marsigli schiavitu' 1930

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Memory of enslavement by the turks

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f. S. A.[ V E N E Z I A

B I B L I O T E C A

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N U O V A S C E L T A DI C U R IO S IT À L E T T E R A R IE

I N E D I T E O R A R E

N. 5

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LA SCHIAVITÙDEL

GENERALE MARSIGLISOTTO I TARTARI E I TURCHI

D A LU I S T E S S O N A R R A T A

A CU R A

DI

E M I L I O L O V A R I N I

BOLOGNA

N I C O L A Z A N I C H E L L I

>93*

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QUESTO VOLUME È STATO STAMPATO

SOLTANTO IN 25O ESEMPLARI NUMERATI

DEI QUALI 20 IN CAR TA A MANO

91. 6 8

L’ EDITORE ADEMPIUTI I DOVERI

ESERCITERÀ I DIRITTI SANCITI DALLE LEGGI

Bologna - Coop. Tipografica Mareggiani - 3. 4. 1931. ix

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P R EFAZIO NE

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Tr a le relazioni scritte e dettate da schiavi libe­rati, molte ve ne saranno di commoventi e

curiose, ma più di quella pubblicata dal generale M arsigli tre anni prim a di morire (e che qui si ripubblica, perchè rara) dubito forte che non se ne trovi una.

D ella propria “ schiavitù e delle sue conseguenze funeste egli scrisse di sua mano una diligentissim a relazione che non si può leggere senza lagrim e; e certo per renderla degna di com passione e di pianto non vi facea m estiere d’ arte alcuna, tanto era triste e penosa Così un forbito scrittore contempo­raneo; il quale, riflettendo poi a certi straordinari e incredibili incontri in essa narrati, notava: “ La Fortuna talvolta fa succedere alcune cose che più da romanzo sembrano, che da storia „ 2. Nè im pres­sioni punto diverse mostrarono d’ averne avuto altri che la lessero prim a o dopo di lui.

A ggiu n ge ora un dotto un gh erese3 che essa è bella ed istruttiva, onde meriterebbe di essere ri­stam pata e diffusa a m igliaia di copie. Ed istruttiva è infatti, anzi educativa — anche a prescindere dallo scopo caritatevole che si proponeva — , perchè

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inform ata a un profondo sentimento di dignità umana e di fede religiosa, il quale prim a che nella parola fu sem pre vivo negli atti stessi di tutta la travagliosa vita dell’ autore: sentimento sincero e saldo come in pochi uomini al mondo.

G rande e costante fu specialmente in lui il culto della Vergine, alla quale confessava d’ essere debitore d’ ogni bene. Quando giovane egli m ilitava contro i turchi in Ungheria, fu Essa a volere con la prigionia, incominciata appunto il giorno della sua Visitazione (2 luglio 1863), punirlo salutarmente de’ peccati commessi e poi liberarlo, nove mesi dopo, in un altro suo giorno festivo, in quello del- l’ Annunciazione (25 marzo 1684).

Ritornato in patria e rim essosi appena in salute, fu suo primo pensiero mantenere due promesse fatte a Maria : visitò prima la Santa Casa di Loreto— e qui probabilm ente, dice un suo intimo amico4, contrasse quel voto, che osservò scrupolosam ente per tutta la vita, di digiunare a pane e acqua in tutte le vigilie delle sue feste; indi si recò alla Santissim a Annunziata di Firenze — e qui appese al muro della chiesa le catene che aveva portato seco dalla sua prigionia.

Molti anni appresso, quand’ ebbe fondato l’ isti­tuto delle scienze in Bologna, che si allogò nel superbo palazzo Poggi in v ia Zamboni, oggi sede dell’ università, volle che al pianterreno, nella prima aula a sinistra, dove è presentemente — chi l’ avrebbe previsto? — la portineria, si costruisse una cappella da dedicare a Maria Annunziata. E allora si fece

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PREFAZIONE 5

innanzi — per singolare fortuna o predestinazione — un alto prelato, che da quando era sacerdote sempre s’ era ricordato di lui nei suoi sacrifizi5, e s’ impegnò di decorarla e di arredarla convenientemente. “ Spero— gli sc r iv e v a 6 — che Iddio mi aiutarà, per non m ancare alla cappella dell’ istituto, di cui sino che v ivero mi pregiarò d’ avere il titolo d’ avvocato, come pure quello di veneratore del di lei gran merito

N e l l a lettera, dove sono queste parole, suona inoltre una magnifica lode del M arsigli, degna d’ es­sere scolpita nel marmo e che io mi faccio un dovere di render nota:

“ Venerata persona, che nei tempi m iserabili fa risplendere l ’ Italia e nell’ Italia Bologna

Io non so se altra mai più gradita sia giunta a quell’ anima sitibonda di gloria, che in mezzo al- 1’ ignavia, all’ indifferenza, all’ incomprensione, al- l’ ingratitudine dei più, im paziente d’ ogni ostacoloo indugio, con impeto e tenacia che pareva protervia e gli m oltiplicava intorno contrasti invidie dispetti, profondendo sostanze ed energia, impetrando e ottenendo da sovrani e da privati aiuti doni favori, andava attuando senza posa il grandioso proposito che Bologna non dovesse essere seconda a nessuna città del mondo nel progresso moderno delle scienze, nelle lettere, nelle arti di pace e di guerra, e nelle opere di pietà.

Due prepotenti passioni albergava il suo gran cuore: “ furor di gloria e carità di figlio Ma pure la voce di questa per solito superava l’ altra e sapeva

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6 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

farla tacere. A l sospetto che si potesse attribuire ai suoi tanti affanni altro m ovente che l’ amor patrio, fu udito da molti protestare quasi sdegnoso:

A che scopo insomma queste mie fatiche? A che pensoio mai? A che miro? — A ciò solo: che non venga meno questa illustre città mia e a me carissima patria; ma che si regga, che anzi sorga e fiorisca di più e che, col culto degli studi tornando di nuovo in favore, riacquisti la bel­lezza dell'antico decoro. Quando i miei concittadini siano occupati in buone opere, quando splendano per virtù e fama, quando godano i vantaggi di un’ onoratissima esistenza, io mi ritrarrò volentieri e me n’ andrò di questa vita, perchè vedrò di aver riportato d'ogni fatica abbon­dantissimo frutto7.

Ed era sincero. Il che non toglie che gli dovesse riuscir gradita quella lode, fattagli dall’ unico bolo­gnese che per più ragioni, ma sopratutto per l’ amore operoso verso il luogo nativo, possa a lui parago­narsi, anzi dirsi suo em ulo8, da colui che allora era arcivescovo di Ancona e dieci anni dopo la morte del M arsigli salì il trono di S. Pietro col nome di Benedetto X IV . L ’ alto senno e la discrezione del lodatore, persona schiva per natura di qualunque finzione ed eccesso, danno un valore raro alla sen­tenza, e di una più rara autorità oggi essa si riveste ai nostri occhi che già la vedono sotto la insegna delle somme chiavi.

I l primo dono di m onsignor Prospero Lam ber­tini alla cappella fu forse quello d’ un grande calice scannellato d’ argento di Rom a, con la patena d’ ar­gento dorato, del peso di più di 30 once, in sua

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PREFAZIONE 7

custodia coperta di dam aschino9. Non desiderando il donatore d’ esser palese prega il generale di ri­porlo a suo luogo : “ senza che si sappia chi l’ abbia mandato, per il quale effetto Vostra Eccellenza potrà vedere che non vi sono nè arme e nè nome ; e se Iddio mi darà m aggior comodo Ella resti pure ar­sicurata che non mi scorderò dell’ istituto e spe­cialmente della cappella, parendomi che questa debba essere il principale oggetto di chi batte la strada ecclesiastica „10.

Come fosse memore di tale prom essa verso 1’ istituto lo dirà la storia di Bologna durante i felici anni del suo pontificato. Qui basti ricordare fra l’ altro che a sue spese provvide a far decorare e dipingere la cappella, e scelse il pittore Marc’ A n ­tonio Franceschini per eseguire il quadro dell’ A n ­nunciazione, che in cornice dorata fu posto colà sopra l’ altare.

Era il 1727, e il M arsigli, ottenuta 1’ autorizza­zione di collocare nella cappella una cassetta in cui raccogliere 1’ elemosine per la liberazione degli schiavi bolognesi, concordò con gli uomini dell’ ar- ciconfraternita di S . Maria della Neve, detta anche del Riscatto, della quale era socio, una solenne cerimonia da farsi in quel luogo sacro il 25 marzo di ogni anno, * per implorare da Dio — tra l’ altro — la costanza e perseveranza nella santa religione cattolica da que’ cristiani, massime bolognesi, che si trovano in schiavitù „.

A queste convenzioni, fermate con rogito nota­rile del 22 m arzo 1727, allegò il predetto R a g ­

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8 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

g u a g l i o della schiavitù da lui stesso sofferta, per muovere più facilmente la pietà verso quegli infe­lici cristiani che soffrono sim ili pene in mano dei turchi e per dimostrare col suo esempio ai confra­telli “ quanto sia valida ed efficace la protezione di Maria V ergine ,,u .

Per questi fini dunque e in quest’ occasione com parve il detto Ragguaglio, alla distanza — come si vede — di ben quarantatrè anni (quasi mezzo secolo) dagli avvenimenti. Naturalmente vien voglia di sapere se ne esistano altri meno tardivi, che potrebbero anche essere più esatti. Ci sono, e no­tevoli; e pure non infirmano quasi nulla di quel che si legge in esso, nè lo rendono superfluo; anzi spesso si compiono e suffragano a vicenda con la varietà dei particolari e dell’ esposizione, onde è bene così pubblicarli, come leggerli, tutti insieme uniti.

Ci sono le pagine relative dell’ A u t o b i o g r a f i a rim asta finora inedita la quale ho qualche buona ragione di creder compilata circa vent’ anni prima a Milano, perchè rim anesse positiva testimonianza di quanto l’ autore aveva operato e sofferto in ser­vizio dell’ imperatore, nel cui nome era stata pro­nunziata la sentenza di Bregenz contro di lui che la chiamò “ orribile ingiustizia, senza esempio da poi che la casa d’ A ustria regna „13.

Prim a assai, nell’ anno della sua liberazione, se si ha da credere al cronista Ghiselli M, * molte rela­zioni e stam pate e m anoscritte andavano attorno Ma, con le due predette scritture di tanto poste­riori, a me non è riuscito di trovare altro che una

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PREFAZIONE 9

copia d’ una lettera inedita e sperduta del Marsigli, fatta dal F a n tu zzi15, che la intitolò:

“ M e m o r ia le a Giuseppe, re de’ romani, figlio di Leopoldo imperadore, scritta dal conte Luigi M arsigli, tornato dalla schiavitù a Bologna „.

