Jaguarà

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ME presenta l'ultimoromanzo di Margaret Gaiottina Orlando, Orlando... che ne farai di una ragazza troppo innocente per te? Romance Paranormal Hot

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a cena col vampiroMaMMaeditori

Margaret Gaiottina

Jaguarà

2013n. 13

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ISBN 978–88–87303–65–0 1° edizione novembre 2013

Copyright © 2013 Mamma Editori

Casa Bonaparte 43024 Neviano degli Arduini – Parma

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Immagine di copertina di Valda

FINITO DI STAMPARE E RIlEgATO NEl MESE DI OTTOBRE 2013

PRESSO MAMMA EDITORI

In fatto di vampiri ed esseri soprannaturali vari la ma-gia dell’epica sembra più che mai rinnovarsi. Nella koinè letteraria, migliaia di fans di ogni paese, continuano a im-maginarne e a leggerne le avventure. Per questi tipi, la collana A cena col vampiro intende dar conto del fenomeno, con l’avvertenza, che non tutte le storie mantengono il profilo adolescenziale e romantico, alcune autrici hanno voluto narrare in modo più crudo le passioni, altre più attratte dal titanismo dei signori della notte, ne hanno de-scritto dettagliatamente la violenza. Altre ancora tornano al momento magico in cui sboccia l’amore impossibile.

a cena col vampiro

Collana

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A Fabio, attorno a cui gira tutto il mio mondo

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Capitolo 1

San Valentino.Il giorno perfetto per andare al cinema e sciropparsi

in santa pace un bel film romantico, di quelli lunghi, strappalacrime, intrecciati e soprattutto a lieto fine.

Era davvero un ottimo programma.Maya aprì il primo cassetto del comò e ne lisciò il

contenuto con la mano: il maglione rosso di lana pelo-sa, il dolcevita nero di cotone rasato. No, non era esat-tamente ciò che cercava. Infilò la mano più sotto, nel secondo strato di golfini, fino a quando il palmo non incontrò la morbidezza dell’angora. Era il maglioncino blu con i cristalli di neve ricamati. Bene.

Lo tirò fuori portandolo dritto sotto il naso e riem-piendosi i polmoni dell’odore di bucato che le piaceva tanto, fatto con il sapone antico, di quelli che usavano le nonne misto al profumo di rosa.

Maglione blu e jeans era un bell’abbinamento.Richiuse il cassetto e fece scivolare sicura la mano

sul perimetro del mobile, lungo il bordo. Solo quando avvertì lo spigolo sotto il polpastrello la spostò in avanti verso il portagioielli di legno. Cercò gli orecchini, quelli a forma di bottone blu notte. Trovati.

Infilò le mani nella massa dei capelli rossi, aveva fat-to lo shampoo quella mattina quindi erano abbastanza scivolosi e puliti. Sapeva di avere lo specchio del comò

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davanti, ricordava l’immagine circolare della cornice do-rata e anticata. Il ricordo del suo volto invece era come offuscato, lo aveva in mente come lo si potrebbe vedere attraverso una cortina di lacrime. Ma aveva ben presenti le sopracciglia arcuate e gli occhi di un verde così scuro da sembrare quasi castani. I ricordi del viso e del mondo si erano cristallizzati; risalivano all’età in cui tutto sem-bra andare nel verso sbagliato e non si vorrebbe una sola delle caratteristiche che si posseggono. Si girò di novan-ta gradi a destra verso la porta e da lì contò quattro passi fino all’attaccapanni. Distendendo il braccio incontrò ciò che si aspettava, la montagna di cappotti e borse.

Sotto le dita riconobbe la stoffa morbida del piumi-no imbottito con il risvolto di finta pelliccetta. Batté la mano sulla tasca destra, le chiavi c’erano. Si chinò ap-pena per prendere la sacca sul tavolinetto basso alla sua destra. Sapeva di averci messo cinquanta dollari quella mattina, quindi era a posto così. Anzi no, forse era me-glio infilare la mano, giusto per assicurarsi che il telefo-nino fosse nella tasca. Sì, c’era.

– Direi che possiamo andare, Doc vieni qui!Uno zampettare allegro e un ansito regolare prece-

dettero un paio di guaiti obbedienti. Doctor, il labrador miele ciondolò fino alle gambe di Maya e le diede una bella strusciata muso contro jeans, pronto per l’uscita.

– Vieni bello.Maya si chinò per agganciare il guinzaglio al mo-

schettone, tirò fuori dalla tasca il berretto di lana con il pompon e spalancò il portoncino a quel freddo pome-riggio d’inverno, pronta per la sua missione.

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A svariati chilometri di distanza ma nemmeno poi tanti considerato l’universo intero che lo separava dal pianeta della gente comune, Orlando si chinò per ag-ganciare il guinzaglio al moschettone.

Se Roxanne avesse dovuto definirlo catturandone l’immagine in quel preciso frangente, avrebbe usato pa-role come: toro da monta, dio del sesso, emblema della perversione. Era tutto ciò che le veniva in mente solo guardandolo.

Alcuni riccioli scuri gli sfioravano la fronte umida di sudore, altri ricadevano appena sulla nuca. Con uno sbuffo del labbro i capelli volarono verso l’alto, scopren-do per un istante il nero intenso degli occhi tra le ciglia lunghe e scure allo stesso modo. La linea della mandi-bola era tirata, come se dietro le labbra piene e perfet-tamente disegnate Orlando stesse digrignando i denti.

Nudo, teneva in bella mostra tutto ciò di cui la natu-ra lo aveva generosamente dotato.

Quello era un uomo che non conosceva il significato della parola pudore. Non c’era traccia di imbarazzo nel modo in cui teneva diritte le spalle ampie e forti o nella maniera in cui il respiro gli faceva espandere il torace guizzante di muscoli potenti.

