Jacopo Sannazaro. Orfeo in Arcadia - unive.it · Il mito nella letteratura italiana. I. Dal...

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IN RETE ANGELA CARACCIOLO ARICÒ, Il mito di Orfeo nel mondo aragonese, “Critica letteraria”, 137, vol. 4°, dic. 2007, in corso di stampa. Percorrere* la diffusione del mito di Orfeo all’ interno della cultura napoletano- aragonese significa seguire le variazioni su un mito che fin dall’ antichità si è prestato alle esegesi più varie, in un percorso che via via è venuto allontanandosi dalla sfera dell’ emozione poetica, in cui assieme fusi si sono presentati significati allegorici, ricerca estetica, e testimonianza di umana per lentamente approdare ai tristi lidi di una funzione sempre più poveramente ornamentale 1 . Iniziamo dal ritrovamento, avvenuto alla metà del secolo scorso 2 , del quaderno redatto in carcere da Giannantonio Petrucci, che ha portato alla conoscenza di una raccolta di 83 componimenti - prevalentemente sonetti ed una «cansona» - originali e di notevole valore documentario per quanto riguarda la crisi politica della Napoli aragonese manifestatasi negli ultimi decenni del sec. XV. La morte di Giannantonio Petrucci 3 , giustiziato nel 1486, a trent’anni, dopo una prigionia di circa quattro mesi *Questo saggio ha le sue radici nei lunghi colloqui con il mio laureando Stefano Tomietto che sopra simile argomento anni fa ha condotto la sua tesi di laurea. 1 Sulla presenza del mito di Orfeo nel mondo aragonese vd. A.CARACCIOLO ARICÒ, Jacopo Sannazaro. Orfeo in Arcadia, . Il mito nella letteratura italiana. I. Dal Medioevo al Rinascimento, P. GIBELLINI ed., a c. di G.C. ALESSIO, Brescia, Morcelliana, 2005, , pp. 397-408, di cui il presente saggio può considerarsi l’organica continuazione. 2 Sul ritrovamento e l’ acquisto da parte della Biblioteca Nazionale di Napoli, vd. C. MINIERI RICCIO, Biografie degli Accademici Alfonsini detti poi Pontaniani dal 1442 aI 1543, Napoli 1881 (ora in ristampa anastatica, Bologna, Forni Editore, 1969), p. 281. 3 Petrucci fu decapitato il 13 novembre 1486 a Napoli (dove era nato intorno al 1456), insieme al padre Antonello. Giannantonio, lasciò una raccolta di sonetti che furono pubblicati in modo parziale solo a fine ‘800 a cura di J. LE COULTURE E V. SCHULTZE, Sonecti composti per M. Johanne Antonio de’ Petruciis conte di Policastro et secretario del 5. Re Ferrante, directi ad Io castellano de la turre de Santo Vincentio, Bologna, Commissione per i testi di lingua (Romagnoli), 1879 , cui seguì a cura Enrico Perito, l’ edizione completa ed una minuta ricostruzione biografica che dà conto degli studi e delle fonti del Petrucci: E. PERITO, La congiura dei baroni e il Conte di Policastro, con l’ edizione completa e critica dei sonetti di G. A. Petrucci, Bari, Laterza, 1926, pp. 169-287. Sulla congiura dei baroni vd. C. PORZIO, La congiura de Baroni del regno di Napoli contra il re Ferdinando primo, Roma, 1565, ora a c. di E. PONTIERI, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1958, e G. DAGOSTINO, La svolta degli anni ottanta e la grande congiura, in E. PONTIERI, a cura di-, Storia di Napoli, Napoli, Arti grafiche Di Mauro, 1974, volI. 5: IV, t. 1, pp. 255- 61. Per una valutazione complessiva si vedano B. CROCE, Storia del Regno di Napoli,

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IN RETE ANGELA CARACCIOLO ARICÒ, Il mito di Orfeo nel mondo aragonese, “Critica letteraria”, 137, vol. 4°, dic. 2007, in corso di stampa. Percorrere* la diffusione del mito di Orfeo all’ interno della cultura napoletano-aragonese significa seguire le variazioni su un mito che fin dall’ antichità si è prestato alle esegesi più varie, in un percorso che via via è venuto allontanandosi dalla sfera dell’ emozione poetica, in cui assieme fusi si sono presentati significati allegorici, ricerca estetica, e testimonianza di umana per lentamente approdare ai tristi lidi di una funzione sempre più poveramente ornamentale1. Iniziamo dal ritrovamento, avvenuto alla metà del secolo scorso2, del quaderno redatto in carcere da Giannantonio Petrucci, che ha portato alla conoscenza di una raccolta di 83 componimenti - prevalentemente sonetti ed una «cansona» - originali e di notevole valore documentario per quanto riguarda la crisi politica della Napoli aragonese manifestatasi negli ultimi decenni del sec. XV. La morte di Giannantonio Petrucci3, giustiziato nel 1486, a trent’anni, dopo una prigionia di circa quattro mesi

*Questo saggio ha le sue radici nei lunghi colloqui con il mio laureando Stefano Tomietto che sopra simile argomento anni fa ha condotto la sua tesi di laurea. 1 Sulla presenza del mito di Orfeo nel mondo aragonese vd. A.CARACCIOLO ARICÒ, Jacopo Sannazaro. Orfeo in Arcadia, . Il mito nella letteratura italiana. I. Dal Medioevo al Rinascimento, P. GIBELLINI ed., a c. di G.C. ALESSIO, Brescia, Morcelliana, 2005, , pp. 397-408, di cui il presente saggio può considerarsi l’organica continuazione. 2 Sul ritrovamento e l’ acquisto da parte della Biblioteca Nazionale di Napoli, vd. C. MINIERI RICCIO, Biografie degli Accademici Alfonsini detti poi Pontaniani dal 1442 aI 1543, Napoli 1881 (ora in ristampa anastatica, Bologna, Forni Editore, 1969), p. 281. 3 Petrucci fu decapitato il 13 novembre 1486 a Napoli (dove era nato intorno al 1456), insieme al padre Antonello. Giannantonio, lasciò una raccolta di sonetti che furono pubblicati in modo parziale solo a fine ‘800 a cura di J. LE COULTURE E V. SCHULTZE, Sonecti composti per M. Johanne Antonio de’ Petruciis conte di Policastro et secretario del 5. Re Ferrante, directi ad Io castellano de la turre de Santo Vincentio, Bologna, Commissione per i testi di lingua (Romagnoli), 1879 , cui seguì a cura Enrico Perito, l’ edizione completa ed una minuta ricostruzione biografica che dà conto degli studi e delle fonti del Petrucci: E. PERITO, La congiura dei baroni e il Conte di Policastro, con l’ edizione completa e critica dei sonetti di G. A. Petrucci, Bari, Laterza, 1926, pp. 169-287. Sulla congiura dei baroni vd. C. PORZIO, La congiura de Baroni del regno di Napoli contra il re Ferdinando primo, Roma, 1565, ora a c. di E. PONTIERI, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1958, e G. D’AGOSTINO, La svolta degli anni ottanta e la grande congiura, in E. PONTIERI, a cura di-, Storia di Napoli, Napoli, Arti grafiche Di Mauro, 1974, volI. 5: IV, t. 1, pp. 255-61. Per una valutazione complessiva si vedano B. CROCE, Storia del Regno di Napoli,

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nella torre di San Vincenzo, per la repressione seguita alla «congiura dei baroni», aveva fatto cadere nell’oblio i suoi versi, ma il ritrovamento del quaderno «del carcere» (e le due successive edizioni), ha posto all’ attenzione degli studiosi la sua produzione lirica che strettamente si collega con la sua particolare vicenda umana.4 Il poeta, dal «fundo de lo enferno» della sua prigione, ricorda nei Sonetti i giorni della giovinezza, assieme alla memoria de «le varie doctrine» (son. XL, 9) apprese nel tempo degli studi - le sue preferenze andavano ai classici latini5 e alle discussioni filosofiche. Quell’ antico amore per la filosofia garantiva al Petrucci la consolatoria fiducia nella possibilità di un ideale dialogo con i poeti e i sapienti dell’antichità, nella convinzione del valore irrinunciabile del colloquio con gli antichi. Tra le molte suggestioni delle sue letture, ed i miti che in queste vivono, la favola di Orfeo assume un significato particolare e forte. Petrucci ripropone quel mito come un’analisi del proprio naufragio esistenziale, che lo porta a riflettere sul difficile, instabile equilibrio tra fatum, prudentia, e fortuna 6.

Bari, Laterza, 19844; L.R. PASTORE, La fortuna della Congiura dei Baroni, con prefazione di F. TATEO, Bari, Levante Editori, 1988; M. RICCUCCI, Il neghittoso e fier connubio. Storia e filologia dell’ Arcadia di Jacopo Sannazaro, Napoli, Liguori 2001, in particolare pp. 45-69.

4 Segnaliamo in particolare G. FOLENA, La crisi linguistica del Quattrocento e l’ «Arcadia») di I. Sannazaro, Firenze, Leo S. Olschki, 1952, p. 9, che definisce Petrucci «una delle voci più alte della poesia del ‘400»); F. TATEO, Giannantonio de’ Petruciis e I’ Umanesimo napoletano, in Tradizione e realtà nell’Umanesimo italiano, Bari, Dedalo, 1967², pp. 111-28; P. A. DE LISIO, Giannantonio De Petruciis fra cronaca e poesia, in Studi sull’ Umanesimo meridionale, Napoli, Conte, 1974, pp. 61-96; M. SANTAGATA, La lirica aragonese. Studi sulla poesia napoletana del secondo Quattrocento, Padova, Editrice Antenore 1979; e N. DE BLASI e A. VARVARO, Napoli e l’ Italia meridionale, in A. ASOR ROSA (a cura di-), Letteratura italiana, Storia e geografia, II, 1, Torino, Einaudi, 1988, pp. 235-326: 250-252, saggio in cui viene riconosciuto il valore documentario dei versi del Petrucci per quanto riguardadella vita e de i dibattiti culturali, filosofici e letterari della vita di corte, un mondo rievocato nella dimensione della memoria, ormai in un contesto affatto estraneo ed ostile «dal fundo de lo inferno ve saluto») (son. XII) che colloca il Petrucci nella sfera di un impegno filosofico e poetico, caro a Pontano, Sannazaro e Galateo. 5 Di queste rimangono testimonianze nelle note ad un esemplare delle Decadi di Tito Livio ed un volume delle Epistolae di Plinio il giovane fittamente postillato, (entrambi i volumi sono ora alla Bibliothèque Nationale, Parigi); così come nelle frequenti citazioni reperibili nei Sonetti da Properzio, Orazio, Tibullo, Lucrezio, Virgilio - in particolare nella prevalente presenza di Ovidio -, vd. E. PERITO, La congiura dei baroni e il Conte di Policastro, cit., pp. 59-66. 6 Interessanti riflessioni in P.A. DE LISIO, Giannantonio De Petruciis fra cronaca e poesia, cit., pp. 94-95

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In questa meditazione emerge la lode dell’«ingegno», lucidamente contrapposta alla vita vanamente ingannevole7. In tale fiera esaltazione della lucida forza dell’ingegno, vive soprattutto la sprezzatura del poeta, fiero nell’ affermare la propria superiorità – tutta intellettuale - nei confronti dei carnefici che hanno ragione del suo destino. Egli si rivolge agli scrittori antichi non per imitarne finezze stilistiche, eleganze formali, o per sfoggio di erudizione, ma per ritrovarvi quel vero che poteva dare senso alla vita d’ altra parte, l’interpretazione allegorica del mondo antico8 era divenuta abito costante degli umanisti, sia in campo letterario che figurativo9 . È nel son. X della raccolta che la figura di Orfeo si accampa nel pieno del suo valore simbolico, nell’ orgogliosa affermazione di sé come personificazione della forza dell’ingegno, piuttosto che come trita icona dell’ amante destinato ad un fatale sventurato amore. Il canto di Orfeo vince sulla brutalità degli dèi inferni10. Gli

7 Vd. F. TATEO, Giannantonio de’ Petruciis e I’ Umanesimo napoletano, cit., pp. 119-121. 8 Vd. J. SEZNEC, La sopravvivenza degli antichi dei, Torino, Bollati Boringhieri 1990² p. 128. 9 Ho recentemente riflettuto su Mito e bucolica nell’ Arcadia di J. Sannazaro e la cultura figurativa tra Quattro e Cinquecento, in Atti del Convegno La Serenissima e il Regno. Nel V centenario dell’ Arcadia di Iacopo Sannazaro, a c. di D. CANFORA-A. CARACCIOLO, Bari, Cacucci editore, 2006, pp. 65-96. È appena da poco uscito il fondamentale Il mito nella letteratura italiana. I. Dal Medioevo al Rinascimento, P. GIBELLINI ed., a c. di G.C. ALESSIO, cit.,di cui segnalo almeno i saggi di P. GIBELLINI, La sirena del mito dal Medioevo al Rinascimento, ivi, pp. 5-32; G.C. ALESSIO, La letteratura latina medievale. Gli dèi nel Medioevo, fra evemerismo e allegoria, ivi, pp. 59-96; B. GUTHMÜLLER , Idee e conoscenza del mito dal Medioevo al rinascimento. Il ritorno dell’ antico, ivi, pp. 33-58; C. VECCE, F. Petrarca. La rinascita degli dèi antichi, ivi, pp. 177-228:196. 10 Sul mito di Orfeo e le sue numerose interpretazioni vd. J. B. FRIEDMAN, Orpheus in the Middie Ages, Cambridge-Massachussets, Harvard University Press, 1970; N. PIRROTTA, Li due Orfei. Da Poliziano a Monteverdi, Torino, Einaudi, 1975; N. BORSELLINO, Orfeo e Pan. Sul simbolismo della pastorale, Panna, Zara, 1986; C. MUNRO PYLE, Il tema di Orfeo, la musica e le parole mitologiche del tardo Quattrocento, in G.A.TARUGI, a cura di, Ecumenismo della cultura. Atti del XII Convegno internazionale del Centro di Studi Umanistici Angelo Poliziano (Montepulciano 1976), Firenze, Leo S. Olschki, 1981, voli. 2: II, pp. 277-302; A. MASARACCHIA, a cura di- , Orfeo e l’‘orfismo, Atti del Seminario Nazionale (Roma-Perugia 1985-1991), Roma, Gruppo Editoriale Internazionale, 1993; B. GUTHMÜLLER , Mito, poesia, arte. Saggi sulla tradizione ovidiana nel Rinascimento, Roma, Bulzoni, 1997; A.M. BABBI (a c. di-), Le Metamorfosi di Orfeo, Verona, Grafiche Fiorini, 1999; S. CARRAI, Poliziano e il mito di Orfeo, in ivi, pp. 155-167; ed il recente M. G. CIANI e A. RODIGHIERO, Orfeo. Variazioni sul mito, Venezia, Marsilio 2004; A.CARACCIOLO ARICÒ , Jacopo Sannazaro. Orfeo in Arcadia, in Il mito nella letteratura italiana. I. Dal Medioevo al Rinascimento,, cit., pp. 397-407: Il

