del

campo base

Henrik Jessen Hansen                                   Danimarca, medico della

spedizione

Veikka Gustafsson                                             Finlandia, alpinista

Kim Sejberg                                                       Danimarca, alpinista

Ginge Fullen                                                      Gran Bretagna, alpinista

Jaakko Kurvinen                                                      Finlandia, alpinista

Euan Duncan                                                  Gran Bretagna, alpinista

 

Spedizione della Himalayan Guides Commercial

 

Henry Todd                                                        Gran Bretagna, organizzatore

Mark Pfetzer                                                      USA, scalatore

Ray Door                                                        USA, scalatore

 

Spedizione indipendente svedese

 

Goran Kropp                                                      Svezia, scalatore

Frederic Bloomquist                                          Svezia, regista cinematografico

Ang Rita Sherpa                                             Nepal, sherpa scalatore e

operatore cinematografico

 

Spedizione indipendente norvegese

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Petter Neby                                                        Norvegia, scalatore

 

 

Spedizione guidata Nuova Zelanda Malaysia

 

 

Guy Cotter                                                      Nuova Zelanda, organizzatore

e guida

Dave Hiddleston                                              Nuova Zelanda, organizzatore

e guida

Chris Jillet                                                               Nuova Zelanda, organizzatore

e guida

 

Spedizione dell'American Commercial Pumori/Lhotse

 

 

Dan Mazur                                                               USA, organizzatore

Jonathan Pratt                                                Gran Bretagna, co-organizzatore

Scott Darsney                                                 USA, alpinista e fotografo

Chantal Mauduit                                                      Francia, alpinista

Stephen Koch                                                  USA, alpinista e appassionato di

snowboard

Brent Bishop                                                     USA, alpinista

Diane Taliaferro                                               USA, alpinista

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Dave Sharman                                                   Gran Bretagna, alpinista

Tim Horvath                                                       USA, alpinista

Dana Lynge                                                       USA, alpinista

Martha Lynge                                                    USA, alpinista

 

Spedizione della Nepali Everest Cleaning

 

Sonam Gyalchhen Sherpa                                 Nepal, organizzatore

 

Clinica della Himalayan Rescue Association

(nel villaggio di Pheriche)

 

Jim Litch                                                          USA, medico

Larry Silver                                                        USA, medico

Laura Ziemer                                                     USA, membro del personale

 

Spedizione della polizia di confine indo-tibetana dell'Everest

(salita dal versante tibetano della montagna)

 

Mohindor Singh                                              India, organizzatore

Harbhajan Singh                                             India, vice e scalatore

Tsewang SmanIa                                              India, scalatore

Tsewang Paljor                                                 India, scalatore

Dorje Morup                                                      India, scalatore

Hira Ram                                                         India, scalatore

Tashi Ram                                                       India, scalatore

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Sange Sherpa                                                  India, sherpa scalatore

Nadra Sherpa                                                  India, sherpa scalatore

Koshing Sherpa                                               India, sherpa scalatore

 

 

Spedizione nipponica Fukuoka

(salita dal versante tibetano della montagna)

 

KOJl Yada                                                       Giappone, organizzatore

Hiroshi Hanada                                               Giappone, scalatore

Eisuke Shigekawa                                           Giappone, scalatore

Pasang Tshering Sherpa                                    Nepal, sherpa scalatore

Pasang Kami Sherpa                                         Nepal, sherpa scalatore

Any Gyalzen                                                      Nepal, sherpa scalatore

 

Si direbbe quasi che intorno alta parte superiore di quelle grandi cime sia stata tracciata una linea oltre laquale nessun uomo riesce a spingersi. La verità, naturalmente, è che ad altitudini di 7600 metri e oltre glieffetti della bassa pressione atmosferica sul corpo umano sono così intensi che diventa impossibilecompiere delle imprese alpinistiche di un certo rilievo e persino le conseguenze di un modesto temporalepossono essere letali, che solo le condizioni ideali del tempo e della neve offrono una sia pur minimaprobabilità di successo e che nell'ultimo tratto della scalata nessuna spedizione è in grado di dettare le suecondizioni...

        No, non è strano che l'Everest non abbia ceduto ai primi tentativi di conquista; anzi, sarebbe statomolto sorprendente e non poco triste se lo avesse fatto, perchè non è questo il volto che ci mostrano legrandi montagne. Forse eravamo diventati un poco arroganti con la nostra nuova tecnica dei ramponi daghiaccio e degli scarponi di gomma, con la nostra era della facile conquista meccanica. Avevamodimenticato che è sempre la montagna ad avere in mano la carta vincente, a concedere il successo solo asuo tempo. E perchè mai, altrimenti, l'alpinismo conserverebbe ancora il suo profondo fascino?

 

                                                                          ERIC SHIPTON

                                                                          Upon That Mountain(1938)

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A cavalcioni del tetto del mondo, con un piede in Cina e l'altro in Nepal, ripulii la maschera dell'ossigenodal ghiaccio che vi si era condensato sopra e, sollevando una spalla per ripararmi dal vento, abbassai losguardo inebetito sull'immensa distesa del Tibet. A un certo livello, con distacco, comprendevo che lacurvatura dell'orizzonte terrestre che s'inarcava ai miei piedi era uno spettacolo eccezionale. Avevofantasticato tanto, per mesi e mesi, su quel momento e sull'ondata di emozioni che lo avrebbeaccompagnato; e ora che finalmente ero lì, in piedi sulla cima del monte Everest, semplicemente nonriuscivo a radunare energie sufficienti per concentrarmi.

Erano le prime ore del pomeriggio dellO maggio 1996 e non dormivo da cinquantasette ore. L'unicocibo che ero riuscito a mandare giù nei tre giorni precedenti era una ciotola di minestra e una manciata diM&M'S. Settimane e settimane di tosse violenta mi avevano lasciato lo strascico di due costole incrinate,che trasformavano in unatortuta il semplice atto di respirare. A ottomila metri di quota nella troposfera, laquantità di ossigeno che giungeva al mio cervello era così ridotta che la mia capacità mentale eradiventata quella di un bambino ritardato. In quelle circostanze, ero incapace di provare granche, trannefreddo e stanchezza.

Ero arrivato sulla cima qualche minuto dopo Anatoli Boukreev, una guida russa che lavorava per unaspedizione commerciale americana, e poco prima di Andy Harris, una guida della squadra neozelandesea cui appartenevo. Mentre conoscevo appena Boukreev, avevo finito per conoscere bene e apprezzareHarris durante le sei settimane precedenti. Scattai in fretta quattro fotografie a Harrise Boukreev in poseeroiche sulla vetta, poi mi voltai per iniziare la discesa. L'orologio indicava l'una e diciassette delpomeriggio. Tutto compreso, avevo trascorso meno di cinque minuti sul tetto del mondo. Un istantedopo mi fermai per scattare un'altra fotografia, questa volta guardando in basso lungo la Cresta Sud-Est,la via da cui eravamo saliti. Puntando l'obiettivo su un paio di scalatori che si avvicinavano alla vetta, notaiqualcosa che fino a quel momento era sfuggito alla mia attenzione. A sud, là dove il cielo fino a un'oraprima era perfettamente limpido, una coltre di nubi nascondeva ora il Pumori, l’Ama Dablam e tutte lealtre vette minori che circondano l'Everest.

In seguito - dopo che erano stati localizzati sei cadaveri, dopo che erano state sospese le ricerche di altridue scalatori, dopo che i chirurghi avevano amputato la mano destra del mio compagno di squadra BeckWeathers, attaccata dalla cancrena - tutti si sarebbero chiesti come mai, quando le condizionimeteorologiche avevano cominciato a peggiorare, gli alpinisti sulla parte superiore del tracciato nonavessero badato a quei segnali. Per quale motivo guide veterane dell'Himalaya avevano continuato asalire, sospingendo in avanti una banda di dilettanti relativamente inesperti, ciascuno dei quali avevapagato fino a sessantacinquemila dollari per essere portato sano e salvo in cima all’Everest, cacciandoli inuna trappola mortale così evidente?

Nessuno può parlare a nome delle guide dei due gruppi in questione, perchè sono morte entrambe; maio posso testimoniare che nulla di ciò che avevo visto nelle prime ore del pomeriggio di quel 10 maggiosuggeriva che si stesse addensando una tormenta micidiale. Alla mia mente deprivata di ossigeno, lenuvole che aleggiavano lungo la grande vallata di ghiaccio nota come Western Cwm o Cwm occidentale[2]sembravano innocue, soffici e inconsistenti. Sfavillanti al sole intenso di mezzogiorno, somigliavano intutto e per tutto a quegli innocui sbuffi di condensa causati dalla convezione che s'innalzavano dalla vallequasi tutti i pomeriggi.

Mentre cominciavo la discesa ero molto in ansia, ma la mia preoccupazione aveva poco a che fare conle condizioni atmosferiche: il controllo della valvola della mia bombola di ossigeno mi aveva rivelato cheera quasi vuota e dovevo scendere al più presto.

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Il tratto superiore della Cresta Sud-Est dell'Everest è una sottile pinna di roccia e neve battuta dal vento,percorsa da una massiccia cornice, che serpeggia per quattrocento metri tra la sommità e un'anticima piùin basso nota col nome di Cima Sud. Percorrere quella stretta cresta non presenta gravi problemi tecnici,ma si tratta di un percorso pericolosamente esposto. Dopo aver abbandonato la vetta, quindici minuti dicauta discesa sul ciglio di un abisso profondo oltre duemila metri mi consentirono di raggiungere ilfamigerato Hillary Step, un risalto piuttosto marcato nella cresta che richiede qualche manovra tecnica.

Mentre mi agganciavo a una corda fissa, preparandomi a calarmi dallo spuntone di roccia con la tecnicadella corda doppia, notai uno spettacolo allarmante.

Una decina di metri più in basso, c'era oltre una dozzina di persone in fila alla base del risalto. Trescalatori si stavano già issando in cima alla corda lungo la quale mi preparavo a scendere. L’unica sceltache mi restava era sganciarmi dalla corda di sicurezza comune e farmi da parte.

Quell'ingorgo comprendeva scalatori che appartenevano a tre spedizioni diverse: la squadra della qualefacevo parte io, cioè un gruppo di clienti paganti sotto il comando della celebre guida neozelandese RobHall; un altro gruppo organizzato, guidato dall'americano Scott Fischer, e una spedizione noncommerciale di Taiwan. Salendo a passo di lumaca, l'andatura normale al di sopra deisettemilanovecento metri, i numerosi scalatori risalirono uno alla volta lo Hillary Step, mentre io aspettavoin ansia.

Ben presto Harris, che aveva lasciato la vetta poco dopo di me, mi raggiunse. Desideroso di conservaretutto l'ossigeno che mi restava nella bombola, lo pregai di infilare la mano nel mio zaino per chiudere lavalvola del regolatore, e lui obbedì. Nei dieci minuti seguenti mi sentii straordinariamente bene; la testa misi era schiarita e avevo l'impressione di essere meno stanco di quando avevo respirato l'ossigeno dellabombola. Poi all'improvviso mi parve di soffocare; la vista mi si oscurò e fui assalito dalle vertigini. Erosul punto di perdere i sensi.

Invece di spegnere la valvola dell'ossigeno, Harris, anch'egli danneggiato dallo stato di ipossia, aveva pererrore aperto la valvola al massimo, vuotando del tutto la bombola. Avevo appena sprecato l'ultimariserva di ossigeno che mi restava. C'era, un'altra bombola che mi aspettava alla Cima Sud, cento metripiù in basso, ma per arrivarci sarei dovuto scendere attraversando il tratto di terreno più scoperto di tuttoil percorso senza il beneficio dell'ossigeno supplementare.E prima dovevo aspettare che la folla sidisperdesse. Mi tolsi la maschera ormai inutile e, piantando la piccozza nel fianco ghiacciato dellamontagna, mi accovacciai sulla cresta. Mentre scambiavo banali congratulazioni con gli scalatori che misfilavano davanti, dentro di me ero frenetico: «Presto, fate presto!» pregavo in silenzio. «Mentre voi altrivi gingillate quassù, io perdo neuroni a palate!»

Quasi tutti quelli che mi passavano davanti appartenevano al gruppo di Fischer, ma verso la finecomparvero due dei miei compagni, Rob Hall e Yasuko Namba. Timida e riservata, la quarantasettenneNamba sarebbe diventata fra quaranta minuti la donna più vecchia che avesse mai conquistato l'Everest ela seconda giapponese che avesse scalato le cime più alte di tutti i continenti, le cosiddette Sette Sorelle.Benchè pesasse appena quarantacinque chili, le sue proporzioni fragili nascondevano una forza di volontàformidabile; era impressionante vedere come Yasuko fosse stata sospinta verso la vetta dall'incrollabileintensità del suo desiderio.

Ancora più tardi, arrivò in cima allo Step anche Doug Hansen, un altro membro della nostra spedizione.Doug era un impiegato postale proveniente da un sobborgo di Seattle, che era diventato il mio miglioreamico su quella montagna. “Ce l'hai fatta!» gridai nel vento, cercando di mostrarmi più entusiasta diquanto fossi. Doug, esausto, mormorò qualcosa che non afferrai dietro la maschera a ossigeno, mi strinse

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la mano con un gesto fiacco e riprese ad avanzare faticosamente.

In fondo alla corda c’era Scott Fischer, che conoscevo perchè vivevamo entrambi a Seattle. La forza el'energia di Fischer erano leggendarie, tanto che nel 1994 aveva scalato l'Everest senza usare le bombolea ossigeno; per questo rimasi sorpreso vedendo che si muoveva al rallentatore e accorgendomi di quantofosse sfinito quando si scostò la maschera per salutarmi. “Bruuuuuce!» ansimò con allegria forzata,scambiando con me il suo caratteristico saluto fanciullesco. Quando gli domandai come stava, Fischerinsistette che si sentiva magnificamente. «Solo che batto un po’ la fiacca, non so perchè. Niente diparticolare» Ora che lo Hillary Step era finalmente libero, mi agganciai alla corda color arancio, aggirai infretta Fischer mentre si chinava sulla piccozza e mi calai oltre il ciglio della roccia con la corda doppia.

Quando raggiunsi la Cima Sud erano le tre appena passate. Ormai tentacoli di nebbia si allungavanooltre la cima del Lhotse, alto 8516 metri, lambendo la piramide superiore dell'Everest. Il tempo nonaveva più un aspetto così benevolo. Afferrai una bombola a ossigeno nuova, vi applicai il regolatore e miaffrettai a scendere, addentrandomi nella nube che si addensava. Pochi istanti dopo essermi calato dallaCima Sud, cominciò a nevicare leggermente e la visibilità si ridusse quasi a zero.

Un centinaio di metri più in alto, dove la cima era ancora inondata dalla luce intensa del sole sotto uncielo color cobalto senza un'ombra, i miei compagni indugiavano per immortalare il loro arrivo sul puntopiù alto del pianeta, svolgendo bandiere e scattando foto, sprecando secondi preziosi. Nessuno di loroimmaginava quale terribile prova si stesse avvicinando; nessuno sospettava che alla fine di quella lungagiornata ogni minuto sarebbe stato vitale.

Durante l’inverno, mentre ero lontano dalle montagne, m'imbattei nella foto sfocata dell'Everestpubblicata nel volume di Richard HalliburtonBook of Marvels. Era una ben misera riproduzione, in cuile cime irregolari si stagliavano bianche sullo sfondo di un cielo annerito e graffiato in modogrottesco. L'Everest, in secondo piano dietro le altre vette, non sembrava neppure la montagnapiù alta, ma questo non aveva importanza. Lo era; lo affermava la leggenda. I sogni erano lachiave dell'immagine, che permetteva a un ragazzo di entrarvi, di fermarsi sulla cresta dellaparete sferzata dai venti, di salire verso la vetta, ormai non più tanto lontana...

Fu uno di quei sogni sfrenati che si accompagnano alla crescita. Ero convinto che il mio sogno diconquistare l'Everest non fosse soltanto mio; il punto più alto della T erra, irraggiungibile, immune da ogniesperienza, esisteva proprio perchè a tanti giovani e adulti fosse consentito aspirarvi.

                                                                                    THOMAS F. HORNBEIN

                                                                                    Everest: The West Ridge

 

 

 

        I particolari esatti dell'avvenimento non sono chiari, offuscati ormai dall'accumularsi di dettaglimitologici, ma l'anno era il 1852 e lo sfondo era la sede del Servizio geodetico dell'India, nella località diDehra Dun, fra le colline del nord. Secondo la versione più plausibile dell'accaduto, un impiegato feceirruzione nello studio di sir Andrew Wough, ispettore generale per l'India, esclamando che un computerbengalese di nome Radhanath Sikhdar, addetto ai rilevamenti per l'ufficio di Calcutta, aveva «scoperto lamontagna più alta del mondo». (Ai tempi di Wough, un computer era un contabile, non una macchina.)

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La montagna in questione, denominata Peak xv dai rilevatori sul campo che tre anni prima ne avevanomisurato per primi l'altitudine con un teodolite da ventiquattro pollici, svettava sulla catena montuosadell'Himalaya, nel regno proibito del Nepal.

        Prima che Sikhdar compilasse i dati del rilevamento ed effettuasse i calcoli, nessuno sospettava checi fosse qualcosa di notevole nel Peak xv. I sei punti di osservazione dai quali era stata individuata lavetta grazie alla triangolazione si trovavano nel territorio settentrionale dell'India, a oltre centosessantachilometri dalla montagna. A coloro che avevano eseguito il rilevamento quasi tutta la massa dcl Peak xv, tranne la sommità, era apparsa oscurata da varie pareti a picco di altezza variabile poste in primo piano,alcune delle quali davano l'illusione di essere molto più alte. Tuttavia secondo i meticolosi calcolitrigonometrici di Sikhdar, che tenevano conto di fattori come la curvatura terrestre, la rifrazioneatmosferica e la deviazione dal filo a piombo, il Peak xv raggiungeva l'altezza di 8840 metri sopra il livellodel mare[3], il punto più elevato del pianeta.

        Nel 1865, nove anni dopo la conferma dei calcoli di Sikhdar, Wough assegnò al Peak xv il nomedi monte Everest, in onore di sir George Everest, suo predecessore in quella carica. In realtà i tibetaniche vivevano a nord della grande montagna l'avevano già battezzata con un nome più mellifluo,Jomolungma, che tradotto significa «Dea madre del mondo», mentre i nepalesi che vivevano a sudchiamavano la vetta Sagarmata, cioè «Dea del cielo». Wough, però, decise volutamente di ignorarequelle denominazioni indigene, nonchè la politica ufficiale, che incitava alla conservazione di nomi locali oantichi, e il nome che rimase defìnitivamente in uso fu Everest.

        Una volta accertato che l'Everest era il monte più alto della Terra, era solo questione di tempoprima che qualcuno decidesse che era necessario scalarlo. Dopo che l'esploratore americano RobertPeary aveva sostenuto nel 1909 di aver raggiunto il Polo Nord e Roald Amundsen aveva guidato unaspedizione norvegese al Polo Sud nel 1911, l'Everest, ossia il cosiddetto «terzo polo», divenne l'oggettopiù desiderato nel regno dell'esplorazione terrestre. Raggiungerne la vetta, proclamò Gunther O.Dyrenfurth, influente alpinista e cronista dei primi tentativi di scalata dell'Hirnalaya, era «un'impresa umanaa livello universale, una causa di fronte alla quale è impossibile tirarsi indietro, quali che siano le perditeche può esigere».

 Quelle perdite, come si vide poi, non sarebbero state insignifìcanti. Dopo la scoperta di Sikhdar nel1852, sarebbero stati necessari, oltre alla vita di ventiquattro uomini, gli sforzi di quindici spedizioni ecentouno anni, prima che la cima dell'Everest fosse finalmente raggiunta.

 

 

        Fra gli alpinisti e gli altri conoscitori di forme geologiche, l'Everest non è ritenuto una vettaparticolarmente attraente. E troppo tozzo nelle proporzioni, troppo largo di raggio, sbozzato in modotroppo rozzo; ma ciò che manca in fatto di grazia architettonica è compensato dall'assoluta imponenzadella massa.

        L'Everest, che delimita il confine fra Nepal e Tibet, svettando oltre 3650 metri più in alto delle valliche ne circondano la base, appare come una piramide a tre lati di ghiaccio scintillante e roccia scura estriata. Le prime otto spedizioni sull'Everest erano inglesi, e tentarono tutte di scalare la montagna dalversante settentrionale, cioè quello tibetano; non tanto perchè presentasse una debolezza evidente nelleformidabili difese della vetta, quanto piuttosto perchè nel 1921 il governo tibetano aprì finalmente i confinidel paese, chiusi per lungo tempo agli stranieri, mentre il Nepal continuò a restare risolutamente chiuso.

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        I primi scalatori dell'Everest erano costretti a percorrere a piedi quasi seicentocinquanta chilometrida Darjeeling, attraversando l'altopiano tibetano, solo per giungere ai piedi della montagna. La loroconoscenza degli effetti letali dell'altitudine estrema era scarsa e la loro attrezzatura era pateticamenteinadeguata in base ai criteri moderni. Eppure nel 1924 uno dei membri della terza spedizione inglese,Edward Felix Norton, raggiunse l’altezza di oltre 8570 metri, appena trecento al di sotto della vetta,prima di essere sconfitto dalla stanchezza e dalla cecità causata dalla neve. Fu un'impresa straordinaria,che probabilmente non è stata superata da nessuno per ventinove anni.

        Dico «probabilmente» a causa di quello che accadde quattro giorni dopo l'assalto alla vetta diNorton. Alle prime luci dell'alba dell'8 giugno, altri due membri della squadra inglese del 1924, GeorgeLeigh Mallory e Andrew Irvine, partirono dal campo più in alto per raggiungere la vetta.

        Mallory, il cui nome è legato in modo inestricabile all'Everest, era la forza propulsiva che avevaspinto verso la vetta le prime tre spedizioni. Durante un giro di conferenze attraverso gli Stati Uniti, erastato lui a dare quella celebre risposta: «Perchè esiste», quando un giornalista irritante gli aveva chiestoper quale motivo voleva scalare l'Everest. Nel 1924 Mallory aveva 38 anni; era un maestro di scuolasposato, con tre bambini piccoli. Tipico prodotto delle classi superiori della società inglese, era anche unesteta e un idealista, con una spiccata sensibilità romantica. La sua grazia atletica, il suo fascino mondanoe la sua straordinaria bellezza fisica lo avevano reso un favorito di Lytton Strachey e del circolo diBloomsbury, al quale apparteneva Virginia Woolf. Mentre erano accampati sulle pendici dell'Everest,Mallory e i suoi compagni leggevano a voce alta passi dell'Amleto e del Re Lear.

        Mentre Mallory e Irvine avanzavano lentamente verso la cima dell'Everest, raggiungendola l’8giugno 1924, la parte superiore della piramide fu avvolta dalla nebbia, che impedì ai compagni più inbasso di seguire i progressi dei due scalatori. Alle 12.50 le nubi si diradarono per un attimo e il lorocompagno Noel Odell intravide per un istante, ma nitidamente, Mallory e Irvine prossimi a raggiungere lacima, con circa cinque ore di ritardo sulla tabella oraria, ma mentre avanzavano «speditamente edeliberatamente» verso la vetta.

        Tuttavia quella sera i due scalatori non tornarono alla tenda e nessuno li rivide mai più. Se uno diloro o entrambi abbiano raggiunto la cima prima di essere inghiottiti dalla montagna e di entrare nellaleggenda è da allora motivo di accanite discussioni. Il bilancio delle prove suggerisce di no; in ogni caso,in mancanza di elementi tangibili, la loro vittoria non è stata riconosciuta.

Nel 1949, dopo secoli di inacessibilità, il Nepal aprì i confni al mondo esterno, un anno prima che ilnuovo regime comunista in Cina proibisse il Tibet agli stranieri. Coloro che intendevano scalare l'Everestdovettero quindi spostare le loro attenzioni sul versante meridionale della montagna. Nella primavera del1953 una grossa spedizione inglese, organizzata con lo zelo e la ricchezza di risorse di una campagnamilitare, divenne la terza spedizione che tentò di raggiungere l'Everest dal Nepal. E il 28 maggio, dopodue mesi e mezzo di sforzi prodigiosi, si riuscì a porre un campo sulla Cresta Sud-Est, a circaottomilacinquecento metri di altitudine. La mattina dopo di buon'ora Edmund Hillary, un atleticoneozelandese, e Tenzing Norgay, uno sherpa estremamente abile, si avviarono verso la vetta respirandodalle bombole di ossigeno.

Alle nove di mattina si trovavano sulla Cima Sud e guardavano oltre la cresta stretta che conduceva allacima vera e propria. Un'ora dopo erano ai piedi di quello che Hillary definì «l'ostacolo più formidabilesulla cresta: un risalto di roccia alto circa dodici metri. La roccia in sè, liscia e quasi priva di appigli,sarebbe stata un problema interessante da risolvere una domenica pomeriggio per un gruppo di espertiscalatori nel Lake District, ma lì rappresentava una barriera insormontabile per le nostre forze ormai allostremo».

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Mentre Tenzing dal basso mollava nervosamente la corda, Hillary s'incuneò in una fessura tra la fortezzadi roccia e un appicco di neve verticale alla sua estremità, poi incominciò a salire, un centimetro dopol'altro, su quello che in seguito sarebbe diventato celebre come Hillary Step, cioè «il gradino di Hillary».La scalata era faticosa e rischiosa, ma Hillary insistette finchè, come scrisse in seguito:

 

Riuscii finalmente a issarmi sulla sommità della roccia, uscendo dalla fessura e sbucando su un'ampiacengia rocciosa. Per alcuni secondi restai disteso a riprendere fiato e per la pnma volta sentii veramenteche ormai nulla avrebbe potuto impedirci di raggiungere la vetta. Poi mi alzai, piantando saldamente ipiedi sulla cengia, per fare segno a Tenzing di salire. Mentre tendevo la corda con vigore, Tenzing riuscì arisalire la fessura e infine si accasciò esausto in cima, come un pesce gigante appena tirato fuori dal maredopo una lotta terribile.

 

 

Sforzandosi di combattere la stanchezza, i due scalatori continuarono a risalire la cresta sinuosa verso lacima. Hillary si chiese

 

 

ottusamente se avremmo avuto la forza di arrivare fino in fondo. Superata un'altra gobba, vidi che lacresta davanti a noi cominciava ascendere e in lontananza si scorgeva il Tibet. Alzai la testa e lì, sopra dinoi, c'era un cono rotondo di neve. Alcuni colpi di piccozza, alcuni passi cauti e Tensing [sic] e ioarrivammo in cima.

 

 

E così, poco dopo mezzogiorno del 29 maggio 1953, Hillary e Tenzing divennero i primi uomini almondo che avessero scalato il monte Everest.

Tre giorni dopo, la notizia della scalata giunse alla regina Elisabetta, alla vigilia dell'incoronazione e ilTimes di Londra lo annunciò la mattina del 2 giugno, nella prima edizione. L'informazione era statatrasmessa dall'Everest grazie a un messaggio radio in codice (per impedire ai concorrenti di battere sultempo ilTimes ) da un giovane corrispondente di nome James Morris che, vent'anni dopo, quando ormaiaveva ottenuto una notevole fama come scrittore, sarebbe diventato famoso per aver cambiato sessoscegliendo il nome femminile di Jan. Come scrisse Morris, quarant'anni dopo la storica scalata, inCoronation Everest: The First Ascent and the Scoop That Crowned the Queen :

 

 

Oggi è difficile immaginare la gioia quasi mistica con la quale fu accolta in Inghilterra la coincidenza fra i

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due avvenimenti [l'incoronazione e la scalata dell'Everest]. Gli inglesi, che si stavano appena riprendendodall'austerità che li affliggeva fin dalla seconda guerra mondiale, ma al tempo stesso dovevanofronteggiare la perdita di un grande impero e l'inevitabile declino del loro potere nel mondo, si eranoquasi convinti che l'ascesa al trono della giovane regina fosse il segno di un nuovo inizio, di una nuovaepoca elisabettiana, come amano definirla i giornali. Il giorno dell'incoronazione, 2 giugno 1953, dovevaessere una giornata che simboleggiava la speranza e la gioia, in cui avrebbero trovato la loro supremaespressione tutti i sentimenti di lealtà patriottica degli inglesi; e meraviglia delle meraviglie, proprio quelgiorno arrivò da un luogo remoto, anzi dai confini dell'antico impero, la notizia che una squadra di alpinistibritannici... aveva raggiunto il supremo obiettivo che ancora restava da conquistare sulla terraall'esplorazione e all'avventura, il tetto del mondo...

Il momento suscitò fra gli inglesi una vasta gamma di emozioni intense: orgoglio, patriottismo, nostalgiaper il passato ormai perduto della guerra e dell'audacia, speranza in un futuro rinnovato. La gente di unacerta età serba un ricordo nitido di quel momento in cui, mentre aspettava che il corteo dell'incoronazioneattraversasse Londra sotto la pioggerella di quella mattina di giugno, udì la magica notizia che la vetta piùalta del mondo era diventata, per così dire, loro.

Tenzing divenne un eroe nazionale in India, nel Nepal e nel Tibet, ciascuno dei quali ne rivendicava leorigini. Nominato baronetto dalla regina, sir Edmund Hillary vide la sua effigie ritratta su francobolli,vignette umoristiche, libri, film, copertine di riviste: nel giro di una notte, quell'apicoltore di Auckland dalviso tagliato con l'accetta si era trasformato in uno degli uomini più famosi della Terra.

 

 

Hillary e Tenzing scalarono l'Everest un mese prima che fossi concepito, quindi non ho partecipato alsenso collettivo di orgoglio e di meraviglia che pervase il mondo; un evento che secondo un amico piùanziano sarebbe stato paragonabile, in termini di impatto emotivo viscerale, a quello del primo sbarcosulla luna. Dieci anni dopo, tuttavia, un'altra scalata dell'Everest contribuì a segnare il corso della mia vita.

Il 22 maggio 1963, Tom Hornbein, un medico trentaduenne originario del Missouri, e Willi Unsoeld,trentasei anni, professore di teologia dell'Oregon, raggiunsero la cima dell'Everest seguendo l'arduaCresta Ovest, fino a quel momento rimasta inviolata. Ormai la vetta era stata conquistata in quattrooccasioni da undici uomini in tutto, ma la Cresta Ovest presentava difficoltà notevolmente superiori allealtre due vie aperte in precedenza, quella per il Colle Sud e la Cresta Sud-Est e quella lungo il ColleNord e la Cresta Nord-Est. La scalata di Hornbein e Unsoeld fu meritatamente accolta come una dellegrandi imprese negli annali dell’alpinismo, e lo è tuttora.

 

 

Verso la fine della giornata che li vide sferrare l'assalto finale alla vetta, i due americani superarono unostrato di roccia ripida e friabile, la famigerata Fascia Gialla. Superare quella parete richiedeva unastraordinaria forza e abilità; fino a quel momento non era stata mai scalata una parete così impegnativa sulpiano tecnico a un'altitudine così estrema. Una volta superata la Fascia Gialla, Hornbein e Unsoelddubitarono di riuscire a tornare indietro da quella parte senza danni. La loro speranza di ridiscendere vividalla montagna, conclusero, era superare la vetta e scendere dalla ben nota via della Cresta Sud-Est, unpiano estremamente audace, tenuto conto dell'ora, del terreno sconosciuto e della riserva di ossigenonelle bombole che diminuiva a vista d'occhio.

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Hornbein e Unsoeld raggiunsero la cima alle sei e un quarto del pomeriggio, proprio al tramonto delsole, e furono costretti a trascorrere la notte all'addiaccio a 8530 metri, a quell'epoca il bivacco più altodella storia. Era una notte fredda ma, grazie al cielo, senza vento. Anche se le dita dei piedi di Unsoeld sicongelarono, e in seguito furono amputate, i due sopravvissero per riferire la loro esperienza.

A quell'epoca avevo nove anni e vivevo a Cornwallis, nell'Oregon, la stessa città di Unsoeld, che eraamico intimo di mio padre; a volte giocavo con i suoi figli maggiori, Regon, che aveva un anno più di me,e Devi, che ne aveva uno di meno. Qualche mese prima della partenza di Willi Unsoeld per il Nepal,scalai per la prima volta una montagna, un vulcano tutt'altro che spettacolare alto 2750 metri nella catenamontuosa del Cascade Range (la vetta ora è raggiungibile con una seggiovia), in compagnia di mio padre,di Willi e di Regon. Non c'è da stupirsi se le cronache dell'epica scalata dell'Everest suscitarono un'ecolunga e intensa nella mia fantasia di preadolescente. Mentre i miei amici idolatravano John Glenn, SandyKoufax e Johnny Unitas, i miei eroi erano Hornbein e Unsoeld.

In segreto sognavo di scalare anch'io l'Everest, un giorno, e per oltre un decennio rimase un'ambizionebruciante. Quando raggiunsi la ventina, l'alpinismo era diventato il centro focale della mia esistenza eaveva escluso ogni altro interesse. Raggiungere la vetta di una montagna era un'esperienza tangibile,immutabile, concreta. I rischi insiti in questa attività le conferivano una serietà di intenti che eradolorosamente latitante nel resto della mia vita. Ero eccitato dalla prospettiva inedita che scaturisce dalcapovolgimento del piano ordinario dell'esistenza.

E poi l'alpinismo mi offriva anche la sensazione di appartenere a una comunità. Diventare alpinistasignificava entrare a far parte di una società chiusa, furiosamente idealistica, in gran parte ignorata esorprendentemente incontaminata dal mondo esterno. La cultura dell'ascesa era caratterizzata da unintenso spirito di competizione e da un «machismo» allo stato puro, ma per lo più i suoi adepti sipreoccupavano di impressionarsi a vicenda. La conquista della vetta di una certa montagna era ritenutameno importante dd modo in cui avveniva la conquista; il prestigio si guadagnava affrontando le vie piùproibitive con un'attrezzatura ridotta al minimo, nello stile più audace che si potesse immaginare. Nessunoera più ammirato dei cosiddetti arrampicatori solitari, visionari che scalavano da soli, senza corda nèattrezzi.

In quegli anni vivevo per l'alpinismo, arrangiandomi per campare con cinque o seimila dollari l'anno,lavorando come

carpentiere e pescatore di salmoni per un'impresa commerciale solo quanto bastava per finanziare unviaggio sui monti Teton, o sull’Alaska Range, o in capo al mondo. Ma a un certo punto, intorno aiventicinque anni, rinunciai alla fantasia adolescenziale di scalare l'Everest. A quell'epoca fra gli esperti dialpinismo era diventato di moda denigrare l'Everest definendolo una «montagnola di sfasciumi», cioè unavetta che non presentava sufficienti difficoltà tecniche o fascino estetico per essere un obiettivo degno diuno scalatore «serio», ideale al quale aspiravo disperatamente. Cominciai a guardare dall'alto in basso lamontagna più alta del mondo.

Un simile snobismo era fondato sul fatto che al principio degli anni Ottanta la via più facile per scalarel'Everest - lungo il Colle Sud e la Cresta Sud-Est - era stata percorsa più di cento volte. I miei colleghi eio l'avevamo soprannominata «la via degli yak». Il nostro disprezzo non fece che consolidarsi nel 1985,quando Dick Bass, un ricco texano di cinquantacinque anni con una limitata esperienza di scalate, fuaccompagnato in cima all'Everest da uno straordinario giovane alpinista che si chiamava DavidBreashears, e l'avvenimento fu accompagnato da un turbine di interesse del tutto acritico da parte deimedia.

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Fino a quel momento l'Everest era stato quasi esclusivamente dominio dell'elite dell'alpinismo. Per usarele parole di Michad Kennedy, direttore del periodico specializzato Climbing: «L'invito a far parte di unaspedizione sull'Everest era un onore che ci si guadagnava dopo avere compiuto un lungo apprendistato suvette più modeste, e la conquista effettiva della cima innalzava uno scalatore all'empireo dell'alpinismo».La scalata di Bass cambiò tutto questo. Conquistando l'Everest, egli divenne il primo uomo che avessescalato tutte le Sette Sorelle[4], impresa che lo rese noto in tutto il mondo e che pungolò uno sciame discalatori della domenica a seguire le sue orme e catapultò brutalmente l'Everest nell'era postmodema.

«Per i tipi di mezza età come me, Dick Bass è stato una fonte di ispirazione», dichiarò Seabom BeckWalters con la sua marcata cadenza del Texas orientale durante la marcia di avvicinamento al campobase dell'Everest, nello scorso aprile. Beck, un patologo quarantanovenne di Dallas, era uno degli ottoclienti della spedizione guidata di Rob Hall del 1996. «Bass ha dimostrato che l'Everest rientra nellepossibilità di una persona normale. Ammesso che tu sia discretamente in forma e abbia qualche soldo dabuttar via, sono del parere che probabilmente l'ostacolo principale sia sottrarre dd tempo al lavoro elasciare la famiglia per due mesi.»

Per numerosissirni scalatori, come dimostrano le statistiche, l'ostacolo insormontabile non è tantosottrarre del tempo alla morsa della routine quotidiana, quanto il pesante esborso di denaro. Nell'ultimodecennio, il traffico su tutte le Sette Sorelle, ma in particolare sull'Everest, si è moltiplicato a un ritmoimpressionante. E per soddisfare la domanda, il numero di imprese commerciali che vendono ascensioniguidate alle Sette Sorelle, in particolare all'Everest, si è moltiplicato in misura corrispondente. Nellaprimavera del 1996 ben trenta spedizioni diverse risalivano le pendici dell'Everest, e almeno dieci di esseerano organizzate come imprese commerciali.

Il governo del Nepal dovette riconoscere che l'affollamento sull'Everest creava seri problemi in termini disicurezza, estetica e impatto sull'ambiente. Affrontando il problema, i ministri nepalesi escogitarono unasoluzione che sembrava racchiudere in sè la duplice promessa di limitare il numero degli aspirantiscalatori, pur aumentando l’afflusso di valuta nelle casse nazionali piuttosto impoverite: l'aumento delletariffe per l'autorizzazione alle scalate. Nel 1991 il ministero per il Turismo richiedeva duemilatrecentodollari per il permesso che consentiva a una squadra composta da un numero qualsiasi di alpinisti ditentare la conquista dell'Everest; nel 1992 il prezzo salì a diecimila dollari per una squadra checomprendesse fino a nove componenti, e altri milleduecento dollari per ogni scalatore in più. Eppure glialpinisti continuarono ad accorrere a frotte sull'Everest, nonostante l'aumento delle tariffe. Nellaprimavera del 1993, anno in cui cadeva il quarantesimo anniversario della prima scalata, un numerorecord di spedizioni, quindici, per un totale di duecentonovantaquattro alpinisti, tentò la scalata della vettadal versante nepalese. Quell'autunno il ministero aumentò ancora la tariffa per l'autorizzazione, fino araggiungere la cifra impressionante di cinquantamila dollari fino a cinque scalatori, più altri diecimila perogni ulteriore alpinista, fino a un massimo di sette. Inoltre il governo decretò che non sarebbero stateautorizzate più di quattro spedizioni sui versanti nepalesi per ogni stagione.

Quello che i ministri nepalesi non avevano preso in considerazione, però, era che la Cina chiedeva soloquindicimila dollari per autorizzare una squadra a scalare la montagna dal Tibet, qualunque fosse ilnumero dei componenti, e non poneva limiti al numero di spedizioni per ogni stagione. Dunque il flusso discalatori dell'Everest si spostò dal Nepal al Tibet, lasciando senza lavoro centinaia di sherpa. Leconseguenti proteste indussero il Nepal ad annullare, nella primavera del 1996, il limite delle quattrospedizioni. E già che c'erano, i ministri aumentarono di nuovo il prezzo dell'autorizzazione, portandolostavolta a settantamila dollari per sette alpinisti, più altri diecimila a testa per ogni componente in più. Agiudicare dal fatto che la primavera scorsa sedici delle trenta spedizioni dirette sull'Everest salivano dalversante nepalese della montagna, pare che l'alto costo del permesso non rappresenti un deterrenteefficace.

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Anche prima del disastroso esito delle scalate nella stagione premonsonica del 1996, la proliferazionedelle spedizioni commerciali nell'ultimo decennio era una questione spinosa. I tradizionalisti erano offesidal fatto che la cima più alta del mondo fosse venduta a ricchi parvenu, alcuni dei quali, senza l'ausiliodelle guide, probabilmente avrebbero incontrato delle difficoltà anche a scalare la vetta di una cimamodesta come il monte Rainier. L’Everest, sbuffavano i puristi, era stato svilito e profanato.

Questi critici facevano inoltre notare che, grazie alla commercializzazione dell'Everest, la cima un tempovenerata era stata trascinata nel fango della giurisprudenza americana. Dopo aver pagato sommeprincipesche per essere scortati in cima all'Everest, alcuni alpinisti avevano denunciato le loro guidequando l'obiettivo era sfumato. «Ogni tanto capita un cliente che pensa di aver comprato un bigliettogarantito per la vetta», si lamenta Peter Athans, una guida molto rispettata che ha condotto sull'Everestdieci spedizioni raggiungendo la cima quattro volte. «C'è gente che non capisce che una spedizionesull'Everest non si può guidare come un treno svizzero.»

Purtroppo non tutte le cause legate all'Everest sono prive di fondamento. Più di una volta, imprese inetteo disoneste non sono state in grado di fornire l'essenziale supporto logistico promesso, come peresempio l'ossigeno. In alcune spedizioni le guide sono salite fino alla vetta senza condurre con sè i clientipaganti, inducendoli a concludere amareggiati che erano stati portati fin lì solo per pagare il conto. Nel1995, il capo di una spedizione commerciale si dileguò con decine di migliaia di dollari dei suoi clientiprima ancora che la spedizione prendesse il via.

 

 

Nel marzo del 1995 ricevetti una telefonata dall'editore. della rivistaOutside , che mi proponeva diunirmi a una spedizione guidata sull'Everest che doveva partire di lì a cinque giorni, con l'incarico discrivere un articolo sulla proliferazione delle imprese commerciali che sfruttano la montagna e sullerelative controversie. L'intento della rivista non era di farmi scalare la montagna; gli editori volevanosemplicemente che restassi al campo base e riferissi la storia dal Ghiacciaio orientale di Rongbuck, aipiedi del versante tibetano dell'Everest. Presi in esame la domanda con serietà, al punto da prenotare unvolo e fare le vaccinazioni necessarie, poi mi tirai indietro all'ultimo momento.

Considerato il disprezzo che avevo espresso nei confronti dell'Everest nel corso degli anni, si sarebbepotuto ragionevolmente presumere che rifiutassi per motivi di principio. In realtà, l'invito diOutside avevainaspettatamente ridestato un desiderio intenso che era rimasto sepolto da tempo. Rifiutai l'incarico soloperchè pensavo che trascorrere due mesi all'ombra dell'Everest senza salire più in alto del campo basesarebbe stata una frustrazione intollerabile. Se dovevo andare all'altro capo del mondo e trascorrere ottosettimane lontano da mia moglie e dalla mia casa, volevo avere l'opportunità di scalare la montagna.

Domandai a Mark Bryant, direttore diOutside , se poteva prendere in considerazione l'idea di rinviarel'incarico di dodici mesi (che mi avrebbero dato il tempo per allenarmi adeguatamente in modo da poteraffrontare le fatiche fisiche della spedizione). Inoltre m'informai se la rivista sarebbe stata disposta aprenotarmi i servigi di una delle guide più stimate, nonchè ad accollarsi la relativa spesa disessantacinquemila dollari, consentendomi così di raggiungere davvero la vetta. Per la verità non miaspettavo che accettasse il progetto; nei quindici anni precedenti avevo scritto oltre sessanta pezzi perOutside , ma di rado il budget di viaggio previsto per una di quelle missioni aveva superato i due otremila dollari.

Bryant mi ritelefonò il giorno seguente, dopo che si era consultato con l'editore diOutside , dicendomi

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che la rivista non era disposta a sborsare sessantamila dollari, ma lui e gli altri editori erano convinti che lacommercializzazione dell'Everest fosse una storia importante. Se le mie intenzioni di scalare la montagnaerano serie, insistette,Outside avrebbe escogitato un modo per realizzare il progetto.

 

 

Durante i trentatrè anni nei quali mi ero considerato un alpinista, avevo intrapreso dei progetti difficili. InAlaska avevo aperto una via nuova e ardua per il Mooses Tooth e realizzato una scalata solitaria delDevil's Thumb che aveva richiesto tre settimane di isolamento su una remota placca di ghiaccio. Avevocompiuto una discreta serie di scalate di alpinismo estremo su ghiaccio in Canada e nel Colorado. Pressol'estremità meridionale del Sudamerica, dove i venti spazzano la terra come «la scopa di Dio» -la escobade Dios , come dicono gli abitanti del posto - avevo scalato una spaventosa guglia verticale di granito astrapiombo alta milleseicento metri, chiamata Cerro Torre; sferzata da venti che corrono alla velocità dicento nodi, ricoperta da una glassa di ghiaccio friabile, era ritenuta un tempo (anche se ora non più) lamontagna più difficile del mondo.

Quelle avventure, però, risalivano a qualche anno prima, in certi casi addirittura decenni, quando avevopoco più di venti o trent'anni. Ormai ne avevo quarantuno, avevo superato da tempo il momento di graziaper l’alpinismo, e avevo la barba brizzolata, le gengive in cattive condizioni e sette chili di troppoaccumulati intorno alla vita. Ero sposato con una donna che amavo follemente, e che mi ricambiava. Orache avevo imbroccato una carriera accettabile, per la prima volta in vita mia vivevo al di sopra dellasoglia di povertà. La mia faMe di scalate era stata smorzata, in breve, da un insieme di piccolesoddisfazioni che, sommate, formavano qualcosa di simile alla felicità.

Inoltre nessuna delle scalate che avevo compiuto in passato mi aveva portato al di sopra di un'altitudinemodesta. In tutta sincerità, non mi ero mai spinto oltre i 5300 metri, una quota inferiore persino a quelladel campo base dell'Everest.

Da avido studioso della storia dell'alpinismo, sapevo che L'Everest aveva ucciso più di centotrentapersone dalla prima spedizione di ricognizione britannica del 1921 - all'incirca un morto ogni quattroscalatori che avevano raggiunto la vetta - e che molti di coloro che erano morti erano più forti di me e inpossesso di un'esperienza in alta quota infinitamente superiore alla mia. Ma i sogni dell'infanzia sono duria morire, avevo scoperto, e al diavolo il buonsenso.

Alla fine di febbraio del 1996, Bryantmi chiamò per informarmi che c'era un posto in attesa per me nellaprossima spedizione di Rob Hall sull'Everest. Quando mi domandò se ero sicuro di voler andare fino infondo, risposi di sì senza neanche riprendere fiato.

Prendendo bruscamente la parola, raccontai loro una parabola. Quello di cui parlo, dissi, è il pianetaNettuno, non il solito, banale Nettuno, non il Paradiso, perchè si dà il caso che io non sappia granchè delParadiso. Dunque vedete che si tratta di voi e nient’altro, solo di voi. Ora, c'è un gran pezzo di roccia,lassù, dissi, e devo avvertirvi che gli abitanti di Nettuno sono piuttosto stupidi, soprattutto perchè sonovissuti ciascuno nel proprio bozzolo, E alcuni di loro, quelli che avevo voluto nominare in particolare,alcuni di loro erano pronti a tutto per quella montagna. Non ci credereste, aggiunsi, questione di vita o dimorte, prendere o lasciare, ma questa gente aveva preso l'abitudine di dedicare tutto il tempo libero e leenergie a sospingere le nubi della propria gloria su e giù per tutte le pareti più ripide del distretto, Etornavano tutti esaltati: dal primo all'ultimo, E tanto meglio così: dissi, perchè era divertente che anche suNettuno preferissero per lo più arrampicarsi senza rischi sulle pareti più facili. Comunque era esaltante, egli efftti erano visibili tanto dalla loro espressione risoluta quanto dalla gratificazione che illuminava i loro

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occhi. E poi, come avevo fatto notare, questo accadeva su Nettuno, non in Paradiso, dove può darsi chenon ci sia altro da fare.

 

                                                                 JOHN MENLOVE EDWARDS

                                                                 Letter from a Man

 

 

        Due ore dopo il decollo del volo 311 della Thai Air da Bangkok a Kathmandu, mi alzai dal mioposto per dirigermi verso la coda dell'apparecchio. Vicino alla fila di toilette sul lato di tribordo, miaccovacciai per scrutare attraverso un finestrino all'altezza della cintola, nella speranza di intravedere lemontagne. Non restai deluso: laggiù all'orizzonte si stagliavano nel cielo gli incisivi aguzzi dell'Himalaya.Rimasi al finestrino per tutto il resto del volo, in trance, accovacciato su un sacco di plastica pieno dirifiuti, lattine vuote di acqua tonica e pasti consumati a metà, con il viso schiacciato contro il plexiglasfreddo.

        Riconobbi subito l'enorme mole massiccia del Kangchenjunga, la terza vetta del mondo in ordine dialtezza con i suoi 8586 metri sopra il livello del mare. Un quartro d’ora dopo avvistai il Makalu, la quintavetta del mondo, e poi, finalmente, il profilo inconfondibile dell’Everest.

        Il cuneo nero come l’inchiostro della piramide superiore si stagliava contro il cielo quasi in rilievo,dominando dall'alto i monti circostanti. Proiettandosi verso l'alto con la corrente a getto, la montagnaapriva uno squarcio visibile nell'uragano che soffiava alla velocità di 120 nodi, sprigionando unpennacchio di cristalli di ghiaccio che si allungava a oriente come una lunga sciarpa di seta svolazzante.Mentre fissavo quella scia di condensazione nel cielo, mi venne in mente che la cima dell'Everest sitrovava esattamente alla stessa altezza del jet pressurizzato che mi trasportava attraverso il cielo. L'ideache mi accingevo a salire fino alla quota di crociera di un Airbus 300 mi sembrò in quel momentoassurda, o peggio. Avevo il palmo delle mani umido di sudore.

Quaranta minuti dopo atterravo a Kathmandu. Mentre entravo nell'atrio dell'aeroporto dopo aversuperato la dogana, un giovanottone dall'ossatura massiccia, rasato di fresco, notò le due enormi sacchedi tela che portavo con me e si avvicinò. «Dunque lei sarebbe Jon?» mi domandò con un melodiosoaccento neozelandese, dando un’occhiata a un foglio con la fotocopia delle foto dei passaporti cheritraevano i clienti di Rob Hall. Stringendomi la mano si presentò, dicendo di essere Andy Harris, unadelle guide di Hall, venuta per accompagnarmi in albergo.

Harris, che aveva trentun anni, spiegò che con lo stesso volo da Bangkok doveva arrivare un altrocliente, un avvocato di cinquantatrè anni che veniva da Bloomfield Hills, nel Michigan, e si chiamava LouKasischke. Finì che dovemmo aspettare un’ora prima che Kasischke recuperasse i bagagli, così durantel'attesa Andy e io ci scambiammo le nostre impressioni su alcune difficili scalate alle quali eravamosopravvissuti nel Canada occidentale e discutemmo sui meriti dello sci rispetto allo snowboard. Lapassione evidente di Andy per le scalate, il suo entusiasmo puro per le montagne, mi fecero provare unacerta nostalgia per il periodo in cui le scalate erano per me l'aspetto più importante della vita, in cuitracciavo il corso della mia esistenza in relazione alle montagne che avevo scalato e a quelle che speravodi scalare un giorno.

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Un attimo prima che Kasischke, un uomo alto e atletico con i capelli argentei e un’aria di aristocraticodistacco, si staccasse dalla fila della dogana, domandai a Andy quante volte avesse scalato l'Everest.«Per la verità», confessò tutto allegro, «anche per me sarà la prima volta, come per lei. Sarà interessantevedere come riuscirò a cavarmela lassù.»

Hall ci aveva prenotato delle stanze al Garuda Hotel, un albergo bizzarro ma cordiale nel cuore diThamel, il frenetico quartiere turistico di Kathmandu, affacciato su una stradina stretta intasata di risciò apedali e prostitute. poichè già da tempo era popolare presso le spedizioni dirette sull'Himalaya, il Garudaaveva le pareti ricoperte di fotografie autografate dei celebri alpinisti che vi avevano soggiornato nelcorso degli anni: Reinhold Messner, Peter Habeler, Kitty Kalhoun, John Roskelley, Jeff Lowe. Salendole scale per raggiungere la mia stanza passai davanti a un grande poster a colori intitolato «Trilogiahimalayana», che raffigurava l'Everest, il K2 e il Lhotse, rispettivamente la prima, la seconda e la quartavetta più alta del mondo. Alle immagini di quelle cime, il poster sovrapponeva il volto di un uomo barbutoe sorridente in pieno assetto di scalata. Una didascalia identificava lo scalatore come Rob Hall; ilmanifesto, destinato a pubblicizzare l'attività della compagnia di Hall, la Adventure Consultants, ricordaval'impresa straordinaria da lui compiuta nel 1994, la scalata di tutt'e tre le vette nel giro di due mesi.

Un'ora dopo incontrai Hall in carne e ossa. Era alto un po’più di un metro e ottantacinque ed era magrocome uno stecco. Il suo viso aveva qualcosa di angelico, ma dimostrava più dei trentacinque anni cheaveva, forse per via delle rughe profonde incise all'angolo degli occhi o dell'aria di autorità che emanava.Indossava una camicia hawaiana e un paio di Levi's sbiaditi con una toppa sul ginocchio che portavaricamato il simbolo yin-yang. Sulla fronte gli ondeggiava una massa ribelle di capelli castani e la barbacespugliosa aveva bisogno di una buona regolata.

Socievole per natura, Hall si rivelò un abile narratore, ricco di quell'umorismo caustico tipico deineozelandesi. Lanciandosi in un lungo racconto che riguardava un turista francese, un monaco buddhistae uno yak particolarmente irsuto, Hall pronunciò la battuta finale con una strizzatina d'occhio maliziosa,attese un secondo per l'effetto, poi rovesciò la testa all'indietro in una risata tonante e contagiosa, nonriuscendo a contenere l'entusiasmo per il suo stesso racconto. Provai subito simpatia per lui.

Hall era nato in una famiglia operaia cattolica di Christchurch, in Nuova Zelanda, ed era il minore di novefigli. Benchè dotato di un'intelligenza pronta e versata nelle materie scientifiche, a quindici anni avevalasciato la scuola dopo uno scontro con un professore particolarmente autoritario e nel 1976 avevacominciato a lavorare per l'Alp Sports, una ditta locale che produceva attrezzature per le scalate.«Cominciò col fare lavoretti qua e là, azionando la macchina da cucire e roba del genere», ricorda BillAtkinson, ora abile scalatore e guida, che a quell'epoca lavorava anche lui per l'Alp Sports. «Ma graziealle impressionanti capacità organizzative di Rob, che erano evidenti anche a soli sedici o diciassette anni,ben presto si ritrovò a dirigere tutto il settore produttivo della compagnia.»

Da qualche anno Hall era diventato un appassionato escursionista; nello stesso periodo in cui avevaincominciato a lavorare per l’Alp Sports, aveva preso anche lezioni di arrampicata sulla roccia e sulghiaccio. «Apprendeva in fretta», osserva Atkinson, diventato uno dei compagni più assidui di Hall nellescalate, «ed era in grado di assimilare capacità e attitudini da chiunque.»

Nel 1980, a diciannove anni, Hall si unì a una spedizione che doveva scalare la difficile crestasettentrionale dell’Ama Dablam, una cima di incomparabile bellezza alta 6856 metri, posta diciottochilometri a sud dell'Everest. Durante quel viaggio, il primo sull'Himalaya, Hall fece un'escursione alcampo base dell'Everest e decise che un giorno avrebbe scalato la montagna più alta del mondo. Civollero dieci anni e tre tentativi, ma nel maggio 1990 Hall raggiunse finalmente la cima dell'Everest a capodi una spedizione di cui faceva parte Peter Hillary, figlio di sir Edmund. Una volta in cima, Hall e Hillaryrealizzarono una trasmissione radio che fu diffusa dal vivo in tutta la Nuova Zelanda e a 8848 metri

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ricevettero le congratulazioni del primo ministro Geoffrey Palmer.

Ormai Hall era uno scalatore professionista a tempo pieno. Come la maggior parte dei suoi colleghi,cercava di procurarsi finanziamenti dagli sponsor per pagarsi le costose spedizioni sull'Himalaya ed eraabbastanza accorto da capire che, più attirava l'attenzione dei media, più gli riusciva facile indurre lesocietà ad aprire il libretto degli assegni. In effetti si rivelò estremamente abile nel far trasmettere il suonome dalla stampa e il suo viso dalla televisione. «Già», ammette Atkinson, «in effetti Rob ha sempreavuto un certo talento per la pubblicità.»

Nel 1988, una guida di Auckland che si chiamava Gary Ball divenne il principale compagno di scalata el'amico più intimo di Hall. Anche Ball raggiunse la vetta dell'Everest insieme a lui nel 1990, e subito dopoil ritorno in Nuova Zelanda escogitarono un progetto per scalare le cime più alte di ciascuno dei settecontinenti, alla maniera di Dick Bass, ma accrescendo le difficoltà perchè intendevano conquistarle tutte esette nel giro di sette mesi[5]. Avendo già superato l'Everest, che era la cima più difficile delle sette, Halle Ball riuscirono a spillare fondi a una grossa azienda elettrica, la Power Build, e si misero in marcia. Il 12dicembre 1990, poche ore prima che scadesse il termine dei sette mesi, raggiunsero la vetta della settimamontagna, il Mount Vinson, la cima più alta dell'Antartide con i suoi 5240 metri, e la notizia suscitò unanotevole risonanza nella loro terra natale.

Nonostante il successo, Hall e Ball erano preoccupati per le loro prospettive a lungo termine nel settoredelle scalate professionistiche. «Per continuare a ricevere finanziamenti dalle società degli sponsor»,spiega Atkinson, «uno scalatore deve sempre rilanciare la posta. La prossima scalata dev'essere piùdifficile e più spettacolare dell'ultima. Diventa una spirale insostenibile, in cui alla fine non sei più all'altezzadella sfida. Rob e Gary compresero che prima o poi non sarebbero stati in grado di reggere a quel ritmo,oppure avrebbero avuto uno sfortunato incidente e sarebbero rimasti uccisi.

«Così decisero di cambiare rotta per dedicarsi al mestiere di guida sulle alte vette. Facendo la guida nonc'è bisogno di compiere necessariamente le scalate che non ti vanno a genio; la sfida deriva dal portare iclienti in cima e riportarli a valle, che è un tipo di soddisfazione diverso, ma è una carriera più sostenibiledi una caccia senza tregua agli sponsor. Se offri un buon prodotto, c'è una riserva illimitata di clienti.»

Durante la stravagante impresa delle «sette cime in sette mesi», Hall e Ball avevano ideato un progettoper mettersi in affari, costituendo una società di guide che avrebbero portato i clienti sulle sette cime.Convinti che esistesse un mercato ancora vergine di sognatori forniti di denaro in abbondanza, ma diesperienza insufficiente per scalare da soli le grandi montagne del mondo, Hall e Ball lanciaronoun'impresa che battezzarono Adventure Consultants.

Quasi subito registrarono un record impressionante. Nel maggio 1992 Hall e Ball guidarono sei clientisulla vetta dell'Everest. Un anno dopo condussero sulla vetta un altro gruppo composto di sette persone,nel pomeriggio di un giorno in cui ben quaranta scalatori conquistarono la montagna. Tuttavia al ritornoda quella spedizione si trovarono esposti al fuoco delle impreviste critiche di sir Edmund Hillary, chedeplorava il ruolo svolto da Hall nella crescente commercializzazione dell'Everest. La folla di principiantiche veniva scortata sulla vetta in cambio di un compenso, brontolava sir Edmund, «rischiava di intaccareil rispetto dovuto alla montagna.»

Nella Nuova Zelanda Hillary è una delle figure più stimate della nazione e il suo viso rugoso si affacciaperfino dal biglietto da cinque dollari. Hall rimase rattristato e imbarazzato dal fatto di essererimproverato pubblicamente da quel semidio, quel prototipo di scalatore che era stato uno degli eroi dellasua infanzia. «Qui in Nuova Zelanda Hillary è considerato un monumento nazionale vivente», osservaAtkinson. «Quello che dice ha un grande peso e ricevere le sue critiche dev'essere stata una verasofferenza. Rob voleva fare una dichiarazione pubblica per difendersi, ma si rese conto che reagire

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contro una figura così stimata dai media non gli avrebbe offerto alcuna possibilità di vittoria.»

Poi, cinque mesi dopo lo scalpore suscitato dalle affermazioni di Hillary, Hall fu scosso da un colpoancora più grave: nell'ottobre 1993, Gary Ball morì a causa di un edema cerebrale (rigonfiamento delcervello prodotto all'altitudine} durante un tentativo di scalata del Dhaulagiri, la sesta montagna delmondo in ordine di altezza con i suoi 8167 metri. Ball esalò l'ultimo respiro fra le braccia di Hall, distesoin stato di coma in una piccola tenda poco lontano dalla vetta, e il giorno dopo Hall seppellì l'amico in uncrepaccio.

In un'intervista per la televisione neozelandandese, che seguiva la spedizione, Hall descrisse con sobrietàcome avesse scelto la loro corda preferita per calare il corpo di Ball in fondo all'abisso del ghiacciaio.«Uno scalatore non si separa mai dalla corda, che è fatta per unire», aggiunse. «E invece ho dovutolasciarla scivolare dalle mani.»

«Rob rimase sconvolto dalla morte di Gary», ricorda Helen Wilton, che ha lavorato come responsabiledel campo base di Hall sull'Everest negli anni 1993, 1995 e 1996. «Ma affrontò la situazione con moltacalma. Rob era fatto così... tenace.» Hall decise di proseguire da solo l'attività della AdventureConsultants. Con il suo metodo sistematico continuò a migliorare le infrastrutture e i servizi della società,riuscendo a conseguire straordinari successi nell'accompagnare scalatori dilettanti sulla vetta di montagnealte e remote.

Fra il 1990 e il 1995,. Hall riuscì a portare sulla vetta dell'Everest trentanove scalatori, tre in più di quantifossero saliti sulla cima nei primi vent'anni successivi alla scalata inaugurale di sir Edmund Hillary. Hall eraquindi giustificato se reclamizzava la Adventure Consultants come «la prima organizzazione al mondo perle scalate dell'Everest, con un numero di successi al suo attivo maggiore di qualsiasi altra.» Il depliant chemandava ai potenziali clienti dichiarava:

 

 

Allora, avete sete di avventure? Forse sognate di visitare sette continenti odi salire in cima a unamontagna altissima? La maggior parte di noi non osa mai realizzare i propri sogni e si azzarda appena aconfidarli o ad ammettere di provare desideri così ambiziosi. La Adventure Consultants è specializzatanell'organizzazione di spedizioni guidate in montagna. Addestrati agli aspetti pratici della realizzazione deisogni, collaboriamo con voi per farvi raggiungere la vostra meta. Non vi trascineremo di peso in cima auna montagna, dovrete lavorare sodo, ma vi garantiamo la sicurezza e il successo della vostra avventura.Per chi ha il coraggio di guardare in faccia i propri sogni, l'esperienza offre qualcosa di speciale che leparole non sono in grado di descrivere. Vi invitiamo a scalare con noi la vostra montagna.

 

Nel 1996 Hall si faceva pagare sessantacinquemila dollari a testa per guidare i clienti sul tetto delmondo. Si trattava di una somma certamente notevole, equivalente per esempio all'ipoteca sulla mia casadi Seattle, e non comprendeva nè il viaggio aereo in Nepal nè l'attrezzatura personale. Non che le altresocietà fossero meno esose; anzi alcuni dei concorrenti facevano pagare un terzo in più. Ma grazie allostraordinario numero di successi ottenuto, Hall non stentava a trovare clienti per le sue spedizioni, equella era l'ottava che compiva sull'Everest. Chi fosse deciso a scalare quella cima a tutti i costi e fosseriuscito a mettere insieme i soldi, in un modo o nell’altro, avrebbe quasi sicuramente scelto l'AdventureConsultants.

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La mattina del 31 marzo, due giorni dopo l'arrivo a Kathmandu, i partecipanti alla spedizione sull'Everestdell'Adventure Consultants per il 1996 attraversarono la pista dell'aeroporto internazionale di Tribhuwnper salire a bordo di un elicottero Mi-17 di fabbricazione russa, che portava le insegne dell'AsianAirlines. L'elicottero, un residuato della guerra in Afghanistan tutto ammaccato, era grande come unoscuolabus, aveva posto per ventisei passeggeri e sembrava messo insieme in un cortile con pezzi diseconda mano. Il secondo pilota chiuse il portello e ci porse dei batuffoli di cotone da ficcare nelleorecchie, dopodichèquel gigantesco elicottero si alzò pesantemente in aria con un rombo da spaccare itimpani.

Il pavimento era ingombro di cumuli di borse di tela, zaini e scatole di cartone. Sui sedili di fortunadisposti lungo le paratie dell'apparecchio c'era il carico umano, i passeggeri, seduti con la faccia rivolta alcentro e le ginocchia incastrate contro il petto. Il sibilo assordante delle turbine impediva qualunqueconversazione; non era un viaggio comodo, ma nessuno si lamentava.

Nel 1963, la spedizione di Tom Hornbein aveva cominciato la lunga marcia verso l'Everest da Banepa, acirca sedici chilometri da Kathmandu, trascorrendo trentun giorni sui sentieri prima di raggiungere ilcampo base. Come la maggior parte degli scalatori moderni dell'Everest, noi avevamo deciso di saltare apiè pari la maggior parte di quella ripida e polverosa salita; l'elicottero doveva depositarci nel lontanovillaggio di Lukla, a 2800 metri di altezza nel massiccio dell'Himalaya. Ammesso che non precipitassimodurante il volo, ci saremmo risparmiati tre settimane di marcia rispetto alla spedizione di Hornbein.

Guardandomi attorno nella spaziosa cabina dellelicottero, cercai di imprimermi nella mente i nomi deicompagni di spedizione. Oltre alle guide, Rob Hall e Andy Harris, c'era Helen Wilton, una donna ditrentanove anni, madre di quattro figli, che per la terza stagione doveva fare da responsabile del campobase. Caroline Mackenzie, un'abile scalatrice e dottoressa che non aveva ancora trent'anni, era il medicodella spedizione e, come Helen, non sarebbe salita più su del campo base. Lou Kasischke, l'aristocraticoavvocato che avevo conosciuto all'aeroporto, aveva già scalato sei delle sette cime, così come YasukoNamba, di quarantasette anni, taciturna direttrice del personale nella filiale della Federal Express diTokio. Beck Weathers, quarantanove anni, era un patologo di Dallas piuttosto chiacchierone. StuartHutchison, trentaquattro anni, che indossava una maglietta Ren and Stimpy, era un cardiologo canadeseintellettualoide e un po’stravagante, in congedo da una borsa di studio per la ricerca. John Taske, ilmembro più anziano del gruppo con i suoi cinquantasei anni, era un anestesista di Brisbane che si eradedicato alle scalate dopo il congedo dall'esercito australiano. Frank Fischbeck, cinquantatrè anni, uneditore di Hong Kong tutto azzimato ed elegante, aveva tentato già tre volte di scalare l'Everest con unodei concorrenti di Hall e nel 1994 era arrivato fino alla Cima Sud a poco più di novanta metri dalla vetta.Doug Hansen, quarantasei anni, era un impiegato delle poste americane che nel 1995 era salitosull’Everest con Hall e, come Fischbeck, aveva raggiunto la Cima Sud prima di tornare indietro.

Non sapevo che cosa pensare dei miei compagni di spedizione. A giudicare dall'aspetto edall'esperienza, non avevano niente in comune con i rudi alpinisti che di solito erano stati miei compagni discalata. Comunque sembravano persone simpatiche e accettabili e non c'era un solo rompiscatole in tuttoil gruppo, o almeno nessuno si era ancora rivelato tale. In ogni modo, non avevo molto in comune connessuno di loro, tranne Doug; un uomo segaligno e piuttosto serio, con il viso rugoso che faceva pensarea un vecchio pallone da calcio, lavorava come operaio postale da oltre ventisette anni. Mi spiegò che siera pagato il viaggio lavorando nel turno di notte e facendo di giorno il manovale edile. Dal momento cheprima di diventare uno scrittore mi ero guadagnato da vivere per otto anni come carpentiere (e dalmomento che l'aliquota fiscale che avevamo in comune ci distanziava nettamente dagli altri clienti), misentivo a mio agio con Doug come non potevo sentirmi con gli altri. Per lo più attribuivo il mio crescentedisagio al fatto che non mi ero mai ritrovato in un gruppo così numeroso, e per giunta di perfetti

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sconosciuti. A parte una spedizione in Alaska che avevo fatto ventun anni prima, tutte le precedentiavventure le avevo affrontate al massimo con un paio di amici fidati, oppure da solo.

Nelle scalate, la fiducia che si ripone nei compagni non è un fattore di poco conto, perchè le azioni diuno scalatore possono influire sul benessere di tutta la squadra. È probabile che le conseguenze di unnodo malfatto, di un passo incerto, di un sasso spostato, o di qualche altra svista, si ripercuotano nonsolo sul responsabile, ma anche sui compagni. Quindi non c'è da sorprendersi se gli scalatori di solitosiano molto restii a unire le loro forze a quelle di persone delle quali non conoscono l'esperienza.

D'altra parte la fiducia nei compagni è un lusso negato a chi sceglie di partecipare come cliente a unaspedizione guidata; bisogna riporre la propria fede nella guida. Mentre l'elicottero proseguivarumorosamente verso Lukla, ebbi il sospetto che ciascuno dei miei compagni di spedizione si augurassecon il mio stesso fervore che Hall avesse fatto bene attenzione a scartare i clienti di dubbia abilità eavesse le doti necessarie per proteggere ciascuno di noi dalle manchevolezze dell'altro.

Per coloro che non si attardavano, la marcia giornaliera si concludeva nelle prime ore del pomeriggio,comunque di rado prima che il caldo e l'indolenzimento ai piedi ci costringessero a chiedere a ogni sherpadi passaggio: «Quanto manca ancora al campo?» La risposta, avremmo scoperto ben presto, era semprela stessa: «Ancora un paio di chilometri, sah'b...»

    Le serate erano pacifiche, con il fumo che indugiava nell’aria silenziosa quasi a raddolcire ilcrepuscolo, le luci scintillanti sulla cresta dove ci saremmo accampati l'indomani, le nubi che sfumavano ilcontorno del passo da superare il giorno dopo. Una crescente eccitazione attirava di continuo il miopensiero verso la cresta occidentale...

    Si avvertiva anche un senso di solitudine, al tramonto, ma ormai accadeva di rado che siriaffacciassero i dubbi. In quei momenti avevo l'impressione desolante di essermi lasciato alle spalle tuttala mia esistenza. Una volta raggiunta la montagna sapevo, o meglio confidavo, che quello stato d'animoavrebbe ceduto il posto a una concentrazione totale sul compito che mi attendeva. Ma a volte midomandavo se non avessi percorso tanta strada solo per scoprire che quanto cercavo realmente eraqualcosa che mi ero lasciato alle spalle.

                                                                                    THOMAS P. HORNBEIN

                                                                                    Everest: The West Ridge

 

 

        Da Lukla in poi, il percorso per raggiungere l'Everest portava a nord attraverso la golacrepuscolare del Dudh Kosi, un fiume gelido, strozzato dai massi alluvionali, che scendeva a valleturbolento e carico di detriti glaciali. Trascorremmo la prima notte della marcia nel villaggio di Phakding,un agglomerato composto da una mezza dozzina di case e locande strette l'una all'altra su una striscia diterreno pianeggiante sopra il pendio che sovrasta il fiume. Al calar della sera l'aria divenne pungentecome d'inverno e la mattina dopo, quando mi avviai sulla pista, un velo di brina scintillava sulle foglie dirododendro. Tuttavia la regione dell'Everest si trova a 28 gradi di latitudine nord, poco oltre i Tropici, ela temperatura salì nettamente appena il sole fu abbastanza alto da penetrare sul fondo del vallone. Amezzogiorno, dopo avere superato una fragile passerella sospesa in alto sul fiume (la quarta volta che siattraversava il fiume, quel giorno), mi sentivo scorrere dal mento rivoletti di sudore e mi ero tolto lagiacca, restando in calzoncini e maglietta. Oltre il ponte, il sentiero abbandonava le rive del Dudh Kosi

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per risalire a zigzag la ripida parete del canyon, attraversando boschetti di pini fragranti. Gli spettacolaripinnacoli affusolati di ghiaccio del Thamserku e del Kusum Kangru svettavano verso il cielo, a oltretremila metri sopra di noi. Era un paesaggio splendido, imponente come nessun altro sulla Terra, ma, giàda secoli, non più selvaggio.

        Ogni palmo di terra arabile era stato sistemato a terrazze e seminato a orzo, grano saraceno epatate. Sulle pendici dei monti ondeggiavano file di bandierine di preghiera, mentre antichichorten[6]  emuri di pietremani[7] incise con rara finezza facevano da sentinella ai passi più elevati. Risalendo dallivello del fiume, trovai la pista affollata da escursionisti, convogli di yak[8], monaci vestiti di tuniche rossee sherpa che procedevano a fatica, curvi sotto carichi di legna da ardere, cherosene e lattine di sodatanto pesanti da stroncare la schiena.

        Un'ora e mezza dopo aver lasciato il fiume, superai un'ampia cresta rocciosa, oltrepassai una seriedi recinti per gli yak con le pareti di roccia e mi ritrovai di colpo alla periferia di Namche Bazaar, il centrosociale e commerciale della società degli sherpa. Situata a 3440 metri sul livello del mare, Namcheoccupa un'enorme conca inclinata, disposta come una gigantesca antenna parabolica a metà di un pendioscosceso. Comprende poco più di un centinaio di edifici, appollaiati in modo drammatico sul pendioroccioso e collegati da un labirinto di sentieri e passerelle. Riuscii a localizzare il Khumbu Lodge,all'estremità inferiore della città, scostai la coperta che fungeva da porta e trovai i miei compagni dispedizione riuniti attorno a un tavolo d'angolo a bere tè al limone.

        Quando mi avvicinai, Rob Hall mi presentò a Mike Groom, la terza guida della spedizione, unaustraliano di trentatrè anni con i capelli color carota e il fisico snello del maratoneta. Groom era unidraulico di Brisbane che lavorava come guida solo occasionalmente. Nel 1987, costretto a trascorrereuna notte all'addiaccio mentre scendeva dalla cima del Kanchenjunga (8586 metri), aveva accusato unprincipio di congelamento ai piedi, al punto che avevano dovuto amputargli tutte le dita. Questo infortunionon aveva però ostacolato la sua carriera di scalatore dell'Himalaya: era andato avanti, conquistando ilK2, il Lhotse, il Cho Oyu, l'Ama Dablam e, nel 1993, l'Everest, senza fare ricorso alle bombole diossigeno. Groom, un uomo

 straordinariamente calmo e circospetto, era di buona compagnia, ma parlava di rado se non erainterpellato e rispondeva alle domande in modo conciso e con un tono di voce appena percettibile.

A cena, la conversazione fu dominata dai tre clienti medici, Stuart, John e soprattutto Beck, uno schemache si sarebbe ripetuto per gran parte della spedizione. Per fortuna tanto John quanto Beck avevano unostraordinario senso dell'umorismo e facevano sbellicare il gruppo dalle risate. Beck, tuttavia, aveval'abitudine di trasformare i suoi monologhi in caustiche tirate contro i liberali pisciasotto, e quella sera a uncerto punto commisi l'errore di dichiararmi in disaccordo con lui; in risposta a uno dei suoi commenti,suggerii che l'aumento del salario minimo sembrava una politica saggia e necessaria. Beck, beneinformato e abile dialettico, fece polpette della mia goffa dichiarazione e io, non avendo i mezzi perrimbeccarlo, non potei fare altro che starmene buono e mordermi la lingua, fumante di rabbia.

Mentre lui continuava a dissertare sulle innumerevoli follie dello stato assistenziale con la sua cadenzastrascicata del Texas orientale, mi alzai, allontanandomi da tavola per evitare altre umiliazioni. Quandorientrai nella sala da pranzo, mi rivolsi alla proprietaria per ordinare una birra. La donna, una piccola eaggraziatasherpani , stava prendendo un'ordinazione da un gruppo di americani che partecipavano a unaspedizione di trekking. «Abbiamo fame», le annunciò un omone dalle guance colorite, parlando il gergolocale a voce esageratamente alta e mimando il gesto di mangiare. «Vogliamo mangiare pa-ta-te.Yak-bur-ger. Co-ca Co-la. Ne avete?»

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«Volete vedere il menu?» replicò lasherpani parlando in un inglese chiaro e trillante, con un lieveaccenno di accento canadese. «Abbiamo un assortimento piuttosto vasto, e credo che per dessert ci siaancora della torta di mele appena sfornata, se vi interessa.»

L'americano, incapace di capire che quella donna delle colline dalla pelle scura gli si rivolgeva in uninglese dalla pronuncia perfetta, continuò a impiegare il suo comico gergo: «Me-nu! Bene, bene. Sì, sì,noi volere vedere me-nu.»

Gli sherpa restano un enigma per la maggior parte degli stranieri, che tendono a considerarli attraversoun filtro romantico. Chi non ha familiarità con la demografia dell'Himalaya dà spesso per scontato chetutti i nepalesi siano sherpa, mentre in effetti non esistono più di ventimila sherpa in tutto il Nepal, unanazione delle dimensioni della Carolina del Nord, con circa venti milioni di abitanti e oltre cinquantadistinti gruppi etnici. Gli sherpa sono una popolazione di montagna, che pratica il buddhismo, i cuiprogenitori sono emigrati a sud dal Tibet quattro o cinque secoli fa. Vi sono villaggi sherpa sparsi in tuttala regione himalayana del Nepal orientale, e comunità abbastanza grandi di sherpa si possono trovareanche nel Sikkim e a Darjeeling, in India, ma il cuore del territorio sherpa è il Khumbu, una manciata divalli che si diramano dalle pendici meridionali del monte Everest, una piccola regione incredibilmenteimpervia, del tutto priva di strade, automobili o veicoli a ruote di qualsiasi genere.