Titolo improprio, perchè il 17 m aggio 1684, data della lettera, Giuseppe d’ A bsburgo non era stato creato ancora re dei romani, il che avvenne solo il 26 gennaio 1690. A llora aveva appena sei anni scarsi e, a voler dire la nostra opinione, senza — Dio ce ne guardi — mettere in dubbio l’ efficacia del- l’ eccellente sua istruzione affidata al principe di Salm , 1’ augusto fanciullo pare un lettore di epistole italiane un poco precoce. Ciò non esclude che qualcuno potesse leggergliene, specie se contene­vano “ qualche notizia curiosa che solo allora se ne interessava, come mostra di credere il Mar­sigli, la cui credenza doveva pur avere qualche fondamento.

In ogni modo il M arsigli g li deve scrivere per ringraziare lui (o altro per lui?) di aver già dato segno di * generoso patrocinio „ verso la sua per­sona e la sua casa, con intercedere presso l’ augusto genitore, per sollevarli dal grave dispendio incon­trato nella liberazione. Che tale soccorso almeno in parte si effettuasse siamo più che sicuri, perchè ne sussiste la prova in un documento dell’archivio m ilitare viennese, che attesta come il 5 giugno d ell’anno seguente furono a questo titolo rimborsati al conte 600 zecchini 1C.

L a narrazione contenuta nella lettera prende le m osse, con una certa sostenutezza da storia ufficiale,

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IO LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

dall’ entrata in guerra e arriva alla cattura dello scrivente, avvenuta il 2 luglio 1683. D oveva segui­tare e com piersi in un’ altra lettera da spedire “ per la futura posta „: ivi si sarebbero unite, egli promette, “ tutte le notizie della schiavitù e mia libertà, e quelle parimenti che ho raccolte per sta­bilire quali siano le forze e ordine de’ turchi nella guerra Sarà stata scritta; ma purtroppo andò perduta come quelle altre * molte relazioni e stam­pate e m anoscritte „.

Comunque questa rim astaci ha il suo valore, non soltanto perchè il M arsigli la scrisse quando da soli dodici giorni aveva riveduto il luogo natio, ma sopratutto perchè intendeva con essa mostrare alla corte come egli si fosse comportato coraggio­sam ente e lealm ente in quei frangenti, in mezzo agli ungheri infidi e in particolare di fronte al conte Batthyàny che, passato allora al nemico, poco ap­presso era stato perdonato, essendogli state menate buone, s’ è vero n , certe m agre scuse, che possono riassum ersi nel motto: soldato che fugge, buono per un’ altra volta.

L eviam oci d’ attorno, caso mai ci assediasse, uu dubbio. Ciò che in principio s’ è detto della sin­cerità religiosa del M arsigli, s’ ha da credere per fermo anche della sua lealtà e del suo valore, sempre esenti d’ ogni sospetto. Non c’ è nulla, nulla affatto che sm entisca quanto egli scrisse di sè.

Quantunque un momento avanti di cadere nelle mani dei tartari egli avesse a buon conto gettato in una palude la patente con * tutte le lettere che

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PREFAZIONE

teneva in saccoccia (la m aggior parte del duca di Lorena) „ 1S, in un volum e dei manoscritti mar- sigliani 19 si trovan raccolte parecchie copie e originali di lettere scritte ne’ giorni che prece­dettero immediatamente la cattura, una perfino di sette giorni innanzi; le quali non ebbero la stessa sorte, perchè due del duca di Lorena, del 15 e del 28 maggio, con altri documenti, de­

vono esser state consegnate prim a a persona che le portò in salvo, e le altre sue, recapitate ai destinatari, egli potè più tardi riavere per copiarle e tradurle, nonché conservarle a prova della sua condotta.

D a tutte queste infatti risulta esatto quanto scrisse nel suddetto Memoriale e nell’Autobiografia, intorno a quel che allora vide e fece: la ricognizione minuta del Raab, le provvidenze necessarie, i ponti da conservare e quelli da togliere, i forti, le trincee e le palizzate rizzate ne’ punti deboli, le relazioni sulle diete tenute da que’ “ cervelli torbidi „ degli ungheri ecc.

Ecco, ad esempio, che cosa scriveva al duca, dopo essere entrato nell’ isola del Rabau ed aver assistito in K eso ad un’ adunanza di Nicolò Dra- skow ics col vescovo di GyOr e Stefano Nàdasdy, cognato del T hòkdly :

Non si è fatto che beffeggiare alla tavola sopra 1’ ar­mata di Sua Maestà Cesarea ; et innanzi e dopo di essa hanno tenuto longhe sessioni che, per dirla, non mi piac­ciono, oltreché scorgo gran lentezza, da pochi giorni in qua, a dare la mano all’ esecuzione del cominciato. E s’ as­sicuri Vostra Altezza Serenissima, non perderò di vista

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ogni possibile diligenza per vedere se li miei sospetti sono immaginazioni o altro, e ne darò esatto avviso !0.

A ncora più interessanti sono le due ultime let­tere inviate al duca, che voglio riportare per in­tero, perchè non solo ci danno particolari ignoti che compiono la visione delle tremende condizioni in cui si trovarono colà i pochi difensori dell’ im­pero, ma insiem e ci mostrano il M arsigli appieno conscio del pericolo estremo e risoluto di sacrifi­carsi per obbedire agli ordini del suo signore.

Serenissimo Principe

Non sono più sospetti, Serenissimo Signore, ma pur­troppo corpi maligni, mentre ieri, tre ore avanti il tra­montare del sole, entrò un ussaro che veniva da Papa nel Rabau per il ponte di Keso, dove allora mi trovavo, et ad alta voce gridando non so che, tutti li guastatori presero le loro zappe e s’ unirono assieme fuggendo. Del che meravigliato, tentai di farmeli avanti; ma mi comin­ciarono a minacciare d ’ uccidermi con zappe. E gridando aiuto, dagli aiduchi, che erano al numero di 600 destinati alla difesa di quel loco, solo riportai sorrisi, stando spet­tatori di questo ammutinamento senza dar di mano a uno schioppo.

Feci ricorso al giudice dei nobili, che mi disse:— Vesprino è del T ekli, come domani sarà Papa; e

tutto il Rabau farà il medesimo. Addio. —Chiodetti abbruciassero almeno il ponte, per non la­

sciare questa comoda entrata all’ inimico; ma tutto fu indarno. E pregando che mi si dasse due messi, uno da spedire a Vostra Altezza Serenissima e l ’ altro al conte Budiani, perchè entri con le sue truppe nell'isola, non li potei ottenere. Dimodoché a brìglia mi sono portato in

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Arpas, dove ho alzato il ponte e messo due pezzi di cari­none in stato; e spedirò a Badael che quello sii rotto, si come non ometto di racordare a Vostra Altezza Serenis­sima di far passare assistenza per la fabbrica del ponte d ’ Asvagn, altrimente non è possibile possi venire a soc­correre queste parti con l ’ armata.

E poco si fidi dei villani per il lavoro, parte inspavo- riti, parte sedotti da’ proprii padroni, che per effettuare la loro malignità bisogna impedischino l ’ arrivo a V . A. S .: che li riuscirà, non facendo questo ponte.

Per mancanza di messo, spedisco con questa il mio paggio; si come scrivo con tutta l ’ efficacia al conte Bu- diani, perchè venghi dentro, essendo accampato longo il Marzal, senza che spediscili partite avanti a riconoscere, già apparendo di qui si vedino lontani fumi, che vuol dire segnali de’ tartari.

Se il Budiani vorrà entrare (che non s’ ingolfi nella selva, di Sarvar e ritirarsi su li suoi beni) e se la gente voglii fare da dovero, noi si che potremo difendere e co­prire il travaglio del ponte d ’ Asvagn per attendere li soccorsi di V . A. S. E caso che no, sarà tutto inondato da ribelli, che purtroppo vedo hanno intelligenza con questa gente piena di falsità.

Non mi dimentico degli ordini datimi di dissimulare e fare quanto poàso, fino all’ ultima goccia del mio sangue, che spero a momenti avrò 1’ occasione d ’ esporlo con qualche frutto, quando gli ungari vogliono.

Se mi sarà permesso d'avvisare V . A. S. de più ul­teriori successi, lo farò subito. Se 'n resti pure assicurata che piuttosto morirò, che fare un passo che non sii del servizio del Padrone.

E profondamente resto di Vostra Altezza Serenissima

23 giugno 1683umilissimo servidore

L u i g i F e r d i n a n d o M a r s i l i i

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14 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

Serenissimo Principe

Intendo con tutta rassegnazione gli ordini di V. A. S. in data 18, dal campo ne’ contorni di Goinora, rispon­dendomi benignamente sopra gli avvisi speditigli de’ miei suspetti con questi ungari; e s ’ assicuri che mi farò gloria d ’ eseguirli a costo del mio sangue; mentre non mancherò di dissimulare tutto e sollecitare il fine dell’ opera, che è ormai a buon termine.

Ma temo non sarà di verun servizio, essendo di già il Draskoviz, insalutato ospite, partito per Vienna e nel medesimo tempo giunte lettere d ’ Alba regale, firmate dal Tekli che invita e poi minaccia questi comitati, perchè seco s’ unischino per la libertà del regno. Et il più prectso contenuto non lo posso narrare a V . A. S., mentre non posso vedere copia di questa lettera che, riuscendomi, subito la spedirò.

Vedo tutti sospesi e che questo paese è perso, quando non marciano qui truppe alemanne; chè, prevedendolo, queste gente temo apritio li passi a qualche partita e diino li migliori posti ai ribelli.

Io per me farò ogni possibile, si come sono rassegnato a sacrificarmi a tutto, eseguendo esattamente gli ordini di V . A. S.

Ognuno di questi posti del Rabau è in difesa e poco vi manca per ridurli al fine che già è dato a tutti gli altri posti lungo il fiume; prendendo la libertà di racordarli che da Javarino sino in Asvagnan li sono tre guadi che esigono difesa particolare e che con la vicinanza dell’ ar­mata potranno esser riuniti, non pigliandone altra cura.

E profondamente resto di Vostra Altezza Serenissima

A rp as, 34 giugno 1683

umilissimo servidore L u i g i F e r d i n a n d o M a r s i l i

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D ei dolorosi giorni che seguirono non restano documenti, fuorché quelli pubblicati mutili dal Fan- tuzzi in appendice alla sua m onografia23 e che noi com piuti ripubblichiam o, non già di su gli originali andati sm arriti (eh’ erano nell’ archivio privato dei M arsigli, passato tempo fa in quello del Duca Be­vilacqua), ma di su le copie che lo stesso erudito ne aveva tratte 2<.

Prim o è questo documento dei patti stabiliti dal M arsigli coi suoi padroni per esser liberato.

Io Federico, scrìvano di Boneri, fatto schiavo in Un­gheria da’ tartari il secondo di luglio e dai detti venduto alla Porta di Acmet, bassa di Temisvar, ed impiegato alla cucina e di poi a pestare il caffè, da dove fui comprato da Omer e Bastelli, i quali m’ hanno condotto in Bosnia, in un villaggio Brosor Naisende Sianoza, in casa d ’ Omer che, risoluto di darmi libertà, accorda questa in zecchini 400 e braccia di panno 700 rosso bello a paragone; i quali denari e panno Federico s ’ obbliga pagare con la rimessa li faranno i parenti, a cui manda questa obbligazione accompagnata da lettera a tal effetto in Venezia per la via di Spalatro, e per non aver sigillo la ferma con questo segno e mia sottoscrizione. Di più il detto Omer a forza mi obbliga a promettere, come faccio, 5 fodere di veste da donna, di raso color d ’ aranzo.