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exempla, che si susseguono in un crescendo asseverativo che ha il suo culmine in Orfeo, seguono suggestioni petrarchesche nel ricordo «del caro pegno» (vd. R.V.F., XXIX, 57-58) ed insieme sannazariane, Arcadia, (ec. XI, 72); ma è Ovidio a presiedere questa rievocazione, in particolare Met. X, 40-48, 11 anche se nei commossi versi del poeta latino a prevalere è l’elemento patetico-sentimentale, mentre nelle rime del Petrucci a prevalere è la chiara superiorità dell’ ingegno di Orfeo, perché «forsa vence el claro ingengno» (son. x, 14)12. Dunque, un diverso percorso ermeneutico ci deve guidare nell’ interpretazione del sonetto X, e conduce all’ Orfeo dantesco13 - al Dante di Conv., II, I, 314 - dove Orfeo è esaltato per la forza del suo ingegno, come potenza capace di indurre tra gli uomini la civilizzazione; significativamente Dante tace dell’ aspetto sentimentale della vicenda di Orfeo, così come non dice dello strazio operato dalle Baccanti sul suo corpo, ma esalta invece la superiorità del canto come potenza che genera debito verso Stazio, pp. 405-407. 11 Sulla diffusione delle Metamorfosi di Ovidio come grande repertorio mitologico nella cultura umanistico-rinascimentale vd. Aetates Ovidianae. Lettori di Ovidio nell’Antichità e nel Rinascimento, a c. di I. GALLO e L. NICASTRI , Napoli, Ed. scientifiche Italiane, 1995; B. GUTHMÜLLER , Lectures d’ Ovide, publiées à la mémoire de J.- P. Néraudau, Études réunies par E. Bury, Paris, Les Belles Lettres, 2003;.ID., Idee e conoscenza del mito dal Medioevo al Rinascimento, in Il mito nella letteratura italiana, I, a c. di G.C. ALESSIO, cit. pp 33-58: 34-36. 12«Per forsa, ad Orfeö el su’ caro pegno,/Euridice, non de’ lo terzo frate,/Ma perché forsa vence el claro ingengno». 13 L’ argomento non ha ancora trovato una sistematica indagine, anche se qualche

affondo negli anni è stato condotto, a partire da Michele Scherillo. Cfr. SANNAZARO

J., Arcadia, a c. di M. SCHERILLO, cit., p. 124, che a proposito di Arcadia, pr. VII,

185-186, ricorda DANTE, Vita Nuova, 26. Per quanto riguarda l’ uso dei verbi

«indragarsi, inretire, inviscare, incenerarsi» vd. G. FOLENA, La crisi linguistica del

Quattrocento, cit., pp. 183-8:185; e M. SANTAGATA, La lirica aragonese, cit., p. 261

per l’ uso del ternario di ascendenza dantesca e petrarchesca in ambito napoletano;

ma vd. in particolare l’ articolato, recente studio di M. SCATTOLIN, Dante in Arcadia.

Presenze di Dante volgare nell’Arcadia di Jacopo Sannazaro, in Atti del Convegno

La Serenissima e il Regno. Nel V centenario dell’ Arcadia di Iacopo Sannazaro, cit.,

pp. 633-660. 14 «Iste Orpheus primo induxit homines ad habitandum simul et fuit pulcherrimus concionator, ita quod homines bestiales et solitarios reduceret ad civilitatem» (Conv., II, I, 3)

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civiltà15. Proprio come leggiamo nel son. X del Petrucci, nel quale Orfeo vale come forza tesa alla luminosa conoscenza di contro alla bruta forza dei prepotenti. Tema questo che viene riaffermato anche in altri luoghi del canzoniere petrucciano, dal son. VII al son. XXXVIII nel quale è ribadita la convinzione che «sempre te serà fidele » (son. XXXVIII, 14), anche quando coloro che egli teneva più cari lo hanno lasciato «ma tutti inseme me hanno abandonato» (son. XXXIX, 14), la sola «immortal doctrina per le istorie» (son. VII, 13) può riscattare gli uomini e consegnarli alla memoria di coloro che li hanno «desmenticati» (son. VII, 12). Ma la fiera protesta di Petrucci, icasticamente rappresentata dalla figura di Orfeo, viene a confrontarsi con la violenza irrazionale del «fato» - vero protagonista della raccolta - mentre «l’ingegno» è turbato da un cupo pessimismo sulla sorte di tutti gli uomini.16 Sullo sfondo, senza spessore, è appena citata la favola di Orfeo ed Euridice, ricordata nel contesto di un repertorio mitologico assai caro agli umanisti, collegabile alle Epistolae heroidum di Ovidio, attraverso il quale Petrucci rievoca l’ amore per Viribia: «Amante sì fidel al dir Teseo/ Non fu Ariadne, ad Paride Oënone,/ Nè al crudo Enea misera Didone,/ [...]/Nè ad Euridice el Treicïo Orfeo/ [...]/Come io ad te so’, Viribïa, meschino» (son. XXXI, vv. 1-5, 14) *** Francesco Galeota Con funzione prevalentemente decorativa il mito di Orfeo è presente anche nel Colibetto, la raccolta di componimenti di vario metro assemblata da Francesco Galeota.17 Nel pur limitato orizzonte poetico del Galeota, poco incline al fascino delle

15 Sul’ interpretazione della figura di Orfeo nell’opera di Dante vd. G. PADOAN, Orfeo, in Enciclopedia dantesca, 1970-1978, voll. 6: IV, p. 192. 16 Vd. F. TATEO, Giannantonio de’ Petruciis , cit., p. 126. 17 Francesco Galeota che con questo titolo vuole dar conto della eterogeneità della silloge poetica, appartenne alla seconda generazione dei poeti aragonesi (Napoli ? 1446 c.a – ivi 1497) familiare e amico di tutti i membri della casa Aragonese - particolarmente di Alfonso, duca di Calabria, come sappiamo dalla Strussula in laude del duca di Calabria e dalle Effemerididelle cose fatte per il ducaa di Calabria di G. P. LEOSTELLO, a cura di A. MIOLA, in Documenti per la storia, le arti e le industrie nelle provincie napoletane, I, Napoli 1883. Per un utile approfondimento sulla sua biografia vd. la voce di M . COLLETTI, in D.B.I., 51, 1998, pp. 416-420; per una valutazione della sua produzione poetica vd. F. FLAMINI, Francesco Galeota, gentiluomo napoletano del Quattrocento e il suo inedito canzoniere, «Giornale storico della letteratura italiana», XX (1892), pp. 1-90; E. PERCOPO, Barzellette napoletane del Quattrocento, Napoli, per nozze Sogliano-Mauri, 1893; A. ALTAMURA, Testi napoletani del Quattrocento, Napoli, Viti, 1953; ID., a c. di-, Rimatori napoletani del Quattrocento, Napoli, F. Fiorentino, 1962, pp. 192-94, 205-07, 211-17; R. RINALDI, Dalla bucolica alla crisi della lirica cortigiana (il laboratorio aragonese), in G. BARBERI SQUAROTTI, a cura di -, Storia della civiltà letteraria

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favole antiche, egli riprende i tristi casi di Orfeo ed Euridice in una rassegna di miti negativi che invitano l’uomo a rammentare che con la morte tutto sarà svanito e vana sarà ogni nostra speranza o desiderio: Dinansi inverno, hor guarda primavera com’è sparita et è ionta la state,

hor ecco octunno appresso a gran giornate; ciaschun fugge e retorna tal qual era […]

Non te valerà Peritheo Theseo, Ippolyto, né a tte l’alma Diana, né a tte, Euridice, il tuo fidele Orpheo; se morte gionge, o Tisbe, in la fontana vederai Pyramo tuo traficto e reo e sangue et omne tua lachryma vana18 LA SFILATA DEI MITI EVOCATI SI INNESTA SUL TEMA, TIPICO NELLA LIRICA LAURENZIANA, DEL TEMPO CHE INELUTTABILE SCORRE SENZA COMPENSO. ORFEO ED EURIDICE, COSÌ COME PIRAMO E TISBE, DIANA ED IPPOLITO, SONO TUTTI SEGNI DI UNA PERDITA SENZA COMPENSO; L’AEDO TRACIO È PRESENTATO QUI SENZA UNA PROPRIA PARTICOLARE VALENZA CONNOTATIVA. NELL’ULTIMO COMPONIMENTO DELLA RACCOLTA IL GALEOTA RIEVOCA ORFEO COME SIGNORE DI UN CANTO CHE HA PERDUTO IL RUOLO SUBLIME DELLA CREAZIONE POETICA PER FARSI «PASSIONE INTRINSECA DI PIANTO», LA LIRA È STRUMENTO DI CONSOLAZIONE, NON DI POTENZA.

Nelle cadenze autobiografiche del movimento centrale ravvisiamo una vena

personalissima nella confessione del proprio naufragio esistenziale, che pone il Galeota nella schiera dei poeti di sicura vena lirica: [...]

italiana, Torino, UTET 1990-96,7, t. I, pp. 624-43. Il suo canzoniere è conservato per intero alla Biblioteca Nazionale di Napoli, mss. Napolet., XVII.1 / e Riccard. 2752; e parzialmente all’ Estense, ItaI. 1168; vd. F. GALEOTA, Canzoniere ed epistolario (dal cod. XVII. I della Biblioteca Nazionale di Napoli), a cura di G. B. BRONZINI, «Archivio storico per le Provincie Napoletane», CIV (1986), pp. 17-157, e CVI (1988), pp. 33-149. Una buona parte delle rime del Colibetto sono apparse in G. CIANFLONE, Francesco Galeota strambottisia napoletano del Quattrocento. In appendice: Edizione critica di 100 strambotii inediti, Napoli, Conte, 1955. Vd. inoltre V. FORMENTIN, Due lettere inedite del ms. Riccardiano 2752 attribuite a Francesco Galeota. «Rivista di letteratura italiana», III (1985), pp. 381-86, cui fece seguito l’edizione dell’epistolario Le lettere del Colibetto, edizione, spoglio linguistico e glossario a cura di V. FORMENTIN, Napoli, Liguori, 1987. 18 F. GALEOTA, Canzoniere ed epistolario, «Archivio storico per le Provincie Napoletane », CVI (1988), cit., p. 105, vv. 1-14.

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altro che io, che in acqua hagio zappato e ne la harena semenai del mare: ch’io non trovo per me niuna corda che non te faça più crudele e sorda Et vedo che tu prendi altro camino che’l nostro anticho, e cerchi un’altra via, e me sol lassi solo e peregrino, in tucto for de la speransa mia [...]19 Poesia di compianto, in cui Orfeo, come gli altri signori del mito, riveste il ruolo di una stereotipa suppellettile mitologica, eppure la rievocazione di tante figure dolenti colloca questi versi nell’ aura sconsolata di Verg., ec. , X, 22-23 .

