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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto La poesia è profondamente immersa nella storia. Anche quando non ne parla direttamente. Nell’incontro con la storia essa fortifica la sua tendenza a un’autonomia totale. Ma la poesia è anche la testimonianza di un’ostinazione a sperare, a riaffermare le ragioni della speranza. Perfino quando questa sembra sia stata definitivamente bandita. A. Zanzotto, I miei 85 anni 1

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

La poesia è profondamente immersa nella storia. Anche quando non ne parla direttamente. Nell’incontro con la storia essa fortifica la sua tendenza a un’autonomia totale. Ma la poesia è anche la testimonianza di un’ostinazione a sperare, a riaffermare le ragioni della speranza. Perfino quando questa sembra sia stata definitivamente bandita.

A. Zanzotto, I miei 85 anni

1

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Sommario

Sommario......................................................................................2

Introduzione..................................................................................4

Zanzotto e il Grande Cretto di Burri 4

1. Primum vivere, deinde poetari.................................................6

1.1 La consapevolezza dei sette anni 6

1.2 «L’inno del fango»: echi montaliani dietro il paesaggio 18

1.3 Alla ricerca della «pantera profumata»: Dante e Zanzotto 24

2. La Neve e la traumaticità del fatto poetico.............................31

2.1 Il grande caldo del 2003 e il femore rotto 31

2.2 «L’intelligenza geologica di Zanzotto» 42

2.3 La Luna e «la costanza del vocativo» 46

3. Alla ricerca di Senhal...............................................................52

Gli Sguardi i Fatti e Senhal 52

3.1 Quando i poeti hanno perso la Luna 64

3.2 Uno dei possibili sensi di Microfilm 67

4. Poetiche Lampo.......................................................................72

4.1 «Qual è l’ovocellula da cui può nascere una poesia?» 72

4.2: Il senso di Hölderlin e Zanzotto per la Neve 81

5. Alla ricerca del topinambur.....................................................96

5.1 Il Soggetto: Zanzotto e Stefano Agosti 96

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5. 2 «Che botto! / Mi si è rotto Zanzotto» 101

5.3 Una lettura zanzottiana del Grande Cretto di Alberto Burri 104

Conclusione...............................................................................108

Quello che la Poesia ditta dentro 108

Bibliografia................................................................................116

Opere di Andrea Zanzotto 116

Studi critici 120

Monografie e Articoli............................................................120Altre opere citate..................................................................122

Ringraziamenti...........................................................................125

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Introduzione

Zanzotto e il Grande Cretto di Burri

Il nostro percorso si articolerà in cinque capitoli.

Nel primo cercheremo di cogliere come Andrea Zanzotto

capitalizzi e rivitalizzi l’eredità di Montale e Dante per andare alla

ricerca della “pantera profumata”, sgusciata fuori dal De Vulgari

Eloquentia. Ci aiuteranno le riflessioni in prosa dello stesso Zanzotto

e alcune monografie dedicate all’autore della Beltà.

Nel secondo capitolo cercheremo di chiarire perché l’annosa

critica rivolta al Nostro se non infondata, è quantomeno esagerata:

Zanzotto sin dalle prime liriche di Dietro il Paesaggio ha una sua

personalissima visione della Storia in cui la Neve è oggetto

fortemente semantizzato. Su questa scia ripercorreremo l’intero

corpus poetico, estrapolandone i temi principali alla luce di una

vissuta e sofferta continuità.

Il poemetto Gli Sguardi i Fatti e Senhal del 1969 è punto di

svolta. Sin dal titolo di questo nostro lavoro uno degli itinerari

zanzottiani è proprio quello che porta alla “sorella del sole” per dirla

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con Leopardi1. Ci soffermeremo sulla stroncatura di Manacorda che

forse è un po’ troppo semplicistica.

Finalmente, nel penultimo capitolo, innerveremo il nostro

cammino con un’analisi spiccatamente estetologica delle parole

chiave della poetica zanzottiana. Come per Paul Celan, la poesia

risponde a un preciso e incoercibile bisogno di dire, cioè di fare

testimonianza. Sarà qui esplicata la connessione con il Grande Cretto

di Alberto Burri, sudario che ha ricoperto la vecchia Gibellina.

L’unica conclusione possibile è il confronto con Stefano

Agosti, critico zanzottiano per antonomasia che tanto ha contribuito

al dibattito accademico sull’autore di Sovrimpressioni. Sarà infine qui

che forse capiremo – il dubbio resta sempre uno dei nomi

dell’intelligenza - un po’ di più quello che la poesia “ditta dentro”.

Scopriremo che c’è bellezza - quindi anche poesia - in una

colata di cemento bianco che ha seppellito una città distrutta da un

terremoto quarant’anni fa.

1 Giacomo Leopardi, Appressamento della morte, frammento XXXIX, cit. in Ermes Dorigo, «Il viaggio della luna nei canti di Giacomo Leopardi», Italialibri.net, 14 febbraio 2001, http://www.italialibri.net/dossier/leopardi/viaggiodellaluna.html

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1. Primum vivere, deinde poetari

1.1 La consapevolezza dei sette anni

È necessario, al fine d’inquadrare il senso del divenire della

poetica zanzottiana, accostarsi ai testi di Andrea Zanzotto

inserendoli in un preciso quadro biografico, indispensabile per

comprendere pienamente testi che altrimenti risulterebbero ostici e

oscuri.

Siamo autorizzati in tale direzione dallo stesso Zanzotto che,

proprio in occasione del suo ottantacinquesimo compleanno ha

scritto che:

[…]Ho sempre lavorato sulla spinta dell’ispirazione, che è forse un sostantivo un po’ presuntuoso che sembra alludere alla presenza degli dei. Forse è meglio chiamarla allora tendenza, tendenza già abbastanza chiara fin dai sette anni di vita, quando scrivevo scarabocchi in rima sul modello delle avventure del signor Bonaventura che la nonna Angela mi leggeva sul Corriere dei Piccoli.

È rimasta quella la spinta iniziale; se ripenso al passato era quella spinta che mi faceva mettere in rima le parole per cercare l’armonia nascosta nel discorso umano. Oggi i tempi sono cambiati. […]2

2 Andrea Zanzotto, I miei 85 anni in AA.VV., L’immaginazione n. 230, maggio 2007, Manni, p.1.

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Proprio sette anni, la stessa età che per Vittorini si identifica tout

court con l’età della meraviglia, quella stessa meraviglia che secondo

Aristotele ha dato inizio alla filosofia3:

…Vidi venire su dalla valle un aquilone, e lo seguii con gli occhi passare sopra a me nell’alta luce, mi chiesi perché, dopotutto, il mondo non fosse sempre, come a sette anni, Mille e una notte. Udivo le zampogne, le campane da capre e voci per la gradinata di tetti e per la valle, e fu molte volte che me lo chiesi mentre in quell’aria guardavo l’aquilone. Questo si chiama drago volante in Sicilia, ed è in qualche modo Cina o Persia per il cielo siciliano, zaffiro, opale e geometria, e io non potevo non chiedermi, guardandolo, perché davvero la fede dei sette anni non esistesse sempre per l’uomo. O forse sarebbe pericolosa? Uno, a sette anni, ha miracoli in tutte le cose, e dalla nudità loro, dalla donna, ha la certezze di esse, come suppongo che lei, costola nostra, l’ha da noi. La morte c’è, ma non toglie nulla alla certezza, non reca mai offesa, allora, al mondo Mille e una notte dell’uomo. Ragazzo, uno non chiede che carta e vento, ha solo bisogno di lanciare un aquilone. Esce e lo lancia; ed è grido che si alza da lui, e il ragazzo lo porta per le sfere con filo lungo che non si vede, e così la sua fede consuma, celebra la certezza. Ma dopo che farebbe con la certezza? Dopo uno conosce le offese recate al mondo, l’empietà, e la servitù, l’ingiustizia tra gli uomini, e la profanazione della vita terrena contro il genere umano e contro il

3 «[…] da tutto ciò che si è detto, dunque, risulta che il nome che è oggetto della nostra indagine si riferisce ad una unica e medesima scienza: essa deve speculare intorno ai principi primi e alle cause: infatti, anche il bene e il fine delle cose è una causa.

Che, poi, essa non tenda a realizzare qualcosa, risulta chiaramente anche dalle affermazioni di coloro che per primi hanno coltivato filosofia. Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall’ignoranza, è evidente che ricercarono il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica. E il modo stesso in cui si sono svolti i fatti lo dimostra: quando c’era già pressoché tutto ciò che necessitava alla vita ed anche all’agiatezza ed al benessere, allora si incominciò a ricercare questa forma di conoscenza. É evidente, dunque, che noi non la ricerchiamo per nessun vantaggio che sia estraneo ad essa; e, anzi, è evidente che, come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito ad altri, così questa sola, tra tutte le altre scienze, la diciamo libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa». (Aristotele, Metafisica, 982b-983a, trad. di Giovanni Reale. Sempre sulla meraviglia cfr. AA.VV., BombaSicilia, numero zero, Edizioni Navarra, Marsala (TP), maggio 2007.

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mondo. Che farebbe allora se avesse pur sempre certezza? Che farebbe? Uno si chiede. Che farei, che farei? Mi chiesi. E l’aquilone passò, tolsi gli occhi dal cielo e vidi un arrotino…4

Zanzotto, proponiamo una precisa ipotesi interpretativa, ha

sempre cercato di ritrovare quello stesso “sguardo fresco”, per dirla

con Antonio Spadaro.5

Uno sguardo puro sulle cose del mondo: si potrebbe

continuare con il fanciullino di Pascoli. Ma andremmo lontano dal

nostro tema. Ci interessa sottolineare questa coincidenza tra

Zanzotto e Vittorini che nei sette anni individuano l’età d’oro, in cui

la meraviglia sgorga da ogni cosa. Proprio il tempo magico dei sette

anni, quando basta carezzare il perimetro di una carta geografica o

girare un secchiello di sabbia per sentirsi re e imperatori di un

mondo che esiste solo per noi. Che la dimensione d’impegno civile

sia paritaria a questa altra sponda ancestrale ce lo ricorda pure la

nota finale dello stesso Vittorini:

Ad evitare equivoci o fraintendimenti avverto che, come il protagonista di questa Conversazione non è autobiografico, così la Sicilia che lo inquadra e accompagna è solo per avventura Sicilia, solo perché il nome Sicilia mi suona meglio del nome Persia o Venezuela. Del resto immagino che tutti i manoscritti vengano trovati in una bottiglia6.

Gli fa eco Zanzotto:

4 Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia, Rizzoli, 2000, p. 53.5 Antonio Spadaro, «Romanzo, che cosa resta?», Avvenire, 4 gennaio 2006. Ripubblicato su

http://www.asterione.org/monografie.php?m=22 6 Elio Vittorini, Op. cit., p. 172 .

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Più si sa e più si scrive di grandi problemi, si rende un servizio all’umanità parlando per esempio contro gli armamenti per la pace. Tutto si tiene. […] Prima c’erano i campi di sterminio, ora c’è lo sterminio dei campi ed è la stessa logica. Ma la sacralità della vita è affidata a noi7.

Alla luce di quanto detto, rilanciamo il compiuto quadro biografico che Pasquale Di Palmo ha realizzato per il suo dossier su Zanzotto.8

Se da una parte l’opera di Andrea Zanzotto appare quanto mai ricca di implicazioni di carattere intellettuale e speculativo, dall’altra la sua vicenda di carattere biografico risulta schiva e dimessa, vissuta all’insegna di un radicato isolamento nella propria terra. Nato a Pieve di Soligo (comune che sorge a nord di Treviso) dal pittore Giovanni e da Carmela Bernardi, Andrea manifesta, sin da bambino, una precoce e non comune intelligenza che lo porterà a laurearsi in lettere all’Università di Padova nel 1942.

Dopo aver aderito ai gruppi partigiani locali, l’autore, terminata la guerra, si reca per un breve periodo in Svizzera. Nel 1950 vince il Premio San Babila per la sezione inediti, con una giuria composta da Montale, Quasimodo, Sereni, Sinisgalli e Ungaretti. L’anno successivo esce la sua prima raccolta nella prestigiosa collana “Lo Specchio” di Mondadori: Dietro il paesaggio. Si intensificano i legami e le amicizie con intellettuali del calibro di Sereni, Gatto, Fortini e Pasolini. Nel 1954 vede la luce, nella collana diretta da Sereni per le Edizioni della Meridiana, Elegia e altri versi. Nello stesso anno ottiene il posto di ruolo nella scuola media di Conegliano. Nel 1957, sempre nello "Specchio" mondadoriano, esce Vocativo. Nel 1959 si sposa con Marisa Michieli. L’anno successivo si registra la nascita del primo figlio, Giovanni, cui seguirà quella del secondo, Fabio, nel 1961.

In seguito al riacutizzarsi di stati ansiosi si sottopone a Padova a un’analisi freudiana che dura un paio d’anni. Nel 1962 viene pubblicata la raccolta IX Ecloghe, titolo inaugurale della collana "Il Tornasole" di Mondadori, diretta da Niccolò Gallo. Sulla rivista

7 A. Zanzotto, Op. cit, p. 1.8 Pasquale Di Palmo, «Il poeta che viene dietro il paesaggio - dossier Andrea Zanzotto»,

Letture n. 620, ottobre 2005, San Paolo, Cinisello Balsamo, pp. 123-128.

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Comunità appare un intervento in cui prende le distanze dall’esperienza dei Novissimi. Nel 1964 l’editore vicentino Neri Pozza pubblica la raccolta di prose Sull’Altopiano. Nel 1968 La Beltà, pubblicata da Mondadori, viene favorevolmente recensita da Eugenio Montale dalle pagine del Corriere della Sera e ottiene un’ottima accoglienza critica. Zanzotto pubblica, in edizione semiclandestina, il poemetto Gli Sguardi i Fatti e Senhal (1969). Inizia a collaborare al Corriere della Sera.

Nel 1970 l’editore milanese Scheiwiller stampa, in tiratura limitata e fuori commercio, la plaquette composta da liriche giovanili A che valse? (Versi 1938-1942). Nel 1973 escono da Mondadori sia Pasque sia la fortunata antologia curata da Stefano Agosti Poesie (1938-1972). Va segnalata l’intensa attività di traduttore, soprattutto dal francese, di cui ricordiamo Nietzsche e La letteratura e il male di Georges Bataille per Rizzoli, oltre a testi di Leiris, Balzac e altri.

Nel 1976 comincia la collaborazione con Federico Fellini, dapprima per il Casanova, poi per La città delle donne e La nave va, rispettivamente nel 1980 e nel 1983. Escono i versi dialettali di Filò per le Edizioni del Ruzante, arricchiti da una lettera e da cinque disegni del regista romagnolo. Nel 1978 viene stampato da Mondadori, corredato da una prefazione di Gianfranco Contini, Il Galateo in Bosco che rappresenta la prima parte di una trilogia che comprende anche Fosfeni (1983) e Idioma (1986).

Divengono sempre più frequenti gli attestati di stima e i prestigiosi riconoscimenti, anche a livello internazionale. Tra il 1991 e il 1994 licenzia i due volumi di saggi mondadoriani Fantasie di avvicinamento e Aure e disincanti nel Novecento letterario, cui seguiranno la raccolta Meteo, pubblicata da Donzelli nel 1996, e il monumentale “Meridiano” Le poesie e prose scelte (1999). L’ultima silloge poetica pubblicata da Mondadori si intitola Sovrimpressioni (2001).

Dobbiamo solo aggiungere, per completare il quadro, la riedizione

Mondadori delle prose zanzottiane,9 che idealmente completa il

9 Andrea Zanzotto, Scritti sulla letteratura, Mondadori, Milano 2000, 2 voll.

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Meridiano10 curato da Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta.

L’ultimo volume è il recentissimo Eterna riabilitazione per un trauma

di cui s’ignora la natura per le edizioni Nottetempo.

Prima di procedere, cerchiamo di accennare un abbozzo di

risposta all’accusa principale che molti lettori disattenti hanno

rivolto a Zanzotto: l’assenza della Storia, la pesante assenza

dell’Uomo nella sua poesia. Comune destino ha condotto Paul Celan

a un riacutizzarsi della sua depressione, la stessa malinconia tetra e

coriacea ha portato Zanzotto ad accostarsi alla psicanalisi di stampo

lacaniano.

Andiamo con ordine: nelle liriche di Dietro il Paesaggio è

palese l’orma montaliana, ma ancora prima di leggerne un

campione significativo dobbiamo soffermarci sul titolo.

Il paesaggio è per definizione qualcosa che si para davanti a noi,

maestoso simbolo dell’infinito, ripensiamo a tutti i belvedere della

nostra vita, sino a culminare nell’esemplificazione pittorica che

rende appieno l’idea stessa di paesaggio:11

10 Andrea Zanzotto, Le poesie e prose scelte, a cura di GIAN MARIO VILLALTA e STEFANO DAL BIANCO, Milano, Mondadori, 1999. D’ora in poi indicato come Poesie.

11 Caspar David Friedrich, Der Wanderer über dem Nebelmeer (Viandante sul mare di nebbia), 1818, olio su tela, 95 × 75 cm, Amburgo, Kunsthalle.

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Ecco, seguendo questa scia rileggiamo il celeberrimo idillio

leopardiano, rileggiamolo con quello “sguardo fresco” a cui abbiamo

accennato nell’introduzione a questo nostro scritto.12

12 Giacomo Leopardi, secondo manoscritto dell’Infinito. Da wikipedia http://it.wikipedia.org/wiki/Immagine:Infinito.jpg

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

In questa direzione gli archetipali “sette anni” diventano

lapalissiani. Dopo l’orrore della guerra, l’uomo deve riguadagnarsi il

paesaggio. Paesaggio che in Zanzotto si identifica sempre con le sue

valli innevate.

Ecco il primo dei nostri itinerari: la Neve.

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In questo percorso, che stiamo appena abbozzando, può risultare

illuminante il testo di Joseph Czapski,13 nell’interpretazione datane

da Spadaro.14

È un passaggio necessario per l’intera impalcatura che stiamo

tentando di costruire e che ci condurrà alla connessione col Cretto di

Burri.

Quello che fa Zanzotto, rileggendo, dopo la Guerra, le valli del

Soligo attraverso i versi degli autori che da sempre ha amato lo

porta a far delle nevi il simbolo di un’umanità che a fatica vuole

ricominciare. Zanzotto non dimentica né l’uomo né la Storia, anzi, li

ha così presenti che deve metterli al di fuori del verso.

La storia nasce come giornalismo, historia vuol dire indagine, inviato speciale. Erodoto è il primo grande storico, il grande giornalista che ci è dato dei reportage stupendi sull’Egitto e sul Medio Oriente; c’è questo tipo di storia, che è il sapere chi sono gli altri, come hanno influito sul nostro essere, ecc. ecc. Però di fatto troviamo anche un’altra definizione della storia che non è quella dell’historia, ma è quella di Cicerone che la considera Opus oratorium maxime, perché la storia una volta che è passata diventa solo mappe, tracce, lasciate sulla terra, quindi geogrofia e fantasmi, leggende che trascorrono e che mutano e che possono anche essere cambiate.15

13 Joseph Czapski, La morte indifferente. Proust nel gulag, L’Àncora del Mediterraneo, Napoli 2005

14 Antonio Spadaro, «Proust nel “gulag”. Letteratura e libertà», in La Civiltà Cattolica 2006 III 145-150, on line su www.laciviltacattolica.it/Quaderni/2006/3746/Articolo%20Spadaro.html

15 Carlo Mazzacurati e Marco Paolini, Ritratti: Andrea Zanzotto, Fandango Libri, Roma 2007 (con dvd allegato), p. 63.

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Inspiegabile risulterebbe allora la conclusione a cui giunge con la

chiusa del testo per i suoi ottantacinque anni e che abbiamo voluto

mettere come esergo del nostro lavoro. Vi invitiamo a rileggerlo alla

luce degli elementi che abbiamo semplicemente accostato:

La poesia è profondamente immersa nella storia. Anche quando non ne parla direttamente. Nell’incontro con la storia essa fortifica la sua tendenza a un’autonomia totale. Ma la poesia è anche la testimonianza di un’ostinazione a sperare, a riaffermare le ragioni della speranza. Perfino quando questa sembra sia stata definitivamente bandita.

Nel freddo del gulag e nelle valli del Soligo identico è l’orlo

dell’abisso. Proprio su quella faglia la letteratura, la poesia, l’arte

dimostrano tutta la loro forza, proprio come successe a Czapski che

fece rivivere la Ricerca del Tempo Perduto nell’orrore del gulag.

Le conclusioni a cui giunge Spadaro ci aiuteranno nello sviluppo

del nostro lavoro:

Czapski offre un modello. Egli parla di un libro che non ha sotto mano, ricordiamolo. Non può citarlo alla perfezione, né indicarne pagine e volumi. Deve affidarsi alla memoria, proprio quella memoria involontaria che era, secondo Proust, l’unica fonte di creazione artistica. Scava dunque nelle profondità di sé per recuperare immagini, situazioni, eventi, fidandosi del proprio rapporto col testo. L’opera vive in lui, e il suo significato prende corpo in un contesto di disumanità. Proprio questa «inabitazione» dell’opera genera il gesto critico. Se l’opera non vive nella coscienza di chi la legge, il commento critico resta qualcosa di esteriore o addirittura superfluo, futile. Leggendo la Recherche, Czapski legge se stesso, colloca l’opera all’interno di un rapporto singolare e la attualizza nel contesto, per sé assurdo, di un campo di concentramento.

È ciò che il lettore italiano ha già ben presente grazie alla lezione dantesca, anch’essa senza testo sotto mano, di Primo Levi in Se questo è un uomo. Czapski fa capire che, se non vive nel territorio

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della vita e dei suoi significati, la letteratura è destinata a svanire. Il critico che si fa guidare dalle sue intuizioni e dal suo stile di approccio al testo sarà interessato a una letteratura che abbia la stessa qualità della vita16.

Mutatis mutandis, è esattamente la strada che da sempre ha

cercato di percorrere Zanzotto.

