Italiani a Parigi 1930-35

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Italiani a Parigi 1900-1935 di Silvia Evangelisti Storia dell’arte Einaudi 1

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Italiani a Parigi1900-1935

di Silvia Evangelisti

Storia dell’arte Einaudi 1

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Edizione di riferimento:in La pittura in Italia. Il Novecento, vol. I, t. 2, Elec-ta, Milano 1991-1993

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Indice

Storia dell’arte Einaudi 3

1900-1914: italiani a Parigi 6

Amedeo Modigliani e la «linea dell’espressione» 16

Con Severini dall’avanguardia al ritorno all’ordine 23

Il «caso» De Chirico 33

Savinio e De Chirico: il nuovo Classicismo 37

I «Pittori italiani di Parigi» e l’Appel d’Italie 43

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1900. Parigi, capitale mondiale della cultura, accoglieil nuovo secolo con una grande Esposizione Universale.

Con provenienze le piú diverse, si ritrovano a Parigi,nel primo decennio del secolo, il giapponese Foujita, irussi Soutine, Orloff, Souvage, Zadkine, Chagall; MoïseKisling dalla Polonia; Pascin dalla Bulgaria; Brancusidalla Romania; Vlaminck e poi Mondrian dall’Olanda;il gruppo degli spagnoli, con in testa Picasso, Manolo eGris, il piú folto con quello degli italiani capitanati daSoffici, Modigliani, Severini, De Chirico. Ciascuno por-tatore di una cultura d’appartenenza che diviene in uncerto modo patrimonio comune, ciascuno a confrontocon una cultura nuova, in forte divenire, che non cercaun’unità di linguaggio, ma nella quale «tutti i linguaggisono ammessi» in una visione sovranazionale ed euro-pea: «l’arte è linguaggio, il solo che sia al di sopra dellelingue nazionali e che permetta la comunicazione e l’in-tesa tra uomini di diversi paesi» (G. C. Argan).

Come viene filtrata questa nuova condizione dagliartisti che scelgono la Parigi cosmopolita come «luogodell’arte»; quanto pesa nelle nuove scelte la loro cultu-ra di appartenenza (intesa in senso allargato, come com-plesso del patrimonio culturale antropologico), la tradi-zione su cui si sono formati; quale rapporto interno efondamentale si istituisce tra la loro spinta verso il

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nuovo e le reali possibilità di esprimere la «coscienzamoderna» nelle loro opere. Come risolvere il nodo pro-blematico di conciliare la verità del visibile con quelladella coscienza, quale linguaggio nuovo può interpreta-re la profonda ansia di cambiamento. A tentare di dareuna risposta alla serie di problemi si trovano, in ununico luogo, personalità diversissime, da null’altro unitese non dalla consapevolezza, percepita piú o meno chia-ramente, di vivere al centro di un guado, al mezzo di unprofondo mutamento culturale che non si identificameramente con la fine di un secolo e l’inizio di un altro,ma con la coscienza della conclusione di un’epoca e, conessa, di una «visione del mondo» che per secoli ha rego-lato il rapporto tra l’artista e la realtà visibile.

Per alcuni la via sarà quella della rottura totale, dellarivoluzione radicale del linguaggio visivo tradizionale,per altri la via da tentare sarà invece quella del rinno-vamento interno, della nuova interpretazione di talelinguaggio, alla luce di quella «coscienza moderna».

Ma già alla metà del secondo decennio del secolo, aimmediato ridosso degli esplosivi anni della sperimen-tazione artistica, cambia – quasi di sorpresa – il climaculturale europeo: alla carica di rinnovamento portatadalle avanguardie dei primi anni del Novecento, allaappassionata fede nei valori della modernità, si sosti-tuisce una tendenza piú riflessiva e composta; si annun-ciano gli anni del rappel à l’ordre, del recupero dei valo-ri classici che, dopo la tragica cesura della guerra, dila-gherà in tutta Europa negli anni Venti e Trenta. E intesta a tutti nella nuova esigenza di solidi valori costrut-tivi, nell’emergente volontà di «rinnovamento attraver-so la forma» del linguaggio artistico per «approdare adun’arte solida come quella classica ma animata, al tempomedesimo, da un tono di modernità»1, sono gli artistiitaliani, per i quali il problema del rapporto tra tradi-zione classica e contemporaneità è un nodo fondamen-

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tale profondamente sentito, e variamente affrontato erisolto.

Emblematica in questo senso è la personalità di Sof-fici, che, nella sua complessità, riveste un ruolo fonda-mentale nella cultura artistica italiana dei due primidecenni del Novecento ed è paradigmatica del senso chequesta ha avuto nell’incontrarsi e misurarsi con la cul-tura d’avanguardia francese.

La sua concezione artistica è segnata, sin dagli inizi,dalla convivenza, piú o meno contrastata a seconda deimomenti, di due tendenze: il profondo legame alle sueradici culturali, alla sua «toscanità», con tutto ciò cheessa comporta in termini di eredità classica, e la fortetensione verso le idee nuove, le espressioni artistiche checercano di interpretare la modernità.

Inevitabilmente Soffici diviene un riferimento impre-scindibile per Modigliani, Severini, Viani, De Chirico,Magnelli e per tutti quegli artisti che con loro condivi-dono tensioni ed aspirazioni creative nella Parigi ante-guerra.

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Coloro che frequentano con assiduità Parigi primadella Grande Guerra appartengono, per lo piú, ad unatendenza che potremmo definire genericamente postim-pressionista, tenendo conto che è proprio in questotorno di tempo che si vanno sviluppando le conoscenzedell’impressionismo e del postimpressionismo (terminispesso confusi, nelle critiche di quegli anni) in Italia, lacui cultura artistica è stata sino ad ora dominata dalletendenze nordiche – austriaco-tedesche e belghe, soprat-tutto – di segno simbolista. È un gruppo composito ecertamente non omogeneo, formato da artisti le cui lineedi ricerca, imbevute di influenze simboliste e secessio-

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niste, prendono direzioni diverse, a volte addiritturaopposte, ma che hanno un comune denominatore in unadecisa e piú o meno battagliera scelta antiaccademica,nella volontà cioè di superare la tradizione ottocentescaper un’idea – a volte confusa – di apertura alla moder-nità.

Gli anni a cavallo del secolo sono, per la cultura figu-rativa italiana, anni di straordinario impegno e rinno-vamento, che chiamano a raccolta le giovani energienazionali intorno ai grandi temi della genesi dell’artemoderna, sviluppatisi in tutta Europa dall’impressioni-smo in poi. Al toscano Diego Martelli, amico e sosteni-tore dei macchiaioli e loro «contatto» con la pitturafrancese, si deve la prima tempestiva segnalazione, inItalia, di quello «spirito moderno» che stava nascendoa Parigi: la conferenza che il critico tiene a Livorno nel1879 (data alle stampe l’anno successivo), rappresentaun primo fondamentale rendiconto, puntuale ed aggior-nato, degli ultimi cinquant’anni d’arte francese, dalnaturalismo di Théodore Rousseau sino a Manet e Degase ai «veri e propri Impressionisti che, piú che del pre-sente, raffigurano nelle loro opere l’alba dell’avvenire».

Agli acuti ed approfonditi scritti di Martelli sull’im-pressionismo – interrottisi purtroppo entro la fine delsecolo – seguono gli interventi di Vittorio Pica su «Empo-rium» e su «il Mazzocco» e di Soffici su «La Voce» gliscritti del critico e poeta Ricciotto Canudo, giunto nellacapitale francese nel 1901 e divenuto ben presto – conSalmon, Apollinaire, Cendras e Jacob – una delle figuredi spicco della cultura francese, nonché la fondamentaleopera di svecchiamento della cultura italiana messa in attoda Nino Barbantini che intorno a Ca’ Pesaro, nei dueprimi decenni del secolo, ha raccolto le piú vitali forze gio-vani del panorama artistico nazionale.

Questi interventi critici contribuiscono ad alimenta-re il già diffusissimo «mito di Parigi», e sono molti gli

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artisti che negli anni del passaggio del secolo intrapren-dono il grande viaggio, richiamati anche dalla presenzanella capitale francese di artisti quali Medardo Rosso,Giovanni Boldini, Federico Zandomeneghi, DomenicoDe Nittis. Solo per qualcuno tale scelta diverrà poi defi-nitiva – come per Modigliani e Severini e, nel dopo-guerra, Magnelli, Tozzi e Paresce –, per i piú essa sirisolve in una fondamentale esperienza di «sprovincia-lizzazione» quasi un viaggio iniziatico a contatto con ilpiú vivo ambiente artistico d’Europa e, dunque all’epo-ca, del mondo occidentale.

È la pittura impressionista ad attirare, inizialmente,i giovani artisti italiani ed è attraverso il contatto diret-to con questa che essi cercano una via per liberarsi dairesidui tardo-veristi assorbiti durante gli studi accade-mici.

Alla pittura di luce e colore dei peintres de la viemoderne – e a quella dei loro «successori» Van Gogh,Lautrec, Forain, i pointillistes Seurat e Signac, Gauguin,i Nabis, Bonnard, Vuillard, Matisse e, naturalmente,Cézanne (ma la storia, in questo caso, si fa piú compli-cata) – guardano Cappiello, Soffici, Modigliani, Viani,Severini e quel composito gruppo di pittori che si avvi-cendano a Parigi durante i primi due decenni del seco-lo. Per lo piú, questi ultimi, artisti non «di punta» e late-rali se non del tutto estranei alle vicende dell’avanguar-dia, che nondimeno colgono il senso innovativo del lin-guaggio pittorico impressionista e postimpressionista,ed entrando in diretto contatto con esso sciolgono laforma e schiariscono la tavolozza che si arricchisce dicolori puri e smaglianti.

E si possono citare gli esempi di Ugo Bernasconi (percinque anni nello studio di Eugène Carrière) e Giusep-pe Graziosi, quest’ultimo dedicatosi soprattutto allascultura ma anche pittore di sensibile e vibrante reali-smo che a Parigi, in diretto rapporto con l’amata scuo-

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la di Barbizon e con la pittura impressionista, acquistauna nuova immediatezza e luminosità; o dei triestiniBolaffio e Marussig, interpreti di un sognante e sospe-so secessionismo di marca mitteleuropea imbevuto dicolori limpidi e luminosi. O, ancora, dei romani Comi-netti ed Innocenti e del cremonese Emilio Rizzi, a Pari-gi intorno agli anni dieci, i quali, già acquisiti alla tec-nica dei colori divisi e distribuiti sulla tela a piccoli toc-chi o striature diffusa nell’ambiente romano da Balla,trovano a Parigi un riferimento nell’entourage boldinia-no e nell’ambito dei «peintres de la femme» allora dimoda nella capitale (e tra questi i pittori «mondani» spa-gnoli Zuloaga e Anglada y Cammarasa), oltre che nellapittura intimista di Bonnard, Vuillard e dei Nabis.

E se questo stesso ambito artistico affascina MarioCavaglieri, catturandolo nella suggestione di una mate-ria cromatica calda e luminosa, è soprattutto alla sem-plificazione lineare e all’esaltazione del colore puro conconnotazioni mistico-simboliche dei pittori sintetisti«allievi di Gauguin» (Denis, Ranson, Bonnard, Sérusier)che guardano i suoi amici capesarini Pio Semeghini eGino Rossi: il primo, in contatto con Soffici sin dal1903, privilegiando una pittura sensibile e luminosa,sulla linea Renoir-Vuillard-Bonnard arricchita dal colo-rismo matissiano, il secondo portato piuttosto, sin dalprimo soggiorno in Bretagna sulle orme di Gauguin e deipittori di Pont-Aven, verso una tendenza di «trasfigu-razione lirica del colore» (Perocco) che prenderà con-notazioni piú dichiaratamente espressioniste nelle operedel periodo successivo al viaggio parigino del ’12 nelquale, con Arturo Martini, espone al Salon d’Automneassieme ad Amedeo Modigliani – Martini, che nel ’12presenta in mostra solo incisioni, ha cosí modo di cono-scere la scultura di Modigliani e, l’anno successivo, espo-ne con il livornese alcune opere plastiche al Salon d’Au-tomne. È in questo periodo che Rossi elabora la sua par-

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ticolare rilettura della lezione gauguiniana, con una pit-tura «schiacciata» e bidimensionale, costruita su larghezone di colori piatti segnate da un tratto continuo, spes-so ed arrotondato alla maniera dei cloisonnistes medie-vali e – da lí – dei pittori di Pont-Aven, che vediamo inFanciulla con fiore, Douarnenez e nei paesaggi bretoni.

Oltre a queste personalità, sono poi artisti meno noti,i cui nomi sono a volte rimasti nascosti tra le pieghe dellastoria e delle mode, come Vittorio Matteo Corcos oDomenico Colao o, ancora, Gustavo Sforni, il quale sireca a Parigi nel 1910 per studiare l’arte orientale, suagrande passione, e le opere dei pittori postimpressioni-sti e di Cézanne, acquistandone anche un certo nume-ro che porterà poi in Italia.

Tra i primi a compiere quello che Soffici nella suaautobiografia chiama «il salto vitale» è il livornese Leo-netto Cappiello, a Parigi dal 1897, seguito poco dopo daArdengo Soffici e Umberto Brunelleschi.