°*° PIETRO JACOPO DE JENNARO

19 Ibidem, p. 130.

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PER QUANTO RIGUARDA LA PRESENZA DEL MITO DI ORFEO IN UN AUTORE FECONDO QUANTO IMPOETICO COME PIETRO JACOPO DE JENNARO20, VERSIFICATORE DOTATO DI VASTA CULTURA E DI UNA NOTEVOLE SCALTREZZA LINGUISTICA,21 LA DISPONIBILITÀ A RIELABORARE I PIÙ SVARIATI MATERIALI OFFERTI DALLE FONTI LETTERARIE - LE HEROIDES OVIDIANE IN PARTICOLARE22 - SI MANIFESTA ANCHE NEI CONFRONTI DELLE FAVOLE ANTICHE, EGLI INFATTI SNODA UNA TEORIA DI DÈI ED EROI DELLA MITOLOGIA CLASSICA IN UN CONTESTO DI PASTORALE, LACRIMOSO LANGUORE. LA FAVOLA DI ORFEO SI DISPIEGA NEL SON. XV , MALINCONICAMENTE ANIMATO DAL MESTO CANTO DI PROGNE E FILOMENA23: [...] E qual Orfeo, tal fo restare i fiumi al suon del mio lamento, ove disegno el danno antico del mio eterno stato. Né posso far, con sì dolci costumi, che la nemica mia non abia a sdegno e che l’Amor ver’ me non sia spietato. Lo sfogo del poeta incapace di fare breccia nel cuore della donna amata è un topos adusato, così come è motivo ricorrente il paragone tra la disperazione dell’amante e il

20 Pietro Jacopo De Jennaro (Napoli 1436 - ivi 1508), la sua famiglia, detta «Gennara», era una delle più nobili della città, ascritta al Seggio di Porto; per i dati biografici vd. la voce di S. NICCOLI in D.B.I., Roma, 36, 1988, pp. 129-133; M. CORTI, Introduzione, in J. DE JENNARO, Rime e lettere, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1956, pp. I-CXCVIII: II-IX; ed ancora, sulla sua vita e le opere, vd. EAD., Le tre redazioni della Pastorale di P. J. De Jennaro con un excursus sulle tre redazioni dell’ ‘Arcadia’, «Giornale storico della letteratura italiana», CXXXI (1954), pp. 305-51; va ricordato che La Pastorale è stata pubblicata alla fine dell’Ottocento da E. PERCOPO, Napoli, Pierro, 1894, che riproduce la stampa napoletana del 1508. Per una ricognizione sull’opera di De Jennaro vd. M. MARTI, Su Pietro Jacopo De Jennaro, in ID., Dal certo al vero, Roma, Edizioni dell’Ateneo,1962, pp. 147-57. 21 Va detto che i suoi versi hanno suscitato dalla fine del sec. XIX ai giorni nostri l’attenzione degli studiosi e oggi De Jennaro è uno dei rari lirici del Quattrocento napoletano di cui si abbiano edizioni moderne, almeno delle opere principali. Nei suoi componimenti si mescolano elementi letterari e vernacoli, la lezione dei toscani contemporanei, Poliziano e Lorenzo su tutti, e l’influsso degli antichi, in un coacervo stilistico cui fa riscontro, sul versante tematico, un disorganico insieme di rime amorose e di versi di vario argomento. 22 Vd. M. CORTI, Introduzione, cit., p. XXXIX. 23 Vicino è il ricordo di OVIDIO, Met. VI, vv. 424-74, che s’ intreccia ad una chiara memoria petrarchesca, R.V.F., CCCXI, vv. 1-6. L’ abile intarsio realizzato da De Jennaro si completa con il recupero del celebre paragone tra il canto dell’usignolo sofferente per la perdita dei suoi piccoli e il miserabile carmen intonato da Orfeo dopo la definitiva perdita di Euridice, che rinvia a Verg., Georg, IV, vv. 507-15.

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flebile e lamentoso verso dell’usignolo24; simile è il destino del De Jennaroeppure le sue note dolorose si pongono come diverse rispetto alle malinconiche cadenze della natura. Egli, attraverso l’accostamento tra il pianto del «roscignuol» e il canto di Orfeo, cui egli assimila il proprio «e qual Orfeo, tal fo restare i fiumi [... ]» fa emergere lo scarto tra le qualità precipue del canto orfico e le ricorrenti cadenze della natura; il canto del poeta costituisce un’ attestazione di fiera fiducia nel potere magico dei versi ma, assieme, una presa d’ atto della propria sconfitta. L’ appello ad Orfeo, tutto speso sul versante della più consueta iconografia, senza

alcuna apertura verso un vero approfondimento interpretativo, è qui corrivamente legato al topos della prodigiosa potenza del canto orfico. Mentre si colloca sul terreno di una poesia encomiastica portata all’iperbole il

secondo ricorso al mito di Orfeo nelle Rime, LIV. Il destinatario dei versi di De Jennaro è Alfonso II 25d’Aragona, di cui si lodano «quattro singularisstme virtu», quelle che vengono rappresentate da Mercurio, Cupido, Apollo e Marte, ad indicare quanto sia saggio, forte, eloquente e persino bello il principe Alfonso, che certo bello non era26 […] sarebe Orfeo rivolto in ira cantar volendo, e di sua gloria absente. Ma per non far como chi tace e brama, […] (vv.7-9) Le prodigiose facoltà del canto di Orfeo questa volta sembrano disarmate di fronte all’altezza del compito: intonare un canto in onore del signore. L’inadeguatezza del canto del poeta, dotato di una lira «rozza e discordante», di un linguaggio poetico povero e inadeguato, viene giustificata con il ricorso ad un’inconsueta, improbabile immagine di Orfeo, in preda all’ira per il constatato limite delle proprie doti rispetto

24 Vd. R. V. F., CCCLIII. 25 Alfonso II d’Aragona (1448-1495), figlio di Ferrante I e di Isabella di Chiaromonte, già duca di Calabria, fu re di Napoli dal 1494 all’anno successivo. Combatté valorosamente nel 1478-79 nella guerra che Napoli, Roma e Siena mossero insieme contro Firenze. Il son. LIV, celebrativo delle sue imprese, si riferisce probabilmente alla guerra contro i fiorentini, vd. l’indice storico curato da Maria Corti in appendice a J. DE JENNARO, Rime e lettere, cit. pp. 156-66: 157. 26 Tra I numerosi ritratti di Alfonso, duca di Calabria, vanno ricordati almeno quello eseguito dal Laurana, su cui vd. A. LUGLI, Guido Mazzoni e la rinascita della terracotta nel Quattrocento, Torino, Umberto Allemandi & c. srl. 1990, pp. 328-9, e la Deposizione realizzata da Guido Mazzoni per incarico del duca Alfonso in Sant' Anna dei Lombardi, a Monteoliveto, nella quale lo scultore pare abbia rappresentato le sembianze del Sannazaro nel San Giovanni della Deposizione, assieme ad alcuni personaggi della corte aragonese, come Ferrante I e lo stesso Alfonso, vd. A. LUGLI, Guido Mazzoni,ibidem; A. CARACCIOLO ARICÒ, Per la lettera del Sannazaro a Marcantonio Michiel, in Serena ogni montagna. Studi di Ispanisti Amici offerti a Beppe Tavani, curatori G. BELLINI e D. FERRO, Roma, Bulzoni editore 1997, pp. 57-78.

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al valore di Alfonso. E va ricordato che nel proemio della Pastorale De Jennaro ripete una consimile triplice lode al duca di Calabria, definendolo «sollicito e valoroso di virtù, e più che Tito, Traiano et Augusto, 27 degno di gloria. Orfeo è presente anche allo schiudersi del poema d’imitazione dantesca Le sei etate della vita umana28 , e annuncia l’ambizioso progetto di saldare il nome del poeta ad un’opera di impegno elevato. L’ appello ad Orfeo pertiene ai «ferri del mestiere» dei poeti, in coppia questa volta con Anfione (capitulo I, vv. 1-12), il modello dantesco dà all’ incedere dei versi solennità e altezza di accenti che trovano forma nell’ invocazione ad Apollo e alle Muse29 . La materia alta e solenne sarà dunque «d’ Amfion degna o de Orpheo», perché De Jennaro si accinge a cantare la gloria dell’ ultimo lustro del secolo d’oro aragonese che, secondo l’illusoria aspettativa del poeta, tornerà a splendere per il ritorno degli Aragonesi, dopo la disfatta del 1495. Ma il turbinoso precipitare degli eventi farà di quest’opera solo il malinconico monumento di una stagione ormai drammaticamente avviata al tramonto30. Il poeta ricorre al rituale accostamento di Orfeo e Anfione, entrambi simboli della poesia civilizzatrice. Le rare volte che la fabula orfica cade nei versi di questo rimatoreassume un carattere di assoluta occasionalità; non gravata da approfondimenti allegorico-simbolici. Ne abbiamo conferma anche dall’ ec. XII della Pastorale31 in cui celebra la bellezza della sua donna; Orfeo è posto accanto a

27 P.J. DE JENNARO, in La Pastorale, a cura di- E. PERCOPO, cit., p. 53. 28 Iniziato probabilmente intorno al 1495, il poema comprende sei cantiche in terza rima, precedute ciascuna da una epistola dedicatoria in prosa indirizzata a personaggi di rilievo del mondo napoletano contemporaneo, e comprende complessivamente 47 canti. Il testo de Le sei etate della vita humana ci è trasmesso integralmente dal codice Laurenziano-Ashb. 1109 della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, da cui è tratta l’edizione moderna, Napoli, 1976,, a cura di A. ALTAMURA - P. BASILE, J. DE JENNARO, Le sei etate della vita humana, Testo inedito del XV secolo, Napoli, Società Ed. napoletana, 1976, di cui vd. Introduzione, pp. 7-20. 29 «Apollo dunque la mia barca guide ,/ tal che ‘l nochiero in sì profondo mare / a [r]riva giunger mai non se diffide; / voi, sorelle docte, in terra rare, / del vostro fonte or mi porgete l’acque, / più ch’altre amene, gloriose e chiare»). P.J. DE JENNARO, Le sei etate, cit., I, vv. 13-18. 30 Il poema, iniziato con il ritorno di Ferrandino a Napoli nel 1495, intendeva probabilmente celebrare l’avvento di una nuova età di prosperità sotto l’egida degli Aragonesi, ma la definitiva caduta della dinastia a pochi anni di distanza lo trasforma nella rievocazione di un’epoca definitivamente chiusa. Vd. N. DE BLASI e A. VARVARO, Napoli e l ‘Italia meridionale, cit., p. 266. M. RICCUCCI, Il neghittoso e il fier connubio. Storia e filologia dell’ Arcadia di J. Sannazaro, Napoli, Liguori, 2001, pp. 32,45, 62. 31 Il poemetto, di carattere bucolico, narra l’esilio del pastore Gianuario a cui i lupi famelici hanno tolto terra e beni: trasparente allegoria della perdita da parte del poeta del feudo delle Fratte (1482) per mano del re Ferrante, che provocò tanto sdegno nel poeta da spingerlo a scrivere di getto le prime egloghe. L’edizione che qui si utilizza

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Coridone, entrambi perdenti di fronte al valore della parola della donna32. Ormai il mito, svuotato di ogni tensione simbolica, assume il più modesto ruolo di espediente decorativo. .La συμπάθεια cosmica che il pastore Bisbalio invoca all’inizio dell ec. XII immerge il canto in un’atmosfera orfico-pastorale: «Udete, selve e boschi, il mio ramarico,/frigidi fiumi, il mio pietoso piangere,/udete como di dolor son caricho» (vv. 1-3) con cadenze vicine all’ incipit della Canzona di Aristeo nella Fabula di Orpheo del Poliziano33, ma non si libera dalla sua funzione che è puramente esornativa, suppellettile bella, icona ormai in sé chiusa.

Il ricorso alle «fabulae antiquae» in un ruolo di elegante decorazione, senza le segrete risonanze che anticamente le segnavano, muove, proprio negli stessi anni, anche la vena poetica del Cariteo.

°*°

L’ Endimione di Benet Careth detto il Cariteo L’accostamento del Cariteo34 al mito di Orfeo produce suggestioni immediate, che anticipano le considerazioni sulla sua produzione poetica. è arduo, infatti, sfuggire alla tentazione di identificare nel poeta catalano il ritorno di Orfeo musico e poeta . L’abilità non comune di Cariteo nel fondere i versi delle proprie liriche con la musica si trova in appendice a E. PERCOPO, La prima imitazione, cit., pp. 49-159. La Pastorale è stata a lungo considerata dai critici una pura imitazione dell’Arcadia sannazariana; Maria Corti ha invece ipotizzato una direzione degli influssi tra le due opere in entrambi i sensi. Il dibattito appare tuttora aperto, vd. M. CORTI, Le tre redazioni della « Pastorale » di P.J. De Jennaro con un excursus sulle tre redazioni dell’« Arcadia», «Giornale storico della letteratura italiana», CXXXI (1954), pp. 305-51. 32 «o bella bocca mia, ch’ ogni core horrido / fai, col parlar, assai più via piacevole / che Orpheo non fé l’ Inferno, e i boschi Corido» (vv. 114-116). 33 «Udite, selve, mie dolci parole,/poi che la nynfa mia udir non vuole», vv. 1-2, vd. in A. TISSONI BENVENUTI, L ‘Orfeo del Poliziano, Padova, Editrice Antenore, 1986, pp. 142-145. 34 Per una considerazione sulle rime del Cariteo vd. G. GETTO, Sulla poesia del Chariteo, «Giornale storico della letteratura italiana», CXXIII (1945-6), pp. 53-68; B. CROCE, Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, Bari, Laterza, 1958, volI. 2: I, pp. 36-43; E. FENZI, La lingua e lo stile del Chariteo dalla prima alla seconda edizione dell’ «Endimione »), « Studi di filologia e letteratura», I (1970), pp. 9-83; F. TATEO, La letteratura in volgare da Masuccio Salernitano al Chariteo, in La letteratura italiana. Storia e testi, voll. 7: III, t. 2, Bari, Laterza, 1972, pp. 587-99; D. DE ROBERTIS, Il Chariteo, in E. CECCHI-N. SAPEGNO a cura di-, Il Quattrocento e l’Ariosto, Milano, Garzanti, 1982, pp. 706-13; G. PARENTI, Benet Garret detto il Cariteo. Profilo di un poeta, Firenze, Leo S. Olschki, 1993; L. BORSETTO, La lirica e il poemetto nel Rinascimento. Riscritture del mito, in Il mito nella letteratura italiana. I. Dal Medioevo al Rinascimento,cit., 425-460:427-8 interessanti in particolare le considerazioni sul mito di Endimione.