I peli scuri digradavano fino quasi a scomparire all’al-tezza dello stomaco, per poi rinfoltirsi là dove i musco-li sulle anche formavano una “V” peccaminosa. Ed era proprio al centro delle cosce potenti che un pene di di-mensioni superiori alla media svettava orgogliosamente dritto. Roxanne si leccò le labbra gustando il sapore del rossetto di lusso che si era data.

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Tutta quella forza dirompente non sarebbe stata per lei quella sera. Sarebbe toccato a Marie goderselo, men-tre lei avrebbe dovuto limitarsi a guardarlo. Tuttavia non sarebbe rimasta a bocca asciutta, anche se sapeva per esperienza che non avrebbe avuto neanche la pallida controfigura della soddisfazione che gli avrebbe dato lui.

Orlando artigliò la presa sui capelli di Marie stratto-nando leggermente anche il collare. La vittima mugolò un verso che era di resistenza mista a estasi. Gli occhi colore del carbone di Orlando ardevano di un sentimen-to oscuro e minaccioso. C’era lussuria, una prepotenza antica e insuperabile, un’arroganza misteriosa che sem-brava gridare “io posso, posso fare questo e molto altro. E tu me lo permetterai”.

Era tremendamente vero. Roxanne gli avrebbe con-sentito di scoparsi quella ragazza davanti ai suoi occhi, il godimento di Orlando sarebbe stato anche il suo.

Roxanne si inarcò per ricevere l’uomo alle sue spal-le. Era talmente immersa in quella visione che lo aveva quasi dimenticato. Accusò il colpo incassando la stocca-ta vigorosa mentre continuava imperterrita a guardare. Sì, nonostante tutto poteva ben dire che sarebbe andata molto meglio a Marie quella sera, e non solo per un fatto di dimensioni.

Ma quello era il gioco e lei doveva starci.Gli occhi di Orlando non smettevano di abbeverarsi

avidi alla sua umiliazione con l’uomo che la stava pren-dendo. Poteva leggervi un senso di trionfo, una spieta-tezza senza confini che faceva eco agli affondi del baci-no di lui sul corpo esile della ragazza completamente piegato.

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Guardare la pelle che gli si imperlava di sudore, am-mirare i muscoli delle cosce contrarsi nello sforzo di sor-reggere il corpo e pompare nello stesso tempo dentro il ventre di Marie, erano uno spettacolo primordiale. Roxanne lo vide dischiudere le labbra, gettare la testa all’indietro e ruggire con un’intensità tale da prosciu-garle la bocca. Con le vene del collo gonfie per lo sforzo e lo sguardo annebbiato dalla sete di sesso, Orlando era l’immagine dell’abiezione totale: ciò che lei preferiva in assoluto.

xUna raffica di vento penetrò il giaccone di Maya e si

insinuò sulla pelle del collo facendola rabbrividire.Stava filando tutto liscio, ma che fatica programmare

ogni minimo dettaglio. Però ne sarebbe valsa la pena e la ricompensa sarebbe stato godersi quell’attimo di libertà e di preziosa normalità.

Maya aveva a lungo temuto che la governante quel giorno non ne volesse proprio sapere di andarsene; Miss Gordon aveva indugiato per casa dopo pranzo come se sospettasse qualcosa, ciondolando per le stanze e siste-mando la cucina con una cura quasi ossessiva. Maya aveva fatto una fatica immane a sbarazzarsene.

La verità era che Miss Gordon non si sentiva solo la governante di casa O’Byrne, ma era completamente immedesimata nel ruolo di angelo custode.

Maya era solo cieca dopotutto; lo era esattamente da dieci anni e lo sarebbe stata per sempre. Era arrivata al venticinquesimo compleanno e venire trattata come una bambina era insopportabile. Svoltò l’angolo e av-vertì sotto le dita una superficie fredda e liscia: una vetri-

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na. L’anfibio pestava l’asfalto mentre una serie di suoni le riempivano le orecchie: i tacchi di un paio di donne che venivano nella sua direzione, il chiacchiericcio di un gruppo di ragazzi dietro di lei, i clacson delle auto nella corsia di marcia.

I suoni del quartiere erano musica, vita, gioia.La prima scelta era stata il cinema Royal, l’idea di

andare a sentire la storia di Channing Tatum che spasi-mava per la moglie che aveva perso la memoria in “The Vow” le aveva già cambiato l’umore, si sentiva eccitata e frizzante. Essere ciechi d’altra parte non equivaleva certo a doversi privare di tante cose che potevano farsi anche con la vista, ma non solo con questa. Il suo divertimen-to segreto era costruire il suo film personale, lasciando-si ispirare dai dialoghi ma sopratutto amava sbrigliare l’immaginazione quando in sala rimanevano i rumori prodotti dall’azione. O quando si intensificava la mu-sica della colonna sonora. Ne uscivano trame del tutto fantastiche e molto diverse da quelle originali, come poi il giorno dopo avrebbe scoperto andando a cercare su internet grazie al lettore vocale.

Al cinema Royal la conoscevano bene; certo, non erano abituati a vederla arrivare da sola come quel gior-no. Di solito era con la governante o più spesso con Je-remy. Ormai anche Doc sapeva cosa fare e si accucciava obbediente accanto alla sua poltrona con il muso per terra aspettando paziente fino alla fine del film.

Maya sorrise tra sé, mentre Doc la guidava lungo il marciapiedi e lei contava i passi fino all’angolo successi-vo. Un aroma di pasta frolla appena sfornata la investì in pieno e la avvolse come un’ondata. Doveva essere arriva-

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ta davanti alla pasticceria in fondo alla strada. Pregustò la tappa che aveva programmato dopo il film.