Risulta difficile praticare l'agricoltura in quelle valli fredde, alte e ripide, per cui l'economia tradizionaledegli sherpa ruotava intorno al commercio fra il Tibet e l'India e all'allevamento degli yak. Poi, nel 1921,gli inglesi intrapresero la prima spedizione sull’Everest e la loro decisione di ingaggiare gli sherpa diedeinizio a una trasformazione della cultura sherpa.

Poichè il regno del Nepal mantenne la chiusura delle frontiere fino al 1949, la prima esplorazionedell'Everest, e le otto spedizioni successive, furono costrette ad affrontare la montagna da nord,attraversando il Tibet, senza mai passare nelle vicinanze del Khumbu. Ma quelle prime nove spedizionipartirono per il Tibet da Darjeeling, dov’erano emigrati molti sherpa, che si erano guadagnati fra icolonialisti del luogo la fama di grandi lavoratori, affabili e intelligenti. Inoltre, poichè la maggior partedegli sherpa viveva da generazioni in villaggi situati fra i duemilasettecento e i quattromiladuecento metri daltezza, erano adattati fisiologicamente ai rigori dell’alta quota. Dietro raccomandazione di A.M. Kellas,un medico scozzese che aveva compiuto scalate e lunghi viaggi in compagnia degli sherpa, la spedizionesull Everest del 1921 ne assunse un discreto numero come portatori e aiutanti di campo, pratica che neisettantacinque anni trascorsi da allora è stata seguita da quasi tutte le spedizioni successive, salvo rareeccezioni.

        Da vent'anni a questa parte, l'economia e la cultura del Khumbu sono sempre più legate nel bene enel male, all'afflusso stagionale dei circa quindicimilatrekker e scalatori che visitano la regione ogni anno.Gli sherpa che apprendono a scalare e lavorano sulle vette, in particolare coloro che hanno conquistatol'Everest, godono di grande stima nelle loro comunità. Purtroppo, però, quelli che si sono guadagnati unafama nel mondo dell'alpinismo corrono anche seri rischi di perdere la vita. Dal 1922, anno in cui settesherpa rimasero uccisi sotto una valanga durante la seconda spedizione inglese, un numerosproporzionato di sherpa ha incontrato la morte sull'Everest: in tutto cinquantatre. In effetti ammontano aoltre un terzo di tutte le vittime dell'Everest.

Malgrado i rischi, esiste un’accanita competizione fra gli sherpa per accaparrarsl gli incarichi più ambitinella tipica spedizione sull'Everest. I posti più ricercati sono una mezza dozzina, riservati agli scalatoriesperti, che possono prevedere di guadagnare da millequattrocento a duemilacinquecento dollari per duemesi di rischioso lavoro; una paga allettante per una nazione sprofondata nella mlseria, con un reddltoannuale pro capite di circa centosessanta dollari.

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Per regolare il crescente afflusso di alpinisti etrekker occidentali, nella reglone del Khumbu stannosorgendo come funghi locande e case da tè, ma la nuova attività edilizia è particolarmente vistosa aNamche Bazaar. Lungo la pista per Namche ho superat to innumerevoli portatori che risalivano dalleforeste ai piedi dell'Himalaya trasportando travi di legno appena tagliato del peso di oltre cinquanta chili:una fatica fisica spossante, per la quale ricevevano un compenso di tre dollari circa al giorno. Coloro checonoscono da tempo il Khumbu sono rattristati dal boom del turismo e dalla trasformazione che haprodotto in quello che gli scalatori occidentali consideravano un paradiso terrestre, un'autenticaShangri-La. Intere valli sono state disboscate per esaudire la richiesta crescente di legna per il fuoco. Gliadolescenti che sostano davanti ai localicarrom di Namche indossano più spesso jeans e magliette deiChicago Bulls che gli originali costumi tradizionali, ed è facile che le famiglie trascorrano le serate riuniteintorno al videoregistratore per assistere all'ultimo film di Schwarzenegger.

La trasformazione della cultura del Kumbu non avviene certo in meglio, ma non ho sentito molti sherpalamentarsene. La valuta portata da trekker e scalatori, oltre ai finanziamenti delle organizzazioniinternazionali di soccorso da questi sostenute, sono stati utilizzati per fondare scuole e cliniche mediche,per ridurre la mortalità infantile, per costruire passerelle sui fiumi e portare l'energia idroelettrica aNamche e in altri villaggi. Sembra poco più che un segno di condiscendenza da parte degli occidentalideplorare la fine dei bei tempi andati, quando la vita nel Khumbu era molto più semplice e più pittoresca.La maggior parte delle persone che vivono in questo paese impervio non sembra augurarsi l'isolamentodal mondo moderno o dal flusso disordinato del progresso umano. L'ultima cosa che gli sherpadesiderano è essere conservati come esemplari in un museo antropologico.

 

 

Un marciatore forte e già acclimatato all'altitudine potrebbe coprire la distanza dalla pista aerea di Luklaal campo base dell'Everest in due o tre giornate di marcia piuttosto intense. Poichè tuttavia noi eravamoarrivati quasi tutti dal livello del mare, Hall fece attenzione a mantenere un'andatura più tranquilla, chelasciasse al nostro corpo il tempo di adattarsi all'aria sempre più rarefatta. Di rado marciavamo per oltredue o tre ore al giorno. Parecchie volte, quando l'itinerario di Hall prevedeva un ulteriore periodo diacclimatazione, non si marciava affatto.

Il 3 aprile, dopo un giorno di acclimatazione a Namche, riprendemmo il cammino verso il campo base.Venti minuti dopo aver lasciato il villaggio, superando una svolta mi trovai di fronte un panoramamozzafiato. Seicento metri più in basso, il Dudh Kosi, scavando una profonda fessura nel letto di rocciacircostante, sembrava un filo d'argento attorcigliato che scintillava nell'ombra. Quattromila metri più inalto, l'enorme guglia dell'Ama Dablam svettava in controluce all'estremità superiore della valle, comeun'apparizione; e duemilacento metri ancora più su, sovrastando l'Ama Dablam, sorgeva la massa glacialedell'Everest, quasi tutta nascosta dietro il Nuptse. Come sempre, un pennacchio orizzontale di condensaaleggiava sulla cima come fumo congelato, tradendo la violenza dei venti della corrente a getto.

Rimasi immobile a fissare la cima per quasi mezz'ora, tentando di valutare l'impressione che avrebbefatto stare ritto in cima a quel vertice spazzato dai venti. Sebbene avessi conquistato centinaia dimontagne, l’Everest era così diverso da tutte quelle che avevo scalato in precedenza, che le capacitàdella mia immaginazione non erano all'altezza dell'impresa. La vetta appariva così gelida e alta, cosìincredibilmente lontana, che mi sembrava di essermi imbarcato in una spedizione sulla luna. Quandodistolsi lo sguardo per riprendere il cammino lungo la pista, le mie emozioni oscillavano fra un’ansianervosa e un senso di paura quasi opprimente.

Qualche ora dopo, nel pomeriggio, raggiunsi Tengboche[9], il monastero buddhista più grande e

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importante del Khumbu. Chhongba Sherpa, un uomo segaligno e meditativo che si era unito allaspedizione in qualità di cuoco del campo base, si offrì di organizzare un incontro con ilrimpoche , ossia«il lama principale di tutto il Nepal», spiegò, «un sant'uomo. Proprio ieri ha concluso un lungo periodo dimeditazione silenziosa: non ha pronunciato una parola per tre mesi. Saremo i suoi primi visitatori, equesto è di ottimo auspicio». Doug, Lou e io consegnammo a Chhongba cento rupie a testa [all'incircadue dollari), per acquistare dellekata cerimoniali, le sciarpe di seta bianca da offrire alrimpoche , poi citogliemmo le scarpe e Chhongba ci condusse in una piccola stanza piena di spifferi dietro il tempioprincipale.

Seduto a gambe incrociate su un cuscino di broccato, avvolto nelle tuniche color borgogna, c'era unuomo piccolo e rotondetto con la testa rapata a zero, che sembrava vecchissimo e molto stanco.Chhongba s'inchinò con aria reverente, gli parlò brevemente nella lingua degli sherpa e ci fece segno divenire avanti. Ilrimpoche allora ci benedisse tutti a turno, mettendoci al collo nello stesso tempo lekatache avevamo comprato, dopodiche ci rivolse un sorriso beato, offrendoci il tè. «Dovrebbe portarequestakata sulla cima dell'Everest»,[10]mi ammonì Chhongba con voce solenne. «Farà piacere a Dio ela proteggerà dal male.»

Non sapendo bene come comportarmi alla presenza di un essere divino, quella reincarnazione vivente diun lama antico e illustre, ero terrorizzato al pensiero di offenderlo involontariamente o di commetterequalche gaffe irreparabile. Mentre sorseggiavo il tè dolce in preda all'imbarazzo, ilrimpoche frugò in unostipetto vicino, estraendone un grosso libro ornato da una decorazione elaborata, che mi consegnò. Miripulii sui pantaloni le mani sporche e lo aprii nervosamente. Era un album fotografico. Ilrimpoche , vennefuori, era stato di recente in America per la prima volta e l'album conteneva le foto del viaggio: sua santitàa Washington, in posa davanti al Lincoln Memorial e all'Air and Space Museum; sua santità in California,sul molo di Santa Monica. Con un largo sorriso, mi indicò eccitato le sue due foto preferite di tuttol'album: sua santità in posa accanto a Richard Gere e un’altra istantanea che lo ritraeva insieme a StevenSeagal.

I primi sei giorni di marcia trascorsero in un'atmosfera celestiale. La pista attraversava boschetti diginepri e betulle nane, pini del Bhutan e rododendri, sfiorando cascate rombanti, incantevoli giardini dirocce e ruscelli spumeggianti. L'orizzonte degno delle Valchirie brulicava di vette delle quali avevo lettofin da quando ero bambino. Poichè la maggior parte del materiale era trasportato da yak e portatori, ilmio zaino conteneva poco più che una giacca, qualche barretta dolce e la macchina fotografica. Privo dipesi e senza fretta, assorto nella semplice gioia di attraversare a piedi un paese esotico, scivolavo in unasorta di trance; ma l'euforia non durava a lungo. Prima o poi mi rammentavo della meta che mi aspettavaalla fule del viaggio, e l'ombra che l'Everest gettava sulla mia mente mi riportava di scatto alla realtà.

Ognuno di noi marciava secondo la sua andatura, fermandosi spesso per ristorarsi presso le sale da tèche sorgevano lungo la strada e per chiacchierare con i passanti. Mi ritrovai a viaggiare spesso incompagnia di Doug Hansen, il dipendente delle poste, e di Andy Harris, la guida che faceva da assistentea Rob Hall e procedeva in coda al gruppo. Andy, soprannominato «Harold» da Rob e da tutti i suoiamici neozelandesi, era un ragazzo grande e grosso, con la stazza di un difensore di football e l'aspettorude e attraente del protagonista maschile degli spot pubblicitari per le sigarette. Durante l'inverno agliantipodi era molto richiesto come guida per l'eliski; d'estate invece lavorava come guida per gli scienziatiche conducono ricerche geologiche nell'Antartide o scortava scalatori sulle Alpi meridionali della NuovaZelanda.

Mentre percorrevamo il sentiero, Andy parlava con nostalgia della donna con la quale viveva, unadottoressa che si chiamava Fiona McPherson. Quando ci fermammo a riposare su una roccia, presedallo zaino una foto per farmela vedere: era una donna alta, bionda, dall’aria atletica. Andy mi disse chelui e Fiona erano impegnati nella costruzione di una casa sulle colline, poco lontano da Queenstown.

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Appassionato dei semplici piaceri rappresentati dal segare travi e conficcare chiodi, Andy ammise chequando Rob gli aveva offerto per la prima volta quel posto nella spedizione sull'Everest la sua reazioneera stata ambivalente: «Mi era difficile lasciare Fi e la casa, per la verità. Avevamo appena messo inopera il tetto; sa? Ma come si fa a rifiutare una possibilità di scalare l'Everest? Soprattutto quando hail'occasione di lavorare a fianco di uno come Rob Hall.»

Anche se Andy non era mai stato sull’Everest prima di allora, aveva familiarità con I'Himalaya. Nel 1985aveva scalato un difficile vetta alta 6680 metri, il Chobutse, che sorgeva a una cinquantina di chilometridall'Everest, e nell'autunno del 1994 aveva trascorso quattro mesi aiutando Fiona a dirigere la clinica diPheriche, un tetro villaggio battuto dai venti che sorge a 4240 metri sul livello del mare, dovè facemmotappa durante le notti del 4 e 5 aprile.

La clinica era stata finanziata da una fondazione chiamata Himalayan Rescue Association {Associazionehimalayana per il soccorso) soprattutto per curare le malattie legate all’altitudine - anche se offriva curegratuite agli sherpa locali - e per istruire itrekker sui rischi che comporta un'ascensione troppo rapida aquote molto elevate. Era stata istituita nel 1973 dopo che quattro membri di una spedizione giapponeseindipendente di trekking erano morti nelle vicinanze a causa degli effetti dell'altitudine. Primadell'istituzione della clinica, le malattie acute causate dall'altitudine uccidevano pprossimativamente uno odue escursionisti su cinquecento di quelli che passavano da Pheriche. Laura Ziemer, un'avvocatessa digrido americana che, all'epoca della nostra visita, lavorava in quella istituzione {che occupava in tuttoquattro locali) insieme con il marito medico, Jim Litch, e un altro giovane sanitario di nome Larry Silver,sottolineava che quel tasso allarmante di mortalità non era stato aumentato da incidenti di montagna; levittime erano «normalissimi appassionati di trekking che non si erano mai avventurati oltre i sentieritracciati.»

Ora, grazie ai corsi di istruzione e alle cure d'emergenza fornite dal personale della clinica, compostotutto di volontari, quel tasso di mortalità è stato ridotto a uno su trentamila. Benchè gli occidentali idealisticome la Ziemer che lavorano alla clinica di Pheriche non ricevano compensi e anzi debbano pagarsi lespese di viaggio per e dal Nepal, si tratta di un posto privilegiato che attira le richieste di mediciestremamente qualificati di tutto il mondo. Caroline Mackenzie, il medico della spedizione di Hall, avevalavorato nella clinica della HRA insieme con Fiona McPherson e Andy nell'autunno del 1994.

Nel 1990, l'anno in cui Hall aveva conquistato l'Everest per la prima volta, la clinica era diretta da unadottoressa neozelandese esperta e molto sicura di se, Jan Arnold. Hall l'aveva conosciuta passando daPheriche per raggiungere la montagna, ed era stato vittima di un colpo di fulmine. «Invitai Jan a uscire conme appena tornato dall'Everest», rievocò Hall durante la prima notte che trascorremmo al villaggio.«Come primo appuntamento le proposi di andare in Alaska per scalare insieme il monte McKinley, e leirispose di sì.» Si erano sposati due anni dopo. Nel 1993 Jan Arnold aveva raggiunto il culminedell'Himalaya insieme con Hall; nel 1994 e 1995 si era recata al campo base per lavorare come medicodella spedizione e sarebbe tornata anche quell'anno, se non fosse stata incinta di sette mesi del primofiglio. Così l'incarico era toccato a Mackenzie.

Il giovedì dopo cena, la prima sera che trascorrevamo a Pheriche, Laura Ziemer e Jim Litch invitaronoalla clinica Hall, Harris e Helen Wilton, l'organizzatrice del nostro campo base, per bere insieme unbicchierino e aggiornarsi sugli ultimi pettegolezzi. Nel corso della serata la conversazione cadde sui rischiimpliciti nell'attività di scalatore (e guida) sull'Everest, e Litch ricorda ancora la discussione conagghiacciante lucidità. Hall, Harris e Litch erano perfettamente d'accordo sul fatto che prima o poi era«inevitabile» un grave incidente che coinvolgesse un numero elevato di clienti. Comunque, rammentaLitch, che aveva scalato l'Everest dal Tibet nella primavera precedente, «la convinzione di Rob era chenon sarebbe toccato a lui; si preoccupava solo al pensiero di ‘dover salvare il culo a un'altra squadra’e,al momento dell'inevitabile calamità, era ’certo che si sarebbe verificata sul versante settentrionale della

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montagna, cioè quello tibetano, che era più pericoloso’.»

 

Sabato 6 aprile, a qualche ora di cammino da Pheriche, arrivammo all'estremità inferiore del ghiacciaioKhumbu, una lingua di ghiaccio lunga quasi venti chilometri che scende dal fianco meridionale dell'Evereste che ci sarebbe servita, mi auguravo efficacemente, da autostrada per raggiungere la vetta. Ormai,raggiunta la quota di 4880 metri, ci eravamo lasciati alle spalle ogni traccia di verde. Lungo la cresta dellamorena terminale del ghiacciaio, che si affaccia sulla valle colma di nebbia, sorgono venti monumenti dipietra, sobriamente allineati, monumenti funebri di scalatori che sono periti sull’Everest, in gran partesherpa. Da quel punto in avanti il nostro mondo sarebbe diventato una distesa nuda e monocromatica diroccia e ghiaccio spazzati dal vento. Nonostante l'andatura pacata, avevo cominciato a risentire deglieffetti dell’altitudine, che mi lasciavano con la testa leggera e un lieve affanno.

In quel punto la pista era sepolta in molti tratti da uno strato di neve invernale alto quanto un uomo.Quando la neve si rammolliva al sole pomeridiano, gli zoccoli degli yak penetravano nella crostaghiacciata e le bestie sprofondavano fino al ventre. I conducenti, brontolando, sferzavano gli animali perspronarli a proseguire, e intanto minacciavano di tornare indietro. Alla fine della giornata arrivammo in unvillaggio chiamato Lobuje e lì cercammo riparo dal vento in una locanda affollata e incredibilmentesporca.

Ai margini del ghiacciaio Khumbu sorgeva un agglomerato di costruzioni basse e cadenti, rannicchiate sulterreno per resistere alla violenza degli elementi. Lobuje era un luogo tetro, affollato di sherpa e alpinistiappartenenti a una dozzina di spedizioni diverse, escursionisti tedeschi, branchi di yak smunti, tutti direttiverso il campo base dell'Everest, poco più su nella valle, a una giornata di cammino. L'ingorgo, spiegòRob, era dovuto allo strato di neve, ancora insolitamente alto per la stagione, che fino al giorno primaaveva addirittura impedito agli yak di raggiungere il campo base. La mezza dozzina di locande delvillaggio era al completo e le tende erano stipate l'una sull'altra nei pochi tratti di terreno fangoso che nonerano ricoperti di neve. Decine di portatorirai etamang , provenienti dalle colline più in basso - vestiti distracci leggeri e svolazzanti, lavoravano come portatori per varie spedizioni - erano accampati nellecaverne e sotto i massi delle pendici circostanti.

I tre o quattro servizi igienici di pietra del villaggio traboccavano letteralmente di escrementi. Le latrineerano così disgustose che la maggior parte delle persone, tanto nepalesi quanto occidentali, evacuavanoper terra all'aperto, dovunque li cogliesse lo stimolo. Enormi cumuli di feci maleodoranti erano sparsidappertutto, al punto che era impossibile evitarli, e il fiume di neve sciolta che serpeggiava attraverso ilcentro dell'abitato era diventato una fogna a cielo aperto.

La sala principale della locanda in cui eravamo alloggiati era arredata con piattaforme di legno cheservivano da brandine a una trentina di persone. Mi trovai una brandina libera al livello superiore, scrollaiben bene il materasso sudicio per scacciare il maggior numero possibile di pulci e pidocchi e aprii ilsaccopiuma. Addossata alla parete vicina c'era una stufetta di ferro, che forniva calore, alimentata dasterco di yak essiccato. Dopo il tramonto la temperatura scese ben al di sotto dello zero, e i portatorientrarono a frotte per sfuggire ai rigori della notte scaldandosi attorno alla stufa. Poichè lo sterco di yakbrucia male anche nelle circostanze migliori, e tanto più nell’aria povera di ossigeno deiquattromilanovecento metri, l'ambiente fu ben presto saturo di un fumo denso e acre, come se il tubo discappamento di un autobus diesel si scaricasse direttamente nel locale. Per ben due volte durante la nottedovetti uscire all’aperto per respirare, assalito da una tosse irrefrenabile. La mattina dopo avevo gli occhiiniettati di sangue che bruciavano, le narici intasate di fuliggine nera e una tosse secca e insistente che miavrebbe accompagnato fino alla fine della spedizione.

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Rob aveva intenzione di farci restare a Lobuje un solo giorno, per acclimatarci, prima di percorrere idieci o dodici chilometri che ci separavano dal campo base, dove i nostri sherpa erano arrivati alcunigiorni prima in modo da preparare il terreno per il nostro arrivo e stabilire il percorso da seguire lungo lependici inferiori dell’Everest. La sera del 7 aprile, però, arrivò a Lobuje un corriere affannato che portavaun messaggio inquietante dal campo base: Tenzing, un giovane sherpa assunto da Rob, era precipitatoper quarantacinque metri in un crepaccio, una spaccatura aperta nel ghiacciaio. Altri quattro sherpa loavevano tirato fuori vivo, ma era gravemente ferito e probabilmente aveva un femore fratturato. Rob,pallidissimo, annunciò che lui e Mike Groom si sarebbero affrettati a raggiungere il campo base all'albaper coordinare i soccorsi a Tenzing. «Mi dispiace darvi questa notizia», aggiunse, «ma voi altri dovreteaspettare qui a Lobuje con Harold fin che non avremo la situazione sotto controllo.»

Tenzing, apprendemmo in seguito, stava compiendo una ricognizione sull'itinerario al di sopra del CampoUno, scalando una sezione relativamente poco impegnativa del ghiacciaio Khumbu insieme ad altriquattro sherpa. I cinque uomini procedevano in fila indiana, il che era sensato, ma non erano assicuraticon la corda, e questa era una grave violazione del protocollo alpinistico. Tenzing avanzava sulle ormedegli altri quattro, seguendo esattamente lo stesso percorso, quando uno strato sottile di neve checopriva un profondo crepaccio aveva ceduto sotto di lui; prima ancora di avere il tempo di gridare, eracaduto a precipizio nelle viscere del ghiacciaio, tenebrose come il leggendario paese dei Cimmeri.

La quota di 6250 metri era giudicata troppo elevata per evacuarlo in elicottero senza rischi, in quantol'aria era troppo rarefatta per assicurare sufficiente spinta portante ai rotori di un elicottero, perconsentirgli cioè di atterrare, decollare o anche solo librarsi con ragionevole sicurezza; quindi sarebbestato necessario trasportare Tènzing per circa novecento metri in discesa, fino al campo base,procedendo lungo la seraccata del Khumbu, uno dei tratti più ripidi e insidiosi di tutta la montagna.Portare al campo Tenzing ancora vivo avrebbe richiesto uno sforzo imponente.

Rob era sempre molto interessato al benessere degli sherpa che lavoravano per lui. Prima che il nostrogruppo partisse da Kathmandu ci aveva fatto riunire, tutti seduti in circolo, per impartirci una lezioneinsolitamente severa sulla necessità di mostrare agli sherpa la debita gratitudine e il giusto rispetto. «Glisherpa che assumiamo sono i migliori del settore», ci aveva ammonito. «Svolgono un lavoroincredibilmente duro per una somma di denaro piuttosto modesta secondo i canoni occidentali. Voglioche vi ricordiate tutti che senza il loro aiuto non avremmo la minima possibilità di raggiungere la vettadell’Everest. Velo ripeto, senza il sostegno degli sherpa nessuno di noi avrebbe la possibilità di scalare lamontagna.»

In una conversazione successiva, Rob confessò che negli anni precedenti aveva espresso delle criticheagli organizzatori di alcune spedizioni che avevano trattato i loro sherpa senza le dovute attenzioni. Nel1995 un giovane sherpa era morto sull'Everest e Hall riteneva che l'incidente fosse accaduto perchè allosherpa era stato «consentito di salire in alto senza il debito addestramento. Io ritengo che la responsabilitàdi prevenire questo tipo di incidenti spetti a coloro che organizzano questi viaggi.»

L'anno prima, una spedizione guidata americana aveva assunto come sguattero uno sherpa di nomeKami Rita. Forte e ambizioso, appena ventunenne o poco più, lo sherpa aveva insistito per essereammesso a lavorare come sherpa scalatore nella parte superiore del percorso. In segno diapprezzamento per il suo entusiasmo e la sua dedizione, qualche settimana dopo gli era stato concesso ilpermesso, nonostante non avesse alcuna esperienza alpinistica e non avesse ricevuto un addestramentoformale alla tecnica di scalata.

Da 6700 a 7600 metri la via normale risale lungo un pendio di ghiaccio ripido e insidioso, noto col nomedi Lhotse Pace, o parete del Lhotse. Come misura di sicurezza, le spedizioni fissano sempre una serie dicorde su questo pendio, da cima a fondo, e gli alpinisti devono assicurarsi durante l'ascesa agganciando

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un moschettone di sicurezza alle corde fisse. Kami, essendo giovane, inesperto e arrogante, avevapensato che non fosse davvero necessario agganciarsi alla corda. Un pomeriggio, mentre trasportava uncarico su per la parete del Lhotse, aveva perso la presa sul ghiaccio duro come la roccia ed eraprecipitato per oltre seicento metri fino in fondo alla valle.

Il mio compagno di squadra Prank Pischbeck aveva assistito al drammatico avvenimento, dato che nel1995 aveva compiuto il terzo tentativo di scalare l'Everest come cliente della società americana cheaveva assunto Kami. Prank stava salendo con le corde sulla parte superiore della parete del Lhotse,raccontò con voce turbata, «quando alzai la testa e vidi qualcuno precipitare dall'alto a capofitto. Quandomi passò accanto urlava, lasciando dietro di sè una scia di sangue.»

Alcuni alpinisti si erano precipitati nel punto in cui il corpo di Kami si era arrestato, ai piedi della parete,ma lui era già morto a causa delle ferite riportate nella caduta. Il suo corpo era stato trasportato al campobase, dove, secondo la tradizione buddhista, per tre giorni i suoi amici avevano portato cibi peralimentare il cadavere; poi era stato trasferito in un villaggio presso Tengboche e lì cremato. Mentre ilcorpo veniva consumato dalle fiamme, la madre di Kami aveva lanciato gemiti strazianti, percuotendosi ilcapo con un sasso appuntito.

Kami era ben presente nella mente di Rob, quella mattina dell'8 aprile, quando lui e Mike si affrettaronoa raggiungere il campo base per cercare di portare via Tenzing vivo.

Passando tra gli slanciati penitentes del ghiacciaio, la Phantom Alley, entrammo nel fondo della valledisseminata di massi, al termine di un enorme anfiteatro... Qui [la seraccata compiva una bruscadeviazione, volgendo a sud come il ghiacciaio del Khumbu. Stabilimmo il nostro campo base a 5420metri di altitudine, sulla morena laterale che formava il bordo esterno della curva. Enormi macigniconferivano al luogo un’aria di solidità, ma il fluire ininterrotto del pietrisco sotto i piedi correggevaquell’impressione. Tutto ciò che si poteva vedere, sentire e udire - la seraccata, la morena, le valanghe, ilgelo - parlava di un mondo che non era destinato ad accogliere la presenza umana. Non vi scorrevanoacque, non vi crescevano piante: solo distruzione e disgregazione... Quella sarebbe stata la nostra casaper parecchi mesi finchè la montagna non fosse stata vinta.

THOMAS F. HORNBEIN

Everest: The West Ridge

 

 

 

L'8 aprile, poco dopo il calar della sera, la ricetrasmittente di Andy si ridestò crepitando all'esterno dellalocanda di Lobuje: era Rob che chiamava dal campo base, riferendo buone notizie. Era stato necessarioformare una squadra di trentacinque sherpa, appartenenti a varie spedizioni, che avevano lavorato pertutta la giornata, e alla fine erano riusciti a portare a valle Tenzing. Assicurandolo a una scaletta dialluminio, si erano industriati a calarlo, trascinarlo e trasportarlo lungo la seraccata, e ora lo sherpariposava al campo base per riprendersi da quella dura prova. Se il tempo reggeva, all'alba sarebbearrivato un elicottero per trasportarlo in ospedale a Kathmandu. Con evidente sollievo, Rob ci diede ilvia per lasciare Lobuje la mattina dopo e proseguire da soli fino al campo base.

        Noi clienti ci sentimmo enormemente sollevati al pensiero che Tenzing fosse in salvo, e non meno

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sollevati alla prospettiva di lasciare Lobuje. John e Lou si erano beccati non so quale violento disturbointestinale a causa della sporcizia dell'ambiente circostante. Helen, la responsabile del campo base,soffriva di un'emicrania lancinante, scatenata dall'altitudine, che non voleva saperne di attenuarsi, mentrela mia tosse era peggiorata notevolmente dopo la seconda nottata trascorsa nella locanda invasa dalfumo.

        Per questo la terza notte che trascorremmo al villaggio decisi di sottrarmi a quel fumo nocivo,trasferendomi in una tenda innalzata all'esterno e lasciata libera da Rob e Mike quando erano andati alcampo base. Andy decise di venire con me, ma alle due di notte mi svegliai di soprassalto quando luiscattò di colpo a sedere accanto a me, cominciando a gemere. «Ehi, Harold», gli domandai dal miosaccopiuma, «ti senti bene?»

        «Veramente non lo so. A quanto pare, qualcosa che ho mangiato a cena non vuol saperne direstare giù.» Un attimo dopo Andy brancicava disperatamente la lampo dell'apertura, riuscendo amettere fuori la testa e il torso appena in tempo prima di vomitare con violenza. Quando i conati siplacarono, rimase immobile, carponi, per alcuni minuti, fuori della tenda per metà, poi scattò in piedi, siallontanò di alcuni metri e si calò i pantaloni, cedendo a un violento attacco di diarrea. Trascorse il restodella notte all'addiaccio, continuando a liberarsi con violenza del contenuto del suo apparatogastrointestinale.

        La mattina dopo Andy era debole e disidratato, scosso da un tremito violento. Helen gli suggerì direstare a Lobuje finchè non avesse ripreso le forze, ma Andy si rifiutò di prendere in considerazionel'idea. «Non passerei un'altra notte in questo buco schifoso neanche per tutto l'oro del mondo», annunciòfacendo una smorfia, con la testa fra le ginocchia. «Oggi vengo al campo base insieme a voi, anche acosto di strisciare.»

        Alle nove di mattina eravamo pronti con i bagagli e ci mettemmo in cammino. Mentre il resto delgruppo procedeva di buon passo lungo la pista, Helen e io restammo indietro per affiancarci a Andy, chedoveva compiere uno sforzo incredibile solo per mettere un piede davanti all'altro. Ogni tanto si fermava,si appoggiava per qualche minuto ai bastoncini da sci in modo da riprendersi, dopodichè radunava leforze per procedere nell'avanzata.

        Il percorso descriveva un saliscendi lungo alcuni chilometri attraverso i depositi rocciosi dellamorena laterale del ghiacciaio del Khumbu, prima di scendere sulla superficie del ghiacciaio vero eproprio. Il ghiaccio era quasi tutto ricoperto da ciottoli, ghiaia e macigni di granito, ma di tanto in tanto lapista attraversava un tratto rimasto a nudo, che rivelava una sostanza ghiacciata e traslucida scintillantecome onice levigata. L'acqua di disgelo colava impetuosa attraverso innumerevoli canali superficiali esotterranei, creando uno spettrale brontolio armonico che risuonava nella massa del ghiacciaio.

        A metà del pomeriggio raggiungemmo un bizzarro corteo di penitentes di ghiaccio isolati l'unodall'altro - il più grande era alto una trentina di metri - noto con il nome di Phantom Alley, «il viale deifantasmi». Scolpite dagli intensi raggi solari, quelle torri, che sprigionavano una luminosità radioattivacolor turchese, sporgevano dal ghiaione come i denti di uno squalo gigante, estendendosi fin dove potevagiungere lo sguardo. Helen, che era passata più volte di lì, annunciò che eravamo vicini alla meta.

        Circa tre chilometri più avanti, il ghiacciaio descriveva una brusca curva a est; noi raggiungemmofaticosamente la sommità di un lungo pendio e vedemmo stendersi ai nostri piedi una città variopinta dicupole di nylon. Più di trecento tende, che ospitavano altrettanti scalatori e sherpa di quattordicispedizioni, punteggiavano il ghiaccio cosparso di massi. Impiegammo venti minuti solo per individuare ilnostro recinto in quel vasto insediamento. Quando arrivammo al tratto finale, in salita, Rob ci venneincontro a grandi passi. «Benvenuti al campo base dell'Everest», esclamò con un gran sorriso. Il mio

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altimetro da polso indicava 5360 metri.

 

 

        Il villaggio creatoad hoc che ci avrebbe fatto da casa per le prossime sei settimane sorgevaall'estremità superiore di un vasto anfiteatro naturale, disegnato da pareti rocciose proibitive. Le scarpateal di sopra del campo erano ricoperte di ghiacciai sospesi, dai quali si staccavano immense scariche cheprecipitavano rombando a tutte le ore del giorno e della notte. Quattrocento metri a est, incuneata fra laparete Nuptse e il bastione occidentale dell'Everest, la seraccata del Khumbu s'insinuava attraverso unostretto varco in un caos di schegge ghiacciate. L’anfiteatro era aperto a sud-ovest, quindi era inondatodal sole; nei pomeriggi limpidi in cui non c'era vento faceva tanto caldo che si poteva stare sedutitranquillamente all'aperto in T-shirt. Ma non appena il sole calava dietro la vetta conica del Pumori, unamontagna alta 7145 metri poco più a ovest del campo base, la temperatura scendeva di colpo verso lozero. Quando mi ritiravo nella tenda per la notte, mi sentivo cullare da una serenata di crepitii e schiocchisonori, a rammentarmi che ero disteso su un fiume di ghiaccio in movimento.

        In stridente contrasto con la natura scabra e selvaggia dell'ambiente circostante c'era la miriade dicomfort del campo dell'Adventure Consultants, che accoglieva quattordici occidentali - gli sherpa cidefinivano collettivamente «membri», oppuresahib - e quattordici sherpa. La mensa, un enormepadiglione di tela, era arredata con un grande tavolo di pietra, un impianto stereo, una biblioteca ed eradotata di luci elettriche alimentate dall'energia solare; la tenda delle comunicazioni, adiacente a questa,ospitava un telefono satellitare e un fax. Era stata improvvisata persino una doccia con un tubo di gommae un secchio riempito d'acqua riscaldata dal personale di cucina. A intervalli di pochi giorni arrivavano adorso di yak pane e verdure fresche. Perpetuando una tradizione dell'epoca dell'impero coloniale,consolidata dalle spedizioni dei bei tempi andati, ogni mattina Chhongba e il suo aiutante Tendi facevanoil giro delle tende per servire tazze fumanti di tè sherpa ai clienti ancora imbozzolati nei sacchipiuma.

        Avevo sentito raccontare tante storie sull'Everest trasformato in una discarica dalle orde di scalatorisempre più numerose, storie in cui la responsabilità principale veniva addossata alle spedizionicommerciali. Anche se negli anni Settanta e Ottanta il campo base era effettivamente un enorme cumulodi rifiuti, negli ultimi tempi era diventato un luogo abbastanza ordinato, senza dubbio l'insediamentoumano più pulito che avessi visto da quando avevo lasciato Namche Bazaar, e gran parte del merito dellepulizie andava in realtà alle spedizioni commerciali.

        In questo senso le guide, che portavano clienti sull’Everest un anno dopo l'altro, avevano uninteresse che i visitatori occasionali non potevano coltivare. Nell'ambito della spedizione del 1990, RobHall e Gary Ball avevano promosso un'iniziativa per rimuovere cinque tonnellate di rifiuti dal campo base.Hall e alcuni suoi colleghi avevano anche avviato una collaborazione con i ministri del governo diKathmandu per formulare una politica che incoraggiasse gli scalatori a tenere pulita la montagna. Nel1996, oltre alla tariffa dell'autorizzazione, le spedizioni dovevano versare una somma di quattromiladollari, destinata a essere rimborsata solo se una quantità prestabilita di rifiuti fosse stata riportata aNamche e Kathmandu. Anche i barili contenenti gli escrementi estratti dalle nostre latrine dovevanoessere rimossi e portati via.

        Il campo base brulicava di attività come un formicaio. In un certo senso il recinto dell'AdventureConsultants fungeva da sede del governo per l'intero campo base, perchè nessuno sulla montagnagodeva di maggiore rispetto di Hall. Qualunque problema ci fosse, che si trattasse di dispute sindacalicon gli sherpa, di un'emergenza medica o di una decisione critica sulla strategia della scalata, gli interessativenivano nella tenda-mensa per chiedere consiglio a Hall, che dispensava con generosità la sua saggezza

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persino ai rivali, in particolare Scott Fischer.

        In precedenza, Fischer aveva già guidato con successo una spedizione su un «Ottomila»,[11]per laprecisione il Broad Peak, alto 8047 metri, che sorge nella catena del Karakorum, in Pakistan, nel 1995.Inoltre aveva tentato ben quattro volte di conquistare l'Everest, raggiungendo la vetta una sola volta, nel1994, ma non in veste di guida. La primavera del 1996 contrassegnava la sua prima visita sulla montagnaa capo di una spedizione commerciale; anche Fischer, come Hall, guidava un gruppo di otto clienti. Il suocampo, contraddistinto da un enorme striscione pubblicitario del caffè Starbucks appeso a un blocco digranito grande come una casa, si trovava a cinque minuti di cammino dal nostro, più in basso sulghiacciaio.

        Gli uomini e le donne di varia estrazione che scalano per professione le cime più alte del mondocostituiscono un circolo chiuso e ristretto. Fischer e gli altri erano rivali in affari ma, poichè erano anchemembri in vista della confraternita dell'alta quota, le loro strade s'incrociavano spesso e sotto certi aspettisi consideravano amici. Fischer e Hall si erano conosciuti negli anni Ottanta nel Pamir, in Russia, e inseguito avevano trascorso parecchio tempo insieme sull'Everest, nel 1989 e nel 1994. Avevano in mentedei progetti per unire le loro forze e tentare la conquista del Manaslu, una difficile vetta di 8163 metrinella regione centrale del Nepal, subito dopo aver condotto i rispettivi clienti sull'Everest nel 1996.

        Il legame tra Fischer e Hall si era consolidato nel 1992, quando si erano incontrati per caso sul K2,la seconda montagna del mondo in ordine di altezza. Hall stava tentando la scalata insieme con il suocompañero e socio in affari Gary Ball, mentre Fischer era in compagnia di uno dei più noti scalatoriamericani, Ed Viesturs. Lungo la discesa dalla vetta, Sotto una spaventosa tormenta, Fischer, Viesturs eun terzo americano, Charlie Mace, si erano imbattuti in Hall mentre tentava di sorreggere Ball, che erastato colpito da un micidiale attacco di mal di montagna e non riusciva a muoversi con le sue sole forze.Fischer, Viesturs e Mace lo avevano aiutato a trascinare Ball lungo le pendici inferiori della montagnaspazzate dalle valanghe, salvandogli la vita. (Un anno dopo, Ball sarebbe morto di un altro attacco similesul Dhaulagiri.)

        Fischer, quarantenne, era un tipo robusto e socievole, con una coda di cavallo di capelli biondi euna straordinaria carica di energia quasi maniacale. Quando era appena uno studentello quattordicehne aBasking Ridge; nel New Jersey, aveva visto per caso un programma televisivo sull'alpinismo, e ne erarimasto affascinato. L'estate successiva era andato nel Wyoming per iscriversi a un corso disopravvivenza nella natura selvaggia organizzatO dalla National Outdoor Leadership School (NOLS) eappena ottenuto il diploma delle superiori si era trasferito stabilmente nell'Ovest, trovando impieghistagionali come istruttore del NOLS; aveva messo l'alpinismo al centro del suo universo e non si era piùvoltato indietro.

        A diciotto anni, mentre lavorava al NOLS, si era innamorato di una studentessa del suo corso chesi chiamava Jean Price. Sette anni dopo si erano sposati, si erano stabiliti a Seattle e avevano avuto duefigli, Andy e Rose (che avevano rispettivamente nove e cinque anni quando Fischer partì per l'Everest nel1996). Price aveva preso il brevetto di pilota commerciale ed era diventata comandante dell'AlaskaAirlines, una carriera ben remunerata che aveva consentito al marito di fare lo scalatore a tempo pieno;inoltre i suoi guadagni gli avevano permesso di lanciare nel 1984 la Mountain Madness.

        Se il nome dell'agenzia di Hall, Adventure Consultants, rispecchiava il suo approccio alla montagna,metodico e pignolo, Mountain Madness, letteralmente «follia per la montagna», era un'immagine ancorpiù fedele dello stile personale di Fischer. Poco dopo la ventina si era guadagnato la reputazione diessere un uomo che affrontava le scalate con un atteggiamento spericolato e noncurante degli inviti allaprudenza. Nella sua carriera di scalatore, e soprattutto in quei primi anni, era sopravvissuto a un grannumero di spaventosi incidenti che secondo ogni ragionevole previsione avrebbero dovuto ucciderlo.

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In almeno due occasioni, una volta nel Wyoming e un'altra a Yosemite, era precipitato a terra daun'altezza di circa venticinque metri mentre si arrampicava sulla roccia. Durante il periodo in cui avevalavorato come assistente istruttore in un corso del NOLS sulla Wind River Range, era piombato sulfondo di un crepaccio, a venti metri di profondità, nel ghiacciaio Dinwoody, perchè non era assicuratocon la corda. Forse la caduta più disonorevole, però, si era verificata quando era un novellino dellescalate sul ghiaccio; nonostante l'inesperienza, aveva deciso di tentare l'ambita prima scalata di unadifficile seraccata chiamata Bridal Veil Falls, nel Provo Canyon, nello Utah. Mentre sfidava in velocitàdue esperti scalatori sul ghiaccio, Fischer aveva perso la presa a trenta metri d'altezza ed era precipitatoa capofitto.

Con grande stupore di coloro che avevano assistito all'incidente, si era rialzato subito, visto che avevariportato ferite relativamente leggere, e si era allontanato con i propri mezzi. Tuttavia durante il lungo voloverso terra la punta tubolare di una piccozza gli aveva trapassato il polpaccio uscendo dalla parteopposta, e quando lui l'aveva estratta la punta cava gli aveva asportato un campione di tessuto,lasciandogli nella gamba un foro abbastanza grande da permettere il passaggio di una matita. Fischer nonvedeva motivo di sprecare le sue limitate risorse finanziarie per farsi curare una ferita così insignificante,per cui aveva scalato montagne per sei mesi con una ferita aperta e infetta. Quindici anni dopo, mi mostròcon orgoglio la cicatrice permanente inflittagli da quella caduta: un paio di segni lucenti delle dimensioni diuna monetina da dieci centesimi, ai lati del tendine d’Achille.

«Scott si spingeva oltre ogni limite fisico», ricorda Don Peterson, un noto scalatore americano che loconobbe dopo la caduta dalla Bridal Veil Falls. Peterson divenne per lui una sorta di mentore, che lo haaccompagnato a intervalli nelle sue scalate nel corso dei vent'anni successivi. «Aveva una forza di volontàsbalorditiva. Non importava quanto soffriva; ignorava il dolore e andava avanti. Non era il tipo d'uomoche si dà per vinto perchè ha una vescica a un piede.»

«Scott era divorato dall'ambizione di diventare un grande scalatore, di essere uno dei migliori del mondo.Ricordo che alla sede del NOLS c'era una specie di rudimentale palestra. Scott entrava in quella stanza eregolarmente si allenava con tanta intensità da vomitare. Regolarmente. Non càpita spesso di incontrarepersone così motivate.»

Fischer attirava il prossimo con la sua energia e generosità, la sua assenza di malizia, il suo entusiasmoquasi infantile. Istintivo ed emotivo, poco propenso all'introspezione, aveva quel tipo di personalitàcomunicativa e magnetica capace di stabilire in un attimo un'amicizia che dura tutta la vita; centinaia dipersone, fra cui alcune incontrate appena un paio di volte, lo consideravano un amico per la pelle. Pergiunta era straordinariamente attraente, con un fisico da culturista e il viso delicatamente cesellato da divodel cinema. Fra coloro che si sentivano attratti da lui c'erano non poche rappresentanti del gentil sesso,alle cui attenzioni non era indifferente.

Uomo dagli appetiti intensi, Fischer fumava parecchia marijuana (tranne quando lavorava) e beveva piùdi quanto fosse salutare. Una stanzetta sul retro dell'ufficio della Mountain Madness fungeva da suorifugio segreto, dove amava ritirarsi con gli amici, dopo aver messo i bambini a letto, per passare in girola pipa e guardare le diapositive delle loro imprese in alta quota.

Durante gli anni Ottanta Fischer aveva fatto varie scalate impressionanti che gli erano valse una certafama a livello locale, ma non era riuscito a ottenere la celebrità nell'ambiente dell'alpinismo internazionale.Malgrado i suoi sforzi, non era stato in grado di procurarsi un lucroso contratto con uno sponsor del tipodi quelli che erano toccati ad alcuni dei colleghi più famosi ed era preoccupato al pensiero che queigrandi alpinisti non lo rispettassero.

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«I riconoscimenti erano importanti per Scott», osserva Jane Bromet, la sua agente pubblicitaria,confidente e frequente compagna di scalate, che accompagnò la spedizione della Mountain Madness finoal campo base per mettere in rete dei file Internet per la Outside Online. «Desiderava ardentemente lacelebrità. Aveva un lato vulnerabile che restava sconosciuto alla maggior parte delle persone; erasinceramente turbato al pensiero di non .essere considerato uno scalatore di tutto rispetto. Si sentivasottovalutato e questo lo faceva soffrire.»

Quando partì per il Nepal, nella primavera del 1996, aveva cominciato a ottenere alcuni deiriconoscimenti che riteneva gli fossero dovuti. In gran parte gli erano giunti sulla scia della scalatadell'Everest nel 1994, compiuta senza l'ausilio dell'ossigeno. Battezzata col nome di SagarmathaEnvironmental Expedition, la squadra di Fischer aveva rimosso dalla montagna oltre duemiladuecentochilogrammi di rifiuti, compiendo un’opera molto meritoria per il paesaggio e ancor più positiva per lepubbliche relazioni. Nel gennaio 1996, inoltre, Fischer aveva guidato una prestigiosa scalata delKilimangiaro a scopo di beneficenza, raccogliendo un milione di dollari a vantaggio dell'organizzazioneumanitaria CARE. In gran parte grazie alla spedizione di pulizia dell'Everest e a quella successiva scalatadi beneficenza, quando partì per l'Everest nel 1996 Fischer era apparso spesso in posizione di rilievo suimedia di Seattle e la sua carriera di scalatore era in piena ascesa.

Era inevitabile che i giornalisti gli rivolgessero delle domande sui rischi associati con il genere di alpinismoda lui praticato e si chiedessero in che modo riusciva a conciliarlo con il ruolo di marito e di padre.Fischer rispondeva che ora correva di gran lunga meno rischi di quanto avesse fatto nella sua gioventùsfrenata, poichè era diventato molto più prudente e conservatore nelle scalate. Poco prima di partire perl'Everest nel 1996, aveva confidato allo scrittore di Seattle Bruce Barcott: «Sono convinto al cento percento che tornerò... Anche mia moglie ne è convinta al cento per cento. Non si preoccupa affatto perme, quando guido una spedizione, perchè sa che farò tutte le scelte giuste. Quando succede un incidente,penso che si tratti sempre di un errore umano, ed è questo che voglio evitare. Da giovane ho avuto moltiincidenti. Si possono indicare molte ragioni, ma in ultima analisi il motivo è un errore umano».

Nonostante le assicurazioni di Fischer, la sua erratica carriera di alpinista incideva in modo pesante sullavita familiare. Andava pazzo per i bambini e quando si trovava a Seattle era un padre eccezionalmentepremuroso, ma le assidue scalate lo tenevano lontano da casa per mesi di fila. Era stato assente a settedelle nove feste di compleanno del figlio. In effetti, dicono gli amici, quando partì per l'Everest nel 1996, ilsuo matrimonio era seriamente compromesso, situazione aggravata dalla sua dipendenza finanziaria dallamoglie.

Come la maggior parte delle agenzie concorrenti, la Mountain Madness era un'impresa con un marginedi profitto quasi inesistente, e lo era fin dagli inizi: nel 1990 Fischer aveva guadagnato appena dodicimiladollari. Comunque la situazione stava finalmente cominciando a diventare più promettente, grazie allacrescente popolarità di Fischer e agli sforzi della sua socia nonchè amministratrice, Karen Dickinson,dotata di capacità organizzative e lucidità che compensavano lo stile rilassato e disinvolto di Fischer nellagestione degli affari. Ispirandosi al successo ottenuto da Rob Hall come guida all'Everest, e ai lauticompensi che di conseguenza riusciva a ottenere, Fischer aveva deciso che per lui era venuto il momentodi inserirsi nel mercato dell'Everest. Se fosse riuscito a emulare Hall, questo avrebbe catapultato benpresto la Mountain Madness nell'orbita dei profitti.

Il denaro in sè non rivestiva una straordinaria importanza per Fischer. Si curava poco degli aspettimateriali della vita, mentre era avido di rispetto - da parte della famiglia, dei colleghi, della società ingenerale - e sapeva che nella nostra cultura il denaro è il principale indizio di successo.

        Avevo incontrato Fischer a Seattle poche settimane dopo il suo trionfale ritorno dall'Everest. Nonlo conoscevo bene, ma avevamo degli amici in comune e spesso ci incrociavamo sulle pareti di roccia o

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alle riunioni di scalatori. In quell'occasione mi aveva parlato a lungo della spedizione guidata che stavaprogettando per la scalata dell'Everest, cercando di lusingarmi con la proposta di partecipare anch'io, perscrivere poi un articolo sulla scalata perOutside . Quando avevo replicato che sarebbe stata una folliatentare l'Everest per una persona con la mia limitata esperienza dell'alta quota, lui aveva osservato: «Eh,l'esperienza spesso viene sopravvalutata. Tu hai fatto qualche scalata piuttosto pesante, roba molto piùtosta dell'Everest. Ormai il grande E è stato sviscerato da capo a fondo, lo abbiamo ingabbiato del tutto.Abbiamo costruito un'autostrada fino alla vetta,[12]* te lo assicuro».

        Scott aveva solleticato il mio interesse, probabilmente più di quanto credesse, e da allora nonaveva più mollato la presa. Ogni volta che mi vedeva riprendeva l'argomento dell'Everest e avevaripetutamente interpellato Brad Wetzler, uno dei redattori diOutside , suggerendogli l'idea. Nel gennaio1996, in gran parte grazie all'azione concertata da Fischer, la rivista prese l'impegno di inviarmisull'Everest, probabilmente come membro della sua spedizione, secondo le indicazioni di Wetzler. Nellamente di Scott l'affare era fatto.

        Un mese prima della data prevista per la partenza, però, ricevetti una telefonata da Wetzler con lanotizia che c’era stato un cambiamento nei piani: Rob Hall aveva proposto alla rivista un accordonotevolmente più vantaggioso, quindi Wetzler mi suggeriva di unirmi alla spedizione dell’AdventureConsultants anzichè a quella di Fischer. A quell'epoca conoscevo Fischer e lo apprezzavo, mentre nonsapevo molto di Hall, per cui all'inizio mi mostrai riluttante, ma dopo che un fidato compagno di scalatemi ebbe confermato la solida reputazione di Hall, accettai con entusiasmo di scalare l'Everest conl'Adventure Consultants.

        Un pomeriggio al campo base, domandai a Hall per quale motivo era stato così ansioso di avermicon sè. Lui mi rispose con candore che in realtà non era particolarmente interessato a me, e neanche allanotorietà che poteva ottenere dal mio articolo; quello che lo attirava tanto era la messe di inserzionipubblicitarie che avrebbe ricavato dall'accordo concluso conOutside .

        Mi spiegò che, in base ai termini di quell'accordo, avrebbe ricevuto in contanti solo diecimila dollaridella quota abituale; il saldo sarebbe stato versato in natura, e cioè con i costosi spazi pubblicitari dellarivista, che si rivolgeva a un pubblico di alto livello, amante dell'avventura e "fisicamente attivo, vale a direproprio la base della sua clientela. «Cosa ancor più importante», aggiunse Hall, «è un pubblicoamericano. Probabilmente l’ottanta o il novanta per cento del mercato potenziale per le spedizioni guidatesull'Everest e sulle altre Sette Sorelle vive negli Stati Uniti. Dopo questa stagione, in cui si è affermatocome guida sull'Everest, il mio amico Scott godrà di un grande vantaggio sull'Adventure Consultants per ilsolo fatto che ha sede in America. Per competere con lui dovremo innalzare in modo significativo il livellodella nostra presenza pubblicitaria in questo paese.»

        In gennaio, quando apprese che Hall mi aveva sottratto alla sua squadra, Fischer andò su tutte lefurie. Mi telefonò dal Colorado, sconvolto come non lo avevo mai sentito, per dirmi che non intendevaconcedere la vittoria a Hall. (Come Hall, Fischer non si curò di nascondermi che non era interessato ame, bensì alla notorietà e alla pubblicità collaterali.) Alla fine, comunque, non se la sentì di presentare allarivista un'offerta pari a quella di Hall.

        Comunque, quando arrivai al campo base con il gruppo dell’Adventure Consultants anzichè con laspedizione della Mountain Madness, Scott non mi portò rancore. Appena andai a trovarlo al suo campo,mi versò una tazza di caffè, mi mise una mano sulla spalla e parve sinceramente felice di vedermi.

 

        Nonostante i numerosi elementi della civiltà moderna presenti al campo base, era impossibile

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dimenticare che eravamo oltre cinquemila metri sopra il livello del mare. Lo sforzo necessario perraggiungere la tenda-mensa all'ora dei pasti mi lasciava ansimante per alcuni minuti e, se mi alzavo troppoin fretta dalla sedia, mi girava la testa e venivo assalito dalle vertigini. La tosse profonda e raschiante cheavevo contratto a Lobuje peggiorava di giorno in giorno. Il sonno divenne difficile, un sintomo comunedel mal di montagna in forma blanda. Quasi tutte le notti mi svegliavo di soprassalto tre o quattro volteansimando per riprendere fiato, con la sensazione di soffocare. Tagli e graffi non si cicatrizzavano;l'appetito svanì e il sistema digestivo, che richiede molto ossigeno per metabolizzare il cibo, non riuscivaad assimilare quello che mi sforzavo di mangiare, per cui il mio corpo cominciò a consumare le riserve, alpunto che braccia e gambe cominciarono pian piano a rinsecchirsi.

        Alcuni dei miei compagni di squadra si sentivano ancora peggio di me in quell'aria rarefatta e inquell'ambiente poco igienico. Andy, Mike, Caroline, Lou, Stuart e John soffrivano di attacchi digastroenterite che li costringevano a corse frenetiche verso le latrine, mentre Helen e Doug eranotormentati da feroci emicranie. Come cercò di spiegarmi Doug, «è come se qualcuno mi avesseconficcato un chiodo in mezzo agli occhi».

        Quello era il secondo tentativo sull'Everest di Doug con la squadra di Hall. L'anno prima, Robaveva costretto lui e altri tre clienti a tornare indietro a cento metri appena dalla cima, perchèera tardi e ilcrinale della vetta era sepolto sotto una coltre di neve alta e instabile. «La vetta sembrava così vicina»,ricordava Doug con una risata dolorosa. «Credimi, da allora non è passato giorno che non ci abbiapensato.» Era stato indotto a tornare quell'anno da Hall, il quale, dispiaciuto che a Hansen fosse statonegato il privilegio di raggiungere la vetta, gli aveva accordato un forte sconto sulla tariffa ordinaria perconsentirgli un altro tentativo.

        ra gli altri clienti, Doug era il solo che avesse arrampicato in modo costante senza affidarsi a unaguida professionista; pur non essendo un alpinista eccezionale, aveva quindici anni di esperienza che lomettevano perfettamente in grado di badare a sè stesso in alta quota. Se c'era qualcuno nella nostraspedizione capace di raggiungere la vetta, ero convinto che fosse Doug: era forte, era motivato ed era giàarrivato vicinissimo alla cima dell'Everest.

        A meno di due mesi dal quarantasettesimo compleanno, divorziato da diciassette anni, Doug miconfidò che era stato legato a una lunga serie di donne, che prima o poi lo avevano lasciato tutte, stanchedi dover competere con le montagne per ottenere la sua attenzione. Qualche settimana prima di partireper l'Everest nel 1996, Doug aveva conosciuto un'altra donna durante una visita a un amico di Tucson, esi era innamorato di lei. Per qualche tempo avevano comunicato fra loro con un turbine di fax, poi eranotrascorsi parecchi giorni senza che Doug avesse ricevuto sue notizie. «Immagino che sarà rinsavita e miavrà cancellato dalla sua vita», sospirò con un'espressione sconsolata. «E dire che era davvero in gamba.Pensavo proprio che stavolta sarebbe durata.»

Qualche ora dopo, quel pomeriggio stesso, si avvicinò alla mia tenda sventolando un fax appenaarrivato. «Karen Marie mi annuncia che sta per trasferirsi nella zona di Seattle!» esclamò in estasi.«Accidenti, stavolta potrebbe essere una faccenda seria. Farò bene a conquistare la vetta e a togliermidalla testa l'Everest prima che lei ci ripensi.»

Oltre a intrattenere una corrispondenza con la nuova donna della sua vita, Doug ingannava il tempo alcampo base scrivendo innumerevoli cartoline postali agli allievi della scuola elementare Sunrise,un'istituzione pubblica di Kent, nello stato di Washington, che aveva venduto delle T-shirt per aiutarlo araccogliere i fondi per la scalata. Mi mostrò molte delle sue cartoline: «C'è chi ha grandi sogni e chi ne hadi piccoli», aveva scritto a una bambina di nome Vanessa. «Qualunque sia il tuo sogno, l'importante è nonsmettere mai di sognarlo.»

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Doug dedicava dell'altro tempo ascrivere fax ai figli ormai adulti, Angie, di diciannove anni, e Jaime, diventisette, che aveva allevato da solo. Era alloggiato nella tenda vicina alla mia e ogni volta che arrivavaun fax di Angie me lo leggeva con un sorriso radioso. «Santo cielo», osservava, «chi lo avrebbe mai dettoche un povero stronzo come me potesse avere una figlia così straordinaria?»

Da parte mia, scrivevo poche cartoline o fax e passavo la maggior parte del mio tempo al campo base achiedermi come mi sarei comportato sulla montagna a quote superiori, in particolare nella cosiddetta«Zona della morte», intorno ai 7600 metri. Avevo al mio attivo più ore di arrampicata su roccia tecnica esu ghiaccio della maggior parte degli altri clienti e persino di molte guide, ma sull'Everest l'esperienzatecnica contava poco o niente, e avevo trascorso a quella quota meno tempo di qualsiasi altro scalatorepresente. In effetti, lì al campo base, che si trovava appena ai piedi dell'Everest, ero già alla quota più altache avessi mai raggiunto in vita mia.

Questo non sembrava impensierire Hall. Dopo sette spedizioni sull'Everest, mi spiegò, aveva messo apunto un sistema di acclimatazione notevolmente efficace, che ci avrebbe consentito di adattarci allascarsità di ossigeno nell'atmosfera. (Al campo base l'ossigeno era approssimativamente la metà di quelloesistente al livello del mare, mentre in vetta si riduceva a un terzo.) Di fronte a un aumento dell'altitudine, ilcorpo umano si adatta in vari modi, dall'aumento del ritmo della respirazione, alla modifìcazione del pHdel sangue, a un drastico potenziamento del numero di globuli rossi del sangue portatori di ossigeno; unprocesso clie richiede settimane.

Hall insisteva comunque nel dire che dopo tre escursioni al di sopra del campo base, in ciascuna dellequali saremmo saliti di circa seicento metri sul versante della montagna, il nostro organismo si sarebbeadattato a sufficienza per consentirci di arrivare senza danni fino in cima, a 8848 metri. «Finora hafunzionato già nove volte, amico», mi assicurò Hall con un sorrisetto malizioso, quando gli confidai i mieidubbi. «E alcuni del tizi che ho portato in cima erano messi quasi peggio di te.»

Più la situazione appare insostenibile e le esigenze si. Fanno pressanti. [per lo scalatore], più è dolce allafine l'allentarsi di tutta quella tensione, che consente di nuovo al sangue di scorrere liberamente. Laprossimità del rischio serve solo ad acuire le capacttà di percezione e di. controllo, e forse è questa lamolla di ogni sport pericoloso: si cerca deliberatamente di innalzare la soglia dello sforzo e dellaconcentrazione per purificare la mente, si direbbe, dalle banalità. È un modellino in scala della vita, macon una differenza: mentre di solito nella routine quotidiana si possono correggere gli errori raggiungendouna sorta di compromesso, in questo caso le azioni, sia pure per un breve periodo, hanno un efflettoletale.

A. ALVAREZ

The Savage God.A Study of Suicide

 

 

La scalata dell'Everest è un processo lungo e noioso, che somiglia più al progetto di costruzione di unmammuth che all'alpinismo come lo avevo conosciuto in precedenza. Compresi gli sherpa, nella squadradi Hall c'erano ventisei persone, e assicurare a tutti nutrimento, riparo e buone condizioni di salute a 5350metri di altitudine, a centosessanta chilometri di distanza a piedi dalla strada locale più vicina, non eraimpresa da poco. Come organizzatore, comunque, Hall non temeva rivali e inoltre amava la sfida. Alcampo base lo si vedeva sempre curvo su tabulati di computer che elencavano in modo dettagliato iparticolari logistici: menu, pezzi di ricambio, attrezzi, medicine, mezzi di comunicazione, tabelle di carico,

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disponibilità degli yak. Dotato di un talento naturale per la tecnica, Rob adorava le infrastrutture,l'elettronica e i gadget di ogni genere; dedicava il suo tempo libero ad armeggiare con l'impianto elettricoa pannelli solari o a leggere i numeri arretrati diPopular Science .

        Secondo la tradizione di George Leigh Mallory e di quasi tutti gli altri conquistatori dell'Everest, lastrategia di Hall consisteva nel cingere d'assedio la montagna. Al di sopra del campo base, gli sherpainstallavano una serie progressiva di quattro campi, ciascuno all'incirca seicento metri più in alto delprecedente, facendo la spola fra un accampamento e l'altro con ingombranti carichi di viveri, combustibileper la cucina e ossigeno, finchè tutto il materiale necessario non era stato ammassato a 7986 metri diquota, sul Colle Sud. Se tutto procedeva secondo il grande piano di Hall, l'attacco alla vetta sarebbestato lanciato da quel campo più alto, il Campo Quattro, di lì a un mese.

        Anche se a noi clienti non veniva richiesto di partecipare al trasporto del carico,[13]era necessarioche facessimo ripetute puntate al di sopra del campo base prima dell'attacco alla vetta, per acclimatarci.Rob annunciò che la prima di queste sortite di acclimatazione si sarebbe svolta il 13 aprile: un'escursionedi un giorno intero al Campo Uno, appollaiato sul ciglio superiore della seraccata del Khumbu, ottocentometri più in alto.

        Dedicammo il pomeriggio del 12 aprile, giorno del mio quarantaduesimo compleanno, a prepararel'attrezzatura per la salita. Il campo somigliava a una vendita in cortile di prestigiosi articoli sportivi, dalmomento che avevamo sparpagliato tutta la nostra roba fra i macigni per scegliere gli indumenti, regolarele imbracature, agganciare i moschettoni di sicurezza e fissare i ramponi agli scarponi (i ramponi sonogriglie di spuntoni d'acciaio lunghi cinque centimetri che si agganciano alla suola degli scarponi per farepresa sul ghiaccio). Rimasi sorpreso e preoccupato nel vedere che Beck, Stuart e Lou toglievanodall'involucro degli scarponi da montagna nuovi di zecca che, per loro stessa ammissione, avevanoappena provato. Mi domandai se sapessero quali rischi correvano salendo sull'Everest con calzature chenon fossero state opportunamente rodate; vent'anni prima ero partito per una spedizione con un paio discarponi nuovi e avevo imparato a mie spese come gli scarponi da montagna rigidi e pesanti possanocausare ferite debilitanti ai piedi, prima di ammorbidirsi con l'uso.

        Stuart, il giovane cardiologo canadese, scoprì che i ramponi non si adattavano neppure agliscarponi nuovi. Per fortuna, ricorrendo al suo vasto assortimento di attrezzi e a una notevole ingegnositàper risolvere il problema, Rob riuscì a mettere insieme una cinghia speciale che consentiva di utilizzare iramponi.

        Mentre preparavo lo zaino per l'indomani, venni a sapere e, fra le esigenze familiari e i problemilegati a carriere prestigiose e impegnative, pochi dei miei compagni di spedizione aveno avutol'opportunità di fare più di un paio di scalate durante l'anno precedente. Benchè apparissero tutti ineccellenti condizioni fisiche, le circostanze li avevano costretti a svolgere il grosso dell'allenamento sulloStairMaster e sultapis roulant , anzichè su vere e proprie cime. Questo mi diede da riflettere: lecondizioni fisiche rappresentano un fattore essenziale dell’alpinismo, ma esistono molti altri aspettialtrettanto importanti, nessuno dei quali si può mettere a punto in palestra.

        Ma forse sono soltanto uno snob, rimproverai a me stesso. In ogni caso, era evidente che tutti imiei compagni erano eccitati quanto me alla prospettiva di piantare i ramponi in una montagna autentica,la mattina dopo.

        La via che avremmo seguito verso la vetta percorreva il ghiacciaio del Khumbu risalendo la parteinferiore della montagna. Dalla crepaccia terminale[14]che ne contrassegnava l’estremità superiore, allaquota di 7000 metri, quel grande fiume di ghiaccio scorreva verso il basso per quasi 3,5 chilometri lungouna vallata relativamente poco ripida, chiamata Western Cwm o Cwm occidentale. Avanzando a passo

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di lumaca su gobbe e cavità presenti sulla parte inferiore del Cwm, il ghiacciaio si frantuma in una serie diinnumerevoli spaccature vertiali dette crepacci. Alcuni di questi crepacci sono tanto stretti da poteressere superati con un passo, altri invece sono larghi fino a venticinque metri e profondi alcune centinaia,per un’estensione di quasi ottocento metri da un'estremità all'altra. Quelli grandi avrebbero rappresentatoun ostacolo tormentoso alla nostra salita e, se nascosti sotto una crosta di neve, avrebbero costituito unserio rischio, ma nel corso degli anni le sfide poste dai crepacci del Cwm si erano rivelate prevedibili esuperabili.

La seraccata era tutto un altro discorso: non esisteva tratto che gli scalatori temessero di piùnell'ascensione al Colle Sud. Intorno ai 6100 metri, nel punto in cui sporgeva dall'estremità inferiore delCwm, il ghiacciaio precipitava in basso con un salto verticale. Era la famigerata seraccata del Khumbu, iltratto tecnicamente più impegnativo di tutta la scalata.

La velocità di movimento del ghiacciaio in questo tratto è stata misurata e valutata fra i novanta e icentoventi centimetri al giorno. Slittando sul terreno ripido e irregolare con spostamenti intermittenti, lamassa di ghiaccio si frantuma in un caos di enormi blocchi instabili chiamati «seracchi», alcuni dei qualisono grandi come edifici. Poichè la via della scalata passava sotto, a fianco e attraverso centinaia diquelle torri instabili, ogni traversata della seraccata era un po’come un giro di roulette russa: prima o poiun seracco qualsiasi sarebbe precipitato senza preavviso, e potevi solo sperare di non trovartici sotto inquel momento. Dal 1963, anno in cui un compagno di Hornbein e Unsoeld che si chiamava JakeBreitenbach rimase schiacciato sotto un seracco, diventando così la prima vittima della seraccata, altridiciotto scalatori hanno trovato la morte in quel tratto.

L'inverno precedente, come aveva già fatto in passato, Hall si era consultato con gli organizzatori di tuttele altre spedizioni che progettavano la scalata dell'Everest in primavera, e insieme si erano accordati perdesignare fra loro una squadra che si sarebbe assunta la responsabilità di individuare e mantenere apertoil tracciato attraverso la seraccata. La squadra designata riceveva duemiladuecento dollari per il disturboda ciascuna delle altre spedizioni impegnate nell'ascensione. Negli ultimi anni il metodo della cooperativaaveva incontrato una vasta, se non universale, approvazione, ma non sempre era andata così.

La prima volta che una spedizione aveva pensato di incaricare un’altra di preparare il percorso sulghiaccio era stato nel 1988, quando una squadra americana fornita di finanziamenti generosi avevaannunciato che qualunque spedizione intendesse seguire il tracciato da loro attrezzato sulla seraccataavrebbe dovuto versare duemila dollari. Alcune delle altre squadre. impegnate quell'anno nella scalata sierano indignate, non riuscendo a comprendere che l'Everest non era più semplicemente una montagna,ma anche un bene dal punto di vista economico; e le proteste più veementi erano venute proprio da RobHall, che all'epoca guidava una piccola spedizione neozelandese a corto di fondi.

Hall aveva censurato l'iniziativa, sostenendo che gli americani violavano lo spirito della montagna» epraticavano una forma vergognosa di estorsione alpina, ma Jim Frush, il cinico avvocato che era a capodella spedizione americana, si era mostrato inflessibile e Hall alla fine aveva accettato a denti stretti diinviare un assegno a Frush, ottenendo il passaggio attraverso la seraccata del Khumbu, (In seguito Frushriferì che Hall non aveva mai onorato il suo pagherò.)

Meno di due anni dopo, tuttavia, Hall aveva fatto un volta faccia, arrendendosi alla logica di considerarela seraccata come strada a pedaggio. Anzi, dal 1993 a tutto il 1995 si era offerto volontario perattrezzare il percorso e riscuotere lui stesso il pedaggio. Nella primavera del 1996 decise di nonassumersi la responsabilità della seraccata, accontentandosi di pagare il capo di una spedizionecommerciale[15]concorrente, un veterano dell’Everest di origine scozzese che si chiamava Mal Duff,perchè rilevasse l'incarico. Molto tempo prima che arrivassimo al campo base, una squadra di sherpaingaggiati da Duff aveva aperto un percorso a zigzag fra i seracchi, disponendo oltre un chilometro e

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mezzo di corde e installando una sessantina di scalette di alluminio sulla superficie irregolare delghiacciaio. Le scalette appartenevano a un intraprendente sherpa del villaggio di Gorak, che a ognistagione metteva insieme un discreto profitto affittandole.

Così fu che alle 4.45 del mattino di sabato 13 aprile mi ritrovai ai piedi della leggendaria seraccata,intento a sistemarmi i ramponi nel gelido crepuscolo che precede l'alba,.

I vecchi alpinisti incalliti che sono scampati di stretta misura a una a vita di rischi amano consigliare ailoro giovani protetti di ascoltare con attenzione la propria «voce interiore», se voglionmo sopravvivere.Abbondano i racconti su scalatori che hanno deciso di restare nel saccopiuma dopo aver percepitonell'etere qualche vibrazione sospetta e in questo modo sono scampati alla catastrofe che ha spazzato viagli altri, incapaci di prestare fede ai presagi.

Non dubitavo affatto del potenziale valore di prestare attenzione al subconscio. Mentre aspettavo cheRob aprisse la marcia, il ghiaccio sotto di noi emetteva una serie di schiocchi sonori, come se sispezzassero in due dei giovani tronchi d'albero, e mi sentivo accapponare la pelle a ogni crepitio ebrontolio che proveniva dalle turbolente viscere del ghiacciaio. Il problema era che la mia voce interioremi gridava sì che ero sull'orlo della morte, ma lo faceva ogni volta che mi allacciavo le stringhe degliscarponi; quindi feci del mio meglio per ignorare la mia istrionica immaginazione e, stringendo i denti,seguii Rob in quell'irreale labirinto turchino.

Anche se non avevo mai affrontato una seraccata temibile come quella del Khumbu, ne avevo scalatemolte. Di solito presentano dei passaggi verticali, o addirittura aggettanti, che richiedono una notevoleesperienza con la piccozza e i ramponi. Nella seraccata del Khumbu non mancavano di certo tratti ripidi,ma erano stati tutti attrezzati con scalette o corde, o tutt'e due, il che rendeva in gran parte superflui gliattrezzi e le tecniche tradizionali per le scalate su ghiaccio.

Dovevo apprendere ben presto che sull'Everest neanche la corda, la quintessenza dell'attrezzatura delloscalatore, si utilizza nel modo tradizionale. Di solito un alpinista è legato a uno o due compagni con untratto di corda lungo quarantacinque metri, e questo fa sì che ciascuno sia direttamente responsabile dellavita degli altri; arrampicare in cordata è un atto serio e molto intimo. Sulla seraccata del Khumbu, invece,l'esperienza imponeva che ciascuno di noi arrampicasse in modo indipendente, senza essere legatofisicamente agli altri in alcun modo.

Gli sherpa di Mal Duff avevano ancorato una corda fissa che si stendeva dal fondo gella seraccata finoalla sommità. Portavo fissata alla cintura un'asola di sicurezza lunga novanta centimetri, munita di unmoschettone all'estremità libera, e dovevo assicurarmi non legandomi in cordata a un compagno disquadra, ma agganciando il moschettone di sicurezza alla corda fissa e facendolo scorrere su di essa viavia che salivo. Arrampicando in questo modo, avremmo potuto muoverci con la massima rapidità neitratti più pericolosi della seraccata, senza dover affidare la nostra vita a compagni di cui ignoravamol'abilità e l'esperienza. In effetti, per tutta la durata della spedizione non ebbi mai motivo di assicurarmi aun altro scalatore.

Se da un lato la seraccata imponeva il ricorso ad alcune tecniche di arrampicata ortodosse, dall'altroesigeva tutto un nuovo repertorio di prestazioni, come per esempio la capacità di procedere in punta dipiedi con scarponi da montagna e ramponi da ghiaccio lungo tre fragili scalette traballanti, assicurate alledue estremità, per superare abissi tali da aggrovigliare lo stomaco. Ci furono parecchi passaggi delgenere, e non riuscii mai ad abituarmi a quell'esperienza.

A un certo punto mi trovavo in precario equilibrio su una scaletta, nel chiarore incerto che precedel'alba, e mi spostavo con la massima leggerezza da un piolo incurvato all'altro, quando il ghiaccio che

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sosteneva la scala alle due estremità cominciò a vibrare come se fosse investito da una scossa tellurica.Un attimo dopo si udì un rombo spaventoso, mentre un grosso seracco nelle vicinanze precipitavafragorosamente. Rimasi impietrito, con il cuore in gola, ma la valanga di ghiaccio passò a una quindicinadi metri da me, sulla sinistra, senza causare danni. Dopo aver atteso qualche minuto per ritrovare ilsangue freddo, ripresi il mio numero da equilibrista per raggiungere l'altro capo della scaletta.

Il perenne e spesso violento fluire del ghiacciaio aggiungeva un ulteriore elemento di incertezza a ognitraversata sulle scalette. Con il movimento del ghiaccio, i crepacci a volte si comprimevano, curvando lescalette come stecchini da denti, mentre altre volte si espandevano, lasciando una scaletta penzoloni nelvuoto, sospesa a qualche fragile ancoraggio, senza che nessuna delle due estremità poggiasse su ghiacciosolido. Gli ancoraggi[16]che assicuravano le scalette e le corde fuoriuscivano regolarmente dal ghiaccioquando il sole pomeridiano scaldava e fondeva il ghiaccio e la neve circostanti. Nonostante lamanutenzione quotidiana, esisteva il pericolo molto concreto che una corda qualsiasi cedesse sotto ilpeso del corpo.

        In ogni caso la seraccata, pur essendo molto impegnativa e letteralmente terrificante, aveva ancheun fascino sorprendente. Quando l'alba cancellò dal cielo l'oscurità, il ghiacciaio frantumato ci rivelò unpaesaggio tridimensionale di una bellezza fantasmagorica. La temperatura era di quattordici gradisottozero e i ramponi scricchiolavano con un suono rassicurante sulla crosta del ghiacciaio. Seguendo lacorda fissa, mi aggiravo in un labirinto verticale di stalagmiti di un azzurro cristallino, mentre fortezze diroccia nuda orlate di ghiaccio fiancheggiavano i bordi del ghiacciaio, sollevate come le spalle di unadivinità malevola. Tutto assorto nell'ambiente che mi circondava e nell'impegno fisico richiesto, mi immersinel piacere incondizionato dell'ascesa, e per un paio d'ore dimenticai persino di avere paura.

        A tre quarti del cammino dal Campo Uno, durante una pausa di riposo, Hall osservò che laseraccata era in condizioni migliori di quanto l'avesse mai vista: «Di questi tempi il percorso sembra unavera autostrada». Poco più in alto, però, a 5800 metri, le corde ci condussero alla base di un gigantescoseracco in precario equilibrio. Imponente come un edificio alto dodici piani, troneggiava sulla nostra testacon una inclinazione di trenta gradi sulla verticale. Il percorso seguiva una passerella naturale che risalivalungo la parete sporgente con una curva brusca: avremmo dovuto arrampicarci su quella torre pendente,per poter sfuggire alla sua mole minacciosa.

        Compresi che la sicurezza dipendeva dalla velocità e mi affrettai con la massima rapidità possibileper raggiungere ansimando la relativa sicurezza della sommità del seracco, ma dal momento che non miero ancora acclimatato la mia andatura massima non era più celere dello strisciare di una lumaca. Aintervalli di quattro o cinque passi dovevo fermarmi, aggrapparmi alla corda e risucchiare disperatamentel'aria rarefatta e amara, procurandomi un dolore lancinante ai polmoni.

        Raggiunsi la sommità del seracco senza che cedesse e mi accasciai senza fiato sulla superficiepiatta, con il cuore che mi pulsava come un maglio. Poco dopo, verso le otto e mezza del mattino, arrivaiin cima alla seraccata stessa, oltre gli ultimi seracchi. La sicurezza del Campo Uno, però, non migarantiva una grande serenità: non potevo fare a meno di pensare alla lastra di ghiaccio inclinata in modosinistro poco più in basso, e al fatto che avrei dovuto passare sotto la sua mole instabile almeno altresette volte, se volevo conquistare la cima dell'Everest. Gli alpinisti che schernivano quel percorsodefinendolo «la via degli yak», evidentemente, pensai, non avevano mai affrontato la seraccata delKhumbu.