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è testimoniata ampiamente dai contemporanei. Vincenzo Calmeta, in particolare, consigliava a coloro che volevano segnalarsi nella schiera dei poeti di ricercare «qualche arguzìetta, o vero affetto, quelle con lo instrumento di musica accompagnando, per poterle meglio non solo negli amorosi ma ancora negli eruditi cuori imprimere». Cariteo e l’Aquilano vengono segnalati ad indicare quale stile «tra’ volgari poeti sia da imitare», cita Cariteo, e il suo allievo Serafino Aquilano35 «i quali a’ nostri tempi hanno di simile essercizio portata la palma […]», e conclude poco oltre affermando che «questo, sopra ogni altro stile da’ moderni frequentato, è a qualche parte di perfezione aggiunto», 36 una dichiarazione di valore che assegna a Cariteo un ruolo di caposcuola come poeta e musico; sovente infatti nell’ Endimione il poeta accenna a «esta lyra immortal»;37 il legame empatico con Orfeo si riverbera

35 Serafino de’ Ciminelli , aquilano di nascita, si trasferì prestissimo a Napoli, dove apprese l’arte della musica dal fiammingo Wilhelm Guarnier. I suoi commentatori ci hanno trasmesso l’immagine di uno straordinario intrattenitore, godette di una fortuna immensa, come è prova la raccolta messa assieme da Giovanni Filoteo Achillini in occasione della sua morte (10 agosto 1500), pubblicata a Bologna nel 1504, con l’ annessa biografia del Calmeta. Ma le sue opere mostrano il risultato di una non sempre scaltrita sperimentazione metrica, che tenta il sonetto, lo strambotto, l’epistola, l’ecloga, la barzelletta, secondo spunti scaturiti da occasioni cortigiane. I temi, sovente desunti dal repertorio petrarchesco, sono arricchiti da contaminazioni desunte da motivi umanistici e popolareggianti, e da citazioni mitologiche o erudite; chiara è nelle Ecloghe la derivazione dall’ Arcadia di J. Sannazaro. La sua opera è edita, anche se parzialmente, in Le Rime di Serafino de’ Ciminelli dall’ Aquila, a cura di M. MENEGHINI, vol. I, Bologna 1894; vd. la voce di R. CREMANTE nel Dizionario critico della Letteratura Italiana, voi. 4: IV, pp. 161-63, che include anche una ricca bibliografia sulla vita e le opere dell’Aquilano. Si veda iil recente B. GUTHMÜLLER, Il poema mitologico e il romanzo cavalleresco, in Il mito nella letteratura italiana, cit., pp. 505-534: 512, 524. Del tutto marginale la figura di Orfeo nella sua produzione, presente in due sonetti, con mera funzione di adusata metafora della potenza del canto (vd. Le Rime di Serafino de’ Ciminelli dell’ Aquila, cit., p. 141).

36 Vd. V. CALMETA, Prose e lettere edite e inedite, a cura di C. Grayson, Bologna, Commissione per i testi di lingua (Coop. Tip. Azzoguidi), 1959, pp. 21-22.

37 Il profondo amore per la musica nutrito dagli umanisti del secondo Quattrocento, e i nessi tra l’arte musicale e il mito di Orfeo, sono gli argomenti del bel saggio di C. MUNRO PYLE, Il tema di Orfeo, la musica e le favole mitogiche del tardo Quattrocento,cit., in G. TARUGI, a cura di-, Ecumenismo della cultura. Atti del XII Convegno internazionale del Centro di Studi Umanistici Angelo Poliziano (Montepulciano 1976), Firenze, Leo S. Olschki, 1981, voll. 3: II, pp. 122-139; sullo stretto rapporto tra poesia e composizione musicale dalla fine del ‘400 ai primi del ‘500 segnalo un mio recente studio su Mito e bucolica nell’ Arcadia di I. Sannazaro ela cultura figurativa del Quattrocento, cit. le arti figurative, in cui inizio a considerare il rapporto musica-poesia nel Sannazaro, A.

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in molte di quelle rime. Ripercorrere le modulazioni della voce orfica all’interno della raccolta porta a chiarire alcuni aspetti della sua poetica. L’ Endimione , edita nel 150938, frutto tra i più maturi della stagione petrarchista napoletana assimila modelli e forme della letteratura latina, deponendo l’ipotesi «purista»39 a favore di una libertà e di una varietà d’espressione che costituiscono forse gli aspetti più originali della raccolta. Nella prima edizione, apparsa nel 1506, la silloge si presenta come lo sfogo doloroso di un amante non corrisposto: una lunga lamentazione percorre la breve parabola dell’ Endimione alla Luna, che si delinea come un’insistita variazione su un unico tema, ed ha come referenti antichi Luciano, (Dialogus deorum, 19[11]), Apollonio Rodio (Argonautiche, IV 57), le Tusculanae diputationes (I, 92), le Georgiche (III, 391-3) di Virglio e gli Idilli (III, 49-50; XX, 37-39) di Teocrito40 Ma la figura di Orfeo appare solo nelle canzoni ‘civili’ dell’appendice: «Aragonia» e «La candida vertute al cielo uguale», che formano, insieme, una sezione distaccata dell’opera. Le due canzoni, scritte tra il 1495 e il 1496, rappresentano un’appassionata testimonianza della nuova temperie socio-politica provocata dalla grave crisi dinastica di fine secolo, e forniscono i primi indizi sugli sviluppi futuri della poesia di Cariteo.

CARACCIOLO, Mito e bucolica nell’ «Arcadia» di Jacobo Sannazaro, in La Serenissima e il Regno nel V centenario dell’ Arcadia di I. Sannazaro. Convegno di Studi, Bari, Cacucci editore, 2006, cit., pp. 76-78. 38 La prima edizione del canzoniere si trova nelle Opere del Chariteo stampate a Napoli nel 1506 presso Giovanni Antonio de Caneto; l’ Endimione del 1506 ottenne notevole fortuna, tanto che nel decennio successivo viene ristampato quattro volte. Nel 1509 appare l’edizione di Tulle le opere volgari di Chariteo, curata tipograficamente da Pietro Summonte, presso Sigismondo Mayr. L’edizione del 1509 ospita una nuova redazione dell’Endimione praticamente quadruplicata rispetto a quella precedente: da 65 componimenti a 247. Vi entrano tutte le poesie in metri illustri presenti nella prima edizione (sonetti, canzoni, sestine, madrigali e ballate), mentre vengono escluse le sei frottole e l’appendice di strambotti compresi nel primo canzoniere. Di seguito all’Endimione, la nuova stampa pubblica per la prima volta la produzione di argomento morale e celebrativo in forma lirica: le canzoni sacre, i Cantici, i poemetti in terzine La metamorfòsi e La Pasca. Dell’ edizione del 1509 fu ristampata nel corso del ssec. XVI solo una selezione in un’antologia poetica di diversi realizzata a Venezia nel 1550; vd.G. PARENTI, Benet Garret detto il Cariteo. Profìlo di un poeta, cit., pp. 1-7; si veda al riguardo anche M. SANTAGATA, La lirica aragonese, cit., pp. 307-8, 330 e la nota 22 a p. 307. Il corpus poetico di Cariteo è stato pubblicato in tempi moderni da E. PERCOPO, Le Rime di Benedetto Gareth detto il Chariteo secondo le due stampe originali, Napoli, Accademia delle Scienze, 1892, voll. 2, che rimane l’ edizione di riferimento per le rime del Cariteo. 39 Vd. M. SANTAGATA, La lirica aragonese. cit., p. 299. 40 Come segnala L. BORSETTO, La lirica e il poemetto nel Rinascimento, cit., p. 428.

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Nella canz. VI Gareth affronta l’impegnativo terreno dell’encomio offerto ai principi d’ Aragona, suoi protettori e mecenati, garanti dell’ ordine sociale che ha assicurato la prosperità di Napoli per oltre mezzo secolo. Compito questo che impone la deposizione de «l’amoroso stilo» al fine di perseguire, «per altra via» (canz. VI, vv. 1-6), la consacrazione poetica. Il poeta individua nelle lodi degli Aragonesi il fine principale di quella poesia morale che a Napoli nel secondo Quattrocento è rifiorita, grazie all’ingegno di Pontano, Sannazaro, Pardo, Altilio, richiamando i vertici cui aveva attintoVirgilio nel «secol aureo» (v. 157) di Roma. Il ritratto del principe è delineato mediante l’accumulo dei numerosi appellativi con i quali nella letteratura cortigiana si era soliti indicare, esaltandolo, il sovrano. E dunque egli è invincibile in guerra, inappuntabile a cavallo, generoso con gli ultimi, illuminato dalle «tre vertù regie» : fede, costanza e liberalità. Ma sopratutto egli è ornato dal «bel liquor» delle Muse, che ha assorbito dai suoi mentori, da Gabriele Altilio41 e del dottissimo Parrasio42, che, con il loro, hanno onorato il canto di Orfeo43. Cariteo compie una scelta di campo, lascia il «primo basso cammino» (v. 5), abbandona la lirica d’amore per dedicarsi alle lodi dei principi aragonesi. Ferrandino 44 diviene «principio e fin» (v. 10) di ogni suo pensiero.

41 SALERNITANO DI ORIGINE, ACCADEMICO PONTANIANO E AMICO DI PONTANO E SANNAZARO E DEL ALFONSO, DUCA DI CALABRIA, CHE SEGUÌ NELLA GUERRA CONTRO VENEZIA NEGLI ANNI 1482-4. ALESSANDRO VI GLI CONCESSE IL VESCOVADO DI POLICASTRO NEL 1493. ALLA MORTE DI FERRANTE I, FERRANDINO, DIVENUTO DUCA DI CALABRIA, GLI AFFIDA LA SUA SEGRETERIA POLITICA. QUANDO NAPOLI FU OCCUPATA DA CARLO VIII DI FRANCIA, SI RITIRÒ NEL SUO VESCOVADO E DA LÌ NON SI MOSSE NEPPURE DOPO CHE FERRANDINO PRIMA E FEDERICO POI, RICONQUISTARONO IL TRONO DI NAPOLI. MORÌ NELLA PRIMA METÀ DEL 1501, VD. LA VOCE DI fausto nicolini IN d.b.i. ROMA, 2 , 1960, PP. 565-566. 42 Aulo Giano, secondo l’ appellativo umanistico, nel 1492 venne a Napoli da Cosenza, (dove era nato nel 1473), con il padre, consigliere di Ferrante; lasciò Napoli nel 1497 per una brillante carriera accademica che lo vide attivo tra le università di Roma, Milano dove fu professore di retorica e sposò la figlia di Demetrio Calcondila, fu poi a Vicenza, Padova e Bologna, per ritirarsi a Cosenza nel 1511, dove nel 1512, fondò l’ Accademia Cosentina.Fu a Roma Dopo una parentesi romana dove andò su invito di papa Leone X, alla morte del pontefice rientrò a Cosenza. Sul Parrasio e la sua produzione letteraria vd. F. ESPOSITO, Aulo Giano Parrasio, Cosenza, Pellegrini, 1982. 43 Canzone VII , vv. 100-115. 44 Ferrandino, figlio di Alfonso II e di Ippolita Maria Sforza, principe di Capua,

nacque nel 1467. In gioventù ebbe due mentori d’eccezione Giano Parrasio e Gabriele Altilio, e in seguito amò circondarsi di letterati e artisti, e farsi scrittore di rime. Nominato re nel 1495, fu, nello stesso anno sconfitto da Carlo VIII e si ritirò ad Ischia; il ritorno sul trono, nel 1496 venne di lì a poco seguito dalla sua morte. A lui dedicano versi elogiativi e densi di affetto affezionati Cariteo e Pietro

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Sono con tutta probabilità i travagli e le profonde inquietudini che segnano irrimediabilmente gli anni a ridosso della spedizione di CarloVIII, evento destabilizzante nei già precari equilibri degli Stati italiani, a far nascere nel Cariteo la speranza di un’era nuova, una palingenesi, sotto la guida di un rinnovato potere degli Aragonesi. A Ferrandino - in questo simile ad Orfeo - spetta il compito di trascinare gli animi dal caos in cui sono involti alla luce della verità. Orfeo è l’ eroe civilizzatore – interpretazione già presente in Petrucci ed ancor più nel Galateo - metafora del potere della «parola-logos-razionalità», che trascina il cuore e le menti ad un profondo rinnovamento morale, a perficere45 la natura umana, e prelude ad una armoniosa consonanza - che il suono della lira orfica rappresenta - tra gli uomini, e tra l’uomo e la natura. Il valore della «sapientia» è la base fondante dei valori della convivenza umana. Lo abbiamo già imparato dai fieri versi di Jacopo De Jennaro : «perché forsa vence el claro ingegno»46, a differenza di quanto accade nell’ ec. XI dell’ Arcadia di Jacopo Sannazaro47, versi con i quali il Sannazaro celebra la memoria della madre, Masella di Santomango, in figura di Massilia, madre di Ergasto, poggiandosi su due chiari esempi tratti da Stazio: l’ Epicedion in patrem suum e l’ Epicedion in puerum suum48, entrambi animati dalla presenza del canto di Orfeo come significazione del lutto per la perdita di uno stretto famigliare e non della donna amata Del canto di Orfeo il Cariteo, invece, esalta l’aspetto razionale, che si esplica attraverso il dono della parola; il culto dell’ eloquenza trova infatti proprio in ambito umanistico la sua consacrazione. Fin dal tempo di Isocrate il ruolo della parola venne esaltato come caposaldo e discrimine tra gli uomini e le bestie, la parola eloquente può persuadere, costituire le leggi, dar vita all’ organizzazione sociale, animare l’ operosità umana49, minor risalto assume il versante sentimentale-affettivo. Il valore del canto come massima espressione umana di contro alla furia è già affermato – lo abbiamo visto – da Dante nel Convivio, quando si intrattiene ad esporre i plurimi significati del testo, ed a proposito del senso allegorico evoca

Jacopo De Jennaro, come si vede dall’indice storico stilato da Maria Corti in appendice a J. DE JENNARO, Rime e lettere, a cura di M. CORTI, Bologna, Commissione per i testi di lingua (Coop. Tip. Azzoguidi), 1956, pp. 156-66: 160.

45 G. PAPARELLI, Feritas, humanitas, divinitas. L’essenza umanistica del Rinascimento, Napoli, Guida, 1973, pp. 24-25. 46 Le sei etate de la vita umana, son. X, 14, età IV, cap. V, v. 132. 47 Ivi, pp. 399, 403-4, 48 P.P. STATII Silvae, V, 3, 57-63, 268-288; V, 5, 52-56, vd. Ivi, pp. 406-7.; come ho segnalato in Jacopo Sannazaro. Orfeo in Arcadia, cit., Il debito verso Stazio, pp. 405-407. 49 Vd. A. CARACCIOLO ARICÒ, Jacopo Sannazaro. Orfeo in Arcadia, in Il mito nella letteratura italiana, I. Dal Medioevo al Rinascimento, P. GIBELLINI ed., a c. di G. C. ALESSIO, cit. pp. 400-403.