L’uso dei colori piatti e l’invenzione di una prospet-tiva dal basso in alto rendono inconfondibile lo «stileCappiello» e le sue affiches, inno alla vitalità e dellagioia di vivere, divengono potente strumento popolareper diffondere l’arte nuova, con la loro cromia accesa –i suoi sono i colon puri dei pittori «moderni» – e le lorofigure – silhouettes dalla grazia di arabesco segnate conun tratto libero e veloce erede del grande Toulouse – chesi stagliano con straordinaria vivacità dallo sfondo unito.Raggiunta rapidamente la notorietà come caricaturistaed affichiste, Cappiello non abbandona però la pittura,pur restringendo il proprio genere alla sola ritrattistica(nella quale non riesce a discostarsi dai modelli tradi-zionali sia per le pose che per la tecnica pittorica) chegli frutta commissioni dalla buona società parigina; ilRitratto di Henry de Régnier, esposto nel 1910 al Salonde la Société Nationale, gli avvale una citazione su

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«L’Intransigeant» da parte di Guillaume Apollinaire,che ne ammira «la sobrietà e una certa forza contenu-ta»3. Come disegnatore e caricaturista, Cappiello colla-bora con le piú importanti riviste satiriche parigine, da«Le Rire» a «Le Gaulois», «Le cri de Paris», «LeFrou-Frou» e «L’Assiette au beurre» – che gli dedica,nel 1902, un numero speciale intitolato Gens du monde.

A quelle stesse riviste, che si contendono i disegni deltoscano, molti giovani artisti italiani appena giunti aParigi offrono la loro collaborazione per poter sbarcareil lunario. Cosí avviene per Brunelleschi e Soffici che,con Costetti e Melis, giungono a Parigi nell’autunno del1900. Poco pratici della lingua (risultato di studi scola-stici, nel migliore dei casi) e scarsi di denari, per viveresi impegnano in disegni satirici ed illustrazioni, riu-scendo ad ottenere collaborazioni presso alcune impor-tanti riviste satiriche, come «La Plume» «Le Rire» el’«Assiette au beurre».

Partendo dal disegno satirico, Umberto Brunelleschitrova poi il successo come decoratore d’interni e soprat-tutto scenografo, collaborando anche con i famosi Bal-lets Russes di Diaghilev. Ma al momento dell’arrivo inFrancia egli si sente pittore «puro», e la sua vena arti-stica – che si andrà indirizzando verso un aggraziato gra-fismo liberty, espressione di un mondo fiabesco lieve egalante di cui è esempio la serie di dipinti di sapore set-tecentesco esposta al Salon d’Automne del 1910 – èancora impigliata nell’ecclettico intrico di influenze checaratterizzano, in quegli anni, le prime prove di moltigiovani italiani, affascinati dalle opposte lusinghe delsimbolismo di matrice nordica – böckliniano e preraf-faellita, propugnato quest’ultimo da D’Annunzio e dagliadepti di «In Arte Libertas» Costa e De Carolis – e lesuggestioni della nuova pittura francese postimpressio-nista. Al primo, soprattutto, rimandano le due opere conle quali l’artista debutta sulla scena espositiva parigina,

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Ritratto di pittore italiano e Ritratto della madre, presen-tate al Salon des Indépendants del 1906, dipinti impre-gnati di simbolismo «purista», figli cioè del clima cul-turale che si respira, all’aprirsi del secolo, nella Firenzedi Giovanni Costetti, di Papini e Prezzolini e delle rivi-ste «Il Marzocco» e «Il Leonardo», fucine culturali peri giovani, portatrici di un pensiero di tendenza ideali-stico-spiritualista (da Schopenhauer a Novalis, da Berg-son a Nieztsche) cui si sovrappongono correnti piú prag-matiste sostenute soprattutto da Giovanni Papini.

A questa temperie culturale va riferita anche la for-mazione pittorico-letteraria di Ardengo Soffici – le cuipreferenze artistiche, all’epoca del primo viaggio pari-gino, sono rivolte ad artisti come Puvis de Chavannes eAuguste Rodin, scultore per il quale dichiara grandeammirazione quando ne visita la mostra allestita all’in-terno dell’Esposizione Universale – e di Giorgio DeChirico, che a Firenze soggiorna per qualche tempo nel1910, frequentando appunto l’ambiente papiniano.

A partire dal suo primo soggiorno parigino, duratocon qualche interruzione sino al 1907, Soffici tornaspesso nella capitale francese, dove ha molti amici tra gliintellettuali e gli artisti dell’avanguardia, riconosciutoben presto come uno dei protagonisti della nouvellevague parigina, tanto che nel 1902 viene eletto tra imembri fondatori del Salon des Artistes Indépendants,unico italiano con Brunelleschi e Ugo Bernasconi, incompagnia di Cézanne, Bonnard, Signac, MauriceDenis. Nello stesso anno in cui conosce Cappiello, nel1901, incontra anche Ricciotto Canudo, giovane intel-lettuale barese appena giunto nella capitale francese, edè proprio Soffici a favorirne l’ingresso, nel 1903, a«L’Oeuvre d’Art International» rivista a cui egli stessocollabora pubblicando articoli di critica su artisti italia-ni (Pietro Canonica, Leonardo Bistolfi, Domenico Tren-tacoste).

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Canudo e Soffici sono, nel primo decennio del seco-lo, i maggiori «veicoli» di contatto tra Italia e Francia,successori, in un certo senso, e continuatori colti edagguerriti della battaglia per il rinnovamento e la spro-vincializzazione della cultura artistica nazionale ingag-giata, negli ultimi decenni del secolo precedente, daDiego Martelli e poi da Vittorio Pica. Non è un caso cheproprio a questi si devano le prime informazioni sullapittura cézanniana comparse in Italia: Canudo che giu-dica l’artista di Aix – e Gauguin – come «i piú grandistilisti della pittura moderna» in un articolo pubblicatoalla fine del 1907 su «Vita d’Arte» la stessa rivista incui, qualche mese dopo, esce il famoso articolo di Sof-fici su Cézanne, e Pica con il suo Gli Impressionisti fran-cesi del 1908, riccamente illustrato e subito divenutoinsostituibile riferimento per i giovani artisti italiani.

E anche se Soffici prenderà le distanze dalle tenden-ze teosofiche ed esoteriche che invece affascinano for-temente Canudo, con «le Barisien» condivide una ideadi centralità della tradizione culturale italiana cheimpronta ogni scritto di ambedue gli intellettuali. Lapoesia di Dante, cosí come la grande pittura del Rina-scimento, sono, per Soffici e Canudo, le basi su cui edi-ficare una grande arte rinnovata.

La struttura fondamentale dell’opera di Soffici, siaartistica che letteraria, si fonda su queste direttrici:giungere ad esprimere la modernità attraverso un lin-guaggio nuovo fondato sul ritorno alla natura ed il recu-pero della tradizione. Il riferimento a questi elementi ècostante in Soffici, dalle prime opere (legate anche adun miscuglio di simbolismo di matrice nordica – Hilde-brand, Marées –, francese – Puvis de Chavannes – esegantiniana e di residui di pittura post-macchiaiola),alle ultime; esso scorre come un flusso sotterraneo che,a volte, viene travolto, come nel momento tumultuosodell’avventura futurista, ma è ancora presente, a coniu-

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gare l’ordine classico con la violenta spinta verso un lin-guaggio nuovo.

Dipinti come La Terrazza (1904), La potatura (1907),La raccolta delle olive (1907-08), parlano un linguaggioantico e moderno, nel quale sul tronco portante della tra-dizione (da Giotto a Fattori, da Millet agli impressioni-sti) si innestano i rami della nuova pittura, di Gauguine Denis e dei Nabis, di Pissarro e Cézanne, del Picassodei paesaggi di Gosol.

È dunque forte in Soffici la volontà di rinnovare lacentralità della cultura italiana in ambito europeo, fon-data su un sentimento della classicità che egli senteprofondamente radicato nella sua terra d’origine; un’i-dea di tradizione filtrata attraverso la conoscenza diret-ta della natura, dei suoi colori mutevoli, delle sue vibra-zioni atmosferiche. E individua in Cézanne il grandemediatore che ha indicato la via per la «ricostruzione»dell’arte moderna: colui che ha operato «lo sforzo gigan-tesco di sintetizzare in un tutto organico il senso delvolume e della luminosità, il cui risultato è stato: rea-lizzare un’opera nella quale, riunendo in sé il buonodelle nuove ricerche e quello tratto dagli insegnamentidel passato, inizia una rinascita pittorica, e metterà legenerazioni future sulla strada di un classicismo che nonsarà quello dei critici slombati e regressivi, né del rigat-tiere arricchito alle spalle di Raffaello, ma il vero, l’e-terno, quello di Masaccio, di Tintoretto, di Rembrandte di Goya»4.

È quel «mito della forma» (che tanta fortuna avrà,poi, nel dopoguerra) che l’artista ritrova nella saldezzavolumetrica, carica di arcaismo, delle figure di Picasso.È in occasione del viaggio a Parigi del 1910, compiutoper riunire le opere impressioniste da esporre a Firenzeall’ormai celebre mostra al Lyceum, che Soffici ha occa-sione di vedere i quadri cubisti di Picasso – e tra questianche le Demoiselles d’Avignon – e di Braque, di cui poi

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dà conto in un articolo su «La Voce». Di questa espe-rienza si trova chiara traccia nelle opere del 1911 –come, ad esempio, Toilette e le composizioni sul temadelle bagnanti – e in quelle del 1912-13, periodo a ridos-so della travagliata adesione al futurismo: paesaggi enature morte declinati ormai chiaramente secondo lagrammatica cubista, da cui attingono anche la castigatacromia.

E pure negli anni eroici di «Lacerba» e delle esposi-zioni futuriste, la sua pittura è caratterizzata da unacompostezza formale di derivazione cubista che ha resoil suo futurismo (se è corretto parlare propriamente difuturismo) ordinato, con scarsissime componenti dina-miche: una sorta di cubo-futurismo che si pone come«intermedio» tra i due movimenti. L’artista toscanonon si lascia infatti tentare davvero dalla ricerca di«mettere in movimento» la «massa statica cubista»(Longhi), passione che prepotentemente prendeva Boc-cioni e, sotto altri aspetti, Severini e Balla. D’altra parteegli arriva al futurismo per tutt’altre vie da quelle diBoccioni, e non è certo l’ideologia del movimento –peraltro crudemente criticata nei suoi scritti e nei car-teggi datati sino al 1912 – ad affascinarlo, quanto ilcoraggio che questi artisti dimostrano, unici in Italia, nelribellarsi decisamente alla cultura artistica ufficiale chedella grande tradizione italiana aveva fatto una vuota esterile parodia.

In una sorta di costante ambivalenza, di strenua ricer-ca di una via intermedia che unisca l’antico col nuovo,va forse cercata la ragione (o una delle ragioni) delle scel-te compiute da Soffici in pittura cosí come in letteratu-ra negli anni dell’immediato primo dopoguerra: la suaconcezione artistica subisce una progressiva involuzio-ne ed incomprensioni e rigide chiusure si sovrappongo-no alle intelligenti aperture degli anni precedenti. Quan-do, in rapporto diretto con l’avanguardia intellettuale

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parigina, fa conoscere in Italia l’impressionismo, la scul-tura di Medardo Rosso, la pittura di Cézanne, Rousseau,Picasso, Braque, e frequenta il gruppo de «Les Soiréesde Paris»5, centro dell’intellighenzia parigina dove Sof-fici, accompagnato spesso da Carrà, incontra le perso-nalità di spicco dell’avanguardia artistica e letterariafrancese. Salmon, Jacob, Cendras, Reverdy, Apollinai-re, Cocteau, Picasso, Derain, Brancusi, Picabia, Larinove la Gonciarova, Severini (anche Boccioni, quando è aParigi), il mercante d’arte Paul Guillaume, i fratelli DeChirico – l’uno pittore e l’altro (col nome di AlbertoSavinio) musicista – presentati ad Apollinaire da Soffi-ci, sono tra i frequentatori del «circolo» che si riunisceintorno ad Apollinaire nella sede della rivista, in Bou-levard Raspail. Raramente, vi compare anche Modiglia-ni, il quale, pur partecipando da protagonista al dibat-tito della pittura moderna, in realtà non si legherà maiad alcuna tendenza o movimento artistico.

Amedeo Modigliani e la «linea dell’espressione»

La via individuata e percorsa da Amedeo Modiglia-ni è singolarmente autonoma e diversa da quelle dei suoicompagni di strada, non solo da quella di coloro che fon-dano le basi del rinnovamento nella rottura violenta colpassato, nello scardinamento definitivo di ogni regolacodificata, ma anche da quella scelta da altri «esuli»come lui – Soutine, Kisling, Chagall, Pascin, Foujita –e come lui non inquadrabili in una tendenza artisticacodificata. Se infatti è a loro comune una componenteespressionista, riferibile volta a volta alle molte sue decli-nazioni (dalla violenza cromatica di Van Gogh all’ango-scia esistenziale di Munch, dal sintetismo gauguinianoal misticismo Nabis, dalla crudezza dei tedeschi dellaBrücke alla grazia lineare e colorata di Matisse), profon-

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damente distanti sono gli esiti che essi raggiungono nelleopere.

Questi primi anni parigini sono segnati da importantiavvenimenti che determinano fondamentali cambia-menti nella visione artistica del nuovo secolo: lo «scan-dalo» dei pittori fauves al Salon d’Automne del 1905,la retrospettiva di Cézanne del 1907, la «scoperta» daparte degli artisti d’avanguardia della scultura primiti-va, che già aveva affascinato Gauguin, come avevanomostrato le sculture in legno e pietra esposte nel 1906al Salon d’Automne. Vicende di cui paiono essere igna-ri, al loro arrivo nel 1906, sia Severini che Modigliani:il primo alla ricerca di «una libertà creativa sulla lineadel colore come Seurat e i neo-impressionisti» che lopossa portare «alla liberazione dall’oggetto, da una visio-ne naturalistica, che pesa nell’arte italiana da piú di unsecolo»6, il secondo preso dal grande compito di coniu-gare tradizione classica e linguaggio contemporaneo, cheSoffici indicava come «impresa» fondamentale della pit-tura moderna. E d’altra parte sin dalle prime battute lelinee di ricerca dei due artisti, legati da calda amicizia(è Modigliani il primo a cui Severini propone, nel 1910,l’adesione al movimento futurista, ricevendone un dinie-go che, scriverà poi l’artista, «ne changera rien à notreamitié») si discostano nettamente, privilegiando la«linea analitica» di Seurat e poi dei cubisti – pur senzaprovare interesse per Cézanne – Severini che provienedalla «scuola» divisionista di Balla, portato ad una pit-tura espressiva invece il livornese, già in possesso diuna solida anche se non sistematica cultura formatasi suletture (Dante, Nietzsche, Novalis, Lautréamont) e viag-gi di studio (Venezia, Firenze, Roma).