L . Em. S.F e d e r i c o , scrivano di B o n e r i

schiavo d ’ Omer spai e Bastelli ecc.

Vengono poi le due lettere scritte da Antonio Mozzato, inviato dal Civrani a liberare il M arsigli. L a prim a fu diretta “ al signor cavaliere Civrani, in data 22 m arzo 1684 „ da Macarsca, e dice:

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i 6 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

Dalli 6 del corrente sino oggi è che mi trovo qui a Macarsca per ricevere lo schiavo noto a Vostra Eccellenza, il quale per il contratto fatto con il padrone dovea capi­tare a questi confini la notte pure del corrente, ma a causa delle nevi si è portato tanto avanti che è stato con­dotto dal suo padrone a Radobilia vicino a Duare solo li 14; nel qual tempo anzi il giorno delli 13, li morlacchi sudditi ottomani, con qualch’ altro unitamente, hanno sac­cheggiati alquanti mercatanti turchi nel porto di Lesina ed hanno condotto in questo luogo la presa e se 1’ hanno divisa, tenendogli mercatanti turchi come schiavi; e parte di loro tentano il suo riscatto.

Si siamo incontrati qui in questa confusione, ritirati in un monistero di frati con qualche timore di questa canaglia, il signor Caprara, mio fratello ed un mio cognato venuto per mia compagnia; e sino oggi ci siam qui trat­tenuti aspettando la fede del capitano di Duare, acciò si permetti di potere andare a quelle vicinanze per riceverelo schiavo e dare il danaro con sicurezza.

Allorquando credevamo oggi aver la fede, ci viene un messo di Omer spai, padrone dello schiavo, che avvisa aver incontrato delle difficoltà nel capitano medemo di Duare, il quale non gli permette il cambio e dice di voler vedere un ordine del bassà di Bosnia; onde il po- veromo, che credeva di avere il suo denaro e consegnarlo schiavo, avvisa di esser partito lunedi fu li 20 per casa sua, ove riconduce lo schiavo per sottrarlo, chè quel capi­tano non glielo levasse dalle mani.

Immediatamente, avuto questo avviso, gli ho spedito dietro attraverso de* monti tre uomini assai pratichi e da me ben conosciuti, a’ quali ho consegnati 200 zecchini, a fine che gli contino al turco, acciò gli dia lo schiavo e che due V accompagnino qui ed uno resti ostaggio sino che se gli farà avere il rimanente del riscatto. Ho presa questa risoluzione, così consigliato da amici e in partico­

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lare da Marco Bassi, il quale è quello che trattava, anzi tratta con il turco padrone dello schiavo.

Io I10 risoluto di fermarmi qui sino alla risposta e ri­torno de’ spediti. Mi vien data certa speranza che lo condurranno quando non adoprarò altri mezzi; e se viverà, come spero, l’ avrò nelle mani, a Dio piacendo. Già gli omini sono partiti e credo raggiungeranno il turco per strada, tale camminavano perciò tutta questa notte; e, quando non lo raggiungessero, anderanno a casa e faranno il servizio.

Questi rumori a’ confini e in particolare quest’ultimo fatto ha posto in confusione gli turchi, che non si fidano niente. Se io credessi che questi due che sono qui turchi il pubblico li tenesse per schiavi, quando non mi riuscisse quest’ ultimo negozio, ne farei compra di un paro de’ megliori, perchè mi servissero a far un cambio; ma ho dubbio d ’ ingerirmi in cosa simile.

Mi pare che questi morlacchi abbino commesso un grand’ errore nel porto e mare del Principe, con la scorta di due galeotte levar tre barche cariche di mercatanzie e mercanti; tuttavia in ciò io non devo entrare.

Per ciò riguarda l’ affare intrapreso assicuro Vostra Eccellenza che non risparmio pericolo e fatica, nè pati­menti, e spero che in un modo o in un altro lo condurrò a fine, perchè avrò altri mezzi quando mi manchi questo, sebben spero mi sortirà.

Ho risoluto che il signor Caprara licenzi la peotta che è in Almissa e ci attende, e noi due staremo qui atten­dendo l’ esito per partecipare il tutto a Vostra Eccellenza.

Con che umiliato etc.

L ’ altra lettera dello stesso Mozzato è diretta da A lm issa a un suo compare, con la data 29 marzo 1684 e annunzia che ha seco il Marsigli, salvo per miracolo.

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i 8 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

Ieri sera siamo capitati qui con il signor conte Luigi Ferdinando Marsigli, liberato dalla schiavitù miracolosa­mente: non tanto per il suo padrone, che stava all’accor­dato, quanto per qualche comandante autorevole, che voleva levarglielo dalle mani. Infine è fuggito, si può dire, con la scorta di tre omini, che gli ho inviati mercoledì passato, acciò negoziìno la sua liberazione e lo conduchìno di notte tempo, come han fatto.

Si è speso, ma si è superato il tutto, lodato Dio be­nedetto. Abbiamo incontrate le fuste, ci hanno fatta la cerca e, Dio lodato, non hanno trovato niente, nè si può trovare cosa alcuna, nè si troverà.

Pregovi avvisarlo a casa e vi prego d ’ aiuto di pesce e che sii preparato il letto in portego, nella casa del Marchi.

La pioggia non ci lascia partire. Addio.

L a prim a lettera del M arsigli che abbiamo dopo la sua liberazione è quella che appena arrivato a Venezia scrisse al duca di Lorena per comunicargli osservazioni e disegni di Buda e del ponte di Eszék, visti di passaggio nella fuga con l’ esercito turco dopo la rotta di Vienna. D a essa, rim asta inedita, fu tratta alla luce solo la parte che si riferisce a B u d a 85 ; noi ne riferiam o il principio e la fine, prova anch’ essi dei sentimenti che albergavano in quell’ anima forte e fedele.

Serenissimo Prìncipe

È stato il maggiore de’ tormenti, eh’ è piaciuto al Signore Iddio di farmi sentir nella mia schiavitù, quello di non essermi potuto trovare tra l’ intrepide direzioni di Vostra Altezza Serenissima in tante sue meravigliose vit­torie. Benedico nondimeno le mie catene che, se mi hanno privato di sacrificare nuovamente la vita per le glorie della

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PREFAZIONE 19

Maestà di Cesare, eh’ è 1’ ¡stesso che per la religione, m’ hanno reso spettatore della costernazione de’ suoi nemici, fulminati dalla sua spada. Questa osservazione ha solle­vato le mie miserie e dato vigore al mio debole spirito di rapportare ed umiliare alla notizia dell’ Altezza Vostra tutto ciò eh’ ho potuto raccogliere anco intorno al stato di Buda e ponte d ’ Osek; dove mi do a credere si vol­gono i primi passi dell’ armata per le conquiste dell’ Un­gheria Inferiore......

Per ultimo col solito rispetto ed ossequio supplico l ’ Altezza Vostra a condonnare la mia naturale inabilità, aumentata dal stato in cui ero quando osservai tutto il narrato. E cosideri quest’ espressioni come provenute dal debito e dal zelo eh’ ho sempre portato in ogni stato per il servizio della Maestà dell’ Imperatore, eh’ in ora è il medesimo che della religione.

E profondamente inchinandomi resto di Vostra Altezza Serenissima

Venezia, 39 aprile 1684

umilissimo, devotissimo et obbligatissimo servitore L u i g i F e r d i n a n d o conte de’ M a r s i i . ii

Noto che in tutta la lettera non c’ è neppure il più piccolo accenno al m iserevole stato in cui l’ ave­vano ridotto le inaudite sofferenze della schiavitù. Ma si legga quello che sotto la data 5 m aggio 1684 ne lasciò scritto il cronista citato 26, che lo vide due settimane dopo di ritorno a Bologna.

Arrivato Luigi Marsilii su le ore due della notte, col guadagno fatto a contanti di strazii e patimenti : un occhio lagrimante, il braccio destro indebolito da una ferita di freccia avuta nella sua prigionia (a causa d ’ avere tocco un nervo, o pure dalla cura cattiva: medicato con sterco

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di cavallo e fior di pietra), le gambe gonfie dal peso de’ ferri e dal gran camminare, col corpo indurito dalla parte sinistra. Nutrito di cattivi cibi e d ’ acque fetide in tanto tempo, per altro è fatto uomo più complesso, nero di carne, e porta perrucca. Conta cose grandi, ma pro­babili, e tra l ’ altre una è che in questo tempo di sua schiavitù mai ha dormito a coperto e sempre su la nuda terra. Si è posto qui in purga e, finita questa, torna in Germania, col fratello conte Filippo, al comando della sua compagnia, nel reggimento di Caprara.

Lasciam o da banda qualche inesattezza del rela­tore, minutissimo sì, ma sovente trascuratissim o, e non vogliam o far caso a quella sua aria o indiffe­rente o di assennato poltrone assunta davanti a chi, stato in guerra per far di codesti bei guadagni, non rinsavisce e ora si tira dietro un fratello; perchè appunto riferendoci che questo giovane distrutto pensa già di tornare a ll’ alta guerra contro il turco, ci ha dato senza volere e senza capire un bel tratto eroico, raro, ma naturale e non unico in lui, sempre fiero, animoso, risoluto.

Osserviam o che nessuno, letto Ragguaglio e A u ­tobiografia, imparato che a V enezia il medico Grandi con certi purganti calibeati l’ aveva salvato dal pericolo dell’ idropisia e rim esso in salute, poteva im m aginare che poi a Bologna arrivasse iu quelle condizioni, se di ciò egli non fa nemmeno parola.

M a non si raccoglie solo questo in quella copio­sissim a cronaca bolognese; la quale forse per essere composta di ben 95 grossi volum i fa perdere a molti la voglia di sfogliarla (e sì più d’ uno, che in

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questo tempo s’ è occupato del M arsigli, v i avrebbe trovato del buono che faceva proprio per lui). S i raccoglie pure che gli avevano così strette le ritorte intorno le membra, che s’ erano incarnate, onde portò sempre in sè queste marche, testimo­nio della sua sventura, segno indelebile dell’ altrui cru d eltà11.

E c ’ i dell’ altro; ma non deve essere vero: che della sua fresca giovinezza fecero ogni strazio quei turpi barbari che l ’ ebbero in loro balia. Il canonico Ghiselli — chiamatelo im parziale, obiettivo, come v i piace — raccattava tutto quel che si diceva, fatti e ciarle, verità e bugie, abitualmente senza distin­guere pan da’ sassi, cosicché presso di lui anche g l’ impostori hanno voce in capitolo. L e confusioni e gli errori, che accompagnano questa sconcia no­vella, la rendono già più che sospetta.