Doveva essere un giorno speciale quel San Valenti-no e una semplice puntata al cinema, per quanto per lei non fosse affatto “semplice”, non era abbastanza. Per spezzare la monotonia ci voleva anche una sosta nella cioccolateria più famosa di Sussex. Non avrebbe dovuto neanche fare una deviazione e per di più aveva ripassato a mente mille volte il tragitto, scegliendo se era meglio andare attraverso il parco o sul marciapiede. Alla fine aveva pensato di optare per il marciapiede perché i punti di riferimento erano sicuramente migliori. Doveva as-solutamente prendere il cioccolato alla cannella e anche un pezzetto di quello al peperoncino, erano i suoi prefe-riti, era quasi imperioso il bisogno fisico di sentire sulla lingua il liquefarsi dolce della cannella e poi la decisione del gusto piccante. Erano giorni che pensava a quella bontà goduriosa per coccolarsi un po’ in una giornata che altrimenti avrebbe finito per farle salire le lacrime agli occhi.

Ma farsi vincere dallo sconforto era assolutamente proibito, non il giorno di San Valentino. Lo faceva ogni anno, sempre lo stesso rito: film romantico e sosta in cioccolateria ma per la prima volta ora lo faceva da sola.

Aveva programmato tutto. Aveva preparato i vestiti da indossare e ripassato mentalmente il percorso. Il gior-no prima in radio aveva sentito le previsioni del tempo e non ci sarebbe stato pericolo di pioggia. Aveva fatto tutto quanto era in suo potere per rendere ogni cosa assolutamente perfetta. E normale soprattutto.

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Doc stava al suo passo pazientemente ma per quanto tutto stesse procedendo per il meglio Maya non poté impedire che tornasse ad affacciarsi alla mente ciò che era accaduto l’unica altra volta che era uscita a passeggio da sola. Il cuore le si serrò in un pugno. In quei gior-ni c’erano stati i funerali del padre e forse questo spie-gava come lei avesse potuto raggiungere un tale grado di stupidità. Mentre la commessa aspettava i soldi, lei aveva cercato e ricercato il portafoglio per un’imbaraz-zante mezz’ora. Non avrebbe mai potuto trovarlo! E per il semplice motivo che le era stato sottratto. Chiunque altro lo avrebbe constatato in pochi secondi, lei invece aveva continuato a rovistare nella borsa. L’umiliazione era stata cocente e indimenticabile.

– Ehi Maya!Maya si immobilizzò e Doc fece altrettanto abbaian-

do una volta. La voce di Jeremy era un timbro così pu-lito che l’avrebbe riconosciuta ovunque, un po’ acuta e con il tipico accento newyorkese.

– Jeremy.Un’ondata di sconforto le risalì nel petto. Aveva fatto

le cose per bene, per non incontrare nessuno, perché aveva dovuto trovarlo proprio a cinquanta metri fuori di casa? Perché non ne andava mai bene una?

Sentì che si avvicinava; un profumo maschile le in-vase le narici e poi avvertì il contatto delle sue labbra morbide e tiepide sulla guancia.

– Che ci fai fuori da sola? Perché non sei con Miss Gordon?

Eccolo che cominciava con l’interrogatorio. Se lo im-maginava già, con le sopracciglia aggrottate e le labbra

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imbronciate, i capelli color miele corti a spazzola tutti dritti, le mani infilate nelle tasche. Aveva “visto” talmen-te tante volte quel viso attraverso il tocco dei polpastrelli che le sembrava di poterlo osservare realmente.

Quanto avrebbe desiderato che il cuore le battesse forte per quel ragazzo, che potesse essere lui l’uomo del-la sua vita. Sarebbe stato tutto semplicissimo, ogni tesse-ra del puzzle della sua esistenza sarebbe andata a posto, si sarebbe sistemata a vita con un uomo che l’avrebbe protetta, ascoltata, amata senza riserve. Jeremy aspet-tava solo un segnale da lei, un qualcosa che gli facesse comprendere che poteva farsi avanti, che avrebbe avuto campo libero nel suo cuore.

Ma le cose per lei non potevano essere mai semplici, mai.

E Maya non sarebbe stata capace di rassegnarsi a un sentimento tiepido. Sognava un uomo che le avrebbe fatto uscire il cuore dal petto, tanta sarebbe stata la gioia di vederlo.

Ma dubitava seriamente che potesse esistere, forse era vero solo nei suoi sogni migliori.

Stabilì che tanto valeva dire la verità fin da subito. Jeremy era un tipo che parlava tanto e le avrebbe fatto un sacco di domande. Sembrava che la sua attività prin-cipale fosse preoccuparsi per la sua incolumità.

– Sto solo facendo un giretto e poi non solo sola, sono con Doc.

– Ah sì…Jeremy non sembrava particolarmente soddisfatto

della risposta.– Praticamente è già buio, dovresti rientrare.

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– Jeremy, che fai lo spiritoso? Per me è sempre buio e il film comincia esattamente fra un quarto d’ora. Non vorrai farmi arrivare in ritardo.

Jeremy non era proprio un tipo spiritoso e Maya per-cepì il suo disagio dal tono di voce ancora più esitante, quasi un piagnucolio.

– Lo sai che non mi piace che tu esca da sola, nel parco all’imbrunire per di più.

Dallo scricchiolio della ghiaia si intuiva che stava spostando il peso da una gamba all’altra. Era nervoso. Ma se lo meritava, anzi era ancora troppo poco per aver cercato di rovinarle l’uscita tanto ben programmata.

– Lo so, ma c’è un buon motivo.– Ti credo sulla parola, ma posso accompagnarti,

sono libero.Doveva assolutamente tranquillizzarlo altrimenti le

si sarebbe messo alle calcagna e addio all’agognata serata indipendente.