Le prime poesie sono la viva testimonianza di una vita che cerca

di riprendere, in un contesto ferito forse per sempre. Il paesaggio

allora va riscoperto, con occhi e cuore nuovo. Soprattutto con parole

nuove, con un linguaggio totalmente nuovo. Il manierismo si rivela

vitale ancora di salvataggio, mentre compone le poesie di Dietro il

paesaggio, Zanzotto rende testimonianza di quello che è stato. Nella

video intervista rilasciata a Carlo Mazzacurati e Marco Paolini ciò

s’appalesa quando il poeta solighese affronta commenta uno dei

suoi neologismi più significativi, il verbo paesaggire:

Ho usato questo verbo, che non è poi neanche tanto bello perché indicherebbe una forma di strumentalizzazione del paesaggio […]. Il problema era quello che la necessità dell’incanto legato al paesaggio rimaneva come una necessità, però il passare del tempo smentiva il fatto che il paesaggio fosse sempre all’altezza di produrre questo incanto. Non solo c’era anche tutto il problema dell’assorbimento da parte del paesaggio di tutto il nuovo, anche maligno, che si produceva, e che pian piano si incorporava al paesaggio stesso, diventando per occhi più futuri, qualche cosa di digerito, di ovvio addirittura. […] Parlo del periodo in cui si vedevano spuntare le prime antenne della televisione per le case dei contadini, sparse nelle colline. I tempi del maestro Manzi […] Era un presagio di questa omologazione che si stava producendo e in cui il paesaggio stesso tendeva a partecipare saturandosi […]. Il paesaggio ritorna ancora come fonte e punto di arrivo, che accoglie le trasformazioni, le ingloba, le fa sue.17

16 Ibidem. Grassetto nostro.17 Ritratti, cit., pp. 47-48.

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Zanzotto non si riferisce a un paesaggio che cannibalizza per non essere cannibalizzato, la questione ha risvolti metafisici che poi si incarneranno in quei topinambur che gialli e sempre presenti ritroveremo alla fine del nostro percorso. Ci preme porre l’accento sul fatto che è lo stesso poeta a definire il paesaggio, la sua personalissima Masada18 “fonte e punto d’arrivo”.

18 La fortezza dell’antica città di Masada non fu mai espugnata dai soldati romani che pure vi entrarono nell'anno 74 d.C.. Davanti ai loro occhi trovarono solo una orrenda ecatombe: il suicidio collettivo della comunità ebraica zelota resistente al potere di Roma che la occupava.

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1.2 «L’inno del fango»:

echi montaliani dietro il paesaggio

La connessione con montale si palesa anche e soprattutto nel

testo che apre il primo dei due volumi che raccolgono la produzione

in prosa di zanzotto. Partiremo da qui per esplicare pienamente il

senso della neve.19

È diventato proverbiale il lusinghiero giudizio che montale vergò

nel 1968:20

A lui tutto serve: le parole rare e quelle dell'uso e del disuso; l'intarsio della citazione erudita e il perpetuo ribollimento del calderone delle streghe. Sullo sfondo, poi, può esserci tanto il fatto del giorno quanto il sottile richiamo psicologico... È un poeta percussivo ma non rumoroso: il suo metronomo è forse il batticuore.

Leggiamo adesso quello che Zanzotto scrive nel 1966 su Montale;

l’autore di Ossi di seppia è definito il cantore del «presente come

regno delle scorze e dei gusci vuoti»”.21

19 Anche in Paul Celan la Neve è parola-mondo, cfr. Antonino Pintacuda, Neve e Silenzio. Paul Celan verso un’estetica della testimonianza, Palermo 2004, sotto la direzione di Salvatore Tedesco .

20 Eugenio Montale, La poesia di Zanzotto, Corriere della Sera, 1° giugno 1968.

21 A. ZANZOTTO, Scritti sulla letteratura, cit., vol. 1, p. 15.

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Soprattutto:

In un mondo senza dei la storia ben difficilmente avrebbe potuto conservare il suo senso umano (nonostante le «illusioni»), sarebbe stata inevitabilmente portata a coincidere con la storia naturale, a tutto vantaggio di questa. Ricercando le sue origini, la vicenda umana trova quella degli animali mostruosi e della terra, la scienza storica sfuma nella paleontologia e infine nella geologia.22

E più avanti:

[…] la geologia che entrava di scorcio nel mondo leopardiano col vesuvio sterminatore, con la natura islandese, poi doveva irrompere nella vita stessa e nelle immagini, nel tessuto intimo, nello stesso «istinto» della poesia23.

Come è stato possibile l’avvento dell’età della geologia che ha

rimpiazzato l’età d’oro dei aedi? Tutto è iniziato con l’aumento

esponenziale del sapere scientifico, un parcellizzarsi di linguaggi

specialistici che hanno condotto ogni sottobranca a farsi spazio in un

mondo sempre più analizzato, sotto ogni prospettiva. È l’inferno

della tassonomia, con scienze sorelle che tendono a diventare

monadi perché non parlano una lingua comune. Lo stesso Zanzotto

nota che

La scienza aveva messo in luce i misteri di un paesaggio alienante, denso di pieghe e di strati che parlavano smisuratamente di vita consunta senza essere umana, la scienza aveva preparato il paesaggio ideale della filosofia negativa: la terra appariva «desolata» non solo in superficie, ma in profondità.24

22 Ivi, p. 1623 Ibidem.24 Ivi, p.18.

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

L’interrarsi appare l’unico destino umano:

terroso è l’uomo di Montale, fatto di fango quasi casualmente germinante alla vita, ma tendente sempre a ricadere in se stesso; incerto se voler divenire nulla («sentirsi come i ciottoli») o se aggrapparsi al suo dramma, unico fatto che lo differenzia, anche se apparentemente, dal nulla degli oggetti […]. Dannato per un’accidia cui si trova costretto, egli continua a gorgogliare nella belletta il suo «inno», e il suo inferno è il ritrovarsi tra gusci, fanghiglie e frammenti di terra e di pietra in cui viene a risolversi la sua umanità, il sentire che ogni storia finisce col coincidere con quella dei detriti fisici, con la geologia.

Zanzotto ha sicuramente presente la lettura della Commedia del

poeta russo Osip Mandelstamm, con cui già ci siamo confrontati.25

Mandelstamm esclamava: «Poesia invidia la cristallografia!».

Zanzotto invece – contestualizziamo, questo testo su Montale è del

1966, la svolta che culminerà nella Beltà è già iniziata – cerca versi

che rendano il senso di questo interrarsi dell’esistenza umana, la

depressione da cui è faticosamente risalito ha lasciato i suoi morsi.

La fuga nell’apparente idillio è lontana e irreale, la neve non

tornerà mai più bianca. La Guerra e la Storia hanno trionfato sulle

valli innevate, sull’abbagliante bianco dei sette anni del poeta. Cosa

può fare sul finire degli anni sessanta un poeta che vede il suo

mondo svanire?

25 Cfr. la mia tesi triennale.

20

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Ripiegare sui testi delle canzonette in voga? Scrivere corsivi

reazionari? Il Nostro sceglie entrambe le strade, calando i suoi versi

in un mondo che non riesce più a comprendere pienamente, lo fa

forzando il linguaggio e il cambiamento risulta radicale e sofferto. I

versi che ricalcavano stili, metafore e costruzioni classiche

appartengono a un’altra vita. Prima di congedarli contribuisce a

rivitalizzarli. Ecco spiegate le costruzioni classiche, la costruzione

delle Ecloghe e dei cori dell’antica tragedia greca.

Ma adesso è «il tempo della scoria, del detrito, del residuo».26

Sempre Montale resta modello e faro, anche l’ultimo Montale,

quello sempre più apparentemente oscuro, quello di Botta e

risposta.

Proprio parlando di questo componimento, Zanzotto scrive che

L’escatologia vera non può che venire espressa nella scatologia: questa è la suggestione che si ricava da Botta e risposta. E se si tiene presente che questo componimento è stato pressoché l’unico a rompere il silenzio in cui Montale si è chiuso da un decennio, il suo rilievo e il suo significato di «massima riduzione» gli conferiscono fuor d’ogni dubbio un valore «apocalittico».27

Conclude Zanzotto:

nella vera tortura dopo il grido c’è il silenzio, quel silenzio da cui l’ultimo Hölderlin poteva solo accennare alle lingue impoetabili.

26 Sviluppo di una situazione montaliana (Escatologia – Scatologia) in A. ZANZOTTO, Scritti, cit., p. 21.

27 Ivi, p. 25

21

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Abbiamo guadagnato due preziosissimi referenti: Montale e

Hölderlin, due autori che Zanzotto ha amato, seguito e a cui

apertamente s’è ispirato. Se la poesia montaliana diventa fanghiglia

e quella hölderliniana sfocia nella «eloquentissima défécation»28 a

Zanzotto non resta che inventarsi una lingua tutta sua, una lingua

nuovamente adamitica con cui nominare le cose di questo nuovo

mondo. La neolingua zanzottiana allora si prefigura come la lingua

della memoria, la lingua-madre, la lingua dell’infanzia: il dialetto.

È stata una scelta necessaria e sofferta per evitare il silenzio e la

follia di un mondo in cui non c’è più spazio per gli dei, per la poesia e

nemmeno più per la Luna.

Seguendo questa scia non dobbiamo meravigliarci che la Beltà si

apra proprio con l’invocazione Al mondo29:

AL MONDO:

Mondo, sii, e buono;

esisti buonamente,

fa che, cerca di, tendi a , dimmi tutto,

ed ecco che io ribaltavo eludevo

e ogni inclusione era fattiva

non meno che ogni esclusione;

su bravo, esisti,

non accartocciarti in te stesso, in me stesso

Io pensavo che il mondo così concepito

28 Ibidem.29 Poesie, p. 301.

22

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

con questo super-cadere super-morire

il mondo così fatturato

fosse soltanto un io male sbozzolato

fossi io indigesto male fantasticante

male fantasticato mal pagato

e non tu, bello, non tu “santo” e “santificato”

un po’ più in là, da lato, da lato

Fa di (ex-de-ob-etc)-sistere

E oltre tutte le preposizioni note e ignote,

abbi qualche chance,

fa buonamente un po’;

il congegno abbia gioco.

Su, bello, su.

Su, munchhausen.

23

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

1.3 Alla ricerca della «pantera profumata»: Dante e Zanzotto

È però necessario analizzare anche e soprattutto il rapporto del

poeta di pieve con dante e la commedia. Lasceremo che sia lo stesso

Zanzotto a illustrarcelo, attraverso un suo illuminante articolo

comparso sul Corriere della sera30. Il titolo è fortemente

significativo, sulla stessa scia di quella poetica dello sguardo fresco,

capace di oltrepassare un mondo di detriti: «rileggere dante con gli

occhi del suo tempo».

Il testo presenta un ben preciso schema di avvicinamento31

alla Commedia, testo a cui Zanzotto è indissolubilmente legato,

come s’evince in tutto il corpus poetico.

1. Ma di quale testo di Dante parliamo? Come arrivare al vero testo attraverso centinaia di trascrizioni, se non c’è nemmeno un autografo del nostro massimo poeta? Una specie di scommessa diventa necessaria. Ma occorrono anche fonde rettifiche alla nostra percezione del suo mondo, dell’epoca che egli rappresenta. Quando ci si accosta a Dante, infatti, diventa necessario un coinvolgimento nel clima di visionarietà in cui allora si era immersi. Il passaggio dall’immagine «reale», al sogno, alla «visione» - nel senso di comunicazione con un altrove - non presentava particolari soluzioni di continuità. Esiste anche oggi, a macchie, un simile clima; penso per esempio al caso di quel distretto del nostro Sud in cui per molti anni «tutti» vedevano «qualcosa» (l’antropologo Paolo Apolito ne ha dato ampia relazione). E ovviamente ci si dovrà soffermare sul fatto che il mondo degli Evangeli è tutto inserito entro il contesto di un dramma cosmico di lotte:

30 Corriere della Sera, 20/9/2004.31 Fantasie e avvicinamento è il titolo del primo volume che raccoglie le prose di Zanzotto.

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

una concezione, questa, che attraversa i secoli per arrivare fino a Milton, a Goethe, (per non dire a Bulgakov...). Tommaso d’Aquino, immagine stessa di un realismo razionalistico di base aristotelica, ha una famosa visione in cui Cristo loda quanto il filosofo ha saputo dire di lui («Bene dixisti de me, Thoma»). Del resto, lo stesso Innocenzo III autorizzò oralmente l’Ordine di Francesco in seguito a un celebre sogno. E una vena mistica, sempre più potente, pervadeva l’animo dello stesso Dante. Ma l’incontrastata forza di tale clima visionario, eccettuate naturalmente numerose e ben note reazioni opposte, crea una condizione generale di apertura al sentimento che «i morti non sono morti», sono tra noi, sono vivi. Nessuno poteva essere pensato come annichilito del tutto, al contrario di quanto accade nel mondo attuale, in cui pure chi non è escluso «in quanto memoria» può da un momento all’altro cadere nell’oblio. Chiara Frugoni ha indagato con intrepidità particolare l’alta e caratterizzata realtà di San Francesco in questo quadro, in cui si svilupparono le sue esperienze al limite, in un insieme di contrastanti sfumature.

Numerosi sono i punti di contatto con quanto delineato da

Spadaro a proposito di Czaspki nel gulag. Lo stesso Spadaro,

ricordiamo, concludeva paragonando Proust nel gulag al Canto

d’Ulisse dell’Inferno dantesco recitato a memoria da Primo Levi in Se

questo è un uomo.

Continuando, Zanzotto si sofferma sul rapporto tra la

memoria e la scrittura, sempre più indietro nel tempo sino

all’origine mitica della scrittura, così come ce l’ha tramandata

Platone.

Il rapporto tra memoria è scrittura è stato, nel passato

dell’umanità, fondante e fertile. Oggi qualcosa è irrimediabilmente

cambiato, per il poeta di Pieve di Soligo l’“aumento geometrico”

dello scibile è frutto maligno di quella stessa cultura massificante

25

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

che è diventata oggetto principale del suo poetare. La Divina

Commedia diventa allora «torrente vivo di terzine»:

2. Quando si dice memoria, poi, si rientra in un campo importantissimo: nel passato, persino i sussidi segnici delle scritture, deprecati fin da quando venne sospettato e talora condannato il dono del dio Teuth, si vedevano come «macchine obliteratrici» della ginnastica mentale. Oggi, al contrario, sembriamo rassegnati alla mineralizzazione della memoria nei banchi informatici, potenzialmente vasti come lo scibile che è in aumento geometrico. Ma da quando i bardi erano famosi per l’obbligatorio apprendimento mnemonico di interi poemi (si parla di tremendi esami, anche in situazioni fisiche difficilissime, per i Druidi) - dalle lontananze di un’«oralità perpetua» soprattutto riguardante la poesia e, secondo alcuni, trasmessa su un arco di almeno sessantamila anni - si viveva entro atmosfere costituite su «bolle» più o meno stabili di memorie disomogenee. E qui Dante brilla sovranamente: in una società in cui pochi avevano accesso alla materialità degli scritti, infatti, egli era già entrato nell’animo popolare, e i frammenti più semplici del suo poema erano ovunque spontaneamente recitati: egli stesso era ammirato per la sua portentosa memoria. Di questo suo «atletismo mentale» egli ci dà testimonianza per bocca di Virgilio, che riferendosi all’ Eneide , dice a Dante «ben lo sai tu, che la sai tutta quanta» ( Inf. XX, 114).

Questa memoria, che tiene viva e presente un’enorme tastiera di significati e significanti, è quella stessa forza che, nell’atto creativo, mette a disposizione una quantità eccezionale di mezzi espressivi già in «allarme». Ciò ben risulta da una nota testimonianza di uno dei più antichi commentatori, l’«ottimo», secondo la quale dante, pur affermando che se il torrente vivo delle terzine, con il ritorno delle rime, lo porta a nuove scoperte di intonazioni e immagini, e quasi lo costringe di continuo ad inventare, egli, comunque, non si discosta dai concetti fondamentali che la sua mente vuol proporre. Questo incredibile intreccio di energie, tutte «prepotenti», riesce a prevalere, relegando in disparte il lavoro teorico di opere come il convivio e il de vulgari eloquentia , o altri suggestivi gruppi di versi e apre la strada al poema sacro «al quale ha posto mano e cielo e terra» ( par. Xxv, 2).

Dante, come Zanzotto farà col petèl, ha scritto e

contemporaneamente costruito la sua lingua. Una lingua che

26

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

nasceva nell’istante stesso in cui il grande toscano costruiva le tre

cantiche. Il fiorentino diventa lingua alta e poetica perché parte

dalla lingua viva, dal volgare, quella “pantera profumata”32 su cui si

sofferma sovente il nostro. La lingua è il lascito dell’intera umanità, è

patrimonio comune e, per questo, a nessuno appartiene. La lingua

diventa fera mitica che lascia solo il suo odore:

In ciò si rende visibile l’affermazione sempre più netta della necessità del fiorentino parlato e continuamente reinventato come lingua vera e degna della poesia, e proprio per la poesia di Dante. Egli incontrava così anche la traccia della «pantera profumata» (panthera redolens, nel De vulgari Eloquentia), che non si rinveniva in nessuna delle lingue o dialetti da lui presi in esame, pur tutti sfiorandoli. Si sapeva che egli acconsentiva al destino toscano della poesia che era già in atto ai suoi tempi, ma doveva difendersi, persino nei tardi anni ravennati, dalle accuse amichevoli di Giovanni del Virgilio relative al suo abbandono della lingua degli antichi padri (sempre viva nelle classi dotte). Dante non vuole e non può staccarsi dal volgare, già illustre eppure vicino al popolo, nella sua umile ma irrefrenabile fioritura, pensa alle donnette che lo parlano e lo «attestano». E capita qui di ricordare Lutero che, nella traduzione in tedesco della Bibbia, riconosceva di abbandonare una lingua sacralmente insuperabile, come l’ebraico, per favorire appunto le «mulierculae», il vissuto popolare-reale.

Siamo al punto di svolta, Zanzotto invita a rileggere Dante e,

facendolo, offre la metodologia che noi stessi utilizzeremo per

leggere un campione significativo dell’intera produzione zanzottiana.

È questo il «momento adamitico delle lingue». Il sostrato di citazioni

si svelerà poesia dopo poesia, verso dopo verso continuando in

32 Postquam venati saltus et pascua sumus Ytalie, nec pantheram quam sequimur adinvenimus, ut ipsam reperire possimus rationabilius investigemus de illa ut, solerti studio, redolentem ubique et necubi apparentem nostris penitus irretiamus tenticulis . De Vulgari Eloquentia I, XVI (Dopo che abbiamo cacciato per monti boscosi e pascoli d'Italia e non abbiamo trovato la pantera che bracchiamo, per poterla scovare proseguiamo la ricerca con mezzi più razionali, sicché, applicandoci con impegno, possiamo irretire totalmente coi nostri lacci la creatura che fa sentire il suo profumo ovunque e non si manifesta in nessun luogo).

27

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

ognuna delle forme che può assumere la parola scritta. Proprio

quello che avvenne a Stefano D’Arrigo che partorì il suo romanzo-

mondo a partire dalla chiusa di una sua recensione per un catalogo

d’arte.33 Nella terza risposta si manifesta il cuore pulsante della

Poetica zanzottiana:

3. Madri, umiltà, bambini, tracce della «pantera» al momento adamitico delle lingue, fino all’inevitato, per Dante, contraddirsi tra certe sue affermazioni teoriche e la definitiva realtà del «risucchio» della Commedia che abiterà tutta nell’amore e nelle sue diversità. Il grande amore nasce per Dante «prima ch’io fuor di puerizia fosse» ( Purg. , XXX, 42): Beatrice è una bambina e tra lei e Dante, anche nel trascorrere degli anni prima della sua precocissima fine, prende forma la tormentata innocenza di un fatto sostanzialmente immaginario, (che a noi potrebbe ricordare il mito del «vert paradis des amours infantines» di Baudelaire). Il fantasma iniziale di Beatrice si trasforma lungo tutto l’itinerario letterario di Dante per dissolversi nell’ultimo sorriso in Par. XXXI, 91-93, generando un senso di sottile e misteriosa frustrazione («quella, sì lontana / come parea, sorrise e riguardommi; / poi si tornò a l’etterna fontana»). E lungo il poema l’attenzione a fatti, anche linguistici, di valore aurorale, continuerà ad apparire; basti pensare al «pappo e ’l dindi» delle prime sillabazioni ( Purg. , XI, 105), e al ricorrere, per ricordare l’impotenza umana a dire la realtà suprema, a numerose variazioni sul tema del «fante / che bagni ancor la lingua a la mammella» ( Par. , XXXIII, 107-108). E’ il caso del «fantolin che ’nver’ la mamma / tende le braccia, poi che ’l latte prese, / per l’animo che ’nfin di fuor s’infiamma» ( Par. , XXIII, 121-123); o, ancora, del conclamato atto di fiducia nell’infanzia ( Par. , XXVII, 127-136): «Fede e innocenza son reperte / solo ne’ parvoletti; poi ciascuna / pria fugge che le guance sian coperte. / Tale, balbuziendo ancor, digiuna, / che poi divora, con la lingua sciolta, / qualunque cibo per qualunque luna; / e tal, balbuziendo, ama e ascolta / la madre sua, che, con loquela intera, / disia poi di vederla sepolta». E traspare nel poeta un'ombra di non superata angoscia per il destino dei bambini incolpevoli ( Par. XXXII).

33 Cfr. l’introduzione di Walter Pedullà alla riedizione Rizzoli di Horcynus Orca.

28

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Sin qui l’analisi, arricchita dalla poetica dell’età infantile. È

giunto il momento capitale, la lettura di alcuni frammenti della

Commedia:

4. Ma per capire ciò che si verifica in quelli che si potrebbero chiamare display tipici della poesia, basterà dar rilievo ad alcuni frammenti danteschi - fermo restando che è sempre augurabile la lettura dell’intero poema, l’avvicinamento al suo «romanzo» integrale. Le increspature di emergenze altamente significative sono per altro tali e tante entro l’onda delle terzine, di loro gruppi, che degli esempi vanno evidenziati anche qui. Vi si rinviene infatti una specie di lingua totale e atemporale della poesia che si pone al «sommo» dell’espressione. Un massimo di figure retoriche signatae , già classificate, si fonde a una particolare innovazione «acrobatica» - a un «andar per sommi», cioè, nel realizzare la perfetta sincronia di musica mentale, intelligibilis (analogica?), e onda fonico-ritmica. È ciò che Dante stesso chiama «legame musaico», il tout se tient della poesia, piano autonomo voluto dalla Musa, e di tale coesione che «nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra trasmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia» ( Conv. , I, 7).