Sull’«ossatura» culturale già solidamente strutturatadi Modigliani, nella quale – sofficianamente, potremmodire – l’esperienza del passato resta base irrinunciabilecome riferimento di forme per costruire un suo lin-

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guaggio contemporaneo libero da appartenenze a «ten-denze», si innestano molteplici elementi ed influenze,attenzioni e curiosità diverse e lontane, dall’arte primi-tiva a quella egizia ed orientale, dai bizantini ai primi-tivi toscani, da Cézanne al Picasso del periodo blu e aifauves, dal purismo formale brancusiano all’espressio-nismo della Brücke: tasselli di una cultura visiva senzaconfini e pregiudizi, che contribuiscono alla creazione diuna visione che non può dirsi né «d’avanguardia» nétanto meno fedele ai modelli classici, ma semplicemen-te e straordinariamente moderna.

Al loro arrivo nella capitale francese, Modigliani eSeverini si stabiliscono proprio nel centro principale dielaborazione delle nuove tendenze, nella Montmartre diPicasso e Braque, di Vlaminck, di Derain, di Max Jacobe André Salmon, i componenti della stravagante «bandeà Picasso» che ha il suo quartier generale nel fatiscen-te e malsano caseggiato del Bateau Lavoir e che, inbreve tempo, diviene punto di riferimento centrale perSeverini.

A pochi passi da là, Modigliani, invece, pare rimanereinsensibile agli stimoli del nascente cubismo, tutto presodalla sua particolare ricerca di verità: verità dell’arte edella realtà esistenziale, dell’interiorità, della psiche del-l’uomo contemporaneo. Il ritratto è il suo solo sogget-to; attraverso questo egli tenta di giungere alla profon-dità della coscienza, al senso originario dell’io; e a que-sto fine si «serve» delle indicazioni che – inizialmente– gli vengono dalle malinconiche composizioni blu diPicasso, dall’espressività dolente delle figure di Tou-louse Lautrec, dall’attenta meditazione sul sensibile diCézanne, la cui pittura gli offre «non solo una grigliacostruttiva, che riproponeva la pittura nei binari deltempo e dello spazio, ma addirittura una sonda psichi-ca che proiettava quel tempo e quello spazio all’internodell’io»7.

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Una rimeditazione di Cézanne, dunque, di segnoprofondamente diverso non solo da quella picassiana inavvio al cubismo, ma anche dall’interpretazione che nedava Soffici, impegnato ad esaltarne le componenti piúdichiaratamente classiche.

In quadri come Il mendicante e Il violoncellista, ambe-due dipinti nel 1909 ed esposti l’anno successivo alSalon d’Automne, si stemperano le venature di influen-za simbolista che troviamo in opere appena precedentied il linguaggio formale, sobrio e semplice e tradotto inuna sottile malinconia che sarà tipica della sua pittura,si fonda su una nuova dimensione cromatica cui è affi-dato il compito di «costruire» i volumi, secondo appun-to la grande lezione cézanniana.

È in questo momento, dopo un viaggio estivo a Livor-no, che l’artista decide di concentrarsi sulla scultura(suo amore primo, come ripeteva spesso), praticata condedizione assoluta, seppure non abbandonando del tuttola pittura, sino al 1914; una scelta confortata anche dalfondamentale incontro con Brancusi, suo vicino di stu-dio nella nuova abitazione a Montparnasse.

L’esperienza della scultura è passaggio fondamenta-le per la definizione del linguaggio artistico di Modi-gliani: la sua profonda esigenza di semplificazione epurezza formale trova espressione in forme plasticheessenziali che, in realtà, paiono piú debitrici alla cultu-ra classica (etrusca ed egizia soprattutto) che a quellabarbarica, in voga in quegli anni a Parigi.

La forte tendenza all’astrazione e lo schematismodella forma delle sue sculture (le misteriose e «lontane»teste femminili, le altere e solenni cariatidi) e dei moltie straordinari disegni che le accompagnano rimandanoad una idea di purezza e di eleganza che si ricongiungealla raffinata grazia lineare dei trecentisti italiani, allaquale – riletta e reinterpretata alla luce del linguaggio

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contemporaneo – l’artista dona una qualità esistenzialee una introspezione psicologica del tutto nuova.

La tradizione toscana, dai grandi trecentisti sino aFattori, è la radice da cui attinge linfa vitale ancheLorenzo Viani, compartecipe con il livornese di scelte edinteressi, seppure estremizzandoli in senso espressioni-sta. Volta verso le tematiche populiste, la sua pitturadalla cromia violenta e dai timbri intensi e pastosi, tesaad una esasperazione della forma memore dell’esempiodi Daumier, lo apparenta infatti alle esperienze dei fau-ves di piú dichiarata marca espressionista, Van Dongene Vlaminck soprattutto, ma anche Derain ed i Nabis. Aquesti infatti sono riconducibili le aggressive figure fem-minili dagli occhi cerchiati di bistro e dai bianchi visigrotteschi, angosciate vittime di notti disperate, chel’artista dipinge a Parigi.

Come Modigliani, Viani vive la Parigi «maledetta»della Ruche e dei quartieri poveri – di cui ha lasciatotestimonianza nel bellissimo romanzo intitolato appun-to Parigi e pubblicato nel 1925 –, che prende vita nellemisere e disarmate figure di mendicanti, di bohémiennes,di donne dai corpi rattrapiti e dai tragici volti, spettra-li nella fissità di maschere, che la sua pittura restituisceattraverso un segno violento e corrosivo e scansioni cro-matiche dai toni cupi, stese à plat da pennellate assime-triche e «nervose»; un colore che violenta e scarnificala forma e la traduce in pura ed immediata espressionedi una vitalità selvaggia e primordiale.

Diverso sarà l’esito che il riferimento alla pittura fau-ves-espressionista francese produce nell’opera di altridue pittori italiani dell’entourage di Severini e Modi-gliani, Osvaldo Licini ed Ubaldo Oppi, a Parigi qualcheanno dopo Viani.

Seppure del soggiorno parigino di Licini non sonogiunte a noi che testimonianze scritte8, un ricordo del-l’esperienza francese riemerge nei dipinti «postimpres-

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sionisti» della prima metà degli anni Venti: nei paesag-gi e nelle nature morte risolte con un segno spesso eguizzante che demarca le zone cromatiche, che riman-dano a certe esperienze espressioniste-fauves (Matisse eDufy, in particolare), mentre nei ritratti (Ritratto diAve, Ritratto di Nella, Testina) si manifesta apertamen-te l’ammirazione per la pittura di Modigliani.

Nelle opere dipinte da Oppi durante questo primosoggiorno parigino, invece, l’evidente richiamo alla pit-tura postimpressionista di matrice fauves (di Van Don-gen, ancora, ma anche del Picasso blu), di cui sono chia-ri segni la sinteticità delle forme e l’uso di larghe cam-piture di colore unito dalle tonalità forti (Donna colmanicotto, 1911-12), si coniuga con una stilizzazione dicarattere secessionista – eredità delle peregrinazioni mit-teleuropee – e con una precisa attenzione alle formeallungate e pure di Modigliani. Sono proprio Modiglia-ni e Severini (ritratto da Oppi, in un disegno del 1911,mentre dipinge il Pan-Pan) che lo «introducono» nel-l’ambiente dell’avanguardia artistica parigina di cuidiviene assiduo frequentatore, ottenendo anche, nel1913, una mostra personale presso la galleria di PaulGuillaume, mercante di De Chirico e di Modigliani.

Quest’ultimo, intanto, chiusa l’esperienza plastica,nel 1915 torna alla pittura ed il momento è segnato dalraggiungimento di una solida maturità di visione e di lin-guaggio, in cui si compongono armonicamente le diver-se indicazioni ed influenze che in esso sono confluite neltempo, compresa un’assimilazione del gioco scomposi-tivo cubista – di cui è testimonianza evidente nel ritrat-to di Max Jacob (1916) –, riletto spesso in chiave ironi-ca, come in Madame Pompadour, o ne Gli sposi, dipintinel 1915.

Con il Ritratto di Moïse Kisling (1915), dalla struttu-ra formale geometrizzante e dalla cromia densa e affo-cata, e i ritratti di Beatrice Hastings, di Antonia e di

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Alice, dove le tonalità si fanno piú limpide e luminoseed il segno fermo ed arrotondato, si apre l’affascinantegalleria di personaggi dell’«intellighentia» parigina e diumili figure di varia umanità che Modigliani costruiscenei cinque anni di vita e di pittura che gli restano.Ritratti in cui lo spazio fisico è indagato attentamente– attraverso gli strumenti dell’arte – ma altrettantaattenzione è rivolta allo spazio psichico, all’indagineinterna del soggetto ritratto, alla scoperta di una sorta diprofondità della coscienza; la pittura si fa cosí interpre-te della verità intima del personaggio, del suo essereprofondo e segreto.

Si avvia il periodo del Modigliani «maturo», chedipinge una ricca serie di ritratti luminosi e sereni, sep-pure sempre venati da una inguaribile malinconia esi-stenziale. Le pennellate di colore quasi liquido si pon-gono sulla tela in modo discontinuo, con quell’effetto «atessera» che Cézanne sperimentava per rendere piú ario-sa e leggera l’intera composizione; la forma è ben defi-nita nei contorni e nei rapporti plastici, in una organiz-zazione compositiva compatta ed architettonicamenteordinata, con un forte senso «classico». Cosí vediamo,ad esempio, nel Ritratto di Jacques Lipchitz e la moglie onella straordinaria serie dei nudi femminili che l’artistadipinge soprattutto nel biennio 1917-18, nei quali leforme compatte e chiuse sono arricchite da una natura-lezza quasi carezzevole, che si tramuta a volte in segre-ta ed intima sensualità, sottolineata da accordi cromati-ci accesi e caldi.

La verità del reale, la petite sensation che sempre èpunto di partenza, si coniuga in perfetta armonia con il«classico» nelle opere dell’ultimo triennio: il suo lin-guaggio si traduce ora in forme meno solide e definite ein una pittura beve e trasparente nella quale i toni sonoorchestrati in passaggi morbidi e la luce si fa tenera edolce, come in Zingara con bambino e Ragazza con ber-

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retto o nel ritratto, raffinatissimo e dolente, di LuniaCzechowska e nei dolci e malinconici dipinti che ritrag-gono Jeanne Hébuterne, la compagna che gli è vicinasino alla morte e che con lui sceglierà di condividere lafine. E ancora in altri ritratti di umili personaggi dellavita quotidiana di Montparnasse (Bambina in azzurro, Labella droghiera, Contadinello), modelli che l’artista pren-de dalle strade del quartiere e dai bistrots e che ritrae conla stessa dignità dei soggetti piú colti, artisti ed intel-lettuali come Picasso, Coeteau, Jacob, Apollinaire. Lastilizzazione della forma, rarefatta e stemperata, in que-sti dipinti, in una grazia lineare e in una tavolozza quasiliquida che allenta la compattezza dei volumi, ritrovaaltrove saldezza di contorni e ricomposidone formale,come in Lunia Czechowska con ventaglio, Jeanne Hébu-terne seduta davanti all’uscio e il ritratto del musicistagreco Mario Vargogli, tra le ultime opere dipinte dal-l’artista, che rispecchiano il nuovo clima di «ritornoall’ordine» formale che attraversa l’Europa all’aprirsidegli anni Venti.

Con Severini dall’avanguardia al ritorno all’ordine

Attraverso la rielaborazione del cromo-luminarismodi Seurat, già nel 1908 Severini individua una sua per-sonale interpretazione del divisionismo (ormai autono-ma dai modi di Balla), strutturato su una misura ed unrigore compositivo che, uniti ad un senso ritmico delcolore, resteranno costanti caratteristiche della sua pit-tura. Il venditore di cialde e Primavera a Montmartre,dipinti nei quali l’armonia cromatica e l’attenta calibra-tura ottica si liberano nella vibrazione della luce e nellaluminosità chiara e felice del colore, sono le opere piúrappresentative di questo primo periodo parigino diSeverini.

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«Il 1910 fu l’anno piú importante, forse, di quelperiodo di storia che va dal 1900 al 1925», scrive l’ar-tista nell’autobiografia9.

Invitato dall’Italia dall’amico Boccioni a firmare ilmanifesto del movimento futurista, Severini accetta conentusiasmo – pur senza aver alcuna conoscenza delleopere che i suoi compagni di avventura vanno dipin-gendo – felice che finalmente l’arte italiana si risvegli dallungo letargo e contribuisca al rinnovamento artisticoche ha a Parigi il suo epicentro. Qui Severini frequentai protagonisti di tale rinnovamento: Derain, Dufy e Bra-que (che abitano nel suo stesso caseggiato, in ImpasseGuelma) e, attraverso Braque, lo stesso Picasso, delquale visita spesso lo studio; e poi i caffè ed i locali diMontmartre e Montparnasse dove artisti ed intellettua-li dibattono d’arte e di letteratura, ed anche di filoso-fia. È qui che l’italiano sente parlare di Jules Romains edell’Unanimisme, di Bergson e dei suoi concetti di élanvital, di intuition che è «in primo luogo conoscenza, maconoscenza immediata, visione che si distingue appenadall’oggetto veduto, conoscenza che è contatto e coin-cidenza stessa» (Bergson), di flusso vitale, del tempocome «qualità della coscienza» opposto al tempo cro-nologico positivista. Idee che sono supporto teorico alleprime opere «futuriste» (che in realtà compiutamentefuturiste ancora non sono) dipinte tra il 1910 e l’11,come Souvenir de voyage, Les voix de ma chambre, Dan-seuse obsédante.