– Non puoi farlo, dopo il cinema devo procurarmi un regalo per il tuo compleanno.

Maya sorrise soddisfatta sicura di averlo colpito e affondato.

La notizia sembrò spiazzarlo davvero, ma solo per un istante.

– Ma c’è tempo, manca ancora più di un mese!– Lo so ma ho in mente una cosa particolare che

voglio prendere proprio adesso.Stava diventando una conversazione imbarazzante e

Maya temeva di aver esaurito le risposte dirette ma non offensive. Aveva investito troppe energie in quell’uscita e avrebbe combattuto per difenderla.

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Jeremy sbuffò, era contrariato.– Va bene ma dopo vai a casa senza fare altre soste,

ti prego.Quando faceva così era difficile resistere, Jeremy era

il figlio di uno dei migliori amici di suo padre, pratica-mente uno di famiglia.

Dedicarono altri due minuti alle chiacchiere amiche-voli e Maya si sforzò di essere decisa ma irremovibile.

– Adesso però devo proprio andare altrimenti faccio tardi, la maschera dovrà accompagnarmi al posto e lo sai che mi scoccia farmi aiutare.

Jeremy era così soffocante e apprensivo che quando le era accanto le mancava quasi l’aria.

– Va bene, ma stai attenta.Maya strinse le labbra, l’amico aveva ceduto presto,

forse anche troppo.Ma non era il momento di porsi troppe domande,

un bacio veloce sulla guancia e poi via al cinema.Rimasta sola incominciò a rimuginare camminando;

Jeremy si preoccupava per lei, ma non aveva idea dello strano radar interiore che la faceva sentire al sicuro in mezzo alla gente nonostante la cecità, colorando con le tinte delle emozioni l’oscurità che la circondava. Avver-tire i cambiamenti d’umore e gli stati d’animo di chi si trovava intorno a lei era forse un dono di nascita, di certo però aveva scoperto di possederlo solo dopo aver perso la vista. L’aveva potenziato pian piano, un giorno dopo l’altro. Dapprima aveva iniziato a percepire i malumori, le ansie, le gioie, insomma un’infinità di sfaccettature che componevano gli stati d’animo di chi la sfiorava o le parlava poi aveva preso a bastarle la semplice vicinanza

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e se le emozioni erano violente poteva avvertirle ormai anche a decine di metri. Quella bizzarria era diventata la normalità, una specie di compensazione della vista.

Le diedero un posto accanto al corridoio, vicino l’u-scita di sicurezza. Quando il suono ovattato della colon-na sonora iniziò a vibrare nella sala, Maya seppe che era calato il buio per tutti, con la sola eccezione che tutti guardavano un rettangolo che si stagliava nel nero del-la sala, tranne lei. Ma non le importava perché di lì a poco avrebbe sentito quelle meravigliose voci alternarsi creandole un subbuglio di emozioni che le turbinavano dentro inesprimibili.

Per sopperire alle immagini nelle scene non dialo-gate si sarebbe fatta guidare dalla musica e dai suoni. E avrebbe fatto volare la fantasia.

Il film terminò in un’apoteosi musicale strappalacri-me, un’iniezione di romanticismo della durata di due ore e di lì a un quarto Maya varcò l’uscita della ciocco-lateria con un abbondante sacchetto in mano. Stava per estrarne un bonbon ancora caldo da posare sulla lingua e sentir cedere sotto i denti in un momento di totale deliquio quando il bip dei messaggi segnalò comunica-zioni in arrivo.

Si allontanò dall’uscita della pasticceria e si accostò al muro. Cercò a tentoni il telefonino nella borsa, lo tirò fuori portandolo all’orecchio e facendo partire la segre-teria telefonica.

In una mano teneva il sacchetto dei cioccolatini e il cellulare quando, preceduto da una corrente d’aria che le soffiò vicinissimo, qualcosa la spintonò; un urto po-

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tente che la fece atterrare in malo modo distesa sul fian-co e poggiata su un gomito.

Successe tutto in pochi secondi, attimi di squilibrio e panico, mentre il dolore si fece strada potente e bru-ciante. Con tutta probabilità si era escoriata gamba e braccio.

Subito un coro di voci le si affollò intorno. La tenta-zione fu quella di mettere le mani sulle orecchie e rag-gomitolarsi gemendo per la botta. Il brusio si fece via via più distinto, andando a formare un’unica eco che si prodigava e che le chiedeva come stesse.

Maya cercò di risollevarsi proprio mentre due brac-cia robuste la tirarono su e un odore familiare le arrivò dritto al naso.

Tra il borbottio della piccola folla riuscì a distinguere Jeremy che bofonchiava cercando di camuffare la voce.

“Tutto bene?” chiese.Le veniva da piangere. Jeremy non l’aveva ritenuta

capace di cavarsela da sola e l’aveva seguita! Ma la cosa peggiore era che i fatti gli avevano dato ragione. Maya avvertì il cuore caderle nelle viscere con un tonfo sordo. Quanto era accaduto dimostrava che lei era del tutto incapace di badare a se stessa.

Doveva esserle stato dietro per tutto il tempo, durante il film, e poi doveva averla seguita fino alla cioccolateria. Sentiva che gli occhi le si riempivano di lacrime e che la sensazione di vertigine e di vuoto la stava inghiottendo.

– Sì, tutto bene – rispose cercando di tenere a bada il tremolio della voce, ma le parole le uscirono smozzicate.

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Il telefono le era sfuggito di mano e chissà che fine aveva fatto. Maya sentì la voce di Jeremy dire il tono contrito:

– Credo proprio che le servirà un telefono nuovo.Maya raddrizzò le spalle. Poco male, era un vecchio

Nokia e forse finalmente avrebbe preso l’ultimo model-lo, denaro permettendo.