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Ovidio, Met., XI, vv. 1-2 ed il valore del canto di Orfeo, versi nei quali il canto nasconde il vero sotto bella menzogna50

Concetto ripreso, tornito e reso stabile dal Boccaccio nei Genealogie deorum dearum gentilium libri51 , con la necessaria ricaduta nei domini del pensiero umanistico52. Ma nella canzone VII, accanto agli influssi ovidiani può cogliersi la suggestione di autori quali Properzio53 e l’Orazio dell’ Ars Poetica54. Né va dimenticato il rilevante passaggio che accomuna i vv. 55-57 della IV ecl. di Virgilio con l’ Appendix dell’ edizione del 1506, comprendente anche l’ «Aragonia » in cui si vuol manifestare la speranza in un secolo riscattato dal male grazie all’ azione di un principe nuovo. Il parallelo che Virgilio instaura tra sé e il «thracius Orpheus», sicuro di non soccomebere nella gara del canto, è ripreso nella canzone VII del Cariteo, per la fede che gli fa ritenere i dotti e gli uomini di lettere come i pilastri dell’edificio sociale fondato dal principe. In Virgilio il rinnovato connubio tra potere e poesia diventa garanzia dell’avvento di una nuova età dell’oro55, così come il Cariteo attribuisce al «patto » tra gli accademici pontaniani - depositari della dottrina umanistica- e i reali d’Aragona, la possibilità che la virtù rifiorisca nel «secol fosco» , e venga attuata l’auspicata riforma sociale e morale dei tempi. Mentre porge un sentito riconoscimento a Ferrandino, Cariteo tradisce la sua vera preoccupazione, che è quella di ribadire la funzione pedagogica fondamentale del poeta, anche se egli ha piena coscienza dell’inadeguatezza del proprio ruolo di poeta elegiaco ed

50 Cfr. ALIGHIERI, Convivio, tratt. 2, cap. 1, 2. 51 G. BOCCACCIO, Genealogie deorum dearum gentlium libri, V, XII. 52 Vd. GARIN, Le favole antiche, in Medioevo e Rinascimento, cit., pp. 73-4; TATEO, tradizione e realtà nell’ Umanesimo italiano, cit., pp. 168-169. 53 Elegie, III, II, vv. 3-10: «Orphea detinuisse feras et concita dicunt/ Flumina Threicia sustinisse lyra;/ Saxa Cithaeronis Thebas agitata per artem/ Sponte sua in muri membra coisse ferunt;/ Quin etiam, Polypheme, fera Galatea sub Aetna / Ad tua rorantes carmina flexit equos: /Miremur, nobis et Baccho et Apolline dextro / Turbam puellarum si mea verba colit? » Mette utilmente in relazione le elegie di Properzio con la lirica del Cariteo C. FANTI, L’ elegia properziana nella lirica amorosa del Cariteo, « Italianistica », XIV (1985), pp. 25-44. 54 ORAZIO, Ars poetica, vv. 391-99 « Silvestris homines sacer interpresque deorum/ caedibus et victu foedo deterruit Orpheus,/ dictus ob hoc lenire tigris rabidosque leones./ Dictus et Amphion, Thebanae conditor urbis,/ Saxa movere sono testudinis et prece blanda / ducere, quo vellet. Fuit haec sapientia quondam,/ publica privatis secernere, sacra profanis njs, /concubitu prohibere vago, dare iura maritis,/ oppida moliri, leges incidere ligno. » 55 Cfr. L. NOSARTI, Studi sulle Georgiche di Virgilio. Este, Zielo, 1992, pp. 131-2, che sottolinea come la missione del poeta ufficiale di Roma sia quella di tradurre in precetti comprensibili al popolo ciò che Ottaviano Augusto è riuscito a compiere. Il canto di Virgilio, così come quello di Cariteo-Orfeo, riuscirà a riscattare il «secol oscuro e bruno».

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encomiastico che canta in un periodo di grandi inquietudini politiche. Il desiderio di rinnovamento legato all’alto valore della dottrina, aveva trovato, vent’anni prima, una simile affermazione nei versi delle Stanze per la giostra di Giuliano de’ Medici , in cui Poliziano aveva esaltato la funzione sociale del poeta, come cassa di risonanza delle scelte politiche del principe, ne appoggiava la condotta e ne sanciva il potere. La garanzia di un governo illuminato e ben accetto al popolo risiedeva proprio in quella stretta sodalitas56. Nel Cariteo la lode agli Aragonesi si collega con l’aspirazione alla gloria poetica; Significativa è la canz. VIII, «Già se dissolve homai la bianca neve»57, intessuta di malinconici motivi sentimentali, animati dall’immagine di Luna, ed assieme mostra la voglia di attingere ad una poesia più alta, che si elevi nell’esaltazione – umbratile esaltazione – della gloria degli Aragonesi: [...]Che se fusse d’amor libera l’alma, Forse ch’io sperarei dal ciel tal dono, Qual diede il sacro Apollo al Thracio Orpheo; Ond’io direi con grave, eroico suono Gli alti Trophei, la gloriosa palma Di quel ch’è ‘n terra più che semideo. Forse di Chariteo Vivrebbe il nome allhor non men preclaro, Che quel del Sannazaro. […] (vv. 38-46) Breve parentesi nell’economia della lunga canzone, che vale ad evidenziare la valenza di Orfeo come figura di un canto promotore di impegno civile, dispensatore di gloria, che rende eterno il nome del principe e diviene artefice della sua buona fama. Nel doppio segno di Apollo e di Orfeo si ripete l’investitura che unisce inscindibilmente, nella visione di Benedetto Gareth, la dinastia e i dotti. Le versioni del mito contenute nelle due canzoni che presentano una forte organicità interna, legate come sono da una profonda continuità ideologica, si dispiegano secondo un mirato repertorio di cui il Cariteo si vale con intenti di glorificazione politica. Secondo questa valenza della poesia orfica egli prefigura il proprio riscatto come poeta, fondendo senso di inadeguatezza e profezia: ha acquisito ormai sicura

56 Vd. M. MARTELLI, Il mito d’ Orfeo nell ‘età laurenziana, in A. MASARACCHIA, a cura di-, Orfeo e l’ orfismo, cit., pp. 345-6. 57 Il componimento è indirizzato al cavalier Cola d’Alagno, destinatario anche del son. CXCIV , a lui il Cariteo aveva dedicato la prima edizione dell’Endimione. Il poeta invita Cola, nel tempo propizio della primavera, a perseguire il suo stesso ideale, che doni fama immortale ad entrambi, prima che «la frale e breve vita» interrompa il sogno della stagione ferace e la «notte eterna», che rende «tutte le nostre imprese vane» prenda il sopravvento e disperda nell’oblio il nome dei due amici. Meditazione sull’esistenza che trascorre irrimediabilmente, sull’amore infelice per Luna, sull’inutilità degli umani affanni, tutta modulata su toni intimistici e colloquiali.

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coscienza di aver già conquistato attraverso l’esercizio dell’ encomio, il «lauro» dei poeti illustri. L’orgoglio di Cariteo per aver composto un canto che non morrà viene proclamato nella sezione conclusiva dell’ Endimione (son. CCVII) in cui Ferrante simbolicamente lo incorona con l’ alloro dei poeti. Nella canz. XX, infatti, conclusiva della raccolta, il poeta con fierezza dichiara di aver raggiunto, grazie all’ Endimione , la consacrazione poetica che gli permette di poter iscrivere il suo nome vicino a quello di Omero, Virgilio, Dante e degli altri poeti magnanimi, greci, latini e volgari uniti «dal pregio excelso» (v. 21) che contraddistingue le opere dei grandi. Egli può dunque collocare la propria opera assieme a quelle - altissime - dei poeti sommi, «amici» delle Muse, di cui Orfeo rappresenta il capostipite e l’esempio supremo, segno di una poesia che afferma un valore civile ed etico superando lo sfacelo morale del tempo. La seconda parte dell’opera, messa a stampa nell’edizione accresciuta del 1509, è contraddistinta da uno sviluppo iniziale in senso stilnovistico della vicenda d’amore, che viene in seguito inopinatamente interrotta, per lasciare il posto ad un colloquio tra il poeta ed alcune personalità eccellenti del suo tempo, nel desiderio di individuare e diffondere un nuovo modello di comunicazione rispetto a quello delle corti, ormai profondamente mutato dopo gli avvenimenti politici conseguenti alla discesa di Carlo VIII. Il son. LIV inaugura le rime aggiunte da Cariteo nell’edizione del 1509 :

[…] Orpheo con suoi soavi & dolci accenti, Per li boschi spargendo il suo dolore, De le fere mulceva il duro core, Facendo andare i monti e stare i venti. Al cantar d’Amphione i duri sassi Si congiunsero attondo in compagnia, Et fur di Thebe un muro altero & forte. Ma no’ spero che mai la Luna mia, Al suon di prieghi miei ritenga i passi, O difesa mi sia contra la morte. (vv. 5-14) Orfeo è qui segno del ritorno alla tematica amorosa, scelta resa necessaria per la posizione del son . LIV, in apertura delle rime aggiunte, verso un nuovo slargo lirico, dopo la fase encomiastica delle due canzoni «aragonesi», VI e VII, che nel ms. e nella princeps avevano una loro autonoma collocazione. Bisogna sottolineare come la ripresa del mito di Orfeo nel son. LIV, che segue alla canz. VII, viene ad indicare il carattere prevalentemente autoreferenziale della poesia di Cariteo in questa fase, e ritorna l’accostamento di Orfeo con Anfione, presente negli autori classici da Properzio58 all’ Ars poetica di Orazio59, in cui viene esaltata la funzione civilizzatrice

58 «Orphea detinuisse feras et concita dicunt/Flumina Threicia sustinisse lyra;/Saxa Cithaeronis Thebas agitata per artem/Sponte sua in muri membra coisse ferunt» (Elegiae, III, II,vv. 3-6), vd. C. FANTI, L’ elegia properziana nella lirica amorosa del Cariteo, «Italianistica», XIV (1985), pp. 25-44, che sottolinea la relazione tra le

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dei due campioni del mito. Se il Percopo ha indicato in Orazio la fonte principale di Cariteo, va tenuto conto, però, dell’ intuizione di Rino Consolo60 che indica come Cariteo abbia una «netta preferenza per Properzio», riscontrabile non tanto nella maggior aderenza dei versi 9-11 ai versi 5-6 dell’elegia, quanto per l’allusione che vi si può cogliere nella forte posizione incipitaria, dove viene appunto riecheggiato l’incipit dell’elegia properziana «Carminis interea nostri redeamus in orbem». La maggiore consonanza con Properzio però si estende dalle unità lessicali all’effetto complessivo. La fonte classica è lo spunto da cui prende l’avvio il testo poetico di Cariteo, è una conoscenza in controluce quella che ci porta a considerare i dolci casi del felice innamorato descritto da Properzio, e, per converso, il drammatico destino di Endimione , umiliato dalle ripulse di Luna. La presenza di Orfeo ha qui la funzione di evocare una malinconica situazione sentimentale. Orfeo è lo specchio del Cariteo e della sua sorte agra. La parallela presenza di Anfione – inventore della poesia -, è una conferma di quanto poco possa l’ ispirazione lirica di fronte ai duri sdegni di Luna61 e segna il punto di non ritorno. Cariteo cambia vena, decide di mutare stile ed argomento, e, secondo l’ esempio desunto dalla X ec. di Virgilio, sceglie di scrivere con diverso animo, «ibo, et Calcidicho quae sunt mihi condita versu/carmina, pastoris Siculi modulabor avena» (Verg. , ec. x, vv. 50-51). Nel son. LXI, nodale nella dichiarazione dell’esperienza poetica e biografica del Cariteo, si intrecciano il magistero di Virgilio – sotteso, ma ben presente e vivo – e l’ esempio di Orazio, Carmina, III, XXX, vv. 1-562, attivo soprattutto nella seconda quartina del sonetto. I versi di Cariteo rappresentano l’ approdo di un naufragio d’ amore che trova il suo riscatto nella trasfigurazione poetica. Contemplazione e canto della bellezza di Luna: Te, dolce Luna mia, venendo il sole, te, partendosi il dì, canterò sempre, Non sol per mio voler, ma per mia sorte . (son. LXXXIII, vv. 12-14) Orfeo ed Euridice, pur non esplicitamente nominati, presiedono alla musicale

elegie di Properzio e la lirica del Cariteo. 59 «Carminis interea nostri redeamus in orbem:/gaudeat in solito tacta puella sono/Orphea detinuisse feras et concita dicunt/ Flumina Threicia sustinisse lyra;/ Saxa Cithaeronis Thebas agitata per artem / Sponte sua in muri membra coisse ferunt;/Quin etiam, Polypheme. fera Galatea sub Aetna» (vv. 391-97). 60 R. CONSOLO, Il libro di Endimione: modelli classici, «inventio ed «elocutio» nelle Rime del Cariteo, «Filologia e critica», III, 1978, pp. 19-94: 35. 61 «El cor, ch' omai languendo in tutto è spento» (son. LXI, v. 3). 62 «Exegi monumentum aere perennius/ regalique situ pyramidum altius,/quod non imber edax, non Aquilo impotens /possit diruere aut innumerabilis/annorum series et fuga temporum».