R egistrata da prim a sotto l’ anno 1680, insieme con fatti più tardi perfino di 23 anni, vi si confonde il ritorno del M arsigli dalla prigionia bosniaca di quattr’ anni dopo col suo ritorno dall’ ambasciata veneziana di Costantinopoli 2S. Da ultimo sotto l’ anno 1704, ricordatala altre due volte J-, a proposito del processo di Bregenz, la schiavitù di 9 mesi si fa diventare di 7 anni.

Ma la mia attenzione si volge e si affissa al luogo dove codesta inform azione, ripetuta in termini anche più crudi e più gravi, fa seguito a una molto lieta nuova, giunta da V ienna il 17 febbraio 1693: che l’ im peratore aveva conferito al Marsigli il co­mando del reggim ento B e c k 30. T ale onorevole no­mina, che attestava 1’ alta stima e la fiducia che si

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riponeva nel suo valore e capacità, si fa comparire nè più nè meno che come un compenso * particolar­mente „ dovutogli per i patimenti di quella “ dura, crudele e barbara prigionia „, e si ottiene così l’ effetto di menomare il vero merito del capitano e, senza averne punto l’ apparenza, sotto coperta della pietà, lo si espone al ridicolo e agli scherni del volgo maligno, che è la m aggioranza.

Non attribuiremo sì perfida intenzione al Ghi- selli, al quale tutt’ al più potrà essere imputata poca simpatia, almeno per allora, verso il M arsigli e, secondo il solito, una buona dose di leggerezza morale nel riportare i discorsi altrui, come che fossero; ma siffatta doveva essere l’ intenzione di chi schiattava di rabbia all’ annunzio del nuovo onore assegnato al M arsigli. Codesti invidiosi devono avere inventata e propalata quella infamia. Essi non erano scarsi nella patria di lui, dove l’ odio arrivava non solo a vituperarlo, ma a minacciarlo di morte. E ra partito giovanissim o per Costantino­poli e già si volle farlo passare per rinnegato, tanti anni prim a che la gazzetta di D elft gli lanciasse questa accusa, che fu ritrattata con sua piena sod­disfazione per l’ intervento degli Stati generali e che più tardi il Lam bertini scopriva come fosse n a ta 3l. Chè un giorno fu recapitata al senatore Agostino M arsigli “ un ritratto ad olio assai bello, rappresentante un giovine vestito alla turchesca con turbante in testa e sciabla al fianco; e sotto vi erano le seguenti o sim ili parole: — Questi è Luigi Marsilli da Bologna, eh’ avendo apostatato dalla fede ha abbracciato l’ A lco ra n o 12 „.

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M a t t ia m o dunque nel conto già lungo assai delle sciagure del M arsigli anche queste che non si sapevano e, rifacendoci a quei giorni della sua dimora sul Bosforo, cerchiamo le testimonianze della sua costante e operosa pietà per gli schiavi cristiani, illum inando un aspetto della sua bel­l’anima, che non ancora è stata messa nella sua piena luce. A vrem o da riferire molte cose nuove.

Era arrivato alla capitale dell’ im pero ottomano, spintovi specialm ente dalla bram osia di conoscere e studiare da presso quella potenza tanto temuta, e a gran torto, secondo che pensava e presto potè dimostrare, creduta invincibile dagli stati europei, quando accade un grosso incidente diplom atico, per causa di quasi un centinaio di schiavi cristiani, sottrattisi ai propri padroni e rifugiatisi celatamente su due navi degli am basciatori veneziani, all’ insa­puta di questi, che per il decoro della patria con am m irevole risolutezza e costanza si esposero a gravi rischi; ma alla fine quegli schiavi furono portati in Puglia a salvam ento. In tale occasione il bailo Pietro Civrani ebbe necessità di adoperare anche il M arsigli in delicati e pericolosi uffici38.

Presentatosi poco prim a a quel bailaggio un certo Gian Maria G hiselli, bolognese, ch’ era schiavo su una galera di M ustafà Deli, bei di Chio, s’ era incontrato col M arsigli.

Il quale lo richiese chi e donde fosse, e scorgendolo paesano lo animò a soffrire costantemente il suo servaggio, alle speranze eh’ egli in Costantinopoli per via di lettere efficaci e nella patria di persona averebbe procurato che

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gli arci con fratelli di Santa Maria della Neve, assonti in essa alla sant’ opera del riscatto, ne intraprendessero se­riamente il suo con le prescritte formalità e premure. Il che tutto a buona occasione e puntualmente esegui con lettere dettate dalla sua fervorosa carità e parimenti obbli­ganti la compagnia ad onorarsi di aggregarlo alla stessa, come se gliene trasmise in pergamena autentica la fratel­lanza; e maggiormente si confermò questo gentilissimo cavaliero nella presa risoluzione di sovvenirlo quando vide poco dopo che, asserendo non dovere un vero cristiano mancare neanche di fede umana, non solo ricusò di fug­gire, come averebbe potuto, con quei sessanta od ottanta schiavi de’ quali ne corse il ragguaglio, e fu in parte attri­buita la felicità del successo all’ assistenza datavi dallo stesso bailo,

ma non volle più che un greco, che l’ aveva tolto provvisoriam ente dalle catene, desse per lui garanzia presso il padrone 34.

Il M arsigli infatti raccomandò lo schiavo bolo­gnese a quell’ arciconfraternita e chiese d’ esservi iscritto, con una lettera che in copia e autografa si conserva tra le carte della com p agnia35. Porta essa la data del 20 novem bre 1679, ma fu letta in congregazione solo il 10 febbraio 1680, in cui si deliberò di negoziare quel riscatto, che sarebbe costato forse meno di 500 reali, e di spedire il diploma d’ iscrizione al Marsigli.

L a lettera di ringraziam ento è del 16 m aggio *6 e in essa lo scrivente avverte di aver esposto quanto egli intanto ha fatto per il Ghiselli in una altra diretta al senatore Gozzadini, protettore del- l’ opera. T rovo di qualche interesse in quella una calda raccomandazione, naturale in quest’ uomo,

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pio non a chiacchiere ma a fatti, perchè si cerchino tutti i modi di raccogliere molti denari per liberare quanti più schiavi è possibile. Un accenno simile c’ era anche nella prim a lettera, ma in questa il M arsigli è più esplicito.

E sono sicuro, scrive, che sariano tutti del mio senti­mento, se vedessero l’ acqua e il biscotto, unico alimento di questi meschini, e le catene e le battiture e i sospiri, loro famigliari compagni, non avendo altra consolazione che la speranza della salute eterna, che meritano per la pazienza e per la constanza nella vera fede, schernendo le lusinghe della maomettana aumentate dalla speranza di libertà; e per ciò si deve ancor pregar Dio per la soffe­renza loro. Questa sofferenza, fondata sopra i riflessi della vera fede e circondata da martirii continui, non solo, o carissimi fratelli, merita il sborso di vile denaro, ma quello del sangue d ’ ogni cristiano, per far le dovute vendette; che seguiranno con l’ assistenza di Dio un giorno, quando permetterà l’ unione delle forze nostre.

L ’ augurio si verificò con la lega santa, ad onta degli intrighi francesi, che segnò il tramonto della tracotanza ottomana; e in quelle guerre per parte sua il M arsigli diede la m iglior prova della since­rità del sentimento che gli suggeriva tanto tempo prim a quelle accese espressioni.

L a seconda lettera si lesse dai confratelli adu­nati, prim a il 21 luglio e poi ancora il 29 settembre i7; si mossero il protettore e il padre del M arsigli; ma la conclusione fu che non si poteva versare somma di riscatto, se prim a lo schiavo non era consegnato sano e salvo in loro mano nel porto di V en ezia o di L ivorno; e non servì che il bailo si

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offrisse di anticipare egli stesso il pagamento e di procurare di mandare o condurre seco lo schiavo al suo ritorno in patria, purché la compagnia fa­cesse un deposito equivalente, a sua disposizione in un banco di Venezia.

Così il M arsigli parte da Costantinopoli senza esser potuto venire a fine di nulla. A rriva a V e­nezia e gli muore il padre, corso ad incontrarlo; ne fa im balsam are il cadavere che trasporta a Bo­logna, dove lo seppellisce nella chiesa delle monache del Corpus Domini, facendovi celebrare l’ esequie con grande solennità 1’ n novem bre !8. Il giorno innanzi egli aveva firmato e forse dettato la minuta d’ una lettera da spedire a mercanti che avessero voluto con loro utile procacciare la liberazione del Ghiselli, stando alle predette regole e condizioni della com pagnia 39.

Il 24 febbraio 1681 va lui in persona a un’ adu­nanza dell’ arciconfraternita, dove si tratta di quel povero schiavo e come raccogliere da varie parti e con vari m ezzi la moneta necessaria. S i legge nel verbale di quella adunanza <0 :

Dalle esibizioni fatte dal detto signor Marsilii di procurare di avere limosine dalli eccellentissimi signori cardinali le­gato et arcivescovo e buone colte dalle prediche si deter­minò che si dovesse fare il possibile per secondare le buone intenzioni del detto signore; fra le quali una fu quella del signor protettore, di mandare due de’ suoi signori figliuoli in cappa in tempo destinato, per procu­rare limosine a questo effetto; e lo stesso si esibì di fare detto signor Marsilii con un altro, come anche di andare assieme con gli assonti dall’ eminentissimo legato a pro­curare come sopra.

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D a codesti verbali non possiamo ricavare di più intorno a quello che avrà fatto allora il M arsigli. Di sei mesi posteriore è una sua lettera inviata da R o m a 41, dalla quale s’ im para che egli sta ottenendo da Nostro Signore il beneficio di indulgenze per 1’ arciconfraternita e che presto passerà soldato in Alem agna. Questo propriam ente farà solo due anni più tardi, ma già allora la risoluzione dunque l’ aveva presa, conseguenza, come dichiarava, di vera vocazione, secondata in lui dal pontefice In­nocenzo XI. Il ritardo dipese anche da quell’ auda­cissimo, ma vano, tentativo diplom atico che fece allora questo animoso giovane per dissipare certe questioni sorte tra la Serenissim a e la Santa Sede. Il solito cronista, che ne parla a lungo, non gli risparm ia le sue aspre censure con quelle di tutta la città.

Fu da tutti stimato più temerario che prudente in voler presopporre d ’ essere egli bastante a far quello che non aveva potuto fare nè la politica ben saggia de’ vene­ziani, nè l ’ astuzia de’ preti, e particolarmente in una Roma, ove si trovavano di presenza li cardinali Ottoboni, Basadonna veneti, che raggirerebbero un mondo •*2.

E lasciam olo parlare il cittadino benpensante, che riflette in sè l’ opinione corrente della m aggio­ranza, l’ opinione dell’ aurea m ediocrità spericolona, sbigottita davanti a questo diavolo che una ne fa e un’ altra ne pensa. Ciò non è solo divertente, ma finisce col dare per virtù di contrasto la vera m isura della grandezza di un personaggio d’ ec­

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cezione, così poco capito e così poco amato da contemporanei e da posteri.