Sono questi gli anni eroici del cubismo e la nuova pit-tura di Picasso e Braque attira sempre piú proseliti tragli artisti parigini; nello stesso anno in cui Severini firmail manifesto dei pittori futuristi, al Salon d’Automne icubisti Metzinger, Gleizes e Le Fauconnier espongonoassieme le loro opere, e l’anno successivo al Salon desIndépendants il gruppo si presenta al completo (assen-

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ti, come sempre, i due fondatori) con la partecipazioneanche di Gris, Léger, Delaunay e Le Fresnaye.

Già a partire dal 1911 la pittura di Severini risentedella nuova visione della realtà proposta dai cubisti,innestandola sulla sua personale visione pittorica: aldivisionismo dei colori si aggiunge ora (o in qualchecaso si sostituisce) quello che l’artista definisce un «divi-sionismo delle forme», espressione di una nuova coscien-za della struttura delle cose che richiede l’intervento dialtri schemi interpretativi oltre a quello naturalistico,come ad esempio quello geometrico. Boulevard e Ladanse du Pan-Pan au Monico sono le prime opere in cuiSeverini mette in pratica queste indicazioni, e se il primodipinto è ancora legato da una sostanziale fissità, nelsecondo – il grande quadro distrutto durante il nazismocome esempio di «arte degenerata» e ridipinto dall’ar-tista nel 1959-60 sulla scorta di fotografie e disegni pre-paratori – Severini riesce ad ottenere un effetto dina-mico, un movimento in certa misura fisico, basato sulladivisione dei colori e delle forme, in un tutto ritmico chevede coesistere forme astratte e dati realistici.

È per ottenere da Marinetti un finanziamento che glipermetta di terminare questo importante quadro cheSeverini decide di recarsi, nell’estate del 1911, a Mila-no; un viaggio che gli consente anche di rendersi contoin che cosa consista, al di là delle parole gridate neimanifesti, la pittura futurista, che – come gli scrive Boc-cioni – debutterà presto a Parigi con una grande mostra.

Sul risultato di questo viaggio italiano di Severini ea proposito del problema lungamente dibattuto dallacritica dei rapporti tra futuristi e cubisti prima dellamostra del febbraio del ’12, di estremo interesse è la let-tera – inedita – che l’artista invia a Marinetti nell’apri-le del 1930 (si sta per aprire la Biennale nella quale l’ar-tista è presente sia nella sala degli «Appels d’Italie» diWaldemar George che in quella futurista di Marinetti),

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nella quale, rivendicando il riconoscimento del suo con-tributo all’arte italiana moderna – «nella storia della pit-tura italiana, fra gli artisti residenti all’estero, dopoModigliani, chi ha tenuto un posto onorevole sono io;la gloria meritata di De Chirico è venuta dopo»10 –, ram-menta al capo del futurismo «quando venni a Milano perottenere da te un aiuto per terminare il mio Pan–Pan,aiuto che mi accordasti in colori e in denari (...) A quel-l’epoca la pittura di estrema avanguardia di Carrà eranoi “Martiri di Belfiore!”, di Russolo “La musica” (ma-schere di diverso colore disposte come note) di Boccio-ni poi erano la prima idea degli stati d’animo, dipinti inmodo assolutamente letterario e passatista. Se ti ricor-di, tu pagasti il viaggio a tutte e tre perché venissero aParigi; ed io li portai in giro in tutti gli studi interessanti,da Picasso, da Braque, da Dufy, da Archipenko; Boc-cioni restò un paio di settimane o tre piú degli altri, divi-dendo il mio studio e la mia vita. Tornati tutti a Mila-no partirono su altri principi, gli “stati d’animo” furo-no interamente rifatti, e l’esposizione prese la forma conla quale si presentò nel febbraio 1912. Ma durante i mesiche seguirono la loro venuta a Parigi, ogni 15 giornimandavo a Milano fotografie che tu pagavi e che com-pravo da Kanweilair (sic!), mandavo pure il risultato diconversazioni con Braque, che come sai abitava nellastessa mia casa, e con Picasso, che vedevo ogni sera.Pensa un po’, caro Marinetti, che cosa sarebbe stata l’e-sposizione futurista se avesse avuto luogo nel dicembre1911, come tu l’avevi decisa, invece del 1912, e cioèsenza la mia venuta a Milano, e senza che io avessi con-vinto i miei amici della loro inattualità, e del bisognourgente di vedere quel che si faceva qui»11.

L’incontro col cubismo è elemento determinante perl’evoluzione della pittura di Carrà e Boccioni, offrendoloro, attraverso la scomposizione in piani della realtà,uno strumento di individuazione plastica dei volumi e

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di conseguenza di espressione della simultaneità e deldinamismo universale cui tutti i corpi partecipano (Boc-cioni): esemplificative sono, in questo senso, opere comeDonna al balcone di Carrà, La risata di Boccioni (dipin-to già esposto al Padiglione Ricordi e poi ripreso dopoil ritorno da Parigi) e le due versioni della trilogia degliStati d’animo, dipinte, come ricorda Severini, una primadel viaggio a Parigi e l’altra all’immediato ritorno. Eancor piú il rapporto con il cubismo si sente nella scul-tura, che Boccioni affronta proprio nel 1912.

La mostra futurista del febbraio del ’12 alla galleriaBernheim Jeune richiederebbe un intero saggio, perpoter affrontare adeguatamente il problema dell’impat-to che la pittura futurista ha sull’avanguardia franceseche, apparentemente, manifesta assoluto disinteresseper l’avvenimento12. In realtà, pur mettendo da parte lepolemiche di carattere sciovinista, è a partire dal 1912che si comincia a parlare di dinamismo in ambientecubista, e si trova citato, negli scritti teorici, il terminesimultaneité in riferimento ad opere cubiste, in partico-lare per quelle di Delaunay, il piú deciso e agguerritoavversario dell’arte futurista con la quale – e forse pro-prio per questo – la sua pittura ha notevoli consonanze.È proprio Apollinaire, il teorico di quell’Orphisme chepare quasi inventato per inglobare e «francesizzare» inuovi spunti introdotti dai futuristi (e non solo), a defi-nire «simultanea» la pittura di Delaunay13.

Già dal 1911 il poeta aveva spesso affrontato neisuoi articoli su «L’Intransigeant» il tema della pitturafuturista, sottolineandone sempre l’arretratezza rispet-to alle ricerche cubiste ed accusandola di «pompierismo»per l’attaccamento al soggetto; e anche tra le pocherecensioni che la mostra futurista alla Bernheim Jeuneottiene ve n’è una, non molto gratificante per gli italia-ni, di Apollinaire, che sostanzialmente prende le distan-ze da quella pittura troppo «letteraria» (qualche tempo

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dopo si riconcilierà con il gruppo, firmando anche unironico manifesto dell’Antitradition futuriste pubblicatosu «Lacerba»), salvando nel complesso il solo Severinie, in certa misura, Carrà, gli artisti cioè piú legati allacultura francese.

Il 1912 segna la maggior contiguità di Severini conle ricerche cubiste, e accanto alle vivaci e movimenta-tissime Danseuses, animate da un dinamismo di spazi edi forme leggere e trasparenti e di colore esaltato dagliinserti di paillettes, che brillano «muovendo» la luce inun coinvolgimento sia visivo che sonoro (Geroglificodinamico al Bal Tabarin, Danseuse bleue), l’artista dipin-ge quadri (Autoritratto, Ritratto di Mme S., MetroNord-Sud) dove è largamente impiegata la scomposizio-ne cubista – in particolare quella dei cubisti analiticiGris, Metzinger e Gleizes – nel tentativo di risolvere «ilproblema dell’immagine totale dei cubisti, ma concepi-ta in movimento» (Longhi). Ma insopprimibile per lui èil richiamo del movimento ritmico e vivace delle sue bal-lerine, rutilanti di colori come un caleidoscopio edimmerse in una luce che frantuma la forma e la rendequasi immateriale; il tema delle danseuses viene via viasfrondato dagli elementi anedottici, sino a divenire purasuggestione di forme-colori in relazioni dinamiche disuperfici cromatiche definite attraverso la luce (Dan-seuse parmi la lumière, Danseuse+ Table+Lumière,Espansione sferica della luce, centrifuga). È il momentodelle «analogie plastiche», quando nelle opere dipintetra l’inverno del 1913 e l’estate del 1914 l’artista rag-giunge una totale astrazione dal dato reale, al quale restal’ultimo aggancio nei titoli (Ballerina=mare, Danza del-l’orso=Barche a vela+ Vaso di fiori).

Questo Severini ormai francese, ma pur sempre ita-liano, diviene (con Modigliani) per i giovani suoi con-nazionali un riferimento prezioso per entrare in contat-to con l’ambiente d’avanguardia parigino. Nel suo entou-

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rage troviamo, cosí, Leonardo Dudreville (è lui il model-lo per Ascoltando la musica, pastello dipinto da Severi-ni nel 1907) Domenico Colao e Anselmo Bucci, compa-gni di studio a Brera che insieme, nel 1906, partono perParigi. Rimpatriati dopo qualche mese Dudreville eColao, Bucci si ferma nella capitale sino allo scoppiodella guerra (vi tornerà poi nel ’19, con l’amico DonatoFrisia), dipingendo – ricorda Severini nell’autobiografia– «magnifici paesaggi e qualche buon ritratto» nei quali«si manifestava con un brillante spirito impressionisti-co»; al segno incisivo e vivace di Lautrec riportano,oltre che i dipinti (Café de Place Blanche, 1914), le inci-sioni dedicate alla vita metropolitana parigina e raccol-te nei volumi Paris qui bouge.

A Severini fanno capo anche giovani «aspiranti»futuristi come Baccio Maria Bacci, che del suo fugacesoggiorno parigino ha lasciato traccia in un volume diricordi, Ugo Giannattasio, Arturo Ciacelli – il qualeaveva frequentato Severini negli anni romani assieme algruppo di giovani artisti che avevano eletto GiacomoBalla come loro maestro – e Alberto Magnelli, chedurante questo primo soggiorno di circa quattro mesiche precede di quasi vent’anni quello definitivo, conSeverini ed Apollinaire stringe un’amicizia calda e dura-tura. A parte il caso di Magnelli, i cui modi in questomomento sono piú vicini a Matisse piuttosto che a Seve-rini, la pittura di questi artisti si sviluppa su di unalinea intermedia tra futurismo ed astrattismo, con chia-re affinità sia con Robert Delaunay che con Severini, ilquale proprio nel 1913 (con gli studi sulla luce e sulleforme-colore) avvia un’importante fase della sua ricercain cui predomina una forte attrazione per le forme geo-metriche, ritmiche, astratte, poste in relazione dinami-ca per compenetrazioni di piani e contrapposizioni disuperfici-colore. Piú costruttivo e «plastico» Ciacelli,piú affine alla simultaneità di forma-colore di Severini

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Giannattasio, i due partecipano alle esposizioni parigi-ne, suscitando anche qualche interesse nella critica,soprattutto Giannattasio che per il suo Tourniquet espo-sto nel 1913 al Salon des Indépendants ottiene una delletanto ambìte citazioni nella rubrica di Apollinaire.

Nonostante il loro entusiasmo per il futurismo e leassidue frequentazioni dell’ambiente artistico-letterariod’avanguardia (Giannattasio, uno di coloro a cui Apol-linaire attribuisce «rose» nel manifesto dell’Anti-tradi-tion futuriste, è citato dal poeta come uno dei «parnas-sois» che si riuniscono alla «Closerie des Lilas» intornoa Paul Fort, dal 1913 suocero di Severini), Giannatta-sio e Ciacelli non riuscirono però mai ad ottenere daBoccioni e Carrà il consenso per entrare a far parte uffi-cialmente del movimento.

Ma intanto il clima culturale sta cambiando e l’ariadi guerra si avvicina. Tornato avventurosamente a Pari-gi da Anzio, Severini vi trova ora non piú luci coloratee allegra animazione, ma soldati in divisa e treni blin-dati in partenza per il fronte. Questi soggetti sostitui-scono le colorate ballerine e il mare scintillante; nei«quadri di guerra» ricompaiono gli elementi realistici, lafigurazione torna in forme compatte e potentementesintetiche e il colore perde limpidezza e trasparenza perassumere toni metallici.

La guerra segna la chiusura di un periodo, e non soloper Severini. Ovunque, in Europa, spentosi il ventodella guerra, il clima culturale si fa piú guardingo e laricerca artistica segue un corso di naturale evoluzioneverso forme piú ferme e solide. Sono questi, a Parigi, glianni in cui la scena artistica è dominata dalle esperien-ze post-cubiste, tendenze di per se stesse portatrici dicompattezza formale e rigore costruttivo.

Dopo le prove avanzatissime di Maternità e Ritrattodi Jeanne del 1916, dove Severini raggiunge, pratica-mente unico in Europa – il solo Derain lo affianca, a

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queste date, nella ripresa classicista –, straordinari risul-tati di raffinatezza «neorinascimentale»; dopo questoscatto che anticipa i modi del retour à l’ordre dei pienianni Venti, l’artista riprende la via di una sperimenta-zione formale in linea con quella dei francesi: figurecomposte, strutture di piani allargati, forme geometri-che elementari. Nelle nature morte degli anni tra il ’17e il ’19 i moduli cubisti sono rivisti e riproposti con unafelice ricerca di armonia e di scansione spaziale, in per-fetta consonanza con quel «trompe-l’esprit» che Coc-teau ammirava nei quadri coevi di Picasso. Da questeprove, lentamente, nasce in lui una nuova coscienzaartistica; comincia a prender corpo l’esigenza di strin-gere maggiormente i rapporti arte-scienza, soprattuttoquelli – che viene scoprendo fondamentali – tra mate-matica e pittura, fino a farne base teorica e quasi filo-sofica dell’opera d’arte. Già negli articoli del ’16 sul«Mercure de France» Severini aveva manifestato unagrande fiducia nella scienza supporto dell’arte, ma è apartire dal 1919 che egli inizia ad applicare sistemati-camente regole matematiche – apprese attraverso lo stu-dio metodico dei testi di Poincaré e le lezioni del mate-matico Bricard – per l’impianto, del quadro, affidando-si alle leggi del Numero, della sezione aurea e della geo-metria descrittiva, poiché «l’Art n’est que la Sciencehumanisée». Da questi studi – su cui si fonda il volumeDu Cubisme au Classicisme edito nel ’21, che suscitanon poche polemiche e contrasti tra l’autore e gli arti-sti de «L’Effort, Moderne» di Leone Rosenberg e i«puristi» Jeanneret e Ozenfant autori del saggio Aprèsle Cubisme, le cui ricerche si sviluppano su linee nondistanti – nasce il particolare «ritorno all’ordine» diSeverini, in sintonia con il realismo europeo degli anniVenti venato di suggestioni metafisiche.