        Prima di lasciare le tende, Rob ci aveva spiegato che saremmo dovuti tornare indietro alle dieci inpunto, anche se alcuni di noi non avevano ancora raggiunto il Campo Uno, per poter tornare al campobase prima che il sole di mezzogiorno rendesse ancora più instabile la seraccata. All'ora stabilita soltantoRob, Frank Fishbeck, John Taske, Doug Hansen e io eravamo arrivati al Campo Uno; Yasuko Namba,

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Stuart Hutchison, Beck Weathers e Lou Kasischke, scortati dalle guide Mike Groom e Andy Harris, sitrovavano sessanta metri più in basso del campo, quando Rob attivò la radio per dare l'ordine di tornaretutti indietro.

        Per la prima volta avevamo la possibilità di vederci a vicenda in piena azione e potevamo quindivalutare i punti forti e quelli deboli delle persone da cui sarebbe dipesa la nostra esistenza nelle prossimesettimane. Doug e John (il più anziano del gruppo, con i suoi cinquantasei anni) avevano entrambi un'ariasolida, ma la vera sorpresa era Frank, l'editore di Hong Kong dal perfetto aplomb e dal tono di vocesommesso; facendo tesoro dell'esperienza acquisita nelle tre precedenti spedizioni sull'Everest, era partitocon un'andatura lenta ma regolare, mantenendola per tutto il percorso. All'arrivo in cima alla seraccataaveva superato quasi tutti, e senza mai dare l'impressione di avere il fiato grosso.

        In netto contrasto con lui, Stuart - che era il più giovane e in apparenza il più forte di tutta lasquadra - era partito dal campo in testa al gruppo, a tutta velocità, ma ben presto aveva esaurito le forzee all'arrivo era visibilmente in crisi, nella retroguardia. Lou, ostacolato da uno strappo muscolare a unagamba che si era procurato durante la prima mattinata di marcia verso il campo base, era lento ma abile;Beck e soprattutto Yasuko, viceversa, erano apparsi incerti.

        Più di una volta Beck e Yasuko avevano corso il rischio di cadere da una scaletta e precipitare inun crepaccio, e Yasuko pareva ignorare quasi del tutto l'uso dei ramponi.[17]Andy, che si era rivelato uninsegnante dotato ed estremamente paziente – e al quale, come guida più giovane, era stato assegnato ilcompito di accompagnare i clienti più lenti, in coda al gruppo - le aveva dedicato l'intera mattinatamostrandole alcune tecniche basilari dell'arrampicata su ghiaccio.

        Quali che fossero le varie deficienze del gruppo, una volta raggiunta la sommità della seraccata,Rob annunciò che era molto soddisfatto delle prestazioni di tutti. «Per essere la prima volta che saliteoltre il campo base ve la siete cavata alla grande», proclamò come un padre orgoglioso dei suoi rampolli..«Penso che quest'anno abbiamo una squadra dawero forte.»

        Per ritornàre al campo base ci volle poco più di un’ora. Quando mi tolsi i ramponi per percorrerele ultime centinaia di metri fino alle tende, il sole sembrava in grado di scavarmi un buco nel cranio. Il maldi testa mi colpì con tutta la sua violenza pochi minuti dopo, mentre chiacchieravo con Helen e Chhongbanella tenda-mensa. Non avevo mai provato nulla di simile: un dolore straziante fra le tempie, così intensoche era accompagnato da ondate di nausea e brividi e mi rendeva impossibile pronunciare frasi coerenti.Temendo di essere stato colpito da una sorta di ictus, in piena conversazione, mi allontanai barcollante,ritirandomi nel saccopiuma e abbassandomi il berretto sugli occhi.

        Quel mal di testa aveva l'intensità accecante di un'emicrania, ma non avevo idea della causa che loaveva scatenato. Dubitavo che fosse dovuto all'altitudine, perchè mi aveva colpito solo al ritorno alcampo base. Era più probabile che fosse una reazione alle forti radiazioni ultraviolette che mi avevanobruciato la retina e cotto il cervello. Qualunque fosse la causa, la sofferenza era intensa e senza requie.Nelle cinque ore seguenti restai disteso nella tenda tentando di evitare ogni stimolo sensoriale. Se aprivogli occhi, o anche solo li spostavo da una parte all'altra dietro le palpebre chiuse, ricevevo una scossa didolore lancinante. Al tramonto, non riuscendo più a resistere, mi diressi brancolando verso la tendadell'infermeria per chiedere consiglio a Caroline, medico della spedizione.

Lei mi prescrisse un potente analgesico e mi consigliò di bere dell'acqua, ma dopo qualche sorsorigurgitai le pillole, il liquido e i resti del pranzo. «Hmmm», meditò Caroline, osservando gli schizzi divomito sui miei scarponi. «Penso che dovremo tentare un altro rimedio.» Mi diede istruzione di teneresotto la lingua una pillola minuscola, che sciogliendosi mi avrebbe impedito di vomitare, e poi di mandaregiù due compresse di codeina. Un'ora dopo il dolore cominciò ad attenuarsi e io, quasi piangendo di

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gratitudine, scivolai nell'incoscienza.

 

Sonnecchiavo nel saccopiuma, osservando le ombre proiettate sulle pareti della tenda dal sole mattutino,quando Helen gridò: «Jon! Telefono! È Linda!» Calzai in fretta un paio di sandali, superai con un soloscatto i cinquanta metri che mi separavano .dalla tenda delle comunicazioni e afferrai il ricevitoresforzandomi di riprendere fiato.

Tutto l'apparato del telefono satellitare e del fax non era molto più grande di un computer portatile. Letelefonate erano costose, circa cinque dollari al minuto, e non sempre si riusciva a ottenere lacomunicazione, ma il solo fatto che mia moglie potesse comporre un numero di tredici cifre a Seattle eparlare con me sul monte Everest mi lasciava sbalordito. Anche se la chiamata mi fu di grande conforto,la rassegnazione nella voce di Linda era inconfondibile anche dall'altro capo del globo. «Me la cavobene», mi assicurò, «ma vorrei che tu fossi qui.»

Diciotto giorni prima si era sciolta in lacrime, accompagnandomi all'aereo che mi avrebbe portato nelNepal. «Mentre tornavo a casa in macchina dall'aeroporto», mi confessò, «non riuscivo a smettere dipiangere. Quello dei saluti è stato uno dei momenti più tristi della mia vita. A livello inconscio sapevo cheavresti potuto non tornare, e mi sembrava un tale spreco. Mi sembrava così maledettamente stupido einutile.»

Eravamo sposati da quindici anni e mezzo. Ci eravamo presentati davanti a un giudice di pace meno diuna settimana dopo che avevamo parlato per la prima volta di fare quel tuffo nel vuoto. A quell'epocaavevo ventisei anni e da poco avevo deciso di rinunciare alle scalate e affrontare la vita con serietà.

 

Quando l'avevo conosciuta, anche Linda era una scalatrice, e per giunta straordinariamente dotata; maaveva rinunciato all'alpinismo dopo che si era fratturata un braccio e lesionata la schiena, e diconseguenza aveva soppesato a mente fredda i rischi insiti in quell'attività. Linda non si sarebbe maisognata di chiedermi di abbandonare l'alpinismo, ma l'annuncio che intendevo smettere aveva rafforzatola sua decisione di sposarmi. Tuttavia non avevo valutato in pieno la presa che l'alpinismo aveva sulla miaanima, o lo scopo che conferiva alla mia vita altrimenti priva di un timone; non prevedevo il vuoto cheavrebbe lasciato. Meno di un anno dopo, avevo recuperato la corda dal ripostiglio ed ero tornato allaroccia. Nel 1984, quando ero andato in Svizzera per scalare una parete alpina notoriamente pericolosa,la Parete nord dell'Eiger, Linda e io eravamo arrivati sull'orlo della separazione, e il nucleo dei nostriproblemi era la mia attività di alpinista.

Il nostro rapporto era rimasto instabile per due otre anni dopo il mio tentativo fallito sull'Eiger, ma in unmodo o nell'altro il matrimonio era riuscito a soprawivere a quel periodo turbolento. Linda aveva finitoper accettare la mia passione per la montagna, rendendosi conto che era una parte cruciale, benchèsconcertante, della mia natura. L'alpinismo, aveva compreso, era un'espressione essenziale di un aspettosingolare e immutabile della mia personalità che non potevo modificare più facilmente di quanto potessicambiare il colore dei miei occhi. Poi, nel bel mezzo di quel delicato riawicinamento, la rivistaOutsideaveva confermato la mia missione sull'Everest.

Da principio avevo fatto finta che si sarebbe trattato di un incarico giornalistico più che alpinistico, cheavevo accettato la missione perchè lo sfruttamento commerciale dell'Everest era un argomentointeressante e la somma offerta era allettante. Avevo spiegato a Linda e a chiunque altro esprimesse

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scetticismo sulle mie qualifiche per affrontare l'Himalaya che non prevedevo di salire molto in alto.«Probabilmente salirò poco più in alto del campo base», insistetti. «Tanto per avere un assaggio di quelloche si prova a un'altitudine così elevata.»

Erano balle, naturalmente. Tenuto conto della durata del viaggio e del tempo che avrei dovuto dedicareall'allenamento, avrei guadagnato molto di più restando a casa e svolgendo altri incarichi, ma avevoaccettato quello perchè ero vittima del mito dell'Everest. La verità era che desideravo scalare quellamontagna più di quanto avessi mai desiderato qualsiasi altra cosa in vita mia. Fin dal momento in cuiavevo accettato di andare nel Nepal, la mia intenzione era stata arrivare più in alto che potevo, tenutoconto delle mie gambe e dei miei polmoni tutt'altro che eccezionali.

Quando mi aveva accompagnato all'aeroporto, Linda aveva letto ormai da tempo al di là delle mieproteste superficiali: intuiva la vera portata del mio desiderio, e ne era atterrita. «Se resterai ucciso»,aveva obiettato con un misto di disperazione e di collera, «non sarai solo tu a pagarne il prezzo. Dovròpagarlo anch'io, per tutta la vita. Questo non conta per te?»

«Non resterò ucciso», avevo replicato. «Non essere melodrammatica.»

Esistono uomini sui quali I'irraggiungibile eserdta una particolare attrazione. Di solito non sono esperti: leloro ambizioni e fantasie sono abbastanza forti da spazzare via i dubbi che uomini più prudentipotrebbero nutrire. Le loro armi più efficaci sono la determinazione e la fede. Nel migliore dei casi questiuomini sono considerati degli eccentrici. Nel peggiore} dei folli...

    L’Everest ha avuto la sua parte di fedeli di questo genere. La loro esperienza alpinistica variava dazero a ben poco; di sicuro nessuno aveva quel tipo di esperienza che rende la scalata dell'Everest unobiettivo ragionevole. Tutti avevano tre doti in comune: fiducia in se stessi} grande determinazione etenacia.

WALT UNSWORTH

Everest

 

Sono cresduto con un’ambizione e una determinazione senza le quali sarei vissuto molto più felicemente.Riflettendo molto ho finito per assumere l'atteggiamento distaccato dei sognatori perchè le vette lontaneesercitavano su di me un grande fascino e attiravano ogni mio pensiero. Non ero troppo sicuro di cosapotessi raggiungere con la sola tenacia e poche altre capacità ma mi ponevo obiettivi molto impegnativi eogni fallimento non faceva che rafforzare la mia determinazione a realizzare almeno uno dei miei grandisogni.

EARL DENMAN

Alone to Everest

 

        In quella primavera del 1996, sulle pendici dell'Everest, non mancavano i sognatori: le credenziali dimolti aspiranti scalatori della montagna erano esili quanto le mie, se non di più. Quando per ciascuno dinoi veniva il momento di valutare le proprie possibilità e di soppesarle contro la sfida formidabilerappresentata dalla montagna più alta del mondo, a volte si aveva l'impressione che metà della

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popolazione del campo base soffrisse di delusione clinica. Forse, però, non sarebbe dovuta essere unasorpresa: l'Everest ha sempre attirato come una calamita ciarlatani, cacciatori di pubblicità, inguaribiliromantici e altri individui con una presa non troppo salda sulla realtà.

        Nel marzo 1947, per esempio, arrivò a Darjeeling Earl Denman, un ingegnere canadese ridotto inmiseria, che annunciò al mondo la sua intenzione di scalare l'Everest, pur avendo una scarsa esperienzaalpinistica ed essendo privo dell'autorizzazione ufficiale per entrare nel Tibet. In un modo o nell'altro,riuscì a convincere due sherpa, Ang Dawa e Tenzing Norgay, ad accompagnarlo.

        Tenzing, lo stesso uomo che in seguito avrebbe compiuto la prima scalata dell'Everest insieme conHillary, era immigrato a Darjeeling dal Nepal nel 1933, a diciassette anni, sperando di essere ingaggiatoda una spedizione che partiva per la vetta quella primavera sotto la guida di un celebre alpinista ingleseche si chiamava Eric Shipton. Quell'anno il giovane e ambizioso sherpa non fu prescelto, ma rimase inIndia e fu ingaggiato in seguito da Shipton per la spedizione inglese sull'Everest del 1935. Quandoaccettò di accompagnare Denman nel 1947, Tenzing era già salito tre volte sulla montagna; in seguitoammise di aver saputo fin dall'inizio che i piani di Denman erano azzardati, ma anche a lui riuscivaimpossibile resistere alla forza di attrazione dell'Everest:

 

Non c'era nulla di sensato in quell'impresa. Primo, probabilmente non saremmo neanche riusciti a entrarenel Tibet. Secondo, se fossimo entrati probabilmente saremmo stati arrestati e noi guide ci saremmotrovate in seri guai, alla pari con Denman. Terzo, non credetti neanche per un istante che, anche seavessimo raggiunto la montagna, un gruppo del genere sarebbe stato in grado di scalarla. Quarto, iltentativo sarebbe stato estremamente pericoloso. Quinto, Denman non aveva denaro sufficiente nè apagarci nè a garantire una somma decente alle persone che dipendevano da noi, nel caso ci fossesuccesso qualcosa. E così via. Qualunque uomo sano di mente avrebbe detto di no, ma io non ci riuscii,perchè in fondo al cuore sapevo che dovevo andare, e per me l'attrattiva dell'Everest era più potente diqualsiasi altra forza al mondo. Ang Dawa e io ne parlammo per qualche minuto, poi prendemmo unadecisione. «Ebbene», dissi a Denman, «tentiamo.»

 

Mentre la piccola spedizione attraversava il Tibet per raggiungere l'Everest, i due sherpa cominciaronoad. apprezzare e rispettare sempre di piùil canadese. Malgrado l'inesperienza, ammiravano il suocoraggio e la sua forza fisica. E a suo credito va detto che Denman fu pronto a riconoscere le sue lacunequando arrivarono alle pendici della montagna e si trovarono di fronte alla realtà. Quando furono investitiin pieno da una tormenta alla quota di 6700 metri, Denman ammise la sconfitta e i tre uomini fecerodietrofront, tornando sani e salvi a Darjeeling appena cinque settimane dopo la partenza.

Non era stato altrettanto fortunato Maurice Wilson, un inglese idealista e malinconico che aveva tentatoun'impresa altrettanto arrischiata tredici anni prima di Denman. Spinto da un malinteso desiderio di aiutareil prossimo, Wilson aveva concluso che la scalata dell'Everest sarebbe stata il modo ideale dipubblicizzare la sua fede nella possibilità di curare la miriade di mali che affliggono l'umanità con unacombinazione di digiuno e fede nell'onnipotenza di Dio. Aveva abbozzato il piano di sorvolare il Tibet conun piccolo aereo da turismo, compiere un atterraggio di fortuna sulle pendici dell'Everest e di lì proseguirefino alla vetta. La mancanza di qualunque nozione tanto di alpinismo quanto di volo non gli sembrava unimpedimento serio alla realizzazione del progetto.

Dopo aver acquistato un Gypsy Moth con le ali di tela, lo battezzò con un gioco di paroleEver Wrest ,«sforzo perpetuo», e apprese i rudimenti del volo. Trascorse quindi cinque settimane ad arrampicarsi

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sulle modeste colline della Snowdonia e del Lake District, in Inghilterra, per imparare, a suo parere, lostretto indispensabile sulla tecnica della scalata e poi, nel maggio 1933, decollò col suo minuscoloapparecchio sulla rotta per l'Everest, attraverso Il Cairo, Teheran e l'India.

A. quel punto Wilson aveva attirato su di sè una notevole attenzione da parte della stampa. Raggiunse inaereo Purtabpore, in India,. ma non avendo ottenuto dal governo nepalese il permesso di sorvolare ilNepal, vendette l’aereo per cinquecento sterline e raggiunse via terra Darjeeling, dove apprese che gliera stata negata l'autorizzazione a entrare nel Tibet. Neppure questo valse a dissuaderlo: nel marzo 1934ingaggiò tre sherpa, si travestì da monaco buddhista e, sfidando le autorità dell'impero coloniale, percorseclandestinamente quattrocentottanta chilometri attraverso le foreste del Sikkim e l’arido altopiano delTibet. Il 14 aprile era ai piedi dell'Everest.

Risalendo il ghiacciaio di Rongbuck orientale costellato di massi, da principio fece discreti progressi, mapoi rimase vittima della sua inesperienza, perdendo più volte l'orientamento e ritrovandosi frustrato esfinito. Tuttavia rifiutò di darsi per vinto. Verso la metà di maggio aveva raggiunto l'estremità superioredel ghiacciaio di Rongbuck orientale, a 6400 metri, dove saccheggiò una riserva di viveri e attrezzaturenascosta sul posto dalla spedizione fallita di Eric Shipton del 1933. Di lì Wilson partì per scalare ilversante settentrionale, che portava al Colle Nord, riuscendo ad arrivare a circa 6900 metri prima cheuna parete verticale di ghiaccio si rivelasse superiore alle sue possibilità, costringendolo a tornare indietroverso il luogo dov'erano state nascoste le provviste di Shipton; ma anche stavolta non volle saperne dirinunciare. Il 28 maggio annotò nel suo diario: «Ancora un ultimo sforzo, e otterrò il successo», poi partìper affrontare ancora una volta la montagna.

Un anno dopo, quando Shipton tornò sull'Everest, la sua spedizione s'imbatte nel corpo congelato diWilson, disteso sulla neve ai piedi del Colle Nord. «Dopo qualche discussione decidemmo di seppellirloin un crepaccio», scrisse Charles Warren, uno degli scalatori che avevano ritrovato il cadavere. «In quelmomento ci scoprimmo tutti il capo, e penso che fossimo piuttosto scossi. Credevo di essere diventatoindifferente al pensiero della morte, ma per un verso o per l’altro, date le circostanze, e forse per il fattoche, dopo tutto, era perito proprio facendo quello che facevamo noi, la sua tragedia ci colpì unpo’troppo da vicino.»

 

Le gesta sulle pendici dell'Everest di Wilson e Denman, sognatori appena qualificati come alcuni dei mieicompagni, sono un fenomeno che ha suscitato notevoli critiche; ma il problema di chi sia al suo postosull'Everest e chi no è più complicato di quanto possa sembrare a prima vista. Il fatto che uno scalatoreabbia pagato un'ingente somma di denaro per partecipare a una spedizione guidata non significa di per sèche non sia qualificato a trovarsi sulla montagna. Anzi, almeno due delle spedizioni commerciali che sitrovavano sull'Everest nella primavera del 1996 comprendevano veterani dell'Himalaya che sarebberostati giudicati qualificati anche in base ai criteri più rigorosi.

Il 13 aprile, mentre aspettavo al Campo Uno che i miei compagni mi raggiungessero in cima allaseraccata, un paio di scalatori della squadra della Mountain Madness di Scott Fischer ci superaronoprocedendo a un ritmo impressionante. Uno di loro era Klev Schoening, un trentottenne impresario ediledi Seattle, ex componente della squadra nazionale di sci degli Stati Uniti, che, pur essendoeccezionalmente forte, non aveva una grande esperienza in alta quota. Tuttavia era accompagnato dallozio Peter Schoening, una leggenda vivente dell'Himalaya.

Peter, che di lì a due mesi avrebbe festeggiato il sessantanovesimo compleanno, era un uomoallampanato e leggermente curvo, vestito con un completo di GoreTex logoro e sbiadito, che era tornatosulle pendici superiori dell'Himalaya dopo una lunga assenza. Nel 1958 aveva scritto una pagina di storia,

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contribuendo in misura determinante alla prima scalata dello Hidden Peak, una montagna alta 8068 metrinella catena del Karakorum, in Pakistan, la prima scalata mai effettuata a quella quota da alpinistiamericani. Peter era diventato ancor più famoso, comunque, per avere interpretato un ruolo eroico in unaspedizione fallita sul K2 nel 1953, lo stesso anno in cui Hillary e Tenzing avevano conquistato la vettadell'Everest.

La spedizione, composta da otto uomini, era stata bloccata da una violenta tempesta di vento sul K2,proprio nel momento in cui stavano per lanciare l'assalto finale alla vetta, quando un componente dellasquadra, Art Gilkey, fu colpito da una tromboflebite, un coagulo di sangue nelle vene prodottodall'altitudine, che poteva rivelarsi fatale. Rendendosi conto che dovevano trasportare immediatamente inbasso Gilkey, se volevano avere qualche speranza di salvarlo, Schoening e gli altri avevano cominciato acalarlo lungo il ripido crinale che porta il nome di Cresta degli Abruzzi, sotto l'infuriare della tempesta. A7620 metri di quota, uno scalatore di nome George Bell era scivolato, trascinando con sè altri quattrocompagni. Avvolgendosi istintivamente la corda intorno alle spalle e alla piccozza da ghiaccio, Schoeningera riuscito chissà come a trattenere Gilkey con una mano sola, mentre nello stesso tempo arrestava lascivolata dei cinque alpinisti evitando di farsi travolgere anche lui. Questa impresa, una delle più incredibilinegli annali dell'alpinismo, è nota da allora semplicemente con il nome di «Assicurazione»[18].

E ora Pete Schoening si faceva accompagnare sull'Everest da Fischer e dalle sue due guide, NealBeidleman e Anatoli Boukreev. Quando chiesi a Beidleman, un possente scalatore del Colorado, come sisentiva a guidare un cliente .della statura di Schoening, lui si affrettò a correggermi con una risatinaautoironica: «Uno come me non può 'guidare’Peter Schoening. Considero semplicemente un grandeonore trovarmi nella sua stessa squadra». Schoening aveva firmato il contratto con il gruppo dellaMountain Madness di Fischer non perchè avesse bisogno di una guida per farsi accompagnare in cima,bensì per risparmiarsi l'enorme fastidio di ottenere l'autorizzazione e procurarsi ossigeno, tende,provviste, l'assistenza degli sherpa e altri dettagli logistici.

Pochi minuti dopo che Pete e Klev Schoening erano passati di lì diretti alloro Campo Uno, comparve laloro compagna di squadra Charlotte Fox. Dinamica e statuaria, la Fox era una trentottenne che facevaparte del corpo di sorveglianza sugli sci di Aspen, nel Colorado, e aveva già scalato due «Ottomila»: ilGasherbrum II, nel Pakistan, alto 8035 metri, e il vicino dell'Everest, il Cho Oyu, di 8201 metri. Ancorapiù avanti, incontrai un componente della spedizione commerciale di Mal Duff, un finlandese di ventottoanni che si chiamava Veikka Gustafsson e aveva al suo attivo la conquista di una serie di vette himalayaneche comprendeva l'Everest, il Dhaulagiri, il Makalu e il Lhotse.

Nessuno dei clienti di Hall poteva reggere il confronto, dato che non avevano mai raggiunto la vetta diuno degli Ottomila. Se un uomo come Peter Schoening era l'equivalente di un professionista del baseballdi prima categoria, i miei compagni e io sembravamo una squadra raccogliticcia di giocatori dilettanti diprovincia che si fossero conquistati l'accesso al campionato nazionale a forza di bustarelle. Certo, in cimaalla seraccata Hall ci aveva definiti «una squadra davvero forte», e forti lo eravamo davvero, in confrontoad altri gruppi di clienti che Hall aveva condotto in cima alla montagna negli anni precedenti; ciònonostante mi appariva chiaro che nessuno di noi aveva la minima speranza di scalare l'Everest senza unnotevole aiuto da parte di Hall, delle sue guide e degli sherpa.

D'altra parte il nostro gruppo era molto più competente di parecchie altre squadre che si trovavano inquel momento sulle pendici della montagna. C'erano alcuni scalatori dalle capacità molto dubbie chefacevano parte di una spedizione commerciale condotta da un inglese, le cui credenziali sull’Himalayaerano come minimo oscure; ma le persone meno qualificate sull’Everest non erano affatto clienti delleguide, bensì membri di spedizioni non commerciali organizzate in modo tradizionale.

Mentre tornavo al campo base attraversando la parte inferiore della seraccata, superai un paio di

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alpinisti più lenti, forniti di indumenti e attrezzature dall'aspetto molto strano. Apparve quasi subitoevidente che non avevano una grande familiarità con gli attrezzi e le normali tecniche della scalata sughiaccio; lo scalatore che procedeva in coda urtò più volte con i ramponi .la superficie del ghiaccio,incespicando. Mentre aspettavo che superassero l'apertura di un crepaccio sormontata da due scalettetraballanti unite a un'estremità per formare un ponte, restai scosso nel vederli procedere insieme, quasi apasso doppio, correndo un rischio inutile. Un impacciato tentativo di conversazione dalla parte oppostadel crepaccio mi rivelò che erano membri di una spedizione di Taiwan.

La fama dei taiwanesi li aveva preceduti sull'Everest. Nella primavera del 1995, la stessa squadra avevaraggiunto l’Alaska per scalare il monte McKinley, in preparazione al tentativo sull'Everest del 1996.Nove scalatori erano riusciti ad arrivare in cima, ma sette erano stati sorpresi da una tempesta durante ladiscesa, avevano perso l'orientamento ed erano rimasti una notte intera all'aperto a 5900 metri di quota,provocando una costosa e rischiosa operazione di salvataggio da parte del National Park Service.

Rispondendo a una richiesta dei ranger del parco, Alex Lowe e Conrad Anker, due dei più abili alpinististatunitensi, avevano interrotto una scalata per precipitarsi dalla quota di 4400 metri in soccorso deitaiwanesi, che ormai erano più morti che vivi. Superando grandi difficoltà e affrontando notevoli rischi perla loro stessa vita, Lowe e Anker avevano trascinato uno alla volta i taiwanesi in stato di incoscienza da5900 metri a 5250, dove un elicottero aveva potuto evacuarli dalla montagna. In tutto, cinquecomponenti della squadra taiwanese, di cui due con gravi sintomi di assideramento e uno già morto,furono prelevati dal monte McKinley a bordo dell'elicottero. «Uno solo morì», ricorda Anker, «ma seAlex e io non fossimo arrivati in tempo, ne sarebbero morti altri due. In precedenza avevamo già notato ilgruppo di Taiwan, perchè aveva un'aria così incompetente. Non è stata una grossa sorpresa quando sisono trovati in difficoltà.»

Il capo della spedizione, Gau Ming-Ho – un gioviale fotografo indipendente che si fa chiamare«Makalu», dal nome della straordinaria vetta himalayana - era esausto e assiderato e per scendere dallependici più alte della montagna aveva dovuto farsi aiutare da un paio di guide dell'Alaska. «Quando glialaskani lo portarono giù», riferisce Anker, «Makalu gridava: 'Vittoria! Vittoria!' a tutti quelli cheincontravano, come se quel disastro non fosse accaduto. Sì, quel Makalu mi è proprio sembrato un tipostrano.» Quando i superstiti della disfatta sul McKinley comparvero sul versante meridionale dell'Everestnel 1996, il loro capo era ancora una volta Makalu Gau.

La presenza dei taiwanesi sull'Everest era motivo di notevole preoccupazione per quasi tutte le altrespedizioni sulla montagna. Serpeggiava fra gli alpinisti la sincera preoccupazione che gli scalatori diTaiwan costringessero altre spedizioni ad accorrere in loro soccorso, mettendo a repentaglio altre viteumane, per non parlare del rischio di compromettere le possibilità di raggiungere la vetta degli altriscalatori. Comunque i taiwanesi non erano il solo gruppo che apparisse del tutto privo dei requisitinecessari. Accampato accanto a noi al campo base c'era un venticinquenne norvegese di nome PetterNeby che aveva annunciato la sua intenzione di compiere una scalata solitaria della parete sudovest,[19]una delle vie più pericolose e impegnative sul piano tecnico dell'intera montagna, nonostante la suaesperienza nell'Himalaya fosse limitata a due scalate sul vicino Island Peak, un rilievo alto 6169 metri inuna catena sussidiaria del Lhotse che non richiedeva prestazioni tecniche più complesse di un'energicapasseggiata.

E poi c'erano i sudafricani. Sponsorizzati da un grande quotidiano, ilSunday Times di Johannesburg,avevano ispirato con la loro iniziativa un intenso orgoglio nazionale, ricevendo prima della partenza labenedizione personale del presidente Nelson Mandela. Era la prima spedizione sudafricana alla qualefosse mai stata concessa l'autorizzazione a scalare l'Everest, un gruppo misto sul piano razziale, chenutriva l’ambizione di portare sulla vetta la prima persona di colore. Il loro capo era Ian Woodall, untrentanovenne loquace con il muso da topo che amava rievocare aneddoti sulle sue valorose imprese di

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commando dietro le linee nemiche durante il lungo e brutale conflitto con l'Angola negli anni Ottanta.

Per formare il nucleo della squadra, Woodall aveva reclutato tre dei più forti scalatori sudafricani: Andyde Klerk, Andy Hackland e Edmund February. La composizione mista della squadra era particolarmenteimportante per February, un negro dalla voce sommessa che era già un paleoecologo e scalatore di famainternazionale. «I miei genitori mi hanno dato lo stesso nome di sir Edmund Hillary», spiega. «Scalarel'Everest è sempre stato uno dei miei sogni personali fin da quando ero giovanissimo. Ma il fatto ancorpiù significativo è che consideravo la spedizione come il simbolo potente di una giovane nazione che tentadi raggiungere l'integrazione e di adottare la forma di governo democratica, sforzandosi di riscattarsi dalpassato. lo sono cresciuto sotto molti aspetti sotto il giogo dell'apartheid, e questo mi amareggia molto,ma ora siamo una nazione nuova. Credo fermamente nella direzione imboccata dal mio paese.Dimostrare che noi sudafricani possiamo scalare l'Everest insieme, bianchi e neri, arrivando alla vetta...sarebbe davvero grande.»

La nazione intera si era schierata a favore della spedizione «Woodall anciò il progetto in un momentodavvero propizio», spiega de Klerk. «Con la fine dell'apartheid, i sudafricani erano finalmente liberi diviaggiare dovunque volevano e le nostre squadre sportive potevano gareggiare in tutto il mondo. IlSudafrica aveva appena vinto la coppa del mondo di rugby e aleggiava nell'aria una sorta di euforianazionale, una grande ondata di orgoglio. Così, quando si presentò Woodall con la proposta di unaspedizione sudafricana sull'Everest, tutti si dichiararono favorevoli e lui potè raccogliere una grossasomma di denaro, l'equivalente di parecchie centinaia di migliaia di dollari americani, senza che nessunofacesse troppe domande.»

Oltre a sè stesso, ai tre scalatori sudafricani e a un alpinista e fotografo inglese, Bruce Herrod, Woodallvoleva includere nella spedizione anche una donna, quindi prima di lasciare il Sudafrica aveva invitato seicandidate a una scalata fisicamente spossante, ma tecnicamente priva di difficoltà, sul Kilimangiaro, alto5895 metri. Al termine della prova, durata due giorni, Woodall aveva annunciato che la scdta era ristrettaa due fìnaliste: Cathy O'Dowd, ventisei anni, un'insegnante di giornalismo bianca dall'esperienza alpinisticalimitata, il cui padre era direttore dell'Anglo American, la più grande società del Sudafrica, e DeshunDeysel, venticinque anni, un'insegnante nera di educazione fisica senza alcuna esperienza di alpinismo, cheera cresciuta in una township segregazionista. Entrambe le donne, aveva detto Woodall, avrebberoaccompagnato la squadra al campo base, e una volta sul posto lui ne avrebbe scelta una per la scalata inbase alla loro prestazione durante la marcia di avvicinamento.

Il 1° aprile, durante il secondo giorno di marcia di avvicinamento al campo base, avevo avuto lasorpresa di imbattermi in February, Hackland e de Klerk sul sentiero, poco prima di Namche Bazaar,mentre ridiscendevano dalle montagne, diretti a Kathmandu. De Klerk, che era mio amico, mi avevainformato che i tre scalatori sudafricani e Charlotte Noble, medico della spedizione, avevano dato ledimissioni dalla squadra prima ancora di raggiungere la base della montagna. «Woodall, il capo, si èrivelato un autentico bastardo», mi aveva spiegato de Klerk. «Un maniaco del controllo totale. E poi dilui non ci si poteva fidare... non si sapeva mai se raccontava balle o diceva la verità. Non abbiamo volutomettere la nostra vita nelle mani di quell'uomo, e così ce ne siamo andati.»

Woodall aveva sostenuto con de Klerk e gli altri di avere compiuto numerose scalate in Himalaya, fracui alcune al di sopra degli ottomila metri, ma in realtà tutta la sua esperienza himalayana si riduceva allapartecipazione come cliente pagante a una spedizione commerciale sull'Annapurna guidata da Mal Duffnel 1990, in occasione della quale aveva raggiunto i 6500 metri.

Inoltre prima della partenza per l'Everest Woodall si era vantato, nel sito Internet dedicato allaspedizione, di avere alle spalle una luminosa carriera nei ranghi dell'esercito inglese «al comando dellaLong Range Mountain Reconnaissance Unit, una unità di ricognizione che aveva svolto gran parte del suo

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addestramento in Himalaya». Aveva raccontato alSunday Times di essere stato anche istruttore dellaRoyal Military Academy di Sandhurst, in Inghilterra. Si dà il caso, invece, che nell'esercito inglese nonesista una Long Range Mountain Reconnaissance Unit, e che Woodall non aveva mai prestato serviziocome istruttore a Sandhurst; del resto non aveva mai combattuto dietro le linee nemiche in Angola.Secondo un portavoce dell'esercito britannico, Woodall era stato semplicemente un ufficiale pagatore.

Inoltre aveva mentito sul numero di componenti del gruppo iscritti sull'autorizzazione alla scalatadell'Everest rilasciata dal ministero del Turismo nepalese.[20]Fin dall'inizio aveva sostenuto che tantoCathy O'Dowd quanto Deshun Deysel erano elencate nel permesso e che la decisione finale su qualedelle due sarebbe stata invitata a far parte della squadra per la scalata sarebbe stata presa al campobase. Dopo aver lasciato la spedizione, de Klerk scoprì che mentre O'Dowd era indicatanell'autorizzazione, insieme al padre sessantanovenne di Woodall e a un francese di nome Tierry Renard(che aveva pagato trentacinquemila dollari a Woodall per far parte della squadra sudafricana), DeshunDeysel, l'unica persona di colore dopo le dimissioni di Ed February, non lo era. Questo fece capire a deKlerk che Woodall non aveva mai avuto la minima intenzione di includere Deysel nel gruppo degliscalatori.

Tanto per aggiungere l'insulto all'offesa, prima di lasciare il Sudafrica Woodall aveva ammonito de Klerk- che è sposato con un'americana e ha la doppia cittadinanza - che non sarebbe stato ammesso a farparte della spedizione se non avesse accettato di usare il passaporto sudafricano per entrare nel Nepal.«Ne fece un caso nazionale», ricorda de Klerk, «perchè eravamo la prima spedizione sudafricanasull'Everest e così via. E poi salta fuori che è lui a non avere un passaporto del Sudafrica. Non haneanche la cittadinanza sudafricana: è inglese, ed è entrato nel Nepal con il passaporto inglese.»

Le numerose menzogne di Woodall diventarono uno scandalo internazionale, riportato sulla prima paginadei quotidiani di tutto il Commonwealth britannico. Man mano che le reazioni negative della stampagiungevano fino a lui, il megalomane capo della spedizione si mostrò indifferente alle critiche, e isolò il piùpossibile la sua squadra dalle altre spedizioni. Giunse a bandire dalla squadra il cronista Ken Vernon e ilfotografo Richard Shorey, delSunday Times , nonostante che avesse firmato un contratto in cui unaclausola specificava che, in cambio dell'appoggio finanziario del giornale, i due giornalisti sarebbero stati«autorizzati ad accompagnare la spedizione in qualsiasi momento» e che il mancato rispetto di questacondizione «sarebbe stato causa di rescissione del contratto».

In quel periodo il direttore delSunday Times , Ken Owen, era in viaggio per il campo base incompagnia della moglie, nel corso di un trekking organizzato in coincidenza con la spedizione sudafricanasull'Everest, e a fargli da guida era l'amica di Woodall, Alexandrine Gaudin, una giovane francese. APheriche, Owen apprese che Woodall aveva dato il benservito al suo cronista e al suo fotografo.Sconcertato, inviò un messaggio al capo della spedizione, spiegando che il giornale non aveva alcunaintenzione di ritirare Vernon e Shorey e che i giornalisti avevano ricevuto l'ordine di ricongiungersi allaspedizione. Quando ricevette questo messaggio, Woodall andò su tutte le furie e si precipitò dal campobase a Pheriche per farla finita con Owen.

Secondo quest'ultimo, durante il confronto che seguì, lui chiese a bruciapelo a Woodall se il nome diDeshun Deysel comparisse sull'autorizzazione, e Woodall replicò: «Questi non sono affari suoi».

Quando Owen insinuò che Deysel era stata ridotta a «fare da pedina in quanto donna di colore, perconferire alla squadra un carattere nazionale sudafricano del tutto spurio», Woodall minacciò di uccideretanto Owen quanto la moglie. A un certo punto il sovreccitato capo della spedizione dichiarò: «Lestrappo dal collo quella fottuta testa e gliela caccio su per il culo».

Poco dopo il giornalista Ken Vernon, appena arrivato al campo base, fu informato «a muso duro dalla

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signorina O'Dowd che non ero 'gradito’al campo», incidente che fu riferito per la prima volta via faxdall'apparecchio satellitare di Rob Hall. Come scrisse in seguito Vernon sulSunday Times :

 

Le risposi che non aveva il diritto di bandirmi da un accampamento per il quale il mio giornale avevapagato. Quando insistetti, lei affermò di agire dietro «istruzioni» del signor Woodall. Mi disse che Shoreyera stato già espulso dal campo e che avrei dovuto seguirlo, visto che lì non mi avrebbero fornito nè vittonè alloggio. Mi tremavano ancora le gambe dopo la marcia e, prima di decidere se battermi control'editto o andarmene, chiesi una tazza di tè. «Neanche per sogno», fu la risposta. La signorina O'Dowd siavvicinò al capo degli sherpa della spedizione, Ang Dorje, e gli disse in modo che potessi sentire:«Questo è Ken Vernon, una delle persone di cui ti ho parlato. Non deve ricevere alcuna forma diassistenza». Ang Dorje è un pezzo d'uomo duro come una pepita, col quale avevamo già diviso parecchibicchieri di chang, la forte bevanda locale. Lo guardai chiedendo: «Neanche una tazza di tè?» Va detto asuo credito che, nella migliore tradizione dell'ospitalità sherpa, guardò la signorina O'Dowd ed esclamò:«Sciocchezze». Mi afferrò per il braccio, mi trascinò nella tenda-mensa e mi servì una tazza di tè fumantecon un piatto di biscotti.

 

 

In seguito a quello che definì il suo «scontro agghiacciante» con Woodall a Pheriche, Owen si convinseche «...l'atmosfera della spedizione era malsana e che i dipendenti delSunday Times , Ken Vernon eRichard Shorey, potevano correre pericolo di vita». Diede quindi istruzioni a Vernon e Shorey di tornarein Sudafrica e il quotidiano pubblicò una dichiarazione in cui affermava di revocare la sponsorizzazionedella spedizione.

Tuttavia, poiche Woodall aveva già ricevuto il finanziamento  del quotidiano, questo atto rimasepuramente simbolico, senza esercitare quasi alcun impatto sulla sua condotta sull'Everest. Si rifiutò dirinunciare al comando della spedizione o di scendere a qualsiasi compromesso, anche dopo averericevuto una lettera dal presidente Mandela, che lo invitava a una riconciliazione nell'interesse nazionale.Woodall insistette ostinatamente perchè la scalata dell'Everest procedesse come previsto, con luisaldamente al timone.

Di ritorno a Città del Capo dopo il fallimento della spedizione, February descrisse la sua delusione.«Forse sono stato un ingenuo», dichiarò con voce rotta dall'emozione, «ma negli anni dell'adolescenza hoodiato l'apartheid. Scalare l'Everest insieme con Andrew e gli altri sarebbe stata una grande prova che leantiche usanze erano state abbandonate. Woodall non aveva il minimo interesse alla nascita di un nuovoSudafrica. Ha preso i sogni di un'intera nazione e li ha usati per i suoi scopi egoistici. La decisione dilasciare la spedizione è stata la più penosa di tutta la mia vita.»

Con la partenza di February, Hackland e de Klerk, nessuno dei componenti che erano rimasti a farparte della squadra (fatta eccezione per il francese Renard, che si era unito alla spedizione solo peressere elencato sul permesso e compiva la scalata in modo del tutto indipendente dagli altri, con i suoisherpa personali) aveva un'esperienza alpinistica superiore al minimo indispensabile; almeno due di loro,ricorda de Klerk, «non sapevano neppure allacciarsi i ramponi».

Lo scalatore solitario norvegese, gli alpinisti di Taiwan e soprattutto i sudafricani erano spesso oggetto didiscussione nella tenda-mensa di Hall. «Con tanti incompetenti in giro per la montagna», osservòaccigliato Rob una sera, verso la fine di aprile, «mi sembra piuttosto improbabile che si riesca ad arrivare

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alla fine della stagione senza che succeda qualcosa di brutto, lassù.»

Dubito che qualcuno possa sostenere di amare la vita alle alte quote; di amarla, intendo, nel sensoordinario del termine, Si prova, è vero, una sorta di tetra soddisfazione nel progredire verso l’alto siapure lentamente; ma si è obbligati a trascorrere la maggior parte del tempo nell'estremo squallore di uncampo in alta quota, sempre che anche questo conforto sia possibile, Fumare è impossibile, il cibo tendea provocare il vomito; la necessità di ridurre il peso al minimo impedisce di portare con se qualsiasi formadi letteratura che non sia quella rappresentata dalle etichette sulle scatolette di cibo; l'olio delle sardine, illatte condensato e la melassa si versano dappertutto; tranne brevissimi istante durante i quali di solito nonsi è dell'umore adatto per godere di piaceri di natura estetica, non c'è altro da vedere se non ildeprimente caos che regna all'interno della tenda e l'aspetto irsuto e barbuto del proprio compagno dispedizione (per fortuna il fragore del vento sommerge di solito il suono del suo respiro ansimante), Peggioancora, si avverte una sensazione di totale impotenza e incapacità ad affrontare qualunque emergenzapossa presentarsi, In genere tentavo di consolarmi col pensiero che un anno prima sarei stato eccitato allasola idea di partecipare all'impresa in corso, ma l'altitudine esercita sulla mente lo stesso effetto che ha sulcorpo: l’intelletto diventa torpido e insensibile, e il mio unico desiderio era portare a termine quel dannatolavoro e ridiscendere per trovare un clima più decente .

ERIC SHIPTON

Upon That Mountain

 

Poco prima dell'alba di martedì 16 aprile, dopo due giorni di riposo al campo base, ci avventurammoancora una volta nel labirinto della seraccata per cominciare la seconda escursione di acclimatazione,Mentre seguivo nervosamente il tortuoso percorso segnato in mezzo a quel caos di ghiaccio che emettevasinistri gemiti e scricchiolii, mi accorsi di non avere il respiro affannoso come nella prima ascensione sulghiacciaio: il mio organismo si stava già adattando all'altitudine. Il terrore di essere schiacciato dallacaduta di un seracco, invece, era rimasto assolutamente immutato,

Speravo che ormai quella gigantesca torre pendente a 5800 metri, soprannominata «Trappola per topi»da qualche buontempone della squadra di Fischer, fosse crollata; invece era sempre lì, in precarioequilibrio, ancora più inclinata di prima. Anche stavolta misi a repentaglio il mio apparato cardiovascolareaffrettandomi a salire in alto per sottrarmi alla sua ombra minacciosa, e anche stavolta mi sentii cedere leginocchia appena arrivato sulla sommità del seracco, in debito di ossigeno e tremante per l’eccesso diadrenalina che mi frizzava nelle vene.

A differenza dalla prima escursione di acclimatazione, durante la quale eravamo rimasti al Campo Unomeno di un'ora prima di tornare al campo base, questa volta Rob aveva intenzione di farci trascorrerelassù le notti del martedì e del mercoledì, per proseguire poi per il Campo Due, dove avremmopernottato ancora tre volte prima di ridiscendere al campo base.

Alle nove di mattina, quando raggiunsi il Campo Uno, Ang Dorje,[21]il nostrosirdar scalatore,[22]stavascavando delle piattaforme per le tende nel pendio di neve ghiacciata. A ventinove anni, Ang Dorje è unuomo snello dai lineamenti delicati, con un carattere schivo e ombroso e una forza fisica sorprendente.Mentre aspettavo l'arrivo dei miei compagni, presi una pala in soprannumero e cominciai ad aiutarlo, manel giro di pochi minuti ero esausto per lo sforzo e dovetti sedermi a riposare, strappando allo sherpa unasonora risata. «Non ti senti bene, Jon?» mi prese in giro. «E pensare che questo è solo il Campo Uno, aseimila metri. Qui l'aria è ancora molto densa.»

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Ang Dorje era originario di Pangboche, un agglomerato di case di pietra e campi terrazzati coltivati apatate che si estende su un pendio scosceso alla quota di 3960 metri. Suo padre era uno sherpascalatore molto stimato, che gli aveva insegnato fin dai primi anni di vita i rudimenti dell'alpinismo, inmodo che il ragazzo potesse acquisire delle capacità utili a procurargli un lavoro. Quando Ang Dorje eraappena adolescente, il padre era diventato cieco a causa di una cataratta e lui aveva dovuto abbandonarela scuola per guadagnare e mantenere la famiglia.

Nel 1984, mentre lavorava come inserviente di cucina per un gruppo di trekker occidentali, avevaattirato l’attenzione di una coppia canadese, Marion Boyd e Graem Nelson. Ricorda oggi Boyd:«Sentivo la mancanza dei miei figli e, quando cominciai a conoscere meglio Ang Dorje, scoprii che miricordava il mio primogenito. Era un ragazzo vivace, pieno di interessi, ansioso di apprendere ecoscienzioso fin quasi all'eccesso. Si sobbarcava lavori durissimi e soffriva tutti i giorni di emorragie dalnaso a causa dell'altitudine. Ne restai colpita».

Dopo aver ottenuto l'approvazione della madre di Ang Dorje, Boyd e Nelson avevano cominciato afinanziare il giovane sherpa perchè potesse tornare a scuola. «Non dimenticherò mai il suo esame diammissione [per entrare alla scuola elementare regionale di Khumjung, costruita da sir Edmund Hillary].Era molto piccolo di statura, anche se in età prepuberale. Ci fecero stipare tutti in una stanzetta, insiemecon il direttore e quattro maestri, mentre Ang Dorje stava impalato in mezzo a noi, con le ginocchia chegli tremavano, e tentava di riesumare quel poco di istruzione formale che ricordava per superare l'esameorale. Sudammo sangue tutti quanti, ma alla fine fu accolto, a condizione che frequentasse le prime classiinsieme con i bambini più piccoli.»

Col tempo Ang Dorje era diventato un ottimo studente, e aveva ottenuto l'equivalente di una licenzamedia prima di lasciare la scuola per tornare al lavoro, nell'industria dell'alpinismo e del trekking. Boyd eNelson, tornati a più riprese nel Khumbu, avevano assistito alla sua maturazione. «Ora che aveva per laprima volta la possibilità di seguire una dieta adeguata, cominciò a diventare alto e forte», ricorda Boyd.«Ci raccontò tutto eccitato che aveva imparato a nuotare in una piscina di Kathmandu. A venticinqueanni circa, imparò ad andare in bicicletta e fu vittima di una breve infatuazione per la musica di Madonna.Capimmo che era davvero cresciuto, quando ci offrì il suo primo regalo, un tappeto tibetano scelto conmolta cura. Voleva donare qualcosa anche lui e non solo ricevere.»

Quando la reputazione di Ang Dorje come scalatore forte e pieno di risorse si era diffusa fra gli alpinistioccidentali era stato promosso al ruolo disirdar e in quella veste, nel 1992, era andato a lavorare perRob Hall sull'Everest; al momento del lancio della spedizione di Hall nel 1996, Ang Dorje aveva giàscalato la montagna tre volte. Riferendosi a lui con rispetto ed evidente affetto, Hall lo definiva «il mioprincipale assistente» e disse più volte che considerava essenziale il suo ruolo per il successo dellaspedizione.

Il sole splendeva luminoso, quando l'ultimo dei miei compagni raggiunse il Campo Uno, ma versomezzogiorno una frotta di cirri alti provenienti dal sud si era già ammassata nel cielo; alle tre delpomeriggio dense nubi turbinavano sul ghiacciaio e la neve tamburellava sulle tende con un fragoreassordante. La tempesta durò tutta la notte; al mattino, quando uscii carponi dalla tenda che dividevo conDoug, il ghiacciaio era coperto da uno strato di neve fresca alto più di trenta centimetri. Decine divalanghe precipitavano rombando lungo le ripide pareti più in alto, ma il nostro accampamento era alsicuro, fuori della loro portata.

Alle prime luci dell'alba di giovedì 18 aprile, quando il cielo ormai si era schiarito, raccogliemmo il nostroequipaggiamento per intraprendere la marcia di trasferimento al Campo Due, a sei chilometri e mezzo didistanza e a un'altitudine superiore di cinquecentodiciotto metri. Il percorso saliva lungo il fondo in lievependenza del Cwm occidentale, il circo morenico più alto della terra, una depressione a ferro di cavallo

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scavata dal ghiacciaio del Khumbu nel cuore del massiccio dell'Everest. Il Cwm era delimitato sulladestra dai bastioni del Nuptse, alto 7879 metri, mentre l'imponente parete sudoccidentale dell'Everestformava la parete sinistra, e l'ampio fronte ghiacciato della parete del Lhotse dominava lo sfondo.

Quando ci mettemmo in marcia dal Campo Uno la temperatura era spaventosamente bassa, tanto chemi sentivo le mani ridotte ad artigli rigidi e doloranti, ma, non appena i primi raggi di sole investirono ilghiacciaio, le superfici del Cwm raccolsero e amplificarono il calore radiante come un enorme forno aenergia solare. Fui assalito all'improvviso da una vampata di calore e, temendo l'arrivo di un'altraemicrania della stessa intensità di quella che mi aveva colpito al campo base, mi tolsi tutto quello cheindossavo sopra la biancheria termica e ficcai una manciata di neve sotto il berretto da baseball. Marciaiper tre ore di seguito sul ghiacciaio, stordito ma di buon passo, fermandomi solo per bere dalla bottigliadell'acqua e per rinnovare sotto il berretto la riserva di neve che si scioglieva a contatto con i capelliormai impastati.

All'altezza di 6400 metri, ormai inebetito dal caldo, m'imbattei in un grosso oggetto avvolto in un telo diplastica blu e abbandonato lungo la pista. Il mio cervello, intorpidito dall'altitudine, impiegò un paio diminuti per capire che quell'oggetto era un corpo umano; scosso e turbato, restai a fissarlo per qualcheminuto. Quella sera, quando chiesi informazioni, Rob mi disse che non ne era sicuro, ma pensava che lavittima fosse uno sherpa morto tre anni prima.

Il Campo Due, a 6500 metri di quota, comprendeva circa centoventi tende sparse sulla nuda rocciadella morena laterale, lungo il bordo del ghiacciaio. Lassù l'altitudine si manifestò come una forza maligna,che mi infliggeva un malessere simile ai postumi di una violenta sbornia di vino rosso. Troppo sofferenteper mangiare e persino per leggere, trascorsi la maggior parte dei due giorni seguenti chiuso nella miatenda, .con la testa fra le mani, tentando di ridurre gli sforzi al minimo indispensabile. Il sabato,sentendomi leggermente meglio, salii di circa trecento metri sopra il campo, per fare un po’di moto eaccelerare l'acclimatazione, e lì, alla sommità del Cwm e a una cinquantina di metri dalla pista principale,trovai nella neve un altro corpo umano, o meglio, la parte inferiore di un corpo. Lo stile dell'abbigliamentoe gli scarponi di cuoio pregiato mi fecero pensare che la vittima fosse un europeo e che il corpo sitrovasse sulla montagna da almeno dieci o quindici anni.

Il ritrovamento del primo cadavere mi aveva lasciato fortemente scosso per alcune ore, mentre lo shockdell'impatto col secondo svanì quasi subito. Pochi degli scalatori che salivano faticosamente avevanodedicato a entrambi più di uno sguardo casuale. Era come se sulla montagna regnasse il tacito accordo difar finta che quei resti essiccati non fossero reali; come se nessuno di noi osasse riconoscere qual era lavera posta in gioco, lassù.

Lunedì 22 aprile, un giorno dopo il rientro dal Campo Due al campo base, Andy Harris e io ci recammonell'accampamento dei sudafricani per cercare di capire come mai si erano ridotti a essere considerati deiparia. Situato a una quindicina di minuti dalle nostre tende, sullo stesso ghiacciaio, il loro campo era tuttoraccolto su una gobba di detriti glaciali, sulla quale svettavano un paio di alti pali di alluminio con lebandiere nazionali del Nepal e del Sudafrica, oltre a striscioni pubblicitari della Kodak, della Apple e dialtri sponsor. Andy fece capolino nella tenda-mensa e, sfoggiando il suo sorriso più accattivante,esclamò: «Ehilà, c'è qualcuno in casa?»

Si venne a sapere che Ian Woodall, Cathy O'Dowd e Bruce Herrod si trovavano sulla seraccata,impegnati nella discesa dal Campo Due, ma era presente la fidanzata di Woodall, Alexandrine Gaudin,insieme al fratello, Philip Woodall. Inoltre nella tenda c'era una giovane donna esuberante, che si presentòcome Deshun Deysel, e invitò Andy e me a prendere il tè. I tre componenti della squadra sembravanoindifferenti agli echi negativi del discutibile comportamento di Ian e alle voci che predicevano l'imminentedisintegrazione della spedizione.

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«L’altro giorno ho fatto la mia prima arrampicata sul ghiaccio», esclamò Deysel in tono entusiastico,accennando a un vicino seracco sul quale si allenavano i componenti di varie spedizioni, per mettere allaprova le loro capacità. «Mi è sembrato davvero emozionante. Spero di salire fra qualche giorno sullaseraccata.» Avrei voluto chiederle che cosa pensava della slealtà di Ian e come si era sentita nelloscoprire di non essere inclusa nell'autorizzazione alla scalata dell'Everest, ma lei era così allegra e ingenuache non me la sentii di farlo. Dopo una conversazione di una ventina di minuti, Andy invitò tutta lasquadra sudafricana, compreso Ian, «a fare un salto nel nostro accampamento per bere un goccetto»quella sera stessa, sul tardi.

Quando tornai al campo, però, trovai Rob, la dottoressa Caroline Mackenzie e il medico dellaspedizione di Scott Fischer, Ingrid Hunt, impegnati in una conversazione radio piuttosto tesa conqualcuno che si trovava più in alto sulla pista. Qualche ora prima, scendendo dal Campo Due verso ilcampo base, Fischer aveva incontrato uno dei suoi sherpa, Ngawang Topche, seduto sul ghiacciaio a6400 metri d'altezza. Ngawang, un veterano di trentotto anni che proveniva dalla valle di Rolwaling, conun sorriso pieno di vuoti e un carattere mite, lavorava al campo base da tre giorni, trasportando carichi esvolgendo altre mansioni, ma i suoi compagni si erano lamentati più volte, protestando che si fermavaspesso a riposare, senza svolgere la sua parte del lavoro.

Interrogato da Fischer, Ngawang aveva ammesso di sentirsi debole, stordito e a corto di fiato da più didue giorni, Fisher, quindi, gli aveva ordinato di scendere subito al campo base; nella cultura degli sherpa,però, rientra una componente di machismo che li rende estremamente restii ad ammettere delle infermitàfisiche. Gli sherpa non dovrebbero essere colpiti dal mal di montagna, soprattutto quelli della Rolwaling,una regione famosa per i suoi possenti scalatori; quelli che vi sono soggetti e lo ammettono apertamentefiniscono spesso nella lista nera, perdendo così l'occasione di essere ingaggiati dalle spedizionisuccessive. Per questo Ngawang aveva ignorato le istruzioni di Scott e, invece di scendere, era salito alCampo Due per trascorrervi la notte.

Quando aveva raggiunto le tende, nel tardo pomeriggio, ormai delirava, incespicando come un ubriaco esputando a ogni colpo di tosse della schiuma rosea mista a sangue: tutti sintomi che indicavano un casoavanzato di edema polmonare causato dall'altitudine, una malattia misteriosa e potenzialmente letale,causata dall'ascesa troppo rapida a una quota eccessivamente alta per cui i polmoni si riempiono di siero.[23]L'unica cura realmente valida per l'edema polmonare è una rapida discesa; se la vittima resta a lungoad alta quota, l'esito più probabile è la morte.

A differenza di Hall, il quale insisteva perchè tutto il gruppo restasse unito durante le scalate al di sopradel campo base, sotto la stretta sorveglianza delle guide, Fischer era un fautore dell'opportunità dilasciare liberi i clienti di spostarsi su e giù per la montagna durante il periodo di acclimatazione. Diconseguenza, quando si era scoperto che Ngawang era grave, al Campo Due c'erano quattro clienti diFischer, ossia Dale Kruse, Pete Schoening, Klev Schoening e Tim Madsen, ma nessuna guida. Laresponsabilità del soccorso di Ngawang era ricaduta quindi sulle spalle di Klev Schoening e di Madsen;quest'ultimo, che aveva trentatre anni, era una semplice guardia forestale di Aspen, nel Colorado, e nonaveva mai superato i 4200 metri di altitudine prima di quella spedizione, alla quale era stato convinto aunirsi dalla sua ragazza, la veterana dell'Himalaya Charlotte Fox.

Quando entrai nella tenda-mensa di Hall, la dottoressa Mackenzie era alla radio che diceva a qualcunoal Campo Due: «Somministrate a Ngawang acetazolamide, dexamethasone e dieci milligrammi dinifedipina sublinguale... Sì, conosco il rischio. Dategliela comunque... Vi assicuro che il rischio che muoiadi edema polmonare prima che riusciamo a portarlo giù è molto, ma molto più alto del pericolo che lanifedipina gli faccia calare la pressione del sangue a un livello pericoloso. Vi prego, fidatevi di me! Dategliquei farmaci, presto!»

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Tuttavia nessuna delle medicine produsse un miglioramento, e neppure la somministrazione a Ngawangdi ossigeno supplementare o l'espediente di introdurlo in un sacco di Gamow, una camera d'ariagonfiabile di plastica delle dimensioni di una bara, in cui si aumenta la pressione atmosferica per simulareun'altitudine inferiore. E così, alla luce sempre più fioca del crepuscolo, Schoening e Madsencominciarono laboriosamente a trascinare Ngawang giù per il pendio, usando il sacco di Gamow sgonfiocome uno slittino improvvisato, mentre la guida Neal Beidleman e una squadra di sherpa salivano più infretta che potevano dal campo base verso di loro.

Beidleman raggiunse Ngawang al tramonto, presso la sommità della seraccata, e assunse il comandodelle operazioni di salvataggio, consentendo a Schoening e Madsen di tornare al Campo Due perproseguire l'acclimatazione. Lo sherpa aveva tanto liquido nei polmoni, riferì in seguito Beidleman, «cherespirando emetteva un suono simile a quello di una cannuccia quando si risucchia il frullato dal fondo delbicchiere. A metà della discesa sulla seraccata, Ngawang si tolse la maschera dell'ossigeno, frugandoall'interno per liberare la valvola di afflusso da un grumo di muco, ma quando ritirò la mano puntai verso ilguanto la luce della lampada che portavo sul casco, e mi accorsi che era tutto rosso, impregnato delsangue che aveva riversato nella maschera a ogni colpo di tosse. Poi spostai la luce sul suo viso e vidi cheera coperto di sangue anche quello.

«Quando gli occhi di Ngawang incontrarono i miei, capii quanto fosse spaventato», continuò Beidleman.«Dopo una rapida riflessione mentii, dicendogli di non preoccuparsi, perchè il sangue proveniva da untaglio sul labbro. Questo lo calmò leggermente, dopodichè riprendemmo la discesa.» Per evitare cheNgawang compisse sforzi che avrebbero aggravato l'edema, più volte durante la discesa Beidlemansollevò di peso lo sherpa sofferente, portandolo in spalla. Quando arrivarono al campo base, era giàmezzanotte passata.

La mattina dopo, martedì, Fischer prese in considerazione l'idea di chiamare un elicottero per trasferireNgawang dal campo base a Kathmandu, per un costo stimato dai cinquemila ai diecimila dollari. Matanto Fischer quanto la dottoressa Hunt confidavano che le condizioni dello sherpa sarebbero miglioratein fretta, ora che si trovava oltre millecento metri più in basso del Campo Due; di solito, infatti, perottenere la guarigione completa dall'edema polmonare è sufficiente scendere di novecento metri. Ilrisultato fu che, invece di portarlo via con l'elicottero, si decise di accompagnare Ngawang a piedi versoil fondovalle. Appena lasciato il campo base, però, lo sherpa ebbe un collasso e fu necessario riportarloper le cure necessarie al campo della Mountain Madness, dove le sue condizioni continuarono apeggiorare per tutto il giorno. Quando Hunt tentò di rimetterlo nel sacco di Gamow, Ngawang si oppose,sostenendo di non avere nè l'edema polmonare nè qualsiasi altra forma di mal di montagna. Allora fuconvocato via radio il medico americano Jim Litch, che era un'autorità nel campo della medicina di altaquota e quella primavera prestava servizio di volontariato nella clinica dell'Himalayan Rescue Association,a Pheriche.

A quel punto Fischer si era allontanato alla volta del Campo Due per riportare giù Tim Madsen, che siera stancato trasportando Ngawang lungo il Cwm occidentale e quindi era stato colpito a sua volta da unlieve attacco di edema polmonare. Durantel'assenza di Fischer, Hunt consultò altri medici del campobase, ma fu costretta a prendere da sola delle decisioni cruciali e, come osservò uno dei suoi colleghimedici, «non sapeva che pesci pigliare».

Ingrid Hunt era una dottoressa sui venticinque anni priva di esperienze alpinistiche, che aveva appenacompletato l'internato in medicina generica, aveva lavorato parecchio come volontaria nel campodell'assistenza medica sulle pendici del Nepal orientale, ma non aveva esperienze di medicina d'altaquota. Aveva conosciuto per caso Fischer qualche mese prima, a Kathmandu, mentre lui completava lepratiche per l'autorizzazione a scalare l'Everest, e Fischer l'aveva invitata a unirsi alla sua successiva

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spedizione nel duplice ruolo di medico della squadra e organizzatrice del campo base.

Pur esprimendo una certa ambivalenza riguardo a quella proposta in una lettera inviata a Fischer ingennaio, Hunt accettò alla fine quell'incarico non retribuito e arrivò nel Nepal alla fine di marzo, ansiosa dicontribuire al successo della spedizione. Tuttavia il peso della gestione del campo base e delle esigenzemediche di circa venticinque persone si era rivelato superiore alle sue previsioni. (Tanto per fare unconfronto, Rob Hall stipendiava a tempo pieno due persone di notevole esperienza, la dottoressaCaroline Mackenzie e l'organizzatrice del campo base Helen Wilton, per sbrigare il lavoro che Huntfaceva da sola, e per giunta gratis.) A peggiorare le sue difficoltà, inoltre, Hunt aveva problemi diacclimatazione e per quasi tutto il soggiorno al campo base accusò forti mal di testa e affanno.

Dopo che Ngawang era crollato durante il tentativo di scendere a valle, martedì mattina, ed era statoriportato a braccia al campo base, non gli fu somministrato di nuovo ossigeno, benchè le sue condizionicontinuassero a peggiorare, in parte perchè sosteneva ostinatamente di non essere malato. Alle sette diquella mattina arrivò di gran carriera da Pheriche il dottor Litch, che suggerì energicamente a Hunt dicominciare a somministrare ossigeno a Ngawang, aprendo la valvola al massimo, e di chiamare unelicottero.

Ormai Ngawang perdeva conoscenza di continuo e aveva gravi difficoltà respiratorie. Il mercoledìmattina, 24 aprile, fu richiesto un elicottero, ma le nuvole e le nevicate impedivano il volo, così Ngawangfu caricato in una cesta e, sotto le cure di Hunt, fu trasportato a Pheriche a dorso di sherpa.

Quel pomeriggio l'espressione accigliata di Hall tradì la sua preoccupazione. «Ngawang è molto grave»,osservò. «Ha uno dei peggiori casi di edema polmonare che abbia mai visto. Avrebbero dovuto portarlovia con l'elicottero ieri, quando ce n'era la possibilità. Se fosse stato uno dei clienti di Scott a sentirsi cosìmale, anziche uno sherpa, non credo che lo avrebbero curato con tanta superficialità. Quando arriveràgiù a Pheriche forse sarà troppo tardi per salvarlo.»

Quando lo sherpa ammalato raggiunse la clinica della HRA il mercoledì pomeriggio, dopo un tragitto didodici ore, le sue condizioni continuarono a peggiorare, nonostante ora si trovasse a 4267 metri(un'altitudine non molto superiore a quella del villaggio in cui aveva trascorso quasi tutta la vita), e questocostrinse Hunt a metterlo, contro la sua volontà, nel sacco di Gamow pressurizzato. Ngawang, che neera terrorizzato e non riusciva d'altronde a comprenderne i benefici, fece convocare un lama buddhista e,dopo aver acconsentito a farsi chiudere con la lampo all'interno, cosa che evidentemente gli causava unsenso di claustrofobia, chiese di poter avere con sè nel sacco i libri di preghiera.

Perchè il sacco di Gamow funzioni a dovere, è necessario che un assistente immetta continuamenteall'interno dell'aria pura mediante una pompa a pedale. Il mercoledì sera Hunt, esausta dopo averassistito ininterrottamente Ngawang per quarantotto ore, affidò la responsabilità della pompa ad alcunisherpa amici di Ngawang. Mentre lei schiacciava un pisolino, uno degli sherpa si accorse, attraverso lafinestrella di plastica trasparente del sacco, che Ngawang aveva la bocca ricoperta di schiuma e nondava più segno di respirare.

Svegliata con questa notizia, la dottoressa Hunt aprì subito il sacco, diede inizio alla rianimazionecardiopolmonare, e chiamò il dottor Larry Silver, uno dei volontari che lavoravano alla clinica della HRA.Dopo che Silver ebbe inserito un tubo nella trachea di Ngawang, immettendogli a forza dell'aria neipolmoni con un tubicino di gomma {una pompa amano), Ngawang riprese a respirare, ma soltanto dopoun periodo di almeno quattro o cinque minuti in cui l'ossigeno non era affluito al cervello.

Due giorni dopo, venerdì 26 aprile, il tempo finalmente migliorò quanto bastava per consentire iltrasporto in elicottero e Ngawang fu trasferito in un ospedale di Kathmandu, ma i medici annunciarono

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che aveva riportato gravi danni cerebrali; ormai era ridotto a poco più che un vegetale. Nelle settimaneseguenti languì in ospedale, con lo sguardo vacuo rivolto al soffitto, le braccia distese lungo i fianchi e imuscoli atrofizzati, arrivando a pesare meno di quaranta chili. Verso la metà di giugno morì, lasciando lamoglie e quattro figlie nella Rolwaling.

 

Quello che desta stupore è che il caso di Ngawang fosse noto, più che agli scalatori impegnati nellascalata dell'Everest, a decine di migliaia di persone che si trovavano ben lontane dalla montagna. Questoghiribizzo dell'informazione era dovuto a Internet, e a noi che eravamo al campo base faceva un effettoaddirittura surreale. Un compagno di squadra, per esempio, poteva chiamare la famiglia con il telefonosatellitare e apprendere quello che facevano i sud africani al campo base dalla moglie che navigava sulWorld Wide Web dalla Nuova Zelanda o dal Michigan.

Almeno cinque siti Internet diffondevano rapporti[24]inviati da corrispondenti al campo basesull'Everest. La squadra sudafricana aveva aperto un sito tutto suo sul Web, così come la InternationalCommercial Expedition di Mal Duff. Nova, lo spettacolo televisivo della PBS, produceva un bollettino inrete complesso e molto ricco di informazioni, trasmettendo aggiornamenti quotidiani grazie a Liesl Clark eall'eminente storico dell'Everest Audrey Salkeld, che facevano parte della spedizione MacGillivrayFreeman IMAX. (La squadra dell'IMAX, diretta dall'abile regista ed esperto scalatore DavidBreashears, che aveva guidato Dick Bass sull'Everest nel 1985, stava girando un film sulla scalata delcosto di cinque milioni e mezzo di dollari, destinato al grande schermo.) La spedizione di Scott Fischeraveva non meno di due corrispondenti che inviavano messaggi online per un paio di siti Web inconcorrenza fra loro.

Jane Bromet, che inviava ogni giorno rapporti telefonici per Outside Online,[25]era una delle duecorrispondenti della squadra di Fischer, ma, non essendo una cliente, non era autorizzata a salire più inalto del campo base. L'altra corrispondente nella spedizione di Fischer, invece, era una cliente cheintendeva arrivare alla vetta e lungo il percorso inviava messaggi quotidiani per la Interactive Media dellaNBC: si chiamava Sandy Hill Pittman, e sulla montagna non c'era personaggio più in vista di lei o piùbersagliato dai pettegolezzi.

Pittman, una miliardaria interessata ai problemi sociali e appassionata di alpinismo, era tornata a darel'assalto all'Everest per la terza volta. Quell'anno era più decisa che mai a raggiungere la vetta,completando così la sua crociata molto pubblicizzata per scalare le Sette Sorelle.

Nel 1993 si era unita a una spedizione guidata che tentava la via del Colle Sud e della Cresta Sud-Est, eaveva fatto scalpore presentandosi al campo base con il figlio di nove anni, Bo e una bambinaia chedoveva occuparsi di lui. Tuttavia aveva accusato una serie di problemi ed era arrivata appena a 7300metri, prima di essere costretta a tornare indietro.

Nel 1994 era tornata sull'Everest, dopo avere raccolto oltre duecentocinquantamila dollari da sponsorcommerciali per assicurarsi le prestazioni di quattro dei migliori alpinisti del Nordamerica: Breashears(che aveva un contratto per filmare la spedizione per la rete NBC), Steve Swenson, Barry Blanchard eAlex Lowe. Lowe - a detta di alcuni il migliore scalatore del mondo - era stato ingaggiato come guidapersonale di Sandy, incarico per il quale aveva ricevuto un generoso compenso. I quattro erano partitiprima della Pittman per attrezzare con le corde una parte della parete Kangshung, una pareteestremamente difficile e rischiosa sul versante tibetano della montagna. Con una buona dose di assistenzada parte di Lowe, Pittman era salita con le corde fisse fino a 6700 metri, ma ancora una volta era statacostretta a rinunciare prima di raggiungere la vetta; stavolta il problema era costituito dalle condizionipericolosamente instabili della neve, che avevano costretto l'intera squadra ad abbandonare la montagna.

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Finchè non mi ero imbattuto casualmente in lei a Gorak Shep, durante la marcia verso il campo base,non avevo mai incontrato Pittman faccia a faccia, pur avendo sentito parlare di lei da anni. Nel 1992, larivistaMen's Journal mi aveva incaricato di scrivere un articolo su un viaggio che avrei dovuto compiereda New York a San Francisco in sella a una motocicletta Harley-Davidson in compagnia di Jann Wenner{il leggendario e iperbolicamente ricco editore diRolling Stone ,Men's Journal eUs ) e di alcuni dei suoiricchi amici, fra cui Rocky Hill, il fratello di Pittman, e il marito, Bob Pittman, il cofondatore della MTV.

La Hog grondante di cromature e dal rombo assordante che Jann mi aveva prestato era un veicoloeccitante, e i miei compagni di viaggio d'alto bordo erano abbastanza cordiali, ma avevo ben poco incomune con loro e sia a loro sia a me riusciva impossibile dimenticare che partecipavo al viaggio dietrocompenso di Jann. A cena Bob, Jann e Rocky confrontavano il modello di aereo privato chepossedevano (Jann mi raccomandò un Gulfstream IV, non appena fossi stato in grado di permettermi unjet personale), discutevano delle loro tenute in campagna e parlavano di Sandy, che guarda caso in quelperiodo stava scalando il monte McKinley. «Ehi», suggerì Bob quando apprese che ero anch'io unappassionato di alpinismo, «tu e Sandy dovreste scalare qualche montagna insieme, una volta o l’altra.»Ed era quello che stavamo facendo adesso, a quattro anni di distanza.

Alta un metro e ottanta, Sandy Pittman mi sopravanzava di circa sei centimetri e i capelli corti damonello apparivano pettinati con eleganza anche lassù a cinquemila metri. Esuberante e spiccia nei modi,era cresciuta nella California settentrionale, dove il padre l'aveva iniziata da bambina alle gioie delcampeggio, delle escursioni a piedi e dello sci. Apprezzando la libertà e i piaceri della collina, avevacontinuato a dilettarsi di escursioni anche durante gli anni del college e oltre, benchè la frequenza delle suegite in montagna fosse diminuita notevolmente dopo il trasferimento a New York verso la metà degli anniSettanta, in seguito al fallimento del primo matrimonio.

A Manhattan, Sandy Pittman avevalavorato comebuyer per la casa Bonwit Teller, come esperta dimerchandising per Mademoiselle e come redattrice di bellezza in una rivista chiamataBride's , prima disposare Bob Pittman. Infaticabile nell'attirare su di sè l'attenzione del pubblico, Sandy si era fatta unnome e compariva regolarmente nelle rubriche mondane di New York, frequentando Blaine Trump, Tome Meredith Brokaw, Isaac Mizrahi e Martha Stewart. Per poter fare più comodamente i pendolari fra laloro opulenta residenza nel Connecticut e un appartamento in Central Park West carico di opere d'arte egestito da domestici in livrea, lei e il marito avevano acquistato un elicottero, che impararono a pilotare.Nel 1990 Sandy e Bob Pittman erano apparsi sulla copertina della rivistaNew York con il titolo «Lacoppia del momento».

Poco dopo Sandy aveva intrapreso la costosa e reclamizzata campagna per diventare la prima donnaamericana che avesse mai scalato le Sette Sorelle. Tuttavia l'ultima, e precisamente l'Everest, continuavaa sfuggirle, e nel marzo 1994 Sandy aveva perso la gara contro il tempo a favore di una quarantasettennealpinista e ostetrica dell'Alaska, Dolly Lefever. Ciononostante, aveva continuato la sua ostinata cacciaall'Everest.

Come osservò Beck Weathers una sera al campo base, «quando Sandy va a scalare una montagna, nonlo fa esattamente come voi e me». Nel 1993 Beck era stato nell’Antartide per un'ascensione guidata alMount Vinson nello stesso periodo in cui Pittman scalava la montagna con un altro gruppo guidato, ericordava con una risatina che lei «si trascinava dietro una gigantesca sacca piena di ghiottonerie dagourmet , che richiedeva quattro persone solo per sollevarla. Inoltre si era portata anche un televisoreportatile e un videoregistratore per poter guardare i film nella sua tenda. Voglio dire, bisogna ammettereche non sono in molti a scalare le montagne con questo stile». Beck riferiva inoltre che Sandy avevadiviso generosamente con gli altri partecipanti alla scalata tutto quel bendidio e che «era una personasimpatica e interessante da avere accanto».

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Per l'assalto all'Everest del 1996, Pittman aveva messo insieme ancora una volta un equipaggiamentoche non si vede di solito negli accampamenti degli scalatori. Il giorno precedente alla partenza per ilNepal, in uno dei primi messaggi Web per la Interactive Media della NBC, aveva annunciato entusiasta:

 

Tutta la mia roba è pronta. A quanto pare avrò tanto il computer e l’apparecchiatura elettronica quantol’attrezzatura per la scalata... Due computer portatili IBM, una videocamera, tre macchine fotograficheda 35mm, una macchina fotografica digitale Kodak, due registratori a nastro, un lettore di CD-ROM,una stampante, più pannelli solari e batterie sufficienti per alimentare il tutto (almeno spero) ...Non misognerei mai di lasciare la città senza una buona scorta di miscela Dean & DeLuca's Near East e .lamacchinetta per l’espresso. Dal momento che arriveremo sull’Everest verso Pasqua, mi sono portataquattro uova di cioccolato. Una caccia all'uovo di Pasqua a seimila metri di quota ? Vedremo !

 

Quella sera, il cronista mondano Billy Norwich aveva organizzato un ricevimento di addio per SandyPittman da Nell's, nel centro di Manhattan. La lista degli ospiti comprendeva Bianca Jagger e CalvinKlein. Amante dei travestimenti, Sandy si era presentata indossando sopra l'abito da sera la tuta daalpinista, con tanto di scarponi da montagna, ramponi, piccozza da ghiaccio e una bandoliera dimoschettoni.

Al suo arrivo sull'Himalaya, aveva dato l'impressione di voler mantenere il più possibile le abitudinidell'alta società. Durante la marcia fino al campo base, un giovane sherpa di nome Pemba era addetto adarrotolare ogni mattina il suo saccopiuma e prepararle lo zaino. Quando giunse ai piedi dell'Everestinsieme al resto del gruppo di Fischer, ai primi di aprile, il suo bagaglio comprendeva pile di ritagli digiornali che la riguardavano da distribuire agli altri residenti del campo base. Entro pochi giornicominciarono ad arrivare regolarmente dei corrieri sherpa che le recapitavano dei pacchetti spediti alcampo base tramite la DHL Worldwide Express; contenevano fra l’altro gli ultimi numeri diVogue ,Vanity Fair ,People ,Allure . Gli sherpa erano affascinati dalle fotografie pubblicitarie della biancheria econsideravano un bottino ambito le striscette imbevute di profumo inserite nelle riviste come campioni diprova.