È curioso da sapersi, sèguita il cronista, che prima che questo giovine cavaliero partisse da Bologna aveva nella mente concepito di volere operare gran cose e, se per altro non fosse stato lodevole, lo fu per questo di nutrire in se stesso un’ idea ben grande di se medesimo; ma perchè regolata di puoca esperienza aborti nel punto medesimo di partorire alla luce i suoi vasti pensieri.

Si portò egli a visitare alcune dame e cavalieri bolo­gnesi, a ’ quali diceva nel partirsi: — Spero che sentiranno gran cose di me — . Fra 1* altre si portò dalla marchesa Olimpia Nani Caprara e, fatto il complimento di partenza, l ’ ebbe a dire: — Signora marchesa, spero che questa volta ella udirà di me cose grandi e forsi non li sarà discaro il tener sopra il suo tavolino il mio ritratto — . La marchesa, eh’ era donna di gran spirito, rispose : — Non mi stupirei punto d ’ udire gran cose di lei, nè avrei diffi­coltà di levare la testa al Cardinal Caraffa (e in ciò dicendo mostrolli un ritratto di questo cardinale, che teneva in sua camera) e farle porre la di lei effigie — . A che replicò egli: — O signora marchesa, queste sono cose di puoco momento: a maggiori di gran longa io aspiro — . E si licenziò non senza lasciare di sè opinione di troppa pre­sunzione e di puoca prudenza, come dagli effetti che successero poi fu benissimo verificato 43.

L a partenza da Bologna per andare a combattere in Germania avvenne il 26 luglio 1682 44 ; ma la sera del giorno 7 del mese precedente c* era stata con­gregazione dei co n frate lli45, dove si lesse lettera da Costantinopoli che inform ava come il padrone del Ghiselli avesse cresciute le sue pretese: voleva non più 500, ma 600 leoni, somma superiore di

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troppo alle loro possibilità. Il M arsigli è presente, dà dei suggerim enti e indica un benefattore che avrebbe concorso a quell’ opera di carità.

L e pratiche continuano anche dopo la sua par­tenza e finalmente il protettore dell’ arcirconfra- ternita il 19 m arzo 1683 46 può comunicare lettera di due mercanti incaricatisi della faccenda, che annunziano la liberazione del Ghiselli effettuata * mediante l’ assidua protezione del bailo veneto in Costantinopoli ,„ con la spesa di 665 reali, pari a ducati veneti 898 e a lire bolognesi 2955, che biso­gnerà mettere insieme col concorso dei parenti del liberato e con elemosine “ trasversali E la libera­zione infatti era avvenuta tre mesi prim a, il 21 d i­cem bre 1682, come risulta dal libro della cancelleria dell’ am basciatore Giovanni Battista D o n ad o 47.

Il 27 m aggio si annunzia che il Ghiselli è giunto a V enezia e sta al lazzaretto48, donde va scrivendo più d’ una lettera agli uomini dell’ arciconfraternita, che mandano persona a rile v a rlo 4B. Finalm ente il 29 giugno arriva a Bologna e, richiesto, fornisce loro nuovi dati sulla sua prigionia, perchè possa scriversene la s to r ia 50. Nello stesso tempo lo si invita a non farsi vedere dalla gente e a starsene in casa de’ parenti fino al primo d’ agosto; nel qual giorno viene fatta una solenne processione per rin­graziarne il Signore e si pubblica il ragguaglio della prigionia, durata ben 17 anni H.

N on passano tre settimane e mentre è ancor v ivo il ricordo della festa e del merito speciale che-

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spetta al M arsigli, il quale - come fu scritto - “ alla liberazione di questo schiavo ha cooperato in tutte le più valide e possibili m aniere „ 5I, passa da B o­logna diretto a Roma con poco buone notizie sul- l ’ assedio di Vienna un corriere, che porta anche questa : “ che si stava con pena non sapendosi da molti giorni nuova di Luigi M arsilli (del quale qua erano molti spazii che non se ne sapeva), dubitan­dosi o che fosse stato fatto schiavo in Turchia, o fossesi annegato nel Rab, o stato ucciso nella bat­taglia che si fece al medesimo Rab allora quando1 turchi lo volsero passare e che seguì un vigoroso conflitto „ 5S.

Era il 18 agosto, e quel che fosse intanto acca­duto al valoroso bolognese lo sappiamo dalla sua bocca: ferito e fatto prigioniero in uno scontro del2 luglio, era passato dalle mani dei crudeli tartari a quelle dei turchi, comprato dal pascià di Teme- svàr, era stato portato sotto le m ura di Vienna assediata e proprio in quel giorno prim o di agosto, che Bologna festeggiava lo schiavo liberato col suo valido aiuto, egli aveva invano tentato la fuga, per la quale condannato a morte sarebbe stato decapi­tato come tanti altri cristiani sulla riva del Danubio, se due poveri bosniaci non l’ avessero salvato.

I tre testi che più avanti si pubblicano dicono questo e altro, con molti interessantissim i particolari, a cui qua e là poco o nulla si potrebbe aggiungere spigolando da qualche altra scrittura m arsigliana; come, dallo Stato m ilitare dell’ impero ottomano, per la fuga dei turchi da Vienna e lo strano modo usato dai tartari nel traversare i fiumi a nuoto, con schiavi e cavalli 54.

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A Bologna dunque dopo quella sconfortante e disperata notizia del corriere di Passau (attesta il M arsigli che gli si fecero addirittura l’ esequie)55, non si seppe più nulla di lui fino al giorno 21 feb­braio 1684, sotto la quale data il solito cronista, con le solite confusioni e inesattezze che non addosse­remo al M arsigli, narra quanto s e g u e :56

In questo giorno giunse un corriere spedito dal pro­curatore Civrani, nobile veneziano, a monsignor Antonio Felice Marsilli, con l ’ avviso d ’ essersi trovato Luigi Mar- silli, suo fratello, del quale si era tenuta certa la perdita al fiume Rab, quando i tartari vi giunsero per passarlo e portarsi all’ assedio di Vienna, nella rivolta del Budiani, come altrove si disse; e gli dava parte come questo gio­vine cavaliere si trova schiavo in mano del bassà di Bosna, lontano tre giornate da Spalato, e che aveva ac­cordato il suo riscatto in quattrocento zecchini ruspi, cento braccia di scarlatto, alcune vesti da donna, cendadi, specchi, corone et altro, e che egli aveva subito spedito colà una feluca con le prefate robe per non perder tempo, tanto più che gli aveva il bassà assegnato pochi giorni di tempo per dar compimento al contratto.

Portò ancora tri lettere del medesimo Luigi: una al al conte senatore Riniero Marescotti, l’ altra al padre abate Ercolani, suo zio, e la terza al senatore conte Francesco Carlo Caprara; nelle quali le dava conto come, essendo al passo del Rab per assistere a certe fortificazioni, giun­sero i tartari e, fatto gran conflitto, egli restò lievemente ferito in due lochi e poscia, preso schiavo, eh’ era stato venduto tre volte e che il giorno di San Giacomo tentò di fuggire, ma accortosene quelli che lo custodivano, lo ripresero e li diedero cinquanta bastonate e poscia lo con­dannarono a morte e che nel mentre era condotto al patibolo, ove doveva esserli troncata la testa, il bassà di

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Bosna lo aveva comprato; ch ’ aveva fatto il cuoco e che ora stava pestando il caffè, eh’ era stato due mesi infermo con febbre e che lo avevano tenuto sempre a biscotto et a venticinque bastonate il giorno su le piante de’ piedi, eh’ egli si era mutato nome e si faceva chiamare Federico Maulier, figliuolo d ’ un scrivano; che però gli pregava a procurar che fosse quanto prima levato di quelle miserie.

Questa nuova portò consolazione a tutta la città, trat­tandosi di un giovine cavaliere patriotta, il quale benché fosse d ’ un genio assai libero, tuttavia aveva tanto spirito che poteva dirsi quasi sovrabbondante; e fu creduto che da questa vessazione avesse potuto prendere moderazione non puoca il suo furor giovanile.

Ma li fratelli non mostrarono però gran segno d ’ alle­grezza et il corriere, che sperava una buona mano, fu trattato assai mediocremente.

Anche queste righe del mite canonico, che pove­retto s’ illudeva così facilmente su ll’ efficacia sedativa di tante pene in quel focoso cavaliere, recano, tra g l’ immancabili errori, qualche dato nuovo, come due nomi dei destinatari delle lettere recapitate a Bologna, il cognome assunto col nome di Federico dal M arsigli, una lista m aggiore di robe promesse alla fam iglia dei suoi padroni bosniaci, insieme con quella somma di zecchini che dovette fare un gran colpo sull’ avarizia dei fratelli ; i quali se ne lagneranno per tutta la vita, tanto che fino nei sobri cenni biografici sul M arsigli, inseriti nella storia del suo istituto dal segretario Francesco Maria Zanotti, se ne può ancora sentire un’ eco dalla frase: “ non sine m agna M arsiliorum impensa redem ptus „ 57.

Ma il cronista non ha finito qui: sarebbe man-

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cato a quel bel concetto che ha del proprio dovere di compiuto informatore, se non avesse in fondo tesoreggiato anche questi accorti ragionari di chi la sapeva lunga:

Circa poi la sua presa, tutti sostenevano, — badiamo : t u t t i . Oh che amabili concittadini! — che seguisse per essersi egli dato alla fuga, chè per altro, se avesse fatto faccia, sarebbe stato tagliato a pezzi, come segui di tutti gli altri, non avendo quei barbari perdonato se non a chi fuggiva, tanto più dicendosi ferito lievemente, ch ’ ha quasi dell’ incredibile essendosi combattuto ad arma bianca.

Che fosse conosciuto per nobile, il riscatto lo manifesta, non essendo da plebeo, ascendendo puoco meno che a lire diecimila; e li riscatti de’ plebei non passano per or­dinario duecento pezze da otto, o trecento al più. E poi la sua portatura, il suo aspetto, l ’ abito e qualch’ altro segnale, o di lettera o di sigillo o d ’ altro che poteva avere con sè, avrà a bastanza potuto levar l ’ opinione d ’ uomo ordinario: che furono i discorsi che si fecero sopra gli accidenti di questo soggetto.

I n tan to il Civrani, con una sollecitudine che supera ogni lode, appena ricevuto il plico, non aveva fatto altro che aprire lo scrigno, chiamare una per­sona fidata, dargli bastimento espresso e 2.000 zec­chini, con facoltà di spenderne anche di più se bisognava, e mandarlo a liberare il M a rsig li58. Il quale di tanto amore non si dimenticò mai e sempre ne m ostrò v iv a riconoscenza5>; tanto da lasciare scritto al fratello Filippo, in una lettera del primo novem bre 1704, queste testuali parole eo:

Questo è sicuro che, se monsignore vescovo e lei pre­morissero a me per volere di Dio e se di roba libera fossi

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ricco d’ un milione, che altri non lascierei eredi che li figlioli del signor Pietro Civrani, che nella mia schiavitù aperse il scrignio e mi mandò a liberare: che da nessun compatriotta mai si sarebbe fatto. E con la perdita di tempo sarei stato mandato a Costantinopoli e più anni in un carcere marcito.