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chiusa del sonetto, nell’ allusione fascinatrice a Verg., Georg., IV, vv. 464-466) e indicano il «fatum» del poeta spagnolo: il canto, con una movenza che ci riporta alla conclusione del primo Endimione (1506) così come ritorna la medesima dimensione del «morir cantando»63. Dunque con il son. LXXXIII, la metamorfosi di Cariteo poeta è compiuta. Poi la ripresa del mito orfico apparterrà al dominio della letteratura, non dell’emozione poetica. Si veda il son. XCVII, di cui riprendiamo le battute centrali: S’io fussi tra delfin novo Arïone, Et Orpheo ne le selve, & la mia fede Cantassi & la beltà, che ‘n voi si vede, Di voi no’ sperarei mai guidardone. (son. XCVII, vv. 5-8) Orfeo e Arione accostati nella citazione vengono dai suggestivi lidi della VIII ec. di Virgilio64 Tra i pastori dell’ Arcadia virgiliana Orfeo ed Arione fanno la loro comparsa incastonati in una serie di impossibilia da cui figura evidente l’ effetto sublime e magico del canto lirico, ma nei versi di Benedetto Gareth le due mitiche figure hanno la più dimessa valenza di nostalgiche immagini emerse da un mito lontano. Forme, desunte da antichi canti, che nulla possono per curare un immedicabile amore. Si fa invece stringente, nel son. XCVII, il dialogo, in limine, tra l’ illusione d’ amore – necessario inganno - e la morte: [...] Dunque se vive Amor sol d’un pensiero Di speme, & senza quel si suol morire, Amar come poss’io, poi che non spero? Io mi lascio ingannar per non sentire la morte, &, se ragion mi mostra il vero, Muor la speranza & pur vive il desire. (vv. 9 -14) La speranza ha lasciato il campo ad un inestinguibile desiderio. Cariteo pare aver raggiunto il grado zero, il punto di non ritorno.65 In particolare dalla fine del 1497 al 1500 si manifesta uno stallo nell’invenzione del poeta, un

63 Vd. Le fini osservazioni di G. PARENTI, Benet Garret detto il Cariteo. Profilo di un poeta, cit., p. 91. 64 [...] certent et cycnis ululae, sit Tityrus Orpheus, / Orpheus in silvis, inter delphinas Arion (Verg., ec., VIII, vv. 54-55) 65 Questa dimensione di non-ritorno e di perdita totale ha una significativa consonanza con la conclusione della «prima» Arcadia del Sannazaro, pur fatte le debite distinzioni – sentimentale l’ atteggiamento di Gareth, sentimentale, ed esistenziale la valutazione del Sannazaro. Al proposito vd. A. CARACCIOLO ARICÒ, L’ «Arcadia» del Sannazaro, cit., al cap. Arcadia, fuga e catastrofe, le pp. 67-84

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ripensamento profondo, cui non pare essere estranea la disastrosa situazione politica degli Aragonesi di Napoli, avviati ormai verso un irrimediabile declino. Siamo giunti al dissolvimento di quel mondo in cui la generazione dei pontaniani aveva creduto e creato, nel sogno della poesia. Un mondo in dissoluzione non può non lasciare traccia nel canto dei poeti Nella produzione posteriore al 1500 tace in Cariteo la lirica d’ amore: il canzoniere per Luna rimane, di fatto, incompiuto, e il poeta ritorna all’ esaltazione del canto come fuga dalla consunzione che il tempo impone. Ora i suoi versi puntano al superamento dello iato tra i generi e gli idiomi, in una comunanza ideale in cui scrittori antichi e moderni, lingua latina e volgare tutti sono sentiti come modelli possibili, frutto della fede nell’ unicità dell’ esperienza poetica, in cui mostra di credere il massimo editore dell’ epoca, Aldo Manuzio, come dimostra la strategia editoriale messa in atto proprio in quegli anni.66 Se nei testi iniziali dell’ Endimione la gloria poetica era tesa al successo della lirica d’ amore, ora Cariteo riconosce nella poesia un valore totale ed assoluto, al di là dei generi, in una visione neoplatonica ormai matura per recepire anche l’ ispirazione cristiana. Nella mutata concezione poetica di Benedetto Gareth si inserisce l’ultima riflessione intorno al valore della figura di Orfeo, metafora di una consapevole condizione superiore del vivere, pausa consolatoria, apertura verso cieli beati. Il suo canto è una voce in «selva oscura» (son. CCIII, 112): [...] Da Phebo tanto & da le Muse amato Che col canto addolcisce ogni aspro core. Quest’è, c’ hoggi tra noi fa certa fede, Che ’n vero Orpheo, cantando in selva oscura, Apria le orecchie a le quercie animate; Però che chiaramente in lui si vede, Che col cantar non sol gli animi fura, Ma fa scender dal ciel l’alme beäte. (son. CCIII, vv. 110-114) versi in cui lievita la lezione degli antichi, dei Carmina di Orazio, in particolare: Unde vocalem temere insecutae Orphea silvae Arte materna rapidos morantern Fluminum lapsus celerisque ventos, Blandum et auritas fidibus canoris ducere quercus.

66 Presso Aldo negli anni 1500-1502 escono le Lettere di santa Caterina, Virgilio, Orazio, Giovenale, Persio, Marziale, e assieme Pedtrarca e Dante, i Poetae christiani veteres, con Ovidio, Lucano, Stazio, Catullo, ecc. in un intreccio tra poeti classici e moderni che tiene conto del nuovo gusto del mercato,e di un mutato animo, che cerca i testi cristiani, non più appagato solo dalla contemplazione dello splendore del mondo antico.

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(Carmina, I, XII, vv. 7-12)

Orfeo è qui – come nell’ Endimione del Cariteo - simbolo del magico potere della parola. Il valore rasserenante della poesia, che possiede il divino dono di instaurare una corrispondenza ideale al di là delle anguste cadenze del tempo, pone in dialogo i poeti del passato ed i presenti; qui Cariteo continua il percorso già aperto dal Poliziano che nell’ Epistola a Bartolomeo della Fonte (1473) aveva superato la tradizionale interpretazione di Orfeo come allegoria dell’eloquenza civilizzatrice e della funzione sociale del poeta-legislatore, per incentrare l’attenzione sulle facoltà metafisiche e morali del poeta-teologo. L’itinerario evolutivo della concezione orfica nella poesia di Cariteo, fatte le debite distinzioni, si muove su cadenze simili: al simbolo adusato della poesia educatrice subentra l’immagine di un canto lirico in grado di andare al di là dei confini delle varie regioni dell’essere per cogliere la miracolosa corrispondenza di ogni parte dell’universo67. Angela Caracciolo Aricò Venezia, 7 ottobre 2006 *Questo saggio ha le sue radici nei lunghi colloqui con il mio laureando Stefano Tomietto che sopra simile argomento anni fa ha condotto la sua tesi di laurea. 1 Sulla presenza del mito di Orfeo nel mondo aragonese vd. A.CARACCIOLO ARICÒ, Jacopo Sannazaro. Orfeo in Arcadia, . Il mito nella letteratura italiana. I. Dal Medioevo al Rinascimento, P. GIBELLINI ed., a c. di G.C. ALESSIO, Brescia, Morcelliana, 2005, , pp. 397-408, di cui il presente saggio può considerarsi l’organica continuazione. 1 Sul ritrovamento e l’ acquisto da parte della Biblioteca Nazionale di Napoli, vd. C. MINIERI RICCIO, Biografie degli Accademici Alfonsini detti poi Pontaniani dal 1442 aI 1543, Napoli 1881 (ora in ristampa anastatica, Bologna, Forni Editore, 1969), p. 281. 1 Petrucci fu decapitato il 13 novembre 1486 a Napoli (dove era nato intorno al 1456), insieme al padre Antonello. Giannantonio, lasciò una raccolta di sonetti che furono pubblicati in modo parziale solo a fine ‘800 a cura di J. LE COULTURE E V. SCHULTZE, Sonecti composti per M. Johanne Antonio de’ Petruciis conte di Policastro et secretario del 5. Re Ferrante, directi ad Io castellano de la turre de Santo Vincentio, Bologna, Commissione per i testi di lingua (Romagnoli), 1879 , cui seguì a cura Enrico Perito, l’ edizione completa ed una minuta ricostruzione biografica che dà conto degli studi e delle fonti del Petrucci: E. PERITO, La congiura dei baroni e il Conte di Policastro, con l’ edizione completa e critica dei sonetti di G. A. Petrucci, Bari, Laterza, 1926, pp. 169-287. Sulla congiura dei baroni vd. C. PORZIO, La congiura de Baroni del regno di Napoli contra il re Ferdinando primo, Roma, 1565, ora a c. di E. PONTIERI, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1958, e G. D’AGOSTINO, La svolta degli anni ottanta e la grande congiura, in E. PONTIERI, a cura di-, Storia di Napoli, Napoli, Arti grafiche Di Mauro, 1974, volI. 5: IV, t. 1, pp. 255-61. Per una valutazione complessiva si vedano B. CROCE, Storia del Regno di Napoli, Bari, Laterza, 19844; L.R. PASTORE, La fortuna della Congiura dei Baroni, con prefazione di F. TATEO, Bari, Levante Editori, 1988; M. RICCUCCI, Il neghittoso e fier connubio. Storia e filologia dell’ Arcadia di Jacopo Sannazaro, Napoli, Liguori 2001, in particolare pp. 45-69.

1 Di cui segnaliamo in particolare G. FOLENA, La crisi linguistica del Quattrocento e l’ «Arcadia») di I. Sannazaro, Firenze, Leo S. Olschki, 1952, p. 9, che definisce Petrucci «una delle voci più alte della poesia del ‘400»); F. TATEO, Giannantonio de’ Petruciis e I’ Umanesimo napoletano, in Tradizione e realtà nell’Umanesimo italiano, Bari, Dedalo, 1967², pp. 111-28; P. A. DE LISIO, Giannantonio De Petruciis fra cronaca e poesia, in Studi sull’ Umanesimo meridionale, Napoli, Conte, 1974, pp. 61-96; M. SANTAGATA, La lirica aragonese. Studi sulla poesia napoletana del secondo Quattrocento, Padova, Editrice Antenore 1979; e N. DE BLASI e A. VARVARO, Napoli e l’ Italia meridionale, in A. ASOR ROSA (a cura di-), Letteratura italiana, Storia e geografia, II, 1, Torino, Einaudi, 1988, pp. 235-326: 250-252, saggio in cui viene riconosciuto il valore documentario della vita e dei dibattiti culturali, filosofici e letterari della vita di corte, un mondo rievocato nella dimensione della memoria, ormai in un contesto affatto estraneo ed ostile «dal fundo de lo inferno ve saluto») (son. XII) che colloca il Petrucci nella sfera di un impegno filosofico e poetico, caro a Pontano, Sannazaro e Galateo.

67 Vd. M. MARTELLI, Il mito d’ Orfeo nell’età laurenziana, in A. MASARACCHIA, a cura di- , Orfeo e l’‘orfismo, p. 324.

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1 Di queste rimangono testimonianze nelle note ad un esemplare delle Decadi di Tito Livio ed un volume delle Epistolae di Plinio il giovane fittamente postillato, entrambi i volumi sono ora alla Bibliothèque Nationale, Parigi; così come nelle frequenti citazioni reperibili nei Sonetti da Properzio, Orazio, Virgilio - in particolare nella prevalente presenza di Ovidio -, vd. E. PERITO, La congiura dei baroni e il Conte di Policastro, cit., pp. 59-66. 1 Interessanti riflessioni in P.A. DE LISIO, Giannantonio De Petruciis fra cronaca e poesia, cit., pp. 94-95 1 Vd. F. TATEO, Giannantonio de’ Petruciis e I’ Umanesimo napoletano, cit., pp. 119-121. 1 Vd. J. SEZNEC, La sopravvivenza degli antichi dei, Torino, Bollati Boringhieri 1990² p. 128. 1 Ho recentemente riflettuto su Mito e bucolica nell’ Arcadia di J. Sannazaro e la cultura figurativa tra Quattro e Cinquecento, in Atti del Convegno La Serenissima e il Regno. Nel V centenario dell’ Arcadia di Iacopo Sannazaro, a c. di D. CANFORA-A. CARACCIOLO, Bari, Cacucci editore, pp.* . È appena uscito il fondamentale Il mito nella letteratura italiana. I. Dal Medioevo al Rinascimento, P. GIBELLINI ed., a c. di G.C. ALESSIO, cit.,di cui segnalo almeno i saggi di P. GIBELLINI, La sirena del mito dal Medioevo al Rinascimento, ivi, pp. 5-32; G.C. ALESSIO, La letteratura latina medievale. Gli dèi nel Medioevo, fra evemerismo e allegoria, ivi, pp. 59-96; B. GUTHMÜLLER , Idee e conoscenza del mito dal Medioevo al rinascimento. Il ritorno dell’ antico, ivi, pp. 33-58; C. VECCE, F. Petrarca. La rinascita degli dèi antichi, ivi, pp. 177-228:196. 1 Sul mito di Orfeo e le sue numerose interpretazioni vd. J. B. FRIEDMAN, Orpheus in the Middie Ages, Cambridge-Massachussets, Harvard University Press, 1970; N. PIRROTTA, Li due Orfei. Da Poliziano a Monteverdi, Torino, Einaudi, 1975; N. BORSELLINO, Orfeo e Pan. Sul simbolismo della pastorale, Panna, Zara, 1986; C. MUNRO PYLE, Il tema di Orfeo, la musica e le parole mitologiche del tardo Quattrocento, in G.A.TARUGI, a cura di, Ecumenismo della cultura. Atti del XII Convegno internazionale del Centro di Studi Umanistici Angelo Poliziano (Montepulciano 1976), Firenze, Leo S. Olschki, 1981, voli. 2: II, pp. 277-302; A. MASARACCHIA, a cura di- , Orfeo e l’‘orfismo, Atti del Seminario Nazionale (Roma-Perugia 1985-1991), Roma, Gruppo Editoriale Internazionale, 1993; B. GUTHMÜLLER , Mito, poesia, arte. Saggi sulla tradizione ovidiana nel Rinascimento, Roma, Bulzoni, 1997; A.M. BABBI (a c. di-), Le Metamorfosi di Orfeo, Verona, Grafiche Fiorini, 1999; S. CARRAI, Poliziano e il mito di Orfeo, in ivi, pp. 155-167; ed il recente M. G. CIANI e A. RODIGHIERO, Orfeo. Variazioni sul mito, Venezia, Marsilio 2004. 1 Sulla diffusione delle Metamorfosi di Ovidio come grande repertorio mitologico nella cultura umanistico-rinascimentale vd. Aetates Ovidianae. Lettori di Ovidio nell’Antichità e nel Rinascimento, a c. di I. GALLO e L. NICASTRI , Napoli, Ed. scientifiche Italiane, 1995; B. GUTHMÜLLER , Lectures d’ Ovide, publiées à la mémoire de J.- P. Néraudau, Études réunies par E. Bury, Paris, Les Belles Lettres, 2003;.ID., Idee e conoscenza del mito dal Medioevo al Rinascimento, in Il mito nella letteratura italiana, I, a c. di G.C. ALESSIO, cit. pp 33-58: 34-36. 1«Per forsa, ad Orfeö el su’ caro pegno,/Euridice, non de’ lo terzo frate,/Ma perché forsa vence el claro ingengno». 1 L’ argomento non ha ancora trovato una sistematica indagine, anche se qualche affondo negli anni è stato condotto, a

partire da Michele Scherillo. Cfr. SANNAZARO J., Arcadia, a c. di M. SCHERILLO, cit., p. 124, che a proposito di