Si dia un’occhiata a Inferno , XVII, vv. 55-63. E’ l’incontro con gli usurai, anzi, con le borse che recano i loro stemmi di ricconi mai abbastanza avidi, cui si riduce il loro stesso volto: «dal collo a ciascun pendea una tasca / ch’avea certo colore e certo segno, / e quindi par che ’l loro occhio si pasca. / E com’io riguardando tra lor vegno, / in una borsa gialla vidi azzurro / che d’un leone avea faccia e contegno. / Poi, procedendo di mio sguardo il curro, / vidine un’altra come sangue rossa, / mostrando un’oca bianca più che burro». E la rassegna continua. La personificazione dell’azzurro, che diventa sostantivo e che agisce attraverso l’idea di leone, la si potrebbe ritrovare nei surrealisti, e ha un potere quasi ipnotico sullo sguardo di Dante, lo trascina come uno stridulo, pesante carro a vedere l’altra borsa il cui peso si moltiplica nel bianco lurido di un’oca su un fondo sanguinante. L’accostamento sangue e burro provoca quasi un senso di nausea, introduce in un mondo quasi di fisica perversione. Al polo opposto, nel XXXIII del Paradiso , vv. 124-126, ecco un improvviso lampo che mira a esprimere la totalità del divino e dell’essere come luce, in una serie di parallelismi perfetti e insieme irraggianti tutt’intorno alla perentorietà delle dentali sorde e sonore (/d/, /t/) e di certe vocali (/i/, /e/), mentre la sintassi crea una piena circolarità - e il poeta sembra quasi tremare in questa pronuncia dell’impossibile-possibile: «O luce etterna che sola in te sidi, / sola t’intendi, e da te intelletta / e intendente te ami e arridi!». Siamo di fronte a qualcosa di pienamente incentrato sulla teologia trinitaria ma

29

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

che nello stesso tempo ne fuoresce, sfreccia, si sfa appunto in una specie di raggiera di tintinnii e dilatazioni foniche. Forse qualche cosa che a noi può ricordare la musica di Lajos Ligeti ( Lux Aeterna ) che si accompagna in un famoso e già lontano film all’enigmatica stele, o tavola di legge chiave del cosmo. Pare che Dante qui trascinato da una forza abissalmente autonoma della Musa arrivi attraverso la poesia sulla teologia a una «teologia della poesia» percepita come autonomia di un dire che si autotrascende, al di la di realtà e mito, in una perenne apertura sul possibile.”

Abbiamo abbastanza elementi, possiamo finalmente accostarci

alle poesie e alla poetica di Zanzotto. Nel farlo terremo presenti i

temi del libro-intervista Eterna riabilitazione da un trauma di cui

s’ignora la natura.

30

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

2. La Neve e la traumaticità

del fatto poetico

2.1 Il grande caldo del 2003 e il femore rotto

Tutto questo gironzolare di pensieri e pensierini porta al contatto col problema dei problemi: quello della catastrofe climatica. C’è o non c’è? E se c’è, quali sono le cause reali? È pur vero che si sciolgono i ghiacci artici e antartici34

Risulta particolarmente significativo che l’ultimo libro inizi con il

Nostro che parla a ruota libera dei temi ecologici, uno dei suoi

cavalli di battaglia sin dal 1970, quando fu tra i fondatori del Club di

Roma.

Ma vi sono risvolti inaspettati e finanche positivi nello

sconvolgimento climatico che ha favorito l’instaurarsi di un nuovo

ecosistema:

Un effetto positivo, paradossale, si è verificato sulle colline di Rolle dove l’olivo è riapparso dopo un secolo, portando anche frutti. Il grande caldo dell’estate 2003 si è diffuso a pelle di pantera35

34 Eterna riabilitazione, cit., p. 14.35 Ibidem.

31

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Soffermiamoci: Zanzotto non dice a «macchia di leopardo0» ma

piega consciamente il modo di dire al suo bagaglio dantesco, su cui

ci siamo già soffermati.

Il colloquio con Laura Barile e Ginevra Bompiani continua:

dalla legittima soddisfazione iniziale di nonno del piccolo Andreino e

di padrone del gatto Uttone, Zanzotto passa con assoluta

naturalezza a esprimere la sua poetica, compresa tutta nel titolo

dato al piccolo e densissimo volume.

La Bompiani chiede delucidazioni sul “bellissimo titolo” e il Poeta

parla della poesia e del senso della finitudine umana:

G: Ultima parte del titolo è: “di cui s'ignora la natura”.

Z: “di cui s'ignora la natura”, tanto che potremmo richiamarci a tante formulazioni religiose, l'uomo che nasce col peccato originale. Direi che in tutte le religioni c'è questa idea di uno- sbaglio iniziale che l'uomo deve riparare con una sua etica. Un’idea della morte deriva dalla colpa originaria, stipendi peccati mors, la morte come salario del peccato.

G: Laicamente che cos'è questo sbaglio iniziale?

Z: Il fatto che si è finiti e non infiniti. È una situazione in cui ci si trova, la situazione limitata che è la stessa per cui la poesia nasce e muore in una sola lingua. Le traduzioni sono tutte discutibili.

Ma c'è anche qualcosa di più. Questa posizione lascia aperto alla poesia un ruolo abbastanza indipendente ed evidente, quello di tener aperta questa corsa all'autoidentificazione, al poter dire io.

32

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Prima di procedere leggiamo come Stefano Agosti ha sintetizzato

“semplificando molto” – sono le sue stesse parole – l’intero corpus

poetico di Zanzotto:

[…] indico subito tre fasi o luoghi demarcativi del percorso globale di Zanzotto, cui corrispondono altrettante posizioni di linguaggio, vale a dire:

La fase iniziale – da Dietro il paesaggio a, almeno parzialmente, Vocativo-, ove il linguaggio è in posizione di letterarietà, e magari di iperletterarietà;

La fase centrale – da IX Ecloghe a Idioma, con fulcro nella Beltà -, ove il linguaggio figura generalmente in posizione di significante;

La fase ultima, cronologicamente, quella che va, per ora da Meteo a Sovrimpressioni, e comprende altresì la sezione “Inediti” del Meridiano Mondadori -, ove il linguaggio è in posizione di “oggetto metonimico”.36

Ci soffermeremo soprattutto sui componimenti-guadi, punti di

apparente rottura che sono di volta in volta utilizzati dal poeta per

proseguire nella sua personalissima ricerca della «pantera

profumata».

Il campione che analizzeremo è volutamente ridotto

all’ossatura. Abbiamo selezionato solo alcune poesie e un intero,

densissimo poemetto. Quest’ultimo contiene - è quello che

cercheremo di dimostrare – il passato, il presente e il futuro della

poetica zanzottiana: Gli sguardi, i Fatti e Senhal.

36 Stefano Agosti, «Luoghi e posizioni del linguaggio di A. Zanzotto. Nuove precisazioni in forma di appunti» in AA.VV., Poetiche. Rivista di Letteratura, Nuova serie fasc. 1/2002, Mucchi Editore, Modena, p. 4.

33

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Cerchiamo di delineare ancora meglio il nostro percorso,

sciogliendo per prima cosa il titolo evocativo. In tutta l’opera del

poeta di Pieve di Soligo emergono maestosi tre Oggetti Metonimici –

per dirla con Agosti -: la Neve, la Luna e il Soggetto. Essi

corrispondono alle tre fasi del poetare zanzottiano così bene

sintetizzate dal suo interprete principale. Ci preme sottolineare che

il fatto che le tre fasi vanno lette in vera, viva e sofferta continuità.

La Neve era necessaria per purificare le valli trevigiane dopo gli

orrori della Guerra ed è una precisa eredità hölderliniana.

La Luna è il referente astratto che simboleggia una perdita

irreparabile per tutti gli uomini: dopo essersi presi tutta la Terra, in

piena Guerra Fredda, la sfida tra gli Usa e l’Urss si giocava anche

negli spazi siderali. Arrivarono prima gli americani e l’uomo perse

anche la Luna che, da sempre, era la compagna di vita, lontana ma al

tempo stesso così vicina, capace di magie e incantamenti37: è nella

luna che Ludovico Ariosto riporrà il senno perduto del suo

protagonista. L’uomo ha superato il limite della dimensione onirica,

con quel piccolo passo ha distrutto per sempre le notti col naso

all’insù, a guardare la Luna crescere e decrescere, ridere e

sogghignare con la sua faccia di teschio spolpato.

Zanzotto ne è ferito, anticipa ogni possibile conclusione. Sa che,

anche se l’uomo non è veramente allunato, non c’è più spazio per le

37 Basta ricordare en passant Male di Luna e gli effetti che il nostro satellite ha nella nostra vita: dalle maree alle fasi del ciclo mestruale. Non è un caso che la luna di miele si chiami così, né tantomeno che Ariosto collochi sulla luna la sede delle cose dimenticate e del senno perso dal suo paladino.

34

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

belle bugie dei poeti. Ci hanno tolto anche il tempo dei baci al chiaro

di luna. E Zanzotto nel poemetto recupera la dimensione onirica, lo

fa nell’unico spazio possibile, quello del dialogo. Dopo aver duettato

con Diana, Ecate e Selene inizia a collaudare la nuova lingua che

l’esperienza della Beltà gli ha consegnato. Ha nuovi strumenti

espressivi e li testa nell’unico spazio possibile: quello delle sue

amate righe mozze in cui cerca di ricucire lo strappo. Ma l’arte è

cambiata e con essa i moduli espressivi.

La poesia adesso fagocita ogni cosa: dalle canzonette di

Modugno ai fumetti alla moda, quegli albi con discinte protagoniste

con i nomi che finiscono inspiegabilmente tutti in -ik.

Prima era il tempo delle pennellate dense e corpose, in un

realismo lirico e sofferto. Ora è il tempo di Pollock e della Pop Art.

Ecco: Gli sguardi, i Fatti e Senhal è un quadro poetico figlio

dell’avanguardia: è un quadro pop in poesia. Contiene tutto e il

contrario di tutto.

Zanzotto non ha mai celato il suo interesse per le scienze e per

il cinema, sino a culminare nei dialoghi per il Casanova di Fellini. Il

mondo è cambiato e deve cambiare la lingua per rappresentarlo.

Anticipiamo le conclusioni a cui giungeremo: dopo aver

portato la lingua ai limiti dell’incomprensibilità babelica, ricalerà il

silenzio e maestoso inizierà un nuovo corso. Come già emerge negli

ultimi componimenti dedicati ai topinambur. Quei fiori che gialli

bucano la neve per colorare il mondo e per riempire con le loro

35

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

radici edibili le pance di questa nuova umanità, la stessa che

recupera a fatica la prima persona singolare.

Dopo il conflitto tra il “noi” e “loro” è giunto il momento di

mettersi davanti al paesaggio e vedere se c’è ancora qualcosa di cui

è lecito e necessario scrivere. Si spiegherebbe così il nuovo corso

inaugurato da Sovrimpressioni e da Meteo.

Dopo aver recuperato le radici – simboleggiate dal dialetto

trevigiano – è il momento di ri-creare un mondo nuovo.

Incominciando nuovamente dalla natura e dai suoi doni.

Confrontiamo a questo punto il passaggio tra i versi della prima

raccolta e quelli della Beltà. Le stesse tematiche sono affrontate con

un diversissimo armamentario lessicale: si palesa il senso della ri-

creazione di quel mondo che non c’è più attraverso la ri-creazione

del linguaggio.

Ormai la primula e il calore

ai piedi e il verde acume del mondo

I tappeti scoperti

le logge vibrate dal vento e il sole

tranquillo baco di spinosi boschi;

il mio lontano, la sete distinta

come un'altra vita nel petto

Qui non resta che cingersi intorno il paesaggio

qui volgere le spalle38

38 Poesie, p. 46.

36

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Il paesaggio è sempre presente: diventa un sudario in cui

avvolgere quello che è stato e a cui il poeta volontariamente volta le

spalle per tentare faticosamente di ricominciare.

Totalmente diverso è il tono e i significanti usati: gli anni Sessanta

e la Pop Art vengo espirati da Zanzotto ed espirati sotto forma di una

poesia totalmente nuova che fagocita, rumina e eietta. C’è di tutto:

dai caroselli pubblicitari alle canzonette in voga, Hölderlin e

l’impoetabilità, lacerti di smielati sceneggiati per casalinghe. Ma la

Neve è sempre cercata e anelata, le metafore del ghiaccio e del gelo

restano come lontano referente. La neve c’è ancora ma è la stessa

neve che riempie le bocce di scalcagnati negozi di souvenir. È la neve

della Standa.

La lezione dell’ultimo Montale è lievitata tra le righe mozze del

poeta di Pieve. La Neve è uno degli unici Oggetti Metonimici che il

poeta porta con se. Deve farlo per vedere se c’è ancora qualcosa di

buono, oltre alla Standa. Ci sarà ancora un carosello pubblicitario ma

ci saranno sempre e comunque i pini a ridare un manto verde a

questo nuovo mondo in cui non c’è più spazio per la vecchia poesia

di stampo petrarchesco.

Sì, ancora la neve

“Ti piace essere venuto a questo mondo?”

Bamb.: Sì, perché c'è la STANDA".

37

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Che sarà della neve

che sarà di noi?

Una curva sul ghiaccio

e poi e poi... ma i pini, i pini

tutti uscenti alla neve, e fin l'ultima età

circondata da pini. Sic et simpliciter?

E perché si è - il mondo pinoso il mondo nevoso -

perché si è fatto bambucci-ucci, odore di cristianucci,

perché si è fatto noi, roba per noi?

E questo valere in persona ed ex-persona

un solo possibile ed ex-possibile?

Hölderlin: "siamo un segno senza significato":

ma dove le due serie entrano in contatto?

Ma è vero? E che sarà di noi?

E tu perché, perché tu?

E perché e che fanno i grandi oggetti

e tutte le cose-cause

e il radiante e il radioso?

Il nucleo stellare

là in fondo alla curva di ghiaccio,

versi inventive calligrammi ricchezze, sì,

ma che sarà della neve dei pini

di quello che non sta e sta là, in fondo?

Non c'è noi eppure la neve si affisa a noi

e quello che scotta

e l'immancabilmente evaso o morto

evasa o morta.

Buona neve, buone ombre, glissate glissate.

Ma c'è chi non si stanca di riavviticchiarsi

graffignare sgranocchiare solleticare,

di scoiattolizzare le scene che abbiamo pronte,

non si stanca di riassestarsi

38

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

- l'ho, sempre, molto, saputo -

al luogo al bello al bel modulo

a cieli arcaici aciduli come slambròt cimbrici

al seminato d'immagini

all'ingorgo di tenebrelle e stelle edelweiss

al tutto ch'è tutto bianco tutto nobile:

e la volpazza di gran coda e l'autobus

quello rosso sul campo nevato.

Biancaneve biancosole biancume del mio vecchio io.

Ma presto i bambucci-ucci

vanno al grande magazzino

- ai piedi della grande selva -

dove c'è pappa bonissima e a maraviglia

per voi bimbi bambi con diritto

e programma di pappa, per tutti

ferocemente tutti, voi (sniff sniff

gran gnam yum yum slurp slurp:

perché sempre si continui l'"umbra fuimus fumo e fumetto"):

ma qui

ahi colorini più o meno truffaldini

plasmon nipiol auxol lustrine e figurine

più o meno truffaldine:

meglio là, sottomano nevata sottofelce nevata...

O luna, ormai,

e perfino magnolia e perfino

cometa di neve in afflusso, la neve.

Ma che sarà di noi?

Che sarà della neve, del giardino,

che sarà del libero arbitrio e del destino

e di chi ha perso nella neve il cammino

(e la neve saliva saliva - e lei moriva)?

E che si dice là nella vita?

39

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

E che messaggi ha la fonte di messaggi?

Ed esiste la fonte, o non sono

che io-tu-questi-quaggiù

questi cloffete clocchete ch ch

più che incomunicante scomunicato tutti scomunicati?

Eppure negli alti livelli

sopra il coma e il semicoma e il limine

si brusisce e si ronza e si cicala-ciàcola

- ancora - per una minima e semiminima

biscroma semibiscroma nanobiscroma

cose e cosine

scienze lingue e profezie

cronaca bianca nera azzurra

di stimoli anime e dèi,

libido e cupìdo e la loro

prestidigitazione finissima;

è così, scoiattoli afrori e fiordineve in frescura

e "acqua che devia

si dispera si scioglie s'allontana"

oltre il grande magazzino ai piedi della selva

dove i bambucci piluccano zizzole...

E le falci e le mezzelune e i martelli

e le croci e i designs-disegni

e la nube filata di zucchero che alla psiche ne vie?

E la tradizione tramanda tramanda fa passamano?

E l'avanguardia ha trovato, ha trovato?

E dove il fru-fruire dei fruitori

nel truogolo nel buio bugliolo nel disincanto,

dove, invece, l'entusiasmo l'empireirsi l'incanto?

Che si dice lassù nella vita,

là da quelle parti là in parte;

che si cova si sbuccia si spampana

40

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

in quel poco in quel fioco

dentro la nocciolina dentro la mandorletta?

E i mille dentini che la minano?

E il pino. E i pini-ini-ini per profili

e profili mai scissi mai cuciti

ini-ini a fianco davanti

dietro l'eterno l'esterno l'interno (il paesaggio)

dietro davanti da tutti i lati,

i pini come stanno, stanno bene?

Detto alla neve: “Non mi abbandonerai mai, vero?”

E una pinzetta, ora, una graffetta.39

Resta solo una pinzetta, che sfocia in una graffetta: due

oggetti da scrivania che ancorano a fogli volanti ricordi lontani. E il

paesaggio che prima era dietro ora è “dietro davanti da tutti i lati”:

una serie di pini esclude ogni possibile visione.

E la graffetta abbraccia quella frase tenera e terribile che il

poeta sussurra a un solitario fiocco di neve: «Non mi abbandonerai

mai, vero?». Una promessa che non può essere mantenuta, basterà

un solo istante, appena s’adagerà sul palmo della mano si scioglierà

irrimediabilmente.

39 Poesie, p. 273.

41

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

2.2 «L’intelligenza geologica di Zanzotto»40

È questo Hölderlin che ritrovo nella memoria come scansione di un ritmo carsicamente sempre in movimento da un'oscurità sotterranea verso le vette più alte. Vette che non sono astratte, ma costituiscono un orizzonte, presente o sub-evocato, come le Alpi solidamente costrutte («sickergebaueten Alpen»), che scandiscono un confine-meta, ma anche un perfetto “passaggio” o convegno di dèi, in cui reale e simbolico non possono e non devono più essere distinguibili.

E torna qui la constatazio/compito altissimo che Hölderlin pone davanti ai poeti alla fine di Andenken: «Was bleibet aber, stiften die Dichter», forse il più pericoloso degli impossibili, oggi, nello “slittamento dei tempi” - senza che ne possa venire disconfermata la perentorietà. Almeno nella luce dell'oceano e della Garonna che animano tutto lo splendido affiorare di quel ricordo in cui si designano i compiti, complementari, di “chi va e chi resta”: «ma ciò che resta lo porgono i poeti». Chissà.41

Così Zanzotto conclude la prefazione al meridiano che raccoglie

l’intera produzione poetica di Hölderlin. Anche qui il paesaggio

riveste il ruolo principale, cassaforte delle epoche passate in cui

forse gli uomini possono ritrovare quel senso perduto. La poesia di

Zanzotto si va sempre di più delineando come ricerca dei suoi

Oggetti Metonimici, ricerca infruttuosa perché destinata a restare

insoddisfatta.

40 Prendiamo in prestito il titolo dell’intervento di Andrea Battistini in occasione della giornata dedicata ad Andrea Zanzotto nel Dipartimento di Italianistica dell’Università di Bologna del 14/11/2001.

41 A.Z, Introduzione al Meridiano Mondadori dedicato ad Hölderlin.

42

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

La Neve, la Luna e il Soggetto sono referenti di un tempo che è

trascorso e che non ritornerà perché il proliferare di specializzazioni

e di lessici specifici ha fatto disperdere la ricchezza semantica delle

parole antiche e semplici.

Cosa può fare allora il poeta? Aspirare a una palingenesi o

prendere semplicemente atto di quello che è stato? Zanzotto ha

deciso di continuare a poetare. Sempre meno spesso ma non può

smettere, l’interrogativo che la luna di Senhal gli porgerà nell’incipit

del poemetto è la domanda di tutti quelli che cercano una risposta in

un mare di parole, figlie di citazioni continuamente citate.

Scrivere è proprio inserirsi in questo ininterrotto coro di

citazioni42. Zanzotto ne è assolutamente convinto. Non può evitare

di inchiodare sulla carta righe mozze o tentare fantasie di

avvicinamento ai libri che gli hanno squadernato i pensieri.

Scrivere e recensire sono figli di un atto vivo, vero e vitale. In

questa scelta sofferta si fa pian piano strada un fiore d’un giallo

abbagliante, lo ripetiamo: il topinambur, una margherita selvatica

che indora le valli trevigiane sul principio della primavera. Da una

radice bitorzoluta e francamente brutta spunta un fiore bello perché

semplice e spontaneo.

Ma la radice contiene in se il fiore che verrà e, soprattutto, quella

radice, oltre che edibile, è una vera prelibatezza.

42 Poesie, p. 1308.

43

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Il topinambur diventa allora simbolo di un’umanità che malgrado

tutte le sozzure ha ancora qualcosa di buono da offrire. Perché la

terra è sempre ventre che continuamente genera attimi lunghissimi

che pian piano la neve inghiotte col suo silenzio di abbacinante

biancore:

Esistere psichicamente43

Da questa artificiosa terra-carne

esili acuminati sensi

e sussulti e silenzi,

da questa bava di vicende

- soli che urtarono fili di ciglia

ariste appena sfrangiate pei colli -

da questo lungo attimo

inghiottito da nevi, inghiottito dal vento,

da tutto questo che non fu

primavera non luglio non autunno

ma solo egro spiraglio

ma solo psiche,

da tutto questo che non è nulla

ed è tutto ciò ch'io sono:

tale la verità geme a se stessa,

si vuole pomo che gonfia ed infradicia.

Chiarore acido che tessi

i bruciori d'inferno

degli atomi e il conato

torbido d'alghe e vermi,

chiarore-uovo

che nel morente muco fai parole

43 Poesie, p. 174.

44

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

e amori.

Quel chiarore abbagliante brulicante d’alghe e di vermi è

concime per un «morente muco», un muco da cui nascono parole

ma anche e soprattutto amori. La vita vince sempre, l’amore

sbaraglia le stesse follie dell’uomo.

Il poeta allora, con perizia e pazienza di geologo, scava

alacremente, una pietra alla volta, alla ricerca delle radici che solo il

dialetto può rinsaldare. È questo il momento di svolta.