E perchè non si creda che i fratelli facessero gran cose per lui in quegli o in altri giorni diffi­cili pubblico anche questo passo d’ un’ altra sua lettera inedita, anch’ essa da Vienna, diretta il 15 ottobre 1692 ai due fratelli superstiti ®*.

In tante mie disgrazie di ferite, di perdite di bagaglio, di malatie, mai potranno dolersi che gli abbi ricercato un solo baiocco del loro, ma nè meno, come è solito di farsi, ricercato una anticipazione per aiutarmi in tali contrat­tempi; ma solo da me ho piuttosto volsuto penare, che darli una minima soggezione. In occasione della schiavitù pure non ebbero motivo d ’ incomodarsi, perchè gli amici acquistatimi col mio buon procedere non permisero tempo alla loro mostratami carità, e per il risarcimento del lei sborso feci io da me il noto debito, pagando per esso li pontuali frutti senza veruno loro aggravio. E se ciò sii vero, non voglio altro giudice che loro medesimi.

S entiam o ora che fece l’ arciconfraternita di S . Maria della Neve, che il 12 m arzo tenne adu­n a n za 6*.

Il priore disse ai fratelli che gli aveva fatti invitare con polizza per significare loro che essendo in negoziatilo riscatto dell’ illustrissimo signor Ferdinando Luigi Mar- silii, nostro aggregato, gli pareva di dover mostrare di voler cooperare con l’ orazioni allo sborso che negoziavano i di lui fratelli [o illusione!], coll’ esporre il Santissimo la

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seguente domenica nella nostra chiesa. Onde dopo varii discorsi si stabili di dare all* opera lo manco aggravio che si fosse potuto e però, fattasi colletta da’ fratelli presenti, si diedero tutti al camerlengo della stess’ opera; quale andò poi anche dalli fratelli che non erano stati all’ ora­torio questa mattina e ne ricavò ancora da essi qualche danaro. E cosi restò stabilito di fare la detta esposizione la solennità di S . Gioseffo, cioè la prossima domenica di Passione; al quale effetto s’ affissarono per la città nella seguente settimana li cartelli d ’ invito, giusta la licenza ottenutane dall’ illustrissimo e reverendissimo monsignor vicario capitolare.

E in quella domenica infatti fu esposto il San ­tissim o Sacram ento con abbondante illum inazione e la sera intervennero alla benedizione buon numero di fratelli e lo stesso protettore, senator Gozzadini, con cappa e torcia °3. In quel giorno medesimo il M arsigli là in Bosnia, evitata un’ imboscata di mor- lacchi che avrebbero voluto im possessarsi di lui togliendolo ai suoi padroni, per l’ opposizione del capitano turco di Zadvaria, è costretto a tornare indietro con quelli e dispera della libertà che poco prim a si credeva sicura. T uttavia si raccomanda in tanta disdetta alla V ergine, che non l’ abban­donerà.

A ’ di 18 aprile le lettere di Venezia portarono a Bo­logna l ’avviso che Luigi Marsili fosse arrivato a salvamento in quella città, ma con segni di puoca buona salute, perli patimenti fatti nella schiavitù in mano a’ turchi M.

Come fosse ridotto si vide il giorno del suo arrivo in patria, che fu il 5 m aggio; ne abbiamo riportata più sopra la descrizione.

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Il biografo francese Q uincy, rilevava in questa occasione un curioso costume della nostra c ittà 65.

Les boulonneis s ’ aiment beaucoup les uns les autres, ma cette amitié passe l’ imagination de l ’ étranger, parmi la noblesse; la moindre incommodité qu’ il arrive à un gentilhomme, ou à une dame, elle est divulguée en moins de rien par toute la ville; et dès ce moment l ’ on ne voir que visite sur visite, ce qui dure tout le tems de l’ infir­mité... C ’ est ainsi donc que toute la ville s ’ intéressa à la joye de ses parents. Il n ’ y en eut pas un qui ne re­doublât ses visites et lui témoignât avec tendresse de coeur le plaisir et la consolation de revoir; les artisans sortoient de leurs boutiques, lorsqu’ il passoit dans les rües, pour feliciter de son heureuses délivrance. Il faut avoüer que voilà un peuple bien obligeant.

Non c’ è che dire: il monaco girolam ino era un buon causeur, certe cose sapeva dirle ed anche attaccarvi di suo qualche frangetta. Alm eno a me pare così. Narrando le vicende della schiavitù di su le scritture note, spesso vi inserisce un * dit il „o meglio un “ me ditoil-il „ come se le avesse udite tutte dalla v iva voce di lui e non già lette; onde10 dubito forte che non abbia scrupolo di mescolare11 vero con il verosim ile e di aggiungere ogni tanto qualche appropriato discorsetto di sua invenzione, se ci sta a pennello: come le pie meditazioni del M arsigli nella vigilia del giorno prestabilito per la sua morte, l’ invocazione della scim itarra del pa­drone che ponga fine ai suoi tormenti quando coi piedi nudi rotti dagli sterpi non poteva più tener dietro a lui che fuggiva a cavallo, la preghiera perchè un frate gli porti i conforti della religione S6, e quelle

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sacre parole latine pronunziate davanti al Civrani venuto ad incontrarlo allo sbarco. Abbracciatolo che 1’ ebbe, gettate le sue catene di schiavo ai piedi, g li avrebbe detto: “ Laqueus contritus est et nos liberati sumus „. E andando con lui in gondola al palazzo suo, rivolto al Signore avrebbe esclam ato: “ Funes peccatorum circum plexi sunt me et legem tuam non sum oblitus e poi: “ oui, Seigneur, vous avez permis que je portasse les chaînes de vos ennem is et p a r c e -q u e je n’ ai pas perdue de vile la confiance que je devois en vôtre m isericordie, vous m’ eu avez délivré „ 47.

A tti e parole di bell’ effetto; ma proprio per questo io ci ho i miei bravi dubbi, sebbene parli un “ intime amis du comte et fedele dépositaire de toutes les circostances curieuses qui ont accom­pagné sa vie „ es.

Parim ente, dopo quello che m’ ha fatto sapere il cronista intorno gli amabili discorsi che corre­vano sul conto del povero reduce, rim ango piuttosto scettico riguardo la sincerità di tante dimostrazioni d’ affetto della cittadinanza, quantunque non la possa negare assolutam ente per tutti. Nelle anime buone e sensibili, che non mancavano certo, simili fieri casi dovevano anzi lasciare im pressione profonda e suscitare v iva e schietta pietà. Ricordo che allora Prospero Lam bertini era fanciullo e mi piace porre in quei giorni la vera radice di tanta cordiale sim ­patia, attestata in anni più lontani con le entusia­stiche parole sopra riferite; vedo anche lui andare in visita alla casa M arsigli, leggere in quei giornii ragguagli o le lettere che si passavano dall’ uno

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all* altro e partecipare alla funzione religiosa appre­stata dall* arciconfraternita di S. Maria della Neve.

A priam o il Libro delle congregazioni e trove­remo di questa cerimonia particolareggiata notizia, sotto la data 14 m aggio 1684 69.

Domenica seconda del mese, s’ invitorno con polizza i fratelli per il giorno d ’ oggi nel nostro oratorio a recitarviil divino officio e dopo quello trattare negozii importanti e poner partito, occorrendo. Onde, dopo celebrata la santa messa e fatta la solita invocazione dello Spirito Santo,il priore espose a’ fratelli che, essendosi con l ’ aiuto divino liberato dalla schiavitù de’ turchi l ’ illustrissimo signor Ferdinando Marsili, nostro fratello del Riscatto, et essendo egli con altri fratelli stato a riverirlo per parte della com­pagnia, gli aveva detto che salutava tutti gli fratelli e che voleva venire una festa a fare le sue devozioni nel nostro oratorio, prima di partire dalla patria; onde desiderava che nello stesso tempo si rendessero a Sua Divina Maestà grazie per la ricuperata libertà, e ciò nella forma che fosse piaciuta a ’ fratelli: quali voleva poi riconoscere con qualche atto di gratitudine nell’ edificazione che si ha da fare della cappella che manca all’ oratorio, volendovi contribuire an­corché absente dalla patria o morto, mediante interposta persona o per legato.

Onde fattisi maturi discorsi sopra ciò, cioè se s’ inten­desse d ’ edificare la cappella a proprie spese, ovvero d ’ or­namentarla, si concluse che senza aver considerazione ad alcuno interesse si procurasse di sapere qual festa volesse venire alla compagnia; e poi in quella, oltre l ’ officio so­lenne e comunione generale nell’oratorio, si cantasse messa in musica nella nostra chiesa, con Te Deum, a suono di trombe e tamburi, e sparo di mortaletti, avendo anche altri fratelli detto che sarebbe stato bene il fare l’esposizione

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del Santissimo il restante del giorno; alla quale, per non aggravare maggiormente la compagnia, oltre le spese sud­dette, avrebbe contribuito ciascheduno qualche cosa.

Sicché, fatte dispensare dal priore le fave alli seguenti fratelli, egli espose che chi si contentava si facessero le cose suddette a spese tutte della compagnia, dasse la fava bianca, et a chi no, la nera. E, raccolte dal sagristano Giuseppe Bassi, furono trovate 16 (sedici) bianche et una nera, ponendone due il priore, sicché restò ottenuto il par­tito; e li fratelli furono....

Seguono i nomi che non riporto, tra i quali pure c’ è uno che ha dato e darà in altre occasioni voto contrario. Perfino in questa piccola accolta di pii confratelli che doveva abbracciare tutti * con pie­nezza di cristiana cordialità e consolazione in una istituzione per mezzo secolo da lui am ata e favo­rita, si doveva trovare persona che non lo poteva vedere. Sem pre cosi, per tutta la vita e dovunque non ebbe mai il consenso -unanime degli uomini che beneficava.

Term inando la seduta il priore incarica uno di loro di andare “ a significare al signor Marsili ciò che la com pagnia aveva risoluto et intendere da lui quando voleva venire all’ oratorio, e se si com­piaceva delle suddette pubbliche dimostrazioni „.

Q uesti eseguirono la commissione otto giorni appresso e, trovatolo in campagna, forse nella villa del marchese A zzolini, ora Hercolani, a Bel Poggio, il dì seguente in congregazione riferirono di lui quanto s e g u e 70:

Aveva detto loro che non voleva che si facessero pompe, ma solo cantare l ’ officio solenne; dopo il quale

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celebrasse la santa messa il nostro padre spirituale, alla quale avrebbe fatta egli la santissima comunione ; et avrebbe desiderato che facessero lo stesso anche gli altri fratelli, e ciò per unitamente ringraziare il Signor Dio della di lui ricuperata libertà; che in quanto poi ad altre dimostrazioni pubbliche, non voleva che se ne facessero. Onde replica­togli da’ suddetti assoliti che sì come si era fatta l ’ espo­sizione del Santissimo per pregare per la di lui liberazione, si contentasse almeno che si facesse ora lo stesso in ren­dimento di grazie; al che condescese, con esibizione di mandare la cera necessaria ; della quale Io prega­rono a non incomodarsi, poiché li fratelli volevano farla a loro proprie spese; come in effetto dopo tal notizia chi diede denari e chi cera, ed il tutto si consegnò al camerlengo della compagnia, acciò facesse nella seguente domenica fare la suddetta esposizione nella nostra chiesa et, occorrendo spendere qualche cosa di quello di com­pagnia, lo facesse.