Arcadia, pr. VII, 185-186, ricorda DANTE, Vita Nuova, 26. Per quanto riguarda l’ uso dei verbi «indragarsi, inretire,

inviscare, incenerarsi» vd. G. FOLENA, La crisi linguistica del Quattrocento, cit., pp. 183-8:185; e M. SANTAGATA, La

lirica aragonese, cit., p. 261 per l’ uso del ternario di ascendenza dantesca e petrarchesca in ambito napoletano; ma

vd. in particolare l’ articolato, recente studio di M. SCATTOLIN, Dante in Arcadia. Presenze di Dante volgare

nell’Arcadia di Jacopo Sannazaro, in Atti del Convegno La Serenissima e il Regno. Nel V centenario dell’ Arcadia di

Iacopo Sannazaro, cit., in corso di stampa. 1 «Iste Orpheus primo induxit homines ad habitandum simul et fuit pulcherrimus concionator, ita quod homines bestiales et solitarios reduceret ad civilitatem» (Conv., II, I, 3) 1 Sul’ interpretazione della figura di Orfeo nell’opera di Dante vd. G. PADOAN, Orfeo, in Enciclopedia dantesca, 1970-1978, voll. 6: IV, p. 192. 1 Vd. F. TATEO, Giannantonio de’ Petruciis , cit., p. 126. 1 Francesco Galeota che con questo titolo vuole dar conto della eterogeneità della silloge poetica, appartenne alla seconda generazione dei poeti aragonesi (Napoli ? 1446 c.a – ivi 1497) familiare e amico di tutti i membri della casa Aragonese - particolarmente di Alfonso, duca di Calabria come sappiamo dalla Strussula in laude del duca di Calabria e dalle Effemerididelle cose fatte per il ducaa di Calabria di G. P. LEOSTELLO, a cura di A. MIOLA, in Documenti per la storia, le arti e le indusrie nelle provincie napoletane, I, Napoli 1883. Per un utile approfondimento sulla sua biografia vd. la voce di M . COLLETTI, in D.B.I., 51, 1998, pp. 416-420; per una valutazione della sua produzione poetica vd. F. FLAMINI, Francesco Galeota, gentiluomo napoletano del Quattrocento e il suo inedito canzoniere, «Giornale storico della letteratura italiana», XX (1892), pp. 1-90; E. PERCOPO, Barzellette napoletane del Quattrocento, Napoli, per nozze Sogliano-Mauri, 1893; A. ALTAMURA, Testi napoletani del Quattrocento, Napoli, Viti, 1953; ID., a c. di-, Rimatori napoletani del Quattrocento, Napoli, F. Fiorentino, 1962, pp. 192-94, 205-07, 211-17; R. RINALDI, Dalla bucolica alla crisi della lirica cortigiana (il laboratorio aragonese), in G. BARBERI SQUAROTTI, a cura di -, Storia della civiltà letteraria italiana, Torino, UTET 1990-96,7, t. I, pp. 624-43. Il suo canzoniere è conservato per

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intero alla Biblioteca Nazionale di Napoli, mss. Napolet., XVII.1 / e Riccard. 2752; e parzialmente all’ Estense, ItaI. 1168; vd. F. GALEOTA, Canzoniere ed epistolario (dal cod. XVII. I della Biblioteca Nazionale di Napoli), a cura di G. B. BRONZINI, «Archivio storico per le Provincie Napoletane», CIV (1986), pp. 17-157, e CVI (1988), pp. 33-149. Una buona parte delle rime del Colibetto sono apparse in G. CIANFLONE, Francesco Galeota strambottisia napoletano del Quattrocento. In appendice: Edizione critica di 100 strambotii inediti, Napoli, Conte, 1955. Vd. inoltre V. FORMENTIN, Due lettere inedite del ms. Riccardiano 2752 attribuite a Francesco Galeota. «Rivista di letteratura italiana», III (1985), pp. 381-86, cui fece seguito l’edizione dell’epistolario Le lettere del Colibetto, edizione, spoglio linguistico e glossario a cura di V. FORMENTIN, Napoli, Liguori, 1987. 1 F. GALEOTA, Canzoniere ed epistolario, «Archivio storico per le Provincie Napoletane », CVI (1988), cit., p. 105, vv. 1-14. 1 Ibidem, p. 130. 1 Pietro Jacopo De Jennaro (Napoli 1436 - ivi 1508), la sua famiglia, detta «Gennara», era una delle più nobili della città, ascritta al Seggio di Porto, per i dati biografici vd. la voce di S. NICCOLI in D.B.I., Roma, 36, 1988, pp. 129-133; M. CORTI, Introduzione, in J. DE JENNARO, Rime e lettere, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1956, pp. I-CXCVIII: II-IX; ed ancora, sulla sua vita e le opere, vd. EAD., Le tre redazioni della Pastorale di P. J. De Jennaro con un excursus sulle tre redazioni dell’ ‘Arcadia’, «Giornale storico della letteratura italiana», CXXXI (1954), pp. 305-51; va ricordato che La Pastorale è stata pubblicata alla fine dell’Ottocento da E. PERCOPO, Napoli, Pierro, 1894, che riproduce la stampa napoletana del 1508. Per una ricognizione sull’opera di De Jennaro vd. M. MARTI, Su Pietro Jacopo De Jennaro, in ID., Dal certo al vero, Roma, Edizioni dell’Ateneo,1962, pp. 147-57. 1 Va detto che i suoi versi hanno suscitato dalla fine del sec. XIX ai giorni nostri l’attenzione degli studiosi e oggi De Jennaro è uno dei rari lirici del Quattrocento napoletano di cui si abbiano edizioni moderne, almeno delle opere principali. Nei suoi componimenti si mescolano elementi letterari e vernacoli, la lezione dei toscani contemporanei, Poliziano e Lorenzo su tutti, e l’influsso degli antichi, in un coacervo stilistico cui fa riscontro, sul versante tematico, un disorganico insieme di rime amorose e di versi di vario argomento. 1 Vd. M. CORTI, Introduzione, cit., p. XXXIX. 1 Vicino è il ricordo di OVIDIO, Met. VI, vv. 424-74, che s’ intreccia ad una chiara memoria petrarchesca, R.V.F., CCCXI, vv. 1-6. L’ abile intarsio realizzato da De Jennaro si completa con il recupero del celebre paragone tra il canto dell’usignolo sofferente per la perdita dei suoi piccoli e il miserabile carmen intonato da Orfeo dopo la definitiva perdita di Euridice, che rinvia a Verg., Georgiche, IV, vv. 507-15. 1 Vd. R. V. F., CCCLIII. 1 Alfonso II d’Aragona (1448-1495), figlio di Ferrante I e di Isabella di Chiaromonte, già duca di Calabria, fu re di Napoli dal 1494 all’anno successivo. Combatté valorosamente nel 1478-79 nella guerra che Napoli, Roma e Siena mossero insieme contro Firenze. Il son. LIV, celebrativo delle sue imprese, si riferisce probabilmente alla guerra contro i fiorentini, vd. l’indice storico curato da Maria Corti in appendice a J. DE JENNARO, Rime e lettere, cit. pp. 156-66: 157. 1 Tra I numerosi ritratti di Alfonso, duca di Calabria, vanno ricordati almeno quello eseguito dal Laurana, su cui vd. A. LUGLI, Guido Mazzoni e la rinascita della terracotta nel Quattrocento, Torino, Umberto Allemandi & c. srl. 1990, pp. 328-9 nella Deposizione realizzata da Guido Mazzoni per incarico del duca Alfonso, nella quale lo scultore pare abbia rappresentato le sembianze del Sannazaro nel San Giovanni della Deposizione in Sant' Anna dei Lombardi, a Monteoliveto, assieme ad alcuni personaggi della corte aragonese, come Ferrante I e lo stesso Alfonso, vd. A. LUGLI, Guido Mazzoni,ibidem; A. CARACCIOLO ARICÒ, Per la lettera del Sannazaro a Marcantonio Michiel, in Serena ogni montagna. Studi di Ispanisti Amici offerti a Beppe Tavani, curatori G. BELLINI e D. FERRO, Roma, Bulzoni editore 1997, pp. 57-78. 1 P.J. DE JENNARO, in La Pastorale, a cura di- E. PERCOPO, cit., p. 53. 1 Iniziato probabilmente intorno al 1495, il poema comprende sei cantiche in terza rima, precedute ciascuna da una epistola dedicatoria in prosa indirizzata a personaggi di rilievo del mondo napoletano contemporaneo, e comprende complessivamente 47 canti. Il testo de Le sei etate della vita humana ci è trasmesso integralmente dal codice Laurenziano-Ashb. 1109 della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, da cui è tratta l’edizione moderna, Napoli, 1976,, a cura di A. ALTAMURA - P. BASILE, J. DE JENNARO, Le sei etate della vita humana, Testo inedito del XV secolo, Napoli, Società Ed. napoletana, 1976, di cui vd. Introduzione, pp. 7-20. 1 «Apollo dunque la mia barca guide ,/ tal che ‘l nochiero in sì profondo mare / a [r]riva giunger mai non se diffide; / voi, sorelle docte, in terra rare, / del vostro fonte or mi porgete l’acque, / più ch’altre amene, gloriose e chiare»). P.J. DE JENNARO, Le sei etate, cit., I, vv. 13-18. 1 Il poema, iniziato con il ritorno di Ferrandino a Napoli nel 1495, intendeva probabilmente celebrare l’avvento di una nuova età di prosperità sotto l’egida degli Aragonesi, ma la definitiva caduta della dinastia a pochi anni di distanza lo trasforma nella rievocazione di un’epoca definitivamente chiusa. Vd. N. DE BLASI e A. VARVARO, Napoli e l ‘Italia meridionale, cit., p. 266. M. RICCUCCI, Il neghittoso e il fier connubio. Storia e filologia dell’ Arcadia di J. Sannazaro, Napoli, Liguori, 2001, pp. 32,45, 62. 1 Il poemetto, di carattere bucolico, narra l’esilio del pastore Gianuario a cui i lupi famelici hanno tolto terra e beni: trasparente allegoria della perdita da parte del poeta del feudo delle Fratte (1482) per mano del re Ferrante, che provocò tanto sdegno nel poeta da spingerlo a scrivere di getto le prime egloghe. L’edizione che qui si utilizza si trova in

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appendice a E. PERCOPO, La prima imitazione, cit., pp. 49-159. La Pastorale è stata a lungo considerata dai critici una pura imitazione dell’Arcadia sannazariana; Maria Corti ha invece ipotizzato una direzione degli influssi tra le due opere in entrambi i sensi. Il dibattito appare tuttora aperto, vd. M. CORTI, Le tre redazioni della « Pastorale » di P.J. De Jennaro con un excursus sulle tre redazioni dell’« Arcadia», «Giornale storico della letteratura italiana», CXXXI (1954), pp. 305-51. 1 «o bella bocca mia, ch’ ogni core horrido / fai, col parlar, assai più via piacevole / che Orpheo non fé l’ Inferno, e i boschi Corido» (vv. 114-116). 1 «Udite, selve, mie dolci parole,/poi che la nynfa mia udir non vuole», vv. 1-2, vd. in A. TISSONI BENVENUTI, L ‘Orfeo del Poliziano, Padova, Editrice Antenore, 1986, pp. 142-145. 1 Per una considerazione sulle rime del Cariteo vd. G. GETTO, Sulla poesia del Chariteo, «Giornale storico della letteratura italiana», CXXIII (1945-6), pp. 53-68; B. CROCE, Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, Bari, Laterza, 1958, volI. 2: I, pp. 36-43; E. FENZI, La lingua e lo stile del Chariteo dalla prima alla seconda edizione dell’ «Endimione »), « Studi di filologia e letteratura», I (1970), pp. 9-83; F. TATEO, La letteratura in volgare da Masuccio Salernitano al Chariteo, in La letteratura italiana. Storia e testi, voll. 7: III, t. 2, Bari, Laterza, 1972, pp. 587-99; D. DE ROBERTIS, Il Chariteo, in E. CECCHI-N. SAPEGNO a cura di-, Il Quattrocento e l’Ariosto, Milano, Garzanti, 1982, pp. 706-13; G. PARENTI, Benet Garret detto il Cariteo. Profìlo di un poeta, Firenze, Leo S. Olschki, 1993; L. BORSETTO, La lirica e il poemetto nel Rinascimento. Riscritture del mito, in Il mito nella letteratura italiana. I. Dal Medioevo al Rinascimento,cit., 425-460:427-8 interessanti in particolare le considerazioni sul mito di Endimione. 1 Serafino de’ Ciminelli , aquilano di nascita, si trasferì prestissimo a Napoli, dove apprese l’arte della musica dal fiammingo Wilhelm Guarnier. I suoi commentatori ci hanno trasmesso l’immagine di uno straordinario intrattenitore, godette di una fortuna immensa, come è prova la raccolta messa assieme da Giovanni Filoteo Achillini in occasione della sua morte (10 agosto 1500), pubblicata a Bologna nel 1504, con l’ annessa biografia del Calmeta. Ma le sue opere mostrano il risultato di una non sempre scaltrita sperimentazione metrica, che tenta il sonetto, lo strambotto, l’epistola, l’ecloga, la barzelletta, secondo spunti scaturiti da occasioni cortigiane. I temi, sovente desunti dal repertorio petrarchesco, sono arricchiti da contaminazioni desunte da motivi umanistici e popolareggianti, e da citazioni mitologiche o erudite; chiara è nelle Ecloghe la derivazione dall’ Arcadia di J. Sannazaro. La sua opera è edita, anche se parzialmente, in Le Rime di Serafino de’ Ciminelli dall’ Aquila, a cura di M. MENEGHINI, vol. I, Bologna 1894; vd. la voce di R. CREMANTE nel Dizionario critico della Letteratura Italiana, voi. 4: IV, pp. 161-63, che include anche una ricca bibliografia sulla vita e le opere dell’Aquilano. Si veda iil recente B. GUTHMÜLLER, Il poema mitologico e il romanzo cavalleresco, in Il mito nella letteratura italiana, cit., pp. 505-534: 512, 524. Del tutto marginale la figura di Orfeo nella sua produzione, presente in due sonetti, con mera funzione di adusata metafora della potenza del canto (vd. Le Rime di Serafino de’ Ciminelli dell’ Aquila, cit., p. 141).