Riprese Doc al guinzaglio e allungò una braccio. Tro-vò il muro e capì che direzione prendere. Il cuore era gonfio di umiliazione e il mento mantenuto più in alto che poteva, anche se il labbro le si increspava.

– Devo attraversare il parco – sussurrò.– Da questa parte allora.La voce di Jeremy ridicolmente camuffata si accom-

pagnò al suo tocco mentre la orientava verso la giusta direzione per andare a casa sua.

– Vuole che l’accompagni?Maya represse un singhiozzo:– La ringrazio signore, ma da qui dovrei farcela da

sola, grazie.Era sicura che Jeremy l’avrebbe seguita fino a casa,

assicurandosi che arrivasse tutta intera e non l’avrebbe mollata fino a quando non avesse visto la porta di casa chiudersi alle sua spalle.

Maya avvicinò la chiave alla toppa facendola scorrere appena sull’ottone prima di infilarla per chiudersi alle spalle la porta di casa. Si sentiva dieci anni di più addos-so. Posò le chiavi nello svuota tasche e stava appendendo il giaccone quando il telefono prese a trillare. Era miss

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Gordon che l’aveva cercata. Aveva un tono sovreccitato quasi che trovarla a casa avesse del miracoloso.

– Ma dove sei stata Maya! Sono le sei e mezza, è già buio!

Quando abbassò la cornetta Maya si ritrovò ad im-precare ad alta voce ma il telefono squillò di nuovo. La mano era ancora fissa sul ricevitore. Non fece altro che risollevarlo con il cuore gonfio di amarezza. Che cos’al-tro poteva esserci? Perché Miss Gordon non la lasciava in pace?

– Pronto!Sbottò esasperata.Dall’altra parte trovò un tono morbido, femminile e

professionale.– Signorina Maya O’Byrne?Accidenti.– Sì– Qui Saxton Surgery, buonasera, chiamo per un

curriculum inviato alla nostra ditta. Aveva inviato un curriculum alla Saxton Surgery? La

clinica privata di chirurgia e medicina estetica più famo-sa di Sussex?

Maya strinse le labbra, doveva esserci lo zampino di Jeremy.

– Le è stato fissato un colloquio per giovedì alle 11.Aprì le labbra e rimase muta. Jeremy l’aveva fatto

davvero alla fine, aveva inviato il suo curriculum alla Saxton dove lavorava come analista di laboratorio nel posto che era stato lo stesso padre di Maya a procurargli

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a suo tempo. Lo aveva fatto veramente e ora l’avevano chiamata.

Prese nota del luogo e dell’ora dell’appuntamento e riagganciò.

Un senso di inquietudine prese il posto dello stupore iniziale. Cosa le avrebbero proposto? E di qualsiasi cosa si fosse trattato, sarebbe stata in grado di farla? Eh sì perché il punto era proprio quello, non bastava volerle fortemente le cose, bisognava pure essere capaci di por-tarle a termine. Maya girò sicura verso il divano.

Non c’era motivo di allarmarsi, d’altra parte molta gente veniva chiamata per colloqui che poi non porta-vano a niente. Essere convocati non voleva dire per forza essere assunti.

E poi, cosa avrebbero potuto affidare a una ragazza cieca? Un impiego come centralinista? Giusto quello. E se anche fosse successo, come avrebbe fatto a sbrigar-si con tutto ciò che avere un lavoro regolare all’esterno rende necessario? Andare al lavoro con i mezzi pubblici, presentarsi truccata e vestita in ordine ogni mattina, oc-cuparsi delle pratiche di assunzione… Maya si premette il foglietto di carta con la data dell’appuntamento sul petto come fosse la cosa più preziosa del mondo.

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Capitolo 2

La pioggia era una vera maledizione. Maya appoggiò la fronte sul finestrino del taxi. Oltre le gocce sul vetro immaginò la città annaspare nell’umidità. I marciapiedi dovevano essere intasati per l’ora di punta.

Tenere l’ombrello in una mano e il guinzaglio dall’al-tra non sarebbe stato semplice. La giornata non co-minciava sotto un buon auspicio e chissà cosa ancora aveva in serbo alla Saxton, nei ben quattro palazzi in cristallo in cui si articolava la clinica estetica. Un bri-vido le percorse la schiena. Pioggia! Come se la caduta rovinosa del giorno prima non fosse abbastanza. Al solo pensiero sentì le lacrime spingere sotto le palpebre. Era stato il San Valentino più disgraziato di sempre e forse i suoi San Valentino si sarebbero ripetuti eternamente allo stesso modo, nel tentativo di tranquillizzare Jeremy, dribblare gli appostamenti di Miss Gordon e rassegnarsi alle figuracce per la strada, le umiliazioni, e soprattutto a tanta solitudine.

L’idea di non poter provare tutte quelle emozioni esaltanti che riempivano le vite dei personaggi dei ro-manzi o dei racconti delle amiche, era penoso e di una tristezza così reale che le pesava sul cuore. Il taxi frenò interrompendo i suoi pensieri.

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– Eccoci all’ Arthur Saxton Institute, siamo arrivati, signorina.

Maya prese i soldi dal portafoglio e impugnò salda-mente l’ombrello. Non appena avvertì l’aria fresca en-trare dallo sportello, mise una gamba fuori dall’abitaco-lo e la allungò fino a quando il piede non toccò l’asfalto, poi sporse anche l’altra e aprì l’ombrello. Quattro zampe la seguirono docili.

– È proprio dritto davanti a lei, c’è un vialetto lungo una decina di metri.