45

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

2.3 La Luna e «la costanza del vocativo»

Cerchiamo di innervare quanto sin qui abbiamo cercato di

delineare. Il libro di Umberto Motta ha un titolo che è già un

programma: Ritrovamenti di senso nella poesia di Zanzotto. Motta si

sofferma soprattutto sulle premesse teoriche della violenza

semantica che Zanzotto opera per recuperare il percorso di quella

pantera profumata che altro non è che la vera poesia. Il punto

nodale diventano allora le poesie di Vocativo:

La ricerca lirica di Zanzotto, se, a partire da Vocativo, si svolge privilegiando i paradigmi grammaticali del linguaggio legati alle funzioni del soggetto, li adopera come fossero gli unici strumenti affidabili per la verbalizzazione dell'io e dell'ambiente che lo circonda, si accanisce di conseguenza a stabilire e intrecciare limiti, relazioni, differenze elementari che avvolgano e spieghino tanto, genericamente, l'esterno, quanto e soprattutto il lacaniano «castello» interiore della struttura psichica. I filamenti oscuri di memoria e d'emozioni che ancora ipoteticamente sopravvivono, rispetto alla felice compiutezza dell'origine, scivolano al di sotto della dimensione consapevole del soggetto, al di sotto delle logiche razionali del pensiero, e si depositano, si agitano sul fondo dell'inconscio, si incrociano fra i fantasmi ambigui dell'Es, Zanzotto parla esplicitamente di un «interno Acheronte», di un «altrove che è pur interiore» (Una poesia, p. 111): egli dispone la sua opera, con attenzione e circospetto timore, a ritrarre ‘simile’ caos di energie, che gli pare precedere ogni delimitazione e linguaggio, confondere e mescolare potenze distruttrici e creatrici.44

44 Umberto Motta, Ritrovamenti di senso nella poesia di Zanzotto, Vita e Pensiero, Milano 1996, p. 96.

46

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Ma in questa confusione tra costruzione e distruzione non

dimentica i limiti che sono impliciti nel linguaggio umano. E proprio i

punti di debolezza sono usati come altrettanti arieti per sfondare il

silenzio e guadagnare un inedito punto di vista sull’abisso interiore

del Soggetto poetante.

La sua verifica affronta, fin dal principio, i limiti e i difetti congeniti della espressione verbale: la adopera come strumento per conoscere, per incasellare le pieghe magmatiche della vita interiore che si riversano sulla coscienza; si sforza, con essa, di renderle spendibili e comunicabili. Tuttavia, contemporaneamente, ne fa risaltare l'inevitabile arbitrarietà: ogni parola viene osservata e inseguita dietro la superficie della sua ‘tenuta’, dove si sviluppano intricati e patologici procedimenti di censura e falsificazione.45

La poesia diventa allora una sorta di elettroencefalogramma in

cui segnare l’attività neurale dell’uomo nuovo che è nato dai tempi

che sono irrimediabilmente cambiati dopo che l’uomo ha superato i

suoi limiti giungendo a progettare e, ancor peggio, a usare come

arma di ricatto le armi di distruzione di massa.

Dopo Hiroshima e Nagasaki non ci sono più limiti, quel che è

peggio è che la distruzione continua anche a distanza di anni,

attraverso i frutti avvelenati dalle radiazioni che necessitano di

tempi biblici prima di placare i loro letali effetti. Allora per

recuperare un senso nell’azione dell’uomo si deve cercare nella

facoltà linguistica primordiale, prima che l’umanità danneggi le

nuove generazioni con il loro odio per chi dovrebbero chiamare

fratello.

45 Ibidem.

47

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Con La Beltà Zanzotto sembra agganciare la formazione dei testi a una sonda dell'immaginario, la quale riproduca l'estesa banda dei sussulti nervosi e cerebrali che sono nascosti dall'impresa della significazione; egli illumina la facoltà linguistica primordiale nel cuore della sua attività, quando essa ‘pesca’ nel disordine oscuro e amorfo del pensiero indistinto, e ne estrae, ritagliandole, idee, unità costituenti, le quali determinano un campo di forze a cui la coscienza del soggetto è debitrice della propria stessa sussistenza. Tenendo dietro alla genesi delle emergenze comunicative profonde, vede da vicino la maturazione dell'io, la comparsa di una identità della psiche separata dal caos; nota, d'altro canto, le vie tumultuose e contaminate, indirette, per cui si esprimono i sogni, i lapsus, i desideri inconfessabili, le ribellioni radicali dell’interiorità; scopre le strade per cui giunge all'evidenza un ampio materiale verbale apparentemente ‘normale’, e però di derivazione eccentrica, nel quale permangono le tracce di una dimensione aliena.

In uno dei primi testi della Beltà, La perfezione della neve, si leggono quasi la giustificazione e il programma della violazione semantica, del deragliamento sintattico praticati per tutto il libro:

Mi sono messo in mezzo a questo movimento-mancamento radiale]

ahi il primo brivido del salire, del capire,

partono in ordine, sfidano: ecco tutto.

E la tua consolazione insolazione e la mia, frutto

di quest'inverno, allenate, alleate,

sui vertici vitrei del sempre, sui margini nevati

del mai-mai-non-lasciai-andare,

e la stella che brucia nel suo riccio

e la castagna tratta dal ghiaccio.46

Tutta la poesia nuova di Zanzotto cerca di essere proprio una

castagna tratta dal ghiaccio, perché proprio una castagna?

Azzardiamo un’ipotesi: la castagna è un frutto atipico, commestibile

46 Ivi, p. 97.

48

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

ma ben protetta dal suo achenio, il riccio spinoso. Come –

riferiamoci a qualcosa che ci è più familiare - un fico d’india, dolce

ma difficile da sbucciare se non si è imparato a farlo sin da piccoli,

sin dall’età della meraviglia su cui ci siamo soffermati all’inizio di

questo nostro lavoro. Sono frutti che vanno conquistati: mutatis

mutandis la vera poesia aspetta dietro il riccio della apparente

violenza tra significato e significante. Solo per chi vorrà o potrà

rischiare si dischiuderà offrendo la sua polpa veritativa.

Stiamo progressivamente avvicinandoci al cuore del nostro

percorso: il poemetto Gli Sguardi, i Fatti e Senhal.

Ma cos’è il senhal? L’origine del termine è d’ascendenza

petrarchesca ed è il nome che usavano i poeti per riferirsi alla donna

amata senza nominarla direttamente. Ma è anche un termine

occitano con cui si indicava un medaglione o una moneta imposti al

bambino sorpreso a parlare occitano a scuola. Il senhal veniva

messo al collo o in mano, o addirittura fatto stringere sino a

sanguinare tra i denti; il bambino punito poteva liberarsene solo

denunciando un altro bambino che parlava occitano. Un atto

palesemente discriminatorio e ampiamente praticato per tutto

l'ottocento e fino ai primi anni di questo secolo nelle scuole della

Francia meridionale, e quindi in quasi tutta l'area occitana, con lo

scopo di imporre la lingua francese.

Questa doppia accezione spiega bene perché Zanzotto abbia

scelto proprio questo titolo. La Luna non può più neanche essere

nominata con uno dei suoi tre nomi: né Diana, né Selene né Ecate.

49

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Perché deve essere difesa da chi già l’ha presa a coltellate. Questa

ultima e sofferta elegia in forma di dialogo è il migliore congedo a

cui la Luna potesse aspirare, il nostro satellite amato e vezzeggiato,

temuto e rispettato da tempi immemorabili.

A questo punto non possiamo non ricordare il componimento

lunare per antonomasia, il Canto notturno di un pastore errante

dell’Asia47.

Qui è il pastore solitario che interroga la luna silenziosa, in

Zanzotto avverrà l’esatto contrario: sarà la Luna a supplicare il poeta

di non continuare a scrivere perché il mondo l’ha accoltellata e

definitivamente persa per un’inutile guerra ideologica.

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,

silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai,

contemplando i deserti; indi ti posi.

Ancor non sei tu paga

di riandare i sempiterni calli?

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga

di mirar queste valli?

Abbiamo finalmente guadagnato il testo del poemetto che

costituisce il cuore del nostro lavoro.

47 Composto a Recanati fra il 22 ottobre 1829 ed il 9 aprile 1830, il canto fu pubblicato nell'edizione del 1831. Probabilmente Leopardi trovò ispirazione da una frase tratta dal "Journal des Savants", che riguardava le abitudini di questi pastori: "Plusieurs d'entre eux passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins".

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

3. Alla ricerca di Senhal

Gli Sguardi i Fatti e Senhal48

«NO BASTA, non farlo non scriverlo te ne prego»

Doveva accadere laggiù che ti e ti e ti e ti

lo so che ti hanno ║ presa a coltellate ║

lo gridano i filmcroste in moda i fumetti in ik

i cromatismi acrilici

nulla di più banale lo sanno i guardoni

da gradini di finestre e occhialoni

io guardo ║ freddo ║ il freddo

Sai e non sao vivi e non vivi ma già dèisangui

già scola da un’incisione sulla neve neveshocking

rossoshocking mondoshocking

Si sfasa discrepa in diplopia

Temi la vera lingua dei dormienti ║ è un tuo tema ║

rilutti all’a b c el conservanti

tra il verbo geminato il verbo quiescente

i verbi doppiamente infermi

Ma ora vengono alle mani ora saltellano i coltelli

nei luoghi comuni e t’incide

48 Poesie, pp. 361-377.

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Non sentivo stando da questo livello ║ ora sei molti livelli

mi chinavo a osservarti alzavo il capo a osservarti

e apprezzo un po’ alla volta questo respiro migliore

rianimazione dell’affanno

questo rianimarsi di tutto in un singulto tuo

tra équipes per rianimare o per animare

disegni e coltellate orgasmi

«Non sono io e sono-sono, mi conosci

stileimpalatura stilesfondamento stilemeraviglia

mi hai accentuato nei miei pluri- fanta- meta-

nei miei impegni (come?) carismatici

in empiree univocità o latenze

in un sogno di inerranza di inebriata inerranza»

E io andavo come in tanti soliti

e abitudini per nevi e per selve

e sapessi il perché di questo mio non essere annoiabile

eri laggiù fuori combattimento e in pugna

eri vicina col vicus villaggio piccina e lontana

crollavi come una cascata nel lontano

Che stanchezza doverti ripetere sempre sempre peggio peggio

Resterò dunque a guardare un pezzo di ramo

su uno specchio ghiacciato

io acosciato accanto a una pozza ghiacciata

ero qui e non attendevo

non ho mai atteso nulla, veramente

Flash crash splash down

flash e splash nella pozza nello specchio

introiezione della, crash e splash, introiettata

è la prima tavola la figurina (D centrale)

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Io sto gustando i toui sangui i tuoi Es a milioni

sì tesoro, sì tettine-di-lupa in sussulto,

mi va mi sta mi gira che laggiù ti abbiano colpita

le mie ║ ║ non sono mai state abbastanza robuste

non ti hanno mai buttata in causa

non ti hanno mai inquisita né trasfigurata mai

Io piango ho saputo del fatto,

nemmano cronaca nerocinema, fatto ordinario

roba così di scarto gratis data

mentre stavo guardando

dopopasto dopocorpo dopodopo

avallato da eternità avallato da tempi

mentre stavo mettendo in sublime

la boriosa neve

l’intrinsecata di equilibri induzioni insegnamenti

«So che lottavi col fantasma-di-tante-beltà

che mai-verranno-meno-e»

Qui lotto col fantasma (di una tu?)

che vi s’include con furore e fama

le porta avanti le fa montare in pro in contra

Ho saputo del tuo ferimento ma tu ne sarai ne sarai

ne sarai compilice abbastanza? Ammetti che sei

che sei che sei tu stessa una qualche una qualche

forma di e di e di e di ║ inflitta ║

nelle cose i fatti le visioni, dì di punta

«Ero il trauma in questo immenso corpo di bellezza

corpo di bellezza è la selva in profumo d’autunno

in perdizione d’autunno

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

in lieve niveo declivio niveo non più renitenza

stelle bacche stille in cori

viola e rosso sul lago di neve»

Ah quanto ti sei somigliata oggi quanto

sei venuta dal niente sei rimasta niente col niente

hai fatturato azzeccato giorno,

quanto ti sei giovata di: nevi soli muschi

e sì di querce faggi abeti

come di feliole ebuli aneti,

quanto ti ha giovato oggi il sole il muschio

che ho sparso davanti e dopo i tuoi passi

dal niente, di niente eri assiderata nella stilla

nella lente nella bacca desmìssiete

desmìssiete butta lo slip dispèllati

datti fuoco nella pellicola e i coltelli

Ma e i tuoi indugi e bau-sette e (capo)giri?

Da a dove Per o in?

E non ho confuso il messaggio con un altro? Ho tutto

confuso confuso

nello shockin shocking

non andare ║ vattene ║ così avviene

sono ║ sei ║ il duale ║ e in mezzo

sèi-qua sèi la dùe

e ùno-qua dùe-là morra morra

«No, io non mi sono ancora

no, io non mi sono nata

no, io nido nodoso dei no diamante di mai

no, io sono stata il glissato a lato

no, io non ero la neve né la selva né il loro oltre

eppure e a dispetto e nonostante»

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Quella volta, scendenso a rompifiato di sbieco dal colle,

ho visto ruotare e andar fuori campo il campo de “La Beltà”

sotto la pioggia cesure

in maniera particolare

una maniera tua ║

e parestesie diffuse

diffuse per quel mona di mondo per quel mosto di mondo ║

già ottobrato

Io volevo una vo una volta venire all’ospedale

e per vedere il tuo bene arrivare e partire il tuo male

«No, tu... ah, sì»

«Oh sì, andiamo via-con-la-testa

divaghiamo un poco e anche un molto se vuoi

sulla ferita e sulla dolca colla, tra noi»

Un miraggio di terapia eroica

Quattro o cinque modi di pinzettare o di mettere graffe

suicidio eccidio

o eccidio fantasmatico ovviamente progettato

con un medico-killer aiutocancellatore

o la risorsa essere acrobata andar per sommi

o parlarci di poesia preparare poesia

o rifarci in poesia che guarda caso è strage

sopraffazione appena invetrinata ecco l’arresto

alt nella dispositiva

è necrofilia somma nero sommo

Come te: una broja in sospeso

là un po’ di scrostamento nel valore celeste

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Marogna rifiuti-di-maman incombusti non asportati

con sicumera ti si disse e sicurezza

dall’osservatorio di Dolle, dissero i tuoi amanti

che ti spiano, te dentro i nihilscopi:

marogna dove sprofon sprofonderanno

e non ha uva né magnatico né ossigeno

«Sprofonderesti certo: meglio

invetrinarsi camuffarsi immicrobirsi

o ludismi cromatismi acrilismi

vertiginalmente ║ sparati in faccia ║

e non-essere-mai-se-non-se

con tutta infilata la serie il campionario il disponibile

l’oca badessa l’anatra contessa

il gallo gastaldo la gallina gastaldina

a spiedino a trenino della felicità gli agganci

Mab e Bottom asini e fate

per arti e carmini insieme inquadrati

principessa e guardiano di porci

principessa che sente i piselli sotto mille materassi pirelli»

Aggiorna la conoscenza: Biancaneve:

ho baciato e svestito dalla neve

la bella anestetizzata nel bosco, la neve

«Aggiorna la conoscenza: qualche mia variante:

Mary Poppins nel museo delle cere e l’ichôr della cera

e paradigmi estremi

e spostamenti ablazioni intollerabili

e (in)ferimenti (non direi traumi, più) portati

su me sul femineo femore e fi

portati sul futuro

sul corpo chiuso sul plasma effuso del futuro. Io Mab.»

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Infierimenti: giungono, maman, giungono

ho fame ho voglia gratta gratta e troverai

succhia succhia e diverrai

Il bimbo-lupo di Wetteravia

il 1° bimbo-orso di Lituania

la bimba-scrofa di Salisburgo

Il bimbo Husanpur il bimbo Sultanpur il bimbo di Bankipur

il bimbo-lampo del Cansiglio la bimba-pioggia della Laguna

Smusano annusano grufolano

via accellerare il nastro

la pellicola il moto il mito

maman maman siamo in flou per le selve dietro a te

mantre brucia in Efeso il tuo santuario

e fatale è il momento per le storie

Saltellano si disperdono

Mi sto aggiornando con tanta fatica... la candela sgocciola

sul mio... Forse è temporale è luglio...

E aguzzo i sensi i coltelli i sangui

Polvere di cicale polvere di neve nella scatoletta

polverine per seguirti su su venirti alle costole

Sì, è vero, ero intento ║ agli incerti ║ ai segni del tuo dissonarti

entro la rete di gesti del ferimento;

mi avevi non avevi rimedio

mi avevi tolto filtro e agogie

mi avevi insinuamenti immangiamenti a falde

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

mi avevi ero tutto un rogo di errori (ma)

un sacrore di morfemi e timbri

mi avevi: non senti che l’ho prodotto rifratto trovato dovunque?

«La mia bella mano che già distrinse si

decontrae giace sul lenzuolo sul firmamento tra mosche

e ore in ronzio orbitale e istigazioni e semplicità;

ah come ritorcersi verso un’altra castità

svischiarsi da niente a niente tra due diversi niente,

ma perché mi hanno ferita? ho sentito bisbigliare

ho sentito sparlare scommettere sul mio ferimento.

Mi sento, me, esprimermi sul mio ferimento»

Ho sentito parlare del tuo ferimento

in un nerofilm in un trucco cromatico in un blocco di cronaca

qui dentro l’erbe là fuori nella neve che errava tra i boschi

nel suo udito da sotto il sasso da dentro il sesso

e ║ voglio: sii mondata║

Realizzi, cogli? Tutti giungono le mani

vedi beatrice con quanti beati

vedi la selva con qaunto abeti

giungono le mani giungono le zampine

i pueri feri noi pueri feri mi congiungo

orando pro e contra sul tema del ferimento

«E io: coltivandomi: gelo è il mio-tutto-mio,

coltivando qua e là, per selve e favi fabulei

filami e gemme nel gelo, e quanto, in atto,

mi sono riaccostata risarcita del mancamento,

mancamento di mondo di mio di vostro,

come al dato focale mi riaccosto!»

Giù nell’azzurro si ristora e posa

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

su nel profondo si adagia in più o meno compiuta, in novità.

Da una parte d’altra parte da

onniparte fa fa bianco fa oro fa rosa

«Sgusciare alle spalle dell’amore toccare dietro, ai suoi fondali,

rectoverso. E poi: circolare, circolare.»

«M’indica si ritira scompare

io m’indico scompaio e pallore.»

Non c’è vetta più vetta del tuo essere stata forchiusa

nel roveto o rovente forchiuso e nonfu.

E bisogna raccogliere-su i vetri riattare i pezzetti

riconnettere le infiltrazioni, in filtro

Io ero un osservatore del freddo, sai?

Del graffio colpo brivido nella stratigrafia nivea.

Amavo tutto freddo nel freddo

in nuances d’affinità presunte elettive

tra ebuli e abeti che incorrevano in ricami

«La mia ferita mi ha delibata decifrata

mi ha accompagnata e piegata in profilo di di

di confini, di fatti originari e confinari,

la mia ferita è stata la mia sorte la mia corte il mio forte»

Vivo sarò la tua peste morto sarò la tua morte

Il sempre è accoltellato È in ira

È in un fumetto in ik Ci sei?

«La mia crema la mia ambrosia la mia pappina di bario

nel vasetto dove mi rimpolpo»

59

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

La banchisa e il bianco del gelataio

su cui piovevano foglie verdissime, da-film, da un film,

il cocito di battiti di ciglia

Tivù-e-cinema è la mia consolazione

«Per tivucinema l’animo nostro s’inalza

come se da lui stesso fosse generato

ciò che egli ha udito e visto»

Sempre è volto lo sguardo e l’occhio

in collirio si lacrima

i tuoi occhi collirii, ne tremo,

i tuoi lumi collirii

L’occhio lacrima in fascino tutto il suo liquido interno

e quel che diresti sguardo è un eterno

impuntarsi imperativamente vilmente

Macinare macinare

sparagnare sparagnare

carezzare carezzare (sassi spine braci)

Sono buiotedesco pfui

sono smascellato dalle risa

sono tenero innamorato delicato;

smentite varie, alzare mirare bene.

Ehilà, chi c’è , ahi te, in fondo in fondo al luogo ║

anche se questo cincischio è senza luogo

come tutto il resto, da troppo, troppi cattivi esempi

Ma chi già mai potrebbe

sanar la mente illusa e trarre ad altra legge

60

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

l’ostinato amator de la sua Musa? (D centrale)

Prime approssimazioni a un lunghissimo e e

e finalmente noiosissimo poema

Qui ogni verso potrebbe essere il titolo o il via per un poema

Quanto è dolcemente conformato il tuo concedere.

Ora ti adatti tutta

ora tutto con te si sda vagamente profano

ora cominci dormi tra con tutti

Ora ti dormi tutta

occhi capelli raggi bocca

e l’altre cose dolci che non si toccano

tutta quel tu che non si tocca

Il ricordo di quanto ho sudato e pagato

il ricordo di ciò che non sono mai stato

il rincorrersi ehi-là-sei-tu attraverso il déjà-vu

«Non liquideremo per sempre l’entusiasmo?

E quello che non sarò mai e non volli essere stata

aboliremo devieremo? Non leggeremo più: perì hypsus?»

Ma tu hai questioni

dirottamente immatuaramente favorevolmente

nell’entusiasmo Qui si firma

«Ma tu hai questioni

dirottamente immatuaramente favorevolmente

nell’entusiasmo» Qui si firma

Io o tu o tutti, ho rapporto con queste terre

61

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

con questi sogni di ferite di strappi carnei dirotti

fabulei non mai maturi.

Ma è un funerale un matrimonio un battesimo

un’avventura in sutura?

Procedevamo, staffette in macchinetta e trombetta

con scimmie e yin e yiang e pingpong e Harlekin e Zanni

e folliuzze e gran fitte e decibel a mazzi,

questa imarità a freddo divulgante

forzamento a freddo diffrangimento e calma parità

Ah ballo sui prati ║ Diana ║ ah senhal ║

«Ora me ne andrò me ne andremo sull’altro bordo della ferita

mi lascerò proiezioni di qua nel cristallo

nello stabilizzato nell’in-fuga che che

che èil mio respiro-sospiro»

«Povera cosa, quante povere cose»

e così minima la refurtiva, e poi subito persa

Sei respiro-sospiro. Dimenticavo,

gemito oggi

Passo e chiudo

62

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

3.1 Quando i poeti hanno perso la Luna

Dopo aver riportato l’intero testo di Senhal, guadagneremo

ulteriori punti di riflessione nella lettura compiuta da Giuliana

Nuvoli, nella primissima monografia dedicata a Zanzotto, risalente a

quasi trent’anni fa49:

Provarci allora a raccontarlo, questo coro da tragedia greca che é il poemetto, bellissimo e aspro, con le sue immagini corpose e una scenografia da trilling, e i colori - bianco, rosso, nero – di Lorca. Si apre con il grido acuto della negazione: ed è D., a parlare

«No BASTA, non farlo non scriverlo te ne prego»

e continua col racconto in polifonia delle voci: in prima, seconda, terza persona; descrittivo, fantastico, a singhiozzo, ossessionanti ripetizioni

Il poemetto viene paragonato a un coro da tragedia greca

composto da una polifonia di voci. La Nuvoli analizza le prime strofe

e poi si sofferma sulle capacità anticipatrici della lingua zanzottiana.