Grandi nature morte solenni e composte, la cui com-plessa struttura si basa su rigorosi tracciati geometrici e

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la tavolozza, elegante e raffinata, su calibrati accosta-menti cromatici; e quadri di figura, (arlecchini, pulci-nella, pierrots, personaggi della Commedia dell’Arteprotagonisti delle opere di Severini soprattutto dopo gliaffreschi del Castello di Montegufoni) dalle forme niti-damente individuate sul fondo piatto, cristallizzate inuna sorta di magica astrazione temporale e quasi rare-fatte in un «eccesso» di realismo. La luce, chiara e men-tale come nelle tavole quattrocentesche, circonda edaccarezza le forme «umanizzando» il rigore disegnativodelle composizioni, ispirate ad una incantata calma clas-sica che assume a volte toni pre-surrealisti (Barilli).

Al rigore compositivo si accompagna l’impegno al«ritorno al mestiere», impegno che già dalle pagine di«Valori Plastici» i due fratelli De Chirico dichiaranoimprescindibile per affrontare il compito che, scriveSavinio, «ci chiama a perfettare l’arte: ci chiama a sol-levarla e ricondurla a quei destini che le sono assegnati:al classicismo»14.

Una severa disciplina porta Severini a sperimentaretecniche artistiche da tempo dimenticate quali la pittu-ra a fresco (oltre al citato ciclo di Montegufoni, del ’22,la decorazione delle chiese svizzere di Semsales e Fri-burgo) e del mosaico, e a studiare la materia pittoricadegli antichi per potersi preparare artigianalmente i colo-ri, che, orchestrati sulla tela con raffinata eleganza e cali-brati rapporti timbrici, vivono di una brillantezza raf-freddata e quasi cerebrale.

Una declinazione cromatica che trova chiare corri-spondenze nelle opere di Ubaldo Oppi del secondo sog-giorno parigino (Ritratto della moglie sullo sfondo diVenezia (La femme du peintre), Ritratto del pittore con lamoglie (Le double portrait), 1921), nelle quali la purezzaformale del Quattrocento italiano è espressa con unalinea «asciutta e dura, quasi tedesca verrebbe da dire,apparentata a Dürer piú che a Bellini» ed il colore « è

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come smaltato ed evidenzia l’atmosfera quasi allegoricadella composizione» (Gian Ferrari), e in quelle di MarioTozzi (Après le bain, Les trois sœurs, La toilette du matin)dove una scelta cromatica raffreddata da toni quasimetallici si innesta su una solidità di volumi e di formemaggiormente individuata, pur nella visione di innatu-rale fissità della realtà depurata dal «sensibile», di ascen-denza metafisica, che accomuna non solo i tre «italianiparigini», ma in generale il clima artistico europeo deglianni Venti che viene comunemente definito del «Reali-smo magico».

Il «caso» De Chirico

«Car deux faits dominent l’art du XX siècle; le faitPicasso et le fait Chirico» scrive, nei pieni anni Venti,il paladino degli «Italiens de Paris» Waldemar George15.

Giorgio De Chirico raggiunge il fratello Andrea aParigi nell’estate del 1911, dopo alcuni «viaggi di stu-dio» che lo vedono a Monaco, a Milano, Firenze e Tori-no. L’influenza böckliniana, assorbita a Monaco e di cuisono testimonianza le opere del 1908-09 (Lotta di cen-tauri e Centauro morente), si consolida nell’ambiente fio-rentino de «Il Leonardo», profondamente permeato dalpensiero filosofico tedesco (Nietzsche, Schopenhauer eWeininger sono le fonti che lo stesso De Chirico ha sem-pre citato come riferimenti basilari della sua formazio-ne)16, nonché dalla pittura «simbolista» di Arnold Böck-lin, che a Firenze aveva speso gli ultimi anni della suavita, lasciando profonde tracce. Si veda, ad esempio,come la tendenza simbolico-idealizzante dei due ritrat-ti di Giovanni Papini (in uno dei quali lo scrittore è indi-cato con lo pseudonimo di Gianfalco) dipinti da Costet-ti nel 1903, si ricolleghi alla dimensione astorica e atem-porale del richiamo all’antico di Böcklin, ed il rapporto

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stretto tra questi e i quadri fiorentini di De Chirico,quali il Ritratto di Andrea De Chirico e l’Autoritratto, conquella straordinaria epigrafe – «Et quid amabo nisi quodaemigma est?» – ambigua e misteriosa e al tempo stes-so rivelatrice di un atteggiamento nei confronti dellarealtà. Ma è proprio a Firenze, alla fine del 1910, con icelebri dipinti L’enigma dell’ora e L’enigma di un pome-riggio d’autunno che si prefigura l’imminente distaccodall’esempio böckliniano – anche se in questa opera unpreciso riferimento all’artista tedesco è ancora presen-te, ad esempio, nella statua sul piedistallo che riprendela figura voltata di spalle de L’enigma dell’oracolo, cita-zione a sua volta del capolavoro di Böcklin Odysseus undCalypso, del 1883 – e l’avvio di quella pittura straniataed illusionistica, inquietante ed enigmatica, che pren-derà il nome di «pittura metafisica».

Con tali dipinti tra i suoi bagagli De Chirico rag-giunge Parigi, e sono proprio questi che presenta alSalon d’Automne del 1912, la prima esperienza esposi-tiva della sua lunga vita artistica. L’anno successivoall’esordio parigino è decisivo per De Chirico, che espo-ne sia al Salon des Indépendants che al Salon d’Au-tomne e ottiene la sua prima «citazione» nella rubricadi Apollinaire17. Il poeta di Alcools e dei Calligrammes(raccolta di liriche che lo stesso Giorgio De Chirico illu-strerà nel 1930) è in questo tomo di tempo il pernointorno a cui ruotano le teorie dell’avanguardia artisti-ca parigina, figurativa e letteraria, e l’affascinante pasti-che rappresentato dall’insieme delle sue idee esteticheesprime la vitalità di quell’esprit nouveau di cui fortissi-mamente volle essere il profeta.

È attraverso l’amicizia con Apollinaire che De Chi-rico e Savinio entrano in contatto con l’ambiente d’a-vanguardia parigino, e nel rapporto col poeta franco-polacco si consolidano nell’artista italiano le idee elabo-rate durante gli anni precedenti. La sua pittura si fa piú

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intensa, i modi piú sicuri e i temi si identificano conmaggior determinazione; dipinge quadri come La mélan-colie d’une belle journée, La nostalgie de l’infini, La tourrouge, L’incertitude du poète, Le rêve transformé: «pae-saggi» vuoti e sospesi nel silenzio di un’attesa indeci-frabile ed enigmatica nell’assoluta immobilità spazio-temporale, nei quali si prospetta un rapporto con la sto-ria del tutto inedito, alla cui base è la rielaborazionementale ed intellettuale di ogni possibile riferimentonaturalistico o realistico.

E poi, nel 1914, opere memorabili e «assolute»monumenti al silenzio e all’assenza – Mélancolie et mystè-re d’une rue, appartenuto (con Le cerveau de l’enfant) adAndré Breton ed amatissimo e studiato dai surrealisti,L’enigme d’une journée, Le départ du poète, Melanconia,L’enigme de la fatalité, Nature-morte, Turin printanière:malinconiche vedute di piazze italiane che traducono inimmagini, come ha scritto l’artista, «quel forte e miste-rioso sentimento scoperto nei libri di Nietzsche: lamalinconia delle belle giornate di autunno, di pomerig-gio, nelle città italiane».

Sul palcoscenico di questi paesaggi architettonici stra-niati dal tempo della storia, dalle prospettive distorte eallungate immerse in un silenzio artefatto, si dispongo-no gli oggetti (cose comuni e banali) nitidamente descrit-ti ma spaesati e fuori dimensione, combinati in rappor-ti che nulla hanno in comune con la logica della realtàdella veglia, ma «funzionano» piuttosto secondo i mec-canismi del sogno, nel quale si combinano contesti traloro differenti e diversi livelli di realtà convivono. Cosí,ancora, ne Le chant d’amour, uno dei capolavori dellapittura del secolo, o nei dipinti dedicati ad Apollinaire(Ritratto di Apollinaire e La nostalgie du poète), dovel’assenza della figura umana è accentuata dalla presen-za del suo «doppio», il suo calco, la sagoma, l’ombra.L’esistenza muta e allucinata delle cose, caricate di un

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loro autonomo ed inconoscibile significato, propone lavisione di una realtà doppia, di una seconda identitàdelle cose che comunica oscuri messaggi di inquietudi-ne. Nello scritto Sull’arte metafisica, De Chirico teoriz-za come «ogni cosa abbia due aspetti: uno corrente,quello che vediamo quasi sempre e che vedono gli uomi-ni in generale, l’altro lo spettrale o metafisico che nonpossono vedere che rari individui in momenti di chia-roveggenza e di astrazione metafisica»18.

Uno di questi «rari individui» De Chirico può aver-lo riconosciuto in Henry Rousseau, «caso» singolare eanomalo nella storia dell’arte dell’ultimo secolo. La suaè una pittura semplice e priva di qualsiasi regola acca-demica, dal disegno elementare e dalle prospettiveappiattite, che lascia sconcertato il pubblico del suotempo, ma che affascina poi enormemente i surrealistinon solo per la suggestione delle possibili interpretazio-ni simboliche dei suoi dipinti, ma soprattutto per quel-la tipica caratteristica dell’opera del Doganiere di ren-dere il sogno con un «eccesso» di realismo, anticipandola concezione surrealista della dimensione onirica comevera realtà. E prima di loro, l’atmosfera magica e miste-riosa, enigmatica e di continua sorpresa dei dipinti diRousseau non può non aver catturato la mente del gio-vane De Chirico, alla ricerca del «dèmone che è in ognicosa», che in quella pittura può trovare elementi straor-dinariamente vicini a ciò che egli stesso cerca di espri-mere. Lo stesso Apollinaire nota tale vicinanza, quandoscrive «Je ne sais à qui comparer Giorgio de Chirico: lapremière fois que j’ai vu ses tableaux, j’ai pensé instinc-tivement au Douanier».

Come nei quadri De Chirico, in quelli di Rousseau lasproporzione degli oggetti e la loro «assurda» convi-venza non rispondono alla logica del reale, e cosí i colo-ri, compatti ed assoluti, la luce sospesa e il tempo nonmisurabile, come bloccato in una «fissità onirica». Certo

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la dimensione onirica è, nella pittura di De Chirico, piúintellettuale e piú consapevole di quanto non si possarinvenire nelle opere dell’«ingenuo» Rousseau, con evi-denti riferimenti alle tesi freudiane sul sogno, quali quel-le dello spaesamento e dello straniamento degli oggettinella realtà, di cui De Chirico è primo ed indiscussomaestro, precursore riconosciuto (come d’altra parteRousseau) del Surrealismo.

Allo straordinario «teatro» metafisico di De Chiricoattingono infatti abbondantemente i surrealisti, affasci-nati dalla possibilità di usare l’arte come strumento peresprimere le immagini del sogno, riconoscendo alla pit-tura metafisica dechirichiana una sorta di paternità uffi-ciale del movimento, testimoniata, tra l’altro, dalla pub-blicazione del suo scritto Un rêve nel primo numerodella rivista «La Révolution Surréaliste», che porta incopertina un dipinto dell’italiano.

Savinio e De Chirico: il nuovo Classicismo

De Chirico, come si sa, non ha mai accettato di farparte del movimento surrealista, scelta condivisa su suoconsiglio da Alberto Savinio: «Non bisogna mescolarsiai surrealisti: sono gente cretina e ostile», scrive Gior-gio da Parigi nell’aprile del ’26 al fratello che si cimen-ta ormai con decisione anche nella pittura. Breton, dalcanto suo, prende decisamente distanza dalla via «clas-sicista» imboccata da De Chirico nei primi anni Venti,definendolo, nel 1928, «insultatore della sua giovinez-za» per la pittura seguita al periodo metafisico, e i suoiquadri recenti vengono giudicati «scherzi da rimbambi-to» (Aragon).

L’acrimonia dei surrealisti (da cui rimane esente JeanCocteau, che nel ’28 dedica all’artista il suo Mystère laïc)nei confronti del «nuovo» De Chirico non coinvolge

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con la stessa violenta negazione Savinio, con il qualevengono mantenuti rapporti piú o meno amichevoli, piúper le qualità di letterato che per quelle pittoriche.