Saggiam ente questa volta non si venne a vo­tazione”, ed è bello, dopo la modestia dell’ ono­rando, vedere ora la gara disinteressata dei suoi confratelli. P er quel giorno solenne fu pubbli­cato un avviso a stampa, che fortunatamente ho ritrovato 71 e qui riproduco ; nel quale, certo per volontà del M arsigli, non si fa il nome del festeg­giato. Dal verbale della festa, che tra scriv o 7!, altri tratti poi risultano, nobilissim i e commoventi: pare che un vento d’ epopea spiri in quel punto dentro le umili pareti dell’ oratorio di S. Maria del Riscatto e porti nella ristretta com pagnia i palpiti e i sospiri della cristianità in armi, fremente sotto la minaccia turca. L a presenza d’ un eroe sa fare di questi miracoli.

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PREFAZIONE 41

A ’ 28 maggio 1684.

Domenica quarta del mese, solennità della Santissima Trinità, si fece l ’ esposizione del Santissimo Sacramento nella nostra chiesa da basso, essendosene ottenuta la licenza da monsignor illustrissimo vicario capitolare, con annessoviil cartello d’ invito, quale si fece affissare per la città. Et esprimeva che ciò si faceva in rendimento di grazie della

Doucndo gli Arciconfrati

DI S.T‘ M A R IA DELLA NEVÉJSRender gratieà SuaDruina Maeftk per foRtjW fiam entod va Pauiao *

loro amorepohfsimo Confratello, liberato dalle Barbariede*Turdù,& infieme pregarla di cononouata afctlcnza à gli altri mi/cri

. Cnnfturw fatti Schiaui de' mcdefirai »Manno rifoturo di fare eipone oc IL» propria Chief*

IL G I O R N O D E L L A S A N T IS S IM A T R IN IT À *

IL SANTISSIMO SACRAMENTOE perciò ni usi in o tutti 1 Fetidi à concorrerai coo feruorofc Preghiere . per

CRcocrcnor» fototp n acccnoin intenti, m im c o it proventi\,*otagi;l uJ l'Armi C * «4 * fc c ì m aggior sfcUarkmedcHa Ss. M adre Ch«e&.

, r a r t i t è t J , Y i * v x > t o r n e o fis o w « i M H & x a t f * .* *.

« t y« h*’ 1 * 1 - .......... ... • % uìdrVitJi

liberazione dalla schiavitù de’ barbari d ’ un patrizio, nostro amorevolissimo confratello, e per impetrare costanza nella santa fede alli rimasti cristiani schiavi e grazia di poterli quanto prima liberare da quelle miserie con prosperi successi all’armi cristiane et esaltazione della Santa Madre Chiesa.

Come pure nell’ oratorio si cantò l’ officio solenne; al quale intervennero g l’ illustrissimi signori: protettore [il senatore Marco Antonio Gozzadini] e Marsili, et il nostro padre spirituale [don Gaetano Spinola] e q u a s i tutti li

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fratelli. Et alla messa dello stesso padre si comunicaronoil suddetto signor protettore e signor Marsili, come anche buon numero di fratelli. Dopo la quale si cantò il Te Deuni e fatta una breve esortazione dal padre spirituale a tutti li fratelli di non mancare, ogni volta si fossero radunati, di pregare il Signor Iddio e la Beata Vergine, acciò dassero grazia al suddetto signore di spargere il sangue per la santa fede nelle campagne ch’ era per fare, ovvero, dopo riportatone gloriosi trionfi de’ barbari otto­mani, potesse felicemente ripatriare.

Del che resone grazie dallo stesso signor Marsili al padre, si protestò di volere vivere sempre memore di questo oratorio e che voleva, o vivo o morto che fosse, lasciarvi memoria di lui, con qualche compimento della fabbrica di esso.

E, dopo dato l’abbraccio fraterno con l ’ o s c u lu m p a c is a tutti, restò terminata la funzione che riuscì molto decorosa e di gran commozione in tutti ed in particolare all’ ultimo schiavo liberato, Giovanni Maria Ghiselli, che fu presente al tutto; e nell’ abbraccio che fece col suddetto Marsigli, non puotero di meno di non tramandare ainbidue abbondantissime lacrime, come che memori delle sciagure della schiavitù sofferta da ambidue et ora trovarsi nelle tranquillità della loro patria, che piaccia a Sua Divina Maestà et alla Santissima Madre Maria, nostra protettrice, di conservarla e preservarla da tutti g l’ insulti de’ nemici.

Meno d’ un mese dopo, il 18 giugno, il M arsigli sta per partire per Innsbruck.

Il dopo pranzo si fu in qualche numero di fratelli - ricorda il solito segretario - a dare il buon viaggio per parte della nostra compagnia all’ illustrissimo signor Luigi Ferdinando Marsili, quale nuovamente si protestò a voler cooperare alla fabbrica della cappella e che però deside­rava di trovarsi il giorno seguente in visita con l ’ architetto,

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muratori e fratelli, per vedere in pratica quanto sarebbe la spesa. Il che segui il lunedi mattina; dove maestro F i­lippo Ferrari con suo figlio fecero una lista, quale si trova appresso Carlo Marchi, che loro avrebbero fatto il tutto, etiam con la volta di pietra a catino sopra la cappella, per lire 883.

S eguirono anni di guerra incessante, durante i quali qualche volta e per poco il M arsigli potè rivedere la patria. Ciò nonostante anche di quel periodo mi è stato possibile scoprire qualche segno non trascurabile della sua pietà verso gli schiavi cristiani e del suo affetto per la istituzione bolo­gnese del Riscatto.

Ma devo dire prim a che la scorsa fatta per i suoi m anoscritti conservati nella biblioteca univer­sitaria m’ ha dato anche il modo di congetturare con qualche probabilità il tempo in cui rivide i due fratelli bosniaci che dopo tante orrende traversie l’ avevano trascinato in un villaggio presso Ram a, trattenendovelo, finché fu libero, nel loro m iserabile tugurio.

Dei viaggi che fece per fissare, d’ accordo coi rappresentanti delle potenze contraenti, i confini dei domini turco, austriaco e veneto, egli ha lasciatii diarii, corredati di carte topografiche. O ra la mappa com prendente la regione di Ram a, inserita nel diario X L IV , porta la data del 27 luglio 16997*. Intorno a questo giorno dunque, mentre tornava dal campo dei veneziani, avendo fatto visita all’ am­basciatore Grim ani, “ con tutta la m aggior pompa di truppe alemanne e croatte „, s ’ incontrò coi fratelli O m er e Gerillo, laceri e sparuti, e fattili montare

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su due ornati cavalli, tra lo stupore di tutti rientrò nel proprio campo, dove li regalò splendidamente: scena indimenticabile.

Nel R agguaglio narra anche l’ altro romanzesco incontro con quel manigoldo di gigante che aveva l ’ incarico di legarlo ogni sera al palo piantato in mezzo al lurido bugigattolo dove dorm iva e che lo m altrattava non poco. Lo incontrò, schiavo carico di catene, nel porto di M arsiglia e gli procurò da re Luigi X IV la grazia della liberazione per mezzo d’ un conoscente del m inistro della guerra: altra grande dimostrazione del suo nobil cuore.

Ma d’ un altro schiavo per mezzo dello stesso ministro, direttamente questa volta scrivendogli, pare abbia pur ottenuto la grazia reale. Quello si chiam ava A ssan e le trattative sono del 17067<; questo Mousselon e le trattative di due anni ap­presso, secondo che induce a credere la chiusa di questa lettera a lui d iretta 76:

Le Roy a bienvoulu accorder la liberté que vous de­mandar pour le nommé Mousselon, en cas qu’ il soi invalide, et j ’ envoye a Monsieur de Montmori les ordres necessaires pour l ’ en faire jouir.

A Paris, le 33 juin 1708

Pontchartrain

D opo la battaglia di Petervaradino, essendo stato fatto prigioniero il marchese bolognese Davia, colon­nello del suo reggimento, il M arsigli procurò di soccorrerlo e confortare intanto il padre, come s ’ in­tende da questo passo d’ una sua lettera al fratello Filippo:

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Consoli il signor senatore Da via: essendo il suo figlio marchese Giovanni Battista prigioniero del visire, gode meglio trattamento; ed io ho scritto a Costantinopoli, come vedranno dalle lettere che scrivo al nunzio, per fargli avere di quando in quando denaro per vestirlo ed agevo­largli la schiavitù, che però non sarà tanto d u ra '8.

Senza data, ma forse di quel torno di tempo è la minuta di una sua supplica inoltrata col benepla­cito dell’ inperatore al papa per avvisare ai modi di soccorrere gli schiavi fatti nelle guerre dell’ U n ­gheria, dove dichiara di “ aver nelle m iserie con loro vissuto e prom esso a Dio di procurare, con le sue sostanze di fortuna e con gli offizii e con ogni raccordo, sollievo a ridurli in stato di resuscitare un giorno alla vita della libertà „ 77.

Durante le trattative poi per la pace di K arlow itz, un’ altra buona azione imparo da lui che di fare il bene non desiste un solo istante. Scrive da Brod il 17 agosto 1700 due lettere78: una a Lorenzo Soranzo, residente veneto presso la Porta, e un’ altra a Mar­tino Imberti, addetto alla stessa ambasciata, da lui conosciuto 21 anni prim a in Costantinopoli, per pregarli di indicargli se nella parte veneta si trovino schiavi oriundi di Bologna, poiché “ un conside­rabile numero di gregarii bolognesi militando ha avuto l’ onore di cooperare col proprio sangue alla gloria e progressi delle armi della serenissim a re­pubblica „ e alcuni potrebbero esser caduti prigio­nieri. “ L ’ istituto dell’ università del R iscatto „ ha m essi a sua disposizione 800 talleri da spendere per liberarli e ciò egli fa tanto più volentieri, in quanto si ricorda d’ essere stato egli medesimo in

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schiavitù e d’ esserne uscito per grazia di Dio e di un senatore veneziano.

Che quella somma provenisse dall’ arciconfrater- nita bolognese non potei conoscere, nè crederei, tanto erano scarsi i suoi m ezzi finanziari; forse fu offerta dalla com pagnia del Gonfalone di Roma, dalla quale una volta quella dipendeva. A questa l’ eccellentissim o conte, generale di battaglia di Sua M aestà Cesarea - così lo si chiama di qui innanzi - a veva scritto non so che lettera, che era stata letta in congregazione il 28 febbraio di quell’ ann o70; e il 24 del mese seguente, perchè si celebrasse ono­revolm ente la festa dell’Annunziata, vi aveva man­dato un suo incaricato con sei candele di cera bianca e una somma da distribuire a 500 poveri, un quarto di paolo a ciascuno. La m essa fu poi celebrata dal fratello del generale, dall’ arcidiacono A ntonio Felice, che comunicò fra gli altri Giovanni Maria Ghiselli, l’ ultimo schiavo riscattato 84.