La squadra di Scott Fischer era affiatata e compatta; quasi tutti i compagni di Sandy Pittman accettaronole sue manie e parvero accoglierla in seno al gruppo senza eccessive difficoltà. «Sandy poteva essere unacompagnia estenuante, perchè doveva stare sempre al centro dell'attenzione e non faceva che parlare disè», ricorda Jane Bromet. «Ma non era una persona negativa; non abbassava il morale del gruppo, anziera piena di energia e su di tono quasi tutti i giorni.»

Ciò nonostante, parecchi esperti alpinisti che non facevano parte del suo gruppo consideravano laPittman una dilettante esibizionista. Dopo il tentativo fallito di scalata della parete Kangshung nel 1994,uno spot pubblicitario della Vaseline Intensive Care (principale sponsor della spedizione) era statosonoramente deriso dagli esperti perchè presentava la Pittman come un'«alpinista di classe mondiale».Tuttavia lei non aveva mai rivendicato questo ruolo; anzi, in un articolo pubblicato suMen's Journalsottolineò che voleva che Breashears, Lowe, Swenson e Blanchard «capissero che non ho maiscambiato le mie capacità di dilettante avida di emozioni con la loro abilità di scalatori di livellointernazionale».

I suoi illustri compagni di scalata nel tentativo del 1994 non la criticarono mai, almeno non in pubblico.Dopo quella spedizione, anzi, Breashears divenne un suo grande amico e Swenson la difese spesso dai

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detrattori. «Vedi», mi aveva spiegato una volta Swenson durante un ricevimento a Seatt.le, poco dopo illoro ritorno dall'Everest, «forse Sandy non è una grande alpinista, ma sulla parete Kangshung hariconosciuto i suoi limiti. Sì, è vero che Alex, Barry e David e io abbiamo fatto tutto il lavoro dipreparazione e fissato tutte le corde, ma a modo suo anche lei ha contribuito al tentativo, mostrando unatteggiamento positivo, raccogliendo i fondi e trattando con i media.»

Comunque non le mancavano certo le critiche. Molti erano offesi dal suo ostentato sfoggio di denaro edall'impudenza con la quale cercava le luci della ribalta. Come riferiva Joanne Kaufman sulWall StreetJournal :

 

La signora Pittman è nota in alcuni circoli più come arrampicatrice sociale che come scalatrice dimontagne. Lei e il signor Pittman erano ospiti abituali in tutte le soiree mondane e le manifestazioni dibeneficenza, oltre che protagonisti fissi di tutte le rubriche mondane. «Più d'uno si è sentito tirare per lefalde della giacca dalle dita tenaci di Sandy Pittman», commenta un ex socio in affari del signor Pittmanche desidera mantenere l'anonimato. «A lei interessa la pubblicità. Se avesse dovuto restarenell'anonimato, non credo che si sarebbe dedicata a scalare montagne.»

 

Che sia giusto o. no, agli occhi dei suoi detrattori Sandy Pittman incarnava tutto ciò che vi era direprensibile nella volgarizzazione delle Sette Sorelle per opera di Dick Bass e nella successivadegradazione della montagna più alta del mondo. D'altronde lei, isolata dal suo denaro, da un foltogruppo di collaboratori pagati e da un'incrollabile fede in sè stessa, restava all'oscuro del risentimento edel disprezzo che ispirava agli altri, altrettanto ignara della Emma di Jane Austen.

Se racconttiamo delle storie a noi stessi è per poter vivere...Andiamo in cerca della predica in un suicidiodella lezione sociale o morale nell’omicidio di cinque persone. Interpretiamo ciò che vediamo optandoper la soluzione più funzionale fra le tante che si offrono alla nostra scelta. Soprattutto se siamo scrittori;tutta la nostra vita consiste nel sovrapporre una linea narrativa a immagini disparate nel dipanare le «idee»con le quali abbiamo imparato a cristallizzare la cangiante fantasmagoria della nostra esperienza.

JOAN DIDION

The White Album

 

        Alle quattro del mattino, quando la sveglia del mio orologio da polso cominciò a trillare, ero giàsveglio; avevo passato quasi tutta la notte in bianco, lottando per respirare in quell'aria più rarefatta. Eadesso era già l'ora di incominciare l'odiato rituale di emergere dal calore del bozzolo di piume d'oca peresporsi al freddo agghiacciante dei 6500 metri di altitudine. Due giorni prima, venerdì 26 aprile, avevamorisalito tutto il percorso dal campo base al Campo Due in un solo giorno per dare inizio alla terza e ultimaescursione di acclimatazione, preparandoci all'assalto finale alla vetta. Quella mattina, secondo il grandepiano di Rob, avremmo dovuto salire dal Campo Due al Campo Tre per trascorrere una notte a 7300metri.

        Rob ci aveva detto di tenerci pronti a partire alle quattro e tre quarti in punto, vale adire dopo trequarti d'ora, quindi la tabella oraria mi concedeva appena il tempo di vestirmi, mandare giù a forza unabarretta dolce con una tazza di tè emettere i ramponi. Mentre puntavo la lampada del casco su un

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termometro da quattro soldi fissato alla giacca a vento che avevo usato come cuscino, vidi che latemperatura all'interno dell'angusta tenda per due persone era scesa aventi gradi sotto zero. «Doug!»gridai alla massa informe sepolta nel saccopiuma accanto a me. «Ora di alzarsi, Slick. Sei sveglio, làdentro?»

        «Sveglio?» mi rispose con voce roca e stanca. «Che cosa ti fa pensare che sia riuscito a dormire?Ho l'impressione di avere qualcosa che non va alla gola. Amico, sto diventando troppo vecchio perquesta vita.»

        Durante la notte, le fetide esalazioni del nostro respiro si erano condensate sul tessuto della tenda,formando un fragile strato interno di brina; quando mi sedetti e cominciai a frugare attorno a me nel buio,in cerca dei vestiti, mi riuscì impossibile non sfiorare le basse pareti di nylon, e ogni volta scatenavo unatormenta all'interno della tenda, ricoprendo ogni cosa di una pioggia di cristalli di ghiaccio. Scosso daviolenti brividi, mi riparai con tre strati di soffice biancheria in pile chiusa dalle lampo, vi sovrapposi unguscio esterno di nylon antivento, poi infilai gli scarponi di plastica scricchiolante. L’atto di stringere i laccimi strappò una smorfia di dolore; nelle ultime due settimane le condizioni delle mie dita screpolate esanguinanti non avevano fatto che peggiorare nell'aria gelida.

        Fuori dal campo alla luce delle lampade, sulle orme di Rob e Frank, cominciai a procedere a zigzagfra torri di ghiaccio e cumuli di sassi per raggiungere il corpo principale del ghiacciaio. Nelle due oresuccessive salimmo lungo un pendio lievemente inclinato come un campetto da sci per principianti, primadi arrivare alla crepaccia terminale che delimitava l'estremità superiore del ghiacciaio del Khumbu. Subitos'innalzò sopra di noi la parete del Lhotse, un vasto mare inclinato di ghiaccio che scintillava come unmucchio di cromature sporche alla luce obliqua dell'alba. Da quella superficie gelata scendeva sinuosa,come se pendesse dal cielo, una sola corda da nove millimetri, che ammiccava invitante verso di noi,come il gambo di fagiolo della favola di Jack. Afferrandone l’estremità inferiore, assicurai la manigliajumar[26]alla corda leggermente logora e cominciai la salita.

        Fin da quando avevo lasciato il campo soffrivo un freddo fastidioso, perchè avevo indossatoindumenti più leggeri del solito in previsione dell'effetto forno che si verificava tutte le mattine quando ilsole investiva il Cwm occidentale. Invece quella mattina la temperatura rimase rigida per effetto di unvento tagliente che soffiava dall'alto della montagna, creando un gelo che scendeva forse addirittura aquaranta gradi sotto zero. Nello zaino avevo un altro maglione in pile, ma per indossarlo avrei dovutoprima togliermi i guanti, lo zaino e la giacca a vento, sempre restando sospeso alla corda fissa.Preoccupato al pensiero che mi cadesse qualcosa, decisi di aspettare finche non avessi raggiunto untratto di parete meno ripido, dove tenermi in equilibrio senza stare aggrappato alla corda. Così continuaia salire, e a sentire sempre più freddo.

        Il vento sollevava enormi onde turbinanti di neve farinosa che scorrevano giù per la montagna comefrangenti, incollando ai miei abiti uno strato di brina. Sugli occhiali si formò un guscio di ghiaccio che miappannava la vista. Cominciavo a perdere la sensibilità nei piedi e mi sentivo le dita delle mani legnose.Proseguire in quelle condizioni diventava sempre meno prudente. io ero in testa alla fila, a settemila metri,quindici minuti più avanti della guida Mike Groom, e decisi di aspettarlo per parlare con lui dellasituazione. Ma proprio un attimo prima che lui mi raggiungesse, la voce di Rob risuonò brusca alla radioche Mike portava dentro la giacca, e lui interruppe la salita per rispondere alla chiamata. «Rob vuole chescendiamo tutti!» annunciò, gridando per farsi sentire al di sopra del vento. «Via di qui!»

        Era mezzogiorno quando rientrammo al Campo Due e cominciammo a valutare i danni. io erostanco, ma per il resto stavo bene. John Taske, il medico australiano, aveva un lieve principio dicongelamento alla punta delle dita. Doug, invece, aveva riportato guai seri: togliendosi gli scarponi, scoprìdi avere un principio di congelamento a parecchie dita dei piedi. Nel 1995, durante il primo tentativo

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sull'Everest, si era congelato i piedi in modo tanto grave da perdere una parte di tessuto da un alluce,danneggiando la circolazione in modo permanente, e questo lo rendeva particolarmente sensibile alfreddo; ora quel congelamento supplementare lo rendeva ancor più vulnerabile alle condizioniatmosferiche rigide che regnavano nella parte superiore della montagna.

        Ancora più gravi, comunque, erano i danni al suo apparato respiratorio. Meno di due settimaneprima della partenza per il Nepal, Doug aveva dovuto sottoporsi a un piccolo intervento chirurgico allagola, che aveva lasciato la trachea estremamente sensibile. Quella. mattina, aspirando boccate di ariacaustica e satura di neve, si era evidentemente congelato la laringe. «Sono fottuto», gracchiò con unsussurro appena percettibile, apparentemente distrutto. «Non riesco neanche a parlare. Per me è finita.»

«Non darti ancora per vinto, Douglas», lo rincuorò Rob. «Aspetta di vedere come ti sentirai fra un paiodi giorni. Sei un bastardo con la pelle dura. Penso che tu abbia ancora una buona probabilità di arrivaresulla vetta, quando ti sarai rimesso.» Tutt'altro che convinto, Doug si ritirò nella tenda che dividevamo,avvolgendosi nel saccopiuma fin sopra la testa. Era dura vederlo così avvilito; per me era diventato unbuon amico, che dispensava generosamente la saggezza acquisita durante il fallito tentativo di scalata del1995. Al principio della spedizione mi aveva regalato un amuleto sacro buddhista benedetto dal lama delmonastero di Pangboche, che portavo orgogliosamente al collo in segno del legame che mi univa a lui.Desideravo che arrivasse in cima anche lui quasi con la stessa intensità con la quale volevo raggiungerlaio.

Per il resto della giornata aleggiò sul campo un’atmosfera di shock e di blanda depressione. Pur senzamostrarci il suo volto peggiore, la montagna ci aveva costretti a rintanarci con la coda fra le gambe. E nontoccò solo alla nostra squadra ritrovarsi mortificata e piena di dubbi: il morale sembrava basso inparecchie delle spedizioni al Campo Due.

Il malumore si manifestò in modo particolarmente evidente nel dissidio che scoppiò fra Hall e i capi dellespedizioni di Taiwan e del Sudafrica a proposito del compito di installare oltre un chilometro e mezzo dicorde per assicurare il percorso di salita sulla parete del Lhotse. Verso la fine di aprile era stata giàfissata una serie di corde fra l'estremità superiore del Cwm e il Campo Tre, a circa metà della parete. Percompletare il lavoro, Hall, Fischer, Ian Woodall, Makalu Gau e Todd Burleson (il capo americano dellaspedizione guidata dell'Alpine Ascents) si erano accordati sul fatto che il 26 aprile uno o due membri diogni squadra avrebbero unito le loro forze per installare le corde sul resto della parete che rappresentavail passaggio fra il Campo Tre e il Campo Quattro, a 7986 metri di altitudine. Ma non era andata secondole previsioni.

Quando Ang Dorje e Lhakpa Chhiri, della squadra di Hall, la guida Anatoli Boukreev, della squadra diFischer, e uno sherpa della squadra di Burleson erano partiti dal Campo Due, la mattina del 26 aprile, glisherpa che avrebbero dovuto unirsi a loro dalle squadre del Sudafrica e di Taiwan erano rimasti neisacchipiuma, rifiutandosi di collaborare. Quel pomeriggio Hall, appena lo aveva saputo al suo arrivo alCampo Due, aveva fatto delle chiamate radio per scoprire come mai il piano era andato a monte. KamiDorje Sherpa, ilsirdar della spedizione di Taiwan, si era profuso in scuse, promettendo di rimediare, maquando Hall aveva chiamato alla radio Woodall, l'incorreggibile organizzatore della spedizionesudafricana gli aveva risposto con un fuoco di fila di oscenità e insulti.

«Manteniamo la questione su un piano civile, amico», lo aveva rimbeccato Hall. «Credevo che avessimoconcluso un accordo.» Woodall aveva replicato che i suoi sherpa erano rimasti nelle tende solo perchènessuno era venuto a svegliarli per informarli che c'era bisogno del loro aiuto. Hall aveva ribattuto che inrealtà Ang Dorje aveva cercato più volte di scuoterli, ma loro avevano ignorato le sue insistenti richieste.

A quel punto Woodall aveva dichiarato: «O sei uno spudorato bugiardo, oppure lo è il tuo sherpa».

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Dopodichè aveva minacciato di mandare. un paio di sherpa della sua squadra a «sistemare» Ang Dorje asuon di pugni.

A due giorni di distanza da quello sgradevole scambio di battute, l'ostilità fra la nostra squadra e quellasudafricana non accennava a diminuire, e ad accentuare il malumore che regnava nel Campo Duecontribuivano le notizie frammentarie che ci giungevano sul peggioramento delle condizioni di NgawangTopche. Quando continuò a peggiorare anche a bassa quota, i medici ipotizzarono che il suo male nonfosse un semplice edema polmonare, ma piuttosto un caso di edema complicato dalla tubercolosi o daqualche affezione polmonare preesistente. Gli sherpa, invece, avevano una diagnosi diversa: eranoconvinti che uno degli scalatori della squadra di Fischer avesse mandato in collera l'Everest - o meglioSagarmatha, la dea del cielo –e che la divinità si fosse vendicata su Ngawang.

Lo scalatore in questione aveva intrecciato una relazione con una componente di una spedizione chetentava la scalata del Lhotse. Poichè la privacy non esisteva entro i ristretti confini del campo base, leeffusioni amorose che si svolgevano nella tenda della donna erano doverosamente registrate dagli altrimembri della squadra, specie gli sherpa, che durante quei convegni se ne stavano seduti fuori, puntando ildito e ammiccando. «[X] e [Y] fanno porcherie, fanno porcherie», commentavano fra un risolino e l'altro,e mimavano l'atto sessuale inserendo un dito nel pugno chiuso formato con l'altra mano.

Nonostante le risate (per non parlare delle loro abitudini notoriamente libertine), comunque, gli sherpadisapprovavano il sesso fra coppie non sposate sulle divine pendici del Sagarmatha. Ogni volta che iltempo volgeva al brutto, accadeva che l'uno o l'altro sherpa puntasse il dito verso le nuvole cheribollivano in alto, dichiarando con serietà: «Qualcuno ha fatto porcherie. Porta sfortuna. Ora verrà latempesta».

Sandy Pittman aveva riportato questa superstizione in una nota del suo, diario della spedizione nel 1994,immesso su Internet nel 1996:

 

24 aprile 1994

Campo base dell'Everest (metri 5350),

Parete Kangshung, Tibet

Questopomeriggio... è arrivato un

corriere postale che ha portato lettere da

casa per tutti più una rivista porno,

inviata per scherzo da qualcuno che .laggiù

in patria ha a cuore il benessere degli

scalatori. ...Metà degli sherpa se l'è

portata nella tenda per dedicarle

un'ispezione più attenta, mentre l'altra

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metà era inquieta al pensiero del disastro

che a suo parere quell'esame avrebbe

provocato. La dea Chomolungma, a sentir

loro, non tollera «jiggy-jiggy»

(qualsiasiatto impuro) sulla montagna che

le è sacra.

 

Il buddhismo praticato sulle alte pendici del Khumbu ha un sapore nettamente animistico; gli sherpavenerano un intricato miscuglio di divinità e spiriti che abiterebbero le gole, i fiumi e le vette della regione,e rendere il dovuto omaggio a questo insieme di divinità è, ritenuto di importanza fondamentale perassicurare un passaggio senza incidenti attraverso il terreno pieno di insidie.

Per placare Sagarmatha, quell'anno, come del resto tutti gli anni, gli sherpa avevano costruito oltre unadozzina di bellissimichorten di pietra, edificati con cura meticolosa, uno per ogni spedizione. L'altare delnostro campo, un cubo perfetto del lato di un metro e mezzo, era sormontato da un triumvirato di pietreappuntite scelte con cura, sopra le quali s'innalzava un palo di legno alto tre metri, coronato da unelegante ramoscello di ginepro. Inoltre cinque lunghe catene di bandiere di preghiera[27]multicoloris'irradiavano dal palo sopra le nostre tende per proteggere l'accampamento dal male. Ogni mattina primadell'alba ilsirdar del nostro campo base, uno sherpa benevolo e molto rispettato che aveva superato laquarantina e si chiamava Ang Tshering, bruciava bastoncini di incenso di ginepro e innalzava preghiere alchorten ; prima di dirigersi verso la seraccata, tanto gli occidentali quanto gli sherpa passavano accantoall'altare, lasciandolo sempre sulla destra e attraversando le nubi di fumo dolciastro per ricevere labenedizione di Ang Tshering.

A parte l'attenzione che si dedicava a certi riti, comunque, il buddhismo praticato dagli sherpa era unareligione così elastica e priva di dogmi da risultare riposante. Per restare nelle grazie di Sagarmatha, peresempio, nessuna squadra poteva affrontare per la prima volta la seraccata senza celebrare un'elaboratapuja , una cerimonia religiosa. Ma quando, nel giorno stabilito, il lama fragile e rinsecchito che dovevapresiedere allapuja non era riuscito a compiere il tragitto dal suo lontano villaggio, Ang Tshering avevadecretato che dopo tutto potevamo benissimo salire lo stesso sulla seraccata, perchè Sagarmatha capivache avevamo intenzione di celebrare comunque il rito al più presto.

A quanto pare, altrettanto lassista era l’atteggiamento che regnava sulle pendici dell'Everest riguardo allafornicazione. Per quanto a parole rispettassero il divieto, alcuni sherpa facevano un’eccezione per sè: nel1996 sbocciò persino un romanzetto fra uno sherpa e un’americana della spedizione IMAX. Sembravaquindi strano che gli sherpa attribuissero la colpa della malattia di Ngawang agli incontri extraconiugaliche si svolgevano in una delle tende della Mountain Madness. Ma quando feci notare questacontraddizione a Lopsang Jangbu Sherpa, il ventitreennesirdar scalatore di Fischer, lui insistette che ilvero problema non era che una delle clienti di Fischer avesse fatto «porcherie» al campo base, mapiuttosto che continuasse ad andare a letto con l'amante anche sulle pendici della montagna.

«Il monte Everest è Dio... per me, per tutti», dichiarò con solennità Lopsang dieci settimane dopo laspedizione. «Se marito e moglie vanno a letto assieme, è buono. Ma quando [X] e [Y] vanno a letto

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insieme, è sfortuna per la mia squadra... Così dico a Scott: 'Per favore, Scott, tu sei capo. Dì per favorea [X] di non dormire con ragazzo al Campo Due. Ti prego'. Ma Scott ride e basta. Il primo giorno che[X] e [Y] sono insieme in tenda, subito dopo Ngawang Toche si ammala al Campo Due. E ora è morto.»

Ngawang era lo zio di Lopsang; i due uomini erano stati molto uniti e Lopsang aveva fatto parte dellasquadra di soccorso che aveva trasportato Ngawang sulla seraccata la sera del 22 aprile. Poi, quandoNgawang aveva smesso di respirare a Pheriche ed era stato trasferito a Kathmandu, Lopsang si eraprecipitato a valle dal campo base (con la benedizione di Fischer), in tempo per accompagnare lo ziodurante il volo in elicottero. Il breve viaggio a Kathmandu e il rapido ritorno a piedi al campo base loavevano lasciato molto affaticato e relativamente male acclimatato, e questo non era di buon auspicio perla squadra di Fischer, che contava su di lui almeno quanto Hall contava sul suosirdar scalatore, AngDorje.

Nel 1996 erano presenti sul versante nepalese dell'Everest numerosi abilissimi scalatori dell 'Himalaya,veterani come Hall, Fischer, Breashears, Pete Schoening, Ang Dorje, Mike Groom e Robert Schauer, unaustriaco della squadra dell'IMAX. Eppure anche in quella compagnia selezionata spiccavano quattroastri fuori del comune, degli scalatori che avevano mostrato una tale straordinaria abilità al di sopra dei7900 metri da formare un gruppo a sè: Ed Viesturs, l'americano che interpretava da protagonista il filmdell'IMAX; Anatoli Boukreev, una guida del Kazakhistan che lavorava per Fischer; Ang Babu Sherpa,che era stato ingaggiato dalla spedizione sudafricana, e Lopsang.

Socievole e attraente, gentile fin quasi all'eccesso, Lopsang era straordinariamente spavaldo eincredibilmente ricco di fascino. Figlio unico, era cresciuto nella regione della Rolwaling e non fumava nèbeveva, fatto piuttosto insolito fra gli sherpa; sfoggiava un incisivo d'oro e aveva la risata facile. Bencheavesse l'ossatura minuta e non fosse alto di statura, la disinvoltura, l'attitudine a lavorare sodo e lestraordinarie doti atletiche gli erano valse la fama di Deion Sanders del Khumbu. Fischer mi disse che asuo parere Lopsang aveva il potenziale necessario per diventare «la reincamazione di ReinholdMessner», il celebre alpinista altoatesino che è di gran lunga il più grande scalatore himalayano di tutti itempi.

Lopsang aveva fatto il suo debutto nel 1993, all'età di vent'anni, quando era stato assunto comeportatore da una squadra congiunta indo-nepalese guidata da un'indiana, Bachendri Pal, e composta ingran parte da donne. Lopsang, essendo il più giovane della spedizione, era stato relegato all'inizio in unruolo secondario, ma la sua forza era così impressionante che all'ultimo momento era stato assegnato allasquadra destinata a scalare la vetta, e l'aveva raggiunta il 16 maggio senza l'ausilio dell'ossigeno.

Cinque mesi dopo la scalata dell'Everest, Lopsang aveva conquistato anche il Cho Oyu, insieme con unasquadra giapponese. Nella primavera dd 1994 aveva lavorato per Fischer nella SagarmathaEnvironmental Expedition, raggiungendo per la seconda volta la vetta dell'Everest, anche stavolta senzabombole di ossigeno. Nel settembre successivo stava tentando la scalata della Cresta Ovest dell'Everestcon una squadra norvegese, quando era stato travolto da una valanga; dopo un volo di sessanta metri giùdalla montagna, era riuscito chissà come ad arrestare la caduta con la piccozza, salvando così la vita a sèstesso e a due compagni di cordata, mentre uno zio che non era legato agli altri, Mingma Norbu Sherpa,era rimasto ucciso. Quella perdita aveva molto scosso Lopsang, ma non aveva assolutamente attenuatola sua passione per l'alpinismo.

Nel maggio 1995 aveva scalato l'Everest senza ossigeno per la terza volta, in quel caso comecomponente della spedizione di Hall, e tre mesi dopo aveva conquistato la vetta del Broad Peak (8047metri), nel Pakistan, mentre lavorava per Fischer. Quando Lopsang salì sull'Everest con Fischer nel1996, arrampicava solo da tre anni, ma in quel periodo aveva partecipato a non meno di dieci spedizionisull'Himalaya e si era conquistato la fama di alpinista di altissimo livello.

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Scalando insieme l'Everest ne11994, Fischer e Lopsang avevano sviluppato un'immensa ammirazionereciproca. Entrambi erano dotati di un’energia illimitata, di un fascino irresistibile e di una vocazione a farstruggere di desiderio le donne. Considerando Fischer il suo mentore e il suo modello, Lopsang avevapersino cominciato a portare i capelli legati a coda di cavallo, come lui. «Scott è molto forte, io sonomolto forte», mi spiegò con la sua tipica mancanza di modestia. «Formiamo buona squadra. Scott non mipaga bene come Rob o i giapponesi, ma io non ho bisogno di soldi; io guardo al futuro, e Scott è il miofuturo. Lui mi dice: 'Lopsang, mio forte sherpa! Ti farò diventare famoso!'... Io penso che Scott ha moltiprogetti per me con Mountain Madness.»

Il pubblico americano non aveva una innata simpatia per l'alpinismo, a differenza delle nazioni alpinedell'Europa o della Gran Bretagna, dove esso era nato. In quei paesi esiste una maggiore disponibilità acomprendere e, sebbene l'uomo della strada nel complesso ritenga che le imprese alpinistiche siano unincosciente rischio della vita, riconosce tuttavia che debbano essere compiute. In America non esisteniente di simile .

WALT UNSWORTH

Everest

 

        A un giorno di distanza dal primo tentativo di raggiungere il Campo Tre, frustrato dal vento e dalfreddo glaciale, tutti i membri della squadra di Hall eccetto Doug (che rimase al Campo Due perconsentire alla laringe di cicatrizzarsi) compirono un altro tentativo. A trecento metri di altezza dalla basedell'immensa lastra inclinata della parete del Lhotse, incominciai l'ascesa lungo una sbiadita corda di nylonche sembrava proseguire all'infinito; ma più salivo, più i miei movimenti diventavano torpidi. Con la manoguantata facevo scivolare verso l'alto la maniglia jumar sulla corda fissa, restavo sospeso al congegno pertirare due lunghi respiri faticosi, che mi bruciavano i polmoni; poi spostavo in alto il piede sinistroconficcando il rampone nel ghiaccio e aspiravo disperatamente altre due boccate d'aria; piantavo il piededestro vicino al sinistro, inspiravo ed espiravo dal fondo del torace, inspiravo ed espiravo di nuovo espostavo ancora più su la maniglia jumar. Erano almeno tre ore che davo fondo a tutte le mie energie eprevedevo che sarebbe passata ancora un’ora prima di potermi prendere una pausa di riposo. Salivo inquel modo estenuante per raggiungere un crocchio di tende appollaiate chissà dove su quella pareteliscia, più in alto, ma i miei progressi si potevano valutare in termini di centimetri.

Chi non pratica l'alpinismo, e cioè la stragrande maggioranza dell'umanità, tende a ritenere che questosport sia una ricerca sfrenata e dionisiaca di emozioni sempre più intense. Ma l'idea che gli scalatori sianosemplici drogati di adrenalina a caccia di uno sballo ipocrita è del tutto falsa, almeno nel casodell'Everest. Quello che facevo lassù non aveva quasi niente in comune con il salto con l'elastico o i lanciliberi col paracadute o le corse in motocicletta a duecento chilometri l'ora.

Una volta lasciate alle nostre spalle le comodità del campo base, la spedizione divenne in effettiun'impresa quasi calvinista. Il rapporto fra sofferenza e piacere era superiore in ordine di grandezza aquello di qualsiasi altra montagna che avessi mai scalato; arrivai ben presto a capire che scalare l'Everestera innanzi tutto una questione di resistenza al dolore. E mentre ci assoggettavamo una settimana dopol'altra a fatiche, tedio e sofferenza, mi colpì l'idea che probabilmente la maggior parte di noi inseguivasoprattutto qualcosa di simile a uno stato di grazia.

Certo, per alcuni scalatori dell'Everest entravano in gioco una miriade di altri motivi meno virtuosi: lacelebrità, l'avanzamento nella carriera, la titillazione del proprio ego, la solita vanagloria, lo sporco

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profitto; d'altra parte questi ignobili incentivi erano un fattore meno importante di quanto molti criticipotessero presumere. In realtà quello che ho osservato col passare delle settimane mi costrinse arivedere in modo sostanziale i preconcetti che nutrivo su alcuni dei miei compagni di squadra.

Prendiamo per esempio Beck Weathers, che in quel momento sembrava un minuscolo puntolino rossosul ghiaccio, centocinquanta metri più in basso, verso la fine di una lunga coda di scalatori. La miaimpressione iniziale su Beck non era stata favorevole: quel patologo cordialone di Dallas, dotato dicapacità alpinisti che men che mediocri, a prima vista faceva l'impressione di un ricco parolaiorepubblicano deciso ad acquisire la cima dell'Everest per il suo carnet di trofei. Invece, più lo conoscevoe più si guadagnava il mio rispetto. Anche se gli scarponi nuovi gli avevano ridotto i piedi come duehamburger al sangue, Beck tirava avanti, un giorno dopo l'altro, senza quasi accennare a quello chedoveva essere un dolore terribile. Era tenace, motivato, stoico. E quella che all'inizio avevo scambiatoper arroganza si rivelava sempre più come pura e semplice esuberanza. Beck non sembrava nutriremalanimo per nessuno al mondo (fatta eccezione per Hillary Clinton), mentre la sua allegria e il suosconfinato ottimismo erano così accattivanti che, mio malgrado, cominciai a provare una forte simpatiaper lui.

Figlio di un militare di carriera dell'aeronautica, Beck aveva trascorso l'infanzia trasferendosi da una basemilitare all'altra prima di approdare a Wichita Falls, dove aveva frequentato il college. Dopo la laurea inmedicina si era sposato, aveva avuto due figli e aveva aperto senza problemi, a Dallas, uno studio medicoche rendeva molto bene. Poi, nel. 1986, alle soglie dei quarant'anni, aveva trascorso una vacanza nelColorado e, dopo aver sentito il richiamo della sirena delle alte quote, si era iscritto a un corsoelementare di alpinismo nel Rocky Mountain National Park.

Non è raro che i medici siano iperattivi cronici, e Beck non era il primo che si lasciasse prendere lamano da un nuovo hobby; ma l'alpinismo non era come il golf o il tennis o i vari altri passatempi cheappassionavano i suoi colleghi. Le esigenze della montagna - le prove fisiche ed emotive da superare, irischi estremamente concreti - ne facevano qualcosa di più di un gioco. Arrampicare somigliava alla vita,solo che era più ricco di luci e ombre, e finora nulla aveva affascinato Beck a tal punto. La moglie,Peach, era sempre più preoccupata dalla sua passione per l'alpinismo e dal modo in cui questa privava lafamiglia della sua presenza. Era tutt'altro che soddisfatta, dunque, quando Beck, poco tempo dopo averiniziato a praticare questo sport, aveva annunciato la sua decisione di tentare la scalata delle SetteSorelle.

Per quanto egoistica e megalomane possa essere stata l'ossessione di Beck, non era frivola, ecominciavo a riconoscere la stessa serietà d'intenti in Lou Kasischke, l'avvocato di Bloomfield Hills; inYasuko Namba, la taciturna giapponese che ogni mattina mangiava tagliolini per colazione; e in JohnTaske, il cinquantaseienne anestesista di Brisbane che si era dedicato all'alpinismo dopo il congedodall'esercito.

«Quando ho lasciato l'esercito, mi sono sentito come sbandato», si lamentava Taske, parlando con unmarcato accento australiano. Era rimasto a lungo nell'esercito, fino a raggiungere il grado di colonnellodello Special Air Service, l'equivalente australiano dei Berretti verdi. Dopo aver prestato servizio per dueturni nel Vietnam all'apice del conflitto, si era ritrovato penosamente impreparato alla piattezza della vitain borghese. «Ho scoperto che non riuscivo proprio a parlare con i civili», mi spiegò. «il mio matrimonio èandato a rotoli. Non riuscivo a vedere altro che questo lungo tunnel buio che si chiudeva davanti a mecon la malattia, la vecchiaia e la morte. Poi ho cominciato a praticare l'alpinismo, e lo sport mi ha fornitogran parte di quello che mi mancava nella vita civile: la sfida, il cameratismo, il senso della missione dacompiere.»

Man mano che la mia simpatia per Taske, Weathers e alcuni altri compagni aumentava, mi sentivo

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sempre più a disagio nel ruolo di giornalista. Non provavo alcuno scrupolo di coscienza quando sitrattava di scrivere con franchezza di Hall, Fischer o Sandy Pittman, ciascuno dei quali cercava da anni diattirare l'attenzione dei media, e in modo aggressivo; ma per gli altri clienti il discorso era diverso.Quando avevano firmato il contratto con la spedizione di Hall, nessuno di loro sapeva che ci sarebbestato anche un giornalista, intento a scrivere di continuo, a registrare in silenzio le loro parole e i loro gestiper dare in pasto le loro debolezze a un pubblico potenzialmente poco incline alla comprensione.

Dopo la conclusione della spedizione, Weathers fu intervistato per il programma televisivo Turning Point.In un segmento dell'intervista che non fu incluso nella versione montata per la trasmissione, ilcommentatore della NBC Forrest Sawyer gli domandò: «Che ne pensa della presenza di un giornalistanella spedizione?» E Beck rispose:

 

Ha contribuito allo stress in misura notevole. Ero sempre un po’preoccupato all'idea... capisce, questotale al ritorno dovrà scrivere un articolo che sarà letto da un paio di milioni di persone. E poi, voglio dire,è già abbastanza sgradevole andare lassù e rendersi ridicolo se si tratta solo di te e del gruppo dicompagni di scalata. Che qualcuno possa descriverti sulle pagine di una rivista come un buffone e unpagliaccio non può non incidere sul livello delle tue prestazioni, sull'intensità del tuo sforzo, e io eropreoccupato al pensiero che ciò potesse spronare gli altri a oltrepassare i loro limiti. E questo potevavalere anche per le guide; insomma, vogliono portare i clienti sulla vetta della montagna perchè, a lorovolta, saranno oggetto di un articolo e saranno giudicati.

 

Poco dopo, Sawyer domandò: «Ha avuto l'impressione che la presenza di un giornalista al seguito abbiasottoposto Rob Hall a una pressione eccessiva, superiore alla media?» Beck rispose:

 

 

Non posso pensare altrimenti. È il suo mestiere e la cosa peggiore che possa capitare a una guida è cheuno dei suoi clienti resti ferito. [...] Senza dubbio un paio d'anni fa aveva avuto una grande stagione,aveva portato tutti sulla vetta, ed era stata un'impresa straordinaria. E credo proprio che ritenesse ilnostro gruppo abbastanza forte da poter ripetere l'exploit. Penso che esista una certa motivazione a far sìche, quando finisci di nuovo sui giornali, tutto sia riportato in modo favorevole.

 

La mattina era ormai avanzata quando infine mi trascinai nel Campo Tre, un terzetto di piccole tendegialle, a metà della vertiginosa distesa della parete del Lhotse, addossate l'una all'altra su una piattaformache era stata ritagliata dagli sherpa nel pendio glaciale. Quando arrivai, Lhakpa Chhiri e Arita eranoancora al lavoro, intenti a ricavare una piattaforma per una quarta tenda, così mi tolsi di spalla lo zainoper aiutarli a scavare. A quella quota, 7300 metri, mi bastava vibrare sette od otto colpi di piccozza peressere costretto a fermarmi un minuto intero a riprendere fiato. Inutile dire che il mio contributo futrascurabile; occorse quasi un'ora per completare il lavoro.

Il nostro minuscolo accampamento, una trentina di metri al di sopra delle tende delle altre spedizioni,sembrava un posatoio arroccato in una posizione spettacolare. Per settimane avevamo sgobbato in unaspecie di canyon; ora, per la prima volta dall'inizio della spedizione, il nostro orizzonte abbracciava più

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cielo che terra. Branchi di paffute nubi cumuliformi correvano al sole, stampando sul paesaggio undisegno mutevole di ombre e luci accecanti. In attesa dell'arrivo dei miei compagni, mi sedetti con i piedipenzoloni nell'abisso, fissando le nuvole, guardando dall'alto le vette dei seimila che un mese primasvettavano sopra di noi. Finalmente avevo davvero l'impressione di avvicinarmi al tetto del mondo.

La vetta, comunque, distava ancora milleseicento metri in verticale, avvolta in un alone di condensacreato dal vento. Ma mentre la parte superiore della montagna era sferzata da venti che soffiavano a oltrecentosessanta chilometri l'ora, l'aria al Campo Tre si muoveva appena, e con il progredire del pomeriggiocominciai a sentirmi sempre più stordito dall'intensità delle radiazioni solari; o almeno speravo che fosse ilcaldo a farmi sentire inebetito, e non l'inizio di un edema cerebrale.

L'edema cerebrale dovuto all'altitudine è meno frequente dell'edema polmonare, ma tende a essere piùgrave. È un disturbo sconcertante, che si verifica quando i vasi sanguigni del cervello, a causa dellacarenza di ossigeno, trasudano siero ematico, provocando così un notevole rigonfiamento del cervellostesso, e può colpire con un preavviso minimo, o anche senza il minimo segnale di avvertimento. Manmano che la pressione all'interno del cranio aumenta, le capacità motorie e mentali si deteriorano conallarmante rapidità - nei casi tipici in poche ore, o anche meno - e spesso senza che la vittima si rendaconto del cambiamento. Il passos:uccessivo è il coma e poi, a meno che la persona colpita non siarapidamente trasportata a quote inferiori, la morte.

Quel pomeriggio si dava il caso che pensassi all'edema cerebrale, perchè appena due giorni prima uncliente di Fischer che si chiamava Dale Kruse, un dentista quarantaquattrenne del Colorado, era dovutoridiscendere dal Campo Tre proprio a causa di una forma grave di edema cerebrale. Amico da tempo diFischer, Kruse era un alpinista forte e molto esperto. Il 26 aprile era salito dal Campo Due al CampoTre, aveva preparato del tè per sè e per i suoi compagni e poi si era steso nella tenda per fare unsonnellino. «Mi addormentai subito», ricorda ora Kruse, «e finii per dormire quasi ventiquattr'ore, finoalle due del pomeriggio del giorno seguente. Quando infine qualcuno mi svegliò, per gli altri fu subitoevidente che la mia mente non funzionava, anche se io non me ne rendevo conto. Scott mi disse:'Dobbiamo portarti subito giù'.»

Kruse incontrò difficoltà incredibili persino nel tentativo di vestirsi. Si mise l'imbracatura a rovescio,facendola passare attraverso la patta della tuta termica, e non si ricordò di chiudere la fibbia; per fortunaFischer e Neal Beidleman si accorsero del pasticcio prima che Kruse cominciasse la discesa. «Se avessetentato di calarsi a corda doppia in quel modo», osserva Beidleman, «sarebbe schizzato subito fuoridall'imbracatura, precipitando ai piedi .della. parete del Lhotse.».

«Era come se fossi ubriaco», rievoca Kruse. «Non riuscivo a camminare senza incespicare e avevoperso del tutto la capacità di pensare o di parlare. Era una sensazione davvero strana. Avevo una parolain mente, ma non sapevo come farla arrivare alle labbra. Così Scott e Neal dovettero vestirmi econtrollare che l'imbracatura fosse sistemata correttamente, poi Scott mi calò in basso lungo le cordefisse. Una volta raggiunto il campo base», aggiunge, «ci vollero ancora tre o quattro giorni prima cheriuscissi a camminare dalla mia tenda alla mensa senza inciampare di continuo.»

 

Quando il sole al tramonto calò dietro il Pumori, la temperatura al Campo Tre scese di colpo di oltredieci gradi, e con il freddo mi si schiarì la mente; l'ansia che provavo riguardo all'edema cerebrale si rivelòinfondata, almeno per il momento. La mattina dopo, trascorsa una notte tormentosa e insonne a 7300metri di altitudine, scendemmo al Campo Due e un giorno dopo, il 1° maggio, proseguimmo verso ilcampo base per rimetterci in forze prima dell'assalto finale alla vetta.

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La nostra acclimatazione era ormai ufficialmente completata, e con mia piacevole sorpresa la strategia diHall pareva funzionare. Dopo tre settimane sull'Everest, trovavo l'aria del campo base densa, ricca evoluttuosamente satura di ossigeno, in confronto all'atmosfera brutalmente rarefatta degli accampamenti inalto.

Non tutto andava bene, comunque, nel mio organismo. Avevo perso circa nove chili di massamuscolare, per lo più sulle spalle, sul dorso e sulle gambe; inoltre avevo consumato in pratica tutto ilgrasso sottocutaneo, e questo mi rendeva enormemente più sensibile al freddo. Il problema peggiore,però, era il torace: la tosse secca che avevo contratto alcune settimane prima a Lobuje era diventata cosìgrave che mi ero lesionato alcune cartilagini, durante un accesso di tosse particolarmente violento alCampo Tre. La tosse era continuata imperterrita e ogni attacco mi procurava la sensazione di un calciosecco fra le costole.

Quasi tutti gli altri alpinisti al campo base erano altrettanto malconci: era uno dei tanti aspetti ordinaridella vita sull'Everest. Entro cinque giorni quelli di noi che facevano parte della squadra di Hall e diFischer avrebbero lasciato il campo base per raggiungere la vetta. Sperando di arrestare il mio declinofisico, decisi di riposare, mandare giù pastiglie di ibuprofene, un antidolorifico, e ingerire il maggiornumero possibile di calorie nel tempo che ci restava.

Fin dall'inizio Hall aveva progettato che avremmo raggiunto la vetta il 10 maggio. «Delle quattro volteche ho scalato l'Everest», ci aveva spiegato, «due volte hanno coinciso con il 10 maggio. Per usare leparole degli sherpa, il dieci è un giorno 'fausto'.» Ma c'era un motivo più prosaico per scegliere quelladata: l'annuale avvicendarsi del monsone aumentava le probabilità che le condizioni atmosferiche piùfavorevoli dell'anno coincidessero all'incirca con il 10 maggio.

Per tutto il mese di aprile la corrente a getto era rimasta puntata sull'Everest come un idrante antincendio,investendo la piramide della vetta con venti della violenza di un uragano. Persino nei giorni in cui il campobase era perfettamente calmo e inondato di sole, dalla cima della montagna garriva un immensostendardo di neve sospinta dal vento; ma ai primi di maggio si sperava che l'avvicinarsi del monsone dalgolfo del Bengala deviasse i venti a nord, verso il Tibet. Se quell'anno era come tutti gli altri, fra il calaredel vento e l'arrivo delle tempeste monsoniche ci sarebbe stato un breve lasso di tempo limpido e calmo,durante il quale sarebbe stato possibile dare l'assalto alla vetta.

Purtroppo l'andamento annuale delle condizioni meteorologiche non era un segreto e tutte le spedizioniavevano appuntato le loro mire sulla stessa finestra di sereno. Nella speranza di evitare pericolosi ingorghisul crinale della vetta, Hall tenne un grande consiglio di guerra con i capi delle altre spedizioni presenti alcampo base. Fu deciso che Goran Kropp, un giovane svedese che era arrivato in bicicletta nel Nepal daStoccolma, sarebbe stato il primo a tentare la scalata, in solitaria, il 3 maggio. Poi sarebbe stata la voltadi una squadra del Montenegro e ancora più tardi, l'8 o il 9 maggio, sarebbe toccato alla spedizionedell'IMAX.

La squadra di Hall, fu stabilito, avrebbe condiviso la data del 10 maggio con la spedizione di Fischer. Loscalatore solitario norvegese, Petter Neby, se n'era già andato dopo avere rischiato la morte a causa diuna roccia precipitata nella parte inferiore della parete sudovest; una mattina si era allontanato in silenziodal campo base per tornarsene in Scandinavia. Il gruppo guidato dagli americani Todd Burleson e PeteAthans, così come la squadra commerciale di Mal Duff e un'altra spedizione commerciale inglese,promisero di restare alla larga dalla vetta il giorno 10, imitati dai taiwanesi. Ian Woodall, viceversa,dichiarò che i sudafricani sarebbero saliti sulla vetta quando gli pareva e piaceva, magari proprio il 10maggio, e se a qualcuno non stava bene poteva anche andare all'inferno.

Hall, di solito estremamente calmo, andò su tutte le furie quando seppe del rifiuto di Woodall a

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collaborare. «Non voglio neanche avvicinarmi alla vetta se ci sono lassù quegli scalzacani», dichiaròincollerito.

Fino a che punto il fascino dell’alpinismo consiste nella semplificazione che opera sui rapporti personali,nella riduzione dell’amicizia a una semplice interazione, come la guerra, nella sostituzione di un Altro da sè(la montagna, la sfida) al rapporto in sè stesso? Dietro la mistica dell'avventura, della vita rude, delvagabondaggio senza impegno - tutti antidoti più che necessari alla nostra cultura costruita sulla comoditàe sulla convenienza - potrebbe nascondersi una sorta di rifiuto adolescenziale a prendere sul serio lavecchiaia, la fragilità altrui; la responsabilità interpersonale, ogni sorta di debolezza, il lento e monotonoscorrere dell'esistenza...

 I grandi scalatori ...possono essere soggetti a una profonda commozione, anzi, a un sentimentalismosdolcinato; ma solo nei confronti di ex compagni di valore, esaltati come martiri. In realtà dagli scritti diBuhl, John Harlin, Bonatti, Bonington e Haston emerge una certa freddezza, sorprendentemente simile neltono: la freddezza della competenza. Forse è proprio su questo che s'impernia l'alpinismo estremo:raggiungere un punto in cui, per usare le parole di Haston, «se qualcosa va storto, sarà un duello mortale;se l’allenamento è stato sufficiente, la sopravvivenza è possibile; altrimenti sarà la natura a esigere il suocredito».

DAVID ROBERTS

Patey Agonistes

(Moments of Doubt)

 

        Lasciammo il campo base alle quattro e mezza di mattina del 6 maggio per dare inizio alla fasefinale della scalata. La vetta dell'Everest, tremilacinquecento metri più in alto, sembrava così.incommensurabilmente distante che tentai di limitare i miei pensieri al Campo Due, la meta di quel giorno.Quando il primo raggio di sole investì il ghiacciaio ero già a 6100 metri di altezza, al centro del Cwmoccidentale, grato al pensiero di essermi lasciato alle spalle la seraccata, che avrei dovuto superareancora una sola volta, nella discesa finale.

        Ogni volta che avevo attraversato il Cwm ero stato tormentato dal caldo, e anche quel giorno nonfece eccezione. Salendo in testa al gruppo insieme a Andy Harris, non facevo che ficcarmi neve sotto ilberretto e muovermi alla velocità massima che mi era consentita dalle gambe e dai polmoni, sperando diarrivare all'ombra delle tende prima di soccombere alle radiazioni solari. Man mano che la mattinata sitrascinava e il sole picchiava sul ghiacciaio, cominciai a sentirmi la testa pesante; mi si gonfiò la lingua alpunto che mi riusciva difficile respirare dalla bocca e notai che era sempre più arduo riflettere conlucidità.

        Andy e io ci trascinammo nel Campo Due alle dieci e mezza del mattino. Solo dopo avertracannato due litri di Gatorade, cominciai a ritrovare l'equilibrio. «È bello puntare finalmente verso lavetta, non è vero?» esclamò Andy. Era stato afflitto da vari disturbi intestinali per quasi tutta la duratadella spedizione e solo allora cominciava a riacquistare le forze. Insegnante di talento, dotato di unastraordinaria pazienza, di solito veniva incaricato di vegliare sui clienti che restavano in coda al gruppoperchè procedevano lentamente, per cui si era sentito tutto eccitato quando Rob gli aveva concessoquella mattinata di libertà per procedere in testa. Essendo la guida più giovane della squadra di Hall, e lasola che non fosse mai stata sull'Everest, Andy era ansioso di dare buona prova di se di fronte ai colleghipiù esperti. «Penso proprio che lo stenderemo, questo grosso bastardo», mi confidò con un gran sorriso,

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guardando in alto verso la cima.

        Quel giorno stesso, qualche ora dopo, passò dal Campo Due il norvegese Goran Kropp, ilventinovenne scalatore solitario, che tornava al campo base con l'aria distrutta dalla fatica. Era partito daStoccolma il 16 ottobre 1995 su una bicicletta su misura carica di centootto chili di attrezzatura, conl'intenzione di viaggiare dalla Svezia, sul livello del mare, fino alla cima dell'Everest facendo ricorso soloalle sue forze, senza l'aiuto nè di sherpa nè di bombole di ossigeno. Era un obiettivo straordinariamenteambizioso, ma Kropp aveva le credenziali giuste per farcela: aveva già partecipato a sei spedizionisull'Himalaya e aveva compiuto scalate solitarie del Broad Peak, del Cho Oyu e del K2.

        Durante il viaggio in bicicletta fino a Kathmandu, lungo 13.000 chilometri., era stato rapinato dastudenti rumeni e assalito dalla folla nel Pakistan; in Iran, un motociclista adirato gli aveva spaccato unamazza da baseball sulla testa, fortunatamente protetta da un casco. Ciò nonostante, ai primi di aprile eraarrivato incolume ai piedi dell'Himalaya, seguito da una troupe cinematografica, e subito avevacominciato l'acclimatazione sulle pendici inferiori della montagna. Infine, mercoledì 1° maggio era partitodal campo base per conquistare la vetta.

        Il giovedì pomeriggio si era accampato a 7900 metri di quota, sul Colle Sud, e il giorno dopo erapartito per la vetta poco dopo mezzanotte. Tutti al campo base erano rimasti incollati alla radio perl'intera giornata, in ansiosa attesa di ricevere notizie sui suoi progressi. Helen Wilton aveva appeso nellatenda-mensa un cartello che diceva: «Forza, Goran, vai!»

        Per la prima volta da mesi non soffiava quasi un alito di vento sulla vetta, ma la neve nel tratto finaleera alta fino alla coscia e rendeva l'avanzata penosamente lenta e faticosa. Comunque Kropp avevaproseguito imperterrito verso la cima, creandosi un varco nella neve accumulata dal vento, e alle due delpomeriggio di giovedì era arrivato a 8750 metri, proprio sotto la Cima Sud. E a quel punto, anche se lacima distava ormai non più di un'ora, aveva deciso di tornare indietro, convinto che se avesse continuatoa salire sarebbe stato troppo stanco per ridiscendere incolume;

        «Tornare indietro quando era così vicino alla vetta...», osservò Hall scuotendo la testa il 6 maggio,mentre Kropp superava il Campo Due diretto verso la base della montagna. «Questo giovane Goran sìche ha dimostrato un'incredibile capacità di giudizio. Sono colpito... molto più colpito, in effetti, che seavesse continuato la scalata fino alla cima.» Nel corso dei mesi precedenti, Rob ci aveva fatto molteprediche sull'importanza di calcolare in anticipo il limite di tempo utile per il ritorno - nel nostro casosarebbe stato probabilmente l'una del pomeriggio, o al massimo le due - e di rispettarlo, per quantofossimo vicini alla vetta. «Qualunque idiota può salire in cima a questa collina, se è abbastanza deciso afarlo», osservò Hall. «Il punto è tornare indietro vivi.»

        La disinvoltura di Hall mascherava un intenso desiderio di successo, che lui definiva, in terminiabbastanza semplici, il condurre alla vetta il maggior numero possibile di clienti. Per assicurarselo,prestava una meticolosa attenzione ai dettagli: la salute degli sherpa, l'efficienza del sistema elettricoalimentato a batterie solari, l'affilatura dei ramponi dei clienti. Hall amava fare la guida e lo addoloravache alcuni celebri scalatori (compreso sir Edmund Hillary) non riconoscessero le difficoltà della suaprofessione, o non le concedessero il rispetto che a suo parere meritava.

 

        Rob decretò una giornata di riposo per il martedì 7 maggio, così ci alzammo tardi e restammo inozio nei pressi del Campo Due, carichi di tensione nervosa per l'imminente assalto alla vetta. Io migingillai con i ramponi e il resto dell'attrezzatura, poi tentai di leggere un romanzo di Carl Hiaasen inedizione tascabile, ma ero tanto concentrato sulla scalata, che seguitavo a leggere sempre le stesse frasi

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senza riuscire a cogliere il significato delle parole.

        Alla fine piantai il libro, scattai qualche foto a Doug, in posa con una bandierina che gli scolari diKent gli avevano chiesto di portare con sè sulla vetta, e cercai di estorcergli informazioni dettagliate sulledifficoltà della piramide finale, che ricordava bene dall'anno precedente. «Quando arriveremo in cima»,replicò accigliandosi, «ti garantisco che sarai l'ombra di te stesso.» Doug era fermamente deciso apartecipare all'assalto finale alla vetta, anche se la gola lo infastidiva ancora e le sue forze sembravanoridotte al minimo. Come mi fece notare: «Ho investito troppo di me stesso su questa montagna permollare proprio adesso, senza dare tutto quello che ho».

        Quello stesso pomeriggio, Fischer attraversò il nostro campo con le mascelle serrate, si diresseverso le sue tende con un'andatura stranamente lenta. Di solito riusciva a conservare sempre unatteggiamento entusiastico; una delle sue frasi preferite era: «Se ti lasci andare, non arriverai mai in cima,quindi finchè siamo qui tanto vale godersela». In quel momento, però, Scott non sembrava affattogodersela, anzi appariva ansioso ed estremamente stanco.

        Poichè aveva incoraggiato i suoi clienti a muoversi su e giù per la montagna in modo indipendentedurante il periodo di acclimatazione, aveva finito per avere un gran numero di escursioni improvvisate enon programmate fra il campo base e gli accampamenti più in alto, in occasione delle quali parecchiclienti avevano avuto dei problemi e avevano dovuto essere accompagnati a valle. Aveva già compiutodei viaggi speciali per andare in soccorso di Tim Madsen, Pete Schoening e Dale Kruse e ora, in quelloche avrebbe dovuto essere un giorno e mezzo di riposo estremamente necessario, era stato costretto aun frettoloso tragitto di andata e ritorno dal Campo Due al campo base e viceversa per assistere il suoamico Kruse, che era sceso accusando in apparenza i sintomi di una ricaduta dell'edema cerebrale.

Fischer era arrivato al Campo Due verso le dodici del giorno precedente, poco dopo Andy e me,precedendo i suoi clienti in arrivo dal campo base; prima della partenza, aveva dato istruzioni alla guidaAnatoli Boukreev di restare alla retroguardia, vicino al gruppo, per tenere d'occhio tutti. InveceBoukreev aveva ignorato le istruzioni: anzichè accompagnare la squadra, aveva dormito fino a tardi, siera fatto una doccia ed era partito dal campo base circa cinque ore dopo l'ultimo dei clienti. Così,quando Kruse era crollato a 6100 metri, assalito da un mal di testa lancinante, Boukreev non si trovavanelle vicinanze, e questo aveva costretto Fischer e Beidleman a precipitarsi giù dal Campo Due perfronteggiare l'emergenza, non appena era giunta la notizia delle condizioni di Kruse, riferita dagli scalatoriche risalivano il Cwm.

Poco dopo che Fischer aveva raggiunto Kruse e cominciato la difficile discesa verso il campo base, idue avevano incontrato Boukreev in cima alla seraccata, mentre saliva da solo, e Fischer avevaredarguito aspramente la guida per essersi sottratto alle sue responsabilità. «Sì», rammenta Kruse, «Scottfece un'autentica sfuriata a Toli. Voleva sapere come mai era così indietro rispetto a tutti gli altri... comemai non saliva insieme alla squadra.»

Secondo Kruse e altri clienti di Fischer, la tensione fra lui e Boukreev si era andata accumulando findall'inizio della spedizione. Fischer pagava a Boukreev venticinquemila dollari, un compenso insolitamentegeneroso per fare la guida sull'Everest (la maggior parte delle altre guide riceveva da diecimila aquindicimila dollari, e gli sherpa esperti solo da millequattrocento a duemilacinquecento dollari), e leprestazioni di Boukreev non erano state all'altezza delle sue aspettative. «Toli era molto forte, un alpinistatecnicamente molto abile», spiega Kruse, «ma povero di attitudini sociali. Non si prodigava per gli altri,non , era adatto al gioco di squadra. A Scott avevo già detto in precedenza che non volevo scalare laparte alta della montagna con Toli," perchè dubitavo di poter contare su di lui nei momenti di realenecessità.»

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Il problema implicito era che il concetto di responsabilità di Boukreev era notevolmente diverso daquello di Fischer. Boukreev, russo, proveniva da una cultura alpinistica rude, fiera e austera, che noncredeva nella necessità di proteggere i deboli. Nell'Europa orientale le guide erano addestrate acomportarsi più come sherpa - trasportando carichi, fissando corde, stabilendo il percorso - che comegovernanti. Alto e biondo, con un bel viso dai lineamenti tipicamente slavi, Boukreev era uno degliscalatori d'alta quota più completi del mondo, con vent'anni di esperienza himalayana, comprese duescalate dell'Everest senza ossigeno. E nel corso della sua prestigiosa carriera era giunto a formulare uncerto numero di opinioni poco ortodosse ma molto consolidate sul modo di scalare la montagna; eramolto esplicito nell'esprimere la sua convinzione che da parte delle guide fosse un errore viziare i clienti.«Se il cliente non riesce a scalare l'Everest senza grande aiuto da parte della guida», mi aveva dettoBoukreev, «quel cliente non dovrebbe trovarsi sull'Everest. Altrimenti possono sorgere gravi problemilassù.»

Tuttavia il rifiuto o l'incapacità di Boukreev di interpretare il ruolo della guida convenzionale secondo latradizione occidentale esasperava Fischer, oltre a costringere lui e Beidleman ad accollarsi una parteeccessiva dei compiti di assistenza nei confronti del gruppo, e nella prima settimana di maggio quellosforzo aveva inciso in modo indiscutibile sulle condizioni fisiche di Fischer. La sera del 6 maggio, dopol'arrivo al campo base insieme con Kruse, ancora sofferente, Fischer fece due telefonate satellitari aSeattle in cui si lamentò amaramente dell'intransigenza di Boukreev con la sua socia in affari, KarenDickinson, e con la sua agente, Jane Bromet.[28]Nessuna delle due immaginava che quelle sarebberostate le ultime conversazioni che avrebbero avuto con Fischer.

 

 

L'8 maggio tanto la squadra di Hall quanto quella di Fischer partirono dal Campo Due per intraprenderel'estenuante ascesa lungo le corde fisse su per la parete del Lhotse. Circa seicento metri più in alto delCwm, poco al di sotto del Campo Tre, un masso delle dimensioni di un piccolo televisore cadde dallepareti rocciose soprastanti colpendo al torace Andy Harris. Lo gettò a terra, lasciandolo senza fiato,sospeso alla corda fissa in stato di shock per parecchi minuti. Se non fosse stato assicurato con unamaniglia jumar, sarebbe certamente precipitato incontro alla morte.

Quando raggiunse le tende, Andy aveva l'aria molto scossa, ma sosteneva di non essere ferito. «Forsedomattina mi sentirò un po’irrigidito», insistette, «ma penso che quel dannato sasso non mi abbia fattoaltro che un grosso livido.» Poco prima che la roccia lo colpisse, si era piegato in avanti, a testa bassa, eaveva alzato gli occhi solo un attimo prima che lo investisse, quindi il masso gli aveva sfiorato appena ilmento prima di colpirlo allo sterno, ma era arrivato paurosamente vicino a sfondargli il cranio. «Se quellaroccia mi avesse colpito alla testa...», riflette Andy con una smorfia mentre deponeva lo zaino, lasciandoin sospeso la frase.

Poichè il Campo Tre era il solo accampamento su tutta la montagna che non dividessimo con gli sherpa(il ripiano era troppo esiguo per accogliere un numero di tende sufficiente per tutti), lassù dovevamocucinare da soli; il che di solito consisteva nello sciogliere incredibili quantità di ghiaccio per ricavarneacqua da bere. A causa dell'accentuata disidratazione che era una conseguenza inevitabile del respiroaffannoso in un’aria così asciutta, ciascuno di noi consumava circa quattro litri di liquido al giorno. Quindiper soddisfare le esigenze di otto clienti e tre guide dovevamo produrre all'incirca quarantacinque litrid'acqua al giorno.

Dal momento che quel giorno, 8 maggio, ero stato il primo a raggiungere le tende, il compito di spezzareblocchi di ghiaccio toccava a me e per tre ore, mentre i miei compagni raggiungevano il campo alla

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spicciolata, sistemandosi nei sacchipiuma, rimasi all'aperto a sgobbare sul pendio con la becca dellapiccozza, riempiendo di schegge di ghiaccio tanti sacchi di plastica della spazzatura e distribuendoli fra levarie tende per farli sciogliere. A 7300 metri d'altezza, era un lavoro molto faticoso. Ogni volta che unodei miei compagni di squadra gridava: «Ehi, Jon! Ci farebbe comodo ancora un po’di ghiaccio, qui!»capivo un po’di più quanto facevano di solito gli sherpa per noi, e quanto poco lo apprezzassimo.

Verso la fine del pomeriggio, mentre il sole calava verso l'orizzonte frastagliato e la temperaturacominciava ascendere, tutti erano arrivati al campo, tranne Lou Kasischke, Frank Fischbeck e Rob, chesi era offerto volontario per chiudere il gruppo, risalendo per ultimo. Intorno alle quattro e mezza, la guidaMike Groom ricevette una chiamata da Rob sul walkie-talkie. Lou e Frank erano ancora una sessantinadi metri più in basso delle tende e si muovevano con estrema lentezza: Mike poteva scendere ad aiutarli,per favore? Mike si mise in fretta i ramponi e scese lungo le corde fisse senza lagnarsi.

Passò quasi un'ora prima che ricomparisse, precedendo di poco gli altri. Lou, così stanco da lasciarportare il suo zaino a Rob, arrivò al campo barcollando, con la faccia pallida e stravolta, mormorando:«Sono finito, distrutto, completamente spompato». Frank comparve pochi minuti dopo, ancor piùesausto, anche se si era rifiutato di cedere lo zaino a Mike. Fu uno shock vedere ridotti in quello statodegli uomini che negli ultimi tempi se l'erano cavata bene. In particolare l'apparente crollo di Frank fu uncolpo per me: avevo dato per scontato fin dall'inizio che, se fra noi c'era qualcuno che avrebbe raggiuntola vetta, sarebbe stato Frank, che era già salito tre volte sulla montagna e sembrava così forte ed esperto.

 

Mentre l'accampamento scivolava nell'oscurità, le guide consegnarono a tutti noi bombole di ossigeno,valvole di regolazione e maschere: per il resto dell'ascensione avremmo respirato gas compresso.

La pratica di far affidamento sulle bombole di ossigeno come ausilio nella scalata ha sollevato un vivacedibattito fra gli esperti fin dalla prima volta che gli inglesi portarono l'ossigeno sull'Everest a titolo diesperimento, nel 1921. (Gli sherpa scettici battezzarono subito quelle fastidiose bombole con il nome di«aria inglese».) Inizialmente il più critico nei confronti dell'ossigeno fu George Leigh Mallory, il qualeprotestò dicendo che il suo uso era «antisportivo, e quindi non inglese». Ma ben presto apparve evidenteche nella cosiddetta Zona della morte, oltre i 7600 metri, senza un supplemento di ossigeno il corpo èmolto più sottoposto ai rischi di edema polmonare e cerebrale, di ipotermia, congelamento e una quantitàdi altri disturbi letali. Nel 1924, quando tornò sulla montagna per la terza spedizione, anche Mallory si eraconvinto che la vetta non sarebbe mai stata raggiunta senza ossigeno, e si era rassegnato a usarlo.

Gli esperimenti condotti nella camera di decompressione avevano dimostrato che un essere umanoprelevato al livello del mare e depositato sulla cima dell'Everest, dove l'aria contiene solo un terzo diossigeno, perderebbe conoscenza entro pochi minuti e morirebbe subito dopo. Eppure un certo numerodi alpinisti idealisti continuava a insistere che un atleta abile e fornito di rare doti fisiologiche avrebbepotuto, dopo un lungo periodo di acclimatazione, scalare la vetta senza ricorrere alle bombole diossigeno. Portando alle estreme conseguenze logiche quel ragionamento, i puristi asserivano che l'usodell'ossigeno era quindi un espediente fraudolento.

Negli anni Settanta, Reinhold Messner si mise. in luce come principale sostenitore delle scalate senzaossigeno, dichiarando che avrebbe scalato l'Everest «by fair means» o niente. Poco dopo, lui e il suocompagno di antica data, l'austriaco Peter Habeler, sbalordirono il mondo dell'alpinismo internazionalemantenendo la promessa: all'una del pomeriggio dell'8 maggio 1978 raggiunsero la cima attraverso ilColle Sud e la Cresta Sud-Est senza usare le bombole di ossigeno e la loro scalata fu accolta in certiambienti come la prima vera conquista dell’Everest.

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La storica impresa di Messner e Habeler non è stata osannata in tutti gli ambienti, però, specialmente fragli sherpa. La maggior parte di loro si rifiutò semplicemente di credere che degli occidentali fosserocapaci di una prodezza del genere, che non era riuscita neppure agli sherpa più forti. Corsero voci cheMessner e Habeler avessero inalato ossigeno da bombole in miniatura nascoste sotto i vestiti. TenzingNorgay e altri sherpa di prestigio firmarono una petizione per chiedere che il governo del Nepalsvolgesse un'inchiesta ufficiale su quella presunta scalata.

Tuttavia le prove che confermavano la scalata senza ossigeno erano irrefutabili. Due anni dopo, inoltre,Messner mise a tacere tutti gli scettici raggiungendo il versante tibetano dell'Everest e compiendo un'altrascalata senza ossigeno, stavolta senza l'ausilio degli sherpa o di chiunque altro. Quando raggiunse la vettaalle tre del pomeriggio del 20 agosto 1980, superando uno strato di fitte nubi e una nevicata, Messnerdichiarò: «È stata una continua sofferenza; non mi sono mai sentito così stanco in tutta la mia vita». Nelsuo libro sulla scalata,Orizzonti di ghiaccio , descrive la lotta per coprire gli ultimi metri fino alla cima:

 

Quando mi fermo la debolezza è tale che mi pare di perdere i sensi, solo la gola mi brucia quandoinspiro. ...Non ce la faccio quasi più. Nessuna disperazione, nessuna gioia, nessuna paura. Non ho persola padronanza dei miei sentimenti, il fatto è che non ci sono assolutamente più sentimenti. Ora sono fattosolamente di volontà; Ma anche questa muore ogni volta che faccio pochi metri, soffocata da unastanchezza infinita. Allora non penso più a nulla, non sento più nulla; mi lascio cadere e rimango lì,completamente privo di volontà per un tempo indeterminato. Solo dopo un po’riesco ancora a farequalche passo.

 

 

Dopo il suo ritorno alla civiltà, la scalata di Messner fu esaltata in quasi tutti gli ambienti come la piùgrande impresa alpinistica di tutti i tempi.

Dopo che Messner e Habeler ebbero dimostrato che l'Everest si poteva scalare senza ossigeno, unaristretta elite di alpinisti ambiziosi convenne chesi doveva scalare senza ossigeno. Dunque se qualcunoaspirava a essere considerato un membro dell'elite himalayana; doveva d'obbligo astenersi dall'uso dellebombole. Nel 1996 già una sessantina di uomini e donne avevano raggiunto la cima senza ossigeno,anche se cinque non erano riusciti a tornare indietro vivi.

Per quanto grandiose potessero essere le nostre ambizioni individuali, nessuno della squadra di Hallprese mai in considerazione l'idea di scalare la vetta senza bombole di ossigeno. Persino Mike Groom,che tre anni prima aveva scalato l'Everest senza ossigeno, mi spiegò che stavolta intendeva usarlo perchèdoveva svolgere il compito di guida, e sapeva per esperienza che senza bombole di ossigeno le suecapacità mentali e fisiche sarebbero state seriamente compromesse, al punto che non sarebbe stato ingrado di compiere i suoi doveri professionali. Come la maggior parte delle guide veterane dell'Everest,Groom riteneva che, sebbene fosse accettabile, anzi esteticamente preferibile, fare a meno delle bombolequando si arrampicava in modo indipendente, sarebbe stato estremamente irresponsabile non usarleguidando dei clienti sulla vetta.

Il sistema di ossigeno in bombole utilizzato da Hall, l'ultimo ritrovato della tecnica russa, consisteva in unamaschera di plastica rigida, del tipo usato dai piloti dei caccia MIG durante la guerra nel Vietnam,collegata attraverso un tubo di gomma e un rudimentale congegno regolatore a una bombola in acciaio ekevlar di colore arancione. (Più piccole e molto più leggere delle bombole da sub, pesavano circa tre chili

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l'una quando erano piene.) Anche se durante i precedenti soggiorni al Campo Tre non avevamo dormitocon l'ossigeno, ora che l'assalto finale alla vetta era cominciato, Rob insistette caldamente per farcirespirare ossigeno durante la notte. «Ogni minuto che trascorrete a questa altitudine e oltre», ci ammonì,«la vostra mente e il vostro corpo si deteriorano.» Le cellule cerebrali morivano; il sangue diventavapericolosamente denso e vischioso; i capillari della retina erano soggetti a emorragie spontanee. Persino ariposo, il cuore batteva a un ritmo frenetico. Rob ci assicurò che «l'ossigeno rallenterà il declino dellevostre condizioni fisiche e vi aiuterà a dormire».

Tentai di seguire il consiglio di Rob, ma la mia latente claustrofobia ebbe la meglio. Quando mi applicavola maschera sul naso e sulla bocca avevo l'impressione che mi soffocasse, quindi, dopo un'ora di infelicitàme la tolsi e trascorsi il resto della notte senza ossigeno, rigirandomi e agitandomi irrequieto e senza fiato,controllando l'orologio ogni venti minuti per vedere se era ora di alzarsi.

Incassate nel pendio a una trentina di metri al di sotto del nostro campo, in una posizione altrettantoprecaria, c'erano le tende di quasi tutte le altre squadre, compresi il gruppo di Scott Fischer, i sudafricanie i taiwanesi. Nella prima mattinata del giorno seguente, giovedì 9 maggio, mentre mi stavo infilando gliscarponi per la salita al Campo Quattro, Chen Yu-Nan, un metalmeccanico trentaseienne di Taipei, uscìcarponi dalla tenda per evacuare calzando solo le scarpe interne degli scarponi da montagna, ovviamentecon la suola liscia: un grave errore di valutazione.

Mentre si accovacciava al suolo, perse la presa sul ghiaccio e precipitò lungo la parete del Lhotse.Incredibile a dirsi, dopo un salto di ventuno metri finì a capofitto in un crepaccio, che arrestò la suacaduta. Gli sherpa che avevano assistito all'incidente gli calarono una corda, recuperandolo subito dallafenditura nel ghiaccio e aiutandolo a risalire fino alla sua tenda. Sebbene fosse contuso e moltospaventato, non sembrava che avesse riportato ferite gravi. In quel momento nessuno della squadra diHall, me compreso, sapeva dell'incidente.

Poco dopo, Makalu Gau e il resto della squadra di Taiwan si allontanarono alla volta del Colle Sud,lasciando Chen da solo in una tenda a riposare. Benchè Gau avesse assicurato a Rob e a Scott che nonaveva intenzione di attaccare la vetta il 10 maggio, era evidente che aveva cambiato idea e ora intendevasalire lo stesso giorno che avevamo scelto noi.

Quel pomeriggio uno sherpa di nome Jangbu, scendendo al Campo Due dopo aver trasportato uncarico al Colle Sud, si fermò al Campo Tre per controllare le condizioni di Chen e scoprì che l'alpinista diTaiwan era molto peggiorato: adesso era disorientato e soffriva molto. Decise che era necessarioportarlo via e reclutò altri due sherpa che lo accompagnassero nella discesa dalla parete del Lhotse. A uncentinaio di metri dal fondo del pendio ghiacciato, Chen si accasciò di colpo a terra e perse i sensi. Unattimo dopo, al Campo Due, la radio di David Breashears cominciò a crepitare: era Jangbu, che riferivain preda al panico che Chen aveva smesso di respirare.

Breashears e il suo compagno dell'IMAX Ed Viesturs si precipitarono su per vedere se riuscivano arianimarlo, ma quando raggiunsero Chen, una quarantina di minuti dopo, non riscontrarono segni di vita.Quella sera, dopo che Gau era arrivato al Colle Sud, Breashears lo chiamò alla radio. «Makalu»,annunciò al capo della spedizione di Taiwan, «Chen è morto.»

«Okay», rispose Gau. «Grazie dell'informazione.» Poi assicurò alla sua squadra che la morte di Chennon avrebbe minimamente influito sui loro piani per conquistare la cima, quella notte stessa. Breashearsrimase sbigottito. «Avevo appena chiuso gli occhi al suo amico», commenta ancor oggi sconvolto.«Avevo appena trasportato giù al campo il corpo di Chen, e Makalu non ha saputo dirmi altro che:'Okay'. Non so, forse si tratta di un fatto culturale. Forse pensava che il modo migliore per onorare lamorte di Chen fosse continuare fino alla vetta.»

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Nelle sei settimane precedenti si erano verificati vari incidenti gravi: la caduta di Tenzing nel crepaccioprima ancora che arrivassimo al campo base; il caso di edema polmonare di Ngawang Topche e il suosuccessivo peggioramento; il grave attacco cardiaco subito in cima alla seraccata da Ginge Fullen, unoscalatore inglese giovane e apparentemente in forma che faceva parte della squadra di Mall Duff;l'incidente occorso al danese Kim Sejberg, anche lui della squadra di Duff, che era stato investito dalcrollo di un seracco e aveva riportato la frattura di varie costole. Fino a quel momento, però, non c'eranostati morti.

La morte di Chen gettò un velo cupo sulla montagna, man mano che la notizia dell'incidente si diffondevada una tenda all'altra, ma da lì a poche ore trentatre scalatori sarebbero partiti per conquistare la cimadell'Everest, e l'angoscia fu scacciata dalla nervosa anticipazione di quello che ci aspettava. Eravamoquasi tutti troppo presi dalla febbre della vetta per impegnarci in riflessioni sulla morte di uno di noi. Cisarebbe stato tanto tempo per riflettere dopo, pensavamo, una volta scalata la cima e ritornati tutti avalle.

Guardai verso il basso. Non mi sorrideva affatto l'idea di scendere. ...Troppe fatiche, troppe nottiinsonni e troppi sogni erano stati investiti per arrivare fin lassù. Non potevamo tornare per ritentare nelprossimo weekend. Scendere adesso, anche se avessimo potuto farlo, significava avviarsi verso un futurocontrassegnato da un enorme punto interrogativo: che cosa sarebbe potuto essere?

THOMAS P. HORNBEIN

Everest: The West Ridge

 

        La mattina del giovedì 9 maggio, alzandomi sonnolento e stordito dopo una notte insonne alCampo Tre, fui lento a vestirmi, a fondere il ghiaccio per ricavare l'acqua e a uscire dalla tenda. Quandoebbi finito di preparare lo zaino e di agganciarmi i ramponi, la maggior parte del gruppo di Hall stava giàsalendo lungo le corde verso il Campo Quattro. Mi sorprese la presenza fra loro di Lou Kasischke ePrank Pischbeck. A causa delle loro condizioni disastrose quando erano arrivati al campo la sera prima,avevo dato per scontato che avessero deciso entrambi di gettare la spugna. «Su con la vita, amici»,esclamai, prendendo in prestito un'espressione tipica del contingente neozelandese, colpito dalla tenaciacon la quale i miei compagni avevano fatto appello a tutte le loro forze nel decidere di andare fino infondo.

        Mentre mi affrettavo a unirmi ai compagni di squadra, guardando in basso vidi una coda di circacinquanta scalatori delle altre spedizioni che salivano anche loro lungo le corde; i primi erano propriosotto di me. Non volendo restare intrappolato in quello che sarebbe diventato senz'altro un colossaleingorgo (prolungando fra l'altro la mia esposizione alle salve intermittenti di sassi che schizzavano dallaparete in alto), accelerai il passo e decisi di spostarmi verso la parte iniziale della fila. Poichè tuttavia c'erauna sola corda che scendeva serpeggiando lungo la parete del Lhotse, non era facile superare gli scalatoripiù lenti.

        L'episodio di Andy colpito dalla pietra mi tornava alla mente ogni volta che mi sganciavo dallacorda per aggirare qualcuno; anche un piccolo proiettile sarebbe stato sufficiente per spedirmi in fondoalla parete, se mi avesse colpito mentre ero sganciato dalla corda. Aggirare gli altri, oltre tutto, non erasolo snervante ma anche spossante. Come un trattore privo di potenza che arranca nel tentativo disorpassare una fila di veicoli su una ripida salita, ogni volta che intendevo superare qualcuno dovevotenere premuto l'acceleratore per un periodo di tempo angosciosamente lungo, e mi ritrovavo ad

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ansimare così forte da aver paura di vomitare nella maschera a ossigeno.

        Poichè era la prima volta che arrampicavo usando l'ossigeno, ci misi qualche tempo per abituarmi.Anche se l'uso dell'ossigeno a quell'altitudine (7300 metri) offriva dei vantaggi oggettivi, era difficilerendersene conto di primo acchito. Anzi, mentre mi sforzavo di riprendere fiato dopo avere sorpassatotre scalatori, la maschera mi diede l'impressione di asfissiarmi, cosicchè me la tolsi dal viso scoprendoche respirare senza di essa era ancora più difficile.

        Quando riuscii a superare la parete di calcare friabile color ocra nota con il nome di Fascia Gialla,ero ormai arrivato in testa alla fila e potei adottare un'andatura più confacente alle mie possibilità.Avanzando a ritmo lento ma costante, compii una traversata verso sinistra fino alla sommità della paretedel Lhotse, poi scalai uno spuntone di scisto nero frammentato chiamato Sperone dei Ginevrini.Finalmente avevo imparato a respirare dalla maschera e avevo oltre un'ora di vantaggio sul miocompagno più vicino. La solitudine era un bene raro sull'Everest, e ringraziai il cielo di averne conquistataalmeno una scheggia quel giorno, in uno scenario così impressionante.