Ricordiamo che la monografia è di appena dieci anni dopo, Zanzotto

sul finire degli anni Sessanta aveva già previsto quelli che poi

sarebbero stati gli eccessi degli Anni Ottanta:

Non possiamo, a questo punto, non annotare, anche se brevemente, la sorprendente capacità di anticipazione che Zanzotto possiede di termini, immagini, lessico su opere o avvenimenti che si verificano solo a distanza di anni. Prenderemo ad esempio solo due campioni, uno musicale e uno cinematografico. Il primo che viene spontaneo è l'opera di Luigi Nono Al gran sole carico d'amore,

49 Giuliana Nuvoli, Andrea Zanzotto, La Nuova Italia, Firenze 1979, pp. 92-100.

63

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

rappresentata per la prima volta alla Scala di Milano il 10 aprile 1975. La finalità è identica: la denuncia della violenza, in tutte le sue manifestazioni; identico il protagonista - la figura femminile - e il modulo espressivo: essa emblematizza tutto il genere umano; e la donna è madre, come madre di Pavel e di tutti quelli che nella lotta soffrono e soccombono. Poi la presenza del sangue, continua; e l'uso delle voci in contrappunto; e la solennità tragica delle testimonianze; e il tempo che non ha più uno sviluppo diacronico, ma si sovrappone e diventa vitale proprio in questa sincronia.

I personaggi del coro sono cinquantanove, la Nuvoli cerca allora

di individuarne almeno qualcuno. I due principali sono D. e il co-

protagonista, che si limita a commentare:

Tornando al testo, è interessante individuare, per quanto possibile, qualcuno di questi 59 personaggi. Dunque, in apertura, lei D., i cui interventi (20) sono indicati sempre tra virgolette; il secondo appartiene a quello che potrebbe definirsi il co-protagonista, il quale "commenta" l'azione subita e narrata da D. E il consapevole, il lucido, lo spettatore; la coscienza che si guarda allo specchio e sussulta, ma implacabile parla:

Il coro ha un ben preciso schema di canto e controcanto.

Invitiamo a soffermarci sul fatto che D. non è «né neve, né selva»,

saranno gli stessi termini che userà Agosti per la poesiola composta

in onore degli ottantacinque anni di Zanzotto, su cui ci

soffermeremo ampiamente nell’ultimo capitolo.

Abbiamo usato il singolare (co-protagonista, spettatore) per indicare non tanto la singolarità d'un individuo – Zanzotto aveva esplicitamente indicato come a ad ogni battuta corrispondesse un personaggio diverso, quanto per sottolineare la ripetitività d’una tipologia che si pone, appunto, in "controcanto" a lei che si racconta: lei, «corpo di bellezza» che non è «la neve né la selva né il loro oltre eppure a dispetto nonostante»; lei ferita lei dolorante che conosce per unico rimedio un invito a parlare, a fabulare insieme.

64

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Ma cos’è il poemetto Senhal? La Nuvoli azzarda una ben precisa

ipotesi interpretativa che ha il pregio d’essere compiutamente

sintetica:

È una descrizione dello snaturamento dell'uomo, questa di Zanzotto che avviene a modo suo, attraverso lo snaturamento delle citazioni (Dante, Petrarca, Lutero, Pseudo-Longino, Parini) e, in parallelo della cultura corrente.

Perché le citazioni costituiscono da sempre il fertile humus del

poetare zanzottiano, e non solo. Non si può che citare quello che

qualcuno ha già scritto prima e meglio di noi. E, solo citandolo, farlo

davvero nostro.

Zanzotto ha sempre parlato della scrittura come inserimento in

un precedente coro di citazioni: Senhal costituisce il coro per

antonomasia, un coro che tende al sacro, per tentare di recuperare

tutto quello che la Luna incarnava.

Ma cosa intende Zanzotto quando parla di sacro? Lasciamo che

sia lui stesso a rispondere:

[la poesia] deve conservare l’idea del sacro. Non di quello che fa capo a una precisa religione, ma di una sacralità che è insita nella vita. Oggi, chi pretenda di avanzare verso ciechi aumenti di produzione senza tener conto che basta veramente un nulla per tracollare, si pone contro il sacro, contro la sacralità che da sempre bisogna supporre nella vita. Non occorre far professione di una qualche fede particolare: il sacro cui alludo supera la particolare idea di sacro incarnata dalla singola religione, proponendo qualche cosa che se la si mette in dubbio, se la si tocca… crolla tutto. E su questa tastiera, sono andato avanti…50

50 Immaginazione, cit., p. 8.

65

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

3.2 Uno dei possibili sensi di Microfilm

Una delle possibili letture di Senhal e la concezione della sacralità

della vita, sono le migliori premesse per accostarci a Microfilm. Non

esitiamo ad affermare che il celeberrimo componimento zanzottiano

può essere studiato come il paradigma e il precipitato della sua

esperienza poetica.

66

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Partiamo da un dato incontestabile: Microfilm costituisce il punto

di raccordo tra le due parti di Pasque (i dodici misteri della

pedagogia e altrettante Pasque).

Il poeta solighese la definisce «non invenzione (e tanto meno

“poesia”): ma semplice trascrizione (ammesso che sia possibile) di

un sogno, in cui era compreso anche il commento e probabilmente

molto di più della pochezza e casualità che qui ne appare». E precisa

che è stata aggiunta solo la data.

Graficamente colpisce il triangolo equilatero e la progressiva

sottrazione di significanti che da iodio porta in quattro passi alla

semplice “o”: iodio, odio, dio, io, o.

Lo iodio come recitano tutti i libri di chimica è coinvolto nel

metabolismo di molti esseri viventi, compreso l'uomo.

Chimicamente, è il meno reattivo ed il meno elettronegativo degli

alogeni. Viene principalmente impiegato in medicina, in fotografia e

nella produzione di pigmenti. Medicina, fotografia: attività

spiccatamente umane che da sempre sono state viste con diffidenza

dalla chiesa. Sino ad arrivare a impedire lo studio e la dissezione dei

cadaveri e a scomunicare chiunque fosse stato trovato, in vaticano,

in possesso di una macchina fotografica.

Le tracce di iodio vanno svaporando, perdono una i e diventano il

sentimento più umano e terribile: l’odio. Cade la o e otteniamo dio

che ingloba e fagocita la parte più profonda dell’uomo: l’io. Restano

solo false alternative, dicotomici furori. Tutto il commento,

67

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

autografo, confluisce nel significante lacaniano che è il risultato

finale – secondo l’interpretazione datane da agosti – del percorso

zanzottiano.

Microfilm è stato analizzato a lungo studiato dal Luigi Tassoni che

è critico e semiologo. Leggiamo l’interpretazione che ne offre, a

partire dalla data e dal luogo di composizione (26 ottobre 1963,

sotto il Vajont):

Nel 1963 il poeta sta lavorando al suo quinto libro di poesia, La Beltà, scritto appunto tra il 1961 e il 1967, ma Microfilm anziché essere accolto in questa forse più legittima sede, slitta verso il libro successivo, Pasque, scritto tra il 1968 e il 1973, quasi a riproporre dopo qualche anno una memoria certamente minacciosa, che costituisce il referente storico di Microfilm, cioè il disastro della diga del Vajont avvenuto la notte nel 9 ottobre del 1963: «Avevo saputo della tragedia la mattina del 10 ottobre 1963, mio compleanno (così, sconvolto dalla festività a lutto), quando a noi ignari giunse la notizia, paurosa perché andava crescendo di ora in ora la sua malignità, sempre più fatale nel suo acquistare forza con le ore – dopo che all’alba si erano visti cadaveri e rottami d’ogni genere arrivare con le correnti del Piave ai nostri paesi pedemontani»:

Lo “strambo triangolo farcito di segni grossolani” (simbolo del

triangolo equilatero della tradizione ebraica?) Ha – secondo Tassoni

– sì un “riconoscibile e rudimentale iconismo” ma diventa altro,

come s’evince dalle stesse parole di Zanzotto:51

Erompeva là evidentemente l’inghippo linguistico che sotto fermenta soprattutto quando si scrivono versi: nessuna lingua, e solo una lingua universale-edenica potrebbe essere sufficiente alle pretese dell’espressione poetica, ma di fatto in nessun altro momento colui che scrive è così creato dalla propria lingua storica, così sprofondato nel suo particolare codice.

51 Poesie, p. 1298

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Azzardiamo un’altra ipotesi: Microfilm sta a Zanzotto come

l’autografo dell’Infinito sta a Leopardi. Due situazioni agli antipodi

ma perfettamente collimanti.

I due poeti sono soli e hanno un’esperienza estetica veemente,

leopardi si perde dietro la sua siepe, Zanzotto sotto un onirico

Vajont, ad appena due settimane dalla tragedia. Ad entrambi

“sovvien l’eterno”. Entrambi si lasciano naufragare in un sonno

edenico, alla ricerca di una lingua che possa far testimonianza delle

“morte stagioni” ma soprattutto dei loro rispettivi presenti. Zanzotto

non ha una siepe e un ermo colle ma i cadaveri che gli arrivano

insieme ai detriti fin sotto casa. Solo quel geroglifico può rendere il

senso di quel dolore:

«Io» «volevo» «tradurre» qualche cosa che andava al di là del suono e del segno stesso, che fosse quindi logos cifrato gero/glifo nel senso di trascrizione necessaria e immediata di un groppo di idee (?) ma tutto ciò attraverso elementi di una “stretta” e quasi ridicola puerilità, come già accennai: trattini, aste, e cerchietti, la I e la O che sono poi un piccolo segmento di retta (appunto l’asta infantile) e il cerchietto che qualsiasi bambino può tracciare, e la D, una loro intersezione o combinazione quanto mai significativa.52

Le parole altisonanti e ricercate non offrono appigli, al poeta non

resta che rifugiarsi nel suo particolarissimo eden: i sette anni che fa

rivivere nel ricordo, Microfilm doveva necessariamente essere

incluso nel volume Pasque: prima di risorgere, il linguaggio poetico

deve morire, precipitare nell’abisso della non comunicazione, dove

solo con le aste e i cerchietti si può imparare nuovamente la lingua

52 Poesie, p. 1298.

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

materna, l’unica in cui si può tentare di dire ancora qualcosa sulla

scia di quell’ostinazione a sperare che ci accompagna sino

dall’esergo a questo nostro lavoro.

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

4. Poetiche Lampo

4.1 «Qual è l’ovocellula da cui può nascere una poesia?»

Mezza tesi è già stata scritta ma la poesia di Zanzotto, come la

pantera profumata con cui l’Autore la identifica, continua a

sfuggirci. Necessitiamo di un armamentario adeguato, forgiato con

un sapida pesca nel turbinio di citazioni in cui Zanzotto ha

sapientemente nascosto il senso del suo poetare. L’hysteron

proteron, che continuavamo a replicare, e in cui ci siamo ingolfati

necessita di una manovra a tenaglia, e non di una fantasia di

avvicinamento. Ci siamo già avvicinati, è il momento di catturare la

preda prima che svicoli nuovamente, nascondendosi in un cumulo di

neve o tra le dolle. Partiamo proprio dalla Neve, il nostro primo

oggetto Metonimico. Perché proprio la Neve? Da dove viene la Neve

che può permettere al poeta di ripulire il linguaggio dopo la Guerra?

È lo stesso Zanzotto a svelarne l’origine che affonda nella

metaforicità, l’attributo specie-specifico dell’uomo. Senza metafore

non esisterebbe poesia, ma cos’è la poesia? Partiamo dalla Grecia e

dall’etimologia: Poesia deriva dal greco poièin che indica una

produzione in genere. Poietès è qualsiasi produttore, mentre Musikè

è qualsiasi attività patrocinata dalla nove muse figlie di Zeus e

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Mnemsosine. La poesia, quindi, per i Greci non è arte. Arte è téchne,

qualsiasi produzione esperta, eseguita cioè secondo princípi e

regole. La poesia in quanto dono divino, non è arte. Non si apprende

studiando regole e princípi: o si è toccati dalle muse o non lo si è.

Arte e poesia erano addirittura contrapposte: alla poesia si

riconosceva un elemento spirituale di grado superiore (la «divina

mania») e una capacità psicagogica, guidava gli animi. A questo

aggiungiamo il suo vistoso significato metafisico e il suo alto valore

morale ed educativo.

Inoltre i Greci avevano una duplice concezione della poesia: per

forma e per contenuto. Ma Aristotele condanna questa distinzione

scrivendo che la tecnica versificatoria è lontanissima dall’ispirazione

poetica. Eccoci al punto: per i Greci la poesia era infinitamente

superiore all’arte.

E in Platone? Nelle pagine del Fedro, il miglior allievo di Socrate

presenta una gerarchia delle anime in cui il poeta compare per ben

due volte. Prima al sesto posto, sotto la dicitura «poeta o qualsiasi

altro imitatore» e poi, di nuovo, in cima, accanto al filosofo, sotto il

nome di Musikos, cioè il vero poeta, colui che è stato prescelto dalle

Muse. Platone scrive: «il poeta è un essere leggero, alato, sacro che

non sa poetare se prima non sia stato ispirato dal dio, se prima non

sia uscito di senno e più non abbia intelletto».

Riepiloghiamo: il primo tipo di poesia è solo riproduzione della

realtà in versi, una copia al quadrato: copia della copia (la realtà è

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

già copia delle Idee immutabili, la versificazione copia la realtà…), è

dunque almeno due volte lontana dalla verità.

Il secondo tipo è conoscenza a priori dell’Essere.

Con questa necessaria premessa, possiamo finalmente

guadagnare l’origine del più significativo dei tre oggetti metonimici,

la Neve, che è ossessivamente presente in tutte le sillogi, cercata,

anelata.

Ed è qui che la poesia di Zanzotto risponde alle identiche

domande poste da Hölderlin sull’abisso della sua follia, attributo

sempre necessario per il vero poeta. Prima che la mente

s’annebbiasse e cedesse il passo all’eteronimo Scardanelli, lo stesso

che si congedava dalla vita e dalla poesia con il suo ultimo

celeberrimo componimento, la Veduta del 1843, retrodata di

novantacinque anni. Il 1748, lo stesso anno in cui Pompei ritornò

alla luce per ordine di Carlo di Borbone, re di Napoli:

Quando lontana all’uom l’usata vita

lontan va dove fulgida è vendemmia,

spoglio d’estate anche il campo rimane,

il bosco col suo scuro volto appare.

Se la natura specchia le stagioni,

se essa resta e quelle passan presto,

ciò è compiutezza; il cielo all’uom rifulge

come all’albero i fiori fan corona.

24 maggio 1748

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Con umiltà Scardanelli53

È interessante, proprio la Veduta, la stessa con cui Barthes

identifica l’immagine ignaziana che altro non è che

«una veduta , nel senso che la parola ha nell’arte dell’incisione (“Veduta di Napoli”,[…], ecc.); e questa “veduta” va inoltre presa in una sequenza narrativa, un po’ alla maniera della Sant’Orsola del Carpaccio o delle illustrazioni di un romanzo».54

Leggiamo nel testo degli Esercizi Spirituali, un esempio concreto

di questa veduta:

[65] Quinto esercizio: meditazione sull'inferno. dopo una preghiera preparatoria e due preludi, comprende cinque punti e un colloquio.

La preghiera preparatoria è la solita.

Il primo preludio è la composizione: qui consiste nel vedere con l'immaginazione l'inferno in tutta la sua lunghezza, larghezza e profondità.

Il secondo preludio consiste nel domandare quello che voglio: qui sarà chiedere un'intima conoscenza della pena che soffrono i dannati; così, se per le mie colpe dovessi dimenticarmi dell'amore dell'eterno Signore, almeno il timore delle pene mi aiuti a non cadere in peccato.

[66] Primo punto: vedo con l'immaginazione le grandi fiamme dell'inferno e le anime come in corpi incandescenti.

[67] Secondo punto: ascolto con le orecchie i pianti, le urla, le grida, le bestemmie contro nostro Signore e contro tutti i santi.

[68] Terzo punto: odoro con l'olfatto il fumo, lo zolfo, il fetore e il putridume.

[69] Quarto punto: assaporo con il gusto cose amare, come le lacrime, la tristezza e il rimorso della coscienza.

53 F. Hölderlin, Tutte le poesie, Meridiano Mondadori, Milano 2001, p 1279. 54 R. BARTHES, Sade, Fourier, Loyola, Torino, Einaudi, 1977, 44

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

[70] Quinto punto: palpo con il tatto, come cioè quelle fiamme avvolgono e bruciano le anime55.

L’inferno dei viventi è il destinatario di ogni poesia, che per

estensione può indicare ogni tipo di vera letteratura. Esplichiamo

meglio questa connessione, attraverso – ecco che prepotentemente

ritorna l’umana risorsa della metafora – l’accostamento all’umile

lavoro dell’idraulico, che diventa araldo di una significativa

interpretazione della nostra presenza nel mondo. Perché

«Senza la letteratura la vita non sarebbe altro che una cascata, quella cascata d’acqua ininterrotta sotto la quale tanti di noi sono sommersi, una cascata priva di senso che ci si limita a subire incapaci d’interpretarla, e, di fronte a questa cascata, la letteratura esercita le funzioni dell’idraulico, capta, convoglia, guida ed eleva le acque»56

Ma l’acqua, fonte di vita è diventata prima ghiaccio e poi neve,

dalla neve dobbiamo necessariamente partire, per cogliere una

Poesia che sia capace di ridare senso e sostanza al nostro essere al

mondo. Aristotele lo aveva già scritto nella Poetica ed esplicitato

meglio nel terzo libro della Retorica.

Solo a questo punto la connessione con lo Stagirita e la Natura

appare sfolgorante e necessaria:

αυτή η φύσις διδάσκει τό άρμόττον αυτή αίρεισθαι

Solo la poesia capace di ascoltare la Natura, sarà vera poesia, tale

perchè formata adeguatamente all’oggetto rapresentato. Come

indica il verbo greco harmòzō che significa “adatto, collego,

raccordo”, connesso alla stessa radice di harmonìa, che poi è la

stessa del latino ars.

55 Ignazio di Loyola, esercizi spirituali, nn. 65-7056 Ch. Du Bos, Vita e letteratura, Padova, Cedam, 1934, p.17

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Più avanti Aristotele specifica: «occorre infatti che il poeta parli

pochissimo di sé». Il poeta è tale solo se si dimostra capace di

sentire la voce della vera natura e di ascoltarla, esattamente come si

affermava al principio della poetica «le radici stesse del poetare

sono naturali (physikài)» [48b]. Zanzotto interpreta tale passo alla

lettera e, sulla scia di quanto già fatto dall’autore di Iperione, cerca

di recuperare un dialogo puro con la Natura, purificato proprio

dall’apparato metaforico del ghiaccio e della neve. Che sono

rappresentazione del congelamento dell’acqua vitale dopo il grande

freddo della Guerra che l’ha cristallizzata tra le valli trevigiane. Ed è

proprio tra le sue valli che il Poeta deve cercare quello che sarà

l’unico ponte possibile per recuperare il senso della sacralità

dell’esistenza umana, calata in una particolarissima visione

panteistica. Rileggiamo, solo a questo punto, quello che scriveva

Hölderlin:

«Essere uno con il tutto, questo è il vivere degli dei; questo è il cielo per l'uomo [...] Essere uno con tutto ciò che vive! Con queste parole la virtù depone la sua austera corazza, lo spirito umano lo scettro e tutti i pensieri si disperdono innanzi all'immagine del mondo eternamente uno [...] e la ferrea fatalità rinuncia al suo potere e la morte scompare dalla società delle creature e l'indissolubilità e l'eterna giovinezza rendono felice e bello il mondo [...] un dio è l'uomo quando sogna, un mendicante quando riflette [...] »57

Zanzotto, come ben sappiamo, ha rischiato di finire come e

peggio di Scardanelli, ma poi qualcosa è irrimediabilmente

cambiato. Il passaggio alla nuova dimensione inaugurata da Meteo,

possibile solo dopo aver lottato con le deliranti visioni di Fosfeni,

57 Cfr. F. Hölderlin, Iperione o l’eremita in Grecia,Feltrinelli, Milano 1998.

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

coinciderà con il recupero del senso del sacro. Sacro proprio nel suo

senso etimologico: l’homo sacer che, come ha compiutamente

analizzato Giorgio Agamben nella sua opera del 1995, era colui che

poteva essere ucciso da chiunque e che non poteva, però, essere

sacrificato per un rito. Questi era in una sorta di limbo: restava al di

fuori del diritto umano e di quello divino. Era nuda vita, spogliata di

tutto il resto. Un essere adamitico intoccabile, ecco perché

tutta la poesia della “trilogia” è una vana rincorsa di un contatto, la ricerca impossibile dell’alterità, un retrocedere verso il silenzio. Il contatto impossibile con l’Altro è il tema principale di Fosfeni, fin dalle prime liriche della raccolta.

L’unico legame che si può stabilire è quello sintattico tra le parole (un contatto del tutto interno al sistema, senza la minima possibilità di istituirne uno con l’esterno) . Il linguaggio poetico, nell’intera opera zanzottiana, è l’effetto di una ‘mancanza’ di senso, così la lingua naviga, montalianamente, «nell’insicurezza», in un’atmosfera rarefatta. Il suo scopo è di rappresentare il vuoto, la lacuna, creando un circuito (o cortocircuito?) comunicativo nel quale il senso circola come non-senso, come il risultato di una disseminazione e di una perdita che procede da un nucleo originario negativo. Il senso esiste solo come assenza, come traccia all’interno del non-senso.58

Zanzotto recupera, sulla scia del classicismo hölderliniano, il

ruolo del Poeta così come l’ha delineato Esiodo nel principio della

Teogonia.

Prima di accostarci al testo esiodeo, punto di snodo capitale per

comprendere qual è il ruolo della poesia in questa nostra vita,

dobbiamo ritornare alle origini, che poi è esattamente quello che fa

58 Matteo Veronesi, Op. cit.

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Zanzotto nel recupero del petél, la lingua della sua infanzia, quella

che segue le lallazioni e le olofrasi e che poi, inevitabilmente, cede il

passo al linguaggio storicamente determinato.

Le origini non possono essere che in Omero, tutto discende dal

Grande Cieco di Chio. Cieco proprio perché ha osato alzare gli occhi

al sole per narrare vizi e virtù delle divinità olimpiche. Lasciamo da

parte l’Iliade e discendiamo nella dimensione ctonia dell’incontro –

presumibilmente alle pendici dell’Etna – tra Odisseo polỳtropos,

l’eroe dalla mente colorata59 e Polifemo.