Maya sorrise a quell’uomo dalla voce buona che sem-brava un po’ imbarazzato a darle indicazioni.

– La ringrazio molto.Il tonfo attutito dello sportello che si chiudeva le ar-

rivò alle spalle e poi il rombo della macchina in partenza l’avvisò che era rimasta sola con Doc.

– Forza bello.Era proprio così come le aveva detto il tassista. Una

porta a vetri le si aprì di fronte e facendo un passo in avanti si ritrovò nell’atmosfera ovattata di un ambiente chiuso.

Odore di disinfettante e di pulito.Maya chiuse l’ombrello e lo scosse leggermente te-

nendolo vicino. Trascorsero solo pochi secondi pieni di voci, maschili e femminili, gente che chiedeva informa-zioni, signorine educate che rispondevano, poi qualcu-no doveva essersi accorto della sua presenza o aveva visto Doc.

Una voce professionale si rivolse anche a lei.– Posso fare qualcosa per lei, signorina?

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– Mi chiamo Maya O’Byrne, ho ricevuto una telefo-nata, ho un incontro qui oggi. ...Con il Presidente.

Di colpo tutte le parole dette la fecero sentire una sciocca. Chi si sarebbe mai presentato in quel modo ap-prossimativo? Già cominciava male.

– Attenda un momento.Maya sentì unghie lunghe picchiettare sulla tastiera

del telefono e subito dopo la voce di poco prima an-nunciarle con cortesia che poteva salire al quinto piano, mister Saxton era al corrente della sua visita e la stava aspettando.

La voce si avvicinò e una mano le sfiorò il gomito accompagnandola fino all’ascensore.

Maya avvertì le porte metalliche aprirsi. Avanzò per entrare nella cabina. Fece appena in tempo ad avvertire il cambiamento nella consistenza del pavimento sotto le suole che andò a sbattere contro qualcosa.

Non era qualcosa ma qualcuno. Maya aprì i palmi davanti a sé per proteggersi e nello stesso tempo capi-re cosa fosse. Trovò sotto le dita il fresco contatto con un tessuto morbido coperto da uno un po’ più ruvido aperto davanti e sotto ancora un muro di muscoli sodi e compatti.

Una camicia delicata sotto un camice di cotone rigido.

Stava toccando il torace possente di un uomo. Pre-sumibilmente un medico o un infermiere. Resasi conto di colpo, le braccia le ricaddero lungo il corpo. Restò perfettamente immobile in attesa nel silenzio rotto solo dalla voce registrata che annunciava la chiusura delle porte. C’era un odore esotico nella cabina, virile e pri-

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mitivo, come di selvaggio, un odore che faceva venire in mente viaggi eccitanti, paesi caldi e lontani. La mente visualizzò alberi alti a perdita d’occhio, un sole gigante-sco e gli occhi di una fiera in agguato nel buio della mac-chia. Quel pensiero le accese un campanello di allarme nel cervello, come se lo sconosciuto fosse una presenza pericolosa.

– Chiedo scusa – farfugliò.Silenzio prolungato mentre l’ascensore chiudeva le

porte con un leggero ronzio.– Per avermi messo le mani addosso?Quella voce la colpì dritta al centro del petto.Maschio, giovane, arrogante. Maya non sapeva se era

ciò che aveva detto o come lo aveva detto: le aveva con-fuso per un attimo le idee.

– In genere non mi succede.– Me lo immagino.La voce ora era strascicata e ironica. No, non ironica,

cinica.Maya sentì una punta di dispetto salirle fino ai ca-

pelli. Di maleducati insensibili ce ne erano parecchi in giro, perché si stupiva di trovarne in quel tempio della futilità?

Era così concentrata sulla sensazione di dispetto che quel tipo le stava suscitando, che quasi trasalì al primo abbaio di Doc. Ne seguì un secondo e poi un altro an-cora. Maya allungò una mano per carezzargli la testa. Aveva appiattito le orecchie e il suono che gli vibrava in gola era un ronzio minaccioso.

– Stai buono, Doc.

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Era raro che il labrador abbaiasse a qualcuno. Un paio di carezze ottennero solo il risultato di fargli abbas-sare il volume della protesta.

– Dove deve andare?Ora il tono era diventato inquisitore. Freddo. Se non

fosse stato in ascensore con una cieca probabilmente non si sarebbe preso la briga di domandare niente.

– Vado dal signor Saxton, al quinto piano.– Ma guarda un po’...La risposta sembrava quasi lo facesse ridere.L’ascensore si fermò con un leggero sobbalzo al se-

condo piano, le porte si aprirono e il profumo oscuro sparì in silenzio solo con un movimento d’aria.

Un chiacchiericcio acuto, poi i pannelli di metallo si richiusero ronzando, dopo che una ventata di due pro-fumi diversi invase l’abitacolo.

Un sospiro, femminile, poi una serie di commenti appena sussurrati.

– Hai visto? Era lui!– Ma chi? Orlando? Non è giusto che uno così bello

e anche tanto vergognosamente ricco possa essere anche un chirurgo di successo a soli ventisei anni!

– Un paio d’ore nel suo studio ci vorrebbero e farsi fare una bella visita!

La battuta fu seguita da uno squittio di risa soffocate.Senza volerlo le labbra di Maya si piegarono in un

sorriso. L’antipaticone non era solo muscoloso dunque. Doveva essere un bell’uomo: un chirurgo bello e ricco. Lei aveva palpato un pezzo da novanta: perché mera-vigliarsi che il tipo fosse arrogante? Dilatò le narici per catturare un residuo dell’odore di poco prima... Un tipo

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anche inquietante però. L’ascensore si fermò all’ultimo piano.

L’ufficio di Arthur Saxton era di sicuro lussuoso. La prima cosa che Maya avvertì entrando fu l’odore forte di sigaro, e di pelletteria, e la certezza di non essere sola nella stanza.