        A 7850,metri di quota, mi soffermai sulla sommità dello Sperone per bere un sorso d'acqua eammirare il paesaggio. L'aria rarefatta ,aveva una trasparenza cristallina e baluginante, nella quale anchele vette più lontane parevano tanto vicine da poterle quasi toccare, mentre la piramide superioredell'Everest, illuminata in pieno dal sole di mezzogiorno, traspariva a intermittenza da un siparioimpalpabile di nubi. Osservando la parte superiore della Cresta Sud-Est attraverso il teleobiettivo dellamacchina fotografica, restai sorpreso nel vedere quattro figure piccole come formiche spostarsi in modoquasi impercettibile verso la Cima Sud. Ne dedussi che dovevano essere componenti della spedizionemontenegrina; se fossero arrivati in cima sarebbero stati i primi a scalarla, quell'anno. Inoltre avrebbevoluto dire che le voci che avevamo sentito sull'altezza della neve, tale da impedire l'avanzata, eranoinfondate: se ce la facevano loro, forse avremmo avuto una possibilità anche noi. E tuttavia il pennacchiodi neve che ora soffiava dal crinale della vetta era un brutto segno: i montenegrini salivano a fatica,lottando contro un vento feroce.

        Raggiunsi il Colle Sud, la nostra rampa di lancio per l'assalto finale alla vetta, all'una del pomeriggio.Quel punto, un desolato altopiano di ghiaccio a prova di proiettile e massi spazzati dal vento a 7986 metrisul livello del mare, occupa un ampio incavo che si apre fra i bastioni superiori del Lhotse e dell'Everest.Di forma grossolanamente rettangolare, equivalente all'incirca a quattro campi di football in lunghezza edue in larghezza, il Colle Sud si affaccia a strapiombo sul Tibet con i 2000 metri della parete Kangshung,mentre l'altro lato si stende fino al Cwm occidentale. Discoste di poco dall'orlo di questo abisso,all'estremità occidentale del Colle, sorgevano le tende del Campo Quattro, rannicchiate su un tratto diterreno spoglio circonato da oltre mille bombole di ossigeno vuote.[29]Se esiste al mondo un abitato piùdesolato e inospitale di quello, spero di non vederlo mai.

        Poichè la corrente a getto si scontra con il massiccio dell'Everest restando racchiusa entro icontorni a V del Colle Sud, il vento accelera fino a raggiungere velocità inimmaginabili; non è insolito chesul Colle i venti siano addirittura più impetuosi di quelli che sferzano la vetta. L'uragano che in primaverasoffia quasi ininterrottamente sul Colle spiega per quale motivo esso sia è ridotto a una nuda distesa diroccia e ghiaccio anche quando i pendii adiacenti sono ricoperti da uno spesso manto di neve: tutto.ciòche non è ghiacciato viene spazzato via, in direzione del Tibet.

Quando raggiunsi il Campo Quattro, sei sherpa si sforzavano di montare la tenda di Hall in mezzo a unatempesta con il vento che soffiava a cinquanta nodi di velocità. Aiutandoli a innalzare il mio rifugio, loancorai ad alcune bombole di ossigeno vuote, incastrate sotto i sassi più grossi che mi riuscì di sollevare,poi mi tuffai all'interno per scaldarmi le mani ghiacciate mentre aspettavo i miei compagni.

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Col passare delle ore, le condizioni del tempo peggiorarono. Comparve Lopsang Jangbu, ilsirdar diFischer, con un carico da spezzare la schiena; circa trentasei chili, di cui quasi quattordici erano costituitida un telefono satellitare con tanto di unità periferiche: Sandy Pittman doveva inviare messaggi su Internetda un'altitudine di 7986 metri. L'ultimo dei miei compagni arrivò solo alle quattro e mezza, mentre iritardatari del gruppo di Fischer giunsero ancora più tardi, quando ormai era in pieno corso una violentatempesta. A sera fatta, ridiscesero verso il Colle i montenegrini, riferendo che la vetta era rimastainviolata: erano tornati indietro poco più in basso dello Hillary Step.

Fra le condizioni meteorologiche e la sconfitta dei montenegrini, gli auspici non erano certo favorevoliper il nostro assalto alla vetta, programmato di lì ameno di sei ore. Appena arrivati sul Colle, tutti siritirarono nei loro rifugi di nylon, facendo del loro meglio per dormire, ma il crepitio da mitragliatrice delletende che svolazzavano e l'ansia per la giornata che ci attendeva impedì alla maggior parte di noi diriposare.

Scott Hutchison, il giovane cardiologo canadese, e io eravamo stati assegnati a una tenda; Rob, Frank,Mike Groom, John Taske e Yasuko Namba a un'altra; Lou, Beck Weathers, Andy Harris e DougHansen ne occupavano una terza. Lou e i suoi compagni stavano sonnecchiando, quando una vocesconosciuta gridò dall'esterno, in mezzo alla tempesta: «Fatelo entrare, presto, altrimenti morirà, là fuori!»Lou aprì la lampo dell'entrata e un attimo dopo gli cadde supino sulle ginocchia un uomo barbuto. EraBruce Herrod, il cordiale vicecapo trentasettenne della squadra sudafricana, che ormai era anche l'unicodi quella spedizione ad avere delle autentiche credenziali di alpinista.

«Bruce era davvero nei guai», ricorda Lou. «Scosso da brividi irrefrenabili, si comportava in modomolto bizzarro e irrazionale; in pratica era incapace di provvedere a se stesso. Era in uno stato diipotermia tale che riusciva a stento a parlare. A quanto pareva, il resto del suo gruppo era sul Colle, o sulpunto di raggiungerlo; ma lui non sapeva dove e non aveva idea di come trovare la sua tenda, quindi glioffrimmo qualcosa da bere, cercando di scaldarlo.»

Anche Doug non stava troppo bene. «Non aveva una buona cera», ricorda Beck. «Si lamentava da unpaio di giorni di non riuscire nè a dormire, nè a mangiare, ma al momento cruciale era deciso a bardarsicon l'attrezzatura e salire. Ero preoccupato, perchè ormai avevo imparato a conoscerlo abbastanza beneda sapere che si era angustiato per un ànno intero al pensiero di essere arrivato ameno di novanta metridalla vetta prima di dover tornare indietro. E intendo dire che questo fatto lo aveva tormentato ognisingolo giorno. Era chiaro che non intendeva farsi respingere per la seconda volta. Doug era deciso asalire verso la vetta finchè avesse avuto fiato in corpo.»

Quella sera sul Colle c'erano oltre cinquanta persone, rannicchiate nelle tende montate fianco a fianco,eppure nell‘aria aleggiava una strana sensazione di isolamento. Il rombo del vento impediva dicomunicare fra una tenda e l'altra. In quel posto dimenticato da Dio, mi sentivo privo di contatti con glialpinisti intorno a me, in senso emotivo, spirituale e fisico, a un livello che non avevo mai sperimentatonelle spedizioni alle quali avevo partecipato in precedenza. Formavamo una squadra solo di nome, erocostretto a riconoscere con amarezza: anche se fra poche ore avremmo lasciato il campo in gruppo,avremmo compiuto la scalata singolarmente, senza essere uniti l'uno all'altro nè da una corda nè da unprofondo senso di lealtà. Ogni cliente era lì per se stesso, in sostanza. E io non ero da meno degli altri:speravo sinceramente che Doug raggiungesse la vetta, per esempio, eppure avrei fatto tutto il possibileper continuare, anche se lui avesse fatto dietrofront.

In un altro contesto sarebbe stata un'intuizione deprimente, ma ero troppo preoccupato per le condizionidel tempo per indugiare su quell'idea. Se il vento non calava, e presto, la vetta sarebbe rimasta unmiraggio per tutti. Durante la settimana precedente, gli sherpa di Hall avevano trasportato sul Colle unariserva di cinquantacinque bombole di ossigeno. Anche se possono sembrare molte, erano appena

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sufficienti per un solo tentativo da parte di tre guide, otto clienti e quattro sherpa. E il contatore correva:anche riposando nelle tende, stavamo consumando ossigeno prezioso. Se necessario, potevamo chiuderele valvole dell'ossigeno e restare lassù senza danni per ventiquattro ore al massimo; ma una volta superatoquel termine, avremmo dovuto o salire o scendere.

Eppure,mirabile visu , alle sette e mezza del pomeriggio il vento di bufera cessò improvvisamente.Herrod uscì carponi

dalla tenda di Lou per andare incespicando in cerca dei suoi compagni. La temperatura era di parecchioinferiore allo zero, ma non c’era quasi vento: le condizioni ideali per una scalata alla vetta. L'istinto di Hallera incredibile; sembrava che avesse studiato alla perfezione i tempi per il nostro tentativo. «Jonno!Stuart!» gridò dalla tenda vicina. «A quanto pare ci siamo, ragazzi. Fatevi trovare pronti per il ballo alleundici e mezza!»

Mentre, bevendo il tè, mettavamo a punto l’attrezzatura per la scalata, nessuno parlava granchè.Avevamo sofferto molto per arrivare fino a quel momento. Come Doug, anch'io mangiavo poco e nondormivo affatto da quando avevamo lasciato il Campo Due, un paio di giorni prima. Ogni volta chetossivo, il dolore causato dalla cartilagine lacerata nel torace mi dava l'impressione che qualcuno mificcasse un coltello sotto le costole, facendomi salire le lacrime agli occhi. Ma se volevo tentare diraggiungere la vetta, sapevo di non avere altra scelta che ignorare gli acciacchi e salire.

Venticinque minuti prima di mezzanotte, mi infilai la maschera di ossigeno, accesi la lampada frontale ecominciai a salire nell'oscurità. Nel gruppo di Hall eravamo in quindici: tre guide, gli otto clienti al grancompleto e gli sherpa Ang Dorje, Lhakpa Chhiri, Ngawang Norbu e Kami. Hall diede istruzioni ad altridue sherpa, Arita e Chuldum, di restare alle tende pronti a entrare in azione in caso di necessità.

La squadra della Mountain Madness - composta dalle guide Fischer, Beidleman e Boukreev, da seisherpa e dai clienti Charlotte Fox, Tim Madsen, Klev Schoening, Sandy Pittman, Lene Gammelgaard eMartin Adams - partì dal Colle Sud un’ora dopo di noi.[30]Lopsang aveva pensato che solo cinquesherpa della Mountain Madness avrebbero accompagnato la squadra fino alla vetta, mentre duesarebbero rimasti di riserva al Colle, ma poi, afferma: «Scott si mette una mano sul cuore e dice ai mieisherpa: 'Potete salire tutti’».[31]

Alla fine Lopsang, all'insaputa di Fischer, ordinò a uno sherpa, il cugino «Big» Pemba, di restare.«Pemba in collera con me», ammise Lopsang, «ma io gli dico: 'Tu devi restare, altrimenti non ti darò piùlavoro'. Così lui resta a Campo Quattro.»

Lasciando il campo subito dopo la squadra di Fischer, Makalu Gau iniziò l'ascensione insieme a duesherpa, ignorando spudoratamente la promessa che nessuno della spedizione di Taiwan avrebbe tentatodi conquistare la vetta nel nostro stesso giorno. Anche i sudafricani avrebbero voluto salire, ma la terribilescalata dal Campo Tre al Colle li aveva sfiniti al punto che non riuscirono neanche a uscire dalle tende.

In tutto furono trentatrè gli scalatori che partirono nel cuore della notte alla volta della vetta. Anche selasciavamo il Colle come membri di tre spedizioni separate, i nostri destini cominciavano già a intrecciarsi,e ad ogni metro di salita sarebbero stati sempre più legati.

 

La notte aveva una bellezza gelida ed eterea che si accentuò man mano che salivamo. Il cielo glaciale erachiazzato di stelle, più numerose di quante ne avessi mai viste. Una luna gibbosa sorse alle spalle del

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Makalu, alto 8463 metri, inondando il pendio sotto i miei scarponi di una luce spettrale che consentiva dirisparmiare le batterie della lampada. In lontananza, a sud-est, lungo la frontiera indo-nepalese, colossalinubi temporalesche fluttuavano sulle paludi malariche del Terai, rischiarando il cielo con surrealideflagrazioni di lampi arancioni e azzurrini.

        Meno di tre ore dopo la partenza dal Colle, Frank decise che qualcosa nella giornata non glisuonava giusto. Uscendo dalla fila, fece dietrofront e discese verso le tende: il suo quarto tentativo diconquistare l'Everest finiva lì.

Poco dopo, anche Doug si fece da parte. «In quel momento era poco più avanti di me», ricorda Lou.«Tutt'a un tratto uscì dalla fila e si fermò. Quando lo affiancai, mi disse che aveva freddo e si sentivamale, per cui voleva tornare giù.» Poi lo raggiunse Rob, che guidava la retroguardia, e cominciò fra lorouna breve conversazione. Nessuno sentì il dialogo, quindi non c'è modo di sapere che cosa si siano detti,ma il risultato fu che Doug rientrò nella fila per riprendere l'ascesa.

 

Il giorno prima della partenza dal campo base, Rob aveva riunito la squadra nella tenda-mensa pertenerci una conferenza sull'importanza di obbedire ai suoi ordini nel giorno dell'ascensione alla vetta.«Lassù non ammetterò dissensi», ci aveva ammonito, fissandomi con intenzione. «La mia parola saràlegge assoluta, senza appello. Se non vi piacerà una particolare decisione che prenderò, sarò lieto didiscuterne con voi in seguito, ma non mentre siamo sulla montagna.»

La fonte più ovvia di potenziali conflitti era la probabilità che Rob decidesse di farci tornare indietroprima della vetta, ma c'era un altro problema per il quale era particolarmente , preoccupato. Durante leultime fasi del periodo di acclimatazione aveva allentato un po’le redini, lasciandoci liberi di salire allanostra andatura; per esempio, a volte Hall mi aveva consentito di salire precedendo il gruppo principaledi due ore o più. Ora invece sentiva il bisogno di sottolineare che per la prima metà della scalata volevache tutti restassero in stretto contatto fra loro. «Finchè non raggiungeremo la sommità della CrestaSud-Est», aveva dichiarato, riferendosi a un promontorio ben riconoscibile all'altezza di 8410 metri, notocol nome di «Balcone», «dovete restare tutti a meno di cento metri l'uno dall'altro. Questo è moltoimportante. Saliremo al buio, e voglio che le guide possano seguirvi da vicino.»

Quindi durante la salita nelle ore che precedettero l'alba del 10 maggio, noi che eravamo in testa algruppo ci vedemmo costretti più volte a fermarci per aspettare che i compagni più lenti ci raggiungessero,restando fermi in un gelo tale da spaccare le ossa. In una particolare occasione Mike Groom, ilsirdarAng Dorje e io restammo seduti su una cengia coperta di neve per oltre quarantacinque minuti, tremandodi freddo e battendo mani e piedi per evitare il congelamento, in attesa che arrivassero gli altri; ma ilpensiero del tempo sprecato era un tormento ancora più angoscioso del freddo.

Alle tre e tre quarti del mattino, Mike annunciò che eravamo andati troppo avanti e dovevamo fermarcidi nuovo ad aspettare. Addossandomi a un affioramento di scisto, nel tentativo di sfuggire alla brezza ditemperatura inferiore allo zero che ora soffiava da ovest, guardai in basso verso il pendio ripidissimo,cercando di identificare gli scalatori che avanzavano palmo a palmo verso di noi al chiaro di luna. Mentreprocedevano, notai che alcuni membri del gruppo di Fischer ci avevano raggiunti: ora la squadra di Hall,quella della Mountain Madness e il gruppo di Taiwan erano mescolati in una lunga fila intermittente. E poila mia attenzione fu attirata da uno spettacolo insolito.

Una ventina di metri sotto di noi, una figura alta, che indossava giacca e pantaloni imbottiti di piume di unbel giallo vivace, veniva issata in alto da uno sherpa molto più piccolo mediante un tratto di corda lungo

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circa un metro; lo sherpa, che non portava la maschera di ossigeno e ansimava forte, trainava ilcompagno su per il pendio come un cavallo che tira l'aratro. La strana coppia procedeva a un'andaturadiscreta, superando altri scalatori, ma quel procedimento, utilizzato di solito per assistere un alpinistadebole o ferito -appariva rischioso ed estremamente scomodo per entrambi. A poco a poco riconobbinello sherpa l'esuberantesirdar di Fischer, Lopsang Jangbu, e nella figura in giallo Sandy Pittman.

La guida Neal Beidleman, che osservò come me Lopsang trainare Pittman, ricorda: «Mentre salivo, vidiLopsang proteso verso il pendio, aggrappato alla roccia come un ragno, che sorreggeva Sandy permezzo di un pezzo di corda. Mi sembrò una soluzione scomoda e molto pericolosa; non sapevo che cosapensarne»

Verso le quattro e un quarto, Mike ci diede l'assenso per riprendere la salita, e Ang Dorje e iocominciammo ad arrampicare più in fretta che potevamo per scaldarci. Quando il primo accenno diaurora schiarì l’orizzonte a oriente, il terreno roccioso e terrazzato sul quale stavamo salendo cedette ilposto a un ampio canalone di neve non consolidata. Alternandocì in testa per aprire un sentiero nellaneve farinosa alta fino al polpaccio, Ang Dorje e io raggiungemmo il crinale della Cresta Sud-Est allecinque e mezza, proprio mentre il sole saliva in cielo. Tre delle cime più alte del mondo si stagliavano inrilievo sullo sfondo color pastello dell'alba: il mio altimetro indicava 8412 metri.

Hall aveva messo bene in chiaro che non dovevo salire oltre finchè tutto il gruppo non si fosse raccoltosu quella sporgenza simile a un balcone, così mi sedetti sullo zaino in attesa: quando finalmente arrivaronoRob e Beck, in coda al branco, ero seduto lì da oltre un'ora e mezzo. Mentre aspettavo, tanto il gruppodi Fischer quanto quello di Taiwan mi raggiunsero e mi sorpassarono. Mi sentivo frustrato per tutto queltempo sprecato, oltre che stizzito perchè ero rimasto indietro.a tutti, ma comprendevo la razionalita dellaregola di Hall, quindi tenni sotto controllo la collera.

Durante i miei trentaquattro anni .di attività alpinistica, avevo notato che gli aspetti più gratificanti dellalpinismo sono legati all'enfasi che si attribuisce in questo sport alla capacità di fare affidamento su sèstessi, di prendere decisioni critiche e di affrontarne le conseguenze, assumendosi una responsabilitàpersonale. Ora invece avevo scoperto che, quando firmi il contratto come cliente, sei costretto arinunciare a tutto questo e ad altro ancora. Per motivi di sicurezza, una guida responsabile insiste sempreper avere l'ultima parola: non può assolutamente permettere che ogni cliente prenda delle decisioniimportanti di testa propria.

Per tutta la spedizione, quindi, si era incoraggiata la passività dei clienti. Erano gli sherpa a stabilire ilpercorso, a montare le tende dell'accampamento, a cucinare e a trasportare tutti i carichi. Questo ciconsentiva di mantenere intatte le energie e aumentava enormemente le nostre possibilità di scalarel'Everest, ma io lo trovavo terribilmente frustrante. A volte avevo l'impressione di non essere io a scalaredavvero la montagna: erano altri a farlo per me. Pur avendo accettato coscientemente queste regole perpoter scalare l'Everest con Hall, non ero riuscito ad abituarmici del tutto. Per questo fremevo di colleraquando, alle sette e dieci di mattina, Hall raggiunse la sommità del Balcone e mi diede l'assenso perproseguire la scalata.

Una delle prime persone che superai nel riprendere la salita fu Lopsang, che sorpresi in ginocchio nellaneve, chino su una pozza di vomito. Di solito era lui il più forte di ogni gruppo con il quale arrampicava,pur senza fare mai ricorso all'ossigeno. Come dichiarò con fierezza dopo la spedizione: «Su ognimontagna che devo scalare, vado per primo, sistemo corda. Nel '95 su Everest con Rob Hall io vadoprima da campo base a vetta, sistemo tutte corde». La sua posizione in coda al gruppo di Fischer lamattina del 10 maggio, mentre vomitava l'anima, sembrava indicare che c’era qualcosa di grave.

Il pomeriggio precedente, Lopsang si era sfinito nello sforzo  di trasportare, oltre al resto, un telefono

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satellitare per Sandy Pittman dal Campo Tre al Campo Quattro. Quando Beidleman lo aveva vistocaricarsi in spalla quel peso enorme, circa trentasei chili, al Campo Tre, aveva detto allo sherpa che nonera necessario portare il telefono al Colle Sud, suggerendogli di lasciarlo dov'era. «io non voglio portaretelefono», ammise in seguito Lopsang, in parte perchè al Campo Tre aveva funzionato male e sembravaimprobabile che tornasse in perfetta efficienza nell'ambiente ancora più freddo e ostile del CampoQuattro.[32]«Ma Scott mi disse: 'Se non lo porti tu, lo porto io'. Così prendo telefono, lo lego fuori dellozaino e lo porto a Campo Quattro. ...Questo mi affatica molto.»

E ora per giunta Lopsang aveva appena trainato Pittman di peso per cinque o sei ore, fino in cima alColle Sud; quello sforzo aveva inferto il colpo di grazia alle sue energie, impedendogli di assumere ilsolito ruolo che occupava in testa al gruppo, decidendo il percorso. Poichè la sua inattesa assenza intesta alla fila incise sull'esito della giornata, la sua decisione di trainare Pittman suscitò in seguito critiche eperplessità. «Non ho idea del motivo per cui Lopsang abbia trainato Sandy», afferma Beidleman.«Immagino che avesse perso di vista il compito che doveva svolgere lassù e l’ordine delle priorità.»

Dal canto suo, Pittman non aveva chiesto di essere trainata: era stato Lopsang a prenderla bruscamentein disparte mentre lasciava il Campo Quattro in testa al gruppo di Fischer, a passare un'asola di cordanella parte frontale della sua imbracatura e poi, senza chiedere il suo parere, ad agganciare l‘altraestremità alla propria imbracatura, cominciando a trainarla. Lei sostiene che Lopsang la issò su per ilpendio in gran parte contro i suoi desideri. A questo punto sorge spontanea una domanda: come mai lei,una newyorkese notoriamente autoritaria (era così energica che alcuni neozelandesi al campo basel'avevano soprannominata «Sandy Pit Bull») non si era limitata semplicemente a liberarsi dal metro dicorda che la teneva legata a Lopsang, gesto che avrebbe richiesto semplicemente di allungare la mano esganciare un moschettone?

Pittman spiega che non si sganciò dallo sherpa per rispetto della sua autorità. Per usare le sue parole:«Non volevo ferire i sentimenti di Lopsang». Inoltre dichiara che, pur non avendo controllato l'orologio,la sua impressione fu che lui l'avesse trainata solo per un periodo di tempo lungo «da un'ora a un'ora emezzo»,[33]e non cinque, sei ore, come sostenevano altri scalatori e come ha confermato Lopsang.

Dal canto suo, quando gli è stato chiesto per quale motivo avesse trainato Pittman, per la quale avevaespresso apertamente disprezzo in varie occasioni, Lopsang ha fornito spiegazioni contraddittorie.All'avvocato di Seattle Peter Goldman, che aveva scalato il Broad Peak con Scott e Lopsang nel 1995ed era uno dei primi e più fedeli clienti di Fischer, disse che nell'oscurità aveva scambiato Pittman con lacliente danese Lene Gammelgaard e che aveva smesso di trainarla appena si era reso conto del suoerrore, all'alba. Invece, in una lunga intervista registrata con me, Lopsang ha insistito in modo moltoconvincente sul fatto che sapeva benissimo di trainare Sandy Pittman e che aveva deciso di farlo «perchèScott vuole che tutti i clienti arrivano in cima, e io penso che Sandy sarà la più debole, penso che andràpiano, e così porto lei per prima».

Lopsang, un giovane dotato di grande intuito, era estremamente devoto a Fischer e capiva quanto fosseimportante per il suo amico e datore di lavoro far arrivare sulla vetta la Pittman. In effetti, in una delleultime comunicazioni con Jane Bromet dal campo base, Scott aveva osservato: «Se riesco a portare sullavetta Pittman, scommetto che la inviteranno come ospite a tutti gli spettacoli televisivi. Tu pensi che faràentrare anche me nel suo alone di fama e di celebrità?»

Come ha spiegato Goldman: «Lopsang era totalmente devoto a Scott. Per me è inconcepibile che abbiatrainato qualcuno, e non era fortemente convinto che Scott lo volesse».

Qualunque fosse il motivo, sul momento la decisione di Lopsang di trainare una cliente non sembrò unerrore particolarnente grave; ma avrebbe finito per diventare uno dei tanti piccoli fattori cruciali nel lento

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processo di accumulo che puntava in modo costante e impercettibile verso la formazione di un ammassodi critiche.

Basti dire che [l'Everest] ha i crinali più ripidi e i precipizi più spaventosi che abbia mai visto, e tutto quelparlare che si fa di un facile pendio di neve non è che una favola...

Mia cara, questa è un'esperienza davvero emozionante, non so dirti fino a che punto si è impadronitadelta mia anima, e quali prospettive mi schiude. E poi, la bellezza di tutto questo!

GEORGE LEIGH MALLORY,

in una lettera a sua moglie,

28 giugno 1921

 

        Al di sopra del Colle Sud, nella cosiddetta «Zona della morte», la sopravvivenza si riduce a pocopiù di una corsa contro il tempo. Alla partenza dal Campo Quattro, il 10 maggio, ciascuno dei clientiportava con sè due bombole di ossigeno da tre chili circa, e ne avrebbe prelevata una terza sulla CimaSud, attingendo a un deposito rifornito dagli sherpa. Al ritmo piuttosto blando di due litri al minuto ognibombola durava da cinque a sei ore, quindi verso le quattro o le cinque del pomeriggio l'ossigenosarebbe finito per tutti. A seconda dell'acclimatazione e della tenuta fisiologica individuale, saremmo statiancora in grado di funzionare al di sopra del Colle Sud, ma non bene e non per molto. Saremmo diventatisubito più vulnerabili all'edema polmonare e cerebrale, all'ipotermia, a errori di giudizio e alcongelamento. li rischio di morte sarebbe salito alle stelle.

        Hall, che aveva già scalato l'Everest quattro volte, comprendeva meglio di chiunque altro l'esigenzadi salire e ridiscendere in fretta. Riconoscendo che le capacità tecniche di alcuni dei suoi clienti eranomolto discutibili, intendeva far affidamento sulle corde fisse per salvaguardare tanto il nostro gruppoquanto quello di Fischer e consentirci di superare in fretta il terreno più difficile. Il fatto che quell'anno nonfosse ancora giunta in vetta alcuna spedizione lo preoccupava, quindi, perchè significava che per granparte del percorso non erano state installate delle corde.

        Il 3 maggio Goran Kroppe, lo scalatore solitario svedese, era arrivato a meno di cento metri dallavetta, ma non si era curato di installare delle corde. I montenegrini, che erano arrivati ancora più in alto,avevano sistemato un tratto di corda fissa, ma nella loro inesperienza avevano usato tutta quella cheavevano nei primi 430 metri al di sopra del Colle Sud, sprecandola su un pendio relativamente facile,dove non ce n'era un vero bisogno. Così, la mattina della nostra ascesa, le uniche corde tese lungo leripide seghettature del tratto superiore della Cresta Sud-Est erano alcuni residui vecchi e sbrindellati,avanzi delle spedizioni precedenti, che emergevano dal ghiaccio qua e là.

        In previsione di quell'eventualità, prima di lasciare il campo base Hall e Fischer avevano indetto unariunione di guide delle due squadre, durante la quale avevano concordato che ogni spedizione avrebbeinviato dal Campo Quattro due sherpa - compresi isirdar scalatori, Ang Dorje e Lopsang -con novantaminuti di anticipo sul grosso del gruppo. Questo avrebbe concesso agli sherpa il tempo di installare dellecorde fisse nei tratti più esposti delle pendici superiori prima che arrivassero i clienti. «Rob sottolineò conestrema chiarezza l'importanza di questa misura», ricorda Beidleman. «Voleva evitare a tutti i costi uningorgo che ci avrebbe fatto perdere tempo.»

        Non si sa per quale motivo, tuttavia, la notte del 9 maggio nessuno sherpa lasciò il Colle Sud prima

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di noi. Forse la violenta bufera, che si placò soltanto alle sette e mezza del mattino, impedì loro dimettersi in movimento di buon'ora come avevano sperato di fare. Dopo la spedizione, Lopsang insistettenel dire che all'ultimo momento Hall e Fischer avevano scartato il piano di far installare le corde primadell'arrivo dei clienti, perchè avevano ricevuto l'informazione errata che i montenegrini avevano giàcompletato il lavoro fino alla Cima Sud.

        Tuttavia, se l'asserzione di Lopsang è esatta, nè Beidleman, nè Groom nè Boukreev (le tre guidesuperstiti) furono informate del cambiamento di piani. E se il progetto di installare le corde fosse statoabbandonato intenzionalmente, non si vede perchè Lopsang e Ang Dorje sarebbero dovuti partire con icento metri di corda a testa che portavano con sè al momento di lasciare il Campo Quattro, in testa allerispettive squadre.

        In ogni caso, al di sopra degli 8350 metri non erano state installate corde fisse. Quando Ang Dorjee io arrivammo per primi sul Balcone, alle cinque e mezza, avevamo oltre un'ora di vantaggio sul resto delgruppo di Hall: a quel .punto avremmo potuto facilmente precederlo per andare a installare le corde, maRob mi aveva proibito esplicitamente di farlo e Lopsang era ancora molto più in basso, intento a trainarePittman, quindi non c'era nessuno che potesse accompagnare Ang Dorje.

        Silenzioso e ombroso per natura, Ang Dorje sembrava particolarmente serio mentre stavamoseduti insieme ad aspettare, ammirando il sorgere del sole: tutti i miei tentativi di attaccare discorsocaddero nel vuoto. Pensai che il malumore fosse dovuto all'ascesso a un dente che lo tormentava da duesettimane. O forse meditava sulla visione inquietante che aveva avuto quattro giorni prima: l'ultima seratrascorsa al campo base, lui e altri sherpa avevano festeggiato l'imminente assalto alla vetta bevendo unagran quantità dichhang , una birra densa e dolce ricavata dalla fermentazione di riso e miglio. La mattinadopo, oppresso dai postumi della sbornia, Ang Dorje era apparso molto agitato e prima di affrontare laseraccata aveva confidato a un amico di avere visto degli spettri durante la notte. Ang Dorje, un giovaneestremamente attento agli aspetti spirituali della vita, non era tipo da prendere alla leggera certi portenti.

        Comunque c'era anche la possibilità che fosse semplicemente in collera con Lopsang, .chegiudicava un esibizionista. Nel 1995 Hall li aveva ingaggiati entrambi per la sua spedizione sull'Everest,ma i due sherpa non avevano lavorato bene insieme.

        Quell'anno, il giorno dell'assalto alla vetta la squadra di Hall era arrivata tardi alla Cima Sud, versol'una e mezza del pomeriggio, e aveva trovato l'ultimo tratto del crinale della vetta ricoperto da una coltredi neve alta e instabile. Hall aveva mandato Lopsang, anzichè Ang Dorje, ad accertare la fattibilità dellascalata insieme a una guida neozelandese che si chiamava Guy Cotter; e Ang Dorje, che era ilsirdar dellaspedizione, lo aveva considerato un insulto. Poco dopo, quando Lopsang era salito fino alla base delloHillary Step, Hall aveva deciso di rinunciare alla conquista della vetta, segnalando a Cotter e Lopsang ditornare indietro; ma Lopsang aveva ignorato l'ordine, si era staccato dalla guida per continuare da solol'ascesa fino alla vetta. Hall era andato in collera per l'insubordinazione di Lopsang, e Ang Dorje avevacondiviso il suo malcontento.

Ora, anche se facevano parte di squadre diverse, Ang Dorje aveva ricevuto di nuovo la richiesta dicollaborare con Lopsang il giorno della scalata alla vetta, e ancora una volta l'altro sherpa si eracomportato in modo irresponsabile. Per sei lunghe settimane Ang Dorje aveva fatto ben più del suodovere; ora, evidentemente, era stanco di fare più della sua parte. Con un'espressione imbronciata, restòseduto sulla neve insieme a me, aspettando l'arrivo di Lopsang, e le corde non furono fissate.

Di conseguenza m'imbattei nel primo ingorgo un'ora e mezzo dopo aver lasciato il Balcone, alla quota di8530 metri; in quel punto le squadre delle varie spedizioni, ormai mescolate fra loro, incontrarono unaserie di massicci gradoni di pietra che richiedevano l'uso delle corde per garantire un passaggio sicuro. I

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clienti si raggrupparono irrequieti per quasi un'ora alla base della roccia, mentre Beidleman, assumendosiil compito che sarebbe toccato all'assente Lopsang, tendeva laboriosamente la corda. .

A quel punto l'impazienza e l'inesperienza tecnica della cliente di Hall, Yasuko Namba, rischiò diprovocare una catastrofe. Abile funzionaria della Federal Express di Tokyo, Yasuko non corrispondevaaffatto allo stereotipo della giapponese di mezza età mite e deferente; in casa, mi aveva spiegato con unarisatina, era suo marito a cucinare e fare le pulizie. La sua ambizione di scalare l'Everest si era trasformataper il Giappone in una piccola ma autenticacause celèbre . Nelle fasi precedenti della spedizione avevarivelato una tecnica alpinistica lenta e incerta, ma quel giorno, in vista della vetta, era galvanizzata comenon mai. «Da quando eravamo arrivati sul Colle Sud», dice John Taske, che aveva diviso la tenda con leial Campo Quattro, «Yasuko era tutta concentrata sulla vetta; era come se fosse in trance.» Fin daquando aveva lasciato il Colle era estremamente motivata e faceva di tutto per raggiungere i primi postidella fila.

Ora, mentre Beidleman era aggrappato alla roccia in equilibrio precario, cento metri al di sopra deiclienti, Yasuko in un eccesso di impazienza agganciò la sua maniglia jumar alla corda penzolante primache la guida ne avesse ancorato l'estremità. Proprio quando stava per affidare tutto il peso del suo corpoalla corda, manovra che avrebbe fatto precipitare Beidleman, intervenne Mike Groom, appena in tempo,rimproverandola con dolcezza per la sua eccessiva impazienza.

L'ingorgo di traffico ai piedi delle corde cresceva a ogni nuovo arrivo, cosicchè quelli in fondo al grupporestavano sempre più indietro. Alla fine della mattmata, tre clienti di Hall – Stuart Hutchison, John Taskee Lou Kasischke, che salivano fra gli ultimi insieme a Hall - incominciarono a preoccuparsi diquell'andatura pigra. Subito prima di loro c'era la squadra di Taiwan, che si muoveva a un ritmoparticolarmente lento. «Salivano con uno stile davvero curioso, stando molto vicini fra loro», osservaHutchinson, «quasi come fette in una forma di pane, uno dietro l'altro, il che rendeva quasi impossibilesuperarli. Si perdeva un sacco di tempo ad aspettare che salissero lungo le corde.»

Al campo base, nei giorni precedenti alla scalata della vetta, Hall aveva preso in esame due possibiliorari limite, l'una o le due del pomeriggio, allo scadere dei quali saremmo dovuti tornare indietro; perònon aveva mai dichiarato quale dei due orari avremmo dovuto rispettare, e questo era curioso se si pensaa quanto aveva insistito sull'importanza di indicare un limite invalicabile e di attenervisi a tutti i costi.Eravamo rimasti con la vaga intesa che Hall avrebbe rinviato la decisione finale all'ultimo giorno, dopoaver valutato le condizioni del tempo e altri fattori, e poi si sarebbe assunto personalmente laresponsabilità di far tornare indietro tutti all'ora giusta.

Verso la metà della mattinata del 10 maggio, Hall non aveva ancora annunciato quale sarebbe stato illimite orario alla scadenza del quale si doveva tornare indietro. Hutchison, conservatore per natura,partiva dal presupposto che fosse fissato per l'una; verso le undici, Hall disse a Hutchison e Taske chemancavano ancora tre ore per raggiungere la vetta, poi scattò in avanti per tentare di superare i taiwanesi.«Sembrava sempre meno probabile che avremmo avuto la possibilità di salire sulla vetta prima del limitedell'una», osserva Hutchison. Ne nacque una breve discussione. Da principio Kasischke era restio adaccettare la sconfitta, ma Taske e Hutchison si mostrarono convincenti. Alle undici e mezza i trevoltarono le spalle alla vetta, decidendo di tornare indietro, e Hall incaricò gli sherpa Kami e LhakpaChhiri di accompagnarli.

Decidere di scendere dev'essere stato estremamente difficile per quei tre clienti, come del resto perFrank Fischbeck, che era tornato indietro già da qualche ora. La passione per la montagna fa sì che glialpinisti, uomini o donne che siano, non si lascino sviare facilmente dai loro obiettivi: a quel punto dellaspedizione, ormai prossimi alla meta, tutti noi avevamo subìto disagi e pericoli che già da tempoavrebbero fatto scappare a gambe levate degli individui più equilibrati. Per arrivare fino a quel punto era

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necessario avere una personalità insolitamente tenace.

Purtroppo il tipo di individuo che è programmato per ignorare i disagi personali e continuare a puntareverso la vetta, spesso è programmato anche per ignorare i segnali di pericolo grave e imminente. Questoè il nocciolo di un dilemma di fronte al quale prima o poi si ritrovano tutti gli scalatori dell'Everest: perraggiungere il successo bisogna essere estremamente motivati, ma se si è troppo motivati si rischia lamorte. Sopra i 7900 metri, inoltre, la linea di confine fra la giusta dose di zelo e la sfrenata febbre dellavetta diventa pericolosamente sottile: è per questo che le pendici dell'Everest sono costellate di cadaveri.

Taske, Hutchison, Kasischke e Fischbeck avevano speso come minimo settantamila dollari a testa etrascorso settimane infernali per vedersi concedere quell'unico tentativo di raggiungere la vetta. Erano tuttiuomini ambiziosi, non avvezzi a perdere e meno ancora a mollare; eppure, posti di fronte a una decisionedifficile, furono tra i pochi a fare la scelta giusta, quel giorno.

Al di sopra del gradino di roccia sul quale John, Stuart e Lou tornarono indietro, le corde fisse finivanodi colpo. Da quel punto in poi il percorso si impennava e la cresta di neve compattata dal ventoculminava nella Cima Sud, dove arrivai alle undici di mattina ritrovandomi bloccato in un secondoingorgo, ancora peggiore del primo. Poco più in alto, in apparenza a non più di un tiro di sasso, c'era ilrisalto verticale dello Hillary Step, e appena più avanti la cima vera e propria. Istupidito dal timorereverenziale e dalla stanchezza, scattai alcune foto, poi mi sedetti insieme alle guide Andy Harris, NealBeidleman e Anatoli Boukreev in attesa che gli sherpa fissassero le corde lungo il crinale della vetta,racchiuso in quella cornice spettacolare.

Notai che Boukreev non usava l'ossigeno, come Lopsang. Anche se il russo aveva già scalato due voltel'Everest senza ricorrere all'ossigeno, e Lopsang tre volte, mi sorprese che Fischer avesse consentito lorodi fare da guide fino alla vetta senza ossigeno, perchè questo non mi sembrava nell'interesse dei clienti.Mi sorprese anche il fatto che Boukreev non portasse lo zaino: per consuetudine ogni guida porta unozaino che contiene corda, necessario per il pronto soccorso, materiale per il recupero dai crepacci, capidi abbigliamento in più e altri generi necessari per assistere i clienti in caso di emergenza. Boukreev era laprima guida che avessi mai visto ignorare questa convenzione, su qualsiasi montagna.

Saltò fuori che era partito dal Campo Quattro portando con sè tanto lo zaino quanto la bombola diossigeno; in seguito mi disse che, pur non avendo intenzione di usare l’ossigeno, voleva averne unabombola a portata di mano nel caso che «si sentisse fiacco» e ne avesse bisogno sulla vetta. Dopo avereraggiunto il Balcone, tuttavia, si era liberato dello zaino, consegnando a Beidleman la bombola, lamaschera e il regolatore perchè glieli portasse lui. poichè Boukreev non ricorreva all'ossigeno perrespirare, aveva deciso evidentemente di ridurre il carico al minimo indispensabile, per essere piùavvantaggiato in quell'aria spaventosamente rarefatta.

Il crinale era spazzato da un vento alla velocità di venti nodi, che sollevava un turbine di nevischio in altosopra la parete Kangshung, ma, sopra, il cielo era di un azzurro così intenso da ferire gli occhi. Oziandoal sole all'altezza di 8750 metri, protetto dalla pesante tuta imbottita e immerso nella contemplazione deltetto del mondo, persi del tutto la nozione del tempo, scivolando in un torpore causato dallà carenza diossigeno. Nessuno di noi prestò molta attenzione al fatto che Ang Dorje e Ngawang Norbu, un altrosherpa della squadra di Hall, erano seduti accanto a noi e si dividevano un thermos di tè, senza mostrarela minima fretta di salire più in alto. Verso le undici e quaranta Beidleman chiese finalmente: «Ehi, AngDorje, non dovresti fissare le corde, o qualcosa del genere?» La risposta di Ang Dorje fu un secco einequivocabile: «No», forse perchè non c'era nessuno degli sherpa di Fischer a dividere il lavoro con lui.

Sempre più allarmato al pensiero della folla che si formava sulla Cima Sud, Beidleman riscosse infineHarris e Boukreev, suggerendo energicamente di installare tutti e tre le corde, di persona. Sentendo le

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sue parole, mi offrii subito volontario per aiutarli. Beidleman estrasse dallo zaino un tratto di corda diquarantacinque metri e, a mezzogiorno, ci mettemmo all'opera insieme a Boukreev e Harris per fissare lecorde fino al crinale della vetta; ma intanto era trascorsa un'altra ora.

Non bisogna credere che respirando l'ossigeno della bombola la vetta dell'Everest diventi come il livellodel mare. Salendo oltre la Cima Sud con il regolatore che lasciava passare poco meno di due litri diossigeno al minuto, dovevo fermarmi ad aspirare tre o quattro boccate d'aria dopo ogni passo compiutocon ponderazione. Poi facevo un altro passo e dovevo fermarmi di nuovo a respirare altre quattroboccate; e quella era l'andatura più veloce che riuscissi a mantenere. Poichè il sistema che usavamoerogava una miscela di gas compresso e aria atmosferica, un'altitudine di 8840 metri con l'ossigenoequivaleva all'incirca a una di 7900 metri senza. Comunque l'ossigeno assicurava altri vantaggi, che nonera altrettanto facile quantificare.

Mentre salivo lungo il filo della cresta sommitale aspirando ossigeno nei polmoni malconci, assaporavouno strano e ingiustificato senso di calma. Il mondo oltre la maschera di gomma era stupendamentevivido, ma non sembrava del tutto reale, come se mi proiettassero davanti agli occhiali un film alrallentatore. Mi sentivo stordito, distaccato, del tutto isolato dagli stimoli esterni. Dovevo rammentare dicontinuo a me stesso che ai lati c'erano oltre duemila e cento metri di vuoto, che lì tutto era a rischio, cheogni passo falso lo avrei pagato con la vita.

Mezz'ora dopo aver superato la Cima Sud mi trovai ai piedi dello Hillary Step, uno dei luoghi più famosidella storia dell'alpinismo. Con i suoi dodici metri di roccia e ghiaccio quasi verticali apparivaimpegnativo, ma, come ogni altro scalatore che si rispetti, avrei voluto con tutte le mie forze prendere ilcomando e guidare la cordata sullo Step. Era chiaro, tuttavia, che anche Boukreev, Beidleman e Harrisnutrivano tutti la stessa ambizione, e pensare che uno di loro fosse disposto a cedere a un cliente uncompito così ambito era, da parte mia, una pura illusione scaturita dall'ipossia.

Alla fine fu Boukreev a rivendicare quell'onore per sè, dal momento che era la guida più anziana e l'unicodi noi che avesse già scalato l'Everest; con Beidleman che svolgeva la corda, si esibì in un'arrampicatamagistrale. Tuttavia fu un procedimento lento e, mentre lui saliva con pedante lentezza verso la sommitàdello Step, io controllavo nervosamente l'orologio, chiedendomi se l'ossigeno mi sarebbe bastato. Laprima bombola si era esaurita alle sette di mattina sul Balcone, dopo sette ore: utilizzando questo datocome riferimento, sulla Cima Sud avevo calcolato che la seconda bombola sarebbe finita verso le due, estupidamente avevo creduto che questo mi lasciasse tempo in abbondanza per raggiungere la vetta etornare alla Cima Sud per recuperare la terza bombola di ossigeno. Ormai, però, era l'una passata ecominciavo ad avere seri dubbi in proposito.

Una volta in cima allo Step, esposi la mia ansia a Beidleman, per chiedere se gli dispiaceva che miaffrettassi verso la vetta invece di aiutarlo ad assicurare l'ultimo tratto di corda lungo la cresta. «Va’pure»,mi rispose lui con generosità. «Alla corda penserò io.»

Percorrendo a fatica gli ultimi passi verso la vetta, provai la sensazione di muovermi sott'acqua, diprocedere al rallentatore. E poi mi ritrovai in cima a un gradino di ghiaccio, adorno di una bombola diossigeno vuota e di un ammaccato tripode di alluminio del servizio geodetico: non c’era più nulla dascalare. Una fila di bandiere di preghiera buddhiste schioccava furiosamente al vento. Ai miei piedi, infondo a un versante della montagna sul quale non avevo mai posato lo sguardo, si stendeva finoall'orizzonte l'arido altopiano del Tibet, una sconfinata distesa di terra color ocra.

Si ritiene che la conquista della vetta dell'Everest dovrebbe far scattare un'ondata di intensa esultanza;dopo tutto, ero appena riuscito a raggiungere, contro ogni speranza, un obiettivo che sognavo fin dabambino. Ma la vetta, in realtà, era solo il punto centrale del viaggio: ogni tentazione di congratularmi con

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me stesso fu spenta dalla crescente apprensione per la lunga e rischiosa discesa che mi attendeva.

Non solo in salita, ma anche in discesa la mia forza di volontà si spegne. Più scendo, meno importante miappare la meta, più mi sento indifferente verso me stesso. L’attenzione ha ceduto, la memoria èindebolita. La spossatezza mentale è ora ancora più grande di quella fisica. E’così piacevole starseneseduti senza fare nulla e per questo è tanto pericoloso. La morte per sfinimento, come quella percongelamento, è una morte piacevole.

REINHOLD MESSNER

Orizzonti di ghiaccio

 

        Avevo nello zaino una bandierina della rivistaOutside , un piccolo stendardo abbellito da unalucertola fantastica ricamata da mia moglie Linda, più alcuni altri ricordi con i quali intendevo posare peruna serie di foto trionfali. Tuttavia, cosciente che la mia riserva di ossigeno era ormai agli sgoccioli, lasciaitutto nello zaino, sostando in cima al mondo appena il tempo sufficiente per scattare in fretta quattroistantanee di Andy Harris e Anatoli Boukreev in posa davanti al palo di segnalazione fissato sulla vettadal servizio geodetico, e poi mi voltai per tornare indietro. Una ventina di metri più in basso incrociaiNeal Beidleman e un cliente di Fischer, che si chiamava Martin Adams, diretti verso la cima. Dopo averescambiato un saluto esultante con Neal, palma contro palma, afferrai una manciata di sassi da un trattoscoperto di scisto battuto dal vento, infilai quei souvenir nella tasca della tuta imbottita e mi affrettai ascendere dalla cresta.

        Un attimo prima avevo notato che le vallate a sud si erano riempite di bioccoli di nubi cheoscuravano tutte le vette, tranne le più alte. Adams, piccolo e battagliero texano che ha fatto fortunavendendo obbligazioni durante il boom degli anni ottanta, è anche un pilota esperto, che ha al suo attivomolte ore di volo al di sopra del tetto di nuvole; in seguito mi ha detto che in quegli sbuffi di vaporeacqueo dall'aria così innocua aveva riconosciuto la sommità di minacciose nubi temporalesche subitodopo avere raggiunto la vetta. «A bordo di un aereo, quando vedi uno di quei nuvoloni», mi spiegò, «laprima reazione che hai è filartela, ed è esattamente quello che ho fatto.»

        A differenza di Adams, io non avevo l’abitudine di osservare cumulonembi in formazione all'altezzadi ottomilaottocento metri, e quindi rimasi all'oscuro della tempesta che si stava addensando proprio inquel momento. Le mie ansie, invece, erano tutte imperniate sulla riserva di ossigeno sempre più scarsa,della mia bombola.

        Un quarto d'ora dopo aver lasciato la vetta, arrivai in cima allo Hillary Step, dove m'imbattei in ungruppo di scalatori che risalivano ansimando lungo l'unica corda, e la mia discesa conobbe una sostaobbligata. Mentre aspettavo che si diradasse la folla, mi raggiunse Andy, anche lui in discesa. «Jon», midisse «ho l’impressione che non mi arrivi aria a sufficienza. Potresti dirmi se per caso la valvola dialimentazione della mia bombola è ghiacciata?»

        Un rapido controllo rivelò che un grumo di saliva ghiacciata grosso quanto un pugno bloccava lavalvola di gomma che immetteva nella .maschera l'aria atmosferica. Lo spezzai con la piccozza, poi chiesia Andy di ricambiarmi il. favore chiudendo il regolatore, perchè volevo risparmiare ossigeno finchè loStep non fosse stato libero. Lui per. errore aprì la valvola invece di chiuderla, e dieci minuti dopo il mioossigeno era finito. Le mie funzioni razionali, che già prima erano molto ridotte, scesero subito inpicchiata; mi sentivo come se mi avessero propinato un'overdose di un potente sedativo.

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        Mentre aspettavo, ricordo vagamente di aver visto Sandy Pittman salire, diretta verso la cima,seguita dopo un periodo di tempo indeterminato da Charlotte Fox e poi da Lopsang Jangbu. Subitodopo, proprio al di sotto della mia precaria posizione, si materializzò Yasuko, tutta presa dalle difficoltàtecniche dall'ultimo tratto dello Step, che era anche il più ripido. Nell'impossibilità di aiutarla, la guardailottare per quindici minuti nello sforzo di issarsi sulla cornice superiore di roccia, troppo esausta perriuscirci. Alla fine Tim Madsen, che aspettava impaziente proprio alle sue spalle, la sospinse oltre il ciglioassestandole una spinta con le mani sotto le natiche.

        Poco dopo comparve Rob Hall e io, mascherando il panico crescente, lo ringraziai per avermiguidato sulla vetta dell'Everest. «Sì, in effetti si è rivelata una spedizione piuttosto valida», replicò,aggiungendo che Frank Fischbeck, Beck Weathers, Lou Kasischke, Stuart Hutchison e John Taskeerano tornati indietro. Benchè mi trovassi in uno stato di imbecillità ipossica, mi pareva evidente che Hallera profondamente deluso dal fatto che cinque dei suoi otto clienti avessero ceduto le armi, sentimentoche sospettavo fosse amplificato dalla constatazione che invece il gruppo di Fischer sembravaintenzionato a puntare verso la vetta al gran completo. «Avrei voluto soltanto riuscire a portare in vetta unmaggior numero di clienti», si lamentò infatti Rob, prima di proseguire.

        Subito dopo arrivarono Adams e Boukreev, che in attesa di proseguire la discesa si fermaronopoco più in alto di me per aspettare che il traffico si diradasse. Un minuto dopo, l'affollamento in cimaallo Step aumentò, man mano che Makalu Gau, Ang Dorje e parecchi altri sherpa risalivano lungo lacorda, seguiti da Doug Hansen e Scott Fischer. Poi, finalmente, lo Hillary Step fu libero, ma solo dopoche ormai avevo trascorso oltre un'ora all'altezza di ottomilaottocento metri senza ossigenosupplementare.

        A quel punto ebbi l'impressione che interi settori della mia corteccia cerebrale avessero chiuso perferie. Stordito e preoccupato di non perdere i sensi, fui assalito dalla frenesia di raggiungere la Cima Sud,dove mi aspettava la terza bombola di ossigeno. Incominciai cautamente la discesa lungo le corde fisse,irrigidito dal terrore. Appena oltrepassato lo Step, Anatoli e Martin mi superarono e continuarono infretta la discesa. Proseguii con estrema cautela lungo la corda tesa della cresta, ma quindici metri al disopra del deposito di bombole la corda finì e io mi fermai, esitando al pensiero di proseguire senzaossigeno.

        Sulla sommità della Cima Sud, intravidi Andy Harris intento a esaminare una pila di bombole diossigeno arancioni. «Ehi, Harold!» gridai. «Potresti portarmi una bombola'nuova?»

«Qui non c'è ossigeno!» mi gridò di rimando la guida. «Queste bombole sono tutte vuote!» Era unanotizia sconvolgente. Il mio cervello reclamava ossigeno a gran voce, e io non sapevo cosa fare. Proprioin quel momento mi raggiunse Mike Groom, che scendeva dalla vetta. Mike aveva scalato l'Everest nel1993 senza ossigeno e non si preoccupava troppo di restare senza, quindi mi cedette la sua bombola einsieme ci affrettammo a raggiungere la Cima Sud.

Quando arrivammo, un esame del deposito di ossigeno rivelò subito che c'erano almeno sei bombolepiene. Andy, però, si rifiutava di crederci; seguitava a insistere che erano tutte vuote, e niente di quelloche Mike o io dicevamo riuscì a convincerlo del contrario.

L'unico modo per sapere quanto ossigeno c'è in una bombola è collegarla al proprio regolatore e leggereil quadrante; probabilmente è in questo modo che Andy controllò le bombole alla Cima Sud. Dopo laspedizione, Neal Beidleman fece notare che, se il regolatore di Andy si era inceppato a causa delghiaccio, forse l'indicatore registrava vuoto anche se le bombole erano piene; in effetti questo avrebbespiegato la sua curiosa ostinazione. E se il regolatore era bloccato e non immetteva ossigeno nellamaschera, questo avrebbe giustificato l'apparente mancanza di lucidità di Andy.

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Tuttavia in quel momento questa possibilità, che ora sembra così evidente, non venne in mente nè a menè a Mike. A ripensarci adesso, Andy si comportava in modo irrazionale ed era chiaramente scivolatoben oltre lo stadio di ipossia abituale, ma ero così stordito anch'io che non me ne resi conto.

La mia incap,acità di riconoscere anche le realtà più ovvie era accentuata in una certa misura dalprotocollo che regola i rapporti fra guida e cliente. Andy e io eravamo simili dal punto di vista dellecapacità atletiche e dell'esperienza tecnica e, se fossimo saliti alla pari come compagni di scalata, in unasituazione svincolata dal rapporto guida-cliente, sarebbe stato inconcepibile che non mi rendessi contodel suo stato; ma in quella spedizione lui era stato proiettato nel ruolo di guida infallibile, che era lì perprendersi cura di me e degli altri clienti. Eravamo stati indottrinati. in modo specifico a non mettere mai indiscussione il giudizio delle guide, e quindi non mi passò neanche per la mente - per quella menteottenebrata - che in effetti Andy potesse trovarsi nel pieno di una crisi terribile, che una guida potesseavere urgente bisogno di aiuto da parte mia.

Mentre Andy continuava a sostenere che sulla Cima Sud non c'erano bombole piene, Mike mi guardòcon aria interrogativa. lo ricambiai l'occhiata con una scrollata di spalle e, rivolgendomi a Andy, gli dissi:«Non fa niente, Harold. Molto rumore per nulla». Poi afferrai una bombola nuova, la collegai al mioregolatore e ripresi la discesa. Tenuto conto degli avvenimenti delle ore seguenti, la facilità con la qualeabdicai alle mie responsabilità, ignorando del tutto la possibilità che Andy si trovasse in seri guai, fu unerrore che probabilmente continuerà a ossessionarmi per tutta la vita.

Verso le tre e mezza lasciai la Cima Sud, precedendo Mike, Yasuko e Andy, per ritrovarmi quasi subitoin mezzo a un fitto strato di nubi. Cominciò una leggera nevicata. In quella luce piatta e sempre più fiocariuscivo a stento a capire dove finiva la montagna e dove cominciava il cielo. Sarebbe stato facilissimofinire oltre la sommità del crinale e scomparire per sempre nel nulla; e la situazione continuò a peggiorareman mano che scendevo.

Arrivato in fondo ai gradini di roccia della Cresta Sud-Est, mi fermai insieme a Mike per aspettareYasuko, che era in difficoltà con le corde fisse. Mike tentò di chiamare Rob alla radio, ma la suatrasmittente funzionava solo a intermittenza e lui non riuscì a stabilire il contatto. Con Mike che sioccupava di Yasuko, e tanto Rob quanto Andy che accompagnavano Doug Hansen - l'unico altro clienteche si trovava ancora più in alto di noi - immaginai che la situazione fosse sotto controllo. Così, quandoYasuko ci raggiunse, chiesi a Mike il permesso di proseguire da solo. «Va bene», mi rispose. «Bada soloa non finire giù dalle cornici.»

Verso le quattro e tre quarti del pomeriggio, quando arrivai al Balcone, il promontorio alto 8410 metrisulla Cresta Sud-Est dove mi ero seduto a contemplare l'alba con Ang Dorje, restai sbalorditonell'incontrare Beck Weathers che se ne stava lì impalato, da solo, sotto la neve, scosso da violentibrividi. Avevo dato per scontato che fosse sceso al Campo Quattro già da qualche ora. «Beck!»esclamai. «Che diavolo ci fai, quaggiù?»

Anni prima, Beck si era sottoposto a un intervento di cheratotomia radiale[34]per correggere la miopia.Un effetto collaterale dell'operazione, che aveva scoperto fin dai primi giorni di permanenza sull'Everest,era che la bassa pressione barometrica delle alte quote gli causava un abbassamento della vista. Piùsaliva in alto e la pressione barometrica scendeva e più la sua vista peggiorava.

Il pomeriggio precedente, mentre saliva dal Campo Tre al Campo Quattro, mi confessò Beck, la suavista era peggiorata «al punto che non riuscivo a vedere più in là di qualche metro. Così non ho fatto altroche mettermi alle calcagna di John Taske e, quando sollevava un piede, non facevo altro che mettere ilmio nell'orma che lui aveva lasciato».

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In precedenza Beck aveva parlato apertamente del suo problema, ma con l'avvicinarsi della vetta avevaomesso di accennare a quel peggioramento con Rob o con chiunque altro. Nonostante i disturbi agliocchi, arrampicava senza problemi e si sentiva più forte che all'inizio della spedizione e, come mi spiegòpoi: «Non volevo darmi per vinto prima del tempo».

Durante la notte, salendo dalla Cima Sud, Beck era riuscito a tenersi al passo con il gruppo adottando lastessa strategia che aveva utilizzato il pomeriggio precedente, mettendo i piedi sulle orme della personache lo precedeva. Quando però aveva raggiunto il Balcone e il sole si era levato alto nel cielo, lui si eraaccorto che la sua vista era ulteriormente peggiorata; per giunta, inavvertitamente si era sfregato sugliocchi dei cristalli di ghiaccio, procurandosi delle lesioni a entrambe le cornee.

A quel punto», rivelò Beck, «avevo un occhio completamente appannato, mentre con l'altro riuscivo astento a vedere e avevo perso la percezione della profondità. Mi sono reso conto che non ci vedevoabbastanza bene per salire più in alto senza .diventare un pericolo per me o un peso per qualcun altro,così ho spiegato a Rob quello che stava succedendo.»

«Mi spiace, amico», aveva decretato subito Rob, «ma devi , scendere. Manderò giù con te uno deglisherpa.» Beck, però, non era del tutto pronto a rinunciare alle speranze di raggiungere la vetta: «Hospiegato a Rob che esistevano buone probabilità che la vista migliorasse, una volta che il sole fosse salitopiù in alto e le pupille si fossero contratte. Dissi che volèvo aspettare ancora un po’e poi, se avessicominciato a vederci meglio, salire alla svelta seguendo le orme di qualcun altro».

Rob aveva riflettuto sulla proposta di Beck, poi aveva deciso: «D'accordo, mi sembra abbastanzaragionevole. Ti concederò mezz'ora per scoprire se è possibile, ma non posso lasciarti scendere da solofino al Campo Quattro. Se la tua vista non migliora entro trenta minuti, voglio che tu resti qui, in modo dasapere esattamente dove sei finchè non ridiscendo dalla vetta, e poi potremo andare giù insieme. Devoinsistere su questo punto: o scendi adesso, oppure promettimi che resterai qui fino al mio ritorno».

«Così ho giurato con una croce sul cuore e 'potessi morire'», mi spiegò Beck di buon umore, mentrestavamo fermi lì sotto le raffiche di neve e la luce diminuiva sempre più. «E ho mantenuto la parola, eccoperchè sono ancora qui.»

Poco dopo mezzogiorno, Stuart Hutchison, John Taske e Lou Kasischke erano passati di lì durante ladiscesa insieme con Lhakpa e Kami, ma Weathers aveva deciso di non accompagnarli. «Il tempo eraancora buono», mi spiegò, «e a quel punto non vedevo motivo di mancare alla promessa fatta a Rob.»

Ora, però, stava facendo buio e le condizioni del tempo cominciavano a diventare proibitive. «Scendicon me», lo pregai, «Ci vorranno almeno due o tre ore prima che Rob si faccia vedere. io sarò i tuoiocchi. Ti porterò giù senza problemi.» Beck si era quasi lasciato convincere a venire con me, quandocommisi l'errore di accennare al fatto che Mike Groom stava scendendo con Yasuko, pochi minuti dietrodi me. In una giornata costellata di errori, quello si sarebbe rivelato uno dei più gravi «Grazie lo stesso»,mi disse Beck. «Penso che aspetterò Mike. Lui ha una corda e potrà portarmi in cordata fino al campo.»

«D'accordo, Beck», replicai. «Sta a te decidere.. Ci vediamo al campo, allora.» Dentro di me, erosollevato al pensiero di non dovermi occupare di lui nella discesa che mi aspettava lungo pendiiproblematici, in gran parte non protetti da corde fisse. La luce del giorno stava svanendo, il tempopeggiorava, le mie riserve di energia erano allumicino; eppure non avevo ancora la percezione che ildisastro era in agguato dietro l'angolo. Anzi, dopo aver parlato con Beck persi anche del tempo arecuperare una bombola vuota che avevo lasciato sepolta nella neve all'andata, dieci ore prima.Desiderando portare via dalla montagna tutti i miei rifiuti, la ficcai nello zaino insieme con le altre due (una

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vuota, una piena solo in parte), prima di affrettarmi a riprendere la discesa verso il Colle Sud, 480 metripiù in basso.

 

Dal Balcone scesi senza problemi per alcune centinaia di metri lungo un canalone ampio e poco ripido,pieno di neve, ma poi la situazione cominciò a farsi critica. Il percorso procedeva a zigzag fra affioramentidi sfasciumi ricoperti da una coltre di neve fresca alta quindici centimetri. Superare quel terreno instabile einfido richiedeva una concentrazione ininterrotta, impresa quasi impossibile nel mio stato paragonabile aquello di un ubriaco.

Poichè il vento aveva cancellato le tracce degli alpinisti che erano scesi prima di me, stentavo aindividuare il giusto percorso. Proprio in quel punto, nel 1993, il compagno di Mike Groom, LopsangTshering Bhutia, un esperto scalatore himalayano, nipote di Tenzing Norgay, aveva sbagliato una svoltaed era precipitato, trovando la morte. Nel tentativo spasmodico di mantenere la presa sulla realtà,cominciai a parlare a voce alta. «testa a posto, testa a posto, testa a posto» ripetevo ininterrottamente,come un mantra. «Non puoi permetterti di mandare tutto a puttane, quassù. Questa è una situazionemolto seria. «Testa a posto.»

Mi sedetti a riposare su un'ampia cengia inclinata, ma pochi, minuti dopo un boato assordante mispaventò, spingendomi ad , alzarmi. Ormai si era accumulata tanta neve fresca da farmi temere che unamassiccia valanga si fosse messa in moto sulle pendici soprastanti, ma quando mi voltai non vidi niente.Poi si sent’un altro boato, accompagnato da un lampo che illuminò per un attimo il cielo, e mi resi contoche quel fragore era il rombo del tuono.

Al mattino, durante la salita mi ero sforzato di studiare di continuo il percorso in quel tratto dellamontagna, cercando di individuare punti di riferimento che fossero utili nella discesa e imprimendomi ilterreno nella memoria con insistenza ossessiva: «Ricordati di svoltare a sinistra all'altezza di quel bastioneche somiglia alla prua di una nave. Poi segui quella cresta sottile di neve fin che devia bruscamente adestra». Era un esercizio al quale mi ero allenato molti anni prima, un rituale che mi imponevo di seguireogni volta che compivo una scalata e che forse sull'Everest mi ha salvato la vita. Alle sei del pomeriggio,mentre il temporale si trasformava in una tormenta in piena regola, con folate di neve e venti di velocitàsuperiore ai sessanta nodi, m'imbattei nella fune che era stata fissata dai montenegrini sul pendio innevato,circa centottanta metri al di sopra del Colle Sud. Reso più lucido dalla violenza della tempesta che siandava scatenando, mi resi conto di avere superato il tratto più insidioso appena in tempo.

Avvolgendomi la corda fissa intorno alle braccia per calarmi, continuai a scendere in mezzo alla tormentadi neve. Qualche minuto dopo, assalito da una fastidiosa sensazione familiare di soffocamento, mi accorsiche l'ossigeno si era esaurito di nuovo. Tre ore prima, quando avevo collegato il regolatore alla terza eultima bombola di ossigeno, avevo notato che l'indicatore segnalava che la bombola era piena solo permetà, ma avevo calcolato che mi sarebbe bastata per gran parte della discesa, e quindi non mi ero curatodi scambiarla con una piena. E ora l'ossigeno era finito.

Mi tolsi la maschera dal viso, lasciandola penzolare intorno al collo, e proseguii con sorprendenteindifferenza; tuttavia senza l'aiuto dell'ossigeno i miei movimenti erano rallentati e dovevo fermarmi piùspesso a riposare.

La letteratura dell'Everest è ricca di racconti di allucinazioni che si possono attribuire alla stanchezza ealla carenza di ossigeno. Nel 1933, il noto scalatore inglese Frank Smythe aveva osservato «due curiosioggetti che fluttuavàno nel cielo» proprio sopra di lui, a 8230 metri circa: «[Uno] possedeva delleappendici simili ad ali tozze e poco sviluppate, mentre l’altro aveva una protuberanza che faceva pensare

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a un becco. Si libravano nell'aria restando immobili, ma sembravano pulsare lentamente». Nel 1980,durante la sua scalata solitaria, Reinhold Messner aveva immaginato che un compagno invisibile salisseaccanto a lui. Pian piano mi resi conto che anche la mia mente era partita per la tangente, osservando conun misto di attrazione affascinata e orrore il mio lento distacco dalla .realtà.

Mi ero spinto a tal punto oltre i limiti della normale spossatezza fisica, che provavo una sorta di bizzarrodistacco dal mio corpo, come se stessi osservando la mia discesa stando a qualche metro di altezza.Immaginavo di indossare un cardigan verde, con un paio di babbucce a punta ai piedi e, nonostante che ilvento producesse un calo della temperatura che andava oltre i 20 gradi sotto zero, avvertivo un calorestrano e fastidioso.

Alle sei e mezzo, mentre svaniva dal cielo l'ultimo chiarore diurno, ero arrivato a meno di sessanta metriin verticale dal Campo Quattro. Un solo ostacolo, ormai, si frapponeva fra me e la salvezza: una gobbadi ghiaccio duro e vetroso che avrei dovuto superare senza corda. Pungenti pallottole di neve, sospinteda raffiche di vento da settanta nodi, mi bersagliavano il viso e qualunque porzione di pelle restassescoperta si congelava all'istante. Le tende, a meno di duecento metri di distanza da me, si scorgevanosolo a tratti nel biancore accecante della nevicata: non c'era margine per gli errori. Preoccupato alpensiero di commettere uno sbaglio fatale, mi sedetti per recuperare le forze prima di proseguire ladiscesa.

Una volta seduto, l'inerzia prese il sopravvento. Era tanto più facile restare lì a riposarmi, anzichè fareappello alle ultime energie per affrontare quell'insidioso pendio di ghiaccio; così rimasi inerte, immobilementre la tempesta infuriava intorno a me, lasciando vagare i pensieri, senza fare nulla per circa tre quartid'ora.

Avevo stretto i lacci del cappuccio, lasciando solo una minuscola apertura intorno agli occhi, e stavoslacciando la maschera dell'ossigeno che mi pendeva sotto il mento, ormai ghiacciata e inutile, quandoall'improvviso dall'oscurità accanto a me sbucò Andy Harris. Proiettando nella sua direzione il raggiodella mia lampada, sussultai istintivamente nel vedere lo stato spaventoso in cui era ridotto il suo viso.Aveva le guance ricoperte da una maschera di ghiaccio e un occhio chiuso dal gelo, oltre al fatto chepronunciava le parole con voce fortemente impastata. Era in seri guai. «Da che parte per le tende?»biascicò, freneticamente impaziente di mettersi al riparo.

Gli indicai la direzione del Campo Quattro, poi lo misi in guardia sul ghiaccio che si stendeva sotto di noi.«E’ più ripido di quanto sembra!» gridai, alzando la voce per farmi sentire al di sopra della tempesta.«Forse dovrei scendere prima io per andare a procurarmi una corda al campo...» Mentre ancoraparlavo, Andy si voltò bruscamente e scomparve oltre il ciglio del pendio, piantandomi lì, sconcertato.

Slittando sul posteriore, cominciò a calarsi lungo la parte più ripida del pendio. «Andy», gli gridai dietro,«è da pazzi tentare così! Ti caccerai sicuramente in un guaio!» Lui mi gridò qualcosa di rimando, ma lesue parole furono trasportate lontano dall'ululato del vento. Un attimo dopo perse la presa, roteò su sestesso come una trottola e si ritrovò all'improvviso a scivolare a capofitto sul ghiaccio.

Sessanta metri più in basso, riuscii a stento a individuare la sagoma immobile, inerte ai piedi del pendio.Ero sicuro che si fosse fratturato come minimo una gamba, se non l'osso del collo. Invece,incredibilmente, si alzò in piedi, agitò le braccia per segnalare che era tutto a posto e si avviò traballandoverso il Campo Quattro, che in quel momento era perfettamente visibile, a circa centocinquanta metri didistanza.

Scorsi le sagome incerte di tre o quattro persone in piedi all'esterno delle tende; le loro lampadescintillavano oltre cortine di neve sospinta dal vento. Osservai Harris dirigersi verso il campo

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attraversando un tratto pianeggiante e coprendo la distanza in meno di dieci minuti. Quando le nubi sichiusero, un attimo dopo, oscurandomi la visuale, era a meno di venti metri dalle tende, forse ancora piùvicino. Da allora non lo rividi più, ma ero sicuro che avesse raggiunto la sicurezza del campo, dove senzadubbio Chuldum e Arita lo aspettavano con un bel tè bollente. Seduto all'aperto sotto la tempesta, con lagobba di ghiaccio che ancora mi separava dalle tende, provai una fitta di invidia. Ero in collera perchè laguida non mi aveva aspettato.

Il mio zaino conteneva poco più che tre bombole di ossigeno vuote e mezzo litro di limonata ghiacciata.Probabilmente non pesava più di sette, otto chili, ma io ero stanco e preoccupato al pensiero di doverscendere quel pendio senza rompermi una gamba; così gettai lo zaino oltre il ciglio, sperando che sifermasse in un punto dove avrei potuto recuperarlo. Poi mi alzai e cominciai la discesa sul ghiaccio, cheera liscio e duro come la superficie di una palla da bowling.

Quindici minuti di discesa insidiosa e faticosa con i ramponi mi portarono sano e salvo in fondo alpendio, dove individuai facilmente lo zaino, e dopo altri dieci minuti ero anch'io al campo. Mi tuffai nellatenda con i ramponi ancora ai piedi, chiusi la lampo dell'apertura e crollai disteso sul pavimentoghiacciato, così sfinito da non riuscire nemmeno a stare seduto. Per la prima volta ebbi la percezione diquanto fossi esausto; ero più stanco di quanto mi fossi mai sentito in vita mia, ma almeno ero in salvo.Andy era in salvo. Gli altri sarebbero arrivati al campo fra poco. Ce l'avevamo fatta, accidenti: avevamoscalato l'Everest! A tratti c'era stato qualche inconveniente, ma alla fine tutto era andato a meraviglia.

Dovevano passare molte ore prima che scoprissi che non tutto era andato a meraviglia, e che diciannovefra uomini e donne erano bloccati sulla montagna dalla tempesta, impegnati in una lotta disperata per lavita.

Ci sono molti gradi di rischio nelle tempeste e nelle avventure, e solo di tanto in tanto emerge, dallasuperficie dei fatti, una sinistra intenzionalità di violenza - quel qualcosa di indefinibile che si impone allamente e al cuore dell’uomo e gli fa capire che questo concatenamento di incidenti questa furia deglielementi, sono diretti deliberatamente contro di lui; con uno scopo maligno, con una virulenzaincontrollabile, con una crudeltà senza limiti, che vuole strappargli la speranza e la paura, il dolore dellafatica e la bramosia del riposo; e questo significa frantumare, distruggere, annientare tutto ciò che egli havisto, conosciuto, amato, goduto o odiato; tutto ciò che non ha prezzo e che è necessario - la luce delsole, i ricordi; il futuro - e questo significa spazzar via del tutto dai suoi occhi questo prezioso mondo, conil semplice e terribile atto di togliergli la vita.

JOSEPH CONRAD

Lord Jim

 

Neal Beidleman raggiunse la vetta all'una e venticinque del pomeriggio, guidando il cliente MartinAdams. Quando vi arrivarono, Andy Harris e Anatoli Boukreev erano già sulla cima, mentre io mi eroallontanato da otto minuti. Dando per scontato che il resto della squadra sarebbe comparso di lì a poco,Beidleman scattò delle foto, scambiò qualche battuta con Boukreeve si sedette ad aspettare. Alle 13.45,il cliente Klev Schoening superò il tratto finale, estrasse una foto della moglie e dei figli e diede inizio auna commossa celebrazione del suo arrivo sul tetto del mondo.

        Dalla cima, una gobba nel crinale impediva la vista del resto del percorso, e alle due - oradesignata per il rientro - non si vedeva ancora traccia di Fischer o degli altri clienti. Beidleman incominciòa preoccuparsi dell'ora tarda.

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        Trentaseienne, formatosi come ingegnere aerospaziale, era un tipo tranquillo, un guida prudente edestremamente coscienziosa, molto apprezzata dalla maggior parte dei membri della sua squadra e diquella di Hall; inoltre era uno degli scalatori più forti che fossero presenti in quel momento sulla montagna.Due anni prima lui e Boukreev, che considerava un buon amico, avevano scalato insieme il Makalu, alto8463 metri, in un tempo quasi da record, senza l'ausilio dell'ossigeno o degli sherpa. Beidleman avevaconosciuto Fischer e Hall nel 1994, sulle pendici del K2, e aveva fatto a entrambi un'impressione positivacon la sua competenza e il suo temperamento affabile e tranquillo. D'altra parte, poichè avevaun'esperienza limitata alle alte quote (il Makalu era l'unica grande vetta himalayana che avesse scalato), lasua posizione nella catena gerarchica era inferiore a quella di Fischer e Boukreev e la sua paga riflettevatale condizione: aveva accettato di fare la guida sull'Everest per diecimila dollari, mentre a BoukreevFischer ne dava venticinquemila.

        Beidleman, sensibile per natura, era ben cosciente del posto che occupava nella gerarchia dellaspedizione. «Ero considerato decisamente la terza guida», ha ammesso in seguito, «quindi tentavo di nonmostrarmi troppo invadente. Di conseguenza non sempre facevo sentire la mia voce quando avreidovuto, e ora mi prenderei a calci per questo.»

        Beidleman ha dichiarato che secondo il piano di massima formulato da Fischer per il giorno dellascalata, Lopsang Jangbu avrebbe dovuto trovarsi in testa alla fila, portando con sè una radio e due rotolidi corda da installare prima dell'arrivo dei clienti; Boukreev e Beidleman (ai quali non era stata assegnatauna radio) dovevano trovarsi «al centro o in testa, a seconda di come si muovevano i clienti; e Scott, cheportava con sè una seconda radio, sarebbe rimasto in coda al gruppo per raccogliere i ritardatari. Dietrosuggerimento di Rob, avevamo deciso di fissare il limite massimo per il rientro alle due del pomeriggio;chiunque per quell'ora non fosse a un tiro di sputo dalla vetta doveva fare dietrofront e cominciare ascendere.

        «Sarebbe toccato a Scott riportare indietro i clienti», spiegò Beidleman. «Ne avevamo parlato. Gliavevo detto che io, in veste di semplice terza guida, non me la sentivo di annunciare a clienti che avevanosborsato sessantacinquemila dollari a testa che dovevano tornare indietro. E Scott aveva ammesso chequella responsabilità spettava a lui; invece, non so perchè, non è andata così.» In effetti le uniche personead arrivare sulla vetta prima delle due del pomeriggio fummo Boukreev, Harris, Beidleman, Adams,Schoening e io; se Fischer e Hall avessero rispettato le regole stabilite in anticipo, tutti gli altri sarebberodovuti tornare indietro prima di raggiungere la vetta.

        Nonostante la crescente ansia di Beidleman per il passare del tempo, lui non aveva la radio e quindinon poteva discuterne con Fischer. Lopsang, che invece la radio l'aveva, si trovava ancora in basso, fuoridella sua visuale. La mattina presto, quando Beidleman aveva incontrato Lopsang sul Balcone, mentrevomitava accovacciato sulla neve, gli aveva preso i due rotoli di corda da installare sui ripidi gradoni diroccia più in alto. Tuttavia, come lamenta adesso: «Non mi venne assolutamente in mente di prenderglianche la radio».