1 Vd. V. CALMETA, Prose e lettere edite e inedite, a cura di C. Grayson, Bologna, Commissione per i testi di lingua (Coop. Tip. Azzoguidi), 1959, pp. 21-22.

1 Il profondo amore per la musica nutrito dagli umanisti del secondo Quattrocento, e i nessi tra l’arte musicale e il mito di Orfeo, sono gli argomenti del bel saggio di C. MUNRO PYLE, Il tema di Orfeo, la musica e le favole mitogiche del tardo Quattrocento, in G. TARUGI, a cura di-, Ecumenismo della cultura. Atti del XII Convegno internazionale del Centro di Studi Umanistici Angelo Poliziano (Montepulciano 1976), Firenze, Leo S. Olschki, 1981, voll. 3: II, pp. 122-139; segnalo un mio recente studio su J. Sannazaro e le arti figurative, in cui inizio a considerare il rapporto musica-poesia nel Sannazaro, A. CARACCIOLO, Mito e bucolica nell’ «Arcadia» di Jacobo Sannazaro, in La Serenissima e il Regno nel V centenario dell’ Arcadia di I. Sannazaro. Convegno di Studi, Bari, Cacucci editore, 2006, pp. * 1 La prima edizione del canzoniere si trova nelle Opere del Chariteo stampate a Napoli nel 1506 presso Giovanni Antonio de Caneto; l’ Endimione del 1506 ottenne notevole fortuna, tanto che nel decennio successivo viene ristampato quattro volte. Nel 1509 appare l’edizione di Tulle le opere volgari di Chariteo, curata tipograficamente da Pietro Summonte, presso Sigismondo Mayr. L’edizione del 1509 ospita una nuova redazione dell’Endimione praticamente quadruplicata rispetto a quella precedente: da 65 componimenti a 247. Vi entrano tutte le poesie in metri illustri presenti nella prima edizione (sonetti, canzoni, sestine, madrigali e ballate), mentre vengono escluse le sei frottole e l’appendice di strambotti compresi nel primo canzoniere. Di seguito all’Endimione, la nuova stampa pubblica per la prima volta la produzione di argomento morale e celebrativo in forma lirica: le canzoni sacre, i Cantici, i poemetti in terzine La metamorfòsi e La Pasca. Dell’ edizione del 1509 fu ristampata nel corso del ssec. XVI solo una selezione in un’antologia poetica di diversi realizzata a Venezia nel 1550; vd. G. PARENTI, Benet Garret detto il Cariteo. Profìlo di un poeta, cit., pp. 1-7; si veda a riguardo anche M. SANTAGATA, La lirica aragonese, cit., pp. 307-8, 330 e la nota 22 a p. 307. Il corpus poetico di Cariteo è stato pubblicato in tempi moderni da E. PERCOPO, Le Rime di Benedetto Gareth detto il Chariteo secondo le due stampe originali, Napoli, Accademia delle Scienze, 1892, voll. 2, che rimane l’ edizione di riferimento per le rime del Cariteo. 1 Vd. M. SANTAGATA, La lirica aragonese. cit., p. 299. 1 Come segnala L. BORSETTO, La lirica e il poemetto nel Rinascimento, cit., p. 428.

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1 SALERNITANO DI ORIGINE, ACCADEMICO PONTANIANO E AMICO DI PONTANO E SANNAZARO E DEL ALFONSO, DUCA DI CALABRIA, CHE SEGUÌ NELLA GUERRA CONTRO VENEZIA NEGLI ANNI 1482-4. ALESSANDRO VI GLI CONCESSE IL VESCOVADO DI POLICASTRO NEL 1493. ALLA MORTE DI FERRANTE I, FERRANDINO, DIVENUTO DUCA DI CALABRIA, GLI AFFIDA LA SUA SEGRETERIA POLITICA. QUANDO NAPOLI FU OCCUPATA DA CARLO VIII DI FRANCIA, SI RITIRÒ NEL SUO VESCOVADO E DA LÌ NON SI MOSSE NEPPURE DOPO CHE FERRANDINO PRIMA E FEDERICO POI, RICONQUISTARONO IL TRONO DI NAPOLI. MORÌ NELLA PRIMA METÀ DEL 1501, VD. LA VOCE DI fausto nicolini IN d.b.i. ROMA, 2 , 1960, PP. 565-566. 1 Aulo Giano, secondo l’ appellativo umanistico, nel 1492 venne a Napoli da Cosenza, (dove era nato nel 1473), con il padre, consigliere di Ferrante; lasciò Napoli nel 1497 per una brillante carriera accademica che lo vide attivo tra le università di Roma, Milano dove fu professore di retorica e sposò la figlia di Demetrio Calcondila, fu poi a Vicenza, Padova e Bologna, per ritirarsi a Cosenza nel 1511, dove nel 1512, fondò l’ Accademia Cosentina.. Dopo una parentesi romana dove andò su invito di papa Leone X, alla morte del pontefice rientrò a Cosenza. Sul Parrasio e la sua produzione letteraria vd. F. ESPOSITO, Aulo Giano Parrasio, Cosenza, Pellegrini, 1982. 1 Canzone VII , vv. 100-115. 1 Ferrandino, figlio di Alfonso II e di Ippolita Maria Sforza, principe di Capua, nacque nel 1467. In

gioventù ebbe due mentori d’eccezione Giano Parrasio e Gabriele Altilio, e in seguito amò circondarsi di letterati e artisti, e farsi scrittore di rime. Nominato re nel 1495, fu, nello stesso anno sconfitto da Carlo VIII e si ritirò ad Ischia; il ritorno sul trono, nel 1496 venne di lì a poco seguito dalla sua morte. A lui dedicano versi elogiativi e affezionati Cariteo e Pietro Jacopo De Jennaro, come si vede dall’indice storico stilato da Maria Corti in appendice a J. DE JENNARO, Rime e lettere, a cura di M. CORTI, Bologna, Commissione per i testi di lingua (Coop. Tip. Azzoguidi), 1956, pp. 156-66: 160.

1 G. PAPARELLI, Feritas, humanitas, di vv. 1-5,vinitas. L’essenza umanistica del Rinascimento, Napoli, Guida, 1973, pp. 24-25. 1 Le sei etate de la vita umana, son. X, 14, età IV, cap. V, v. 132. 1 Ivi, pp. 399, 403-4, 1 P.P. STATII Silvae, V, 3, 57-63, 268-288; V, 5, 52-56, vd. Ivi, pp. 406-7. 1 Vd. A. CARACCIOLO ARICÒ, Jacopo Sannazaro. Orfeo in Arcadia, in Il mito nella letteratura italiana, I. Dal Medioevo al Rinascimento, P. GIBELLINI ed., a c. di G. C. ALESSIO, cit. pp. 400-403. 1 Cfr. ALIGHIERI, Convivio, tratt. 2, cap. 1, 2. 1 G. BOCCACCIO, Genealogie deorum dearum gentlium libri, V, XII. 1 Vd. GARIN, Le favole antiche, in Medioevo e Rinascimento, cit., pp. 73-4; TATEO, tradizione e realtà nell’ Umanesimo italiano, cit., pp. 168-169. 1 Elegie, III, II, vv. 3-10: « « Orphea detinuisse feras et concita dicunt/ Flumina Threicia sustinisse lyra;/ Saxa Cithaeronis Thebas agitata per artem/ Sponte sua in muri membra coisse ferunt;/ Quin etiam, Polypheme, fera Galatea sub Aetna / Ad tua rorantes carmina flexit equos: /Miremur, nobis et Baccho et Apolline dextro / Turbam puellarum si mea verba colit? » Mette utilmente in relazione lel elegie di Properzio con la lirica del Cariteo C. FANTI, L’ elegia properziana nella lirica amorosa del Cariteo, « Italianistica », XIV (1985), pp. 25-44. 1 ORAZIO, Ars poetica, vv. 391-99 « Silvestris homines sacer interpresque deorum/ caedibus et victu foedo deterruit Orpheus,/ dictus ob hoc lenire tigres rabidosque leones./ Dictus et Amphion, Thebanae conditor urbis,/ Saxa movere sono testudinis et prece blanda / ducere, quo vellet. Fuit haec sapientia quondam,/ publica privatis secernere sacra profanjs, /concubitu prohibere vago, dare iura maritis,/ oppida moliri, leges incidere ligno. » 1 Cfr. L. NOSARTI, Studi sulle «Georgiche» di Virgilio. Este, Zielo, 1992, pp. 131-2, che sottolinea come la missione del poeta ufficiale di Roma sia quella di tradurre in precetti comprensibili al popolo ciò che Ottaviano Augusto è riuscito a compiere. Il canto di Virgilio, così come quello di Cariteo-Orfeo, riuscirà a riscattare il «secol oscuro e bruno». 1 Vd. M. MARTELLI, Il mito d’ Orfeo nell ‘età laurenziana, in A. MASARACCHIA, a cura di-, Orfeo e l’ orfismo, cit., pp. 345-6. 1 Il componimento è indirizzato al cavalier Cola d’Alagno, destinatario anche del son. CXCIV , a lui il Cariteo aveva dedicato la prima edizione dell’Endimione. Il poeta invita Cola, nel tempo propizio della primavera, a perseguire il suo stesso ideale, che doni fama immortale ad entrambi, prima che «la frale e breve vita» interrompa il sogno della stagione ferace e la «notte eterna», che rende «tutte le nostre imprese vane» prenda il sopravvento e disperda nell’oblio il nome dei due amici. Meditazione sull’esistenza che trascorre irrimediabilmente, sull’amore infelice per Luna, sull’inutilità degli umani affanni, tutta modulata su toni intimistici e colloquiali. 1 «Orphea detinuisse feras et concita dicunt/Flumina Threicia sustinisse lyra;/Saxa Cithaeronis Thebas agitata per artem/Sponte sua in muri membra coisse ferunt» (Elegiae, III, II,vv. 3-6), vd. C.

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FANTI, L’ elegia properziana nella lirica amorosa del Cariteo, «Italianistica», XIV (1985), pp. 25-44, che sottolinea la relazione tra le elegie di Properzio e la lirica del Cariteo. 1 «Carminis interea nostri redeamus in orbem:/gaudeat in solito tacta puella sono/Orphea detinuisse feras et concita dicunt/ Flumina Threicia sustinisse lyra;/ Saxa Cithaeronis Thebas agitata per artem / Sponte sua in muri membra coisse ferunt;/Quin etiam, Polypheme. fera Galatea sub Aetna» (vv. 391-97). 1 R. CONSOLO, Il libro di Endimione:modelli classici, «inventio ed «elocutio» nelle Rime del Cariteo, «Filologia e critica», III, 1978, pp. 19-94: 35. 1 «El cor, ch' omai languendo in tutto è spento» (son. LXI, v. 3). 1 «Exegi monumentum aere perennius/ regalique situ pyramidum altius,/quod non imber edax, non Aquilo impotens /possit diruere aut innumerabilis/annorum series et fuga temporum». 1 Vd. Le fini osservazioni di G. PARENTI, Benet Garret detto il Cariteo. Profìlo di un poeta, cit., p. 91. 1 [...] certent et cycnis ululae, sit Tityrus Orpheus, / Orpheus in silvis, inter delphinas Arion (Verg., ec., VIII, vv. 54/55) 1 Questa dimensione di non-ritorno e di perdita totale ha una significativa consonanza con la conclusione della «prima» Arcadia del Sannazaro, pur fatte le debite distinzioni – sentimentale l’ atteggiamento di Gareth, sentimentale, ed esistenziale la valutazione del Sannazaro. Al proposito vd. A. CARACCIOLO, L’ «Arcadia» del Sannazaro, cit., al cap. Arcadia, fuga e catastrofe, le pp. 67-84 1 Presso Aldo negli anni 1500-1502 escono le Lettere di santa Caterina, Virgilio, Orazio, Giovenale, Persio, Marziale, e assieme Pedtrarca e Dante, i Poetae christiani veteres, con Ovidio, Lucano, Stazio, Catullo, ecc. in un intreccio tra poeti classici e moderni che tiene conto del nuovo gusto del mercato,e di un mutato animo, che cerca i testi cristiani, non più appagato solo dalla contemplazione dello splendore del mondo antico. 1 Vd. M. MARTELLI, Il mito d’ Orfeo nell’età laurenziana, in A. MASARACCHIA, a cura di- , Orfeo e l’‘orfismo, p. 324.