La filosofia inizia coi doppi discorsi che Ulisse svende al ciclope.

Appena dice di chiamarsi Nessuno, la strada dell'Occidente è

segnata: il logos non ha più un significato univoco.

La strada per Esiodo e le sue belle bugie simili a verità è stata

appena disegnata. Si annodano le esperienze, si mischiano mille

storie di rapimenti, di amori passionali consumati sotto la faccia di

teschio spolpato della Luna.

Il vero poeta deve seguire solo il consiglio di Pindaro e

raggranellare i suoi personalissimi kairói. Quali siano gli eventi che

Zanzotto capitalizza sotto forma di poesia appare chiaro. E meno

oscuro dovrebbe risultare il ruolo fondamentale giocato dalla Neve

nel suo percorso poetico. Riepiloghiamo: la Neve è il sacrario sotto

cui attende la voce del mondo che il poeta deve imparare ad

ascoltare, essa inizierà il suo sempiterno canto al principio di una

59 Recuperiamo qui la traduzione di questo termine adoperata da Pietro Citati nel suo omonimo libro.

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

nuova estate che tarda ad arrivare. La Luna da referente extra-

umano – è celebre la definizione aristotelica del nostro mondo come

mondo sub-lunare – è divenuta l’unica spettatrice della nostra

quotidiana guerra contro il rumore dei linguaggi specialistici che ci

allontano sempre più: il meccanico non capisce il medico e il medico

capisce solo un altro medico. Il poeta gioca allora un ruolo di

capitale importanza, deve sacrificare il proprio vissuto per diventare

medium di un messaggio universale che – se tutto andrà nella

direzione giusta – costituirà la lingua franca che farà dimenticare la

torre di Babele. Questi anni si collocano – il titolo del celeberrimo

George Steiner è quanto mai appropriato – proprio dopo Babele.

Ecco la missione del poeta: imparare a tacere, come gli suggeriva

dolcemente la Luna all’inizio di Senhal. Ma il poeta deve essere

capace di inserirsi in una virtuosa staffetta, il Senhal deve essere

ereditato da un altro, se questi si dimostra capace di parlare a sua

volta il linguaggio adamitico della vera poesia. La speranza è allora

abbarbicata sugli steli di gialli topinambur che bucano la Neve e

ridonano all’uomo quello che più gli pertiene: il Soggetto.

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

4.2: Il senso di Hölderlin e Zanzotto per la Neve

Quindi c’è ancora speranza per l’uomo, è questo il senso della

poesia di Zanzotto successiva alla Trilogia. La riabilitazione, se

possibile, può soltanto essere eterna. Eterna perché non ha avuto

un inizio e non avrà mai fine. L’eterna riabilitazione dell’homo sacer

è proprio la poesia:

G. Mi pare di capire che l'eterna riabilitazione è la poesia.

Z: Sì, l'eterna riabilitazione è anche il vissuto che è connesso al farsi continuo della poesia; nello stesso tempo per ci sono i terribili limiti della poesia che nasce e muore in una lingua storica. Fra gli scrittori migranti, ce ne sono tantissimi che scrivono direttamente in inglese, anche quelli dell'ex Impero. Là il valore del significante è molto più basso, perché è la differenza dei contenuti che porta la poesia: il significante scompare. Forse con studi più attenti si potrà scoprire il tipo di genesi che c’è anche nei poeti dell'Impero britannico; perché vengono da un fondo diverso. Quando Dante scriveva la Commedia, il punto unico che affermava la sua identità era il Battistero.60

Il poeta è tale solo in virtù della sua capacità di trovare i più

appropriati nessi tra due campi semantici sempre più lontani.

L’attributo spiccatamente umano diventa allora la metafora, l’uomo

non è uomo perché possiede il linguaggio ma perché, con questo

indispensabile bagaglio, può legare pezzi di mondo che altrimenti

60 Eterna riabilitazione, cit., p. 31.

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

resterebbero monadi: la metaforicità è tipica del dialetto, ecco

spiegata nuovamente l'esigenza del petèl. Ed ecco perché il debito di

riconoscenza con il poeta di Lauffen am Neckar si estingue nella

fondamentale Elegia in petèl:61

Dolce andare elegiando come va in elegia l'autunno,

raccogliersi per bene accogliere in oro radure,

computare il cumulo il sedimento delle catture

anche se da tanto prèdico e predico il mio digiuno.

E qui sto dalla parte del connesso anche se non godo

di alcun sodo o sistema:

il non svischiato, i quasi, dietro:

vengo buttato a ridosso di un formicolio

di dèi, di un brulichio di sacertà.

Là origini - Mai c'è stata origine.

Ma perché allora in finezza e albore tu situi

la non scrivibile e inevitata elegia in petèl?

"Mama e nona te dà ate e cuco e pepi e memela.

Bono ti, ca, co nona. Béi bumba bona. È fet foa e upi."

Nessuno si è qui soffermato - Anzi moltissimi.

Ma ogni presenza è così sua di sé

e questo spazio così oltrato oltrato ... (che)

"Nel quando |O saldamente costrutte Alpi

E il principe |Le "

appare anche lo spezzamento saltano le ossa arrotate:

ma non c'è il latte petèl, qui, non il patibolo,

mi ripeto, qui no; mai stata origine mai disiezione.

Non spezzo nulla se non spezzato ma sùbito riattato,

spezzo pochissimo e do imputazione - incollocabili -

a mimesi ironia pietà;

61 POESIE PP

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

qui terrore: 'na ridotto alla sua più modica modalità.

Per quel tic-sì riattato, così verbo-Verbo,

faccio ponte e pontefice minimo su

me e altre minime faglie.

L'assenza degli dèi, sta scritto, ricamato, ci aiuterà

- non ci aiuterà -

tanto l'assenza non è assenza gli dèi non dèi

l'aiuto non è aiuto. E il silenzio sconoscente

pronto a tutto,

questo oltrato questo oltraggio, sempre, ugualmente

(poco riferibile) (restio ai riferimenti)

(anzi il restio, nella sua prontezza):

e il silenzio-spazio, provocatorio, eccolo in diffrazione,

si incupidisce frulla di storie storielle, vignette

di cui si stipa quel malnato splendore, mai nato,

trovate pitturanti, paroline-acce a fette e bocconi, pupi,

barzellette freddissime fischi negli orecchi

(vitamina A dosi alte per trattarli

ma non se sono somatismi di base psichica),

e lei silenzio-spazio

e lei allarga le gambe e mostra tutto;

vedo il tesissimo e libertino splendore

e il fascino e il risolino e il fatto brutto

e correre la polizia e - nel vacuum nell'inane

ma raggiante - il desiderio di denaro fresco si fa più ardente

di dominio fresco di ideologia fresca;

anzi vedo a braccetto Hölderlin e Tallémant des Réaux

sovrimpressione sovrimpressiono

ma pure

ma alla svelta

ma tutto fa brodo

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

(cerchiamo, bambini, di essere buoni

nel buon calore, le tue brune tettine,

il pretestuarsi per ogni movimento

in ogni momento,

calore non mai tardo nel capire

come credono "certe persone"

anzi astuto come uno di voi

quando imbroglia grilli erbe genitori,

sappiate scrivere ma non leggere, non importa,

iscrivetevi a, per, pretestuarvi all'istante)

ma: non è vero che tutto fa brodo,

ma: e rinascono i ma: ma

Scardanelli faccia la pagina per Tallémant des Réaux,

Scardanelli sia compilato con passi dell'Histoire d'O.

Ta bon ciatu? Ada ciòl e ùna e tée e mana papa.

Te bata cheto, te bata: e po mama e nana.

“Una volta ho interrogato la Musa”

Il senso di questo testo lo spiega meglio di chiunque altro lo

stesso Zanzotto:

Nell’Elegia in petèl dove c’è il riferimento a qualcosa di inaccessibile, esplosivo, a una propulsione verso un fuori del linguaggio, rilevata dalla citazione Una volta ho interrogato la musa. Ma soprattutto il ritorno di Hölderlin là avviene per me come presenza assolutamente necessaria e salvifica nel momento in cui il furore nazista fa scattare le rappresaglie: «una riga tremante Hölderlin fammi scrivere». In quei momenti in cui si insozzava nel modo più turpe la patria di tanti spiriti magni, che perfino è inutile nominare, ritornava per me Hölderlin come un talismano che arrivava a proteggermi, addirittura fisicamente. Né in altro luogo, mi parve sconveniente un’apotropaica trasformazione di Hölderlin (che passa a braccetto col seicentesco Tallémant des Réaux), come se si trattasse di donargli un attimo di accesso al comico. C’è in Hölderlin inoltre un tema che porta costantemente anche nella sua più scabra

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

composizione, a ricordarci con Zagari, se non la presenza almeno la latenza dell’immagine poetica come dono. È un’intuizione categoriale, quella di un primo dono che è fonte ignota e mai totalmente rilevabile del fare di tutti i poeti, anche se in termini Hölderliniani è un dono terribile, che si riconduce (come per altri) ad Apollo che saetta. Ho avuto l’impudenza in una delle prime poesie di Dietro il paesaggio, addirittura di usare proprio l’espressione «viaggiai solo in un pugno, in un seme di morte, colpito da un dio».

In questa necessità di un ethos-memoria, si può dire che appaia la forza di un’etica minima endopoetica, nel senso che il fatto stesso che esiste la poesia, anche se tutto oggi la comprime verso un tacere ed un’emarginazione, è un dono: ma a doppio risvolto. Può anche fornire, infatti, un modello di damnatio memoriae, autoimposto, nel tentativo di mimare certi fenomeni del presente, collaborando, come certe avanguardie a distruggere il senso di intimazione interrogativa che proviene dalla parola. Da dove ricavare quel tipo di buona fede necessario ogni volta per accettare il dettame/dono della poesia, se lo si nega anche al valore di un «a parte» scenico, se non v’è più nemmeno satira, ironia, autoironia che non lasci intravedere la depressione. Si profila un ottenebramento, cupamente simboleggiato dal morbo di Alzheimer, di cui pare oggi che masse enormi siano (più o meno metaforicamente) preda, nel fondo dell’istupidimento mediatico e ludico. Allo stesso tempo, però, i percorsi profondi dell’«essere qualche cosa» vengono pur sempre tracciati dai residui di questa «radiazione fossile», che non sa dirsi autentica se non per quel po’ di connessione che ha con una «resistenza» e con la già tradizionale spes contra spem, a denti stretti.62

In tutto questo sempre più necessario diventa il ruolo della Neve,

in cui spuntano ancora più bianchi perfino i mughetti. «E neve -

come mughetti» scriverà Hölderlin, e Andersen, proprio tra i

mughetti, concluderà la vita del suo Uomo di neve colmo di poesia:

E ormai anche l'inverno era quasi finito.

«Via! Via!» abbaiava il cane alla catena, ma le bambine in giardino cantavano: Affrettati, mughetto, bello e fresco, getta i rametti, o salice.

62 Andrea Zanzotto, «Con Hoelderlin, una leggenda» in Hoelderlin, Tutte le liriche, Mondadori, Milano 2001, pp. XIX-XX

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Venite, cuculi, allodole, cantate! C'è già primavera alla fine di febbraio! Io canto con voi, cuculi, cucù! Vieni, caro sole, esci anche tu!

E nessuno pensò più all'uomo di neve.63

Questo viaggio verso l'origine della poesia ci conduce alle pendici

dell'Elicona dove tutto ebbe inizio, con Esiodo e le sue Muse che si

riferiscono proprio a noi, uomini d'oggi, ridotti a mero istinto, istinto

che coincide con i nostri ventri, con quella pancia che solo saziata ci

consente di metterci in cammino verso la soluzione di queste nostra

incursione, che per forza di cose infittisce quello che vorrebbe

svelare:

“O pastori, cui la campagna è casa, mala genia, solo ventre,noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero,ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare”.

Menzogna e verità, dinanzi ad entrambe l'uomo stringe gli occhi,

abbagliato. Stringiamo gli occhi anche noi, ritorniamo alla nostra

origine, nel ventre della terra, come facevano i fratelli Taviani

superando e celebrando Pirandello in Kaos. La scena dei bambini

che si lasciano scivolare dalla montagna è perfettamente collimante.

Sono gli archetipali sette anni in cui basta uno scolapasta usato

come elmo per sognare d'essere re e imperatore.

E con gli occhi serrati rivediamo l'epilogo, la scena finale

eternizzata dall'ultima folgorante scena di American Beauty:

63 H. C. Andersen, Le fiabe di H. C. Andersen, Hoepli, Milano 2004, p. 75.

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

I guess I could be pretty pissed off about what happened to me... but it's hard to stay mad, when there's so much beauty in the world. Sometimes I feel like I'm seeing it all at once, and it's too much, my heart fills up like a balloon that's about to burst...

...and then I remember to relax, and stop trying to hold on to it, and then it flows through me like rain and I can't feel anything but gratitude for every single moment of my stupid little life...You have no idea what I'm talking about, I'm sure. But don't worry...You will someday.64

Finiva così: un giorno lo sapremo. Sapremo come la bellezza del

mondo riempie l'amore e il cranio prima che l'anima voli via.

Com’essa tracimi verso il cielo che fu solo della Luna. Che può fare

l’uomo davanti al mistero della sua origine? È questo il senso che

diamo al Soggetto così come l’ha inteso e praticato Zanzotto.

Stringere gli occhi perché abbagliato, come facciamo quando il

sole riverbera le sue sciabolate di luce in una landa innevata. La

Poesia coincide con l'essenza stessa del mistero, a voler credere alle

etimologie che tanto piacevano ad Heidegger e ai suoi epigoni più o

meno abili, “mistero” deriva dal latino mysterium, ma anche dal

greco Mystes (cioè “iniziato”). Mystes deriva dal verbo myo, che sta

per “stringo”, mi chiudo, da cui anche miope.

Mysticos, mistico, propriamente significa “misterioso,

riguardante i misteri”. Che poi, dicevamo, è la stessa radice di

miope: colui che non riesce a guardare lontano rimedia al suo deficit

strizzando gli occhi.

64 Trascrizione dello splendido monologo finale del film di Sam Mendes, American Beauty.

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Questa è l'etimologia, una linea che conduce all'origine, sulla scia

di quanto Consolo pone a suggello del proemio al suo splendido

“Spasimo di Palermo”, lì dove proprio storia, mito, verità e dolore si

incagliano: «Ora la calma t'aiuti a ritrovare il nome tuo d'un tempo,

il punto di partenza». Siamo autorizzati in questa direzione proprio

dal fatto che Vincenzo Consolo, prima del tragico epilogo dello

Spasimo, dedica proprio un paragrafo al poeta di Pieve di Soligo.

E allora la poesia, che è vera storia, non può fare altro che

aspirare a diventare di terra, o meglio ancora prendere il posto di un

monte.

È quanto intendeva il poeta messinese Bartolo Cattafi con la sua

splendida Costrizione

Siamo ora costretti al concreto

a una crosta di terra

a una sosta d’insetto

nel divampante segreto del papavero

Questa nostra “sosta d’insetto”, ci permetterà di ascoltare la

natura che altro non è il silenzio delle sirene che torturava Kafka e

contro anche i tappi di cera dello scaltro Odisseo sono difesa vana.

Solo allora la poesia diverrà geologia, studio di questo nostro

mondo, delle sue ere perdute e delle sue vecchia vestigia. Avverrà

l’evento verso cui ha teso tutta la poesia di Zanzotto. La poesia

prenderà il posto di un monte, come ha scritto in un momento di

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

grazia il poeta statunitense Wallace Stevens nella splendida La

poesia che prese il posto di un monte (The Poem that Took the Place

of a Mountain):

Era là, parola per parola,

La poesia che prese il posto di un monte.

Egli ne respirava l’ossigeno,

Perfino quando il libro stava rivoltato nella polvere del tavolo.

Gli ricordava come avesse avuto bisogno

Di un luogo da raggiungere nella sua direzione,

Come egli avesse ricomposto i pini,

Spostando le rocce e trovato un sentiero fra le nuvole,

Per giungere al punto d’osservazione giusto,

Dove egli sarebbe stato completo di una completezza inspiegata:

La roccia esatta dove le sue inesattezze

Scoprissero, alla fine, la vista che erano andate guadagnando,

Dove egli potesse coricarsi e, fissando in basso il mare,

Riconoscere la sua unica e solitaria casa.

Riecheggia Paul Celan e la pietra che, percossa, tace, argomento

su cui ci siamo già a lungo confrontati nel nostro precedente lavoro.

Lasciamo che sia Spadaro, da cui siamo partiti, a chiudere il

cerchio di questo nostro percorso. Apparirà consequenziale

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

l’accostamento con il Grande Gretto di Gibellina che fa proprio

questo: memoria di ciò che stato, rende testimonianza del

terremoto e del conseguente dolore dei gibellinesi. Il Grande Cretto

fa dunque - e possiamo affermarlo senza temere smentite - vera

poesia.

La letteratura dunque non è chiamata a consegnare una parola rinsecchita, ma a permettere una scalata. Scrivere per Stevens è come scalare un monte, avere una direzione, ricordare che c’è una meta, una exact rock, cioè una «roccia esatta», da raggiungere, nonostante tutte le nostre inesattezze. Questa è la scrittura umana, vera, ricca di senso, quella che procede affilata e dritta come una freccia e sa così persino spaccare le rocce e spostare i pini, pur di non perdere la forza della sua direzione. Una scrittura senza una «roccia esatta» da raggiungere è una macchia su carta porosa, stagno inutile e sciolto.

Ecco allora la domanda da porsi davanti a una poesia o a una narrazione: qual è la sua «roccia esatta»? Dove sta andando? Dove mi porta? Quale meta mi indica? E con quale forza? Con quale sguardo? Lo scrittore autentico sa spostare le rocce e trovare sentieri tra le nuvole per guadagnare la vista giusta, il giusto punto di osservazione dove si ottiene una pienezza, una completezza che, dice Stevens, resta inspiegabile. Solo «affacciandoci» dalla vera poesia possiamo guardare in basso e riconoscere la nostra casa. Ecco, ancora una volta, il servizio della letteratura. La letteratura invece è complice insostituibile di un esercizio interiore che dà respiro e consistenza alla vita. A questo punto a me lettore che parlo e a voi lettori che mi avete ascoltato il grande Giacomo Debenedetti direbbe che qui «si tratta anche di te»65.

Continuando su questa scia non può meravigliare che Zanzotto

giunga a questa conclusione attraverso l’esperienza poetica delle

65 Antonio Spadaro, A cosa «serve» la letteratura?, trascrizione dell’intervento d’apertura al convegno “A che cosa serve la letteratura?" (Reggio Calabria, 20 e 21 febbraio 2004) organizzato dalla professoressa Tita Ferro e dalle sue Pietre di Scarto, insieme all’associazione culturale BombaCarta, di cui Spadaro è fondatore e presidente. Cfr. http://www.railibro.rai.it/articoli.asp?id=333

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Pasque. Prima di risorgere, dobbiamo spostare la pietra del

sepolcro: 66

L'ipotesi circa una possibile fuga dalla stretta immobilizzante di Thanatos, a partire da alcuni testi di Vocativo e in maniera crescente fìno all'epifania di Pasque, prende la nuova forma di un appello, una chiamata, una virtuale invocazione di aiuto e collaborazione. Il poeta si rivolge a un altrove/Altro, a un ‘tu’ la cui identità rimane tuttavia fluente e indistinta: «universa impresenza», «semantico silenzio», «nome mai saputo abbastanza», ma anche, secondo immagini meglio ritagliate e che però si riflettono e si stemperano a vicenda, «la madre», «l'amore», «il cielo», la luna (leopardianamente: «o tu che sempre fida ritorni alla núa stanza / dai cieli, luna»), la poesia («esistevi, poesia: pura / [... ] / eri, non eri: mutila / in ciò, più che colpevole; tu come la luna sempre oltre la selva / sempre col vano raggio / pur tra la selva a spanderti»). Piuttosto che una nota o un contorno rilevati con nettezza rispetto allo scorrere delle fantastiche impressioni verbali, prevale l'aspetto di una contaminazione, di una transizione dell'uno all'altro, o dell'uno nefl'altro, degli elementi che dovrebbero definire la struttura alla quale si indirizza e si aggancia la sussistenza delle onde testuali. L'inclinazione della scrittura all’attesa muove i primi passi fra le orbite di una ricettività della psiche che, se avverte la propria limitatezza, percepisce il proprio ‘dipendere da’, ugualmente non conosce ancora altra soluzione che lo67

Continuiamo con l’interessante analisi di Motta, che ha il pregio

di commentare Zanzotto attraverso l’analisi dei suoi testi e la ricerca

delle sue fonti:

La creazione dell'uomo, di ogni individuo, la nascita e costituzione dell'Io, mentre in termini lacaniani corrispondono, dunque alla simbolica rottura dell'uovo primitivo e originario, alla rottura dell'O, che graficamente riproduce la perfetta totalità- nullità di ciò che pre-esiste alla vita letteralmente avvengono per la

66Umberto Motta, Op. cit., p. 89.67 Ibidem.

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fuoriuscita dal ventre materno, sorta di avvolgente e confortevole culla matrice di ogni benessere. Tale movimento, insieme esaltante e drammatico, compare nella poesia di Zanzotto fin da Dietro il paesaggio, dove prevalentemente viene avvertito sotto le specie di una nota insistita di nostalgia, di un richiamo elementare condizione di interezza e contatto i cui esatti contorni, al di qua di essa, non si riesce a percepire che per tramite di figure d’armonia, pace, simbiosi, totale e vicendevole rovesciamento del soggetto nell’oggetto: «O mamma, piccolo è il tuo tempo, / tu mi vi porti perch'io mi consoli / e là v’è l'erba di novembre, / lá v’è la franca salute dell'eacqua, / sani come acqua vi siamo noi. / [...] / Né attingere al pozzo né alle Alpi / né ricordare come tu non ricordi: / ma il sol che splende come cosa nostra, / ma sete e fame all’ora giusto / e tu mamma che tutto /sai di me, che tutto hai tra le mani» (sullo sfondo è tenuto, con pudore, l’episodio evangelico raccontato da Gv. 4, 1-14).

Questa soddisfacente situazione di letizia e di primordiale 'confusione', nell'attimo in cui si deposita sulla pagina, viene tuttavia registrata per la sua estrema fragilità, come fosse destinata a non più protrarsi oltre l'evento-soglia della presentazione al mondo («Con la scorta di te e dell'erba / e di quella lampada precaria / di cui distinguo la fine, / sogno talvolta del mondo e guardo / dall'alto l'inverno del nord»).