        Il risultato, ricorda Beidleman, fu che «finii per restare seduto a lungo sulla vetta, guardando dicontinuo l'orologio in attesa dell'arrivo di Scott, pensando di scendere; ma ogni volta che mi alzavo perandarmene, compariva un altro dei nostri clienti che superava il ciglio del crinale, e io tornavo a sedermiper aspettarlo».

        Sandy Pittman comparve sul pendio sommitale intorno alle due e dieci, poco prima di CharlotteFox, Lopsang Jangbu, Tim Madsen e Lene Gammelgaard; ma si muoveva con estrema lentezza e abreve distanza dalla vetta cadde di colpo in ginocchio sulla neve. Lopsang, accorrendo in suo aiuto,scoprì che aveva esaurito anche la terza bombola di ossigeno; quella mattina presto, quando aveva

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cominciato a trainarla, aveva anche aperto al massimo l'erogazione dell'ossigeno (quattro litri al minuto) edi conseguenza lei aveva esaurito le riserve relativamente in fretta. Per fortuna Lopsang, che non usavaossigeno, aveva una bombola di scorta nello zaino: collegò la maschera e il regolatore di Pittman allabombola nuova, e poi salirono insieme gli ultimi metri fino alla vetta, unendosi ai festeggiamenti in corso.

        Anche Rob Hall, Mike Groom e Yasuko Namba raggiunsero la cima più o meno alla stessa ora, eHall si collegò via radio con Helen Wilton, al campo base, per darle la buona notizia. «Rob mi disse chelassù c'era freddo e vento», ha rievocato Wilton, «ma sembrava in buona forma. Mi disse: 'Doug staappena comparendo all'orizzonte; subito dopo comincerò la discesa... Se non mi sentirai più, vorrà direche va tutto bene' .» Wilton informò la sede dell' Adventure Consultants, in Nuova Zelanda, e subito partìun turbine di fax diretti ad amici e parenti in tutto il mondo, per annunciare l'esito trionfale dellaspedizione.

        Tuttavia in quel momento Doug Hansen non era poco più in basso della cima, come credeva Hall,e neppure Fischer. In effetti sarebbero arrivate le tre e quaranta prima che Fischer raggiungesse la vetta,e Hansen non avrebbe fatto la sua comparsa se non dopo le quattro del pomeriggio.

 

        Il giorno precedente, giovedì 9 maggio, quando eravamo saliti tutti dal Campo Tre al CampoQuattro, Fischer aveva raggiunto le tende del Colle Sud solo alle cinque del pomeriggio, e quando infineera arrivato appariva visibilmente stanco, anche se faceva del suo meglio per nascondere la stanchezza aiclienti. «Quella sera», ricordò la sua compagna di tenda, Charlotte Fox, «non avrei mai immaginato cheScott fosse stato male. Era pieno di entusiasmo e caricava tutti, come un allenatore di football prima dellafinale.»

        In realtà Fischer era sfinito dallo sforzo fisico e mentale sostenuto nelle settimane precedenti;benchè possedesse straordinarie riserve di energia, le aveva letteralmente sperperate, tanto che quandoarrivò al Campo Quattro erano quasi esaurite. «Scott persona forte», riconobbe Boukreev dopo laspedizione, «ma prima dell'assalto alla vetta è stanco, ha molti problemi, spreca molte energie. Pensieri,pensieri, pensieri, pensieri. Scott nervoso, ma tiene tutto dentro.»

        Inoltre Fischer per tutta la scalata tenne nascosto a tutti anche il fatto che probabilmente era affettoda una grave malattia. Nel 1984, durante una spedizione sul massiccid dell'Annapurna, nel Nepal, avevacontratto una misteriosa malattia che era degenerata in un'affezione cronica del fegato. Nel corso deglianni si era fatto visitare da molti medici, si era sottoposto a intere batterie di esami clinici, ma una diagnosidefinitiva non era stata mai pronunciata. Fischer si riferiva al suo disturbo definendolo semplicemente una«cisti epatica», ne parlava solo a pochi intimi e tentava di fingere che non ci fosse nulla di cuipreoccuparsi.

«Di qualunque cosa si trattasse», osserva Jane Bromet, una dei pochi intimi al corrente della malattia,«produceva sintomi simili a quelli della malaria, anche se malaria non era. Scott veniva assalito da violentiattacchi di brividi, accompagnati da sudorazione profusa. Le crisi lo lasciavano esausto, ma duravanosolo da dieci a quindici minuti, poi passavano. A Seattle ne aveva una alla settimana, più o meno, maquando era sotto stress diventavano più frequenti. Al campo base ne aveva più spesso... a giorni alterni,e qualche volta tutti i giorni.»

Se Fischer soffrì di questi attacchi al Campo Quattro o più in alto, non ne parlò mai con nessuno. Foxriferì che il giovedì sera, subito dopo essere strisciato all'interno della tenda che dividevano, «Scott siaddormentò come un sasso e dormì sodo per circa due ore». Quando si svegliò, alle dieci di sera, simostrò lento nel prepararsi e rimase al campo molto tempo dopo la partenza degli ultimi clienti, guide e

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sherpa, diretti verso la vetta.

Non è chiaro a che ora abbia lasciato esattamente il Campo Quattro; forse soltanto all'una del mattino divenerdì 10 maggio. Si trascinò verso la vetta con molto ritardo su tutti gli altri e non raggiunse la CimaSud che intorno all'una del pomeriggio. Io lo vidi per la prima volta verso le due e tre quarti, durante ladiscesa dalla vetta, mentre aspettavo insieme a Andy Harris che la folla si diradasse sullo Hillary Step.Fischer fu l'ultimo a salire lungo la corda, con un aspetto estremamente stanco.

Dopo uno scambio di cordialità, parlò in breve con Martin Adams e Anatoli Boukreev, che erano fermipoco più su di Harris e me, in attesa di scendere oltre lo Step. «Ehi, Martin»., disse Fischer attraverso lamaschera a ossigeno, tentando di ostentare un tono scherzoso, «pensi di farcela a scalare l'Everest?»

«Ehi, Scott», ribatte Adams, apparentemente irritato che l'altro non gli avesse fatto le congratulazioni,«l'ho appena scalato.»

Subito dopo Scott scambiò qualche parola con Boukreev. Secondo quanto ricorda Adams, Boukreevdisse a Fischer: «io scendo con Martin». Dopodichè Fischer riprese lentamente e faticosamente l'ascesaverso la vetta, mentre Harris, Boukreev, Adams e io ci voltavamo per calarci lungo le corde dello Step.Nessuno fece commenti sull'aspetto esausto di Fischer; a nessuno di noi venne in mente che potesseessere in crisi.

 

Alle 15.10 di venerdì, Fischer non era ancora arrivato in vetta, afferma Beidleman, che aggiunge: «Decisiche era ora di filarcela di lì, anche se Scott non si era ancora fatto vedere». Radunò Pittman,Gammelgaard, Fox e Madsen e cominciò a guidarli nella discesa lungo la cresta della vetta. Venti minutidopo, poco più in alto dello Hillary Step, incrociarono Fischer. «In realtà non gli dissi nulla», ricordaBeidleman. «Lui alzò la mano. Mi sembrò affaticato, ma dal momento che era Scott non mi preoccupai inmodo particolare. Immaginavo che sarebbe salito fino alla vetta e ci avrebbe raggiunti in tempo peraiutarci a portare giù i clienti.»

La preoccupazione principale di Beidleman era Sandy Pittman: «A quel punto erano tutti piuttostoesausti, ma Sandy sembrava particolarmente incerta sulle gambe. Pensai che, se non la tenevo d'occhio,c'erano buone probabilità che finisse giù dalla cresta. Così mi accertai che fosse agganciata alla cordafissa e nei punti in cui non c'era la corda l'afferravo per l'imbracatura, da dietro, e la reggevo saldamentefinchè non raggiungeva la corda successiva. Era così stravolta che non sono neanche sicuro che. si.accorgesse della mia presenza».

Poco .più in basso della Cima Sud, mentre gli scalatori scendevano In mezzo alla neve e a un densostrato di nuvole, Pittman ebbe un'altra crisi e pregò Fox di praticarle una iniezione di un potente steroide,il dexamethasone. Il «dex», come viene chiamato familiarmente, può annullare per qualche tempo glieffetti negativi dell'altitudine; ogni componente della squadra di Fischer ne portava una siringa già prontaper i casi di emergenza, custodita in un contenitore di plastica per lo spazzolino da denti all'interno dellatuta, dove non c'era il rischio che ghiacciasse. «Scostai un po' i pantaloni di Sandy», ricorda Fox, «e leconficcai l'ago nella natica, attraverso i mutandoni e tutto il resto.»

Beidleman, che si era soffermato sulla Cima Sud per fare l'inventario dell'ossigeno, arrivò sul posto intempo per vedere Fox che affondava la siringa nelle carni di Pittman, stesa bocconi sulla neve. «Quandosuperai il risalto e vidi Sandy lì distesa, mentre Charlotte sopra di lei brandiva una siringa ipodermica,pensai: 'Oh, accidenti, mi sembra una brutta situazione'. Così domandai a Sandy che cosa succedeva, equando tentò di rispondermi le uscì di bocca solo un balbettio confuso.» Estremamente preoccupato,

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Beidleman ordinò a Gammelgaard di scambiare la sua bombola di ossigeno piena con quella semivuota diPittman, si accertò che il regolatore fosse aperto al massimo, poi afferrò per l'imbracatura Pittman, cheera scivolata in uno stato di semincoscienza, cominciando a trascinarla giù per il ripido pendio innevatodella Cresta Sud-Est. «Una volta preso il via», spiega, «la precedevo scivolando verso il basso; poi, aintervalli di cinquanta metri, mi fermavo, mi assicuravo con le mani alla corda fissa e facevo forza perbloccare la sua scivolata con il corpo. La prima volta che Sandy mi piombò addosso, le punte dei suoiramponi penetrarono nella mia tuta imbottita, e volarono piume dappertutto.» Con sollievo generale,dopo una ventina di minuti l'iniezione e l'ossigeno supplementare rianimarono Pittman, che potèproseguire la discesa con i suoi mezzi.

Verso le cinque del pomeriggio, mentre Beidleman accompagnava i clienti giù per la cresta, MikeGroom e Yasuko Namba stavano per raggiungere il Balcone, circa centocinquanta metri sotto di loro.Da quel promontorio, all'altezza di 8410 metri, il percorso devia bruscamente verso sud in direzione delCampo Quattro. Tuttavia quando Groom guardò nella direzione opposta, giù per il lato nord della cresta,oltre la cortina di neve soffiata dal vento nella luce incerta, notò un alpinista solitario finitoirrimediabilmente fuori strada: era Martin Adams, che era rimasto disorientato dalla tempesta e per erroreaveva cominciato la discesa della parete Kangshung, verso il Tibet.

Appena Adams vide Groom e Namba sopra di sè, comprese il suo errore e risalì lentamente verso ilBalcone. «Quando raggiunse Yasuko e me, Martin era stravolto», ricorda Groom. «Aveva la mascheradell'ossigeno staccata e il viso incrostato di neve. Mi domandò: 'Da che parte sono le tende?'» Groomglielo indicò e Adams riprese subito ascendere dalla parte giusta della cresta, seguendo il percorso cheavevo tracciato io una decina di minuti prima.

Mentre aspettava che Adams risalisse lungo la cresta, Groom mandò avanti Yasuko Namba e si dedicòalla ricerca dell'astuccio di una macchina fotografica, che aveva lasciato lì all'andata. Guardandosiattorno, si accorse per la prima volta che sul Balcone con lui c'era un'altra persona. «Dal momento cheera quasi mimetizzato con la neve, lo scambiai per un componente del gruppo di Fischer e lo ignorai. Poiquesta persona mi si parò davanti, dicendo: 'Salve, Mike', e mi accorsi che era Beck.»

Groom, altrettanto sorpreso di vedere Beck quanto lo ero stato io, tirò fuori la corda, cominciando atrainarlo verso il Colle Sud. «Beck era letteralmente accecato», riferisce Groom, «al punto che ogni diecimetri faceva un passo nel vuoto ed ero costretto a trattenerlo con la corda. Ero preoccupato, perchè piùdi una volta rischiò di farmi precipitare con sè. Era un procedimento terribilmente snervante: dovevo farebene attenzione ad assicurarmi con la piccozza e ad avere tutti i punti d'appoggio ben ancorati a qualcosadi solido in ogni momento.»

Uno alla volta, seguendo la pista che avevo tracciato quindici o venti minuti prima, Beidleman e gli altriclienti di Fischer scesero in fila attraverso la tormenta che peggiorava costantemente. Adams era dietro dime; poi venivano Namba, Groom e Weathers, Schoening e Gammelgaard, Beidleman e infine Pittman,Fox e Madsen.

Centocinquanta metri più su, al Colle Sud, dove la ripida parete di scisto cedeva il posto a un pendioinnevato meno erto, Namba esaurì l'ossigeno: a quel punto la minuscola giapponese si sedette,rifiutandosi di muoversi. «Ogni volta che tentavo di toglierle la maschera di ossigeno in modo che potesserespirare meglio», riferisce Groom, «lei insisteva per rimetterla. Nessun argomento riuscì a persuaderlache aveva finito l'ossigeno e anzi la maschera rischiava di soffocarla. Ormai Beck si era indebolito alpunto da non riuscire più a camminare da solo e dovevo portarlo in spalla. Per fortuna, proprio in quelmomento ci raggiunse Neal.» Beidleman, vedendo che Groom aveva il suo daffare con Weathers,cominciò a trascinare Namba verso il Campo Quattro, nonostante non facesse parte del gruppo diFischer.

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Ormai erano quasi le sei e tre quarti di sera e l'oscurità era quasi totale. Beidleman, Groom, i loro clientie due sherpa della squadra di Fischer che si erano materializzati dalla nebbia - Tashi Tshering e NgawangDorje - avevano formato un gruppo unico. Benchè procedessero lentamente, erano riusciti ad arrivare ameno di sessanta metri di dislivello dal Campo Quattro.

In quel momento io stavo raggiungendo le tende, probabilmente con un vantaggio non superiore aiquindici minuti sul primo del gruppo di Beidleman; ma in quel breve lasso di tempo la tempesta si erabruscamente tramutata in un uragano in piena regola e la visibilità era scesa al di sotto dei sei metri.

Volendo evitare la pericolosa gobba di ghiaccio, Beidleman guidò il suo gruppo lungo una deviazioneche descriveva un arco verso est, dove il pendio era meno ripido, e verso le sette e mezzo il grupporaggiunse incolume la vasta e dolce pendenza del Colle Sud. Ormai, però, soltanto tre o quattro personeavevano le lampade del casco con le batterie ancora funzionanti, mentre tutti erano sull'orlo del collassofisico. Fox si affidava sempre più all'assistenza di Madsen, mentre Weathers e Namba erano incapaci dicamminare senza il sostegno, rispettivamente di Groom e Beidleman.

Beidleman sapeva che si trovavano sul versante orientale, tibetano, del Colle, mentre le tende sorgevanosul lato occidentale; ma per puntare in quella direzione era necessario procedere controvento,cacciandosi proprio nelle fauci della tormenta. Granuli di neve e ghiaccio trasportati dal vento colpivanocon violenza il volto degli scalatori, ferendoli agli occhi e rendendo impossibile vedere dove andavano.«Era così difficile e doloroso», spiega Schoening, «che si tendeva inevitabilmente a deviare per sfuggireall'impatto del vento, scartando sulla sinistra, e fu così che sbagliammo.»

«A volte era impossibile persino vedere i propri piedi, tanto soffiava con violenza», continua. «Mipreoccupava l'idea che qualcuno si sedesse o restasse separato dal gruppo, perchè non lo avremmorivisto più. Una volta raggiunto il tratto pianeggiante del Colle cominciammo a seguire gli sherpa, eimmaginai che loro sapessero dov'era il campo. Poi all'improvviso si fermarono e tornarono indietro, eallora fu chiaro che neanche loro avevano idea di dove fossimo. A quel punto provai una sensazione dinausea alla bocca dello stomaco. Fu allora che mi resi conto per la prima volta che eravamo nei guai.»

Per due ore Beidleman, Groom, i due sherpa e i sette clienti brancolarono alla cieca nella tempesta,sempre più esausti e in preda all'ipotermia, nella speranza di trovare il campo, per pura fortuna. Una voltas'imbatterono in un paio di bombole di ossigeno vuote, segno che le tende erano vicine, ma nonriuscirono a localizzarle. «Era il caos totale», ricorda Beidleman. «La gente si aggira qua e là; io grido contutti, tentando di convincerli a seguire un solo capo. Alla fine, verso le dieci di sera, risalii una piccolaaltura e provai la sensazione di trovarmi sull'orlo della terra. Avvertivo un vuoto immenso al di là.»

Il gruppo era finito senza saperlo sul ciglio più orientale del Colle, sull'orlo di un precipizio alto 2000metri che si affacciava sulla parete Kangshung. Si trovavano alla stessa altezza del Campo Quattro, a solitrecento metri dalla salvezza,[35]ma, come dice Beidleman: «Compresi che, se avessimo continuato avagare nella tormenta, ben presto avremmo perso qualcuno. Io ero sfinito dallo sforzo di trascinareYasuko, Charlotte e Sandy erano a stento in grado di reggersi in piedi. Così gridai a tutti di rannicchiarsilì dove si trovavano, in attesa di una tregua della tempesta».

Beidleman e Schoening cercarono un posto riparato per sfuggire al vento, ma non c'erano ripari. Tuttiavevano esaurito da tempo l'ossigeno, e questo rendeva il gruppo più vulnerabile al gelo prodotto dalvento, che superava i trentasette gradi Sottozero. Al riparo di un masso non più grande di unalavastoviglie, gli scalatori si rannicchiarono l'uno vicino all'altro, un patetico grappolo di corpi su un trattodi ghiaccio sferzato dal vento. «Ormai il freddo mi aveva quasi stroncato», rievoca Charlotte Fox.«Avevo gli occhi ghiacciati e non vedevo in che modo avremmo potuto uscirne vivi. Il freddo era così

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doloroso che non credevo di riuscire a resistere oltre. Mi limitai a raggomitolarmi a palla, augurandomiche la morte arrivasse presto.» «Cercammo di tenerci caldo colpendoci a vicenda», ricorda Weathers.«Qualcuno ci urlava di continuare a muovere gambe e braccia. Sandy era isterica; non faceva chestrillare: 'Non voglio morire! Non voglio morire!' Ma nessuno degli altri parlava granchè.»

 

Trecento metri a ovest, nella mia tenda, io ero scosso da brividi irrefrenabili, anche se ero chiuso nelsaccopiuma e indossavo la tuta imbottita di piume e tutti i capi di vestiario che avevo. La buferaminacciava di squarciare la tenda. Ogni volta che si apriva la porta, il riparo veniva invaso da folate divento carico di neve, cosicchè tutto l'interno era ricoperto da uno strato alto un paio di dita. Ignaro dellatragedia che si svolgeva all'esterno nella tempesta, scivolavo a tratti nell'incoscienza e nel delirio, causatidallo sfinimento, dalla disidratazione e dall'effetto cumulativo della mancanza di ossigeno.

A un certo punto, nelle prime ore della sera, entrò Stuart Hutchison, il mio compagno di tenda, che miscrollò con violenza per chiedermi se volevo uscire con lui a battere sulle pentole e agitare torce al cielonella speranza di guidare al rientro gli alpinisti smarriti, ma ero troppo debole e incoerente per rispondere.Hutchison, che era rientrato al campo alle due del pomeriggio ed era quindi molto meno debilitato di me,tentò allora di svegliare i clienti e gli sherpa delle altre tende, ma erano tutti troppo infreddoliti o troppoesausti; quindi uscì nella tormenta da solo.

Quella notte Hutchison lasciò la tenda ben sei volte in cerca dei dispersi, ma la tormenta era così violentache non osò mai avventurarsi più in là di qualche metro oltre i confini del campo. «I venti eranoviolentissimi», sottolinea. «La neve trasportata dal vento sembrava un getto di sabbia abrasiva, oqualcosa del genere. Riuscivo a restare all'aperto solo quindici minuti di seguito, prima di sentirmi troppoinfreddolito e di essere costretto a rientrare nella tenda.»

 

Fuori, fra gli scalatori rannicchiati sul ciglio orientale del Colle, Beidleman s'imponeva di restare all'erta,in attesa di un segnale che la tempesta stesse per placarsi. Poco prima di mezzanotte, la sua vigilanza fupremiata: notò all'improvviso alcune stelle in cielo e gridò agli altri di guardare. Il vento sferzava ancora lasuperficie in una furiosa sarabanda, ma in alto il cielo aveva cominciato a schiarirsi, rivelando le sagomemassicce dell'Everest e del Lhotse. Da quei punti di riferimento, Klev Schoening credette di avercalcolato in quale posizione si trovava il gruppo rispetto al Campo Quattro e, dopo una brevediscussione urlata con Beidleman, convinse la guida che conosceva la via per raggiungere le tende.

Beidleman tentò di indurre tutti ad alzarsi, spronandoli nella direzione indicata da Schoening, ma Pittman,Fox, Weathers e Namba erano troppo deboli per camminare. Ormai agli occhi della guida apparivaevidente che, se qualcuno del gruppo non fosse riuscito a raggiungere le tende e mettere insieme ungruppo di soccorso, sarebbero morti tutti quanti. Così Beidleman riunì quelli che erano in grado dimuoversi, e poi si avviò a passi incerti nella tempesta, insieme con Schoening, Gammelgaard, Groom e idue sherpa, per andare in cerca di aiuto, lasciando dietro di sè i quattro clienti incapaci di camminare,affidati alle cure di Tim Madsen. Restio ad abbandonare Charlotte Fox, che era la sua ragazza, Madsensi era offerto volontario per restare a sorvegliare tutti finchè non fossero giunti gli aiuti.

Venti minuti dopo, il contingente di Beidleman entrò zoppicando nel campo, dove ci fu un calorosoincontro con Anatoli Boukreev, molto preoccupato. Schoening e Beidleman, a stento in grado di parlare,spiegarono al russo dove poteva rintracciare i cinque clienti che erano rimasti all'aperto in balia deglielementi, poi si accasciarono nelle rispettive tende, completamente sfiniti.

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Boukreev era sceso al Colle Sud prima di tutti gli altri componenti della squadra di Fischer. Anzi, allecinque del pomeriggio, mentre i suoi compagni erano ancora impegnati nella discesa tra le nubi a 8530metri di altitudine, lui era già nella sua tenda a riposare e bere il tè. In seguito, guide esperte avrebberomesso in discussione la sua decisione di scendere con tanto anticipo sui clienti, un comportamentoestremamente poco ortodosso per una guida. Uno dei clienti di quel gruppo ha mostrato tutto il suodisprezzo per Boukreev, sottolineando il fatto che, nei momenti cruciali, la guida «se la squagliava».

Anatoli aveva lasciato la vetta verso le due del pomeriggio e ben presto si era ritrovato coinvoltonell'ingorgo all'altezza dello Hillary Step. Appena la folla si era diradata, lui era sceso in fretta lungo laCresta Sud-Est senza aspettare i clienti, nonostante che sullo Step avesse detto a Fischer che andava giùcon Martin Adams. Quindi era arrivato al Campo Quattro molto prima che si scatenasse la tormenta.

Dopo la spedizione, quando chiesi ad Anatoli come mai si fosse affrettato a scendere prima del gruppo,mi consegnò una copia di un'intervista che aveva rilasciato qualche giorno prima aMen's Journalavvalendosi di un interprete russo. Mi disse che l'aveva letta e ne confermava la fedeltà. Leggendola amia volta, arrivai in fretta alle domande sulla discesa, alle quali aveva risposto come segue:

 

Sono rimasto [sulla vetta] per circa un'ora. ...Fa molto freddo, naturalmente, ti divora le energie. ...Lamia idea era che non sarebbe servito a niente se fossi rimasto lì, a congelarmi nell'attesa. Sarei stato piùutile tornando al Campo Quattro, in modo da portare su l'ossigeno agli scalatori impegnati nel rientro oda poter risalire ad aiutarli se qualcuno si fosse sentito debole durante la discesa. ...A quell'altitudine, seresti fermo, perdi energia per il freddo, e allora non riesci più a fare niente.

 

L'ipersensibilità di Boukreev al freddo era senza dubbio fortemente accentuata dal fatto che non usavaossigeno supplementare; in assenza di ossigeno non poteva certo fermarsi ad aspettare i clienti più lentisulla cresta della vetta senza rischiare congelamenti e ipotermia. Qualunque sia il motivo, comunque, siprecipitò a valle prima del gruppo, comportamento che in effetti gli era stato abituale per tutta laspedizione, come dimostravano le ultime lettere e telefonate di Fischer dal campo base a Seattle.

Quando gli chiesi se fosse opportuno lasciare i clienti sulla cresta della vetta, Anatoli insistette che eraper il bene della squadra: «È molto meglio che vada a scaldarmi al Colle Sud, per tenermi pronto aportare su ossigeno se clienti restano senza». In realtà, poco dopo il calar della sera, dopo il mancatorientro del gruppo di Beidleman e il peggioramento della tempesta all'intensità di uragano, Boukreev sirese conto che dovevano essere in pericolo e compì un coraggioso tentativo di portare loro l'ossigeno.Ma il suo stratagemma aveva una grossa pecca: dal momento che nè lui nè Beidleman avevano la radio,Anatoli non poteva conoscere la reale situazione dei dispersi, e neppure in quale punto dell'enormedistesa in cima alla montagna potessero trovarsi.

In ogni modo, verso le sette e mezzo del pomeriggio, Boukreev lasciò il Campo Quattro per andare incerca del gruppo. A quel punto, ricorda:

 

La visibilità era ridotta all'incirca a un metro, poi divenne pari a zero. Avevo una lampada e cominciai ausare l'ossigeno per accelerare l'andatura in salita. Portavo con me tre bombole. Tentai di andare più infretta, ma la visibilità era nulla. ...È come essere senza; occhi, era impossibile vedere. Questo è moltopericoloso, perchè si può cadere in un crepaccio, si può cadere lungo il versante sud del Lhotse, in un

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precipizio profondo tremila metri. Tentai di salire, ma era buio e non riuscii a trovare la corda fissa.

 

        Arrivato circa centoottanta metri al di sopra del Colle, Boukreev riconobbe la futilità dei suoi sforzie tornò al campo, ma, ammette, rischiò di perdersi anche lui. Comunque fu un bene che avesse rinunciatoa quel tentativo di salvataggio, perchè a quel punto i suoi compagni non erano più sulla vetta in alto, versola quale si era diretto; in realtà, quando Boukreev sospese la ricerca, il gruppo di Beidleman stavavagando sul Colle, centoottanta metrial di sotto del russo.

        Quando tornò al Campo Quattro intorno alle nove di sera, Boukreev era preoccupato per idiciannove scalatori che mancavano all'appello, ma, non sapendo dove potevano trovarsi, non potevafare nulla se non mordere il freno. Poi, a mezzanotte e tre quarti, Beidleman, Groom, Schoening eGammelgaard entrarono vacillando nel campo. «Klev e Neal erano privi di forze e riuscivano a parlare astento», ricorda Boukreev. «Mi dissero che Charlotte, Sandy e Tim avevano bisogno di aiuto e Sandystava per morire. Poi mi diedero le indicazioni generali per rintracciarli.»

        Sentendo arrivare gli scalatori, Stuart Hutchison uscì per assistere Groom. «Portai Mike nella suatenda», ha rievocato Hutchison, «e vidi che era davvero esausto. Era in grado di esprimersi chiaramente,ma questo gli richiedeva uno sforzo spaventoso, come per un moribondo pronunciare le ultime parole.'Devi andare a cercare qualche sherpa', mi disse. 'Mandali a prendere Beck e Yasuko.' E poi indicò ilversante Kangshung .del Colle.»

        I tentativi di Hutchison di organizzare una squadra di soccorso, tuttavia, si rivelarono inutili.Chuldum e Arita, gli sherpa della squadra di Hall che non avevano accompagnato la spedizione fino allavetta ed erano rimasti di riserva al campo Quattro proprio in vista di un'emergenza del genere, erano fuoricombattimento a causa di un'intossicazione da monossido di carbonio per avere cucinato in una tendapoco ventilata; anzi, Chuldum vomitava addirittura sangue. Quanto agli altri quattro sherpa della nostrasquadra, erano troppo infreddoliti e debilitati per i postumi della scalata alla vetta.

        Dopo la spedizione, chiesi a Hutchison come mai, una volta appresa la posizione degli scalatoridispersi, non aveva cercato di svegliare Frank Fischbeck, Lou Kasischke o John Taske, oppure di fareun secondo tentativo per svegliare me, per chiedere il nostro contributo alla spedizione di soccorso. «Eracosì evidente che tutti voi eravate completamente esausti, che non ho neanche pensato di chiederlo. Tuavevi superato a tal punto il livello della normale stanchezza che ho pensato che, se avessi tentato dipartecipare a una spedizione di soccorso, non avresti che peggiorato la situazione: saresti rimasto là fuorie avremmo dovuto venire a salvare te.» Il risultato fu che Stuart uscì nella tormenta da solo, ma ancorauna volta costeggiò il confine del campo, preoccupato di non riuscire a trovare la via del ritorno se fosseandato oltre.

        Contemporaneamente anche Boukreev stava cercando di organizzare una squadra di salvataggio,ma non si mise in contatto con Hutchison e non venne alla mia tenda, cosicchè i tentativi di Hutchison eBoukreev rimasero privi di coordinamento e io non venni a conoscenza di nessuno dei due piani. Alla fineBoukreev scoprì, come Hutchison, che tutti coloro che riusciva a svegliare erano troppo sofferenti osfiniti o spaventati per essere di qualche utilità; così il russo decise di riportare il gruppo al campo da solo.Cacciandosi coraggiosamente nelle fauci della tempesta, perlustrò il Colle per quasi un'ora, ma senzariuscire a trovare nessuno.

        Non si diede comunque per vinto; tornato al campo, ottenne delle indicazioni più dettagliate daBeidleman e Schoening, poi uscì di nuovo, sotto la tormenta. Stavolta scorse il fioco chiarore dellalampada di Madsen e quindi fu in grado di localizzare gli scalatori dispersi. «Erano stesi sul ghiaccio,

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immobili», ricorda Boukreev. «Non erano in grado di parlare.» Madsen era ancora cosciente e capace diprendersi cura di sè, mentre Pittman, Fox e Weathers erano del tutto privi di forze e Yasuko sembravamorta.

        Dopo che Beidleman egli altri erano usciti dal crocchio di corpi per andare in cerca di. aiuto,Madsen aveva riunito gli scalatori restanti, dando istruzioni a tutti di muoversi in continuazione per starecaldi. «Ordinai a Yasuko di sedersi in grembo a Beck», ricorda Madsen, «ma lui ormai era quasi privo direazioni e Yasuko non si muoveva affatto. Poco dopo vidi che si era stesa supina, con la neve che lecadeva sul cappuccio. Non so come, aveva perduto un guanto; la mano destra era scoperta e le ditaerano contratte in modo tale che non si riusciva a stenderle. Sembravano proprio congelate fino all'osso.

        «Diedi per scontato che fosse morta», continua Madsen. «Invece poco dopo si mosseall'improvviso, tanto che mi spaventò: inarcò leggermente il collo, come se tentasse di mettersi a sedere, eil braccio destro si sollevò, poi più niente. Yasuko ricadde al suolo e non si mosse più.»

        Quando Boukreev trovò il gruppo, fu evidente che avrebbe potuto portare in salvo un solo alpinistaalla volta. Aveva con sè una bombola di ossigeno, che lui e Madsen applicarono alla maschera diPittman. Poi Boukreev fece capire a Madsen che sarebbe tornato al più presto e cominciò a trasportareFox verso le tende. «Quando si allontanarono», dice Madsen, «Beck rimase raggomitolato in posizionefetale, senza muoversi per parecchio tempo, mentre Sandy era rannicchiata fra le mie braccia, anche leisenza muoversi granchè. Le gridai: 'Ehi, continua a muovere le dita! Fammi vedere le mani!' E quando leisi mette seduta e tira fuori le mani, vedo che non ha i guanti... che le mani penzolano inerti dai polsi.»

        «Così cerco di infilarle di nuovo i guanti, quando tutt'a un tratto Beck mormora: 'Ehi, ho calcolatotutto'. Poi si allontana un po', quasi rotolando, si accovaccia su un grosso sasso e si alza in piedi, con lafaccia rivolta al vento e le braccia allargate ai lati. Un attimo dopo si alza una raffica di vento che lospinge all'indietro nell'oscurità, oltre il raggio di luce della mia lampada, .come un soffio che spegne unacandelina. E quella è stata l'ultima volta che l'ho visto.»

        «Poco dopo Toli è tornato e ha afferrato Sandy, così mi sono limitato a prendere la mia roba e hocominciato ad arrancare dietro di loro, tentando di seguire la lampada di Toli e di Sandy. Ormai davo perscontato che Yasuko fosse morta e che Beck fosse una causa persa.» Quando finalmente arrivarono alcampo, erano le quattro e mezzo del mattino e il cielo cominciava a schiarirsi all'orizzonte orientale.Apprendendo da Madsen che Yasuko non ce l'aveva fatta, Beidleman ebbe un crollo e pianse perquarantacinque minuti nella sua tenda.

Diffido delle sintesi, di ogni genere di carrellata nel tempo, di ogni pretesa eccessiva di tenere sottocontrollo ciò che si racconta; a mio parere, chi pretende di comprendere pur essendo palesementetranquillo, chi sostiene di scrivere tenendo a freno l'emotività, è uno sciocco e un bugiardo. Capiresignifica tremare. Rievocare significa rientrare nei fatti e farsene lacerare... Ammiro l'autoritàdell'inginocchiarsi di fronte all'evento.

HAROLD BRODKEY

Manipulations

 

        Alle sei del mattino dell'11 maggio, Stuart Hutchison riuscì finalmente a svegliarmi scrollandomi.«Andy non è nella sua tenda», mi disse con un'espressione cupa, «e pare che non sia neppure in una dellealtre. Credo che non sia mai arrivato qui.»

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        «Harold è scomparso?» esclamai. «Impossibile, l'ho visto con i miei occhi dirigersi verso il campo!»Scosso e confuso, mi infilai gli scarponi, precipitandomi fuori a cercare Harris. Il vento era ancora forte,tanto da gettarmi a terra più volte, ma l'alba era limpida e luminosa, con una visibilità perfetta. Perlustraiper oltre un'ora tutto il versante occidentale del Colle, sbirciando dietro i massi e facendo capolino sottotende lacere e abbandonate da tempo, ma senza trovare traccia di Harris. sentii un fìotto di adrenalinaaffluirmi nelle vene mentre le lacrime mi salivano agli occhi, sigillandomi all'istante le palpebre con unafrangia di ghiaccio. Come poteva essere scomparso Andy? Era impossibile.

        Tornai nel punto in cui si era lasciato scivolare sul ghiaccio per scendere dal Colle, ripercorrendometodicamente la via che aveva seguito verso il campo, un itinerario che costeggiava un ampio canalonedi ghiaccio quasi pianeggiante. Nel punto in cui avevo visto Harris per l'ultima volta, prima che calasserole nubi, una brusca svolta a sinistra lo avrebbe portato a risalire per dieci o quindici metri un rilievoroccioso sul quale sorgeva l'accampamento di tende.

        Mi resi conto, tuttavia, che, se non avesse svoltato a sinistra, ma proseguito diritto lungo il canalone- sarebbe stato facile in mezzo a quel biancore, anche se non fosse stato sfinito e inebetito dal mal dimontagna - avrebbe raggiunto ben presto l'estremo ciglio occidentale del Colle. Più in basso, la ripidasuperficie di ghiaccio grigio della parete del Lhotse precipitava in verticale per 1200 metri sul fondo delCwm occidentale. Mentre ero lì immobile, timoroso di muovere ancora un passo verso l'orlo delprecipizio, notai una serie appena visibile di tracce di ramponi che proseguivano verso l'abisso. Temevoche quelle tracce fossero state lasciate da Andy Harris.

        La sera prima, dopo il mio arrivo al campo, avevo detto a Hutchison di aver visto Harrisraggiungere sano e salvo le tende. Hutchison aveva inviato la notizia via radio al campo base, e di lì erastata ritrasmessa attraverso il telefono satellitare alla donna con la quale Harris viveva nella NuovaZelanda, Fiona McPherson. Lei si era sentita sopraffare dal sollievo apprendendo che Harris era in salvoal Campo Quattro. Ora, invece, Jan Arnold, la moglie di Hall laggiù a Christchurch, avrebbe dovuto farel'inimmaginabile: richiamare McPherson per informarla che c'era stato un terribile equivoco, che in realtàAndy era disperso e presumibilmente morto. Immaginando quella conversazione telefonica e ripensandoal mio ruolo nei fatti che l'avevano causata, caddi in ginocchio, squassato da conati secchi, vomitando inmodo spasmodico mentre il vento gelido soffiava alle mie spalle.

        Dopo un'ora di vane ricerche, tornai alla mia tenda in tempo per sentire casualmente unatrasmissione radio fra il campo base e Rob Hall; scoprii così che era ancora in alto, sulla cresta dellavetta, e chiedeva aiuto. Hutchison mi riferì allora che Beck e Yasuko erano morti e Scott Fischer eradisperso chissà dove sulla vetta che ci sovrastava. Poco dopo le batterie della radio si esaurirono,isolandoci dal resto della montagna. Allarmati per avere perso il contatto radio con noi, i membri dellasquadra IMAX al Campo Due chiamarono il gruppo dei sudafricani, che avevano piantato le tende sulColle a pochi metri da noi. David Breashears, il capo dell'IMAX, un alpinista che conosco da vent'anni,riferisce oggi: «Sapevamo che i sudafricani avevano una radio potente e funzionante, così chiedemmo auno dei loro al Campo Due di chiamare Woodall sul Colle Sud per dirgli: 'Senti, questa è un' emergenza.Lassù c'è gente che muore. Dobbiamo riuscire a comunicare con i superstiti della squadra di Hall percoordinare il salvataggio. Per favore, presta la radio a Jon Krakauer'. E Woodall rispose di no. Era benchiaro quale fosse la posta in gioco, eppure non vollero cedere la radio».

 

        Subito dopo la spedizione, mentre svolgevo le ricerche per il o mio articolo sulla rivistaOutside , hointervistato il maggior numero possibile di persone che avevano partecipato alle spedizioni di Hall eFischer fino alla vetta, parlando più volte con quasi tutti. Solo Martin Adams, diffidando dei giornalisti, si

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era defilato dopo la tragedia, sottraendosi ai miei ripetuti tentativi di intervistarlo fin quando non è statopubblicato l'articolo su

Outside.

        Quando riuscii finalmente a rintracciarlo al telefono, verso la metà di luglio, e lui acconsentì aparlarmi, cominciai col chiedergli di riferire tutto ciò che ricordava dell'assalto finale alla vetta. Adams,uno dei clienti più forti saliti quel giorno sulla montagna, era rimasto in testa al gruppo e mi avevapreceduto o seguito di poco per gran parte della scalata. poichè era dotato di una memoria chesembrava insolitamente affidabile, ero interessato in particolare a scoprire fino a che punto la sua versionecombaciasse con la mia. Adams mi raccontò che verso la fine del pomeriggio, mentre ridiscendeva dalBalcone, a 8410 metri, io ero ancora visibile, forse con una quindicina di minuti di vantaggio su di lui, mapoichè scendevo più in fretta, ero scomparso ben presto dal suo raggio visivo. «E la volta successiva cheti ho visto», aggiunse, «era quasi buio e stavi attraversando il tratto pianeggiante del Colle Sud, a unatrentina di metri dalle tende. Ti ho riconosciuto dalla tuta rossa.»

        Poco dopo, Adams era sceso su un declivio piatto, poco più su del ripido pendio ghiacciato che miaveva dato tanti problemi, ed era precipitato in un piccolo crepaccio. Era appena riuscito a uscirne,quando era caduto in un altro crepaccio, più profondo. «Mentre giacevo in quel crepaccio, pensavo:'Forse stavolta è finita'», ricorda oggi. «Ci è voluto un po' di tempo, ma alla fine sono riuscito a uscireanche da quello. Quando sono risalito all'aperto, avevo il viso ricoperto di neve, che si è tramutata subitoin ghiaccio. Poi ho visto qualcuno seduto sul ghiaccio alla mia sinistra, con la lampada accesa sul casco, emi sono avviato in quella direzione. Non era ancora buio pesto, ma l'oscurità era tale che non riuscivo piùa vedere le tende.»

        «Così mi sono avvicinato a quel tale e gli ho chiesto: 'Ehi, dove sono le tende?' e lui, chiunquefosse, mi ha indicato la strada. Allora gli ho risposto: 'Già, è quello che pensavo'. Poi il tizio mi ha dettoqualcosa come: 'Fa' attenzione, il ghiaccio qui è più ripido di quanto sembra. Forse dovremmo scenderea procurarci una corda e qualche chiodo da ghiaccio'. Dentro di me ho pensato: 'Col cavolo. Io ne sonofuori'. Così ho fatto due o tre passi, sono inciampato e sono scivolato sul ghiaccio bocconi, con la testa inavanti. Mentre scivolavo, non so come la punta della mia piccozza si è impigliata e mi ha fatto girare sume stesso, dopodichè mi sono fermato in fondo alla discesa. Mi sono alzato, ho raggiunto barcollando letende, e questo è quanto.»

        Mentre Adams descriveva il suo incontro con l'anonimo scalatore, e poi la scivolata sul ghiaccio, misentii inaridire la bocca e drizzare di colpo i capelli sulla nuca. «Martin», gli domandai alla fine, «pensi chepotrei essere io quello in cui ti sei imbattuto?»

        «No, che diamine!» rispose lui ridendo. «Non so chi fosse, ma senz'altro non eri tu.» Ma poi gliparlai del mio incontro con Andy Harris e della sconcertante serie di coincidenze: io mi ero imbattuto inHarris più o meno alla stessa ora in cui Adams aveva incontrato l'uomo misterioso, e all'incirca nellostesso punto. Gran parte del dialogo fra Harris e me era stranamente simile al dialogo fra Adams el'uomo misterioso. E poi Adams era scivolato sul ghiaccio a capofitto, più o meno nello stesso modo incui avevo visto scivolare Harris.

        Dopo aver parlato ancora per qualche minuto, Adams si convinse. «Allora è con te che ho parlatolassù sul ghiaccio», dichiarò, stupito, ammettendo che doveva essersi sbagliato quando aveva creduto divedermi attraversare il tratto pianeggiante del Colle Sud poco prima del buio. «Ed è con me che haiparlato. Il che significa che non si trattava affatto di Harris. Accidenti, amico, penso che avrai qualchespiegazione da dare.»

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        Ero sbigottito. Da due mesi andavo ripetendo che Harris era morto precipitando dal ciglio delColle Sud, e ora saltava fuori che invece non era andata affatto così. Il mio errore aveva aggravato dimolto, e inutilmente, il dolore di Fiona McPherson, dei genitori di Andy, Ron e Mary Harris, del fratelloDavid e di tanti suoi amici.

        Andy era un omone del peso di novanta chili, alto più di un metro e ottanta, che parlava con unforte accento neozelandese; Martin era più basso di almeno quindici centimetri, pesava al massimosessanta chili e parlava con un accento strascicato del Texas. Come avevo potuto commettere un errorecosì marchiano? Ero davvero sfinito al punto da guardare in faccia un semisconosciuto e scambiarlo conun amico col quale avevo trascorso le sei settimane precedenti? E se Andy non era mai arrivato alCampo Quattro dopo avere scalato la vetta, che cosa gli era accaduto, in nome di Dio?

Il nostro fallimento è dovuto senza dubbio a questa improvvisa ondata di maltempo, che apparentementenon ha alcuna spiegazione esauriente. Sono convinto che mai essere umano abbia dovuto sopportare unmese come quello che è stato inflitto a noi: eppure ce l' avremmo fatta anche a dispetto del tempo, nonfosse stato per l'infermità di un secondo compagno, il capitano Oates, per una carenza di combustibile neinostri depositi di cui non so darmi ragione e, infine, per la tempesta che si è abbattuta su di noi a meno diundici miglia dal deposito nel quale confidavamo di assicurarci le ultime provviste. Di certo la mala sorteavrebbe potuto risparmiarci almeno questo ultimo colpo. [...l Abbiamo corso dei rischi e lo abbiamo fattoin piena coscienza; la situazione si è rivolta contro di noi, e quindi non abbiamo motivo di lamentarci, maci inchiniamo alla volontà della Provvidenza, decisi ancora a fare del nostro meglio per resistere...Sefossimo sopravvissuti: avrei potuto narrare esempi di tale ardimento, resistenza e coraggio da parte deimiei compagni da intenerire il cuore di ogni inglese. La storia ormai è affidata a queste poche noteapprossimative, oltre che ai nostri corpi.

ROBERT FALCON SCOTT

inMessaggio al pubblico ,

vergato poco prima della morte

nell'Antartide, il 29 maggio 1912,

daScott's Last Expedition

 

Raggiungendo la vetta intorno alle 15.40 dello maggio, Scott Fischer trovò ad aspettarlo il suo devotoamico e sirdar, Lopsang Jangbu. Lo sherpa estrasse dalla tuta la radiotrasmittente, stabilì il contatto conIngrid Hunt, al campo base, quindi consegnò a Fischer il walkie-talkie. «Ce l'abbiamo fatta tutti quanti»,riferì Fischer a Hunt, 3500 metri più in basso. «Dio, come sono stanco.» Pochi minuti dopo, arrivòMakalu Gau con due sherpa. C'era anche Rob Hall, che aspettava impaziente l'arrivo di Doug Hansen,mentre una marea di nubi lambiva minacciosa la cresta della vetta.

        Secondo Lopsang, nei quindici o venti minuti che trascorse sulla vetta, Fischer si lamentò più voltedi non sentirsi bene, cosa che la guida, gioviale fino allo stoicismo, non faceva quasi mai. «Scott mi disse:'Sono troppo stanco. Mi sento anche male, ho bisogno della medicina per lo stomaco'», ricorda losherpa. «Gli offrii del tè, ma lui ne bevve solo un poco, appena la metà. Allora gli dico: 'Scott, per favore,andiamo giù presto'. E così scendiamo.»

        Fischer cominciò la discesa per primo, verso le 15.55. Lopsang riferisce che, sebbene Scott

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avesse fatto ricorso all'ossigeno per tutta la salita e la terza bombola fosse ancora piena per tre quartiquando aveva lasciato la vetta, a quel punto - non si sa perchè - si tolse la maschera e smise di usarla.

        Poco dopo che Fischer si era allontanato, anche Gau e lo sherpa si misero in marcia, e da ultimoscese Lopsang, lasciando Hall solo sulla vetta ad aspettare Hansen. Un attimo dopo la partenza diLopsang, verso le quattro, comparve finalmente Hansen, che tirava il fiato con i denti e avanzava conpenosa lentezza per superare la gobba finale che porta alla vetta. Appena lo vide, Hall si affrettò adandargli incontro.

        Il limite orario da lui stesso fissato per la discesa era arrivato, anzi era già passato da due oreabbondanti. Dato il temperamento conservatore ed esasperatamente meticoloso della guida, molti deisuoi colleghi sono rimasti perplessi di fronte a quell'errore di giudizio, così poco in carattere con lui. Perquale motivo, si sono chiesti, non aveva fatto tornare indietro Hansen molto tempo prima, non appenaera apparso evidente che lo scalatore americano era in ritardo?

        Esattamente un anno prima, Hall aveva costretto Hansen a tornare indietro sulla Cima Sud alle duee mezza del pomeriggio, e vedersi negare la conquista della vetta quando era già così vicino avevarappresentato per Hansen una delusione cocente. Doug mi aveva detto più volte che era tornato sull'Everest nel 1996 in gran parte per effetto delle capacità di persuasione di Hall - mi riferì che Rob loaveva chiamato dalla Nuova Zelanda .«una dozzina di volte» scongiurandolo di ritentare - e che stavoltaera assolutamente deciso a raggiungere la vetta. «Voglio farlo per potermi liberare da questa ossessione»,mi aveva detto tre giorni prima al Campo Due. «Non voglio essere costretto a tornare un' altra volta. Stodiventando troppo vecchio per queste stronzate.»

        Non appare inverosimile l'ipotesi che, dal momento che era stato proprio lui a convincere Hansen.a tornare sull'Everest, Hall trovasse particolarmente arduo negargli per la seconda volta la possibilità diraggiungere la vetta. «E molto difficile indurre qualcuno a desistere quando è già arrivato in alto»,ammonisce Guy Cotter, una guida neozelandese che aveva scalato l'Everest con Hall nel 1992 e gli avevafatto da guida nel 1995 , in occasione del primo tentativo di Hansen. «Se i clienti vedono che la vetta èvicina e sono fermamente decisi a raggiungerla, ti ridono in faccia e proseguono.» Come ha dichiarato ilveterano delle guide americane Peter Lev alla rivistaMagazine , dopo le disastrose vicende sull'Everest:«Noi crediamo che la gente ci paghi perchè prendiamo buone decisioni, ma in realtà ci paga perchè liportiamo sulla vetta».

        Comunque sia, Hall non indusse Hansen a tornare indietro alle due, e neanche alle quattro, quandoincontrò il suo cliente poco al di sotto della vetta. Anzi, secondo Lopsang, Hall si mise intorno al collo unbraccio di Hansen e sostenne il cliente esausto per gli ultimi dodici metri che lo separavano dalla vetta; sitrattennero lassù solo un paio di minuti prima di cominciare la lunga discesa.

        Quando Lopsang vide che Hansen barcollava, rallentò l'andatura quanto bastava per accertarsi cheDoug e Rob superassero incolumi una zona di pericolose cornici, poco più in basso della vetta. Poi,ansioso di raggiungere Fischer, che ormai aveva oltre mezz'ora di vantaggio su di lui, lo sherpa riprese ascendere lungo la cresta, lasciando Hansen e Hall in cima allo Hillary Step.

        Poco dopo che Lopsang era scomparso oltre lo Step, Hansen a quanto pare esaurì l'ossigeno edebbe un collasso; aveva speso fino all'ultima stilla di energia per raggiungere la vetta, e ora non glirestavano riserve per la discesa. «Più o meno la stessa cosa che gli era successa nel '95», osserva EdViesturs, che quell'anno aveva lavorato come guida per Hall, insieme a Cotter. «Durante la salita stavabenissimo, ma appena cominciata la discesa si era smarrito, sul piano fisico e mentale; si era trasformatoin uno zombie, come se avesse esaurito tutte le forze.»

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        Alle 16.30, e poi di nuovo alle 16.41, Hall usò la radio per segnalare che lui e Hansen erano neiguai sulla cresta sommitale e avevano urgente bisogno di ossigeno. C'erano due bombole piene che liaspettavano alla Cima Sud; se Hall lo avesse saputo, avrebbe potuto recuperarle abbastanza in fretta epoi risalire per fornire a Hansen una bombola nuova. Tuttavia Andy Harris, che si trovava ancora pressoil deposito dell'ossigeno, in preda alla demenza provocata dall'ipossia, sentì quelle comunicazioni allaradio e intervenne per dire a Hall - erroneamente, come aveva fatto con Mike Groom e me - che tutte lebombole alla Cima Sud erano vuote.

        Groom udì la conversazione fra Harris e Hall alla radio, mentre scendeva dalla Cresta Sud-Estinsieme a Yasuko Namba, poco più su del Balcone. Tentò di chiamare'Hall per rettificare l'errore einformarlo che in realtà c'erano delle bombole piene che lo aspettavano alla Cima Sud, ma, come spiegaGroom: «La mia radio non funzionava bene. Ero in grado di ricevere quasi tutte le chiamate, ma le mietrasmissioni venivano captate di rado. In un paio di occasioni furono intercettate da Rob, e io tentai didirgli dov'erano le bombole piene, ma subito m'interrompeva Andy, che trasmetteva la notizia che allaCima Sud non c'era ossigeno».

        Non sapendo se lo avrebbe trovato o no, Hall decise che la linea d'azione migliore era restare conHansen e tentare di far scendere senza ossigeno il cliente, ormai quasi incapace di procedere con leproprie forze. Ma quando arrivarono in cima allo Hillary Step, Hall non riuscì a far superare a Hansenquel salto verticale di dodici metri e furono costretti a fermarsi.

        Poco prima delle cinque, Groom riuscì finalmente a comunicare con Hall per informarlo che inrealtà c'era dell'ossigeno alla Cima Sud. Un quarto d'ora dopo, Lopsang, scendendo dalla vetta,raggiunse la Cima Sud, dove trovò Harris.[36]A quel punto, secondo Lopsang, Harris doveva avercapito finalmente che almeno due delle bombole riposte lì dovevano essere piene, perchè pregò lo sherpadi aiutarlo a portare l'ossigeno vitale a Hall e Hansen, bloccati sullo Hillary Step. «Andy dice che mipagherà cinquecento dollari per portare ossigeno a Rob e Doug», riferì Lopsang. «Ma io devo pensare almio gruppo. Devo prendermi cura di Scott. Così rispondo a Andy: 'No, io vado subito giù.»

Alle 17.30, quando lasciò la Cima Sud per riprendere la discesa, Lopsang si voltò a guardare Harris -che doveva essere estremamente debilitato, se ci si può basare sulle sue condizioni quando lo avevo vistosulla Cima Sud, due ore prima - e lo vide risalire lentamente la cresta della vetta per andare in soccorsodi Hall e Hansen. Fu un atto di eroismo che gli sarebbe costato la vita.

 

Poche centinaia di metri più in basso, Scott Fischer lottava per scendere dalla Cresta Sud-Est, in predaa una debolezza sempre più devastante. Appena raggiunta la sommità dei gradini di roccia, a 8650 metridi altezza, si trovò di fronte a una serie di tratti da superare a corda doppia, brevi ma impegnativi, chetraversavano la cresta in diagonale. Troppo esausto per affrontare la complessità delle manovre con lacorda, Fischer preferì scendere scivolando su un vicino pendio innevato, sedendosi direttamente sullaneve. Era più facile calarsi così che seguendo le corde fisse, ma una volta sceso al di sotto dei gradini diroccia gli restava da compiere una laboriosa traversata a piedi di un centinaio di metri, attraverso la nevealta fino al ginocchio, per tornare sul percorso giusto.

Tim Madsen, che scendeva con il gruppo di Beidleman, alzando casualmente lo sguardo dal Balconeverso le 17.20 vide Fischer cominciare la traversata. «Sembrava davvero stanco», ricorda Madsen.«Faceva una decina di passi, poi si sedeva a riposare, faceva ancora un paio di passi e riposava dinuovo. Si muoveva davvero piano. Ma poi vidi Lopsang scendere lungo la cresta, poco più in alto di lui,e pensai, che diamine, con Lopsang lì a vegliare su di lui, Scott era a cavallo.»

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Lopsang dichiarò di avere raggiunto Fischer verso le sei, poco più su del Balcone. «Scott non usaval'ossigeno, così gli misi la maschera. Lui mi dice: 'Sono stanco, mi sento troppo male per scendere. Faròun salto'. Lo ripete più di una volta, come un pazzo, così lo assicuro subito alla corda, altrimenti salta giùnel Tibet.»

Assicurando Fischer con un tratto di corda di una ventina di metri, Lopsang persuase l'amico a nonsaltare e lo indusse ad avanzare lentamente verso il Colle Sud. «Ora la tempesta è molto forte», ricordaLopsang. «Boom Boom! Due volte come rumore di cannone, tuono forte. Due volte il fulmine colpiscemolto vicino a me e Scott, molto forte, molto spavento.»

Cento metri al di sotto del Balcone, il canalone innevato dalla lieve pendenza in cui stavano scendendocon cautela cedeva il passo ad affioramenti di scisto ripido e instabile e Fischer, nelle condizioni in cui sitrovava, non era in grado di superare quel terreno insidioso. «Ora Scott non può camminare, ho grandeproblema», dice Lopsang. «Tento di portarlo in spalla, ma sono molto stanco anch'io. Scott è grosso, iomolto piccolo; non posso trasportarlo. Lui mi dice: 'Lopsang, scendi tu. Scendi tu'. 'No, resto qui conte.'»

Intorno alle otto di sera, Lopsang stava rannicchiato insieme a Fischer su una cengia coperta di neve,quando Makalu Gau e i suoi due sherpa sbucarono dalla tormenta che ululava. Gau era debilitato quasicome Fischer e altrettanto incapace di scendere oltre quella difficoltosa fascia di scisto, così gli sherpa lomisero a sedere vicino a Lopsang e Fischer prima di riprendere la discesa senza di lui.

«Io resto con Scott e Makalu un'ora, forse di più», ricorda Lopsang. «Ho molto freddo e sono sfinito.Scott mi dice: 'Scendi e manda su Anatoli'. Così rispondo: 'Okay, vado giù e mando subito sherpa eAnatoli'. Poi preparo un buon posto per Scott e scendo.»

Lopsang lasciò Fischer e Gau su una cengia, 350 metri al di sopra del Colle Sud, e affrontò la bufera perrientrare al campo. Non riuscendo a vederci, finì fuori strada, a ovest e al di sotto del livello del Colleprima di rendersi conto del suo errore, dopodichè fu costretto a risalire fino al limite settentrionale dellaparete del Lhotse[37]per localizzare il Campo Quattro. Verso mezzanotte, comunque, riuscì araggiungere la salvezza. «Vado alla tenda di Anatoli», ha riferito Lopsang. «Dico ad Anatoli:'Per favore,va' lassù, Scott sta molto male, non può camminare'. Poi entro nella mia tenda e mi addormento subito, edormo come un sasso.»

 

Nel pomeriggio del 10 maggio Guy Cotter, vecchio amico di Hall e di Harris, si trovava casualmente aqualche chilometro di distanza dal campo base dell'Everest, impegnato come guida in una spedizione sulPumori, e aveva seguito alla radio per tutto il giorno le comunicazioni di Hall. Alle 14.15, quando parlòall'amico sulla vetta, tutto sembrava filare liscio. Alle 16.30 e di nuovo alle 16.41, tuttavia, Hall chiamò ilcampo base per annunciare che Doug era rimasto senza ossigeno e non riusciva a muoversi, e Cotter siallarmò. Alle 16.53 si attaccò alla radio, insistendo con Hall perchè scendesse dalla Cima Sud. «Lochiamai soprattutto per convincerlo a scendere e prendere un po' di ossigeno», osserva Cotter, «perchèsapevamo che senza di esso non avrebbe potuto fare niente per Doug. Rob diceva che avrebbe potutoscendere senza problemi da solo, ma non insieme a Doug.»

Invece, quaranta minuti dopo, non si era mosso ed era ancora con Hansen in cima allo Hillary Step.Durante le comunicazioni radio da parte di Hall alle 17.36, e poi di nuovo alle 17.57, Cotter imploròl'amico di lasciare Hansen per scendere da solo. «So di aver fatto la figura del bastardo, esortando Robad abbandonare il suo cliente», ammise Cotter, «ma ormai era evidente che lasciare Doug era la suaunica speranza.» Hall, comunque, non volle saperne di scendere senza Hansen.

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Non ci furono ulteriori comunicazioni da parte sua fin verso la metà della notte. Alle 02.46 del mattino,Cotter si svegliò nella sua tenda, ai piedi del Pumori, sentendo una lunga trasmissione frammentaria,probabilmente non intenzionale: Hall infatti portava un microfono a distanza, agganciato a uno spallacciodello zaino, che di tanto in tanto veniva azionato per errore. «In quel caso», dice Cotter, «ho il sospettoche Rob non sapesse neanche di trasmettere. Sentivo qualcuno gridare... forse era lui, ma non possoaverne la certezza perchè si udiva il vento così forte in sottofondo. Comunque diceva qualcosa come:'Continua a muoverti! Non smettere!' probabilmente rivolto a Doug, per incitarlo a proseguire.»

Se davvero era così, significa che nelle prime ore del mattino Hall e Hansen, forse accompagnati daHarris, si sforzavano ancora di procedere dallo Hillary Step verso la Cima Sud, in mezzo alla tormenta;ma significa pure che avevano impiegato più di dieci ore per coprire in discesa un tratto di cresta che ingenere veniva percorso dagli scalatori in meno di mezz'ora.

Naturalmente, tutto questo è puramente ipotetico; l'unica certezza è che Hall chiamò il campo base alle17.57. In quel momento, lui e Hansen erano ancora sullo Step, mentre alle 04.43 dell'11 maggio, quandoparlò di nuovo con il campo base, era sceso fino alla Cima Sud. A quel punto, però, Hansen e Harrisnon erano più con lui.

In una serie di trasmissioni nel corso delle due ore successive, Rob apparve confuso e irrazionale inmodo preoccupante. Durante la comunicazione delle ore 04.43 disse a Caroline Mackenzie, il nostromedico del campo base, che le gambe non gli obbedivano più e che era «troppo impacciato permuoversi». Con voce incrinata e quasi impercettibile, mormorò: «Stanotte Harold era con me, ma ora misembra che non ci sia più. Era molto debole». Poi, chiaramente confuso, domandò: «Harold era con me?Sapete dirmelo?»[38]

A quel punto Hall era in possesso di due bombole piene di ossigeno, ma le valvole della sua mascheraerano intasate al punto che non riusciva a far affluire il gas. Comunque fece capire che stava tentando discongelare la valvola dell'ossigeno. «E questo», osserva Cotter, «ci fece sentire tutti un po' meglio. Era laprima notizia positiva che ci arrivava.»

Alle cinque del mattino, grazie al telefono satellitare, il campo base riuscì a stabilire una comunicazionecon la moglie di Hall, Jan Arnold, che si trovava a Christchurch, in Nuova Zelanda. Nel 1993 era salitaanche lei con Hall sulla vetta dell'Everest, quindi non si faceva illusioni sulla gravità della situazione delmarito. «Quando udii la sua voce, mi sentii davvero sprofondare», ricorda. «Parlava con la voceimpastata. Sembrava un vecchio decrepito, o qualcosa del genere, come se la sua voce stesse perspegnersi da un momento all'altro. Ero stata lassù e sapevo come poteva essere, in condizioniatmosferiche avverse. Rob e io avevamo parlato dell'impossibilità di un'operazione di salvataggio sullacresta della vetta. Come aveva detto lui stesso: 'Tanto varrebbe trovarsi sulla luna'.»

Alle 05.31, Hall assunse per via orale quattro milligrammi di dexamethasone e fece capire che stavaancora cercando di liberare dal ghiaccio la maschera dell'ossigeno. Parlando con il campo base, chiesepiù volte notizie sulle condizioni di Makalu Gau, Beck Weathers, Yasuko Namba, e degli altri clienti.Sembrava preoccupato soprattutto per Andy Harris, visto che continuava a chiedere dove si trovasse.Cotter riferisce che tentarono di sviare la conversazione da Harris, che con ogni probabilità era morto,«perchè non volevamo che Rob avesse un altro motivo per restare lassù. A un certo punto intervenne EdViesturs dal Campo Due e mentì, assicurandogli: 'Non preoccuparti per Andy; è quaggiù con noi'».

Poco dopo, Mackenzie domandò a Rob come stava Hansen, e lui rispose: «Doug se n'è andato». Nondisse altro, e quello fu il suo ultimo accenno a Hansen.

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Il 23 maggio, quando David Breashears e Ed Viesturs raggiunsero la vetta insieme, non trovarono alcunatraccia del corpo di Hansen; tuttavia scoprirono una piccozza conficcata nel ghiaccio circa quindici metripiù in alto della Cima Sud, lungo un tratto molto esposto della cresta, dove le corde fisse si arrestano dicolpo. È perfettamente plausibile l'ipotesi che Hall e/o Harris siano riusciti a calare Hansen lungo le cordefino a quel punto, solo per vederlo perdere l'equilibrio e precipitare per oltre duemila metri lungo laparete sud-est, lasciando la piccozza conficcata nella cresta nel punto da cui era scivolato; ma anchequesta è solo una congettura.

Che cosa possa essere accaduto a Harris resta ancor più difficile da accertare. Fra la testimonianza diLopsang, le comunicazioni via radio di Hall e il fatto che sulla Cima Sud fu ritrovata un'altra piccozzaidentificata come quella di Andy, possiamo dedurre con ragionevole certezza che la notte del 10 maggiosi trovava anche lui sulla Cima Sud insieme a Hall. A parte questo, però, non si sa praticamente nulla delmodo in cui la giovane guida perse la vita.

Alle sei del mattino, Cotter chiese a Hall se il sole era già arrivato fino a lui. «Quasi», rispose Rob; equesto era un bene, perchè un attimo prima aveva accennato al fatto che era scosso da brividiincontrollabili per il freddo spaventoso. Insieme alla precedente rivelazione che non era più in grado dicamminare, quella era stata una notizia sconvolgente per coloro che ascoltavano dal campo base.Comunque era di per sè incoraggiante il fatto che Hall fosse ancora vivo dopo avere trascorso una notteintera all'aperto senza ossigeno, a 8750 metri, esposto a venti della violenza di un uragano e a unatemperatura di quaranta gradi sottozero.

Durante la stessa comunicazione radio, Hall chiese ancora una volta notizie di Harris: «Qualcuno ha vistoHarold la notte scorsa, a parte me?» Circa tre ore dopo, Rob era ancora ossessionato dalla sorte diAndy. Alle 08.43 osservò alla radio: «Quassù c'è ancora una parte dell'attrezzatura di Andy. Ho pensatoche fosse sceso prima di me durante la notte. Sentite, potete darmi sue notizie, o no?» Wilton tentò dieludere la domanda, ma Rob insistette: «Okay. Voglio dire che qui ci sono la sua piccozza, la giacca ealtre cose».

«Rob», replicò Viesturs dal Campo Due, «se riesci a infilarti la sua giacca, fallo. Continua ascendere epensa solo a te stesso. Tutti gli altri stanno provvedendo al resto del gruppo. Tu pensa solo ascendere.»

Dopo ore di tentativi per sbloccare la maschera ghiacciata, Hall riuscì finalmente a rimetterla in funzionee alle nove di mattina respirava per la prima volta l'ossigeno della bombola; ormai aveva trascorso oltresedici ore senza ossigeno al di sopra degli 8750 metri. Centinaia di metri più in basso, gli amicimoltiplicarono gli sforzi per indurlo ascendere. «Rob, parla Helen, dal campo base», insisteva Wilton,chiaramente sull'orlo del pianto. «Pensa al tuo bambino. Fra un paio di mesi vedrai la sua faccina, quindicontinua a muoverti.»

Hall annunciò più volte la sua intenzione di scendere, e a un certo punto eravamo certi che avessefinalmente lasciato la Cima Sud. Giù al Campo Quattro, Lhakpa Chhiri e io restammo fuori delle tende arabbrividire, scrutando un minuscolo puntolino scuro che scendeva lentamente dalla parte superiore dellaCresta Sud-Est. Convinti che fosse Rob che stava finalmente scendendo, Lhakpa e io ci scambiammopacche sulle spalle, incoraggiandolo con le nostre grida. Ma un'ora dopo il mio ottimismo si spense dicolpo quando notai che il puntolino era sempre fermo nello stesso punto; in realtà non era altro che unaroccia... un ennesimo esempio di allucinazione causata dall'altitudine. In realtà, Rob non si era mai mossodalla Cima Sud.

 

Verso le nove e mezza di mattina, Ang Dorje e Lhakpa Chhiri lasciarono il Campo Quattro,

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cominciando a risalire verso la Cima Sud con un thermos pieno di tè bollente e due bombolesupplementari di ossigeno, decisi a soccorrere Hall. Li attendeva un compito addirittura spaventoso. Perquanto fosse apparso sbalorditivo e coraggioso il salvataggio di Sandy Pittman e Charlotte Fox peropera di Boukreev, la sera prima, impallidiva al confronto con quello che i due sherpa si proponevano difare adesso. Pittman e Fox erano a venti minuti di cammino dalle tende, su un terreno relativamentepianeggiante; Hall si trovava oltre novecento metri più in alto del Campo Quattro, una scalata estenuantedi otto o nove ore anche nelle condizioni ideali.

E quelle non erano davvero condizioni ideali: il vento soffiava a oltre quaranta nodi di velocità, senzacontare che tanto Ang Dorje quanto Lhakpa erano infreddoliti e sfiniti dalla scalata della vetta compiutaappena il giorno prima. Inoltre, se anche fossero riusciti in un modo o nell'altro a raggiungere Hall,sarebbe stato già tardo pomeriggio, e questo lasciava loro soltanto un paio d'ore di luce perintraprendere il compito ancora più impegnativo di portarlo giù. Eppure la loro lealtà nei confronti di Hallera tale che quei due uomini ignorarono le schiaccianti probabilità contrarie, avviandosi verso la CimaSud al massimo della loro andatura.

Poco dopo, due sherpa della squadra della Mountain Madness - Tashi Tshering e Ngawang Sya Kya(un uomo piccolo di statura e atletico, dalle tempie brizzolate, padre di Lopsang) - più uno sherpa dellaspedizione di Taiwan si diressero verso l'alto per riportare al campo Scott Fischer e Makalu Gau.Arrivato a 365 metri al di sopra del Colle Sud, il terzetto di sherpa trovò gli scalatori in difficoltà sullastessa cengia dove li aveva lasciati Lopsang. Benchè tentassero di somministrare dell'ossigeno a Fischer,lui non reagì; respirava ancora, sia pure a stento, ma aveva gli occhi sbarrati e i denti serrati con forza.Concludendo che ormai era senza speranze, lo lasciarono sulla cengia e intrapresero la discesa con Gau,il quale, dopo avere ricevuto tè bollente e ossigeno, riuscì a scendere fino alle tende per proprio conto,anche se legato a una corda e con l'assistenza dei tre sherpa.

La giornata appena iniziata era limpida e serena, ma il vento era ancora violento e nella tarda mattinata laparte superiore della montagna era avvolta da fitte nuvole. Giù al Campo Due, la squadra dell'IMAXriferì che il vento sulla vetta produceva un rombo simile a quello di uno stormo di 747, persino a distanzadi oltre 2000 metri. Nel frattempo, nella parte superiore della Cresta Sud-Est, Ang Dorje e LhakpaChhiri procedevano risoluti verso Hall, in mezzo alla tempesta sempre più violenta. Alle tre delpomeriggio, tuttavia; quando si trovavano ancora 200 metri al di sotto della Cima Sud, il vento e latemperatura sotto lo zero si rivelarono superiori alle loro forze egli sherpa non poterono proseguire. Erastato un tentativo coraggioso, ma era fallito; e quando intrapresero la discesa, le probabilità disopravvivenza per Hall si ridussero quasi a zero.

Per tutta la giornata dell'll maggio, amici e compagni lo supplicarono senza posa di fare uno sforzo perscendere con le sue forze. Più di una volta Hall annunciò che si accingeva a scendere, ma ogni voltacambiava idea e restava immobile sulla Cima Sud. Alle 15.20 Cotter, che ormai si era trasferito dal suocampo sotto il Pumori al campo base dell'Everest, lo redarguì via radio, dicendogli: «Rob, cominciaascendere da quella cresta».

In tono seccato, Hall ribatte: «Ascolta, se pensassi di farcela a sciogliere i nodi sulle corde fisse conqueste mani congelate, sarei sceso sei ore fa, amico. Manda quassù un paio di ragazzi con un thermosbello grosso di roba calda, e allora sì che starò bene».

«Il fatto è, amico, che i ragazzi che hanno cercato di salire oggi hanno incontrato vento forte e sonodovuti tornare indietro», replicò Cotter, cercando di fargli capire con la massima delicatezza possibile chel'idea di una spedizione di soccorso era stata ormai abbandonata, «quindi pensiamo che la soluzionemigliore per te sia scendere.»

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«Posso resistere ancora una notte, quassù, se domattina presto mandate su un paio di ragazzi con un po'di tè, non più tardi delle nove e mezza, dieci», rispose Rob.

«Sei un tipo tosto, capo», disse Cotter, con la voce incrinata. «Domattina ti manderemo su dei ragazzi.»

Alle 18.20 Cotter si mise in contatto con Hall per annunciargli che Jan Arnold era in comunicazione sultelefono satellitare da Christchurch e aspettava di potergli parlare. «Concedimi un minuto», disse Rob.«Ho la gola secca. Voglio mangiare un po' di neve prima di parlare con lei.» Poco dopo si fece sentire dinuovo, mormorando con una voce lenta e terribilmente distorta: «Ciao, tesoro. Spero che tu stia comodain un bel letto caldo. Come va?» .

«Non so dirti quanto ti penso», rispose la moglie. «Mi sembri in forma migliore di quanto pensassi... Seial caldo, tesoro?»

«Considerata l'altitudine e la situazione, sto abbastanza comodo», rispose Hall, facendo del suo meglioper non allarmarla.

«Come vanno i piedi?»

«Non mi sono tolto gli scarponi per controllare, ma credo di avere un principio di congelamento...»

«Non vedo l'ora di rimetterti in sesto, quando tornerai a casa», disse Jan. «So che verranno a salvarti.Non devi sentirti solo. Ti sto trasmettendo tutta la mia energia positiva.»

Prima di chiudere la comunicazione, Hall disse alla moglie: «Ti amo. Dormi bene, tesoro. Ti prego, nonpreoccuparti troppo».

Sarebbero state le ultime parole che qualcuno lo sentiva pronunciare: i tentativi di stabilire un contattoradio con Hall quella sera e il giorno seguente rimasero senza risposta. Dodici giorni dopo, quandoBreashears e Viesturs salirono fino alla Cima Sud diretti alla vetta, trovarono Hall disteso sul fiancodestro in una conca poco profonda, con la parte superiore del corpo sepolta sotto un cumulo di neveformato dal vento.

L'Everest era l'incarnazione delle forze materiali del mondo, alle quali Mallory intendeva contrapporre lospirito dell'uomo, Qualora fosse riuscito nell' impresa, gli pareva già di scorgere la gioia sul volto deicompagni; gli pareva di percepire l'emozione che il suo successo avrebbe destato fra tutti gli altri alpinisti;il prestigio che avrebbe fruttato all'Inghilterra; l' interesse che avrebbe suscitato in tutto il mondo; la famache avrebbe procurato a lui; la durevole soddisfazione personale di sentire che aveva reso la sua vitadegna di essere vissuta." Forse non formulò mai l'idea in modo preciso, eppure nella sua mente dovevaessere presente l' idea: «O tutto o niente», Fra le due possibilità, tornare indietro o morire, per Malloryprobabilmente era più accettabile .la seconda, La sofferenza della prima sarebbe stata superiore alle suecapacità di sopportazione, come alpinista e come artista,

SIR FRANCIS YOUNGHUSBAND

The Epic ofMount Everest(1926)

 

        Alle quattro del pomeriggio del 10 maggio, all'incirca la stessa ora in cui Doug Hansen era giuntoestenuato sulla vetta, sorretto da Rob Hall, tre scalatori della provincia del Ladakh, nell'India

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settentrionale, trasmisero via radio al capo del gruppo di cui facevano parte che avevano raggiunto ancheloro la cima dell'Everest, Membri di una spedizione di trentanove persone organizzata dalla polizia difrontiera indo-tibetana, Tsewahg Smanla, Tsewang Paljor e Dorje Morup avevano compiuto la scalatadal versante tibetano lungo la Cresta Nord-Est, la via lungo la quale nel 1924 erano misteriosamentescomparsi George Leigh Mallory e Andrew Irvine,

        Partendo in sei dal loro campo a 8300 metri, gli scalatori del Ladakh non avevano abbandonato letende prima delle cinque e tre quarti di mattina.[39]A metà pomeriggio, quando si trovavano ancora a piùdi trecento metri di dislivello dalla vetta, erano stati avviluppati dalle stesse nubi temporalesche che noiavevamo incontrato sull'altro versante della montagna. Tre membri della spedizione avevano gettato laspugna, ed erano tornati indietro verso le due del pomeriggio, ma Smanla, Paljor e Morup avevanoproseguito, nonostante il peggioramento delle condizioni atmosferiche. «Erano stati sopraffatti dallafebbre della vetta», spiegò Harbhajan Singh, uno dei tre che tornarono indietro.

        Gli altri tre raggiunsero quella che credevano fosse la vetta alle quattro del pomeriggio, quando lenubi erano ormai diventate così fitte che la visibilità era ridotta a non più di trenta metri. Comunicaronovia radio con il loro campo base, sul ghiacciaio di Rongbuk, per informare che erano arrivati sulla vetta,dopodichè il capo della spedizione, Mohindor Singh, chiamò Nuova Delhi con il telefono satellitare perannunciare con orgoglio quel trionfo al primo ministro Narashima Rao. Per festeggiare il successo, lasquadra lasciò bandierine di preghiera,kata e chiodi da roccia come offerta su quello che a lorosembrava il punto più elevato, poi intraprese la discesa, in mezzo alla tormenta che infuriava sempre piùviolenta.

        In realtà, quando tornarono indietro, gli scalatori del Ladakh si trovavano a 8700 metri di altitudine,e cioè a circa due ore di distanza dalla vetta vera e propria, che in quel momento era nascosta alla vistadalle nubi più alte. Il fatto che senza saperlo si fossero fermati circa centocinquanta metri più in bassodella loro meta spiega come mai non videro lassù Hansen, Hall o Lopsang, e come mai non furono visti aloro volta.

        In seguito, poco dopo il calar della sera, gli scalatori che si trovavano più in basso sulla CrestaNord-Est riferirono di aver visto due lampade in prossimità degli 8625 metri, poco sopra una pareterocciosa notoriamente problematica che porta il nome di Second Step, o Secondo Gradino; ma quellanotte nessuno dei tre alpinisti del Ladakh tornò alle tende, e non vi furono neppure altri contatti radio.

        All'una e tre quarti del mattino seguente, 11 maggio - all'incirca la stessa ora in cui AnatoliBoukreev stava freneticamente perlustrando il Colle Sud alla ricerca di Sandy Pittman, Charlotte Fox eTim Madsen - due scalatori giapponesi, accompagnati da tre sherpa, partirono per scalare la vetta dallostesso campo sulla Cresta Nord-Est usato dagli scalatori del Ladakh, nonostante il forte vento cheimperversava sulla cima. Alle sei del mattino, mentre aggiravano un ripido promontorio di rocciachiamato First Step, o Primo Gradino, il ventunenne Eisuke Shigekawa e il trentaseienne Hiroshi Hanadarimasero sbalorditi nel vedere uno degli scalatori del Ladakh, probabilmente Paljor, steso sulla neve,spaventosamente congelato ma ancora vivo dopo una notte trascorsa all'addiaccio, senza riparo nèossigeno, tanto che emetteva gemiti incomprensibili. Tuttavia i giapponesi, non volendo compromettere leloro probabilità di successo fermandosi ad assisterlo, proseguirono la scalata verso la vetta.