– Maya, cara piccola Maya. Se ti avessi incontrata per strada non ti avrei mai riconosciuta!

Passi attutiti da un tappeto e uno spostamento d’aria annunciarono che l’uomo le stava vendendo incontro.

La voce era calda, il tono basso e saggio da uomo anziano. L’odore di sigaro si fece più intenso e due mani calde racchiusero la sua in una stretta affettuosa.

Maya frugò nei ricordi per pensare come potesse mai conoscere quell’uomo.

– Mr. Saxton, vero?– Oh, certo, sì sono io. Siediti cara hai proprio una

poltrona due passi davanti a te.Mentre lo diceva con una mano la guidò tenendole il

gomito per accompagnarla.Odore di sigaro e camicia inamidata. Doc guaì docile

e si accoccolò ai suoi piedi.Non aveva idea di cosa la circondasse, che tipo di

arredamento ci fosse in quello studio, se caldo in legno antico e cornici dorate o lineare e moderno, ma la pol-trona che l’abbracciava le confermò di aver “annusato” giusto. Poltrone, e divani se ce n’erano, erano di pelle. Inoltre, da come percepiva le voce, aveva la netta sensa-zione che la stanza fosse grande. Se la immaginò tutta

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ammobiliata con pezzi di colore nero e lucido e appesi alle pareti quadri astratti.

– Ti starai facendo sicuramente molte domande Maya sul perché di questo nostro incontro e credo an-che che tuo padre ti abbia raccontato poco del Brasile… Anzi ancora non posso darmi pace che tuo padre non mi abbia a suo tempo messo a parte delle tue difficoltà. In-tendo anche per il problema di trovare un’occupazione stabile da parte tua. È incredibile che io lo abbia dovuto sapere così, da una domanda di impiego come tante!

La lunga premessa di Arthur Saxton le diede il tem-po di riflettere quanto effettivamente fosse strano che il papà non l’avesse introdotta presso i Saxton per il qua-li lui aveva lavorato una vita e che facoltosi com’erano avrebbero potuto facilmente trovarle un’occupazione.

Il pensiero le fece sobbalzare il cuore di nostalgia e con le mani artigliò i braccioli della poltrona spingen-dosi in avanti.

– Si ricorda ancora di mio padre?Sentì tirare un sospiro profondo e poi il rumore di

una poltrona di pelle che veniva occupata.– Era ben più di un maggiordomo per me Maya.

Tuo nonno prese a sovrintendere la servitù già ai tempi di mio padre, e poi il suo posto fu preso da tuo pa-dre che era stato mio amico e compagno di giochi nelle estati che, tornato dal collegio, trascorrevo alla tenuta. – ...Tuo padre e tuo nonno sono stati entrambi perfetti registi delle nostre vite quando abitavamo a San Pao-lo. La famiglia gli mancava moltissimo, tu gli mancavi, Maya. Mi mostrava le tue foto di quando avevi ancora i codini e ora sei diventata una bellissima donna.

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Arthur Saxton lasciò cadere quelle parole come maci-gni, seguiti da un momento di silenzio perché la ragazza ne comprendesse appieno il significato.

Maya corrucciò le sopracciglia. Suo padre aveva tra-scorso un periodo della sua vita in Brasile, ma non ne aveva parlato mai volentieri. Il nome Von Sachs risuonò tra i ricordi.

– La sua morte prematura mi ha molto addolorato.Il tono della voce era cambiato. Maya cercò di non

pensare al dolore per la perdita. il tono di quelle parole le sembrava strano, ancora più del loro contenuto. L’im-pressione che aveva era che quell’uomo fosse in difficol-tà. Saxton si schiarì la voce ritrovando il filo:

– Comunque ormai, piccola Maya, sei sola al mondo e io vorrei poter fare qualcosa per te, in nome dei vecchi tempi e della dedizione che la tua famiglia ha sempre avuto per ...noi.

Ma davvero quell’uomo lo stava dicendo? Veramente si stava dimostrando così protettivo.

Stava succedendo tutto molto in fretta.– Uno dei miei figli ha bisogno di un’assistente per-

sonale, qualcuno che gli filtri le telefonate che riceve. Da quando ha rifatto gli zigomi a Jeremy Dean, non ha pace. Non che la meriti.

L’affermazione severa le fece alzare la testa di scatto.– La sua assistente personale si è appena licenziata.

Puoi prendere il suo posto. L’amministrazione ti prepa-rerà il contratto, ho già dato mandato. Potresti comin-ciare da lunedì.

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– Mi farebbe davvero piacere Maya, lascia che io pos-sa assecondare la mia coscienza adoperandomi per quello che consideravo un familiare più che un collaboratore.

Ancora quel tono apprensivo, come se volesse che ac-cettasse a tutti i costi.

Maya prese un respiro, non si aspettava che le cose prendessero quella piega.

Le stava offrendo un posto per un debito di ricono-scenza. Arthur Saxon non aveva mai letto il suo curricu-lum e probabilmente le stava affidando un incarico che non richiedeva alcuna competenza.

Ma era un’opportunità, un modo per uscire dalla routine quotidiana, un modo per fare ciò che facevano ogni giorno le persone normali, uscire, andare al lavoro, chiacchierare con i colleghi, in una sola parola, vivere.

Se la vita le stava dando un’opportunità, sarebbe sta-to sciocco non coglierla, forse era il segno di un cam-biamento e la ruota avrebbe cominciato a girare bene anche per lei.

– Accetto.E aprì le labbra in uno splendido sorriso.

Mezz’ora dopo nell’ufficio di Arthur Saxton, David entrò dando un colpo secco alla porta, senza aspettare che il padre lo invitasse.