Si deve morire per rinascere, ma la nascita è un punto fermo,

imprescindibile. Ritroviamo il nostro senso e la nostra direzione solo

quando affrontiamo e ricuciamo il nostro cordone ombelicale con il

nostro punto d’origine68:

La nascita raffigura perciò, rispetto alla caotica complessità che la precede, l'innesto di una logica separatrice, il principio di una operazione di ordinamento e selezione che smarrisce quanto pare sottrarsi alle geometrie del logos, che perde e abbandona le vicende psichiche non percorribili dalla ragione; in tal senso essa sovrappone creazione a distruzione: porta alla luce e, contemporaneamente, pare ricacciare nell'ombra, nel nulla, ciò che le sfugge, ciò che è altro rispetto alle categorie interpretativi della coscienza in fieri. Così, a lato degli appunti sulla precarietà di una interezza che parrebbe precedere la vita terrena e poi durare, almeno come riflesso

68 Matteo Veronesi, Sulla critica dei poeti nel secondo Novecento (Luzi, Bertolucci, Zanzotto), «Atelier», IX (2004), n. 33, pp. 57-73.

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

indebolito, nei sogni e nei desideri di essa la scrittura di Zanzotto restituisce una serie di immagini enigmatiche, dove la gioiosa dipendenza infantile dal nutrimento materno, immersa nell'impotenza fatica e motrice, è gravata da accenti sottilmente inquietanti. Sui caratteri della stabilità e della immobilità prevalgono infatti le figure, si è detto, dell'evento-soglia, ovvero i contorni del confine o varco da oltrepassare, che attendono ineluttabili per un capovolgimento delle prospettive (dall'universo-totalità della dimensione ‘prima’ della vita, fiduciosamente saldata al corpo-mondo della madre, alla distribuzione primordiale delle parti: dentro/fuori, io/altro). La luce dell'esistenza chiama e colpisce la voce ‘infantile’ della poesia sulla porta della sua casa: «Ci scalda il sole sulla porta / mamma e fìglio sulla porta / noi con gli occhi che il gelo ha consacrati / a vedere tanta luce ed erba69

Concludiamo questo nostro percorso con la lucida analisi di

Veronesi, che si confronta proprio con i temi che abbiamo cercato di

attraversare nel corso di tutto il nostro lavoro:

Chi cerchi, nell’opera in versi, un riscontro di questa vocazione ctonia, di questa perlustrazione di scorie, faglie, detriti, di questa catàbasi che, come già Contini suggeriva, è in certo modo goethiana discesa alle Madri e alle Forme, viaggio «aux sources du poème», verso il «porto sepolto» da cui sorge il poeta coi suoi canti, non avrà che da rileggere alcuni testi esemplari: si pensi a Contro monte, in Elegia e altri versi («là sei, vera pietra e vera terra / che arresta e stringe al muro i paesaggi»), o al «muro aperto da piogge e da vermi» e alla «calce sfinita» di Colloquio, in Vocativo; o ancora, nella stessa raccolta, all’«artificiosa terra-carne» (sorta di rivisitazione della lucreziana daedala tellus) di Esistere psichicamente, alla «faglia senza fondo» di Dal cielo; fino al «bosco» del Galateo, luogo in cui gli orrori della storia sembrano assommarsi all’insondabile vertigine dell’inconoscibile, insidiata dalla lucidità della coscienza letteraria («tabù / di piante invorticate e rintanate giù giù», «crolli rabbiosi nei buchi delle tue tenebre», «ebbrezza dell’ultima faglia»), e fino al recentissimo Sovrimpressioni, ove compare una «valle che per sacra fissura di roccia / porta al più profondo, mai sepolto, / avvento»70.

69 Umberto Motta, Op. cit., p. 94.70 ANDREA ZANZOTTO, Sovrimpressioni, Milano, Mondadori, 2001, p. 78.

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Come accennato, al tema ctonio si affianca e si intreccia quello della corporeità, importante in Zanzotto quasi quanto in Jabès. Un tema che, presente già, in forme forse più tenui ed amabili, nella prima fase della produzione dell’autore («chiaro collo curioso / seno caldo che nutre, / dolce uva nella gola», leggiamo in Declivio su Lorna, in Dietro il paesaggio), nelle sue prove più mature acquisisce via via caratteri di maggior asprezza e scabrosità, come ad esempio in La Pasqua a Pieve di Soligo, in Pasque: «Così reagisce l’organismo sotto tortura, questi urti scosse tossi / sono i toni cardiaci di que quei che ora, quanto ora, percossi / folgorati tacciono». E si ha, qui, un preciso richiamo intertestuale – ai limiti dell’autocitazione – della pagina poetica a quella critica: ho in mente il saggio Leopardi e Ranieri, in cui Zanzotto - leggendo le memorie di Ranieri attraverso l’interpretazione di Arbasino – insiste non già, come avevano fatto De Robertis e gli ermetici, su di un Leopardi lirico, teso alla purezza e all’assolutezza del dettato, ma – in modi espressionistici – su di un presunto Leopardi corporale, materiale, quasi biologico, il cui «corpo di morte» si manifestava in «sieri, gonfiori, squame, doglie». È proprio l’immagine esibita e sguaiata, quasi da «basso corporeo», del «corpo sotto tortura», poc’anzi richiamata, a trovare preciso riscontro nelle pagine su Leopardi.

Ecco spiegato anche il nostro iniziale accostamento al testo

autografo dell’Infinito:

Tornando a Zanzotto, dalle profondità ctonie, e dall’abisso, altrettanto oscuro, della corporeità, alle infinite maschere e alle multiformi risonanze del nulla, il passo può essere breve. E vorrei, quasi emblematicamente, chiudere questa mia «fantasia di avvicinamento» proprio nel segno del nulla, di quel «ricchissimo nihil» che si affaccia già in Da un’altezza nuova, in Vocativo, per riemergere, con un’autocitazione quasi montaliana, in un testo di Meteo: «Quanto mai verde dorme / sotto questo verde / e quanto nihil sotto / questo ricchissimo nihil» (ove non potrebbe essere più chiaro il nesso tra motivo ctonio e motivo nichilistico).

E più avanti tutto diventa ancora più chiaro:

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Il nulla, come l’infinito, è privo di confini, forme, limitazioni (scrive Zanzotto, nella citata poesia di Meteo, che «molti sono gli infiniti» che «convergono» in quel verde sepolto sotto il verde, e che da esso si allontanano, «dimentichi, intontiti»); e non a caso Pascal71, in un pensiero destinato ad attrarre l’attenzione di Leopardi, associava “Infini” e “Rien”.

71 Il filosofo è ricordato anche da Stefano Agosti in L’esperienza di linguaggio di Andrea Zanzotto, in ANDREA ZANZOTTO, Le poesie e prose scelte, a cura di GIAN MARIO VILLALTA e STEFANO DAL BIANCO, Milano, Mondadori, 1999, p. XLV (da questa edizione sono state tratte tutte le citazioni dei testi poetici di Zanzotto, eccezion fatta per Sovrimpressioni).

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5. Alla ricerca del topinambur

5.1 Il Soggetto: Zanzotto e Stefano Agosti

Ogni augurio per Andrea

che ha interrogato la Musa

e Pauline Rèage, i cristalli di neve

e i seccumi-ragni, con passione

di luna che s’inselva, effrangendo

e violando, entro l'idioma,

a moltiplicarne le spine.

Questi sono gli auguri in poesia che Stefano Agosti ha vergato per

Zanzotto in occasione dei suoi ottantacinque anni. Agosti è suo

interprete principale sin dal 1973, da quando ha curato l’edizione

delle sue Poesie. Fondamentale resta il saggio introduttivo che apre

il Meridiano in cui si delinea la poetica del Soggetto, che costituisce

il nostro terzo oggetto Metonimico. Partiamo dalla principale critica

che molti lettori disattenti di Agosti gli hanno rivolto, scegliamo

quella più accesa nei toni e nei modi:

Qui il problema è davvero il corollario critico che gente come Stefano Agosti, peraltro ammirabile nell'acribia con cui esercita la sua prospettiva personale, stende come nebula intorno a un testo. Un testo che non è parole e rimandi: bensì un insieme di forze e potenze. Si veda, per favore, il continuo riferimento radiofonico e/o catodico nella poesia di Zanzotto, per comprendere che questo genio, la chiave di

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

comprensione primaria, già ce la dà dentro il testo. Quanto agli atteggiamenti formalistico/strutturalisti, ci si rivolga in maniera un po' più esclusiva agli apparati retorici - intendo quelli al di fuori di una banale considerazione di cosa sia lo stile. La retorica è persuasione: quindi, anzitutto, si incominci a ragionare meno formalmente (ammesso che lo si faccia, perché bisogna anche capire che cosa diavolo ha in testa un critico formalista quando pensa di percepire le forme) e si inizi un'opera di incursione nell'emotivo puro, che si definisce attraverso le coordinate di coscienza, psiche, storia. Non lo si sa fare? E' un lavoraccio che sembra non presentare canoni rigorosi? Beh, non lo si faccia, allora. Quando spunterà qualche critico che sia in grado di manovrare i necessari saperi che servono a un'operazione simile, si passerà di grado nella percezione accademica e fintopubblica del testo poetico (e del poeta; del poeta; del poeta; non si sa più come dirlo: del poeta - non del suo cadavere). 72

Agosti ha dedicato anni di studi alle opere dell’autore della Beltà

viene liquidato come banale tassonomista.

Analizziamo rigo per rigo proprio la dedica in forma di poesia,

sette righe densissime in cui ogni parola ha un immenso peso

specifico.

L’inizio è una palese citazione da un componimento della Beltà,

la fondamentale Elegia in petèl con cui ci siamo già confrontati e

dove avviene il raccordo tra Hölderlin e la vitale georgofilia –

abbiamo visto che si identica con la pratica della vera, viva e vitale

poesia - che ha salvato Zanzotto sull’orlo dell’abisso. Proprio quando

la vita sembra precludere ogni dialogo, per l’ingerenza dei nuovi

schemi comunicativi, il Poeta si rifugia nella lingua materna, l’unica

in cui può ancora cercare di dire qualcosa. Lottare contro chi vuol

72 Giuseppe Genna, Società delle Menti del 7/04/2003 riportato su http://www.nabanassar.com/genna.html.

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

farlo tacere per sempre. Ed ecco che il riferimento a Pauline Rèage73

si spiega se pensiamo al triangolo equilatero che tanta importanza

avrà in Microfilm. La O diventa anche rappresentazione iconica della

Luna, la luna piena che ritorna prepotentemente, ma la luna non

guarda attonita come il satellite leopardiano: la luna c’è e, anche se

ferita, si inselva, è una discesa nel mondo del detrito e della scoria,

la luna scende dal cielo, effrangendo e violando ma sempre «entro

l’idioma».

È tutta qui la grandezza del poetare zanzottiano che scardina il

legame tra significato e significante quando questo è ormai logoro

per recuperarne ancora più concreto: il dialetto, il petél, la lingua

delle origini.

Ora e solo ora la poesia diventa storia, storia del mondo che è

stato, memoria collettiva e condivisa che non deve andare sprecata

per i virtuosismi dei linguaggi specialistici. Come non ricordare il

latinorum dell’Azzeccagarbugli? Renzo invece di essere aiutato viene

travolto da quel fiume in piena. Ecco perché è stato giustamente

notato che Zanzotto riveste un ruolo fondamentale nella secolare

questione della lingua. Può farlo perché ama e onora l’italiano, lo

stesso italiano che discende dal volgare, dalla lingua del volgo. Ecco

perché la poesia s’identifica con la pantera profumata d’ascendenza

dantesca. È la lingua parlata, piana, reale, la lingua storicamente

determinata. L’unica in cui si può dire qualcosa al mondo, anche se il

73 Pauline Réage pseudonimo sotto il quale l'autrice francese Dominique Aury ha pubblicato il romanzo Histoire d'O. Il libro - che narra di un rapporto erotico morboso tra O e l'amante, che la spinge tra le braccia di altri uomini - suscitò scandalo alla metà degli anni '50, al punto da valere all'editore francese l'accusa di oscenità.

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mondo non vuole, né può ascoltare. Le neolingue sono le stesse con

cui troppi Grandi Fratelli vogliono controllare le menti e le vite degli

uomini.

E la Luna nel suo viaggio “entro l’idioma” si fa tutt’uno con la

selva del linguaggio. Non una lingua astratta ma una lingua

storicamente parlata e determinata dal suo uso. In questo inselvarsi

le spine invece di diminuire, inevitabilmente aumentano. È l’unica

strada per poter recuperare il Soggetto, l’uomo storicamente

determinato.

Ed è tra le pagine di Meteo che questo passaggio avviene,

quando l'instabilità del clima appare intimamente legata ai sistemi di

comunicazione umana e al succedersi continuo delle previsioni.

Zanzotto accosta questo all'osservazione della dimensione

soggettiva: è la meteoropatia che, da patologia stimolata dalle

variazioni climatiche, diventa il punto d’incontro tra il Soggetto, la

Natura e la Storia. Che poi è il destino di Zanzotto che, in un

significativo autoritratto, scrive:

“Anche se non ho mai perduto il contatto con i centri della vita culturale italiana, sono rimasto in disparte. Mi chiedo spesso il perché di questo fatto. Circostanze mi legarono al paese; ma in fondo non sentivo particolari stimoli a partire, pur non essendo felice di restare”.74

74 Citato in Pasquale Di Palmo, Le prime edizioni di Zanzotto, Wuz n.10, Ottobre 2002.

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La sua Neve lo lega a doppio filo alla sua terra, non può lasciarla,

il destino del poeta è quello del guardiano del faro, la stessa

immensa solitudine e la stessa indispensabile presenza.

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5. 2 «Che botto! / Mi si è rotto Zanzotto»

È giunto il momento di affrontare l’ultima – in ordine meramente

cronologico - stroncatura di Zanzotto. Una stroncatura che inizia in

forma di mottetto ironico che poi affonda, snaturando ogni possibile

dialogo. L’autore, Giorgio Manacorda, si sofferma con interessanti -

ma non per questo condivisibili – argomentazioni sulle mancate

promesse che sembravano brillare nella Beltà.

Che botto! Mi si è rotto Zanzotto:

da sotto sale

alla distanza male,

il linguaggio si scuce

e produce dislessico

il collasso anoressico

del significato e del senso,

e il grande manierista

ha divorato l'artista

[…] Ma la mia delusione è stata grande, questo lo devo dire perché ho sempre pensato che Zanzotto fosse un poeta che sbagliava, ma che fosse un poeta - e dentro di me mantenevo l'illusione che quei primi libri l'avrebbero riscattato. Insomma, mi illudevo che Dietro il paesaggio o Vocativo fossero la sua Ragazza Carla. Naturalmente oggi mi chiedo quando è cominciato il grande equivoco e perché. Tutto ha inizio, mi pare, nel 1968 (veramente un anno chiave), quando uscì la Beltà. Sembrò un miracolo perché coniugava «magicamente» l'afflato della lirica con la ricerca linguistica. Cosa che, allora, sembrava impossibile, ma quanto mai necessaria, visto che tutto si muoveva nella direzione della riduzione, dell'impoverimento, dell'azzeramento di qualsiasi

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potenzialità del linguaggio poetico: la lingua era materia e merce. Zanzotto accettava questa dimensione, ma sembrava anche affrancarsene, sembrava spostare i materiali verso la lirica: in tutta quella negazione ricompariva il sublime. Allora non capimmo che si trattava della stessa cosa, o per lo meno, che una logica ferrea teneva insieme vuoto e sublime. Il sublime di Zanzotto, infatti, non aveva radici e benché meno contenuti o significati. Era un'idea della poesia come luogo della perfezione e della rarefazione, una sorta di cristallino empireo, qualcosa alla fine, di non troppo diverso, nella sua astrazione dal nulla, dalla pagina bianca.75

Abbiamo cercato di dimostrare che proprio la ricerca della pagina

bianca, bianca come la neve, è stato l’obiettivo del percorso

zanzottiano. Un recupero di un nuovo punto d’origine. Manacorda

continua definendo i primi libri gusci vuoti, proprio dove Zanzotto

affonda nei meandri della sua emozionalità più vera e rovente,

Manacorda intravede l’ennesimo fuoco fatuo delle avanguardie:

Ma il paradosso, che ha dell'incredibile, è che la Beltà è proprio il libro in cui Zanzotto va - o crede di andare - oltre la perfezione del freddo e del gelo (metafora che torna ossessivamente in tutta la sua opera) perché La Beltà è il libro in cui egli, aprendo la forma agli sventramenti già operati dalla neoavanguardie, crede di muovere verso la vita, e invece va solo verso la merce, verso un'altra forma di morte. Nella sua ansia di perfezione, Zanzotto nei primi libri ha costruito dei gusci che si sono infranti sia per intrinseca inadeguatezza (non erano in grado di esprimere alcunché) sia per intrinseca fragilità formale [...], col che, ai primi turbamenti letterari, tutto è franato. Ma, soprattutto, tutto è franato, perché un edificio letterario non si tiene in piedi se non c'è la sostanza «emotiva» della poesia.76

La ricreazione del mondo passa necessariamente attraverso la

ricreazione del linguaggio. Zanzotto ha sicuramente ben presente la

75 Giorgio Manacorda, La poesia italiana oggi, Castelvecchi, Roma 2004, p. 486-489.76 Ibidem.

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distopia orwelliana di 1984: il controllo totale s’ottiene solo

attraverso la Neo-lingua77. E gli ultimi straordinari libri in cui

Zanzotto ha portato a compimento le sue premesse vengono

frettolosamente liquidati come “quaderni d’appunti”.

I libri di Zanzotto dopo la Beltà sembrano quaderni di appunti: materiali che potrebbero diventare poesia: lacerti, reperti, schegge dell'impotenza linguistica: residui di ciò che all'origine (ma quale origine?) ha provocato l'espressione linguistica.78

Abbiamo bisogno di una connessione concreta, un’analogia forte

che dissipi ogni dubbio. Proponiamo solo ora una lettura zanzottiana

del Grande Cretto di Alberto Burri, la monumentale opera che ha

ricoperto i resti della vecchia Gibellina, distrutta dal terremoto del

Belice nella notte tra il 14 e il 15 gennaio del 1968. Casualmente è lo

stesso anno della Beltà.

77 Cfr. George Orwell, 1984, Mondadori, 2000.78 Giorgio Manacorda, Op. cit., p. 489.

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5.3 Una lettura zanzottiana

del Grande Cretto di Alberto Burri

La Sicilia ha la sua personalissima pietra della Resurrezione

nell’imponente e maestoso Grande Gretto di Gibellina. Lasciamo che

a spiegarne l’origine siano gli stessi autori

Andammo a Gibellina con l'architetto Zanmatti, il quale era stato incaricato dal sindaco di occuparsi della cosa. Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l'idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest'avvenimento. Ecco fatto! (Alberto Burri, 1995)79

Un ricordo perenne, un sudario di cemento bianco, bianco come

la Neve che ci accompagnato lungo questo nostro difficile percorso.

Che ha avuto l’andamento della scalata:

Preparammo le planimetrie perimetrando la zona dell'intervento con un rettangolo che copriva quasi tutta la superficie dei ruderi eliminando le sfrangiature perimetrali. Solo allora capimmo la grandezza del progetto, l'opera copriva più di dieci ettari di superficie, da stupire i Faraoni ma non Burri che impaziente, su un plastico del terreno, preparato in quattro e quattr'otto, distese nei limiti del rettangolo ipotizzato la sua superficie di malta bianca per ottenere il cretto. Incise la rete viaria principale lasciando che il

79 Citato in Giuliano Serafini, Burri, Art Dossier n. 62, Giunti, Firenze 1991, pp. 37-39.

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cretto (cioè le crepe) si formasse spontaneamente. Si prepararono i disegni esecutivi che prevedevano l'abbattimento dei muri ancora in piedi e pericolanti, compattando poi le macerie e rivestendole con rete metallica, secondo le forme del progetto e il tutto ricoperto di cemento bianco. (Alberto Zanmatti)80

Il senso zanzottiano di questa splendida opera metafisica è tutto

in quel ricompattamento delle macerie, è questo il senso della

Poesia, così come Zanzotto l’ha intesa e continua a praticarla nella

lucidità della sua splendida senilità.

Il giudizio di Cesare Brandi è perfettamente collimante con le

direzioni che abbiamo seguito lungo questi tortuosi itinerari

zanzottiani, parla di altri Cretti, ma i Cretti di Burri sono variazioni

della stessa idea:

Il grande Cretto è opera di pace, anche se torva come un’opera di guerra: il grande Cretto è opera d'arte anche se sembra un’opera della natura. La sua idealità - uso apposta la parola che non è di moda - questa sua mancanza di ideale, di sovrastrutture iconologiche, che suscita però quegli echi profondi di cui ho già parlato, quelle assonanze irrecusabili, come i muri poligonali che sembrano preistorici anche se non lo sono. Le connotazioni vulcaniche, come con l'ossidiana, danno al grande Cretto quella risonanza come di forza cosmica, lo strappano a quel presente in cui insiste, lo ripongono ad una distanza incommensurabile, come visto col telescopio: è qui e non è qui, e non si potrà mai toccare con mano, anche se si tocca con mano: e che toccate allora, se non un coccio nero, mentre la sua presenza vi affolla l'attimo che scorre e quasi atterrisce?

Tutto questo, d'essere lontano e vicino, di essere in presenza, senza limitazione di tempo, è il primo requisito dell'opera d'arte, è il modo di essere dell'opera d'arte. E cosa sono allora tutte le assonanze che provoca, se non un modo di ancorare la sua figuratività come ad un soggetto segreto, riempiendolo in direzioni diverse, ma non dispersive, perché tutte hanno lo stesso significato,

80 Ibidem.

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di forza immane, di ordine nel disordine, di ritmo nell'espressione aritmica, di regolarità nella irregolarità, di simmetria nella dissimmetria? E non è questo, non già un contenuto narrativo, ma un contenuto ai limiti dell’ineffabile, che è sempre quello e solo quello che al di sotto delle apparenze, si finisce per trovare nell'opera d'arte, che, se tale, è sempre un ossimoro, una fusione di opposti, una dismisura nella misura? E in questo cozzo di immagini che scatena in chi lo guarda, non c'è forse la sua presenza indubitabile alla vostra coscienza, la sua irrecusabilità, infine, quella che io ho chiamato la sua astanza, una presenza piena, una presenza dinamica, un'irrealtà reale?