In realtà sono ancora una volta le teorie estetiche diSavinio a fungere da fondamentale supporto per il pro-cesso di «revisione» della metafisica che De Chiricomette in atto dal 1919. Conclusasi l’esperienza ferrare-se, infatti l’arte di De Chirico muta radicalmente, e nelnome del rinnovamento della tradizione e del «ritornoal mestiere» assieme il fratello assume la guida – teori-ca e artistica – del recupero dei valori classici, di quei«Valori Plastici» che dalla rivista di Mario Broglio,conosciuta e diffusa a Parigi, conquisteranno nel decen-nio successivo l’intera Europa. E mentre attraverso larivista romana e le mostre europee (dalle rassegne inGermania alla «Fiorentina Primaverile» del 1922) sidiffonde l’«arte nuova» dei valori plastici, già le ricer-che dei suoi protagonisti volgono altrove: Carrà, con Ilpino sul mare e Il mulino di Sant’Anna, inaugura la svol-ta giottesca che impronta la sua pittura per tutti gli anniVenti, Morandi dipinge le inquiete e ombrose naturemorte in cui i contorni cominciano a sfaldarsi e la formava lentamente disfacendosi (Natura morta, 1921, dellacollezione Jesi), e De Chirico attraversa quel periodo di«crisi» (che si manifesta in quadri come Diana caccia-trice, Il ritorno del figliol prodigo e l’Autoritratto con lamadre dipinti durante il soggiorno romano) durante ilquale rivede radicalmente la sua pittura precedente edintraprende un «itinerario attraverso le stanze delmuseo» che lo porterà alla fine degli anni Venti a quel-la pittura «romantica» e «secentesca» esecrata dai sur-realisti.

Un processo che si svolge in stretta comunanza diidee con Alberto Savinio, il quale dal 1919 negli articolisu «Valori Plastici» va esponendo una sua idea di clas-sicismo che ingloba, all’interno di un percorso storico

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ancora aperto, la stessa metafisica, non essendo taleClassicismo «ritorno a forme antecedenti, prestabilite econsacrate da un’epoca trascorsa: ma raggiungimentodella forma piú adatta alla realizzazione di un pensieroe di una volontà artistica». Il «Classicismo moderno»per Savinio e De Chirico non si basa su una mera ripre-sa di forme consacrate da un’epoca precedente, ma èquestione di «pensiero» e di «volontà artistica»: è dun-que il prevalere del «movente filosofico (sia pure allostato di visione intuitiva) sul fatto plastico che ne è suc-cedaneo. (...) De Chirico e Savino hanno teorizzato que-sto intervento dell’intelligenza sull’emozione nel loroconcetto di Classicismo: De Chirico non vede in formeplastiche, ma in forme filosofiche, ideali, che, successi-vamente traduce in forme plastiche»19. E neppure leimmagini possono essere letterale traduzione visiva delpensiero: è dalla memoria (Mnemosine) che l’artista attin-ge le sue immagini, mescolando ricordi d’infanzia alleimmagini della storia dell’arte passata20.

E dunque il ritorno al museo non è per De Chirico(e per Savinio), come per i protagonisti del rappel à l’or-dre europeo, ricerca di solidi e certi valori formali per unrinnovamento del linguaggio artistico attuato attraver-so il recupero di forme pure e solide, di una plasticitàcomposta o ordinata nei volumi; De Chirico il ritornan-te (e con lui, sempre, Savinio) ripercorre le stanze delmuseo scavalcando ed annullando (nietzschianamente) iconfini del tempo e della storia, e dalla memoria ricon-duce tutto ad un eterno presente. Affermando unacostante possibilità di «reversibilità» della storia e con-cependo l’arte come «coscienza del tempo», l’artistaproclama la negazione del concetto unidirezionale deltempo (Weininger) e della storia come processo logicoconsequenziale.

Approccio complesso che trova espressione in unapittura dai modi mutevoli (si intrecciano tra loro i cosid-

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detti periodi classico e romantico) e dall’iconografia riccadi citazioni e di invenzioni: templi e colonne racchiusiin stanze, mobilia circondata da foreste, bagni miste-riosi, cavalli in riva al mare, gladiatori, statue e calchidi gesso, figure della mitologia classica, Odisseo, gliArgonauti, il Figliol prodigo, Apelle. «Chirico, né enGrèce – ha scritto Jean Cocteau – n’a plus besoin depeindre Pégase. Un cheval devant la mer, par sa couleur,ses yeux, sa bouche, prend l’importance du mythe».

E se nei dipinti parigini della seconda metà deglianni Venti scompaiono gli oggetti «assurdi» ed incon-grui, resta, dei dipinti metafisici, ed anzi si potenzia lospaesamento scenico (datano a questi anni le prime col-laborazioni teatrali con i Ballets Russes – Bal – e quelliSuédois – La Giara) e l’ambiguità dialettica tra l’internoe l’esterno: i templi dentro stanze chiuse da muri, imobili nella valle.

Tra i temi caratteristici dell’iconografia dechirichia-na degli anni del secondo soggiorno parigino (la cuifonte è stata individuata dalla critica nei sei volumi delRépertoire de la statuaire greque et romaine di SalomonReinach) uno dei piú assidui, accanto al ritrovato temadei manichini divenuti ora «manichini-archeologi», èquello dei gladiatori: personaggi senza volto dalle posestatiche studiatamente atteggiate, cui l’artista dedicaoltre cinquanta tele nel triennio dal ’27 al ’30. I gladia-tori sono anche il soggetto del grande ciclo eseguito perla casa di Léonce Rosenberg, gallerista de «L’EffortModerne» che alla fine del decennio chiama a decorarele stanze della sua casa alcuni degli artisti della galleriae tra questi (oltre all’architetto olandese Oud cui è affi-dato l’incarico di organizzare gli spazi, Max Ernst,Léger, Herbin, Metzinger, Picabia, che «allestisce» unastanza con una serie di sognanti Transparences) gli italianilegati a lui: Severini, che dipinge per l’occasione tregrandi pannelli con i personaggi della Commedia del-

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l’Arte inseriti in un paesaggio neoclassico popolato dimonumenti antichi e rovine, De Chirico, il quale mettein scena una ambigua rappresentazione di «scuola di gla-diatori» ed Alberto Savinio, che per la Maison Rosenbergdipinge sei grandi tele sul tema delle «città trasparenti».

Già conosciuto e stimato dagli intellettuali d’avan-guardia per la sua attività di musicista e di scrittore, sindalla sua prima mostra personale (alla Galerie JacquesBernhein nell’autunno del ’27) Savinio viene consacra-to pittore tra i piú interessanti del panorama parigino;entra in rapporto con la Galerie de l’Effort Moderne,centro nodale del cubismo sintetico del dopoguerra e delrappel à l’ordre parigino, e con il suo fondatore Rosen-berg – già mercante del fratello – che gli acquista alcu-ni quadri e include suoi dipinti nelle mostre collettivedella galleria, pubblicando anche suoi scritti nella rivi-sta della galleria, il «Bulletin de L’Effort Moderne».

Nel n. 28 del «Bulletin» (ottobre 1927) viene ripro-dotto il primo quadro di Savinio documentato dallefonti dell’epoca, Le rêve du poète, probabilmente dedi-cato allo scomparso amico della giovinezza GuillaumeApollinaire; nel dipinto, come nelle altre opere di que-sti primi anni di pittura, l’artista intreccia temi ed ele-menti tra loro diversi e distanti (citazioni classiche,spunti dalla quotidianità, memorie dell’infanzia) inun’unica complessa visione che unisce elementi natu-ralisti ad altri geometrici ed astratti, creando una sortadi nuova mitologia della memoria dove avviene unvagheggiato e muto incontro tra il contemporaneo (per-sonaggi ed interni borghesi) e l’antico (busti, statue ereperti della classicità). Il mistero del silenzioso dialo-go tra due diverse realtà si ripropone poi, nelle operesuccessive, nell’altrettanto ambiguo inserimento in sce-nari naturali di elementi incogrui – come avviene adesempio nella straordinaria serie dei «monumenti» aigiocattoli di cui fanno parte le tele per la Maison Rosen-

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berg e altre, come L’Ile des charmes – cui corrispondeuna variazione cromatica mutante come le immaginiriprodotte (colori tetri e spesso monocromi per la natu-ra, squillanti e allegri per gli elementi «artificiali» comei manichini o i giocattoli) ed una felice contaminazio-ne di modi espressivi: nel suo anticonvenzionale «reper-torio di stili» trovano luogo i piú diversi e contrastan-ti modi, da un accademismo di maniera all’espressivitàdella pittura romantica e «nordica», dall’impiego delsegno elementare delle illustrazioni popolari al lin-guaggio delle avanguardie.

Attraverso l’ironia e il gioco, componenti primariedella sua poetica, l’artista visualizza un mondo fantasticoe suggestivo le cui immagini non provengono, comequelle dei surrealisti, dalla dimensione onirica ma da unasorta di bacino della memoria (memoria della storia, siè detto, intrecciata a quella personale); un mondo in con-tinua trasformazione e mutazione (ché, come avevascritto qualche anno prima, «Il mondo è di continuo –come Venere – anadioménon: ché di continuo, su daqualche mar che lo gestiva in un travaglio misterioso, sisuscita un novello dio»)21, ma non drammatico o terri-fico. Cosí le metamorfosi zoomorfe degli «esseri mutan-ti» dei dipinti dal ’29 al ’32 non appaiono spaventosebensí fantastiche; lo strumento dell’ironia non è lamatagliente che ferisce le immagini ma sguardo visionario,spesso benevolo ed addirittura affettuoso: una certainnocente tenerezza, ad esempio, pare rendere inoffen-sivi i «dinosauri» dalle lunghe chiome al vento di Figu-re in una stanza e Bataille de Centaures, ed è con dignitàaffettuosamente ironica che le figure femminili di Damesen visite o La fidèle épouse portano le loro teste dalle sem-bianze di struzzo.

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I «Pittori italiani di Parigi» e l’Appel d’Italie

La pittura di Savinio, di per se stessa ambigua, vieneinterpretata dalla critica coeva (e dai suoi stessi compa-gni di strada) in diverso modo, a seconda delle singolescelte di campo. Cosí, accanto aduna pur diffusa e accre-ditata interpretazione in chiave surrealista, trova largafortuna quella legata ad una rinnovata idea di classici-smo, supportata dagli scritti teorici e letterari dell’arti-sta, ma soprattutto coerente alla linea di recupero deivalori classici nazionali che permea l’arte del Novecen-to italiano e le scelte politiche dell’ormai consolidatoregime fascista.

Sostenitore in terra francese di questa tendenza è ilcritico Waldemar George che, a partire dal 1927, si faportabandiera del rappel à l’ordre europeo in nome delritrovato spirito latino dell’arte contemporanea italiana,liberatasi finalmente dalle negative e fuorvianti influen-ze dell’impressionismo francese, contrapponendo al«Realismo magico» nordico un nuovo e solare «Reali-smo Mediterraneo».

Il giudizio largamente positivo di George sulla pittu-ra italiana contemporanea non è condiviso da uno deimaggiori protagonisti della vicenda artistica intorno acui il critico francese costruisce la sua teoria, Giorgio DeChirico. In una intervista a P. Lagarde pubblicata sullaparigina «Comoedia» il 12 dicembre 1927, con la con-sueta vena provocatoria, in aperto contrasto con le ideedi George, il pictor optimus infatti dichiara che «Il n’ypas en Italie de mouvements d’art moderne. Ni mar-chands, ni galeries. La peinture italienne moderne n’exi-ste pas. Il y a Modigliani et moi, mais nous sommes pre-sque Français. Les italiens sont souvent incomprehen-sifs par nature et moqueurs à tout mouvement moder-ne. (...) Les Italiens manquent de talent.» L’intervista, tra-dotta in italiano sulle riviste milanesi «Arti Plastiche»

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e «Il Torchio» (16 e 18 dicembre), scatena immediata-mente l’inevitabile polemica; in prima fila sono gli arti-sti che abitano a Parigi, e tra questi, soprattutto, sisente chiamato in causa Mario Tozzi che con i fratelliDe Chirico (e Severini, Campigli, De Pisis, Paresce)aveva fondato l’anno precedente proprio un movimen-to d’arte moderna, quel gruppo che, in seguito, Euge-nio d’Ors denominerà «Groupe des Sept».

Anche in seguito alle aspre parole di De Chirico,Tozzi – che nel ’26 aveva partecipato alla «I Mostra delNovecento Italiano» assieme agli altri membri del grup-po, tranne Savinio – inizia un’azione di promozione delnucleo dei pittori italiani attivi a Parigi, il cui primorisultato è la mostra degli Italiens de Paris aperta nelfebbraio ’28 al Salon de l’Escalier del Théâtre LouisJouvet agli Champs-Elysées: sono esposte un centinaiodi opere di tredici artisti: Brignoni, Campigli, De Pisis,Fornari, Giacometti, Licini, Martinelli, Menzio, Pare-sce, Severo Pozzati (Sepo), Ronchi, Severini e Tozzi,l’organizzatore della mostra. Come avverrà poi in altreoccasioni, accanto all’iniziale «gruppo dei sette» Tozziinvita altri artisti in quel momento a Parigi, come Ono-frio Martinelli, amico di De Chirico e De Pisis del qualeè ospite, Francesco Menzio, che tornato in patria l’an-no dopo entra nel Gruppo dei Sei di Torino, e SeveroPozzati, solido pittore cui arriderà un grande successointernazionale come uno dei massimi affichistes dell’e-poca. Mancano, riflesso della polemica in corso, sia DeChirico che Savinio, che partecipano in seguito (il primopiú assiduamente del fratello) alle numerose mostre delgruppo degli Italiani di Parigi, da quelle alla Galerie Zake alla Galerie Bonaparte del ’29 (dove troviamo anchemolti artisti di Novecento) alla presentazione italiana delgruppo nel ’30 (alla milanese Galleria Milano e poi allaXVII Biennale, dove però De Chirico non espone), sinoalla Biennale del ’32 e alla mostra dei «22 Artistes Ita-

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liens Modernes» alla Galerie Bernheim, presentata anco-ra una volta da Waldemar George, il teorico del grup-po sotto la cui ala si era tenuta già la prima uscita degliItaliens de Paris. A lui infatti si deve lo scritto di pre-sentazione degli artisti italiani che espongono al Salond’Escalier, pubblicato nel programma del teatro Jouvetper il mese di febbraio (Entr’Acte VI), nel quale – defi-nita la mostra come «un résumé schématique» dell’atti-vità del gruppo di Novecento «représenté par ceux d’en-tre ses membres qui habitent provisoirement Paris» –individua l’elemento comune agli artisti presenti in unagenerica – ma del resto italianissima – revisione deivalori fondata «sur les lois qu’observaient les peintresdu Quattrocento».