Teneva in mano una serie di tabulati, con tutta pro-babilità quelli relativi alle prestazioni effettuate in clinica nel mese precedente e li studiava con grande attenzione attraverso le lenti trasparenti.

Nessuno meglio di Arthur sapeva quanta importanza avessero quelle colonne di numeri, ci aveva fondato un

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impero, una catena di centri medici dedicati alla chi-rurgia plastica in tutto il New Jersey, con il cuore nella contea di Sussex e nella omonima cittadina.

David era il maggiore dei suoi figli e senza dubbio quello che gli somigliava di più, il più adatto a tenere le redini dell’azienda. Thiago era ancora troppo giovane, ma sarebbe diventato un ottimo chirurgo anche lui e Orlando, bé il suo secondogenito era un vero mago del bisturi ma ciò non cambiava il fatto che era un maledet-to cinico bastardo... oltre a tutto il resto.

David mandava avanti la clinica con una dedizione e un senso degli affari degni del bisnonno e gli occhi di Arthur andarono al ritratto in miniatura nascosto da una sporgeza nella parete in modo che solo lo si potes-se vedere dalla posizione che occupava lui ora dietro la scrivania. Spiò i lunghi e folti baffi bianchi: il vecchio Helmut Von Sachs.

Arthur sospirò perso per un istante nei ricordi. La decisione di lasciare il Brasile, di cambiare cognome e di cancellare ogni più piccola traccia che lo riconduces-se al padre. Il New Jersey si era rivelato semplicemente perfetto per iniziare una nuova vita e custodire il segreto di famiglia. Lo sguardo tornò a pennellare la silouette delicata del viso del figlio.

David era bello in modo esageratamente perfetto, quasi impossibile, esattamente come lo era stato lui alla sua età: naso dritto e zigomi pronunciati, la selezione migliore degli attributi dei Von Sachs. Ma quel ragazzo non sembrava curarsi delle attenzioni delle donne. Era pervicacemente fedele a quella sua Michelle, che ancora nessuno aveva avuto il piacere di conoscere.

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– Non ci crederai ma questo mese le pieghe nasoge-niene sono ancora in cima alla classifica. Seguite dalla blefaro. Ma non ti rimorde la coscienza, papà?

Arthur accavallò le gambe dietro la scrivania. Tipi-co di David passare da un argomento all’altro, sempre attento, un’intelligenza acuta e pronta a servizio della migliore gestione della clinica.

– Per cosa? Per offrire bellezza a pagamento?David alzò il viso e tolse gli occhiali. Guardò il padre

dritto negli occhi con una serietà che era il suo marchio di fabbrica.

– Sai di cosa sto parlando, non far finta di non capi-re. Per aver messo una povera ragazza cieca tra gli artigli di Orlando.

Arthur inclinò la bocca all’ingiù. Anche lui a qua-rant’anni, l’età di David ora, aveva ancora qualche scrupolo.

– Sto solo cercando di mettere al sicuro il nostro se-greto. – masticò, – Il padre può averle rivelato della fuga da Berlino di mio nonno, del fatto del cognome, ti pare? E non solo, – aggiunse chinando lo sguardo, – e io vo-glio che lei tenga la bocca cucita. – La società americana era così moralista al fondo. Non avrebbe perdonato. La verità sul passato dei Saxon avrebbe compromesso in un attimo il lavoro di due generazioni.

– Cosa ti preoccupa di più?, – chiese David massag-giandosi la nuca con troppa energia, – Il governo israe-liano, quello brasiliano o la messa al bando degli animali pericolosi?

Terminò la frase voltandogli le spalle diretto alla por-ta. Forse aveva voluto nascondergli una smorfia amara.

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David entrò nella stanza del proprio ufficio e si chiu-se la porta alle spalle. Per un istante lo sguardo vagò intorno. La parete rivestita di tappezzeria damascata era piena di diplomi appesi: laurea, specializzazioni, master. Un trionfo di titoli ostentati per garantire ai pazienti che il dottor David Saxton era un brillante chirurgo plastico al quale potersi affidare senza preoccupazioni per qual-siasi cambiamento si volesse imporre al proprio corpo.

Si lasciò andare sulla poltrona di pelle.Magari avesse potuto cambiare se stesso.Aveva un intervento programmato per prima di

pranzo e uno nel pomeriggio, poi sarebbe stato libero, avrebbe trascorso la serata ad allenarsi e ad ascoltare mu-sica classica nel suo appartamento.

Chiuse gli occhi cercando di rilassarsi un attimo.Gli venne in mente che poco prima aveva sorpreso

la segretaria a sbirciarlo di sottecchi. Hanna aveva una cotta per lui, come quasi tutte le donne che entravano nel suo raggio d’azione, pazienti comprese. Quarant’an-ni gli facevano onore, sembrava che le sue assistite non aspettassero altro di farsi mettere le mani addosso. Pal-pare la carne da aumentare o ridurre, pizzicare e tastare la muscolatura era un attività priva di emozione per lui ma David leggeva nei loro occhi un’ammirazione e un desiderio che il più delle volte lo esasperavano.

Aveva cura del proprio corpo, forse troppa, ma si compiaceva nel vedere allo specchio i muscoli definiti dello stomaco e i pettorali sviluppati che rispondevano al suo comando. Voleva essere bello per sé ma le donne

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interpretavano il suo distacco come una sfida da vincere e si accanivano nel tentare di sedurlo.

Avrebbe telefonato a Michelle quella sera, non la sen-tiva da un paio di giorni, avrebbero parlato di cavalli e musica, lei gli avrebbe raccontato delle sue sfilate, di Milano e Parigi e tutto sarebbe ricominciato identico il giorno dopo.