        Alle sette e un quarto di mattina raggiunsero la base del Secondo Gradino, uno speroneperfettamente verticale di scisto friabile che di solito si supera per mezzo di una scaletta di alluminiofissata alla parete da una squadra cinese nel 1975. Con grande costernazione dei giapponesi, tuttavia, lascala era in pezzi e si era staccata in parte dalla roccia, per cui furono necessari novanta minuti di arduascalata per superare una parete di sei metri.

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        Appena superata la sommità del Secondo Gradino, s'imbatterono negli altri due scalatori delLadakh, Smanla e Morup. Secondo un articolo apparso sulFinancial Times , scritto dal giornalistainglese Richard Cowper, che intervistò Hanada e Shigekawa a 6400 metri di altitudine, subito dopo lascalata, uno degli alpinisti del Ladakh era «chiaramente prossimo alla morte, mentre l'altro erarannicchiato sulla neve. Non si scambiarono una parola. Non ci furono scambi d'acqua, nè di viveri, nè diossigeno. I giapponesi proseguirono, fermandosi una cinquantina di metri più avanti per riposarsi ecambiare le bombole di ossigeno».

        Hanada disse a Cowper: «Noi non li conoscevamo. No, non abbiamo offerto acqua e nonabbiamo parlato con loro. Avevano una forma grave di mal di montagna. Davano l'impressione di esserepericolosi».

        Shigekawa spiegò: «Eravamo troppo stanchi per aiutarli. Al di sopra degli ottomila metri non ci sipuò permettere il lusso della moralità».

        Voltando le spalle a Smanla e Morup, la squadra giapponese riprese l'ascesa, superando lebandierine di preghiera e i chiodi lasciati dagli scalatori del Ladakh a 8700 metri e, con una straordinariadimostrazione di tenacia, raggiunse la vetta alle undici e tre quarti, in mezzo all'ululare della tormenta. Inquel momento Rob Hall lottava per restare in vita rannicchiato sulla Cima Sud, a mezz'ora di distanza daloro, lungo la Cresta Sud-Est.

        Durante il ritorno giù per la Cresta Nord-Est fino al loro campo in alta quota, i giapponesiritrovarono Smanla e Morup ancora sul Secondo Gradino. Ormai Morup sembrava morto, mentreSmania, benchè fosse ancora vivo, era impigliato in modo inestricabile in una corda fissa. Pasang Kami,uno sherpa della squadra giapponese, lo liberò dalla corda prima di riprendere la discesa lungo la cresta.Invece quando superarono il Primo Gradino, nel punto in cui all'andata erano passati accanto a Paljorche delirava riverso sulla neve, i giapponesi non videro traccia del terzo alpinista indiano.

        Sette giorni dopo, la spedizione della polizia di frontiera indo-tibetana lanciò un altro tentativo discalata della vetta. Lasciando il campo in alta quota all'una e un quarto del mattino del 17 maggio, duescalatori del Ladakh e tre sherpa s'imbatterono ben presto nei corpi congelati dei compagni. Riferironoche uno degli uomini, in preda agli spasmi dell'agonia, si era strappato quasi tutti i vestiti di dosso, primadi cedere infine alla furia degli elementi. Smanla, Morup e Paljor furono lasciati sulla montagna dov'eranocaduti, e i cinque scalatori proseguirono verso la vetta dell'Everest, che raggiunsero alle sette e quarantadi mattina.

Ruotando e roteando nella spirale che sempre più si allarga,

Il falco non può udire il falconiere;

Le cose si dissociano; il centro non può reggere;

E la pura anarchia si rovescia sul mondo,

La torbida marea del sangue dilaga, e in ogni dove

Annega il rito dell'innocenza.

WILLIAM BUTLER YEATS

Il Secondo Avvento

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        Quando rientrai barcollando al Campo Quattro, verso le sette e mezzo del mattino di sabato 11maggio, la realtà di quanto era accaduto - di quanto stava ancora accadendo - cominciò a penetrare nellamia mente con tale intensità da paralizzarla. Ero fisicamente ed emotivamente distrutto dopo una sola oratrascorsa a perlustrare il Colle Sud in cerca di Andy Harris; quella ricerca mi aveva convinto che eramorto. Le comunicazioni radio che il mio compagno di squadra Stuart Hutchison aveva ricevuto da RobHall sulla Cima Sud indicavano chiaramente che il capo della nostra spedizione era in una situazionedisperata e che Doug Hansen era morto. I membri della squadra di Scott Fischer che avevano trascorsoquasi tutta la notte sperduti, vagando sul Colle, riferivano che Yasuko Namba e Beck Weathers eranomorti. E Scott Fischer e Makalu Gau erano dati per morti o quasi, appena 365 metri al di sopra delletende.

        Di fronte a quel bilancio, la mia mente si ritrasse inorridita, chiudendosi in uno stato di distaccoquasi robotico. Mi sentivo emotivamente anestetizzato e nello stesso tempo estremamente percettivo,come se mi fossi rifugiato in un bunker in fondo al mio cranio da cui sbirciavo fuori, tra le rovine che micircondavano, attraverso una stretta feritoia blindata. Quando fissai inebetito il cielo, mi parve diun'innaturale sfumatura di azzurro chiaro, depurata di tutto ciò che non fosse appena una vaga eco dicolore. L'orizzonte dentellato era illuminato da un chiarore simile a un'aura, che baluginava e pulsavadavanti ai miei occhi. Mi domandai se non fosse già cominciata per me la discesa a spirale nel territorioda incubo della follia.

        Dopo una notte intera trascorsa a 7986 metri senza ossigeno supplementare, mi sentivo ancora piùdebole ed esausto della sera prima, quando ero steso dalla vetta. Sapevo che, se non fossimo riusciti aprocurarci dell'altro ossigeno o non fossimo scesi a un'altitudine inferiore, i miei compagni e io avremmocontinuato a peggiorare in fretta.

        Il piano di rapida acclimatazione seguito da Hall e dalla maggior parte dei moderni scalatoridell'Everest è notevolmente efficiente, poichè consente di affrontare la vetta dopo avere trascorso ilperiodo relativamente breve di quattro settimane al di sopra dei 5000 metri, con un unico pernottamentodi acclimatazione a 7300 metri.[40]Tuttavia questa strategia si basa sul presupposto che al di sopra dei7300 metri tutti avranno una riserva inesauribile di bombole di ossigeno; se questo non avviene, lepremesse non valgono più.

        Andando in cerca del resto della squadra, trovai Frank Fischbeck e Lou Kasischke distesi in unatenda vicina. Lou era in delirio, accecato dall'oftalmia nivale; del tutto incapace di vedere e di badare a sestesso, biascicava parole incoerenti. Frank sembrava in preda a un grave stato di shock, ma faceva delsuo meglio per assistere Lou. John Taske era in un'altra tenda insieme con Mike Groom; entrambisembravano addormentati o privi di sensi. Per quanto mi sentissi fiacco e malfermo sulle gambe, eraevidente che tutti gli altri stavano peggio, con la sola eccezione di Stuart Hutchison.

        Passando da una tenda all'altra, cercai dell'ossigeno, ma tutte le bombole che trovavo erano vuote.Il prolungarsi dello stato di ipossia, insieme al profondo affaticamento, acuivano il senso di caos edisperazione. A causa dell'incessante schioccare dei lembi di nylon delle tende dovuto al vento, lecomunicazioni fra una tenda e l'altra erano impossibili. Le batterie dell'unica radio che ci restava eranoquasi scariche. Tutto il campo era pervaso da un'atmosfera di entropia terminale, accentuata dal fatto chela nostra squadra, che nelle sei settimane precedenti era stata incoraggiata a far affidamento sulle guide intutto e per tutto, era rimasta di colpo senza un capo: Rob e Andy non c'erano più e, sebbene.Groom.fosse presente, la dura prova della notte pre cedente gli aveva richiesto un prezzo molto alto.Colpito da una seria forma di congelamento, giaceva nella sua tenda in delirio, e almeno per il momento

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era incapace persino di parlare.

        Con tutte le guide fuori combattimento, Hutchison si fece avanti per riempire il vuoto al posto dicomando. Stuart, un giovane e brillante esponente dell'alta borghesia anglofona di Montreal abituato aprendersi molto sul serio, era un autorevole ricercatore nel campo medico che ogni due o tre anni siconcedeva una grande spedizione alpinistica, ma per il resto aveva poco tempo da dedicare alle scalate.Con l'aggravarsi della crisi al Campo Quattro, fece del suo meglio per mostrarsi all'altezza dellasituazione.

        Mentre tentavo di riprendermi dalla ricerca infruttuosa di Harris, Hutchison organizzò una squadradi quattro sherpa per localizzare i corpi di Weathers e Namba, che erano rimasti sul versante opposto delColle quando Anatoli Boukreev aveva riportato al campo Charlotte Fox, Sandy Pittman e Tim Madsen.La squadra di ricerca degli sherpa, guidata da Lhakpa Chhiri, partì precedendo Hutchison, esausto edisorientato al punto da dimenticare di infilarsi gli scarponi, allontanandosi dal campo con le pedule,leggere dalla suola liscia; solo quando Lhakpa glielo aveva fatto notare, Hutchison era rientrato nellatenda per mettersi gli scarponi. Seguendo le istruzioni di Boukreev, gli sherpa trovarono i due corpi su unpendio di ghiaccio grigio punteggiato di massi, vicino al ciglio della parete Kangshung. Estremamentesuperstiziosi, come .molti sherpa, .nei confronti dei morti, si fermarono a quindici o venti metri, in attesa diHutchison.

        «Entrambi i corpi erano parzialmente sepolti dalla neve», ricorda Hutchison. «Gli zaini si trovavanouna trentina di metri a monte. Avevano il viso e il torace ricoperti di neve, da cui sporgevano solo le manie i piedi. Il vento continuava a ululare sul Colle.» Il primo corpo nel quale s'imbattè era quello di Namba,ma Hutchison non riuscì a riconoscerla fin quando non s'inginocchiò nella tempesta, e le staccò dal visoun guscio di ghiaccio alto sette od otto centimetri. Scoprì con stupore che respirava ancora; aveva persoentrambi i guanti e le mani nude apparivano pietrificate dal congelamento. Gli occhi erano dilatati e il visoaveva il colore della porcellana bianca. «Fu terribile», ricorda Hutchison. «Ero sopraffatto dall'angoscia.Era in punto di morte, e io non sapevo che fare.»

        Rivolse allora la sua attenzione a Beck, che giaceva a circa sei metri di distanza, anche lui con latesta ricoperta da una spessa corazza di ghiaccio. Sui capelli e sulle palpebre aveva dei grumi di ghiacciogrossi come chicchi d'uva. Dopo avergli ripulito il viso, Hutchison scoprì che anche il texano era ancoravivo: Beck farfugliava qualcosa, credo, ma non riuscii a capire che cosa stesse tentando di dire. Glimancava il guanto destro e aveva gravissimi segni di congelamento. Tentai di metterlo a sedere, ma luinon ci riuscì. Era prossimo alla morte, eppure respirava ancora».

        Terribilmente scosso, Hutchison si rivolse agli sherpa per chiedere il parere di Lhakpa, un veteranodell'Everest rispettato tanto dagli altri sherpa quanto daisahib per la sua esperienza della montagna; e luisuggerì a Hutchison di lasciare Beck e Yasuko dov'erano. Se anche fossero sopravvissuti quanto bastavaper trascinarli al Campo Quattro, sarebbero morti senza dubbio prima del trasporto al campo base e iltentativo di soccorso avrebbe messo inutilmente a repentaglio la vita degli altri scalatori presenti sul Colle,la maggior parte dei quali avrebbe già avuto sufficienti problemi a mettersi in salvo.

Hutchison decise che Lhakpa aveva ragione: c'era una sola decisione possibile, per quanto difficile daprendere, e cioè lasciare che la natura seguisse il suo inevitabile corso con Beck e Yasuko, e risparmiarele energie del gruppo per coloro che si potevano effettivamente aiutare. Era un classico caso di sceltaobbligata per la sopravvivenza. Quando tornò al campo, Hutchison era sul punto di piangere e sembravauno spettro. Dietro sua insistenza, svegliammo Taske e Groom e ci riunimmo nella loro tenda perdiscutere il da farsi riguardo a Beck e Yasuko. La conversazione che seguì fu angosciosa e punteggiata disilenzi. Evitavamo tutti di guardarci negli occhi. Dopo cinque minuti, comunque, fummo tutti e quattrod'accordo nel riconoscere che la decisione di Hutchison di lasciare Beck e Yasuko dov' erano era la più

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corretta.

Discutemmo inoltre se tornare al Campo Due quel pomeriggio stesso, ma Taske insistette per rinviare ladiscesa dal Colle finchè Hall era ancora bloccato sulla Cima Sud. «Non intendo neanche prendere inconsiderazione l'idea di andarcene senza di lui», dichiarò. In ogni caso era un falso problema: Kasischkee Groom erano in condizioni tali che per ora ogni spostamento era fuori discussione.

«A quel punto ero molto preoccupato al pensiero che ci avviassimo verso una replica di quello che eraaccaduto sul K2 nel 1986», dice Hutchison. Il 4 luglio di quell'anno sette veterani dell'Himalaya,compreso il leggendario Kurt Diemberger, erano partiti alla conquista della vetta della seconda montagnapiù alta del mondo. Sei su sette l'avevano raggiunta, ma durante la discesa una violenta tempesta avevacolpito le pendici superiori del K2, inchiodando gli alpinisti nel campo ad alta quota, a ottomila metri dialtitudine. poichè la tormenta aveva continuato a infuriare senza interruzione per cinque giorni, si eranoindeboliti sempre più e, quando finalmente la tempesta era cessata, soltanto Diemberger e un altro eranoancora vivi.

 

Il sabato mattina, mentre noi discutevamo cosa fare per Namba e Weathers e se scendere o meno, NealBeidleman stanava dalle loro tende i componenti della squadra di Fischer, passandoli in rivista eincitandoli a intraprendere la discesa dal Colle. «Erano tutti così sconvolti dalla nottata trascorsa che fuuna vera impresa farli alzare e uscire dalle tende. Fui costretto a prenderne a pugni qualcuno perconvincerlo a mettersi gli scarponi», ricorda oggi. «Comunque mi mostrai inflessibile sulla necessità dipartire subito. A mio parere, restare più dello stretto necessario a 7986 metri significa andare in cerca diguai. Sapevo che le spedizioni di soccorso per Scott e Rob erano già partite, quindi dedicai tutta la miaattenzione al compito di portare via i clienti dal Colle, trasferendoli in un campo inferiore.»

Mentre Boukreev restava al Campo Quattro in attesa di Fischer, Beidleman radunò il suo gruppoguidandolo in una lenta discesa dal Colle. A quota 7600 fece una pausa per praticare a Pittman un'altrainiezione di dexamethasone, poi tutti si fermarono a lungo al Campo Tre per riposare e reidratarsi.«Vedendoli arrivare», dice David Breashears, che era al Campo Tre quando vi giunse il gruppo diBeidleman, «rimasi sbigottito. Sembravano reduci da cinque mesi di guerra. Sandy era sul punto dicrollare... ripeteva piangendo: 'È stato terribile! Sono crollata e mi sono stesa sulla neve ad aspettare lamorte! ' Sembravano tutti vittime di un forte shock.»

Poco prima di sera, l'ultimo contingente del gruppo di Beidleman si stava calando lungo il ripido pendioghiacciato della parte inferiore del versante del Lhotse, quando, a centocinquanta metri dalla fine dellecorde fisse, incontrarono alcuni sherpa di una spedizione ecologica nepalese che erano saliti ad aiutarli.Quando ripresero la discesa, dall'alto della montagna partì sibilando una scarica di pietre grosse comeananas e una di esse colpì uno sherpa alla nuca. «La roccia lo stese, letteralmente», riferisce Beidleman,che assistette all'incidente dall'alto, a breve distanza.

«Fu uno spettacolo terribile», concorda Klev Schoening. «Sembrava che fosse stato colpito con unamazza da baseball.» La forza del colpo staccò dal cranio dello sherpa un frammento grande come undollaro d'argento, facendogli perdere i sensi e causandogli un arresto cardiocircolatorio. Quando siaccasciò in avanti, cominciando a scivolare in basso lungo la corda, Schoening lo precedette con unbalzo, riuscendo ad arrestare la sua caduta; ma un attimo dopo, mentre lo teneva fra le braccia, unsecondo sasso precipitò dall'alto, investendo di nuovo lo sherpa, che fu colpito ancora una volta allanuca.

Nonostante il secondo colpo, qualche minuto dopo l'uomo colpito ansimò con violenza e riprese a

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respirare. Beidleman riuscì a calarlo ai piedi della parete del Lhotse, dov'erano in attesa una dozzina dialtri sherpa, che trasportarono il ferito al Campo Due. A quel punto, dice Beidleman: «Klev e iorestammo a guardarci, increduli. Era come se ci chiedessimo: 'Che sta succedendo, qui? Che cosaabbiamo fatto per mandare così in collera la montagna?'»

 

Per tutto il mese di aprile e i primi di maggio, Rob Hall aveva espresso la sua preoccupazione che una opiù squadre meno competenti si cacciassero in una brutta situazione, costringendo il nostro gruppo adaccorrere in loro aiuto, compromettendo così le nostre possibilità di raggiungere la vetta. Ora, per ironiadella sorte, era la spedizione di Hall a trovarsi in serio pericolo mentre altre squadre dovevano venire innostro aiuto. Comunque tre gruppi, la spedizione dell'Alpine Ascents International di Todd Burleson, laspedizione dell'IMAX di David Breashears e la spedizione commerciale di Mal Duff, rinviarono subito iloro piani per la conquista della vetta allo scopo di assistere gli scalatori in difficoltà.

Il giorno prima, venerdì 10 maggio, mentre noi delle squadre di Hall e Fischer salivamo verso la vetta dalCampo Quattro, la spedizione dell'Alpine Ascents International guidata da Burleson e Pete Athans eraarrivata al Campo Tre. Il sabato mattina, appena ricevuta la notizia del disastro che si stava verificando invetta, Burleson e Athans lasciarono i loro clienti a 7300 metri, affidandoli alle cure della terza guida, JimWilliams, per affrettarsi a salire sul Colle Sud in nostro soccorso.

In quel momento Breashears, Ed Viesturs e il resto della squadra dell'IMAX si trovavano casualmente alCampo Due: Breashears sospese subito le riprese per contribuire al tentativo di soccorso con tutte lerisorse della sua spedizione. Innanzi tutto, inviò un messaggio per informarmi che c'erano delle batterie diriserva immagazzinate in una delle tende dell'IMAX sul Colle; a metà pomeriggio le trovai e ciò consentìalla squadra di Hall di ristabilire i contatti radio con i campi alle quote inferiori. Poi Breashears offrì lariserva di ossigeno della sua spedizione - cinquanta bombole che erano state trasportate laboriosamentea 7986 metri - agli scalatori sofferenti e agli eventuali soccorritori che si trovassero sul Colle. Sebbenequesto potesse compromettere il suo progetto cinematografico da cinque milioni e mezzo di dollari, misea nostra disposizione senza esitare tutto quell'ossigeno, che era di importanza vitale.

Athans e Burleson raggiunsero il Campo Quattro a metà della mattinata, e cominciarono subito adistribuire le bombole dell'IMAX a tutti noi che avevamo fame di ossigeno, poi aspettarono di vedere irisultati del tentativo degli sherpa di recuperare Hall, Fischer e Gau. Alle quattro e trentacinque delpomeriggio Burleson era all'esterno delle tende quando vide qualcuno avvicinarsi lentamente al campo,con una curiosa andatura a ginocchia rigide. «Ehi, Pete», gridò rivolto ad Athans. «Vieni un po' a vedere,sta arrivando qualcuno.» La mano destra del nuovo venuto, nuda ed esposta al vento rigido, congelata inmodo grottesco, era protesa in una sorta di strano saluto ghiacciato. Chiunque fosse, ad Athansrammentava una mummia in un film dell'orrore, ma, quando la mummia entrò barcollando nel campo,Burleson si accorse che non era altri che Beck Weathers,risorto chissà come dalla morte.

La sera prima, quando si era rannicchiato insieme a Groom, Beidleman, Namba e agli altri membri diquel gruppo, Weathers si era sentito «diventare sempre più freddo. Avevo perduto il guanto destro.Avevo il viso gelato, le mani gelate. Mi sentivo tutto intorpidito e mi riusciva davvero difficile conservarela lucidità, così alla fine scivolai in una specie di oblio».

Per tutto il resto della notte e gran parte del giorno successivo, Beck era rimasto disteso sul ghiaccio,esposto al vento spietato, in stato di catalessi e più morto che vivo. Non ricorda l'arrivo di Boukreev,venuto a salvare Pittman, Fox e Madsen, e non ricorda neppure Hutchison, che lo trovò fra la neve e glitolse il ghiaccio dal viso. Era rimasto per oltre dodici ore in uno stato simile al coma; poi, nel tardopomeriggio del sabato, per qualche ragione incomprensibile una luce si era accesa nel nucleo rettiliano del

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cervello inanimato di Beck, riportandolo alla coscienza.

«Da principio credevo di sognare», ricorda Beck. «Quando sono rinvenuto, credevo di essere a letto.Non sentivo nè freddo nè disagio; mi sono girato semplicemente sul fianco, aprendo gli occhi, ed ecco lìdavanti a me la mia mano destra. Allora ho visto com'era congelata, e questo mi ha aiutato a tornare allarealtà. Finalmente mi sono svegliato quanto bastava per capire che ero nella merda fino al collo e che lacavalleria non sarebbe venuta a salvarmi e quindi era il caso che facessi qualcosa io.»

Sebbene fosse cieco dall'occhio destro e in grado di mettere a fuoco il sinistro solo per un raggio dipoco superiore a un metro, si avviò contro vento, deducendo correttamente che il campo si trovava inquella direzione. Se avesse sbagliato strada, sarebbe precipitato subito dalla parete Kangshung, il cuiciglio si trovava a meno di dieci metri nella direzione opposta. Dopo un'ora e mezzo circa, invece, si eratrovato davanti a «delle rocce di colore bluastro, lisce in modo innaturale», che si rivelarono le tende delCampo Quattro.

Hutchison e io eravamo nella nostra tenda, intenti a ricevere una comunicazione radio da Rob Hall, sullaCima Sud, quando Burleson arrivò a precipizio. «Dottore! Abbiamo un gran bisogno di lei!» gridò aStuart dall'esterno della porta. «Prenda la sua roba. Beck è appena arrivato, ma è in cattive condizioni!»Sbalordito dalla miracolosa resurrezione di Beck, Hutchison strisciò esausto all'esterno della tenda perrispondere all'appello.

Lui, Athans e Burleson sistemarono Beck in una tenda rimasta libera, lo avvolsero in due sacchipiumainsieme con parecchie borse di acqua calda e gli applicarono sul viso una maschera a ossigeno. «In quelmomento», confessa Hutchison, «nessuno di noi pensava che Beck avrebbe superato la notte. Riuscivo astento a sentire la pulsazione dell'arteria carotidea, che è l'ultima a svanire prima della morte. Era incondizioni critiche e, se anche fosse riuscito a sopravvivere fino al mattino, non riuscivo a immaginare inche modo lo avremmo portato giù.»

Ormai i tre sherpa che erano saliti per recuperare Scott Fischer e Makalu Gau erano tornati al camporiportando con sè solo quest'ultimo e lasciando Fischer su una cengia a 8290 metri, dal momento cheritenevano che per lui non ci fosse niente da fare. Tuttavia,avendo visto Beck tornare al campo dopoessere stato dato per morto, Anatoli Boukreev non era disposto a rinunciare a Fischer. Alle cinque delpomeriggio, mentre la tempesta aumentava di intensità, il russo salì da solo nel tentativo di salvarlo.

«Trovo Scott alle sette, o forse erano le sette e mezzo o le otto», rievoca ora Boukreev. «Ormai è buio.Il vento è molto forte. Ha la maschera a ossigeno sul viso, ma la bombola è vuota. Non porta i guanti, hale mani del tutto nude. La tuta imbottita ha la lampo aperta ed è abbassata su una spalla, rimastascoperta, mentre il braccio è rimasto all'interno. Non c'è niente da fare. Scott è morto.» Con la morte nelcuore, Boukreev assicurò lo zaino di Fischer sul suo volto, come un sudario, e lo lasciò sulla cengia dov'era disteso. Poi prese la macchina fotografica di Scott, la sua piccozzà e il suo temperino preferito, che inseguito Beidleman avrebbe consegnato al figlio di nove anni, a Seattle, e scese in mezzo alla bufera.

La tormenta che infuriò sull'Everest il sabato sera era ancor più potente di quella che aveva investito ilColle la sera prima. Quando Boukreev riuscì a raggiungere il Campo Quattro, la visibilità era ridotta apochi metri, e per poco non si lasciò sfuggire le tende.

Respirando per la prima volta dopo trenta ore.l'ossigeno delle bombole (grazie alla squadra dell'IMAX),scivolai in un sonno tormentato e irregolare, nonostante il fracasso prodotto dai lembi delle tende cheschioccavano furiosamente. Poco dopo mezzanotte, ero immerso in un incubo che riguardava Andy -precipitava dalla parete del Lhotse, portandosi dietro una corda e chiedendomi come mai non ne avevoassicurato l'altro capo - quando Hutchison mi scrollò per svegliarmi. «Jon», gridò per farsi sentire al di

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sopra del rombo della tempesta, «sono preoccupato per la tenda. Pensi che resisterà?»

Mentre mi riscuotevo insonnolito, risalendo dagli abissi di quel sogno angoscioso come un uomo sulpunto di annegare che riemerge dall'oceano, impiegai qualche istante a capire per quale motivo Stuartfosse preoccupato: il vento aveva schiacciato per metà il nostro rifugio, che veniva scosso con violenzada ogni raffica incalzante. Parecchi dei picchetti erano piegati di netto, e la luce della lampada rivelò chedue delle cuciture principali correvano il rischio di lacerarsi da un momento all'altro. Nell'aria all'internodella tenda turbinava un pulviscolo di particelle di neve finissima, che ricoprivano tutto di brina. Il ventosoffiava più forte di quanto avessi mai sperimentato, persino sulla calotta glaciale della Patagonia, unluogo che ha la fama di essere il più ventoso del pianeta. Se la tenda si fosse disintegrata prima delmattino, ci saremmo trovati in guai seri.

Stuart e io radunammo gli scarponi e tutto il nostro vestiario, poi ci mettemmo in posizione sul lato dellatenda contro il quale soffiava il vento. Facendo forza con il dorso e le spalle contro i pali danneggiati,nonostante la stanchezza, resistemmo per tre ore all'uragano, aggrappandoci a quella malandata cupola dinylon come se da quello dipendesse la nostra vita. Non facevo che pensare a Rob, lassù sulla Cima Sud,a 8760 metri, senza ossigeno, esposto in pieno alla furia di quella tempesta senza alcun riparo... ma eraun pensiero così angoscioso che tentai di non indugiarvi.

Poco prima dell'alba della domenica 12 maggio, Stuart esaurì l'ossigeno. «Senza ossigeno cominciai asentire davvero il freddo e l'ipotermia», osserva. «Stavo perdendo la sensibilità nelle mani e nei piedi. Eropreoccupato al pensiero di superare il limite della mia resistenza, di non riuscire ascendere dal Colle. Edero preoccupato all'idea che, se non fossi sceso quel giorno, forse non sarei sceso mai più.» Cedendo aStuart la mia bombola, frugai in giro fino a trovarne un'altra in cui era rimasto un po' di gas, poicominciammo tutti e due a prepararci per la discesa.

Quando mi avventurai all'esterno, vidi che almeno una delle tende libere era stata spazzata via dal Colle;poi notai Ang Dorje che se ne stava solo in mezzo a quel vento terribile, singhiozzando in modoinconsolabile per la perdita di Rob. Dopo la spedizione, quando parlai di quel dolore alla sua amicacanadese Marion Boyd, lei mi spiegò: «Ang Dorje ritiene che il suo compito sulla terra sia mantenere lagente al sicuro... lui e io ne abbiamo parlato spesso. E estremamente importante per lui in termini religiosi,oltre che come preparazione alla prossima reincarnazione.[41]Anche se Rob era il capo della spedizione,Ang Dorje considerava una sua responsabilità quella di assicurare l'incolumità di Rob, Doug Hansen edegli altri. Così, quando sono morti, non ha potuto fare ameno di sentirsi colpevole».

Temendo che Ang Dorje fosse tanto sconvolto da rifiutarsi di allontanarsi, Hutchison lo scongiurò discendere subito dal Colle. Poi, alle otto e mezzo {convinto che ormai Rob, Andy, Doug, Scott, Yasukoe Beck fossero tutti sicuramente morti) Mike Groom, nonostante i gravi sintomi di congelamento,s'impose di uscire dalla sua tenda e radunare coraggiosamente Hutchison, Taske, Fischbeck eKasischke, per cominciare a guidarli nella discesa dalla montagna.

Dato che non c'erano altre guide, mi offrii volontario per svolgere quel ruolo e chiudere la marcia.Mentre il nostro gruppo sfilava lentamente, abbattuto, lasciando il Campo Quattro in direzione delloSperone dei Ginevrini, mi feci forza per un'ultima visita a Beck, che ritenevo fosse morto durante la notte.Localizzai la sua tenda, che era stata appiattita dall'uragano, e vidi che aveva tutt'e due le porte aperte.Quando sbirciai all'interno, però, scoprii sorpreso che Beck era ancora vivo.

Era disteso supino sul pavimento della tenda crollata, scosso da brividi convulsi. Aveva il visospaventosamente gonfio, ricoperto da chiazze di congelamento profondo, nere come l'inchiostro, sul nasoe sulle guance. La tempesta gli aveva strappato di dosso tutt'e due i sacchipiuma, lasciandolo esposto alvento glaciale, e lui, con le mani congelate, non aveva potuto coprirsi di nuovo nè chiudere la lampo della

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tenda. «Gesù Cristo!» gemette vedendomi, con il viso contorto in un rictus di angoscia e disperazione.«Che cosa bisogna fare per avere un po' di aiuto, da queste parti?» Invocava aiuto da due o tre ore, mala tempesta aveva soffocato le sue grida.

Svegliandosi nel cuore della notte, aveva scoperto che «la tormenta aveva abbattuto la tenda e la stavatrascinando via. Il vento mi premeva il telo della tenda sul viso con tanta forza che non riuscivo arespirare. Mollava per un secondo, poi tornava a premere sul viso e sul petto, lasciandomi senza fiato.Oltre tutto, il braccio destro mi si stava gonfiando, e avevo al polso questo stupido orologio, così ilbraccio diventava sempre più gonfio e il cinturino sempre più stretto, finchè non mi ha bloccato l'afflussodel sangue alla mano. Ma con le mani così conciate non riuscivo a togliermi quel dannato affare. Gridavoaiuto, ma nessuno veniva. È stata una lunga notte infernale. Amico, sono stato contento di vedere la tuafaccia, quando ti sei affacciato all'apertura».

Appena scoperto Beck nella sua tenda, ero rimasto così scosso dalle sue condizioni spaventose - e dalmodo imperdonabile in cui lo avevamo lasciato ancora una volta a sè stesso - che per poco non eroscoppiato in lacrime. «Tutto andrà bene», mentii, soffocando i singhiozzi mentre gli rincalzavo intorno isacchipiuma chiudevo le aperture della tenda e tentavo di rimettere in piedi il telone danneggiato. «Nonpreoccuparti, amico. Ora è tutto sotto controllo.»

Dopo aver messo a suo agio Beck come meglio potevo, chiamai alla radio la dottoressa Mackenzie, alcampo base. «Caroline!» implorai in tono isterico. «Che cosa devo fare con Beck? È ancora vivo, manon credo che possa sopravvivere ancora a lungo. È davvero in cattive condizioni!»

«Cerca di stare calmo, Jon», rispose lei. «Tu devi scendere con Mike e il resto del gruppo. Dove sonoPete e Todd? Chiedi a loro di assistere Beck, poi scendi.» Scrollai freneticamente Athans e Burleson,che si precipitarono subito verso la tenda di Beck con una borraccia di tè bollente. Mentre mi affrettavoa lasciare il campo per raggiungere i miei compagni, Athans si preparava a iniettare quattro milligrammi didexamethasone nella coscia del texano moribondo. Erano gesti degni di lode, ma era difficile credere chegli potessero giovare molto.

L'unico grande vantaggio che l'inesperienza conferisce all'aspirante alpinista è, la mancanza di rispettoreverenziale verso la tradizione e i predecessori. Tutto gli appare semplice, e sceglie soluzioni dirette aiproblemi che gli si presentano. Spesso, è naturale, fallisce gli obiettivi che si prefigge, talvolta conconseguenze tragiche, tuttavia, quando inizia la grande avventura è ignaro di tutto questo. MauriceWilson, Earl Denman, Klavs Becker-Larsen -nessuno di loro conosceva molto l'alpinismo, altrimenti nonsi sarebbero impegnati nella loro lotta senza speranze. Purtuttavia, senza gli impacci della tecnica, la soladeterminazione li condusse molto lontano.

WALT UNSWORTH

Everest

 

        Quindici minuti dopo la partenza dal Colle Sud, la mattina di domenica 12 maggio, raggiunsi i mieicompagni che scendevano lo Sperone dei Ginevrini. Offrivamo uno spettacolo patetico: eravamo tutticosì debilitati che il gruppo impiegò un tempo incredibilmente lungo solo per scendere le poche centinaiadi metri che ci separavano dal pendio innevato immediatamente al di sotto. L'aspetto più impressionante,comunque, era la nostra riduzione a un numero così sparuto: tre giorni prima, quando eravamo saliti suquello stesso terreno, eravamo in undici, e adesso eravamo ridotti a sei.

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        Stuart Hutchison, che si trovava alla retroguardia del gruppo, era ancora in cima allo speronequando lo raggiunsi, e si accingeva a calarsi lungo le corde fisse. Notai che non portava gli occhialoni:eppure, anche se il cielo era coperto, i raggi ultravioletti a quell'altitudine erano abbastanza maligni dacausare in brevissimo tempo l'oftalmia nivale. «Stuart!» gli gridai per farmi sentire nonostante il vento,puntandomi il dito verso gli occhi. «Gli occhialoni!»

        «Ah, già», replicò lui con voce stanca. «Grazie di avermelo ricordato. Ehi, già che sei qui, potresticontrollarmi l'imbracatura, per favore? Sono così stanco che non riesco più a connettere. Ti sarei moltograto se mi tenessi d'occhio.» Esaminando la sua imbracatura, vidi subito che la fibbia non era ben stretta;se lui si fosse agganciato alla corda con il moschettone di sicurezza, si sarebbe aperta sotto il peso delcorpo, facendolo precipitare lungo la parete del Lhotse. Quando glielo feci notare, mi disse: «Sì, ci hopensato anch'io, ma avevo le mani troppo gelate per stringerla bene». Togliendomi i guanti nel ventotagliente, mi affrettai a stringergli ben bene l'imbracatura intorno alla cintola, poi lo calai dallo Spur subitodopo gli altri.

        Mentre agganciava il moschettone alla corda fissa, si lasciò sfuggire la piccozza, poi la dimenticòsulle rocce mentre prendeva il via per il primo tratto a corda doppia. «Stuart!» gli gridai. «La piccozza!»

        «Sono troppo stanco per portarla», mi gridò di rimando «Làsciala dov'è.» Ero così esausto iostesso che non obiettai. Abbandonando lì la piccozza, mi agganciai alla corda eseguii Stuart giù per ilripido costone dello sperone.

        Un'ora dopo raggiungemmo la Fascia Gialla, dove si formò un ingorgo mentre gli scalatoriscendevano cautamente, uno alla volta, la parete verticale. Mentre aspettavo in fondo alla fila, ciraggiunsero parecchi sherpa di Scott Fischer; fra loro c'era anche Lopsang Jangbu, quasi impazzito per ildolore e la spossatezza. Posandogli una mano sulla spalla, gli dissi che mi dispiaceva per Scott. Lopsangsi battè sul petto e proruppe fra le lacrime: «Porto grande,sfortuna. Scott è morto: è colpa mia. Io portogrande sfortuna. E’ colpa mia. lo porto grande sfortuna».

 

        Approdai con lentezza al Campo Due intorno all'una e mezza del pomeriggio. Benchè a rigor ditermini si trovasse ancora a un'altitudine notevole (6500 metri), si trattava di un luogo del tutto diverso dalColle Sud. Il vento micidiale si era placato del tutto; invece di rabbrividire e preoccuparmi deicongelamenti, ora sudavo a profusione sotto un sole ardente; non avevo più l'impressione di aggrapparmialla sopravvivenza grazie a un filo sottile.

        Notai che la tenda-mensa era stata trasformata in un ospedale da campo improvvisato, diretto daHenrik Jessen Hansen, un medico danese della squadra di Mal Duff, e da Ken Hamler, un medicoamericano cliente della spedizione di Todd Burleson. Alle tre del pomeriggio, mentre bevevo una tazza ditè, sei sherpa scortarono nel locale Makalu Gau, che aveva l' aria stordita, e i medici entrarono subito inazione.

        Lo fecero distendere, lo spogliarono e gli inserirono l'ago della flebo nel braccio. Esaminandogli lemani e i piedi congelati, che erano ricoperti di uno strato biancastro e opaco, simile a quello di unlavandino sporco, Kamler osservò con aria truce: «Questo è il caso di congelamento peggiore che abbiamai visto». Quando gli chiese il permesso di fotografare i suoi arti a scopo di documentazione, loscalatore di Taiwan acconsentì con un largo sorriso; come un soldato che esibisce le ferite ricevute incombattimento, sembrava quasi fiero delle terribili lesioni che aveva riportato.

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        Novanta minuti dopo, i medici erano ancora al lavoro su Makalu, quando si udì la voce di DavidBreashears che annunciava a gran voce alla radio: «Stiamo scendendo con Beck. Arriveremo al CampoDue verso sera».

        Passò un lungo istante prima che mi rendessi conto che Breashears non parlava di trasportare uncadavere dalla montagna; lui e i suoi compagni stavano riportando Beck a valle vivo. Non potevocrederci. Quando lo avevo lasciato sul Colle Sud, sette ore prima, ero terrorizzato al pensiero che nonsarebbe riuscito a superare la mattina.

        Dato per morto per l'ennesima volta, Beck si era semplicemente rifiutato di soccombere. .Inseguito avrei appreso da Pete Athans che, poco dopo aver iniettato a Beck il dexamethasone, il texanoaveva mostrato una capacità di recupero sorprendente: «Verso le dieci e trenta lo abbiamo vestito, gliabbiamo applicato l'imbracatura e abbiamo scoperto che era addirittura in grado di stare in piedi ecamminare. Eravamo tutti sbalorditi».

        Avevano cominciato la .discesa dal Colle con .Athans che precedeva Beck, indicandogli dovemettere i piedi. Con Beck che teneva un braccio sulle spalle di Athans e Burleson che reggevasaldamente l'imbracatura del texano stando dietro di lui, si erano calati con cautela giù dalla montagna.«A tratti dovevamo aiutarlo parecchio», riferisce Adams, «ma si muoveva sorprendentemente bene.»

        A 7600 metri, appena al di sopra delle pareti di calcare della Fascia Gialla, si erano visti venireincontro Ed Viesturs e Robert Schauer, che avevano calato con efficienza Beck giù per la roccia ripida.Al Campo Tre erano stati assistiti da Breashears, Jim Williams, Veikka Gustafsson e Araceli Segarra; ineffetti gli otto scalatori sani avevano trasportato giù dalla parete del Lhotse Beck, gravemente impeditonei movimenti, in un tempo notevolmente inferiore a quello impiegato dai miei compagni e da me, qualcheora prima.

        Quando appresi che Beck stava scendendo, mi diressi verso la tenda, infilai stancamente gliscarponi e mi avviai lentamente incontro al gruppo di soccorso, aspettandomi di incontrarli sulle pendiciinferiori della parete del Lhotse. Invece restai stupito nell'imbattermi nel gruppo al completo a circa ventiminuti dal Campo Due. Pur lasciandosi trainare, Beck si muoveva con le proprie forze. Breashears ecompagni lo sospingevano lungo il ghiacciaio a un'andatura tale che io, ridotto com'ero in condizionipietose, riuscivo a stento a restare al passo con loro.

        Beck fu sistemato nell'ospedale da campo accanto a Makalu Gau, dopodichè i medicicominciarono a spogliarlo. «Mio Dio!» esclamò il dottor Kamler quando vide la mano destra di Beck. «Ilsuo congelamento è anche peggiore di quello di Makalu.» Tre ore dopo, quando m'infilai nel saccopiuma,i medici stavano ancora scaldando delicatamente gli arti congelati di Beck in un contenitore di acquatiepida, lavorando alla fioca luce delle lampade.

        La mattina dopo, lunedì 13 maggio, lasciai le tende alle prime luci dell'alba per percorrere i quattrochilometri della conca del Cwm occidentale fino all'orlo della seraccata. Là, eseguendo le istruzioniinviate via radio da Guy Cotter dal campo base, perlustrai la zona in cerca di un'area pianeggiante chepotesse servire da pista di atterraggio per un elicottero.

        Nei giorni precedenti Cotter aveva lavorato con ostinazione al telefono satellitare per organizzarel'evacuazione via elicottero dall'estremità inferiore del Cwm, in modo che Beck non dovesse discenderele corde e le scalette insidiose della seraccata, che sarebbero state difficili e molto pericolose, con le manicosì gravemente lesionate. In precedenza nel Cwm erano già atterrati degli elicotteri, nel 1973, quandouna spedizione italiana ne aveva usati un paio per trasportare i carichi dal campo base; tuttavia si trattavadi un volo estremamente rischioso, ai limiti delle possibilità dell'apparecchio, e uno degli elicotteri italiani si

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era schiantato sul ghiacciaio. Nei ventitre anni trascorsi da allora, nessuno aveva più tentato l'atterraggiosulla seraccata.

        Cotter tuttavia insistette e, grazie ai suoi sforzi, l'ambasciata americana persuase l'esercito delNepal a tentare un'operazione di salvataggio con l'elicottero nel Cwm. Verso le otto del lunedì mattina,mentre cercavo invano un posto accettabile per far atterrare il velivolo fra i seracchi caotici all'orlo dellacascata di ghiaccio, sentii la voce di Cotter gracchiare alla radio: «L'elicottero è già in volo, Jon.Dovrebbe arrivare a minuti. È meglio che trovi un posto per farlo atterrare, e alla svelta». Sperando ditrovare un terreno pianeggiante a un livello più alto del ghiacciaio, m'imbattei poco dopo in Beck cheveniva trainato giù per il Cwm da Athans, Burleson, Gustafsson, Breashears, Viesturs e il resto dellaspedizione IMAX.

        Breashears, che aveva lavorato spesso con gli elicotteri nel corso di una lunga e onorata carriera diregista, scovò subito un'area di atterraggio delimitata da due crepacci aperti a 6050 metri. Io legai unakata di seta a un bastone di bambù perchè facesse da manica a vento, mentre Breashears, utilizzandouna bottiglia di Kool-Aid rosso come colorante, tracciava una gigantesca X sulla neve al centro dellazona di atterraggio. Pochi minuti dopo apparve Makalu Gau, trascinato lungo il ghiacciaio sopra un telodi plastica da una mezza dozzina di sherpa. Un attimo dopo sentimmo il caratteristico rumore dei rotori diun elicottero che sferzavano l'aria rarefatta.

        Pilotato dal tenente colonnello Madan Khatri Chhetri, dell'esercito nepalese, l'elicottero B2 Squirrelverde oliva, privo del combustibile e l'equipaggiamento superflui, fece due passaggi, ma entrambe le volterinunciò all'ultimo momento all'atterraggio. Al terzo tentativo, tuttavia, Madan depositò lo Squirreltremante sul ghiacciaio, con la coda sospesa su un crepaccio senza fondo. Mantenendo i rotori almassimo regime, senza mai staccare gli occhi dal pannello dei comandi, Madan alzò un dito, indicandoche poteva prendere a bordo un solo passeggero; a quell'altitudine, qualsiasi sovraccarico di peso potevafarlo precipitare durante il decollo.

        Poiche i piedi congelati di Gau erano stati scongelati al Campo Due, lo scalatore di Taiwan nonpoteva più camminare nè stare in piedi, quindi Breashears, Athans e io convenimmo che doveva esserelui a partire. «Mi spiace», gridai a Beck per farmi sentire al di sopra del fragore delle turbinedell'elicottero. «Forse riuscirà a fare un secondo volo.» Beck annuì con aria filosofica.

        Issammo Gau nel retro dell'elicottero e l'apparecchio si levò in aria a fatica. Appena i pattini diMadan si staccarono dal ghiacciaio, lui puntò in avanti e piombò come un sasso oltre il ciglio dellaseraccata scomparendo fra le ombre. Un silenzio profondo scese sul Cwm.

        Mezz'ora dopo eravamo ancora fermi intorno alla pista di atterraggio a discutere sul modo ditrasportare giù Beck, quando si sentì un lieve rumore provenire dalla valle sottostante. Pian piano ilrumore aumentò di volume, e infine il piccolo elicottero verde entrò nella nostra visuale. Madan risalì perun breve tratto il Cwm prima di virare, cosicchè il muso dell'apparecchio ora puntava a valle. Poi, senzaesitazioni, depose nuovamente lo Squirrel sulla croce disegnata con il Kool-Aid, e Breashears e Athans siaffrettarono a caricare a bordo Beck. Pochi secondi dopo, l'elicottero era in volo che sfiorava la SpallaOvest dell'Everest come una bizzarra libellula di metallo. Un'ora dopo, Beck e Makalu Gau ricevettero leprime cure in un ospedale di Kathmandu.

        Dopo che la squadra di soccorso si fu dispersa, restai seduto a lungo da solo sulla neve, con losguardo fisso sui miei scarponi, nel tentativo di assimilare gli avvenimenti delle ultime settantadue ore.Come potevano essere andate così storte le cose? Come potevano essere morti davvero Andy e Rob eScott e Doug e Yasuko? Ma per quanto tentassi, non ricevevo risposte. Le proporzioni di quella sciaguraerano così superiori alle mie peggiori previsioni, che il mio cervello semplicemente entrò in corto circuito

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e si oscurò. Abbandonando ogni speranza di comprendere quello che era accaduto, mi misi in spalla lozaino e ridiscesi nel caos di ghiaccio stregato della seraccata, nervoso come un gatto, per un ultimotragitto attraverso il labirinto di seracchi in disfacimento.

Mi verrà inevitabilmente richiesto un giudizio equilibrato sulla spedizione, di quel genere che eraimpossibile quando eravamo tutti troppo vicini ai fatti... Da un lato, Amundsen che si reca laggiù senzaintoppi; arriva per primo e torna indietro senza perdere un solo uomo e senza aver esposto sè stesso e isuoi uomini a sforzi maggiori di quanto fosse previsto nel lavoro quotidiano di esplorazione polare.Dall'altro, la nostra spedizione, che ha comportato rischi agghiacdanti, compiuto prodigi di resistenzasovrumana, ottenuto fama immortale, è stata commemorata con sermoni nelle auguste cattedrali e constatue pubbliche, ma ha raggiunto il Polo solo per scoprire che il nostro terribile viaggio era statosuperfluo, lasciando morti sul ghiaccio gli uomini migliori. Ignorare un simile contrasto sarebbe ridicolo:scrivere un libro senza darne conto, una mera perdita di tempo.

APSLEY CHERRY-GARRARD

The Worst Journey in the World,

resoconto della tragica spedizione

di Robert Falcon SCOtt al Polo Sud,

nel 1912

 

        Arrivato in fondo alla seraccata del Khumbu, la mattina di lunedì 13 maggio, trovai ad attendermi infondo al pendio, ai margini del ghiacciaio, Ang Tshering, Guy Cotter e Caroline Mackenzie. Guy mi offrìuna birra, Caroline mi abbracciò, e un attimo dopo mi ritrovai seduto sul ghiaccio col viso fra le mani e leguance rigate di lacrime, a piangere come non facevo da quando ero bambino. Ormai al sicuro, con latensione spasmodica dei giorni precedenti che si allentava, piangevo per i compagni perduti, piangevoperchè ero grato di essere vivo, piangevo perchè mi sentivo un mostro per il solo fatto che erosopravvissuto mentre altri erano morti.

        Il martedì pomeriggio, Neal Beidleman presiedette una funzione commemorativanell'accampamento della Mountain Madness. Il padre di Lopsang Jangbu, Ngawang Sya Kya, che erastato ordinato lama, bruciò dei bastoncini di incenso di ginepro e recitò testi buddhisti Sotto un cielo di ungrigiore metallico. Neal pronunciò poche parole, e dopo di lui parlarono Guy e Anatoli Boukreev,piangendo la perdita di Scott Fischer. Io mi alzai in piedi per balbettare qualche parola in ricordo di DougHansen. Pete Schoening tentò di risollevare gli animi incoraggiandoci a guardare al futuro, e non alpassato; ma quando la cerimonia finì e ci disperdemmo tutti nelle tende, sul campo base aleggiavaun'atmosfera funerea.

        La mattina dopo di buon'ora arrivò un elicottero per portare via Charlotte Fox e Mike Groom,giacchè i piedi congelati di entrambi richiedevano cure mediche immediate. John Taske, che era medico,si unì a loro per assistere Charlotte e Mike durante il viaggio. Poi, poco dopo mezzogiorno, mentre HelenWilton e Guy Cotter restavano per sovrintendere allo smantellamento del campo dell'AdventureConsultants, Lou Kasischke, Stuart Hutchison, Frank Fischbeck, Caroline e io ci allontanammo a piedidal campo base, diretti a casa.

        Giovedì 16 maggio ci trasferirono in elicottero da Pheriche al villaggio di Syangboche, poco più su

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di Namche Bazaar. Mentre stavamo attraversando la pista non asfaltata per attendere un secondo voloper Kathmandu, Stuart, Caroline e io ci vedemmmo venire incontro tre giapponesi dal volto cinereo. Ilprimo disse di chiamarsi Muneo Nukita; era un esperto scalatore dell'Himalaya che aveva raggiunto duevolte la vetta dell'Everest e ci spiegò cortesemente che faceva da guida e da interprete per gli altri due,che ci presentò come il marito di Yasuko Namba, Kenichi Namba, e il fratello. Nei tre quarti d'oraseguenti ci rivolsero molte domande, a poche delle quali ero in grado di rispondere.

        Ormai la notizia della morte di Yasuko era finita sulle prime pagine dei giornali giapponesi. Anzi, il12 maggio - meno di ventiquattro ore dopo la sua morte sul Colle Sud - un elicottero si era posato alcentro del campo base, sbarcando due giornalisti giapponesi muniti di maschere a ossigeno. Rivolgendosialla prima persona che vedevano, un alpinista americano che si chiamava Scott Darsney, gli avevanochiesto informazioni su Yasuko. Ora, a quattro giorni di distanza, Nukita ci avvertì che uno sciamealtrettanto vorace di giornalisti della stampa e della televisione ci attendeva all'arrivo a Kathmandu.

        Quel pomeriggio sul tardi ci stipammo a bordo di un gigantesco elicottero Mi-17 e decollammoapprofittando di un varco fra le nuvole. Un'ora dopo l'elicottero atterrava all'aeroporto internazionale diTribhuvan, dove appena sbarcati ci trovammo in mezzo a una selva di microfoni e telecamere. Essendoun giornalista, trovai istruttivo sperimentare la situazione dall'altro lato della barricata. La folla digiornalisti, per lo più giapponesi, volevano una versione ben sceneggiata del disastro, con tanto di buoni ecattivi; ma il caos e le sofferenze a cui avevo assistito non si lasciavano ridurre facilmente a sempliciimpulsi sonori. Dopo venti minuti di terzo grado sulla pista, mi trasse in salvo David Schensted, il consoledell'ambasciata americana, che mi accompagnò al Garuda Hotel.

        Seguirono altri colloqui più difficili,on altri cronisti, e poi le forche caudine degli accigliati funzionaridel ministero del Turismo. Il venerdì sera, aggirandomi per i vicoli del quartiere di Thamel, a Kathmandu,cercai scampo a una depressione sempre più profonda porgendo a un macilento ragazzo nepalese unamanciata di rupie e ricevendo in cambio un minuscolo pacchetto avvolto nella carta decorata con unatigre ringhiante. Una volta al sicuro nella mia camera d'albergo, svolgendo l'involucro ne sbriciolai ilcontenuto su una cartina di sigaretta. Le gemme di un verde pallido erano appiccicose di resina eodoravano di frutti marci. Mi preparai uno spinello, lo fumai fino in fondo, ne arrotolai un altro piuttostoconsistente e fumai per metà anche quello, prima che la stanza cominciasse a rotearmi intorno. Allora lospensi.

        Mi stesi nudo sul letto ad ascoltare i suoni della notte che filtravano nella stanza dalla finestraaperta. Il tintinnio dei campanelli dei risciò si fondeva con i clacson delle auto, i richiami dei venditoriambulanti, le risa di una donna, la musica di un bar vicino. Steso supino, troppo fatto per muovermi,chiusi gli occhi e mi lasciai colare addosso, come un balsamo, il caldo colloso della stagionepremonsonica; avevo l'impressione di sciogliermi, fondendomi con il materasso. Sul retro delle miepalpebre chiuse sfilava un corteo di girandole ricoperte di incisioni intricate e di figure di cartone dalgrosso naso, il tutto a colori fluorescenti.

        Quando voltai la testa di lato, sfiorai con l'orecchio un punto umido e mi accorsi che le lacrime miscorrevano sul viso e andavano a inzuppare le lenzuola. Sentivo una bolla gonfia e gorgogliante disofferenza e di vergogna che si gonfiava lungo la mia spina dorsale, scaturendo da chissà dove. Al primosinghiozzo, che proruppe dal naso e dalla bocca con un fiotto di muco, ne seguì un altro, poi un altro e unaltro ancora.

 

        Il 19 maggio rientrai in aereo negli Stati Uniti, portando con me due sacche di effetti personali diDoug Hansen da restituire alle persone che lo amavano. All'aeroporto di Seattle vennero a prendermi i

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figli, Angie e Jaime, la sua ragazza, Karen Marie, più altri amici e parenti. Di fronte alle loro lacrime, misentii stupido e impotente.

        Respirando la densa aria marina che portava con se la fragranza della bassa marea, ammirai lafecondità della primavera di Seattle, apprezzandone come non mai il fascino umido e muscoso. Pianpiano, a piccoli passi esitanti, Linda e io cominciammo a ritrovare la confidenza fra noi. Riacquistai tutti idodici chili che avevo perduto nel Nepal, con gli interessi. I normali piaceri della vita in famiglia - fare laprima colazione con mia moglie, guardare il tramonto del sole sul Puget Sound, potermi alzare nel cuoredella notte e andare a piedi nudi in una stanza da bagno calda - mi procuravano lampi di gioia chesconfinava nell'estasi. Ma quei momenti erano oscurati dalla lunga ombra gettata dall'Everest, che nonsembrava diminuire affatto, nonostante il passare del tempo.

        Rimuginando sul mio senso di colpa, rinviai le telefonate alla compagna di Andy Harris, FionaMcPherson, e alla moglie di Rob Hall, Jan Arnold, per tanto tempo che alla fine furono loro a chiamarmidalla Nuova Zelanda. Quando fu stabilita la comunicazione, non riuscii adire nulla che potesse mitigarel'ira o lo sconcerto di Fiona, mentre nella conversazione con Jan fu soprattutto lei a confortare me,anzichè il contrario.

        Avevo sempre saputo che l'alpinismo era una sfida ad alto rischio. Accettavo il fatto che il pericolofosse una componente essenziale del gioco: senza di esso, arrampicare sarebbe stato ben poco diversoda cento altri modi di passare il tempo. Quello che mi titillava era proprio sfiorare di proposito l'enigmadella mortalità, lanciare un'occhiata oltre la frontiera proibita. Arrampicare era un'attività meravigliosa, neero fermamente convinto, non a dispetto dei rischi impliciti, ma proprio per quelli.

        Prima di salire sull'Himalaya, però, non avevo mai visto la morte così da vicino. Diamine, prima discalare l'Everest non ero mai stato neanche a un funerale. La mortalità era rimasta un concettocomodamente ipotetico, un'idea su cui riflettere in astratto. Prima o poi era inevitabile che una taleinnocenza privilegiata fosse infranta, ma quando infine accadde, lo shock fu ingigantito dall'assoluta inanitàdella strage: nella primavera del 1996 l'Everest ha ucciso in tutto dodici persone fra uomini e donne, ilbilancio di morte più pesante da quando gli alpinisti vi avevano messo piede per la prima volta,settantacinque anni prima.

        Dei sei scalatori della spedizione di Hall che avevano raggiunto la vetta, solo Mike Groom e ioeravamo riusciti a ridiscendere, mentre avevano perso la vita quattro compagni insieme ai quali avevoriso, vomitato, intrattenuto lunghe conversazioni intime. Le mie azioni, o meglio le mie omissioni, avevanosvolto un ruolo diretto nella morte di Andy Harris; e mentre Yasuko Namba giaceva morente sul ColleSud, io ero a meno di trecentocinquanta metri di distanza, raggomitolato nella mia tenda, ignaro della sualotta contro la morte, preoccupato solo della mia incolumità. La macchia che questo ha lasciato sulla miapsiche non è di quel tipo che sbiadisce dopo qualche mese di dolore e di recriminazioni intrise di senso dicolpa.

        Infine parlai della mia perdurante inquietudine con Klev Schoening, che vive non lontano da casamia. Klev mi disse che si sentiva male anche lui per la perdita di tante vite, ma non provava «il senso dicolpa del superstite». Mi spiegò: «Là fuori sul Colle, quella sera, ho sfruttato tutte le risorse che avevoper salvare me stesso e quelli che erano con me. Quando sono tornato alle tende, non mi restavano piùenergie da spendere. Avevo una cornea congelata ed ero praticamente cieco, in preda all'ipotermia, aldelirio e a brividi incontrollabili. Perdere Yasuko è stato terribile, ma mi sono rappacificato con me stessosu questo punto, perchè in fondo al cuore so che non c'era nient'altro che potessi fare per salvarla. Nondovresti essere così severo con te stesso. Era una tempesta spaventosa. Nelle condizioni in cui eri checosa avresti potuto fare per lei?»

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        Forse niente, ero d' accordo. Ma a differenza di Schoening, non ne sarò mai sicuro, e l'invidiabilepace di cui parla continua a sfuggirmi. Con tanti alpinisti poco qualificati che affluiscono sull'Everestattualmente, molti credono che una tragedia di queste dimensioni fosse inevitabile; ma nessunoimmaginava che al centro del disastro si trovasse una spedizione condotta da Rob Hall. Hall gestiva lespedizioni più sicure e meglio organizzate della montagna, nessuna esclusa. Temperamento metodico finoall'ossessione, aveva elaborato e messo in atto dei sistemi che avrebbero dovuto prevenire una similecatastrofe. E allora che cosa accadde? Com'è possibile spiegare l'accaduto, non solo ai cari rimasti, maanche a un pubblico critico?

Forse un' eccessiva sicurezza in se stesso ha giocato un certo ruolo. Hall era diventato così abile nelcondurre su e giù per l'Everest alpinisti di qualsiasi livello tecnico, che probabilmente era diventato un po'arrogante. In più di un'occasione si era vantato di poter guidare sulla vetta chiunque fosse discretamentein forma, e il suo curriculum sembrava confermarlo; inoltre aveva rivelato una notevole abilità nel vincerele avversità.

Nel 1995, per esempio, Hall e le sue guide non avevano dovuto affrontare solo i problemi di Hansenpresso la vetta, ma anche tenere testa al collasso totale di un'altra cliente, Chantal Mauduit, una notaalpinista francese, che compiva il settimo tentativo di conquista dell'Everest senza ossigeno. A 8748metri, la Mauduit aveva perso i sensi ed era stato necessario trascinarla e trasportarla di peso per tutto ilpercorso dalla Cima Sud al Colle Sud «come un sacco di patate», per usare le parole di Guy Cotter. Dalmomento che tutti erano usciti vivi da quel tentativo di conquista della vetta, può darsi benissimo che Hallabbia pensato che c'erano ben poche situazioni che non fosse in grado di fronteggiare.

Prima del 1996, tuttavia, Hall aveva avuto una straordinaria fortuna con le condizioni atmosferiche, equesto potrebbe aver viziato le sue capacità di giudizio. «Una stagione dopo l'altra», confermò DavidBreashears, che ha partecipato a oltre una dozzina di spedizioni himalayane e ha scalato tre voltel'Everest, «Rob ha avuto un tempo straordinario nel giorno dell'assalto alla vetta. Non era mai statosorpreso da una tormenta in alta quota.» In effetti la tempesta del 10 maggio, per quanto violenta, nonera niente di straordinario; era una manifestazione temporalesca abbastanza tipica dell'Everest. Se avesseinfuriato due ore dopo, è probabile che non ci sarebbero stati morti. Viceversa, se fosse arrivata anchesolo un'ora prima, avrebbe potuto uccidere facilmente diciotto o venti scalatori, me compreso.

Senza dubbio ha pesato molto anche il calcolo dei tempi, oltre alle condizioni atmosferiche, e ignorare l'orologio non si può liquidare come un atto divino. I ritardi rispetto agli orari limite prestabiliti eranoprevedibili e in larga misura evitabili; i tempi fissati per il ritorno furono tranquillamente ignorati. Il rinviodell'orario limite fissato per il rientro può essere stato influenzato in una certa misura dalla rivalità traFischer e Hall. Fischer non aveva mai fatto la guida sull'Everest prima del 1996; da un punto di vistacommerciale, risentiva in misura fortissima della pressione che lo spingeva al successo. Eraeccezionalmente motivato a portare fino alla vetta i suoi clienti, soprattutto un personaggio celebre comeSandy Hill Pittman.

Allo stesso modo, per Hall, dal momento che nel 1995 non aveva portato nessuno sulla vetta, sarebbestato un grosso guaio se avesse fallito di nuovo nel 1996... soprattutto se Fischer avesse avuto successo.Scott aveva una personalità carismatica, e il suo fascino magnetico era stato commercializzato in modoaggressivo da lane Bromet. Egli stava portando un serio attacco alle risorse di Hall che ne eraconsapevole. Date le circostanze, la prospettiva di far tornare indietro i suoi clienti mentre quellidell'avversario premevano per raggiungere la vetta poteva essere abbastanza sgradevole da offuscare lacapacità di giudizio di Hall.

Non verrà mai sottolineato abbastanza, inoltre, che Hall, Fischer e tutti noi eravamo costretti a prenderedecisioni critiche mentre eravamo gravemente menomati dalla carenza di ossigeno. Nel ricostruire in che

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modo possa essersi verificato il disastro, è essenziale ricordare che è del tutto impossibile riflettere conlucidità a un'altitudine di 8840 metri.

È facile ragionare con il senno di poi. Scossi dal prezzo pagato in termini di vite umane, i critici sono statipronti a suggerire tattiche e procedure per far sì che non si ripetano le catastrofi di questa stagione. Si èavanzata per esempio la proposta che sull'Everest si instauri la regola della proporzione di una guida perogni cliente; vale adire che ogni cliente dovrebbe arrampicare con una guida personale e restareassicurato alla guida in ogni momento.

Forse, però, il modo più semplice per evitare stragi future sarebbe bandire l'uso delle bombole diossigeno, se non nei casi di emergenza medica. Qualche anima irrequieta potrà anche perire nel tentativodi raggiungere la vetta senza ossigeno, ma la grande massa degli alpinisti incompetenti sarebbe costretta atornare indietro dai ptopri limiti fisici, prima di salire abbastanza in alto da cacciarsi in guai seri. E laregola di abolire l'ossigeno avrebbe il beneficio collaterale di ridurre automaticamente l'accumulo di rifiutie l'affollamento, perchè il numero degli aspiranti scalatori dell'Everest diminuirebbe in misura notevole, sesapessero che non ne è ammesso l'uso.

Comunque l'esercizio della professione di guida sull'Everest è regolato da norme molto elastiche, gestiteda burocrazie del terzo mondo bizantineggianti e incredibilmente impreparate a valutare le qualifiche delleguide stesse o dei clienti. Per giunta le due nazioni che controllano l'accesso alla vetta, Nepal e Cina,sono paurosamente povere. Spinti da un disperato bisogno di valuta, i governi di entrambe le nazioninutrono un interesse immediato nella concessione del maggior numero possibile di costosi permessi discalata che il mercato è in grado di assorbire, ed è improbabile che attuino una politica che possa limitarein modo significativo i loro introiti.

L'analisi degli errori commessi sull'Everest è abbastanza utile, in quanto può servire a prevenire ilripetersi di altri casi del genere; ma credere che sezionare i tragici eventi del 1996 nei minimi dettaglipossa effettivamente ridurre in modo significativo il tasso di morti nel futuro è un pio desiderio. L'urgenzadi catalogare la miriade di errori per «imparare da essi» è per lo più un esercizio di negazione eautoinganno. Se riuscite a convincervi che Rob Hall è morto perchè ha commesso una sfilza di stupidierrori e che voi siete troppo intelligenti per ripetere questi stessi errori, vi sarà più facile tentare laconquista dell'Everest alla faccia di tutte le prove tese a dimostrare che farlo sia poco giudizioso.

In effetti il tragico esito del 1996 è stato per molti aspetti una storia del tutto banale. Benchè in quellastagione primaverile sull'Everest sia stato toccato il record delle vittime, i dodici caduti di quell'annoammontano appena al tre per cento dei 398 scalatori che sono saliti oltre il campo base, vale a dire unpo' meno della media storica del 3,3 per cento di incidenti fatali. C'è anche un altro modo di considerarela questione: fra il 1921 e il maggio 1996, sono morte 144 persone, mentre la vetta è stata scalata 630volte, il che equivale a una proporzione di una vittima ogni quattro scalate. La primavera scorsa, sonomorti 12 scalatori, mentre 84 hanno raggiunto la vetta: una proporzione di uno su sette. Considerandoquesti dati storici, il 1996 è stato in effetti un anno più sicuro della media.

A dire la verità, scalare l'Everest è sempre stata un'impresa straordinariamente pericolosa, e senzadubbio lo sarà sempre, che gli interessati siano neofiti dell'Himalaya guidati per mano fino alla vettaoppure alpinisti di livello mondiale che arrampicano insieme ai loro pari. Vale la pena di notare che lamontagna, prima di reclamare la vita di Hall e Fischer, aveva già spazzato via un intero battaglione discalatori di prim'ordine, fra cui Peter Boardman, Joe Tasker, Marty Joey, Jake Breitenbach, MickBurke, Michel Parmentier, Roger Marshall, Ray Genet e George Leigh Mallory.

Nel caso specifico delle spedizioni guidate, nel 1996 mi fu ben presto chiaro che pochi dei clienti sullavetta (me compreso) erano realmente in grado di valutare la gravità dei rischi che affrontavano, la fragilità

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del margine che protegge la vita umana oltre i 7600 metri. Tutti coloro che sognano l'Everest devonotenere a mente che quando le cose vanno male nella Zona della morte - e prima o poi accade sempre –anche le guide più forti del mondo possono non essere in grado di salvare la vita di un cliente; anzi, comehanno dimostrato i fatti del 1996, a volte le guide più forti del mondo non sono in grado di salvare lapropria vita. I miei quattro compagni sono morti non perchè i metodi di Rob Hall fossero sbagliati (anzi,non ce n'erano di migliori), ma perchè sull'Everest rientra nella natura dei metodi stessi il fallimentospettacolare.

Immersi come siamo in tutti questi ragionamenti a posteriori, è facile perdere di vista il fatto chel'alpinismo non sarà mai un'attività sicura, prevedibile, soggetta a norme ben precise. Si tratta di un'attivitàche idealizza il rischio; le figure più celebrate di questo sport sono sempre state quelle che rischiano di piùe riescono a cavarsela. Gli scalatori, come specie, non si distinguono certo per l'eccesso di prudenza, equesto è particolarmente vero nel caso degli scalatori dell'Everest: quando si trovano di fronte a unapossibilità di raggiungere la vetta più alta del pianeta, la storia insegna che gli uomini fannosorprendentemente in fretta ad abbandonare il buon senso. «Prima o poi», ammonisce Tom Hornbein,trentatrè anni dopo la sua scalata della Cresta Ovest, «quello che è accaduto sull'Everest in questastagione si ripeterà senz'altro.» A riprova del fatto che gli errori del 10 maggio non hanno insegnatoniente, basta considerare quello che è accaduto sull'Everest nelle settimane immediatamente successive.

 

Il 17 maggio, due giorni dopo che la squadra di Hall aveva lasciato il campo base, sul versante tibetanodella montagna l'austriaco Reinhard Wlasich e un compagno ungherese, arrampicando senza ossigeno, siaccamparono a 8300 metri di quota sulla Cresta Nord-Est, dove occuparono una tenda abbandonatadalla sfortunata spedizione del Ladakh. La mattina dopo, Wlasich accusò un malessere e subito dopoperse i sensi; un medico norvegese, presente per caso, accertò che l'austriaco era stato colpitocontemporaneamente da edema polmonare e cerebrale. Nonostante il medico gli avesse somministratoossigeno e farmaci, a mezzanotte Wlasich era già morto.

Nel frattempo, sul versante nepalese dell'Everest, la spedizione dell'IMAX di David Breashears si riunìper riflettere sulle possibilità che si offrivano loro. Dato che erano stati già investiti cinque milioni e mezzodi dollari sul loro progetto cinematografico, avevano un forte incentivo per restare sulla montagna etentare la conquista della vetta. Con Breashears, Ed Viesturs e Robert Schauer, non c'erano dubbi sulfatto che fossero la squadra più forte e competente sull'Everest. Nonostante che avessero ceduto metàdella loro riserva di ossigeno per assistere i soccorritori e gli scalatori in difficoltà, erano in grado diaccaparrarsi ossigeno a sufficienza per rimpiazzare quasi tutto quello perduto ottenendolo dalle spedizioniche lasciavano la montagna.

Paula Barton Viesturs, la moglie di Ed, era stata di servizio alla radio in veste di organizzatrice del campobase della troupe dell'IMAX al momento del disastro, il 10 maggio. Dal momento che era stata amicatanto di Hall quanto di Fischer, era rimasta sconvolta; Paula aveva dato per scontato che dopo unatragedia così terrificante la squadra dell'IMAX avrebbe automaticamente tolto le tende per tornare acasa. Poi ascoltò per caso una comunicazione radio fra Breashears e un altro scalatore, in cui il capodell'IMAX dichiarava con disinvoltura che la squadra intendeva trascorrere una breve pausa di riposo alcampo base prima di scalare la vetta.

«Dopo tutto quello che era successo, non potevo credere che volessero davvero salire lassù», ammettePaula. «Quando ho sentito la trasmissione radio, non ci ho visto più.» Rimase scossa al punto da lasciareil campo base per scendere a piedi a Tengbocht, dove si fermò cinque giorni per riordinare le idee.

Mercoledì 22 maggio, la squadra dell'IMAX arrivò sul Colle Sud, in condizioni climatiche perfette, e

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quella notte stessa partì alla volta della vetta. Ed Viesturs, che aveva il ruolo di protagonista nel film,raggiunse la vetta alle undici del giovedì mattina, senza ricorrere all'ossigeno.[42]Breashears arrivò ventiminuti dopo, seguito da Araceli Segarra, Robert Schauer e Jamling Norgay Sherpa, figlio del primoscalatore, Tenzing Norgay, e nono componente del clan dei Norgay che scalava la vetta. In tutto furonosedici gli alpinisti che raggiunsero la vetta quel giorno, compreso lo svedese che era arrivato in biciclettanel Nepal da Stoccolma, Goran Kropp, e Ang Rita Sherpa, che quel giorno compiva la sua decima visitasulla cima dell'Everest.

Nel salire, Viesturs era passato vicino ai cadaveri congelati di Fischer e Hall. «Tanto Jean [la moglie diFischer], quanto Jan [la moglie di Hall] mi avevano chiesto di portare loro degli effetti personali», ricordaViesturs con un certo imbarazzo. «Sapevo che Scott portava la fede appesa al collo, e avrei volutoriportarla a Jeannie, ma non ce l'ho fatta a frugare il corpo. Non me la sentivo.» Invece di raccogliere deiricordi personali, Viesturs si sedette vicino a Fischer, lungo la discesa, trascorrendo qualche minuto dasolo con lui. «Ehi, Scott, come te la passi?» chiese tristemente Ed al suo amico. «Che cosa ti è successo,amico?»

Il venerdì pomeriggio, 24 maggio, la squadra dell'IMAX, scendendo dal Campo Quattro al CampoDue, incontrò quel che restava della spedizione sudafricana - Ian Woodall, Cathy O'Dowd, BruceHerrod e tre sherpa - sulla Fascia Gialla, mentre erano diretti àl Colle Sud per tentare anche loro laconquista della vetta. «Bruce sembrava in gran forma, aveva un viso che sprizzava salute», ricordaBreashears. «Mi strinse la mano con grande energia, si congratulò con noi e disse che si sentiva un leone.A mezz'ora di distacco da lui c'erano Ian e Cathy, piegati in due sulle piccozze, con un'aria stravolta...davvero spompati.

«Mi premurai di trascorrere un po' di tempo con loro», continua Breashears. «Sapevo che erano moltoinesperti, così dissi: 'Siate prudenti, per favore. Avete visto che cosa è successo pochi giorni fa.Ricordate che raggiungere la vetta è facile; il difficile è tornare indietro'.»

I sudafricani tentarono di raggiungere la vetta quella notte. O'Dowd e Woodall lasciarono le tende ventiminuti dopo mezzanotte insieme agli sherpa Pemba Tendi e Ang Dorje,[43]mentre Jangbu portava lorol'ossigeno. Pare che Herrod abbia lasciato il campo pochi minuti dopo il gruppo principale, ma restòsempre più indietro man mano che proseguiva la salita. Sabato 25 maggio, alle 09.50 di mattina, Woodallchiamò alla radio Patrick Conroy, l'operatore del campo base, per annunciare che era arrivato sulla vettacon Pemba e che O'Dowd sarebbe stata lì un quarto d'ora più tardi insieme ad Ang Dorje e Jangbu.Woodall riferì che Herrod, privo di radio, si trovava più in basso, a una distanza imprecisata.

Herrod, che avevo incontrato più volte sulla montagna, era un amabile trentasettenne con la stazza di unorso. Pur non avendo esperienza ad alta quota, era un alpinista preparato che aveva trascorso diciottomesi nei gelidi deserti dell' Antartide lavorando come geofisico, ed era di gran lunga lo scalatoretecnicamente più abile rimasto nella squadra sudafricana. Dal 1988 lavorava sodo per imporsi comefotografo indipendente e sperava che raggiungere la vetta dell'Everest avrebbe impresso alla sua carrierala spinta di cui aveva bisogno.

Mentre Woodall e O'Dowd erano sulla vetta, si seppe poi, Herrod era rimasto molto più in basso, e sisforzava di risalire da solo la Cresta Sud-Est a un'andatura pericolosamente lenta. Verso mezzogiorno emezzo aveva incrociato Woodall, O'Dowd e i tre sherpa che ridiscendevano. Ang Dorje gli avevaconsegnato una radio e gli aveva indicato il punto in cui era stata sepolta una bombola di ossigeno per lui,poi Herrod aveva proseguito da solo verso la vetta; l'aveva raggiunta solo dopo le cinque del pomeriggio,sette ore più tardi degli altri, quando ormai Woodall e O'Dowd erano già rientrati nella loro tenda alColle Sud.

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Per coincidenza, nello stesso momento in cui Herrod si metteva in comunicazione radio con il campobase per riferire che era sulla vetta, la sua ragazza, Sue Thompson, chiamava Conroy al telefonosatellitare del campo base dalla sua casa di Londra. «Quando Patrick mi disse che Bruce era sulla vetta»,ricorda Thompson, «esclamai: 'Accidenti! Non può trovarsi sulla vetta così tardi.;. sono le cinque e unquarto! Non mi sembra una bella cosa.»

Un attimo dopo, Conroy mise in comunicazione Sue Thompson con Herrod, in vetta all'Everest. «Brucesembrava lucido», racconta lei. «Sapeva di aver impiegato molto per arrivarci, ma sembrava normale,almeno per quanto è possibile a quell'altitudine, dal momento che doveva togliersi la mascheradell'ossigeno per parlare. Non pareva neppure che avesse il respiro affannoso.»

In ogni modo, Herrod aveva impiegato diciassette ore per salire dal Colle Sud alla cima: benchè il ventofosse debole, le nubi ormai avviluppavano la parte superiore della montagna e il buio si avvicinava infretta. Completamente solo sul tetto del mondo, estremamente affaticato, doveva aver esaurito l'ossigeno,o quasi. «Era pazzesco che fosse lassù così tardi, senza qualcun altro in giro», commenta il suo excompagno Andy de Klerk. «È assolutamente allucinante.»

Herrod era rimasto sul Colle Sud dalla sera del 9 maggio fino a tutto il 12 maggio. Aveva sperimentatola ferocia dl quella tempesta, udito le disperate invocazioni di aiuto alla radio, visto Beck Weathersmutilato da terribili sintomi di congelamento. All'inizio della scalata del 25 maggio era passato accanto alcorpo di Scott Fischer e alcune ore dopo, sul Colle Sud, doveva avere scavalcato le gambe senza vita diRob Hall. Eppure, a quanto pare, quei cadaveri gli avevano fatto ben poca impressione, visto che,nonostante l'andatura troppo lenta e l'ora tarda, aveva insistito per raggiungere la vetta.