Difficile in realtà dire quale sia il carattere dominantedel gruppo di artisti riuniti da Tozzi, se non, appunto,la generica appartenenza ad un clima riconducibile almovimento del Novecento italiano. Come in Novecen-to («movimento di innocue disparate tendenze» lo defi-nisce nel ’29 Licini rispondendo al «QuestionarioScheiwiller»), all’interno del gruppo parigino conflui-scono tendenze non omeogenee ed a volte addiritturacontrastanti: dal classicismo ideale e «metastorico» deifratelli De Chirico a quello neo-quattrocentesco sospe-so di Severini, Tozzi e Paresce, che trova espressione inun nuovo ordine compositivo dell’opera, cosí come nellesottolineature prospettiche, nella definizione dei volu-mi, nella precisione del segno (del disegno); dall’arcai-smo di Campigli al lirico «impressionismo» di De Pisis.

Quest’ultimo, in verità, pur partecipando a tutte lemostre del gruppo – cosí come a quelle di Novecento –con i suoi connazionali parigini condivide ben poco, aparte una comune matrice metafisica. Colto e curioso diogni cosa, ama la pittura di Dosso Dossi, di Caravaggio,dello Strozzi e del Guercino (la bonne peinture «ricca,gustosa, pastosa, opulenta, di teneri incarnati ... di can-

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dore spumeggiante di panneggi, di pennellate rapide,estrose» di cui parla Briganti) ma non contempla alcunritorno classicista e tanto meno novecentista; posizionedel tutto anomala nell’ambito degli artisti italiani a Pari-gi, opposta anche (o forse soprattutto) a quella dell’a-mico De Chirico, ritrovato nella capitale francese quan-do già le esperienze pittoriche successive al periodometafisico hanno condotto i due artisti ad esiti del tuttodivergenti.

Nella capitale francese De Pisis va a rintracciare lefonti prime della sua nuova pittura, tutta vibrazioni dicolori e di luce che, mutevole, trascorre sulle cose sfio-randone appena la pelle, con una freschezza ed unaimmediatezza di tocco che ricorda la felice sensibilitàfenomenica della pittura impressionista, quella pitturaintrisa di luce che già lo aveva affascinato negli annidella giovinezza ferrarese e bolognese, quando con i gio-vani amici pittori e letterati leggeva avidamente «LaVoce» dove Ardengo Soffici pubblicava i suoi articolisull’impressionismo e l’arte francese.

Tutto della capitale francese lo incanta: la pittura diDelacroix, Manet, Renoir (cosí poco à la page nella Pari-gi del retour à l’ordre!), il «bel dipingere» dei grandimaestri che trova al Louvre, la gente nei boulevards, igiardini, le feste, la bellezza dei giovani che incontra perstrada ed invita a posare per lui. Scende per le vie perdipingere en plein air, e traduce le sue sensazioni visivenell’immediatezza e nella felicità di una pittura sensibi-le, sensuale ed istintiva, che si arricchisce di calibrati rap-porti cromatici e straordinarie finezze coloristiche checatturano la vitalità fuggevole e mutevole della realtà.

Resta, è vero, una traccia evidente dell’esperienzametafisica (vissuta allora piú da letterato che da pitto-re), che rivive in molte delle opere dipinte negli anniparigini: nature morte ambientate in un’atmosfera spae-sante e lievemente allarmata, popolate di crostacei, con-

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chiglie, pani e comunissimi ortaggi dalle dimensionifuori scala, isolati e straniati nello spazio scandito, spes-so, da quinte verticali o piani orizzontali e dipinti conun «fare largo» e arioso (Nature morte marine, Panesacro, Natura morta con bicchiere e pane). E che fannoscrivere a Giorgio De Chirico, nel testo del catalogodella seconda personale parigina dell’artista (Galerie AuSacre du Printemps, 1926) del «joli secret» di De Pisis«de nous montrer les choses les plus courantes dans l’at-mosphère la plus curieuse», e a Waldemar George –autore della prima monografia dedicata all’artista ita-liano (pubblicata dalle Editions Croniques du Jour,1928) – di «Poissons humanisés, poissons surnaturels!(...) Filippo De Pisis suggère dans ce tableau une idéepoétique qui devient une hallucination».

Compaiono spesso, nei dipinti parigini di De Pisis,elementi tratti dal repertorio iconografico classico, busti,statue e, a volte, lievemente accennata, una figurettabianca in riva al mare, omaggio tra l’ironico e l’affet-tuoso, al De Chirico metafisico: «Confesserò – scrive DePisis nel ’38 – che l’idea del filosofo greco in toga can-dida aggirantesi sulla riva del risonante mare la devo pro-prio a De Chirico, ma nelle mie composizioni (si vedala lunga serie delle Nature morte marine ...) questo filo-sofo è dipinto con fare largo (impressionista, per inten-derci ...), quasi una macchia che si confonde con lenubi». Da queste parole è possibile cogliere il senso delrapporto che lega l’artista alla tradizione classica, di«quell’abbraccio storico fra antico e moderno, in nomedella ‘bonne peinture’, all’ombra di quell’albero distraordinaria e rigogliosa bellezza che (...) si può chia-mare l’albero dell’impressionismo» (Briganti), che nullaha in comune con il ritorno all’ordine italiano ed euro-peo degli anni Venti e Trenta, teso soprattutto al recu-pero della plasticità della forma e dei valori costruttivie architettonici dell’opera.

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Di segno del tutto opposto è poi una delle tendenzedominanti la scena artistica parigina del tempo, cui par-tecipa lo stesso Severini e che non è senza rilievo pernumerosi suoi connazionali (tra questi in particolare perRené Paresce, il primo Campigli, Prampolini e Magnel-li): quella sviluppatasi dalle esperienze post-cubiste eche con il neoplasticismo di Mondrian ed il purismo diLéger, Ozenfant, Jeanneret-Le Corbusier, all’aprirsidegli anni Venti, acquista inedite cormotazioni «classi-ciste», debitrici queste ultime al clima italiano di «Valo-ri Plastici».

In Après le Cubisme (1918), che diviene il credo dellapittura purista, Jeanneret ed Ozenfant, pronunciandosiin modo assolutamente contrario alla posizione teori-co-pratica del cubismo, auspicano una nuova arte domi-nata da leggi universali, fondata su un geometrismo pla-stico austero e lontano da ogni debolezza decorativa, chenon si affidi alle facili giocosità del colore, ma che, attra-verso una pittura sobria tutta dedicata a restituire allarealtà la semplicità architettonica primaria, possa rag-giungere il «classicismo geometrico».

Questa esigenza di essenzialità e di rigore composi-tivo ed architettonico è profondamente sentita sia daParesce che da Tozzi e Campigli, le cui opere dei primianni Venti si fondano sulla duplice radice della «meta-fisica dei valori plastici» e dell’ordine formale dei puri-sti de L’Effort Moderne. E se Severini è il principaleriferimento per i primi due – il Severini «cubista» dellenature morte composte ed impaginate secondo puri valo-ri di misura e di stabilità architettonica per Paresce sinoal ’30 (Natura morta con fiori, 1926, e Cassettone con frut-ta, 1928), quello delle figure plasticamente individuatee bloccate in una fissità sospesa nel tempo per Tozzi –,al suo esordio Campigli si rivolge piuttosto alle figuregeometricizzate e «meccaniche» di Léger (Il pasto, Gio-catori di scacchi, entrambi del ’21). Ed anche in seguito

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(perlomeno sino al 1928, anno del folgorante incontrocon l’arte etrusca al Museo di Valle Giulia di Roma), purmitigandosi nelle opere di Campigli la rigidità geome-trica dell’immagine sotto l’effetto di una materia pitto-rica pastosa e tenera che si rifà all’affresco, la strutturaportante della sua pittura è nello spazio architettonicoindagato plasticamente, nell’equilibrio compositivo cuicorrisponde equilibrio cromatico, nel senso plastico dellesue figure dalle sagome esatte, tratte da una antichitàstrappata al mito e riportata alla quotidiana ferialitàdella vita.

La ricerca della forma archetipica lo conduce poi aglialbori dell’arte, ad un primitivismo arcaicizzante ierati-co e sospeso tra passato e presente, eternizzato nellepose semplici e maestose delle sue donne, nei loro gestiscanditi, nella quieta poesia della loro frontalità, memo-ria bizantina (La canicola, Mercato di donne e vasi). Le«stanze del museo» di Campigli non sono le stesse deisuoi compagni di strada, gli Italiani di Parigi e gli arti-sti di Novecento con i quali espone alle mostre nazio-nali ed internazionali: rivisita l’arte etrusca, la pitturapompeiana, l’arte bizantina non con spirito archeologi-co ma con la curiosità e la fascinazione di ritrovare nel-l’antico la radice del contemporaneo; Campigli «guardagli antichi per scoprire ‘costanti’ al di là di un’epocadeterminata». E per dar corpo al suo mondo evocativoed arcano, popolato di simboli, l’artista sceglie una cro-mia spoglia e gessosa, e una materia friabile che assor-be la luce, «insieme frusta e tenera (...) su fondi bian-chi, che mi ricordano i muri di Toscana coperti di graf-fiti fatti con la forchetta» (P.Courthion).

E d’altra parte, nel clima di «ritorno al mestiere» checaratterizza l’arte dei decenni tra le due guerre, il richia-mo alla materia pittorica dell’affresco è elemento comu-ne a molti artisti all’aprirsi del nuovo decennio, quandonon si tratta di vera e propria ripresa dell’antica tecni-

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ca (basti ricordare gli esempi citati di Severini, la gran-de impresa della Triennale del ’31, la pittura murale diSironi).

Una pittura materica e granulosa, che suggerisceeffetti plastici come a rilievo, caratterizza le opere dipin-te da Mario Tozzi nei primi anni Trenta, nelle quali ilclima di sospeso e rarefatto iper-realismo dei dipinti pre-cedenti acquista effetti di forte irrealtà, con fughe spa-ziali multiple ed una architettura compositiva rigorosa-mente meditata e pausata. Gli oggetti del quotidiano,sollevati dalla loro naturale caducità, si fissano cosí inuna staticità sospesa, divenendo protagonisti di unasorta di mitologia della ferialità.

Dalla realtà naturale, anche dalla natura «classica»dei paesaggi dipinti negli anni dell’adesione a Novecen-to, va staccandosi anche Renato Paresce; analogamentea Tozzi (col quale organizza, scrivendone il testo di pre-sentazione, la sala dell’«Ecole de Paris» alla XVI Bien-nale veneziana, invitando oltre agli italiani, anche arti-sti stranieri tra cui Chagall, Ernst e Marcoussis), l’arti-sta costruisce il suo spazio (spazio teatrale e «metafisi-co») attraverso un ambiguo moltiplicarsi delle prospet-tive, fatte da quinte, aperture, sfondati, scale, porte,finestre, che collegate le une nelle altre, intrecciate esovrapposte, creano un inquietante effetto di spaesa-mento e di «impossibile» realtà. In tale spazio ambiguoed allusivo l’artista colloca le forme, semplificate insagome volumetriche essenziali e primitive e bloccate inuna fissità misteriosa e silente: statue ritte sul piedi-stallo, figure-manichini senza volto, oggetti comuniacquistano una sorta di arcana ieraticità a cui non mancauna sottile vena di misticismo trascendente il reale.

Tali contaminazioni tra la saldezza formale di Nove-cento e certo spiritualismo parasurrealista sono caratte-ristica comune di una vasta area di tendenza largamen-te diffusa a Parigi negli anni Venti, nella quale, sulla

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base postmetafisica e sotto il comune denominatore diuna immaginazione visionaria, confluiscono influenzepuriste e poetiche limitrofe al surrealismo.

A questa area si riferiscono esperienze artistiche didiverso segno, come, tra gli italiani «parigini», la pittu-ra fantastica e surreale di Alberto Martini, che a Parigisoggiorna per sei anni stringendo saldi rapporti con arti-sti e letterati francesi legati al surrealismo (tra cui lo stes-so Breton, che ritrae nel ’29), ed il lirismo cosmico diEnrico Prampolini e di futuristi torinesi Fillia ed Ali-mandi.

Sul «meccanicismo» delle opere degli anni Venti diPrampolini (La palestra dei sensi, 1923) ed in seguito diFillia (Plasticità di oggetti, 1928), legato alle esperienzepuriste, interviene infatti una nuova componente lirica,quasi una nuova mitologia le cui radici attingono allapoetica della Metafisica, e che – coinvolgendo profon-damente l’uomo e il suo mondo nella ricerca di una tota-le partecipazione della figura umana allo spazio cosmi-co (Forme forze nello spazio di Prampolini) – volge l’e-stetica della macchina in termini spiritualistici e para-surrealisti. C’è infatti una indiscutibile parentela tra gliesiti aeropittorici di Prampolini, Fillia, Oriani, Aliman-di e la particolare linea poetica di tendenza surrealistache da Picasso passa a Max Ernst e poi ad Henry Moore,e che coinvolge soprattutto la figura umana, sottopostaad un processo di deformazione organica che la trasfor-ma in ambiguo vegetale-animale dalle forme circolarisguscianti, deformazione che porterà alcuni surrealisti –Mirò, Tanguy, Masson ed Ernst stesso – al limite trafigurazione ed astrattismo.

Un clima a cui, d’altra parte, non sono estranei glistessi astrattisti italiani del gruppo del Milione, in con-tatto, attraverso l’architetto futurista Alberto Sartorise gli stessi Prampolini e Fillia, con i gruppi di «Cercleet Carré» e «Abstraction-Création» che riuniscono,

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nella prima metà degli anni Trenta, artisti provenientidalle file postcubiste e dal neoplasticismo, da Arp aBaumeister, da Léger a Kandinsky.