Naturalmente il discorso vale per tutte le opere di Burri, ma per questa ha addirittura un’evidenza didattica. E infine le sue dimensioni colossali. Quanti Cretti ha fatto Burri prima di concepire a quale grandiosità potevano ascendere. Bastava vedere, in un angolo, accanto al grande Cretto, il bozzetto da cui il grande Cretto è nato: sembrava un giocattolo, e quello, che era il primo originale, appariva una riduzione, una riproduzione in piccolo. Anche questa reazione intuitiva non era sbagliata, perché insegnava la imprescindibilità delle proporzioni per l'opera d'arte. Vedete la cupola di San Pietro, forse che il modello ligneo del Museo petriano, è pari alla cupola in se stessa? Ma la cupola è solo la cupola nelle sue sovrumane proporzioni, in questo suo porsi sempre da lontano e mai da vicino, perché l'occhio la possa abbracciare. Questa misura colossale del grande Cretto è la sua, e non è quantitativa ma qualitativa, il Cretto non è ingrandito dal modellino, ma è il modellino che è rimpicciolito, allo stesso modo che l'originale è la cupola, non il modello.

Siamo dunque arrivati allo stesso punto, anche con un'altra partenza; qualsiasi approccio che si tenti con il grande Cretto fa giungere alla stessa conclusione, che è opera d'arte, ed è questo che per me conta, quando l'arte si dà per morta, quando si ha quasi la paura di pronunciare una parola che fa tutt'uno con quella di civiltà.81

I Cretti, come la vera Poesia, rendono testimonianza delle

passate stagioni, fanno continuamente memoria, sono Storia che si

incarna e si innerva lungo le piaghe che l’uomo si è inflitto da

quando ha creduto d’avere per sempre perduto la speranza.

81 Cesare Brandi, Scritti sull’arte contemporanea, Einaudi, Torino 1979, vol. II, pp. 18-19.

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Conclusione

Quello che la Poesia ditta dentro

La vera conclusione di questo nostro lavoro è la connessione

tra la poesia di Zanzotto e il Grande Cretto di Gibellina.

Ma vogliamo rendere omaggio al Maestro ricalcandone lo

schema che sorregge il poemetto che ha costituito il cuore del

nostro percorso. Ci limiteremo, dopo aver affrontato i grandissimi

referenti del Nostro, a fare quanto ha già compiuto Godard con le

sue Histoire(s) du cinema.

Monteremo insieme una emblematica foto, la sua didascalia e

una celeberrima canzone degli anni Settanta. I pezzi di questo

accostamento saranno separati soltanto dalla riproduzione di una

voce di un vecchio dizionario etimologico.

Il senso di questo nostro scritto è tutto nel suo titolo,

dovevamo scegliere necessariamente che sentieri imboccare per

non perderci nel mare magnum dell’opera zanzottiana che, dal

Meridiano Mondadori ad ora, s’è arricchita di nuovi articoli – come

quello su Dante e il suo tempo che abbiamo riportato per intero nel

paragrafo 1.5 – e di nuovi autori che sono stati avvicinati da

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Zanzotto che continua dalle sue valli a seguire lo svolgere degli

eventi del mondo. La sua poesia ha evidentemente subito un

processo di rarefazione, il giornalismo è diventato storia, la storia è

diventata monito lapidario, reperto geologico, cristallo di ghiaccio.

Le belle parole delle vecchie poesie hanno lasciato prima il passo a

grafemi e segnali stradali, formule matematiche che ora sono

scivolate dalla pagina, bianca, sempre bianca, come un manto di

neve. Nel suo nuovo ruolo di nonno il grande poeta solighese sta

squadernando i suoi ricordi con occhi puri, lo sta facendo per il

piccolo Andreino,82 per fargli assaporare la meraviglia e fargli

lievitare la speranza. Ma sa bene che il Male c’è stato, c’è ancora e

sempre ci sarà, non può evitarlo. Può però cercare altri oggetti su cui

poetare, i topinambur, i discorsi dei vecchi contadini con le mani

callose e la faccia di rughe che sembrano tracce di montagne in

ingiallite carte geografiche. La pantera profumata è forse davvero

inafferrabile, bella, impossibile da raggiungere. Noi l’abbiamo

intravista solo un istante, in un tramonto sul principiare dell’inverno

tra le strade del Grande Cretto della vecchia Gibellina, bianco e

abbacinante come una lastra di ghiaccio.

Concludiamo queste pagine azzardando, lo ripetiamo, un

accostamento in perfetto stile zanzottiano. Ci terranno compagnia

quei desideri con cui abbiamo l’esigenza morale di confrontarci per

lottare contro lo sterminio dei campi.

82 «Dovrei liberarmi di molti libri: ma stento al farlo, perché mi ricordano momenti molto intensi, come queste oscillazioni interiori tra sacralità e non sacralità, quasi dovute a una sorta di moto affettivo che cambia continuamente direzione. E poi ho avuto anche la fortuna, che ormai non ritenevo nemmeno possibile, di avere un nipotino… E allora, di fronte all’ auctorictas di un nipotino… cadono le riserve su tutto e bisogna andare avanti» Immaginazione, p. 8.

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È quello che abbiamo cercato di dimostrare, la nostalgia per

quel mondo lunare perduto - forse per sempre - è il luogo emotivo

in cui si è rifugiata la poesia, esattamente come il Tu di Atemwende

la riponeva nell’Atemkristall, il cristallo di respiro, la tomba di

ghiaccio in cui l’«incontestabile testimonianza» riposava attendendo

il momento in cui l’Io l’avrebbe conquistata per farla diventare – non

può essere un caso – parola di luna.

Siamo autorizzati in questo inedito procedimento

ermeneutico dallo stesso Zanzotto e dal suo cammino poetico.

Perché «non c’è strada che non sia di camminare».

La lettura ha un suo simbolo iconografico. È una fotografia scattata nel 1940, durante i bombardamenti tedeschi di Londra. Mostra le macerie di una biblioteca. Al di là del soffitto crollato si vedono i fantasmi degli edifici circostanti; al centro del pavimento,

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

un intrico di travi crollate e di mobili in frantumi. Ma tutt’intorno gli scaffali sono rimasti in piedi, e i libri ancora ordinatamente allineati sembrano intatti.

Tre uomini sono ritti in piedi fra le rovine. Uno come se fosse incerto sul libro da scegliere, sembra leggere i titoli sui dorsi; un altro, con gli occhiali, sta tirando fuori un volume; il terzo legge, tenendo un libro aperto fra le mani.

Non stanno voltando le spalle alla guerra, non ignorano la distruzione. Non stanno cercando nei libri un’alternativa alla vita. Stanno tentando di resistere, di superare i tempi bui: di riaffermare il diritto di cercare una risposta, di capire: fra le macerie sperando in quell’improvvisa, meravigliata intuizione che talvolta ci dà la lettura.83

Questa è la prima scena di questo primo congedo dalla poesia

di Andrea Zanzotto che ci ha tenuto compagnia per quasi due anni.

La speranza talvolta si nasconde tra le coste di vecchi libri, sotto un

soffitto crollato.

E quando la Guerra finisce non resta che festeggiare lo status

di sopravvissuto, ma come ci insegna la parabola della zizzania84, il

Male è inestirpabile, non sta a noi dividere il grano dalla pula. Non ci

resta che desiderare, cercare il nostro sentiero per le stelle.

83 Alberto Manguel, Una storia della lettura, Mondadori 1999, pp. 311-312. Quanto delineato da Manguel vale, se possibile, ancor di più per la Poesia così come ZANZOTTO l’ha intesa e la continua a praticare.

84«Un’altra parabola espose loro così: “Il regno dei cieli si può paragonare a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi la messe fiorì e fece frutto, ecco apparve anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania? Ed egli rispose loro: Un nemico ha fatto questo. E i servi gli dissero: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio”». (Mt 13,24-30)

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Cerchiamo di ritrovarla la strada per le stelle, lungo le orbite con

cui la luna ci abbraccia notte dopo notte. In un cielo che un tempo fu

anche delle lucciole e dei poeti. Festeggiamo pure lo scampato

pericolo ma la Nera Signora ci troverà sempre.

C'era una gran festa nella capitale

perché la guerra era finita.

I soldati erano tornati tutti a casa ed avevano gettato le divise.

Per la strada si ballava e si beveva vino,

i musicanti suonavano senza interruzione.

Era primavera e le donne finalmente potevano, dopo tanti anni,

riabbracciare i loro uomini. All'alba furono spenti i falò

e fu proprio allora che tra la folla,

per un momento, a un soldato parve di vedere

una donna vestita di nero

che lo guardava con occhi cattivi.

[…]

“Sbagli, t'inganni, ti sbagli soldato

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Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

io non ti guardavo con malignità,

era solamente uno sguardo stupito,

cosa ci facevi l'altro ieri là?

T'aspettavo qui per oggi a Samarcanda

eri lontanissimo due giorni fa,

ho temuto che per ascoltar la banda

non facessi in tempo ad arrivare qua”.85

Ma anche se la Nera Signora ci dovesse trovare prima del tempo,

mai e poi mai potrà toglierci le nostre notti al chiaro di luna, occhi

negli occhi di chi amiamo riamati, che è lo stesso Manguel a scrivere

che, quando abbracciò per la prima volta quella che sarebbe

diventata poi sua moglie, capì che ci sono cose che non troveremo

mai in nessun libro. Quei rettangoli di carta e parole ci hanno letti

mentre noi li leggevamo, ma la vita è tutta nel profondo giallo di un

fiore che buca la neve.

Non sapremo mai se l’uomo ha davvero saltellato sulla Luna

ma sarà comunque vero quello che cantava Max Gazzè sulle parole

di suo fratello Francesco:

Base terra qui tranquillità

anche se le gambe tremano

d’emozione e di quella paura

85 «La canzone, apprezzata per il ritmo e il ritornello molto orecchiabile, narra di un soldato che, sopravvissuto nella guerra appena finita, sta festeggiando lo scampato pericolo quando, all'improvviso, tra la folla vede la morte. Credendo che sia lì per lui, scappa in un paese lontano (Samarcanda) ma, proprio in quel luogo, trova la morte ad attenderlo, anche lei stupita di vederlo, solo due giorni prima, molto lontano da Samarcanda, dove lei sapeva che lui doveva morire. La canzone, come riportato nell'interno della copertina, e anni dopo in un intervista al cantante in "Parole e Canzoni" a cura di Vincenzo Mollica, è ispirata ad una favola orientale presente nel frontespizio del romanzo Appuntamento a Samarra di John Henry O'Hara». Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Samarcanda_(album)

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che un uomo coraggioso come me

no dovrebbe mai tradire

ma se verrà il momento di raccontare tutto

Non saprò spiegarvi questo forte silenzio… 86

Che altro non è che la sempiterna variazione del filosofo che

guarda estasiato la luna riflessa nel pozzo e finisce per cadervi

dentro. Dobbiamo trovare il coraggio di alzare gli occhi al cielo,

perché, come ci hanno insegnato alle elementari, Galileo non fu

grande perché inventò il cannocchiale ma perché ebbe il coraggio di

puntarlo al cielo («How many times must a man look up/Before he

can see the sky?» si chiedeva Bob Dylan, l’ebreo errante). Galileo

guardò proprio la luna, ne scoprì i crateri, e la luna iniziò a perdere

lentamente e inesorabilmente il suo alone di magia.

Potremmo vanamente moltiplicare gli esempi: Brucia la terra

suonata dal figlio di Michael Corleone nel terzo film della serie del

Padrino, Ciàula scopre la luna87 del grandissimo Pirandello, la

86 M. Gazzè/ F. Gazzè/ M. Gazzè, «Questo forte silenzio» in Ognuno fa quello che gli pare?, Virgin 2001.

87 «Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna. Sì, egli sapeva, sapeva che cos'era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna? Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva. Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna... C'era la Luna! la Luna! E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell'averla scoperta, là, mentr'ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore». Luigi Pirandello, «Ciàula scopre la luna» in Dal cielo al naso (http://www.filosofico.net/pirandellonovelle/dalnaso/quattro.htm).

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bellissima scena della gigantesca luna ne La Tigre e la Neve di

Benigni88.

Preferiamo però che ognuno ricordi la propria personalissima

Luna, la sua Luna “soggettiva”, da lasciare spuntare piano in mezzo

al suo «mare di citazioni».

88 Un film volutamente costruito cucendo insieme citazioni di grandi Poeti: Zanzotto e Celan compresi. Cfr. Roberto Benigni, «Ecco tutti i poeti che hanno scritto la mia Tigre», Repubblica, 23/05/2006. Soprattutto: «Anche Walter Benjamin sognava di pubblicare un libro interamente fatto di citazioni. “A me manca l'originalità necessaria”, gli ha risposto George Steiner. Però sarebbe piaciuto perfino a lui. Infatti, subito dopo il creatore di una buona frase viene, in ordine di merito, il primo che lo cita. […] Altrimenti cosa farebbero autori come Paul Celan, che ha detto: “Non ho mai saputo inventare”? E tu, caro lettore, credo che sarai d'accordo con me».

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Bibliografia

Opere di Andrea Zanzotto

Dietro il paesaggio, Mondadori (Lo Specchio) Milano 1951

Elegia e altri versi, con una nota di Giuliano Gramigna, Edizioni

della meridiana (Quaderni di poesia, 4), Milano 1954

Vocativo, Mondadori (Lo Specchio), Milano 1957

IX Egloghe, Mondadori (Il Tornasole), Milano 1962

Sull'Altopiano, Pozza, Vicenza, 1964; poi in Racconti e prose,

introduzione di Cesare Segre, Mondadori (Oscar Oro), Milano 1990 -

poi Sull'Altopiano e prose varie, introduzione di Cesare Segre, Neri

Pozza, Vicenza 1995; poi Sull’altopiano, a cura di Maria Corti, Manni

2008

La Beltà, Mondadori, (Lo Specchio), Milano 1968

Gli sguardi i fatti e Senhal, Tipografia Bernardi, Pieve di Soligo

1969 - poi con piccole varianti, in Gli sguardi i fatti e Senhal, con

litografie di Tono Zancanaro, Il tridente 1969 - in Gli Sguardi I fatti e

Senhal, con un intervento di Stefano Agosti e osservazioni

dell'autore, Mondadori (Lo Specchio), Milano 1990

114

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

A che valse? (Versi 1938-1986), strenna per gli amici, Scheiwiller,

Milano 1970

Pasque, Mondadori (Lo Specchio), Mondadori, Milano 1973

Poesie (1938-1972), a cura di Stefano Agosti, Mondadori ("Gli

Oscar Poesia"), Milano 1973

Filò. Per il Casanova di Fellini, con una lettera e cinque disegni di

Federico Fellini, trascrizione in italiano di Tiziano Rizzo, Edizioni del

Ruzante, Venezia 1976 - poi con varianti parte di Filò e altre poesie,

Lato Side (Lato Side 86), Roma 1981 (alle pp. 6 e 40 sono riprodotti il

secondo e il quinto disegno di Federico Fellini dell'edizione Ruzante)

- in Filò. per il Casanova di Fellini, con una lettera e cinque disegni (in

realtà quattro) di Federico Fellini, trascrizione in italiano di Tiziano

Rizzo, Mondadori (Lo Specchio), Milano 1988

Il galateo in bosco, prefazione di Gianfranco Contini, Mondadori

(Lo Specchio), Milano 1978

La storia dello zio Tonto, illustrazioni di Maria Concetta Mercanti,

Lisciani & Giunti ("C'era non c'era"), Teramo 1980

Filò e altre poesie, Lato Side (Lato Side 86), Roma 1981 con

allegati il secondo e il quinto disegno di Federico Fellini dell'edizione

Ruzante, la sezione Mistieròi e la Nota ortografica, con varianti in

Mistieròi. Poemetto dialettale veneto, con 10 riproduzioni di

acqueforti di Augusto Murer, Castaldi, Feltre 1979 - poi con varianti

in: Andrea Zanzotto - Amedeo Giacomini, Mistieròi-Mistirùs.

115

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Poemetto in dialetto veneto tradotto in friulano, con una postfazione

di David Maria Turoldo e tre riproduzioni di acqueforti di Giuseppe

Zigani, Scheiwiller, Milano 1984 (allegata lettura dei due autori, su

nastro magnetico)

Fosfeni, Mondadori (Lo Specchio), Milano 1983

Mistieròi-Mistirùs (traduzione in Friulano di Amedeo Giacomini),

Milano 1985

Idioma, Mondadori (Lo Specchio), Milano 1986

Racconti e prosa, introduzione di Cesare Segre, Mondadori,

Milano 1990

Fantasia di avvicinamento, Mondadori, Milano 1991

Poesie (1938-1986), a cura di Stefano Agosti, Mondadori (“Oscar

Poesia”), Milano 1993

Aure e disincanti del Novecento Letterario, Mondadori, Milano

1994

Sull'Altopiano e prose varie, introduzione di Cesare Segre, Neri

Pozza, Vicenza 1995

Il Galateo in Bosco, prefazione di Gianfranco Contini, Mondadori

("I Classici dello Specchio"), Milano 1996 (nei risvolti di copertina

passi antologici di Giovanni Giudici e Giovanni Raboni)

116

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Meteo, con venti disegni di Giosetta Fioroni, Donzelli

("Poesia/1"), Roma 1996

Sovrimpressioni, (Collana Lo Specchio, I poeti del nostro tempo)

Mondadori, Milano 2001

La storia del Barba Zhucon e La storia dello zio Tonto, immagini di

Marco Nereo Rotelli, (Collana bambini), Corraini, Mantova 2004

Colloqui con Nino, a cura di Andrea Zanzotto, Fotografie di

Vincenzo Coltrinelli, (Collana "Il Ponte del sole"), Bernardi 2005

Eterna riabilitazione da un trauma di cui s'ignora la natura, a cura

di Laura Barile e Ginevra Bompiani (agosto e novembre 2006) con

tre poesie inedite dell'autore, Edizioni nottetempo 2007

117

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Studi critici

Monografie e Articoli

GIULIANA NUVOLI, Andrea Zanzotto, La Nuova Italia, Firenze

1979.

PIERO FALCHETTA, Oculus Pudens. Venti anni di poesia di Andrea

Zanzotto (1957-1978), Francisci, Abano Terme (PD) 1983.

LUCIA CONTI BERTINI, Andrea Zanzotto o la sacra menzogna,

Marsilio, Venezia 1984.

BEVERY ALLEN, Verso la “Beltà”. Gli esordi della poesia di Andrea

Zanzotto, traduzione di Anna Secco, Corbo e Fiore, Venezia 1987,

233 pp.

JOHN P. WELLE, The poetry of Andrea Zanzotto, Bulzoni, Roma

1987.

CLAUDIO PEZZIN, Zanzotto e Leopardi. Il poeta come infans,

Cooperativa Editrice Nuova Grafica Cierre, Verona 1988.

MARIA GRAZIA LENISA, Il segno trasgressivo (Giorgio Bàrberi

Squarotti e Andrea Zanzotto), Bastogi, Foggia 1990.

ROBERTO PIANGATELLI, La lingua il corpo il bosco. La poesia di

Andrea Zanzotto, prefazione di Emerico Giachery, Verso, Macerata

1990.

118

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

LUIGI TASSONI, Il sogno del caos. "Microfilm" di Zanzotto e la

geneticità del testo, Moretti & Vitali, Bergamo 1990.

VELIO ABATI, L'impossibilità della parola. Per una lettura

materialistica della poesia di Andrea Zanzotto, Bagatto, Roma 1991.

GIAN MARIO VILLALTA, La costanza del vocativo. Lettura della

"trilogia" di Andrea Zanzotto, nota introduttiva di Emilio Mattioli,

Guerini e Associati, Milano 1992.

VIVIENNE HAND, Zanzotto, Edinburgh University Press, Edinburgh

1994.

VELIO ABATI, Andrea Zanzotto. Bibliografia 1951-1993, Giunti

(“Fondazione Luciano Bianciardi. Quaderni 1”), Firenze 1995.

UMBERTO MOTTA, Ritrovamenti di senso nella poesia di

Zanzotto, Vita e Pensiero, Milano 1996.

GRAZIELLA SPAMPINATO, La musa interrogata. L'opera in versi e

in prosa di Andrea Zanzotto, Hefri, Milano 1996.

STEFANO DAL BIANCO, Tradire per amore. La metrica del primo

Zanzotto 1938-1957, presentazione di Pier Vincenzo Mengaldo,

Maria Pacini Fazzi, Lucca 1997.

PETER WATERHOUSE, Im Genesis-Gelände, Versuch über einige

Gedichte von Paul Celan und Andrea Zanzotto, Ues Engeler, Basel-

Weil am Rhein-Wien 1997.

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MAIKE ALBATH-FOLCHETTI, Zanzottos Triptpychon. Eine Studie

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Gunter-Nare. Tübingen 1998.

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FRANCESCO CARBOGNIN, L’«altro spazio». Scienza, paesaggio,

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saggio "disperso" di A. Zanzotto, Varese, Nuova Magenta, 2007.

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C. DAVID, Hitler e il nazismo, Newton Compton, Roma 1994.

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Milano 2001.

E. GARRONI, L’arte e l’altro dall’arte, Laterza, Bari 2003.

M. HEIDEGGER, Sentieri interrotti, trad. di P. Chiodi, La Nuova Italia,

Firenze 1968.

ID., In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo,

Mursia, Milano 1973.

ID., Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976.

F. KAFKA, Tutti i racconti, trad. di L. Coppè e G. Raio, Newton

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ID., Diari, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano 1988.

Z. KOLITZ, Yossl Rakover si rivolge a Dio, Adelphi, Milano 1997.

P. LEVI, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986.

S. LO BUE, La musa drogata. Saggio sulle origini della poetica,

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O. MANDEL’ŠTAM, Cinquanta poesie, a cura di Remo Faccani,

Einaudi, Torino 1998.

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H. MESCHONNIC, "L'utopia dell'ebreo. Poetica del divino, poetica

dell'affetto e loro traduzione" in «Testo a fronte», n. 29 (2003), pp.

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H. MICHEL, La seconda guerra mondiale, Newton Compton, Roma

1995.

K. PÄTZOLD K – E. SCHWARTZ, Tagensordnung: Judenmord. Die

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C. PAVESE, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino 1952.

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ID., La Kabbalah e il suo simbolismo, Einaudi, Torino 1985.

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F. VOLPI, “L’etica dell’inesprimibile fra Wittgenstein e Heidegger”,

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122

Itinerari zanzottiani: la Neve, la Luna e il Soggetto

Ringraziamenti

Chiamo “casa” le relazioni che vivo.

Dico semplicemente grazie a tutti i miei vecchi e nuovi coinquilini.

Tutti loro sanno benissimo perché.

Questa è per i miei genitori e per Maria, che mi hanno riavvicinato alla mia Luna, quando mi sembrava sempre più distante.

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