Non vi furono altre trasmissioni radio da parte di Herrod, dopo quella delle cinque e un quarto dallavetta. «Restammo ad aspettarlo al Campo Quattro, riuniti attorno alla radio accesa», ha spiegatoO'Dowd in un'intervista pubblicata dalMail & Guardian di Johannesburg. «Eravamo terribilmentestanchi e alla fine ci addormentammo. Quando mi svegliai la mattina dopo verso le cinque, senza cheavesse richiamato, capii che lo avevamo perduto.»

Bruce Herrod è ora disperso, presumibilmente morto; la dodicesima vittima della stagione.

Ora sogno le carezze delicate delle donne, il canto degli uccelli la.fragranza della terra sbriciolata tra ledita e il verde lucente delle piante che coltivo con diligenza. Cerco della terra da comprare, che popoleròdi cervi e cinghiali e uccelli, pioppi e sicomori; scaverò uno stagno, dove verranno a posarsi le anatre e ipesci salteranno in aria al crepuscolo, catturando al volo gli insetti nelle fauci. In questa foresta ci sarannosentieri, lungo i quali ci perderemo nelle morbide curve e pieghe del terreno. Arriveremo in riva allostagno, stendendoci sull'erba, e vicino ci sarà un piccolo cartello discreto che dice:QUESTO È ILMONDO VERO, MUCHACHOS, E NOI CI SIAMO DENTRO TUTTI -B. TRAVEN.

CHARLES BOWDEN

Blood Orchid

 

        Parecchi di coloro che si trovavano sull'Everest nel maggio del 1996 sono riusciti a superare latragedia. Verso la metà di novembre ho ricevuto una lettera da Lou Kasischke, in cui mi scriveva:

 

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Nel mio caso ci sono voluti alcuni mesi perchè gli aspetti positivi cominciassero a venire alla luce, eppurece ne sono. L'Everest è stato l'esperienza peggiore della mia vita, ma lo è stato allora. Adesso è adesso.Mi concentro sui lati positivi. Ho appreso delle verità importanti sulla vita, sul prossimo e su me stesso.Ora sento di avere una prospettiva più chiara, e vedo cose che prima non avrei mai visto.

 

        Lou era appena rientrato a casa da un weekend trascorso con Beck Weathers a Dallas. Dopol'evacuazione in elicottero dal Cwm, Beck aveva subito l'amputazione del braccio destro al di sotto delgomito, insieme all'asportazione delle dita della mano sinistra. Anche il naso era stato amputato ericostruito con tessuti prelevati dall'orecchio e dalla fronte. Durante la visita a Beck, Lou aveva osservato:

 

 

Era al tempo stesso triste e trionfante. Fa male vedere Beck ridotto così: il naso ricostruito, le cicatricisul viso, invalido per tutta la vita, costretto a chiedersi se potrà mai tornare a fare il medico. Eppure èstato istruttivo vedere come un uomo può accettare tutto questo e continuare a vivere. Sta superandotutto e ne uscirà vincitore.

 Beck ha avuto solo parole di elogio per tutti; non intende distribuire premi e biasimi. Forse non saraid'accordo con le sue idee politiche, ma dovresti condividere il mio orgoglio per il modo in cui haaffrontato la situazione. In un modo o nell'altro, un giorno, la faccenda si risolverà in modo positivo perBeck.

 

 

        Mi rincuora il fatto che Beck, Lou e gli altri siano apparentemente in grado di guardare al latopositivo di questa esperienza, ma nello stesso tempo mi riempie di invidia. Forse fra qualche tempoanch'io sarò in grado di riconoscere che da tante sofferenze è scaturito un bene più grande, ma ora comeora non ci riesco.

        Mentre scrivo queste parole, sono passati sei mesi dal mio ritorno dal Nepal, e in questi sei mesinon c'è stato giorno in cui l'Everest non abbia monopolizzato i miei pensieri per almeno due o tre ore.Non trovo pace neanche nel sonno: le immagini della scalata e delle sue drammatiche conseguenzecontinuano a ossessionare i miei sogni.

        Dopo la pubblicazione sul numero di settembre diOutside del mio articolo sulla spedizione, larivista ha ricevuto un numero insolitamente alto di lettere. In gran parte la corrispondenza esprimevasostegno e simpatia per noi che eravamo tornati, ma c'erano anche numerosissime lettere aspramentecritiche. Un avvocato della Florida, per esempio, ammoniva:

 

Tutto ciò che posso dire è che concordo con il signor Krakauer quando afferma: «Le mie azioni, omeglio le mie omissioni, hanno svolto un ruolo diretto nella morte di Andy Harris». Concordo con luianche quando dice che: «[si trovava] ameno di trecentocinquanta metri [di distanza], raggomitolato nellamia tenda, senza fare assolutamente niente...» Non so come possa guardarsi allo specchio ogni giorno.

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        Alcune delle lettere più dure, e di gran lunga più difficili da leggere, provenivano dai parenti dellevittime. La sorella di Scott Fischer, Lisa Fischer-Luckenbach, mi ha scritto:

 

A giudicare dalle sue parole, si ha indubbiamente l'impressione che LEI abbia l'arcana abilità di sapereesattamente che cosa passava per la mente e per il cuore di tutti i singoli partecipanti alla spedizione. Orache LEI è in casa, sano e salvo, giudica le ragioni degli altri e ne analizza le intenzioni, il comportamento,la personalità e le motivazioni. Non ha fatto che commentare quello che AVREBBERO DOVUTO faregli organizzatori, gli sherpa, i clienti, lanciando accuse arroganti sui loro errori. Sempre secondo JonKrakauer, che dopo aver avuto un assaggio del giorno del giudizio, si è rintanato nella sua tenda permettersi al sicuro...

 Forse comincia a intravedere quello che combina con questa apparenza da So TUTTO IO. Ha giàsbagliato con le sue ILLAZIONI sulla sorte di Andy Harris, causando tanto dolore e angoscia alla suafamiglia e ai suoi amici, e ora ha bollato il personaggio di Lopsang con la sua descrizione per «sentitodire».

 Quello che vedo nelle sue parole è il suo EGO, che si sforza freneticamente di ricavare un sensodall'accaduto. Per quanto si affatichi ad analizzare, criticare, giudicare o ipotizzare, nulla le porterà lapace che va cercando. Non ci sono risposte. Nessuno ha colpa. Non c'è nessuno da biasimare. In quelmomento hanno fatto tutti del loro meglio, tenuto conto delle circostanze.

 Nessuno intendeva fare del male al prossimo. Nessuno voleva morire.

 

        Quest'ultima lettera è stata particolarmente sconvolgente per me, perchè l'ho ricevuta subito dopoaver appreso che la lista delle vittime era aumentata, includendo anche Lopsang Jangbu. In agosto, dopola fine della stagione dei monsoni in Himalaya, Lopsang era tornato sull'Everest per fare da guida a uncliente giapponese sulla via del Colle Sud e della Cresta Sud-Est. Il 25 settembre, mentre salivano dalCampo Tre al Campo Quattro per lanciare l'assalto finale alla vetta, una valanga ha travolto Lopsang, unaltro sherpa e uno scalatore francese poco più in basso dello Sperone dei Ginevrini, trascinandoli lungo laparete del Lhotse e provocandone la morte. Lopsang ha lasciato a Kathmandu una giovane moglie e unfiglioletto di due mesi.

        Le cattive notizie non erano finite. Il 17 maggio, dopo due giorni di riposo al campo base al ritornodall'Everest, Anatoli Boukreev era partito da solo per scalare il Lhotse. «Sono stanco», mi aveva detto,«ma lo faccio per Scott.» Continuando l'impresa di scalare tutti i quattordici «Ottomila» del mondo, insettembre Boukreev andò nel Tibet e conquistò tanto il Cho Oyu quanto lo Shisha Pangma (8013 metri).Ma a metà di novembre, durante una visita nella sua città natale, nel Kazakhistan, la corriera sulla qualeviaggiava ebbe un incidente; il conducente rimase ucciso e Anatoli subì gravi ferite alla testa, fra cui unalesione seria e forse permanente a un occhio.

        Il 14 ottobre 1996, è stato diffuso su Internet il seguente messaggio, nell'ambito di un forumsull'Everest organizzato in Sudafrica:

 

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Sono l' orfano di uno sherpa. Mio padre è

rimasto ucciso sulla seraccata del Khumbu,

mentre faceva da portatore per una

spedizione verso la fine degli anni

Sessanta. Mia madre è morta poco più a

valle di Pheriche, quando il suo cuore ha

ceduto sotto il peso del carico che stava

trasportando per un'altra spedizione, nel

1970. Tre dei miei fratelli sono morti per

vari motivi, mia sorella e io siamo stati

inviati presso famiglie adottive in Europa

e negli Stati Uniti.

 Non sono mai tornato nel mio paese perchè

sento che è maledetto. I miei avi giunsero

nella regione del Solo-Khumbu per sfuggire

alle persecuzioni nelle pianure, e là

trovarono asilo all'ombra di

«Sagarmathaji», la «dea madre della

terra» .In cambio ci si aspettava da loro

che proteggessero dagli estranei il

santuario della dea.

 Invece il mio popolo si è rivolto nella

direzione opposta, aiutando gli estranei a

insinuarsi in quel santuario e a violare

ogni parte del suo corpo montandovi sopra,

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gettando grida stridule di trionfo,

insozzando e profanando il suo seno.

Alcuni di essi hanno dovuto sacrificarsi,

altri sono scampati per il rotto della

cuffia, oppure hanno offerto altre vite in

vece loro...

Quindi credo che anche gli sherpa siano

da biasimare per la tragedia del 1996 su

«Sagarmatha» .Non rimpiango di non essere

tornato, perchè so che la popolazione

della zona è condannata, e lo sono anche

quegli stranieri ricchi e arroganti che

credono di poter conquistare il mondo .

Ricordatevi delTitanic .Anche

l'Inaffondabile affondò, e cosa sono degli

stupidi mortali come Weathers, Pittman,

Fischer, Lopsang, Tenzing, Messner,

Bonington, al cospetto della «Dea Madre»?

Pertanto ho giurato di non tornare mai in

patria, per non prendere parte a quel

sacrilegio.

 

L'Everest, a quanto pare, ha avvelenato la vita a molti di noi. Alcuni rapporti sentimentaliapparentemente felici sono falliti; la moglie di una delle vittime è stata ricoverata in preda alla depressione.L'ultima volta che ho parlato con uno dei miei compagni di squadra, la sua vita era in pieno caos: mi haspiegato che lo sforzo di superare le ripercussioni della spedizione minacciava di rovinare il suomatrimonio. Inoltre non riusciva a concentrarsi sul lavoro, e aveva ricevuto provocazioni e insulti daestranei.

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Al ritorno a Manhattan, Sandy Pittman ha scoperto di essere diventata un parafulmine per la vigorosascarica di indignazione collettiva scatenata dai fatti accaduti sull'Everest. La rivistaVanity Fair hapubblicato un articolo tagliente su di lei nel numero di agosto del 1996; una troupe televisiva delprogramma di attualitàHard Copy la braccava all'uscita dal suo appartamento. Lo scrittore ChristopherBuckley ha usato le sue tormentate vicende in alta quota per la battuta di una vignetta sulla pagina difondo delNew Yorker . In autunno, la situazione era peggiorata al punto che ha confessato in lacrime aun'amica che suo figlio veniva ridicolizzato e ostracizzato dai compagni di classe, in una costosa edesclusiva scuola privata. L'intensità bruciante dell'indignazione collettiva per l'Everest, e il fatto che tale irafosse diretta in gran parte su di lei, ha colto del tutto di Sorpresa Pittman, lasciandola disorientata.

Quanto a Neal Beidleman, ha contribuito a salvare la vita di cinque clienti guidandoli nella discesa dallamontagna, eppure resta ossessionato da una morte che non è riuscito a evitare, quella di una cliente chenon apparteneva alla sua squadra e che non era neanche affidata alla sua responsabilità.

Ho parlato con Beidleman dopo che entrambi ci eravamo riacclimatati nel nostro ambito familiare e luiha ricordato l'atmosfera angosciosa di quella notte sul Colle Sud, rannicchiato insieme al suo gruppo inquel vento terribile, nel tentativo disperato di mantenere tutti in vita. «Non appena il cielo si è schiaritoabbastanza da fornirci un'indicazione sulla posizione del nostro campo», ha ricordato, «è stato Comedire: 'Ehi, questa schiarita non potrà durare a lungo, quindi VIA!' Gridavo a tutti di muoversi, ma erachiaro che alcuni non avevano forza sufficiente per camminare, e neanche per reggersi in piedi.

«Gridavano tutti. Ho sentito qualcuno strillare: 'Non lasciatemi qui a morire! ' Era evidente che si trattavadi un adesso o mai più. Ho tentato di rimettere in piedi Yasuko, e lei mi ha afferrato per il braccio, ma eratroppo debole per sollevarsi al di sopra delle ginocchia. Ho cominciato a camminare trascinandola per unpasso o due, poi ha allentato la presa ed è ricaduta. Io dovevo proseguire. Qualcuno doveva arrivare alletende per chiedere aiuto, altrimenti sarebbero morti tutti.»

Beidleman si è interrotto. «Ma non posso fare a meno di ripensare a Yasuko», ha detto riprendendo aparlare, sottovoce. «Era così fragile. Mi pare ancora di sentire le sue dita che scivolano sul mio braccio, epoi lo lasciano andare. E non mi sono neanche voltato a guardarla.»

NOTA DELL'AUTORE

 

        L'articolo che ho pubblicato suOutside ha suscitato la collera di molte delle persone di cui hoparlato, oltre a ferire gli amici e i familiari di alcune vittime dell'Everest, e di questo mi rammaricosinceramente, perchè non era nelle mie intenzioni nuocere ad alcuno. Il mio intento, .sia nel pezzogiornalistico sia - a maggior ragione - in questo libro, era riferire con la massima precisione e onestàpossibile quanto è accaduto sulla montagna, e farlo in modo delicato e rispettoso. Sono fermamenteconvinto che questa storia vada raccontata; è evidente che non tutti la pensano come me, quindi chiedoscusa a coloro che si sentono feriti dalle mie parole.

        Inoltre vorrei esprimere le mie condoglianze a Fiona McPherson, Ron Harris, Mary Harris, DavidHarris, Jan Arnold, Sarah Arnold, Eddie Hall, Millie Hall, Jaime Hansen, Angie Hansen, Bud Hansen,Tom Hansen, Steve Hansen, Diane Hansen, Karen Marie Rochel, Kenichi Namba, Jean Price, AndyFischer-Price, Katie Rose Fischer-Price, Gene Fischer, Shirley Fischer, Lisa Fischer-Luckenbach, Rhonda Fischer Salerno, Sue Thompson e Ngawang Sya Kya Sherpa.

        Nel raccogliere il materiale per questo libro ho ricevuto un aiuto prezioso da molte persone, fra lequali meritano di essere nominate in particolare Linda Mariam Moore e David S. Roberts; non solo la

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loro consulenza è stata essenziale per la stesura del testo, ma senza il loro sostegno e incoraggiamentonon mi sarei mai imbarcato nella difficile impresa di scrivere per vivere, e non sarei riuscito a restarvifedele nel corso degli anni.

        Sull’Everest ho beneficiato della compagnia di Caroline Mackenzie, Helen Wilton, Mike Groom,Ang Dorje Sherpa, Lhakpa Chhiri Sherpa, Chhongba Sherpa, Ang Tshering Sherpa, Kami Sherpa,Tenzing Sherpa, Arita Sherpa, Chuldum Sherpa, Ngawang Norbu Sherpa, Pemba Sherpa, TendiSherpa, Beck Weathers, Stuart Hutchison, Frank Fischbeck, Lou Kasischke, John Taske, Guy Cotter,Nancy Hutchison, Susan Allen, Anatoli Boukreev, Neal Beidleman, Jane Bromet, Ingrid Hunt, NgimaKale Sherpa, Sandy Hill Pittman, Charlotte Fox, Tiro Madsen, Pete Schoening, Klev Schoening, LeneGammelgaard, Martin Adams, Dale Kruse, David Breashears, Robert Schauer, Ed Viesturs, PaulaViesturs, Liz Cohen, Araceli Segarra, Sumiyo Tsuzuki, Laura Ziemer, Jim Litch, Peter Athans, ToddBurleson, Scott Darsney, Brent Bishop, Andy de Klerk, Ed February, Cathy O'Dowd, Deshun Deysel,Alexandrine Gaudin, Philip Woodall, Makalu Gau, Ken Kamler, Charles Corfield, Becky Johnston, JimWilliams, Mal Duff, Mike Trueman, Michael Burns, HenrikJessen Hansen, Veikka Gustafsson, HenryTodd, Mark Pfetzer, Ray Door, Goran Kropp, Dave Hiddleston, Chris Jillet, Dan Mazur, Jonathan Pratte Chantal Mauduit.

        Sono molto grato ai miei impareggiabili revisori editoriali, David Rosenthal e Ruth Fecych, dellaVillard Books/Random House. I miei ringraziamenti vanno inoltre a Adam Rothberg, Annik LaFarge,Dan Rembert, Diana Frost, Kirsten Raymond, Jennifer Webb, Melissa Milsten, Dennis Ambrose, BonnieThompson, Brian McLendon, Beth Thomas, Caroline Cunningham, Dianne Russell, Katie Mehan eSuzanne Wickham. Le pregevoli illustrazioni, realizzate con la tecnica dell'incisione su legno, si devonoinvece a Randy Rackliff.

        Questo libro ha avuto origine da un incarico assegnatomi dalla rivistaOutside ; devo quindiparticolare gratitudine a Mark Bryant, che ormai da quindici anni pubblica i miei lavori con intelligenza esensibilità non comuni, e a Larry Burke, che ha cominciato ancor prima di lui. Agli articoli sull'Everesthanno apportato il loro contributo anche Brad Wetzler, John Alderman, Katie Arnold, John Tayman, SueCasey, Greg Cliburn, Hampton Sides, Amanda Stuermer, Lorien Warner, Sue Smith, Cricket Lengyel,Lolly Merrell, Stephanie Gregory, Laura Hohnhold, Adam Horowitz, John Galvin, Adam Hicks,Elizabeth Rand, Chris Czmyrid, Scott Parmalee, Kim Gattone e Scott Mathews.

        Sono in debito con John Ware, il mio straordinario agente, e vorrei ringraziare anche DavidSchensted e Peter Bodde dell'ambasciata degli Stati Uniti a Kathmandu, Lisa Choegyal della TigerMountain e Deepak Lama della Wilderness Experience Trekking per l'assistenza prestata in occasionedella tragedia.

        Per l'ispirazione, l'ospitalità, l'amicizia, le informazioni e i saggi consigli che mi hanno fornito, sonoriconoscente a Tom Hornbein, Bill Atkinson, Madeleine David, Steve Gipe, Don Peterson, MarthaKongsgaard, Peter Goldman, Rebecca Roe, Keith Mark Johnson, Jim Clash, Muneo Nukita, HelenTrueman, Steve Swenson, Conrad Anker, Alex Lowe, Colin Grissom, Kitty Calhoun, Peter Hackett,David Shlim, Brownie Schoene, Michael Chessler, Marion Boyd, Graem Nelson, Stephen P. Martin,Jane Tranel, Ed Ward, Sharon Roberts, Matt Hale, Roman Dial, Peggy Dial, Steve Rottler, DavidTrione, Deborah Shaw, Nick Miller, Dan Cauthorn, Greg Collum, Dave Jones, Fran Kaul, Dielle Havlis,Lee Joseph, Pierret Vogt, Paul Vogt, David Quammen, Tim Cahill, Paul Theroux, Charles Bowden,Alison Lewis, Barbara Detering, Lisa Anderheggen-Leif, Helen Forbes e Heidi Baye.

        Il mio lavoro è stato facilitato dalla collaborazione di colleghi scrittori e giornalisti, quali ElizabethHawley, Michael Kennedy, Walt Unsworth, Sue Park, Dile Seitz, Keith McMillan, Ken Owen, KenVernon, Mike Loewe, Keith J ames, David Beresford, Greg Child, Bruce Barcott, Peter Potterfield,

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Stan Armington, Jennet Conant, Richard Cowper, Brian Blessed, Jeff Smoot, Patrick Morrow, JohnColmey, Meenakshi Ganguly, Jennifer Mattos, Simon Robinson, David Van Biema, Jerry Adler, RodNordland, Tony Clifton, Patricia Roberts, David Gates, Susan Miller, Peter Wilkinson, Claudia GlennDowling, Steve Kroft, Joanne Kaufman, Howie Masters, Forrest Sawyer, Tom Brokaw, AudreySalkeld, Liesl Clark, Jeff Herr, Jim Curran, Alex Heard e Lisa Chase.

POSTFAZIONE

 

        Nel novembre 1997 è arrivato nelle librerie americane un libro intitolatoThe Climb (Everest 1996- Cronaca di un salvataggio impossibile , CDA 1998): si tratta del resoconto di Anatoli Bukreev deldisastro accaduto sull'Everest nel 1996 scritto insieme a un americano di nome G. Weston DeWalt. Dalmomento che Bukreev si era offeso molto per come era stato descritto inAria sottile , una sezioneconsiderevole diEverest 1996 è dedicata alla difesa delle sue azioni e a mettere in dubbio l'esattezza delmio resoconto cercando di denigrare la mia onestà di giornalista.

        Nonostante sia stato affascinante leggere gli avvenimenti di quel 1996 dalla prospettiva di Bukreev,e devo dire che in alcune parti il libro mi ha profondamente commosso,Everest 1996 mi ha colpito per laversione così poco scrupolosa della tragedia che è avvenuta.

        Dal momento che non avevo la minima intenzione di mettere in difficoltà Bukreev o DeWalt, decisidi non confutare pubblicamente il loro libro, ma documentai alcuni dei suoi numerosi errori in una serie dilettere che inviai a De Walt e ai suoi editor della St. Martin's Press. Un portavoce dell'editore dichiaròche sarebbero state apportate le correzioni nelle successive edizioni del libro.

        Quando la St. Martin pubblicò l'edizione tascabile diEverest 1996 , nel luglio 1998, rimasisconcertato nello scoprire che la maggior parte degli errori che avevo fatto notare sette mesi prima eranoancora lì nella nuova edizione. Quell'evidente disprezzo per la verità da parte di DeWalt e del suo editoremi convinse a rompere il silenzio e sostenere e difendere l'accuratezza e l'onestà diAria sottile . L'unicomodo per farlo, purtroppo, è sottolineare alcune delle effettive lacune diEverest 1996 .

        Delle sei guide professioniste che rimasero bloccate sull'Everest da una tormenta il 10 maggio1996, solo tre sono sopravvissute: Bukreev, Michael Groom e Neil Beidleman. Un giornalista scrupolosospinto dall'intenzione di descrivere con cura quella tragedia nella sua complessità, probabilmente avrebbeintervistato ciascuna delle guide sopravvissute (come ho fatto io perAria sottile ). Del resto, le decisioniche le guide presero ebbero un peso enorme sull'esito del disastro. Inspiegabilmente De Walt haintervistato Bukreev ma ha trascurato di sentire sia Groom che Beidleman.

        Non meno sconcertante è stata l'omissione, da parte di DeWalt, di contattare Lopsang Jangbu,capo sherpa scalatore. Lopsang,ha avuto uno dei ruoli chiave e più controversi nel disastro. E’ stato lui atrainare Sandy Hill Pittman; lui era con Fischer quando il leader della Mountain Madness è crollatodurante la discesa; lui è stato l'ultima persona a parlare con Fischer prima che morisse. Lopsang è statoanche l'ultimo a vedere Rob Hall, Andy Harris e Doug Hansen prima che morissero. Eppure De Waltnon ha mai contattato Lopsang nonostante lo sherpa abbia trascorso gran parte dell'estate del 1996 aSeattle e fosse facilmente raggiungibile per telefono.

        Si possono solo fare delle congetture sulle ragioni di un numero così cospicuo di trascuratezze inquel resoconto, ma il risultato finale è un documento estremamente compromesso. Forse dipende dalfatto che De Walt - regista amatoriale che soprintendeva alla ricerca e che è l'effettivo scrittore diEverest1996 - non aveva alcuna precedente conoscenza di montagna, non era mai stato sulle montagne del

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Nepal e aveva un'esperienza assai limitata di giornalismo della carta stampata. Fatto sta che Beidlemanrimase talmente esterrefatto nel leggere il libro, che nel dicembre 1997 scrisse una lettera a De Waltaffermando: «Credo cheEverest 1996 sia un resoconto poco onesto della tragedia avvenuta a maggio[...] Non sono mai stato interpellato, nè da lei nè dai suoi collaboratori, per appurare l'autenticità anche diun solo dettaglio».

        Nonostante le mancate interviste a Groom, Beidleman e Lopsang Jangbu costituiscano ledisattenzioni più imbarazzanti di De Walt, egli ha omesso di intervistare anche qualsiasi altro sherpacoinvolto, tre degli otto clienti della squadra di Bukreev stesso e gli altri numerosi scalatori che hannoavuto un ruolo cruciale nella tragedia e/o nei salvataggi susseguenti. Può darsi che sia una puracoincidenza, ma la maggior parte delle persone che De Walt ha deciso di non contattare sono statecritiche nei confronti del comportamento di Bukreev sull'Everest.

        Klev Schoening, Neal Beidleman e Lopsang Jangbu vengono ripetutamente citati in tutto il libro,ma quelle citazioni sono state tratte dai nastri delle interviste registrati da Sandy Pittman al Campo Basedell'Everest il 15 maggio 1996. DeWalt non ha verificato alcuna delle dichiarazioni registrate di Kruse,Beidleman, Lopsang, Klev Schoening, o Pete Schoening. Beidleman e Klev Schoening mi hanno dettoche le loro parole sono state presentate al di fuori del contesto in cui erano inserite e interpretateerroneamente da De Walt nel suo libro e non riflettono il vero senso di ciò che era stato detto.

        A causa delle ricerche sommarie, il libro di DeWalt abbonda di errori di fatto. Per citare un soloesempio fra i tanti, la piccozza di Andy Harris - la cui posizione fornisce un importante indizio su comeHarris potrebbe essere morto - non fu ritrovata dove DeWalt racconta. Questo è uno degli errori che hosegnalato a DeWalt e al suo editore dopo la pubblicazione della prima edizione diEverest 1996 nelnovembre 1997, eppure non è stato corretto nell'edizione tascabile. Tale indifferenza è irritante percoloro che come me sono stati trasformati da quella tragedia e che si torturano nel tentativo di capirecosa sia veramente accaduto lassù. Di sicuro i familiari di Andy Harris non considerano la posizione delritrovamento della sua piccozza un dettaglio trascurabile.

        Ancora più doloroso è il fatto che alcuni degli errori contenuti inEverest 1996 non sembranoessere il risultato di pura negligenza, quanto piuttosto deformazioni intenzionali della verità, volte a gettarediscredito sul mio resoconto. Per esempio, DeWalt dice che di alcuni importanti dettagli apparsi nel mioarticolo suOutside , non era stata appurata l'esattezza, benchè egli fosse consapevole che un editor dellarivista di nome John Alderman si fosse incontrato di persona con Bukreev a Santa Fe, negli uffici delgiornale, per avere conferma dell'accuratezza di tutto il mio lavoro prima della pubblicazione. Come senon bastasse, io, personalmente, ho avuto numerose conversazioni nell'arco di due mesi con Bukreevstesso, durante le quali ho fatto ogni sforzo possibile per conoscere la verità.

        La versione dei fatti fornita da Bukreev/DeWalt differisce da quella che io ritengo essere vera eOutside ha pubblicato quella che gli editor e io ritenevamo essere la versione corretta. Nel corso dellenumerose interviste che ho fatto a Bukreev, ho scoperto che il suo racconto di certi episodi cambiavasostanzialmente da una volta all'altra, inducendomi a dubitare della precisione della sua memoria. E leversioni che Bukreev dava di alcuni episodi importanti in seguito si dimostrarono non corrispondenti allarealtà, in base ai racconti di altri testimoni, in particolare di Dale Kruse, Klev Schoening, LopsangJangbu, Martin Adams e Neal Beidleman. In breve, ho scoperto che tanti dei ricordi di Bukreev eranodavvero inattendibili.

        Forse il travisamento più angosciante diEverest 1996 riguarda la conversazione tra Scott Fischer eJane Bromet (agente e confidente di Fischer che lo aveva accompagnato al Campo Base) a cui si alludenel volume. DeWalt fa in modo che le parole della Bromet suggeriscano, erroneamente, che Fischeravesse un piano predeterminato, secondo il quale Bukreev doveva scendere rapidamente dopo aver

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raggiunto la vetta, lasciando i suoi clienti sulle più alte pendici dell'Everest. DeWalt insinua inoltre che ilfatto che io abbia omesso di menzionare, inAria sottile , l'esistenza di questo piano sia un perfidotentativo di occultare la verità.

        In realtà inAria sottile non vi ho accennato perchè ho trovato forti prove che quel piano nonesisteva affatto. Beidleman mi disse che se un piano c'era, lui di sicuro non ne sapeva niente quando ilgruppo della Mountain Madness salì sulla vetta il 10 maggio, ed egli è certo che anche Bukreev non nefosse a conoscenza. Nell'anno successivo alla tragedia, Bukreev spiegò la sua decisione di scendereprima dei suoi clienti numerose volte - alla televisione, su Internet, in interviste su giornali e riviste - ,eppure in nessuna di quelle circostanze ha dichiarato di aver agito secondo un piano prestabilito. Anzi,nell'estate di quel 1996, Bukreev stesso, in un'intervista videoregistrata per il notiziario della ABC,affermò che non esisteva alcun piano. Come spiegò al corrispondente Forrest Sawyer, fino alraggiungimento della vetta «non sapevo come, quale fosse il mio piano. Ho bisogno di vedere lasituazione e poi agire [...] Perchè non avevamo fatto quel piano».

Mostrando apparentemente di non aver capito le parole di Bukreev, un minuto dopo Sawyer gli chiese:«Dunque il suo piano, una volta sorpassato tutti, era di aspettare sulla vetta l'arrivo del gruppo».

Beffardo Bukreev ripete che niente era stato predeterminato: «Non era proprio un piano. Non avevamofatto piani. Ho bisogno di vedere le cose come stanno e poi decido il mio piano».

Nella stesura del suo libro DeWalt ha deciso di ignorare il fatto che l'unica prova a supporto della suacongettura riguardo a un piano prestabilito è il ricordo della Bromet di un'unica conversazione conFischer. Come se non bastasse, la Bromet stessa ha sottolineato, sia a De Walt che a me, prima dellapubblicazione dei nostri rispettivi libri, che sarebbe un errore ritenere che i commenti di Fischerrivelassero che ci fosse qualcosa che assomigliasse a un vero e proprio piano d'azione. Prima che venissepubblicatoEverest 1996 la Bromet inviò una lettera a De Walt e ai suoi editor alla St. Martin, in cui silamentava del fatto che DeWalt aveva riportato la sua frase in un modo che ne cambiava notevolmente ilsenso. Segnalò che le sue parole erano state manipolate per far sembrare che la conversazione tra lei eFischer fosse intercorsa alcuni giorni prima dell'assalto alla cima, mentre in realtà era avvenuta circa tresettimane prima dell'ascesa finale. Non si tratta di una discrepanza da poco.

Come affermava la Bromet nella lettera a De Walt, la versione «rivista» della sua frase che compare nellibro è «assolutamente erronea! Quella distorsione induce i lettori a trarre conclusioni sbagliate riguardo amolti dei fattori principali che hanno portato alla tragedia. A causa di quella distorsione [...] i lettoripossono essere tratti in inganno e credere che la discesa di Bukreev [prima dei suoi clienti] fosse unpiano stabilito [...] Per come sono scritte quelle parole c'è il rischio di cadere in un'analisi distorta ecalcolata dell'incidente, il cui solo scopo è assolvere Anatoli Bukreev dalle sue colpe cercando di gettarela responsabilità sugli altri [...] E’ stato dato troppo credito a quelle parole nel ricostruire le dinamichedell'incidente [...] Scott non aveva mai più fatto cenno a un piano. Inoltre, Scott era una persona moltoestroversa; se un 'piano' ci fosse stato ne avrebbe parlato con Neal e Anatoli. (In successiveconversazioni, Neal mi disse che Scott non ne aveva parlato.) Ho la sensazione che quella citazione cosìcome è stata riportata sia grossolanamente fuorviante».

I fatti cruciali rimangono indiscutibili: Bukreev decise di non usare ossigeno supplementare il giornodell'ascensione alla vetta e, dopo averla raggiunta, scese da solo molte ore prima dei suoi clienti, inspregio alle normali consuetudini delle guide professioniste in ogni parte del mondo. Ciò che è statoampiamente dimenticato nel dibattito a proposito del fatto che Bukreev abbia o meno agito conl'approvazione di Fischer, è che la decisione presa da Bukreev di guidare senza bombola d'ossigenodeterminò la conseguente decisione di lasciare i suoi clienti sulla cresta sommitale per scenderevelocemente. Avendo scelto di salire senza ossigeno, Bukreev si era messo alle corde da solo: senza

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bombola la sua unica scelta ragionevole era scendere rapidamente, che Fischer gli avesse dato ilpermesso di farlo o meno.

Il fattore decisivo non fu la stanchezza: fu la temperatura corporea. È generalmente riconosciutal'importanza dell'ossigeno nel tenere sotto controllo la spossatezza, il mal di montagna, lo stordimentodovuto all'altitudine estrema; ciò che è molto meno conosciuto è che l'ossigeno svolge un'azioneugualmente importante, se non addirittura più importante, nel tenere a freno i devastanti effetti del freddoa quelle quote.

Nel momento in cui Bukreev iniziò a scendere dal Colle Sud, prima di tutti, quel 10 maggio, avevatrascorso fra le tre e le quattro ore al di sopra degli 8750 metri, senza far ricorso a ossigenosupplementare. Per gran parte di quel tempo era stato seduto ad attendere, colpito da un vento gelido, esi era raffreddato in maniera incredibile come accadrebbe a qualsiasi alpinista in quelle circostanze. Comespiegò Bukreev stesso alMen's Journal , in un intervento a cui dette l'approvazione prima dellapubblicazione

 

sono rimasto [sulla vetta] per circa un'ora [...] Fa molto freddo, naturalmente, ti divora le energie [...] Lamia idea era che non sarebbe servito a niente se fossi rimasto lì, a congelarmi nell'attesa. [...] Aquell'altitudine, se resti fermo, perdi energia per il freddo, e allora non riesci più a fare niente.

 

Poichè si stava raffreddando pericolosamente, e andava incontro ad assideramento e ipotermia, Bukreevfu costretto alla discesa non dalla stanchezza, ma dal freddo.

Per dare un'idea di quanto si inasprisca l'effetto micidiale del gelo e del vento ad altitudini estreme, senon si usa ossigeno supplementare, guardiamo cosa accadde a Ed Viesturs tredici giorni dopo il disastrodel 1996, quando raggiunse la cima con la squadra dell'IMAX. Viesturs era partito dal Campo Quattroper l'assalto alla cima il 23 maggio, al mattino presto, circa venti - trenta minuti prima dei suoi compagni.Aveva lasciato il campo prima di tutti perchè, come Bukreev, non usava bombole d'ossigeno {Viestursera lì per girare il film dell'IMAX, e non svolgeva il lavoro di guida in quell'occasione}, ed erapreoccupato di non riuscire a stare al passo della troupe, i cui componenti usavano tutti le bomboled'ossigeno.

Viesturs era talmente forte, comunque, che nessuno riuscì ad avvicinarglisi, nonostante fosse lui asegnare il tracciato in mezzo alla neve profonda fino alle cosce. Dal momento che sapeva che era crucialeper David Breashears fargli la ripresa durante l'attacco alla vetta, molto spesso Viesturs si fermava eattendeva che la troupe cinematografica lo raggiungesse. Ma non appena smetteva di muoversi avvertiva imicidiali effetti debilitanti del gelo, benchè il 23 maggio facesse molto, molto più caldo di quanto nonavesse fatto il 10. Temendo l'assideramento, ogni volta era costretto a riprendere l'ascesa prima che isuoi compagni fossero abbastanza vicini per filmarlo. «Ed è forte almeno come Anatoli», spiegòBreashears un mese dopo la tragedia, «eppure, senza ossigeno, tutte le volte che si fermava adaspettarci, cominciava a gelare.» Di conseguenza Breashears dovette concludere l'impresa senzaimmagini di Viesturs al di sopra del Campo Quattro (le immagini del «giorno della vetta» che compaiononel film furono in realtà girate in un' altra occasione). Quel che sto cercando di dire è che Bukreevdoveva continuare a muoversi per le stesse ragioni di Viesturs: evitare di congelare. Senza ossigenosupplementare, nessuno – neppure gli scalatori più forti del mondo - può indugiare sulle rigide crestesommitali dell'Everest.

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«Mi spiace», continua Breashears, «ma è stata un'incredibile irresponsabilità da parte di Anatoli saliresenza ossigeno. Non c'entra quanto tu sia forte, quando scali l'Everest senza ossigeno sei davvero allimite; non sei nelle condizioni di aiutare i tuoi clienti. Anatoli dice una cosa non vera quando afferma chela ragione per cui è sceso è che Scott lo ha mandato giù a fare il tè. C'erano gli sherpa in attesa al ColleSud per fare il tè. L'unico luogo in cui una guida dell'Everest deve trovarsi è o con i suoi clienti, o subitodietro di loro, con la bombola d'ossigeno, pronto a fornire assistenza.»

Non ci sono dubbi: c'è un forte consenso tra le guide d'alta quota più rispettate, così come tra i più illustriesperti nel campo della medicina/fisiologia d' alta quota, riguardo al fatto che è un atto di estremairresponsabilità per una guida condurre i clienti in cima all'Everest senza usare bombole d'ossigeno.Durante le ricerche per il suo libro, De Walt dette incarico a un suo collaboratore di interpellare il dottorPeter Hackett - una delle autorità più in vista a livello mondiale per quanto riguarda gli studi sugli effettidebilitanti delle altitudini estreme - per richiedere il suo parere professionale sulla questione dell'ossigeno.Il dottor Hackett - che aveva conquistato la vetta dell'Everest nel 1981 con una spedizionemedico-scientifica - rispose inequivocabilmente che dal suo punto di vista era pericoloso e sconsideratofare la guida sull'Everest senza ricorrere all'ossigeno supplementare, anche nel caso di uno scalatoreeccezionalmente forte come Bukreev. È significativo che dopo aver ricevuto questo responso, DeWaltnon ne abbia fatto cenno inEverest 1996 .

In varie occasioni, durante la promozione del loro libro, Bukreev e De Walt affermarono che ReinholdMessner - il più completo e autorevole scalatore dell'era moderna - aveva approvato le azioni compiuteda Bukreev sull'Everest, inclusa la decisione di non usare bombole d'ossigeno. Nel novembre 1997Bukreev mi disse, faccia a faccia: «Messner dice che ho fatto le cose per bene sull'Everest». Nel libro,riguardo alle critiche che avevo mosso nei confronti del suo comportamento sull'Everest, DeWalt citaBukreev che dichiara:

 

Mi sono sentito davvero calunniato da quelle poche voci che hanno conquistato l'immaginazione dellastampa americana. Se non fosse stato per l'appoggio di colleghi europei come [...] Reinhold Messner,sarei rimasto avvilito dalla visione degli americani riguardo a ciò che avevo da offrire alla mia professione.

 

 

Come tante altre affermazioni presenti inEverest 1996 , quella riguardo all'approvazione di Messner èrisultata falsa.

Nel febbraio 1998, durante un incontro che ebbi con lui a New York, Messner dichiarò, in unregistratore e senza equivoci, che pensava che Bukreev avesse sbagliato a scendere prima dei suoiclienti. Messner, nella registrazione, affermò che secondo lui, se Bukreev fosse rimasto con i suoi clienti, l'esito della tragedia sarebbe stato ben diverso. Messner dichiarò: «Nessuno dovrebbe guidare sull'Everestsenza l'aiuto delle bombole d'ossigeno», aggiungendo che Bukreev si sbagliava se pensava che lui avesseapprovato il suo comportamento in quell'occasione.

Molti di noi sull'Everest quel maggio, hanno fatto degli errori. Come ho scritto nelle pagine di questolibro, le mie stesse azioni possono aver contribuito alla morte di due dei miei compagni di spedizione.Non ho alcun dubbio sulle buone intenzioni di Bukreev il giorno dell'assalto alla vetta; quello che miindispone, invece, è il suo rifiuto di prendere atto di aver preso anche solo una decisione sbagliata. Nonha mai ammesso che forse non era stata l'idea migliore quella di salire senza ossigeno o di scendere prima

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dei clienti. Bukreev ha continuato ostinatamente ad affermare che avrebbe ripreso ancora le stessedecisioni.

Anche se ho criticato alcune delle azioni di Bukreev, sono sempre stato pronto a sottolineare il suocomportamento eroico nelle ore precedenti l'alba dell'll maggio. Non c'è dubbio che Bukreev abbiasalvato la vita di Sandy Pittman e di Charlotte

Fox, a estremo rischio della propria incolumità: l'ho detto varie volte, in molteplici circostanze. AmmiroBukreev immensamente per essere uscito nella tormenta, mentre tutti noi giacevamo inermi nelle tende,per recuperare gli altri scalatori che si erano persi. Ma alcune decisioni che aveva preso in precedenza,quel giorno come in altri momenti della spedizione, rimangono comunque inopportune e di certo nonpossono essere facilmente ignorate da un giornalista incaricato di scrivere un resoconto completo escrupoloso del disastro.

Come è evidente, molte delle cose di cui sono stato testimone sull'Everest sono state sbagliate, anche senon fosse successa quella tragedia. Mi fu dato l'incarico di andare in Nepal proprio per scrivere unarticolo sulle spedizioni a pagamento sulla montagna più alta del mondo; era mio dovere professionalevalutare la preparazione delle guide e dei clienti e fornire ai lettori una testimonianza analitica di comesono condotte le spedizioni guidate sull'Everest. Credo fermamente di aver avuto il dovere – nei confrontidegli altri sopravvissuti, delle famiglie di coloro che sono scomparsi, della testimonianza storica, e dei mieicompagni che non sono più tornati a casa - di fornire un rapporto dettagliato di ciò che è accadutosull'Everest nel 1996, a prescindere da come quel resoconto sarebbe stato accolto. E questo è ciò cheho fatto, ricorrendo alla mia vasta esperienza di giornalista e di scalatore per comporre un quadro il piùaccurato e onesto possibile.

 

Il dibattito su ciò che accadde effettivamente in quel maggio 1996 sull'Everest, prese una svolta tragica ilgiorno di Natale del 1997, sei settimane dopo la pubblicazione in America diEverest 1996 , quandoAnatoli Bukreev rimase ucciso da una valanga sull'Annapurna, la decima montagna più alta del mondo.La sua morte è stata pianta in tutto il mondo. Aveva 39 anni, era un atleta fantastico, dotato distraordinario coraggio. A detta di tutti un uomo eccezionale e molto complesso.

Bukreev era cresciuto in una misera cittadina mineraria sugli Urali meridionali, nell'ex Unione Sovietica.Secondo il giornalista britannico delLondon Mail , Peter Gillman, quando Bukreev era un ragazzino suopadre

 

cercava di mettere insieme i soldi per la famiglia facendo scarpe e riparando orologi. Erano cinque figli evivevano in una piccola casa di legno senza impianto idraulico [...] Bukreev sognava di scappare. Lemontagne gli dettero questa possibilità.

 

Bukreev imparò ad arrampicare quando aveva 9 anni e le sue inconsuete doti fisiche si misero presto inluce. A 16 anni si fece onore ad un campo di allenamento per scalatori sulle montagne del Tien Shan nelKazakhstan. A 24 anni fu selezionato per entrare a far parte dell'esclusiva squadra nazionale di alpinismoche gli procurò un supporto finanziario, un grande prestigio e altri benefici sia morali che materiali. Nel1989 scalò il Kangchenjunga, la terza vetta più alta del mondo, insieme a una spedizione sovietica, e

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quando tornò a casa ad Almaty, nel Kazakhstan, il presidente Michail Gorbacev gli conferì il titolonazionale di Maestro dello Sport.

A causa degli sconvolgimenti che accompagnarono il Nuovo Ordine mondiale, questa situazione roseanon durò a lungo. Come racconta Gillman,

 

l'Unione Sovietica si stava sfasciando. Due anni più tardi Gorbacev avrebbe lasciato la guida del Paese eBukreev - che nel frattempo aveva realizzato la sua conquista dell'Everest - vide svanire le sue fortune e isuoi privilegi. «Non c'era niente», raccontò a [Linda] Wylie [la sua compagna americana]. «Niente soldi,ci trovavamo in brutte acque [...]» Bukreev decise di non soccombere. Se il regime comunista eracrollato, lui doveva adeguarsi al nuovo mondo fatto di imprese private, sfruttando il suo bagaglio dicompetenze alpinistiche e la sua determinazione.

 

In un ricordo di Bukreev su Internet, all'inizio del 1997 , la sua amica Fran Distefano-Arsentiev[44]diceva:

 

Furono momenti di disperazione [per Bukreev] ; anche solo avere i soldi per mangiare era un lusso [...]L'unica possibilità per uno scalatore sovietico di andare sull'Himalaya era entrare nel sistema econquistarsi quel privilegio. Andare sull'Himalaya, che tu fossi uno scalatore sufficientemente competenteo meno, non è mai stata un opzione; era un sogno [...] Prima che Buka diventasse famoso c'è stato unperiodo in cui niente fu facile per lui. Ma lui perseguiva i suoi sogni con tenacia, con un vigore che non homai riscontrato in nessun altro

 

Bukreev era diventato una sorta di nomade in quella ricerca sia di montagne che di soldi per vivere. Perracimolare denaro trovò impiego come guida sull'Himalaya, in Alaska e Kazakhstan; teneva serate didiapositive nei negozi specializzati dell'America e occasionalmente si dedicava a lavori più usuali. Ma nelfrattempo continuava a far registrare straordinari record di ascensioni ad alta quota, avvicinandosi semprepiù al traguardo che si era posto e cioè scalare tutti i 14 Ottomila del mondo.

Pur amando scalare e vivere la montagna, non aveva mai nascosto che non amava far la guida. Nel suolibro ne parla assai candidamente:

 

Speravo con tutte le forze di poter avere altre opportunità per guadaganre da vivere [...] È troppo tarditrovare adesso un altro modo per finanziare i miei obiettivi personali, eppure è con grandi riserve chelavoro per introdurre uomini e donne inesperti in questo mondo [della montagna d'alta quota].

 

E così continuò a portare scalatori novelli sulle alte vette, anche dopo aver vissuto in prima persona gliorrori e le controversie del disastro del 1996.

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Nella primavera del 1997 , un anno dopo quindi, Bukreev accettò di guidare una spedizione di ufficialiindonesiani che speravano di diventare i primi abitanti di quella terra insulare a scalare l'Everest,nonostante il fatto che nessuno di loro avesse alcuna precedente esperienza di montagna e che addiritturanessuno avesse mai visto la neve prima di allora. Come assistenti, per guidare questi neofiti, Bukreekchiamò due scalatori russi molto esperti, Vladimir Bashkirov e Evgeny Vinogradski, insieme ad ApaSherpa, che aveva scalato l'Everest ben sette volte. Inoltre, nel 1997 , a differenza del 1996, tutti icomponenti della spedizione fecero ricorso alle bombole d'ossigeno per l'assalto finale, compresoBukreev, nonostante la sua insistenza sul fatto che per lui era più sicuro «salire senza ossigeno in modo daevitare l'improvvisa perdita di acclimatazione che avviene quando si esauriscono le scorte di ossigenosupplementare». Nel 1997 , occorre sottolineare, Bukreev non fu mai a più di qualche passo dai suoiclienti indonesiani il giorno dell'arrivo in vetta.

La spedizione partì dal Colle Sud per l'assalto alla cima subito dopo la mezzanotte del 26 aprile. Versomezzogiono Apa Sherpa, in testa, giunse all'Hillary Step, dove si imbatte nel corpo di Bruce Herrod[45]che penzolava da una vecchia corda fissa. Arrampicandosi sopra il corpo del fotografo britannico, Apa,Bukreev e il resto della spedizione indonesiana procedettero faticosamente verso la cima.

Erano già le 15.30 quando il primo indonesiano, Asmujiono Prajurit, seguì Bukreev sulla cima. Rimaserolassù solo dieci minuti prima di ridiscendere, e Bukreev costrinse gli altri due indonesiani a tornareindietro, anche se uno di loro era a soli trenta metri dalla vetta. Il gruppo riuscì a scendere solo fino alBalcone, quella sera, dove dovettero sopportare un misero bivacco a 8400 metri, ma grazie alle capacitàdi Bukreev e a una rara notte senza vento, tutti riuscirono ad arrivare sani e salvi al Colle Sud il 27 aprile.«Siamo stati fortunati», ammise Bukreev.

Durante la discesa verso il Campo Quattro, Bukreev e Vinogradski si fermarono a coprire il corpo diScott Fischer con rocce e neve, a 8000 metri. «Fu un atto di rispetto nei confronti di un uomo che ioritengo la migliore e più brillante espressione dell'essenza americana», confidò Bukreev nel suo libro.«Penso spesso al suo splendente sorriso e al suo atteggiamento positivo. Io sono un uomo difficile espero di conservare il suo ricordo cercando di vivere seguendo il suo esempio.» Il giorno dopoattraversò il Colle Sud fino all'estremità del versante Kangshung, dove individuò il corpo di YasukoNamba, lo coprì meglio che potè con delle pietre e raccolse alcuni oggetti personali per consegnarli allafamiglia.

Un mese dopo aver scalato l'Everest con gli indonesiani, Bukreev tentò una traversata in velocità delLothse e dell'Everest con un brillante alpinista italiano di trent'anni: Simone Moro. Bukreev e Moro simisero in marcia verso la vetta del Lothse il 26 maggio, accompagnando otto membri di un'altraspedizione russa, di cui faceva parte Vladimir Bashkirov, l'amico di Bukreev che lo aveva aiutato nellaguida del gruppo di indonesiani. Tutti e dieci raggiunsero la vetta senza ossigeno supplementare, ma moltidi loro non ce la fecero ad arrivare prima del tardo pomeriggio: erano già passate le 16.00 quandoBukreev e Moro arrivarono in vetta.

        A quel punto sia Bukreev che Bashkirov stavano soffrendo acutamente. In prima serata giunse unachiamata via radio da parte di Bukreev, il quale dichiarò che Bashkirov stava collassando e che avevadisperatamente bisogno di ossigeno. Due compagni della spedizione russa si misero immediatamente inmarcia, dal campo dove si trovavano, con l'ossigeno: ma era ormai troppo tardi. Bashkirov morì sulle altependici del Lothse.

        Bukreev aveva perso un altro amico sulle montagne, ma ciò non lo dissuase dall'inseguire il suoobiettivo di scalare tutti gli Ottomila. Sei settimane dopo la morte di Bashkirov, il 7 luglio 1997 salì insolitaria il Broad Peak, in Pakistan. Esattamente una settimana dopo completò un'ascesa in velocità delvicino Gasherbrum II. Per raggiungere il suo obiettivo gli mancavano solo altre tre cime: il Nanga Parbat,

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lo Hidden Peak e l'Annapurna I.

        Qualche tempo dopo, quell'estate, Bukreev invitò Reinhold Messner a unirsi a lui sul Tien Shan peralcune salite in scioltezza. Durante la visita di Messner, Bukreev chiese al leggendario alpinista italianoalcuni consigli per la propria carriera di scalatore. Dalla sua prima volta sull'Himalaya, nel 1989, Bukreevaveva accumulato una straordinaria serie di ascensioni ad alta quota. Tranne due, tutte le imprese si eranosvolte su tracciati tradizionali, battuti relativamente spesso, senza troppe difficoltà tecniche. Messner glisegnalò che se voleva essere annoverato tra i più grandi scalatori del mondo, avrebbe dovuto spostare isuoi sforzi verso vie più impegnative, difficili e mai scalate.

        Bukreev prese a cuore quel consiglio. Decise di tentare l'Annapurna I attraverso una via tante voltetentata ma mai conquistata, dal versante sud della montagna, attraverso un picco satellite chiamatoAnnapurna Fang. E per aumentare ancora di più la difficoltà, decise di effettuare la scalata in inverno.Sarebbe stata un'impresa straordinariamente ambiziosa e pericolosa, che prevedeva una tecnicaalpinistica estrema in un freddo e un vento inimmaginabili. Anche quando si scala dalle vie più facili,l'Annapurna è considerata una delle montagne più difficili del mondo: per ogni due scalatori che ne hannoraggiunta la vetta, uno è morto. Se Bukreev fosse riuscito a salire dalla via che aveva preventivato, quellasarebbe stata una delle imprese più ardite nella storia dell'alpinismo himalayano. Come partner chiamò dinuovo Simone Moro - quel giovane e forte scalatore italiano con cui era andato sul Lothse - il qualepossedeva l'esperienza tecnica che mancava a lui.

        Verso la fine di novembre, subito dopo la pubblicazione diEverest 1996 , Bukreev e Moro sirecarono in Nepal e raggiunsero in elicottero il Campo Base dell'Annapurna, accompagnati da un registadel Kazahkstan, Dimitri Sobolev. L'inverno era giunto presto e così si trovarono di fronte un insolitoaccumulo di neve che rallentava la loro marcia e faceva aumentare drammaticamente il pericolo divalanghe. Riluttanti, decisero di abbandonare il piano originario e tentare una via più semplice - ancorchèdi grande difficoltà e molto rischiosa - ai margini del versante sud dell' Annapurna.

        Dopo aver eretto il Campo Uno a 5100 metri, sotto alla prima delle grandi difficoltà, Bukreev,Moro e Sobolev partirono dalla loro tenda al sorgere del sole il giorno di Natale, con l'intento di fissare lecorde lungo un ampio canale fino a una cresta che torreggiava circa 900 metri sopra l'accampamento.Moro, in testa, a mezzogiorno era arrivato a una sessantina di metri dalla cresta. Alle 12.27, fermatosiper prendere qualcosa dallo zaino, udì un secco boato. Alzò gli occhi e vide una valanga di enormiblocchi di ghiaccio precipitare con fragore verso di lui. Riuscì ad emettere un grido per avvisare Bukreeve Sobolev che stavano risalendo il canale circa 200 metri sotto di lui, un attimo prima che il muro di nevee ghiaccio lo facesse precipitare scaraventandolo giù dalla montagna.

        Per un attimo Moro provò ad arrestare la sua caduta cercando di aggrapparsi alla corda fissata,procurandosi solchi profondi sulle dita e sui palmi delle mani a causa dell'ustione da sfregamento dellacorda, ma fu inutile. Precipitò per circa 800 metri insieme alla cascata di ghiaccio, ma quando la massadella valanga si fermò su un dolce pendio poco sopra il Campo Uno, per pura fortuna Moro si ritrovò incima a tutti quei detriti ghiacciati. Dopo aver ripreso conoscenza, cercò freneticamente i suoi compagni,ma non riuscì a trovarne traccia. Ricerche aeree e sul luogo condotte la settimana successiva risultaronovane. Bukreev e Sobolev furono dichiarati morti. La notizia della morte di Bukreev fu accolta con doloree sconcerto in tutti i continenti. Aveva viaggiato molto e aveva amici in tutto il mondo. Tante, tantissimepersone rimasero sconvolte dalla sua morte, prima fra tutte la donna con cui divideva la vita, LindaWylie, di Santa Fe, New Mexico.

        La morte di Bukreev è stata sconvolgente anche per me, per un sacco di ragioni complesse. Inseguito a quell'incidente sull'Annapurna, gran parte del dibattito su ciò che era accaduto sull'Everest nel1996, iniziò a diventare futile e meschino e ormai marginale. Ho riflettuto a lungo su come le cose tra me

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e Bukreev fossero giunte a quello spiacevole punto. Essendo entrambi testardi, orgogliosi e restii aindietreggiare di fronte a una disputa, il nostro disaccordo si era ingigantito fino ad assumere proporzionieccessive.

        Vorrei aver descritto Bukreev in maniera diversa nel mio libro? No, non credo. Niente di ciò cheho appreso dal momento della pubblicazione diAria sottile o diEverest 1996 , mi induce a ritenere diaver sbagliato. Ciò che vorrei, forse, è essere stato meno tagliente in un famoso scambio di lettere fra mee lui su Internet, intercorso poco dopo il mio articolo sull'Everest pubblicato daOutside nel settembre1996. Queste controversieonline hanno creato uno spiacevole tono che si è inasprito nei mesi successivie hanno, da quel momento, polarizzato la sua attenzione.

        Benchè le critiche che avevo mosso a Bukreev nell'articolo suOutside e nel mio libro fosserocontenute e controbilanciate da elogi sinceri, Anatoli si sentì comunque offeso e si indignò. Bukreev eDeWalt hanno risposto attaccando la mia credibilità e fornendo dei fatti interpretazioni a dir pocofantasiose. Per difendere la mia onestà sono stato costretto a svelare dei particolari che mi ero astenutodal presentare per evitare di ferire Bukreev senza motivo. Bukreev, DeWalt e la St. Martin's Press hannoribattuto intensificando i loro attacchi nei miei confronti e in un batter d'occhio il dibattito è degenerato inuna folle guerra verbale.

        La disputa ha raggiunto il culmine all'inizio del novembre 1997 al Mountain Book Festival di Banff.Bukreev era uno dei partecipanti a una tavola rotonda di eminenti scalatori. Io avevo declinato l'invito pertimore che quella occasione potesse trasformarsi in un insano match di grida, ma feci l'errore di andarci investe di spettatore. Il risultato fu che a un certo punto mi ribellai all'acredine di Bukreev e per tuttol'auditorium cominciarono a volare parole sconsiderate e piene di livore.

        Mi scusai immediatamente di quell'esplosione. Dopo la conclusione della tavola rotonda, quando lafolla si era dileguata, corsi fuori in cerca di Anatoli e lo trovai con Linda Wylie che attraversava i praticircostanti il Banff Centre. Dissi loro che mi sembrava opportuno scambiare due parole in privato percercare di alleggerire quella tensione. In un primo momento Anatoli esitò di fronte alla mia proposta,dichiarando che stava facendo tardi a un altro evento del Festival. Ma in seguito alla mia insistenzaconcesse di dedicarmi qualche minuto. Per la mezz'ora successiva, io Linda Wylie e Anatoli siamo rimastilì fuori, nel freddo di quella mattina canadese, a parlare con franchezza, ma con calma, dei nostri punti divista divergenti. A un certo punto lui mi ha messo una mano sulla spalla dicendomi: «Non sono arrabbiatocon te, Jon, ma tu non capisci». Al termine del nostro colloquio, pronti a riprendere ciascuno la propriastrada, eravamo giunti alla conclusione che sia io che lui dovevamo fare uno sforzo per moderare il tonodella discussione e per non permettere che l'atmosfera fra noi continuasse ad essere così emotivamentetesa e carica di competitività. Continuammo a non trovarci in accordo su certi punti - in primo luogosull'opportunità di guidare sull'Everest senza bombole d'ossigeno, e su ciò che Bukreev e Fischer sisarebbero detti nell'ultima conversazione in cima all'Hillary Step – ma entrambi ci rendemmo conto diconcordare pienamente su quasi tutto il resto.

        Benchè il coautore diEverest 1996 , Mr. DeWalt, abbia continuato ad alimentare le fiamme delladiscussione, io sono tornato da quell'incontro con Anatoli con la speranza di poter appianare le cose conlui. Prevedevo già la fine di quel pasticcio. Sette settimane dopo, però, Anatoli rimase uccisosull'Annapurna e io mi sono reso conto che i miei sforzi di riconciliazione erano giunti troppo tardi.

 

JON KRAKAUER

Boulder,Colorado-Agosto 1998

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[1]Non tutti coloro che si trovavano sul monte Everest nella primavera del 1996 sono inclusi nell'elenco

[2]Il Western Cwm (pronuncia: kuum) fu battezzato così da George Leigh Mallory, che fu il primo avederlo durante l'esplorazione iniziale dell'Everest organizzata nel 1921 e partita dal Lho La, un passoelevato sul confine fra Nepal e Tibet. Cwm è una parola celtica che significa «valle» o «circo morenico».

[3]I rilevamenti moderni, avvalendosi del laser e delle più recenti tecniche

di trasmissione Doppler via satellite, hanno corretto questa misurazione accre-

scendola di soli 7,9248 metri e portandola quindi alla cifra oggi correntemen-

te accettata di 8848 metri.

[4]Le vette più alte dei sette continenti sono: Everest, 8848 metri (Asia); Aconcagua, 6960 metri(America meridionale); McKinley, noto anche col nome di Denali, 6194 metri (America settentrionale);Kilimangiaro, 5895 metri (Mrica); Elbrus, 5642 metri (Europa orientale); Mount Vinson, 5240 metri(Antartide); Kosciuszko, 2228 metri (Australia). Dopo che Dick Bass li aveva scalati tutti e sette, PatrickMorrow, un alpinista canadese, sostenne che, visto che la vetta più alta dell'Oceania, il gruppo di terreemerse che comprende l’Australia, non è il monte Kosciuszko, bensì la vetta molto più ardua dellaCarstenz pyramid, o Djaia (5040 metri), nella provincia indonesiana di Irian Barat, non era Bass il primoad avere compiuto la scalata delle Sette Sorelle, ma lui, Morrow. Più d'uno dei detrattori del concettodelle Sette Sorelle ha fatto notare che una sfida molto più impegnativa della scalata delle cime più alte diogni continente sarebbe quella delle cime classificate al secondo posto in ordine di altezza per ognicontinente, un paio delle quali richiedono in effetti scalate molto impegnative.

[5]Bass impiegò quattro anni per scalare le Sette Sorelle.

 

[6]Il chorten è un monumento religioso, di solito fatto di roccia e contenente spesso delle reliquie sacre;si chiama anchestupa .

[7]Le pietre mani sono sassi piccoli e piatti, meticolosamente incisi con caratteri tibetani che esprimonol'invocazione dei buddhisti tibetaniOm mani padme hum , e vengono ammucchiati al centro dei sentierifino a formare lunghi e bassi murettimani . L'etichetta buddhista prescrive ai viandanti di superarli sempresulla sinistra.

[8]Dal punto di vista tecnico, la maggior parte degli «yak» che si vedono sull'Himalaya sono in realtàdzopkyo , ossia ibridi di sesso maschile fra yak e bovini, odzom , ibridi femminili; inoltre le femmine diyak, se di razza pura, si chiamano per l'esattezzanak . Comunque quasi tutti gli occidentali stentano adistinguere fra loro questi bestioni pelosi e li definiscono tutti yak.

[9]A differenza del tibetano, al quale pure è molto affine, la lingua degli sherpa non ha una tradizionescritta, quindi gli occidentali sono costretti a ricorrere a trascrizioni fonetiche. Di conseguenza non esisteuna perfetta uniformità nella grafia delle parole o dei nomi sherpa; Tengboche, per esempio, si scriveanche Tengpoche o Thyangboche, e incongruenze simili si notano anche nella grafia di altre parolesherpa.

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[10]Sebbene il nome tibetano della vetta sia Jomolungma e quello nepalese Sagarmatha, nellaconversazione quotidiana gli sherpa indicano quasi sempre la montagna col nome di «Everest», ancheparlando fra loro.

[11]Esistono quattordici vette definite «Ottomila», ossia montagne che superano gli ottomila metri dialtitudine. Benchè si tratti di una designazione piuttosto arbitraria, gli alpinisti hanno sempre attribuito unparticolare prestigio alla scalata di cime superiori agli ottomila metri. Il primo a scalarle tutte e quattordiciè stato Reinhold Messner, nel 1986, e finora, solo altri quattro uomini hanno ripetuto l'impresa.

[12]Il gioco di parole del testo originale allude a unayellow brick road , che è anche il titolo di unacelebre canzone di Elton John. (N.d.T)

[13]Fin dai primi tentativi di scalata dell'Everest, quasi tutte le spedizioni, commerciali o no, si sonoaffidate agli sherpa per il trasporto della maggior parte del carico sulla montagna. Ma noi, in quanto clientidi una spedizione guidata, non portavamo carichi di alcun genere tranne una modesta quantità diattrezzatura personale, e in questo senso la nostra impresa era notevolmente diversa dalle spedizioni noncommerciali dei tempi andati.

[14]La crepaccia terminale è una profonda fenditura che delimita l'estremità superiore del ghiacciaio; siforma nel punto in cui la massa di ghiaccio si stacca dalla parete ripida immediatamente al di sopra,lasciando un varco fra il ghiacciaio e la roccia.

[15]Anche se uso il termine «commerciale» per indicare qualunque spedizione organizzata basata sulpagamento di quote per la partecipazione, non tutte le spedizioni commerciali sono guidate. Per esempio,Mal Duff - che faceva pagare ai suoi clienti somme notevolmente inferiori ai sessantacinquemila

.dollari richiesti da Hall e Fischer - assicurava l'organizzazione e le infrastrutture essenziali per scalarel'Everest (viveri, tende, bombole di ossigeno, corde fisse, aiutanti sherpa e così via), ma non si proponevacome guida; gli scalatori della sua squadra dovevano essere esperti a sufficienza per salire da solisull'Everest e ridiscendere senza rischi.

[16]Per assicurare corde e scale ai pendii innevati si usavano chiodi di alluminio lunghi novantacentimetri, chiamati picchetti; nei punti in cui il terreno era costituito da ghiaccio vivo, si utilizzavano «vitida ghiaccio», ovvero chiodi cavi e filettati, lunghi una dozzina di centimetri, che si avvitavano nelghiacciaio.

[17]Benchè Yasuko avesse già usato i ramponi da ghiaccio durante le precedenti scalatedell'Aconcagua, del McKinley, dell'Elbrus e del Vinson, nessuna di queste salite aveva richiestoun'autentica scalata su ghiaccio, se non in minima parte; in ogni caso il terreno consisteva principalmentein pendii relativamente moderati, di neve e/o di misto.

[18]Assicurazione è un termine tecnico dell'alpinismo che designa l'atto di assicurare una corda perproteggere l'alpinista e i suoi compagni di cordata durante l'ascesa.

[19]Benchè la spedizione di Neby fosse classificata come una impresa «solitaria», il norvegese avevaingaggiato diciotto sherpa perchè gli trasportassero il carico, gli organizzassero il campo e lo guidasserosulla montagna.

[20]Solo gli scalatori indicati nell'autorizzazione ufficiale, al costo di diecimila dollari a testa, sono

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ammessi al campo base. Questa regola viene fatta rispettare rigorosamente e coloro che la violanorischiano multe proibitive, oltre all'espulsione dal Nepal.

[21]Non va confuso con l'omonimo sherpa della squadra sudafricana. Ang Dorje - come del restoPemba, Lhakpa, Ang Tshering, Ngawang, Dawa, Nima e Pasang - è un nome molto diffuso fra glisherpa; il fatto che ciascuno di questi nomi fosse comune a due o più sherpa fu all'origine di qualcheequivoco nella primavera del 1996.

[22]Ilsirdar è il capo degli sherpa. La squadra di Hall comprendeva unsirdar del campo base, chiamatoAng Tshering, che era a capo di tutti gli sherpa utilizzati dalla spedizione, mentre Ang Dorje, ilsirdarscalatore, pur dovendo rispondere ad Ang Tshering, sovrintendeva a tutti gli sherpa scalatori finchè sitrovavano sulla montagna al di sopra dd campo base.

[23]Si ritiene che l'origine del problema sia la scarsità di ossigeno nell'aria, aggravata dall'alta pressionenelle arterie polmonari: questo fa sì che il fluido trasudi dalle arterie nei polmoni.

[24]Nonostante il notevolebattage pubblicitario sui «collegamenti diretti interattivi fra le pendici delmonte Everest e il World Wide Web», alcuni limiti tecnologici impedivano connessioni dirette fra ilcampo base e Internet. I corrispondenti trasmettevano i loro rapporti a voce o via fax, con il telefonosatellitare, e in seguito questi rapporti venivano digitati sui computer per la diffusione sulla rete daredattori dislocati a New York, Boston e Seattle. I messaggi di posta elettronica venivano ricevuti aKathmandu e lì stampati, dopodichè la copia veniva trasportata al campo base a dorso di yak. Allostesso modo, tutte le foto immesse sulla rete erano state prima spedite per mezzo di yak e poi percorriere aereo a New York, da dove venivano trasmesse. Le sessioni chat si svolgevano grazie altelefono satellitare e a un'operatrice alla tastiera che si trovava a New York.

[25]Vari periodici e quotidiani hanno riferito erroneamente che ero un corrispondente di Outside Online.L'equivoco è nato dal fatto che Jane Bromet mi ha intervistato al campo base e ha inviato una trascrizionedell'articolo, diffusa dal sito Web di Outside Online. In realtà io non avevo alcun rapporto con OutsideOnline e sono andato sull'Everest per incarico della rivistaOutside , un'entità indipendente (con sede aSanta Fe, nel Nuovo Messico), che intrattiene un rapporto di collaborazione aperta con Outside Online(che ha sede legale nella zona di Seattle) per la pubblicazione di una versione online della rivistaOutsidesu Internet. Ma la rivistaOutside e Outside Online sono autonome, al punto che prima di arrivare alcampo base ignoravo che Outside Online avesse inviato un corrispondente sull'Everest.

[26]La maniglia jumar è un congegno non più grande di un portafogli, che si aggancia alla corda permezzo di una camma metallica. La camma consente alla maniglia jumar di spostarsi verso l'alto senzadifficoltà, ma serra con forza la corda, bloccandola, quando il congegno è sottoposto all'azione di unpeso. In questo modo l'alpinista può risalire lungo la corda, in sostanza: issandosi a braccia.

[27]Le bandiere di preghiera recano stampate delle invocazioni buddhiste, la più comune delle. quali èOm mani padme hum , che vengono inviate a Dio a ogni sventolio della bandiera. Spesso, oltre allepreghiere scritte, recano l'immagine di un cavallo alato, perchè nella cosmologia degli sherpa i cavalli alatisono creature sacre che si ritiene portino in cielo le preghiere con straordinaria celerità. Il termine usatodagli sherpa per indicare le bandiere di preghiera èlung ta , che tradotto alla lettera significa «cavallo divento».

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[28]Bromet aveva lasciato il campo base verso la metà di aprile per tornare a Seattle, da dovecontinuava a diffondere su Internet rapporti rdativi alla spedizione di Fischer per Outside Online; come

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fonte principale, poteva far affidamento su regolari telefonate di aggiornamento da parte di Fischer.

[29]Le bombole di ossigeno vuote che deturpano il Colle Sud si sono accumulate sul posto fin dagli anniCinquanta, ma oggi, grazie a un programma tuttora in corso promosso dalla Sagarmatha ExperimentalExpedition di Fischer nel 1994, ce ne sono meno di un tempo. Gran parte del merito va a un membrodella spedizione, Brent Bishop (figlio del defunto Barry Bishop, noto fotografo delNationalGeographicche scalò l'Everest nel 1963), il quale ha avviato una politica di incentivi dall'esito molto positivo,finanziata dalla Nike; nell'ambito di questa iniziativa gli sherpa ricevono un premio in contanti per ognibombola di ossigeno che riportano giù dal Colle. Fra le numerose agenzie che organizzano spedizioniguidate sull'Everest, l'Adventure Consultants di Rob Hall, la Mountain Madness di Scott Fischer el'Alpine Ascents International di Todd Burleson hanno adottato con entusiasmo il programma di Bishop,con il risultato che oltre ottocento bombole vuote sono state rimosse dalle pendici superiori dellamontagna negli anni dal 1994 al 1996.

[30]Dal gruppo dei clienti di Fischer mancavano Dale Kruse, che era rimasto al campo base in seguito alrecente attacco di edema cerebrale, e Pete Schoening, il leggendario veterano sessantottenne, che avevadeciso di non salire oltre il Campo Tre dopo che un elettrocardiogramma, eseguito dai dottori Hutchison,Taske e Mackenzie, aveva messo in evidenza un'anomalia potenzialmente grave nel battito cardiaco.

[31]La maggior parte degli sherpa scalatori presenti sull'Everest nel 1996 voleva avere un'opportunità diraggiungere la vetta. Le loro motivazioni non erano meno varie di quelle degli scalatori occidentali, maalmeno in parte l'incentivo era rappresentato dalla sicurezza dd lavoro. Come spiegò Lopsang: «Dopoche uno sherpa ha scalato 1'Everest, facile trovare lavoro. Tutti vogliono questo sherpa».

[32]Al Campo Quattro il telefono non funzionò affatto

[33]Sandy Pittman e io abbiamo discusso di questo e di altri fatti durante una conversazione telefonicadurata un'ora e dieci minuti e avvenuta sei mesi dopo il nostro ritorno dall'Everest; tuttavia mi ha chiestodi non riportare in questo libro alcuna frase di quel colloquio, se non per chiarire certi punti a propositodell'episodio del traino, e io ho aderito alla sua richiesta.

[34]La cheratotomia radiale è un procedimento chirurgico per correggere la miopia, in cui si praticanodelle incisioni a raggiera dal bordo esterno della cornea verso il centro, in modo da appiattirla.

[35]Sebbene un forte scalatore possa impiegare anche tre ore per salire trecento metri di dislivello, inquesto caso la distanza era su un terreno più o meno pianeggiante, che il gruppo avrebbe dovuto esserein grado di percorrere in una quindicina di minuti, se avesse saputo dove si trovavano le tende.

[36]Soltanto quando intervistai Lopsang a Seattle, il 25 luglio 1996, appresi che aveva visto Harris lasera del 10 maggio. Pur avendo scambiato più volte qualche parola con Lopsang, nei mesi precedenti,non avevo mai pensato di chiedergli se aveva incontrato Harris sulla Cima Sud, perchè a quell'epoca eroancora convinto di aver visto Harris al Colle Sud, 900 metri più in basso, alle sei e mezza del pomeriggio.Oltre tutto, Ed Cotter aveva già chiesto a Lopsang se avesse visto Harris, ma in quella circostanza, nonso per quale motivo, forse per un semplice fraintendimento della domanda, Lopsang aveva risposto dino.

[37]Nelle prime ore della mattina seguente, mentre cercavo Andy Harris sul Colle, notando sul ghiacciole tracce ormai quasi cancellate dei ramponi di Lopsang, che risalivano verso l'alto dall'orlo della paretedel Lhotse, credetti erroneamente che fossero le tracce di Harris che scendevano lungo la parete, e perquesto motivo mi convinsi che Harris doveva essere precipitato nel vuoto cadendo dal Colle.

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[38]Avevo già riferito con assoluta sicurezza di aver visto Harris sul Colle Sud alle 18.30 dello maggio,perciò quando Hall disse che Harris era con lui sulla Cima Sud (900 metri più in alto della posizione dame indicata), quasi tutti, a causa del mio abbaglio, diedero erroneamente per scontato che le dichiarazionidi Hall non fossero che i vaneggiamenti incoerenti di un uomo sfinito e in grave debito di ossigeno.

[39]Per evitare confusioni, tutte le ore indicate in questo capitolo sono state convertite nell'ora delNepal, anche se gli avvenimenti che descrivo si sono verificati nel Tibet, Qui infatti gli orologi sonoregolati sull' ora di Pechino, che è in ritardo di due ore e quindici minuti sul fuso orario del Nepal; peresempio, le 06.00 del Nepal corrispondono alle 08,15 in Tibet.

 

[40]Nel 1996 la squadra di Rob Hall trascorse solo otto notti al Campo Due (6500 metri) o a quotesuperiori, prima di partire per la vetta dal campo base, e questo attualmente è il periodo di acclimatazionetipico. Prima del 1990, gli scalatori trascorrevano molto più tempo al Campo Due o ancora più in alto,compresa almeno una puntata di acclimatazione a 7986 metri, prima di imbarcarsi per la vetta. Anche seil valore dell'acclimatazione a 7986 metri è discutibile (gli effetti deleteri del tempo trascorso aun'altitudine così estrema possono benissimo superare i vantaggi), non c'è dubbio che estendere ilperiodo attuale di acclimatazione, che prevede otto o nove notti a 6400 metri, anche ai 7300 metrifornirebbe un margine di sicurezza più ampio.

[41]I buddhisti credono che la somma delle buone azioni compiute nel corso della vita, se elevata, possaaffrancare l'individuo dal ciclo delle rinascite, liberandolo quindi per sempre da questo mondo di pene esofferenze.

[42]In precedenza Viesturs aveva già scalato l'Everest senza ossigeno, nel 1990 e nel 1991. Nel 1994lo aveva scalato una terza volta insieme a Rob Hall, ma nella salita aveva usato l'ossigeno perchè in quellacircostanza faceva da guida e considerava irresponsabile condurre dei clienti senza l'ausilio dell'ossigeno.

[43]Occorre ricordare che lo sherpa chiamato Ang Dorje della spedizione sudafricana non è lo stessodella squadra di Rob Hall.

[44]Abitante a Norwood, in Colorado, Fran Distefano-Arsentiev conobbe Bukreev tramite il marito, ilnoto scalatore sovietico Serguei Arsentiev. Nel maggio 1998 Fran e Serguei raggiunsero la vettadell'Everest dalla Cresta Nord-Est, senza ricorrere alle bombole d'ossigeno. Fran divenne così la primadonna americana ad aver conquistato l'Everest senza ricorrere all'ossigeno supplementare. Prima di darel'assalto finale, però, i due avevano trascorso tre notti al di sopra degli 8300 metri, senza ossigeno, e poifurono costretti a trascorrerne un'altra ancora più in alto durante la discesa, questa volta totalmenteesposti agli elementi, senza ossigeno, senza tenda, senza saccopiuma. Entrambi morirono prima di poterraggiungere la salvezza ai campi più bassi.

[45]Herrod fu trovato a capo all'ingiù, sospeso alla corda. Sembra che sia caduto scendendo a cordadoppia dall'Hillary Step la sera nel 25 maggio 1996 senza riuscire a rigirarsi, forse per la troppaspossatezza, o forse perchè aveva perso i sensi. In ogni caso Bukreev e gli indonesiani lasciarono lì il suocorpo così com'era. Un mese dopo, il 23 maggio 1997, Pete Athans liberò il corpo di Herrod dallacorda mentre saliva in vetta come membro di una spedizione incaricata di girare un filmato per ilprogramma «Nova» della PBS. Prima di liberarlo, Athans prese la macchina fotografica di Herrod checonteneva la sua ultima fotografia: un autoritratto in cima all'Everest.

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