Questo entourage internazionale, tiene a battesimoanche la nuova tendenza astratta che caratterizza la pit-tura di Alberto Magnelli, giunto a Parigi nel ’31 con unricco bagaglio di esperienze in ambito figurativo chevanno volgendosi – proprio in questo torno di tempo –in un nuovo tipo di astrazione. Dopo la visita alle cavedi marmo di Carrara compiuta nell’estate del ’31 (appe-na prima del suo viaggio parigino), che gli ispira la primaserie delle Pietre, ed entrato in contatto con Picasso, LeCorbusier e Kandinsky, Magnelli imbocca con decisio-ne la nuova via astratta. Le sue Pierres, nelle prime proveancora legate a forme naturalistiche, si vanno sempre piúrarefacendo, e assumono connotazioni plastiche auto-nome rispetto alla realtà, seppure legate ad una sorta divisionarietà stravolta apparentabile con certo linguaggiosurrealista. «Personaggi giganteschi, antropomorfi ediperbolici» li definisce Anatole Jakovskj in un ampioarticolo dedicato all’importante mostra (la seconda,dopo quella del ’33) che l’artista tiene alla galleria diPierre Loeb nel ’34, esponendo oltre trenta dipinti dedi-cati al soggetto delle Pierres.

I due gruppi – quello proveniente da Novecento equello legato agli sviluppi «postcubisti» – pur percor-rendo vie autonome hanno reciproche intersecazioni edalternativamente fungono da richiamo per gli artisti ita-liani che ancora per qualche tempo, sino ai pieni anniTrenta, compiono il fatidico viaggio parigino22.

Tra questi, nutrito è il gruppo di artisti romani chefrequentano la capitale francese negli anni a cavallo delquarto decennio: vi soggiornano per periodi piú o menolunghi Antonio Donghi, Antonietta Raphaël e MarioMafai, Francesco di Cocco, Fausto Pirandello, Ema-nuele Cavalli (i tre espongono insieme nel ’28 al parigi-

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no Salon Bovy), Giuseppe Capogrossi e Corrado Cagli,rappresentanti del cosiddetto tonalismo romano. Il soda-lizio tra Capogrossi, Cagli e Cavalli, che porterà nel ’33al Manifesto del primordialismo plastico (cui aderisceanche Melli, mentre Cagli si ritira quasi subito) ha la suainvestitura ufficiale fuori d’Italia con la mostra che i treartisti (cui si aggiunge il pittore Ezio Sclavi) tengono nel’33 alla Galerie J. Bonjean. Ed è ancora una volta Wal-demar George, innamorato dell’idea di italianità e gran-de sostenitore degli italiani, ad accogliere sulla scenaparigina i «nuovi arrivati» rappresentanti, come scrivenel catalogo della mostra, della nuova «école de Rome».Nel testo George riconosce nei giovani artisti romani gliinterpreti della sua teoria «umanista» dell’arte, enun-ciata oltre che negli scritti critici (segnaliamo, tra tutti,il testo di presentazione della sala degli «Appels d’Ita-lie» alla Biennale del ’30 ed il volume Profitti e perditedell’arte contemporanea del ’31) anche in una conferen-za tenuta nel marzo dello stesso anno al Circolo Artisticodi via Margutta a Roma.

La sua teoria artistica – in perfetta coerenza con lalinea sostenuta in Italia dal regime fascista – è basata sulriconoscimento della comune radice dei popoli mediter-ranei nello spirito latino e classico, uno spirito che eglivede rinnovato nell’arte italiana contemporanea e nonsolo italiana. Il suo discorso infatti non intende riferir-si ad una configurazione di uniformità del linguaggioplastico o di stile specifico e ben riconoscibile, ma sirichiama ad una disposizione mentale, «ad uno statodella sensibilità e dell’intelligenza», che unisce artistidiversi e di differente nazionalità e diversi linguaggi.

«Una volontà collettiva e cosciente di ritrovare losmarrito sentimento dello spirito italiano. Questa ten-denza si afferma già da qualche anno ed è seguita ormaidai migliori tra i giovani artisti, da quelli che rappre-sentano lo stato piú attuale della pittura in Francia. (...)

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L’Italia è la loro meta, la loro fonte d’ispirazione eter-namente viva»; sofficianamente concludendo: «A noipoco importa che i maestri della pittura moderna sianoo no d’origine italiana. (Alcuni di essi lo sono ....). Noicerchiamo soprattutto di mettere in evidenza il prima-to e la supremazia dell’italianità considerata come unacosmogonia, come uno stile, come un modo, come unordine»23.

Il «nouveau humanisme» di Waldemar George chiu-de cosí, agli albori della seconda guerra mondiale, ilgrande cerchio aperto da Soffici all’aprirsi del secolo (enon è certo casuale che sia proprio Soffici a tradurre initaliano Profitti e perdite dell’arte contemporanea), con ilriconoscimento di quella centralità dell’arte italiana cheil toscano auspicava nei suoi scritti e che il critico fran-cese individua come elemento «rivoluzionario» dell’ar-te contemporanea: la «nuova affermazione di dominiodell’Italia sull’arte Europea».

Ma i tempi corrono veloci e già dalla metà degli anniTrenta si avverte il mutare delle tendenze: nuove ten-sioni emergono, altri orizzonti si prospettano e con essila crisi dei valori della classicità e della forma su cui Sof-fici, Canudo e George avevano fondato le loro teorieestetiche. Con lo svilupparsi dell’arte non figurativa el’affacciarsi delle nuove poetiche dell’Informel il centrodella sperimentazione artistica va spostandosi oltre ocea-no, sino a che, con lo scoppio della seconda guerra mon-diale, il testimone di capitale dell’arte mondiale passaufficialmente a New York.

Quasi nostalgica appare l’impresa di riunire ancorauna volta, nel ’37, il gruppo degli artisti Italiani di Pari-gi in una ultima mostra (alla Galerie Charpentier, men-tre l’anno prima se ne era tenuta una alla Galerie deParis), rinnovando il tentativo di dare forza a quel «Sin-dacato Artisti residenti all’estero. Sezione di Parigi»che Antonio Maraini aveva fondato nel ’33 affidando-

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ne la segreteria ad Umberto Brunelleschi, e a cui eraseguita la mega-esposizione alla Galerie Charpentier,con oltre 150 opere di sessanta artisti: un grande e disor-ganico pastiche di artisti e di opere che suona, infine,come epitaffio di una grande avventura.

«Noi – scriverà Savinio nel 1942 ricordando il soda-lizio parigino – il carattere della nostra pittura è questadura, rigorosa costruttività, non raddolcita di auraromantica (...) ma solo velata da un sentimento poeticoal di là dal tempo, e dunque metafisico».

1 P. Fossati, Disegno italiano fra le due guerre, Modena 1983, p. 65.2 La maggior parte degli artisti italiani che raggiungono Parigi nei

primi anni del Novecento si trova ancora nella capitale francese alloscoppio della Prima guerra mondiale e rimpatria entro il 1915. Questadata risulta cosí essere un confine cronologico, una sorta di metafori-co spartiacque tra un primo nucleo di presenze, databile dall’inizio delsecolo alla guerra, ed un secondo, forse piú omogeneo e compatto purnelle naturali diversità, dei cosiddetti «Italiani di Parigi», che si situanel periodo di anni tra le due guerre e di cui fanno parte alcuni tra imaggiori artisti italiani (in questo caso è piú corretto dire europei) delsecolo.

Tralasciamo, qui, di trattare il gruppo di artisti – come De Nittis,Boldini, Mancini, Rosso, Zandomeneghi – che nella capitale francesesi recano allo scadere del secolo precedente e che vi si trattengono avolte sino alla morte, cosí come quei giovani che, richiamati dai moltimaestri residenti a Parigi, vi si recano nella seconda metà degli anniTrenta, come ad esempio Renato Birolli (1936) e Giuseppe Cesetti (dal1935 al 1937 per tornarvi poi dal 1955 al ’57 come direttore della Scuo-la d’arte italiana di Parigi) o vi si trasferiscono per sfuggire alle perse-cuzioni razziali o per ragioni politiche.

3 G. Apollinaire, Le vernissage de la Nationale, in «L’Intrasigeant»,15 aprile 1910, ora tradotto in Apollinaire G., Cronache d’arte1902-1918, Palermo 1989, p. 87.

4 A. Soffici, L’Impressionismo a Firenze, in «La Voce», Firenze,maggio 1910.

5 Rivista fondata nel 1912 sotto la guida di André Salmon e Apol-linaire e di cui è musa e nume tutelare Hélène d’Oettingen (la Baro-nesse). La Baronessa, «cugina» di Serge Jastretzoff pittore cubista che

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prenderà il nome d’arte di Serge Ferat, scrittice essa stessa, sarà poiispiratrice di altre imprese editoriali, come le riviste «Nord-Sud» (tito-lo questo di un quadro di Severini), «Sic» di Albert-Briol e «Action».La lega a Soffici una lunga e burrascosa relazione d’amore.

6 G. Severini, La vita di un pittore, Milano 1965, p. 50.7 G. Cortenova, La magica irriverenza di Amedeo Modigliani, in

Modigliani a Montparnasse 1909-1920, Milano-Roma 1988, p.21.8 Scarsissimi sono i documenti figurativi giunti a noi del periodo

parigino di Licini; una ragione del fatto è data dall’artista stesso nelsuo «Ricordo di Modigliani» del 1934 dove, parlando di un ritrattodonatogli da Modigliani, annota: «Quel disegno che fece di me unasera, io l’ho perduto insieme ad altre cose mie, che furono distrutte dauna donna che mi ha amato ed odiato. Io ne porterò con me eterna-mente il rammarico e la colpa». Ora in O. Licini, Errante, erotico, ere-tico. Gli scritti letterari e tutte le lettere (a cura di G. Baratta, F. Barto-li, Z. Birolli) Milano 1974, p. 95. L’artista torna frequentemente nellacapitale francese anche negli anni del dopoguerra, tanto che Tozzi neinclude il nome tra i primi Italiens de Paris.

9 G. Severini, La vita di un pittore, cit., p. 73.10 Questo ultimo chiarimento si riferisce probabilmente alla pole-

mica dichiarazione di Giorgio De Chirico su «Comoedia» del dicem-bre ’27, in cui l’artista dichiara che la pittura italiana «n’existe pas» egli unici pittori sono lui e Modigliani, peraltro «presque Français». Aproposito dell’episodio, vedi qui p. 663.

11 La lunga lettera citata, sei pagine di scrittura minuta e fitta, siconserva presso l’Archivio Marinetti alla Beinecke Manuscript andRare Book Library della Yale University (Conn. U.S.A). Il testo, ine-dito, è stato pubblicato dalla scrivente in S. Evangelisti, Il futurismoitaliano negli anni Venti, tesi di Dottorato di Ricerca, Università degliStudi di Bologna, 1987, pp. 319-24.

12 A questo proposito, nella sterminata bibliografia del futurismo,si veda l’articolo di G. Lista, Dossier: Le futurisme et le cubo-futurisme,in «Cahiers du Musée National d’Art Moderne», Parigi 1980, n. 5,dove è raccolta una piccola antologia di recensioni alla mostra comparsesu giornali parigini.

13 «Delaunay, che con la sua ostinazione e il suo talento, ha fattosuo il termine ‘simultaneo’ preso in prestito dal vocabolario dei futu-risti, merita il nome della sua firma: Le Simultané» scrive Apollinairenel novembre 1913 in «Les Soirées de Paris».

14A. Savinio, I Fini dell’arte, in «Valori Plastici», a. I., n. 6, Roma,giugno-ottobre 1919, p. 21.

15 Dalla prefazione al catalogo della Exposition Giorgio de Chirico allaGalerie Jeanne Bucher di Parigi nel maggio 1927.

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16 Per questo aspetto della formazione di De Chirico si veda M. Cal-vesi, La metafisica schiarita, Milano 1982.

17 Nel recensire il Salon d’Automne su «L’Intransigeant» del 16novembre, Apollinaire ricorda «M. De Chirico, peintre inhabile et trèsdoué, expose de curieux paysages pleins d’inventions nouvelles d’uneforte architecture et d’une grande sensibilité.» Ora in G. Apollinaire,Chronique d’art 1902-1918, Paris 1960.

18G. De Chirico, Sull’arte metafisica, in «Valori Plastici», Roma,aprile-maggio 1919, p. 16.

19 P. Baldacci, Giorgio de Chirico, l’estetica del Classicismo e la tra-dizione antica, in Giorgio de Chirico. Parigi 1924-1929 (a cura di Fagio-lo M. e Baldacci, P.), Milano 1982, p.59.

20 Scrive Gaston Bachelard in La poetica della rêverie, Bari 1987, p.60, che «tra il concetto e l’immagine non c’è sintesi. E nemmeno filia-zione. (...) L’immagine non può dare materia al concetto. Il concettodando una stabilità e solidità all’immagine soffocherebbe la vita».

21A. Savinio, «Anadioménon». Principi di valutazione dell’Arte con-temporanea, in «Valori Plastici», Roma, nn. IV e V, aprile-maggio1919, p. 7.

22 Tra i molti ricordiamo Osvaldo Medici Del Vascello – che studiae vive a Parigi dal 1925 al 1939, frequentando Magnelli, Léger, Le Cor-busier, Gris –, Giuseppe Gorni, emigrato per ragioni politiche, e poiMarino Mazzacurati, Franco Gentilini, Mauro Reggiani.

23 Dal catalogo della XVII Biennale di Venezia (1930): W. George,«Appels d’Italie», testo introduttivo alla sala 23 dove sono riuniti arti-sti italiani e stranieri della «scuola parigina» per i quali «l’Italia rap-presenta una visione del mondo e della vita».

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