Anche il 7 novem bre del medesimo anno vi fu detta messa dallo stesso, come il 25 marzo 1702 quando già era stato creato vescovo di Perugia 8l.Il generale da parte sua seguitò a fare di quelle elem osine ai poveri, anche fino alla immane scia­gura di B rege n z82, fedele al suo program ma di voler per l’ anima sua farsi “ un capitale di bene fatto ai poveri ed al prossimo „.

Il primo m aggio 1702 l’arciconfraternita lesse una sua lettera, nella quale diceva d’ avere scoperto in Costantinopoli al servizio della Porta tre o quattro schiavi cristiani bolognesi, che col primo ordinario ne avrebbe fatto conoscere i nomi, che lo informas­

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sero quanto era il denaro depositato sul monte e che intanto gliene spedissero un poco per gli ali­menti di quei poveretti. L a risposta fu che non si poteva far nulla®3.

D i e c i anni dopo, il io aprile 1712, egli è a Bologna e fa adunare i confratelli ad udir leggere e ad approvare un suo memoriale da presentarsi al pontefice Clem ente X I per l’ erezione della nuova cappella od oratorio da farsi nel palazzo dell’ acca­demia clementina, nel quale si fa cenno delle due solennità di Maria da festeggiarvisi e si prega Sua Santità di concedere l’ indulgenza di Gerusalem m e a chi visitasse detto luogo e facesse elemosina per la redenzione degli schiavi *4.

A questo punto è intervenuta la cooperazione di quell’ alto personaggio che abbiamo conosciuto, che fa dorare e ornare la cappella, che il 2 febbraio 1718 prom ette e il 25 giugno ha già spedito il calice d’ oro con la patena, e poi altro 85. Il primo dicem bre 1725 quasi tutto è all’ ordine ed egli scrive al generale un’ affettuosa le tte ra 8*, che comincia cosi:

Finalmente ieri il padre Salaroli mi venne a dar parte che era finita la cappella dell’ istituto, ed io dissi che godevo e che mi si dicesse il residuo che dovevo pagare.

M’ aggiunse con flebile voce che era dipinta la cappella, ma che ora mancava il quadro dell’ altare. Ed io replicai che si facesse dal signor Franceschini, che l ’averei pagato a r b i t r i o b o n i v i r i , ma che domandavo per favore che fosse terminato per le prossime feste dell’ Annunziata.

Non so se il quadro fosse pronto per quella data. Nella vacchetta del pittore 87 si ha questa sola nota dell’ anno 1726:

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A’ di 8 aprile. Dal signor don Carlo Salaroli per re­galo fattomi da monsignor Lambertini per 1’ Annunziata donatagli per la cappella dell’ instituto - L. 300.

Pare che il Lam bertini, che non doveva averla vista, credesse in certo qual modo d’ avergliela pagata, sia pure secondo una richiesta modestissima, e non propriam ente d’ averla ricevuta in dono ; perchè l’ anno appresso scrive al M arsigli c o s ì88:

Rispetto al signor cavaliere Fraticeschini io già lo rin­graziai con lettera distintissima ; e, se ve ne vorrà un’altra, la farò, avendomi egli troppo obbligato nel fare una bel­lissima pittura per pochi quattrini.

L a cappella intanto era stata inaugurata solen­nemente il 25 m arzo di quell’ anno 1727, nel qual dì ne prese possesso 1’ arciconfraternita di S . Maria della Neve. Eccone la relazione ufficiale89:

Martedì li 25 detto, giorno della SS. Annonciata, la mattina per tempo si radunarono li fratelli, essendo stati invitati per polizza portali dal nostro guardiano Agostino Billi il giorno precedente; il tenore della quale era di portarsi alla custodia della cappella clementina all' insti­tuto; come seguì, portandosi dalla nostra chiesa processio- nalmente con buon ordine, essendo preceduto il nostro stendardo da due professi e due novizi, con gli nostri segni della compagnia nelle mani, seguito da buon numero di fratelli e dagli uffiziali, cioè il nostro cappellano, il priore, il sottopriore, il camerlengo dell’ opera et il com­pagno, che con li segni del riscatto nelle mani seguivano la processione. La quale prosegui sino al palazzo dell’ in­stituto e nell’ arrivare fu dalli cantori intonato il Te Deum, il quale si terminò nella loggia del detto palazzo, avendoci incontrato sulla porta l’ eccellenza del signor generale Mar-

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sigli, con catena da schiavo sulle spalle; e, terminato il T e Deum laudamus, ad uno ad uno abbrazziò li fratelli.

E da poi ci portassimo nella cappella e, posti tutti in genocchioni, fu dalli cantori intonato il Salve Mater Sal- vatoris; lo quale terminato, fu dal nostro cappellano detta l’ orazione per li schiavi e posia subito fu dal curato della Maddalena di strada S . Donato detta la santa messa; dove l’ eccellenza del signor generale con altri fratelli fecero la santa comunione. E, terminata la messa, si cantò il divino uffizio e con le solite preci si terminò.

Et essendo stato tutto il giorno un fratello alla porta del palazzo con una borsa a raccogliere elemosine per li poveri schiavi, conforme la mente del signor generale, li quali denari la sera si misero nella cassetta che di perma­nenza sta nella detta cappella; li quali denari ogni anno devono essere levati da quella cassetta e consegnati al nostro camerlengo dell*opera per servirsene per li riscatti che andaranno seguendo.

E così la sera su le ventitré ore, radunati li fratelli e portatisi nella cappella e ingenocchiati di nuovo, fu into­nato il Salve Mater e, detta la orazione dal cappellano come sopra, fu levato il stendardo, stato tutto il giorno di permanenza nella loggia del palazzo, e col medesimo or­dine di prima si avviò la processione, e nel sortire fu intonato il Miserere mei Deus, con replicare dopo tre volte il salmo De profundis. E prosegui la processione sino alla nostra chiesa, con la recita delle litanie dei santi e preci ; alla quale arrivati con l ’ occasione delli soliti esercizi rece- vessimo la santa benedizione del Santissimo Sacramento; e cosi terminò la funzione.

Cinque giorni dopo il generale pregò i confra­telli che in un giorno d e ira n n o si recitasse 1*ufficio dei morti per T anime dei defunti schiavi cristiani e che il priore e T ufficiale esortassero gli schiavi

4

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redenti a comunicarsi una volta 1’ anno in questa chiesa, intervenendo vestiti con cappa alle fun­zioni pubbliche, specialm ente alle processioni, e por­

tando sulla cappa oltre il segno dell’arciconfraternita due catenelle indicanti l’ im presa del riscatto: ciò che fu unanimemente ap p rovato90.

Qui si presenta un piccolo problema, propostomi ’ da persona da non lasciarsi senza risposta: — Le

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PREFAZIONE 51

catene, che oggi si conservano fissate ad una parete in una sala del Museo geologico G. Capellini, sono proprio quelle che il M arsigli portò dalla sua p ri­gionia, come attesterebbe l’ iscrizione di Francesco Rocchi (t 1875)? Essa dice:

QVAS • CONSPICIS • CATENAS

A L O IS1V S • F E R D 1N A N D V S • M A R SILIV S

DVX • EXERCITVS • CAES • ADVERSVS • TVRCAS

BELLO • SA V CIA TV S • CA PTVS

BINIS • FERME • ANNIS • IN • SERV1TVTE • COMPENDITVS

LIBERTATE • RECIPERATA

MAGNAE • VIRGINI • DEI • PARENTI • DESIGNATAE

IN • SACRARIO • IN STITVTI • HVIVSCE • A • SE • CONDITI • DONAVIT

ILLOQUE • DIRVTO • HEIC • ASSERVANDAS • CVRAVIM VS

L e catene, anche prim a che si scolpisse la lapide, erano nell’ aula di zoologia; ce n’ assicura, se non altri, il professore G. G. Bianconi che nel 1849 scri­v e va : " oggi si conservano e quasi si venerano in questo museo di storia naturale „ 91.

V i erano state collocate dopo la distruzione della cappella e il Fantuzzi le vide sopra quella cassetta m essavi per le elemosine a favore degli schiavi. L a notizia è data in questa forma, nelle sue Memorie della vita del generale, edite nel 1770: “ alla qual cassetta [il M arsigli] volle apporvi la propria catena da schiavo che sempre aveva conservato „ 92 : notizia assolutam ente contradittoria con quella dataci dal M arsigli nel suo Ragguaglio, che, dopo aver nar­rato d’ essere stato nel 1684 alla Santissim a V ergine

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Nunziata di Firenze, soggiunge: “ dove lasciai appese le mie catene „ M.

E il Ragguaglio fa parte, come sappiamo, delle Convenzioni conchiuse tra lui e gli uomini dell’arci- confraternita del Riscatto appunto il 21 marzo 1727, cioè cinque giorni prim a eh’ egli venisse loro in­contro sulla porta dell’ istituto “ con catena da schiavo su le spalle Non è am m issibile che to­gliesse alla chiesa fiorentina quell’ oggetto che rap­presentava lo scioglimento d ’ un voto sacro fatto durante sì crudele prigionia, e proprio allora che ne pubblicava per la stampa il ricordo. D’ altronde, se le catene che portò quel dì nell’ istituto fossero state quelle vere della sua schiavitù, il maestro de’ novizi che compilò il verbale della festa ci avrebbe tenuto a farlo sapere; invece esso si esprim e in questo modo generico : “ con catena da schiavo come dicesse: col simbolo della schiavitù. E pro­prio così, portando “ catenelle indicanti l’ impresa del riscatto ,, voleva il M arsigli, secondo che ab­biano riferito, com parissero nelle pubbliche funzioni tutti gli schiavi redenti.

S ’ ha da credere perciò che le catene conservate nel Museo zoologico non sieno quelle della schia­vitù del M arsigli, lasciate da lui a F irenze già nel 1684 e andate poi perdute; bensì quelle altre che usava nelle cerimonie religiose. Onde l’ iscrizione del Rocchi andrebbe corretta, non solo perchè pro­lunga la schiavitù da 9 mesi fino quasi a 2 anni, ma anche perchè su quel proposito non dice la verità.

Seguitando a sfogliare gli atti dell’ arciconfrater-

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nita s’ arriva a undici giorni dopo la morte del gene­rale, seguita il giorno d’ Ognissanti del 1730.

Si domandò se volevano praticare la forma che si pratica a tutti li confratelli quando muoiono, oppure se stimavano bene a fare qualche dimostrazione trasversale. Ora fu stimato bene dalli confratelli a considerarlo come fratello, perchè la compagnia non si trova in stato di far spese, a causa d ’ essere addebitata col camerlengo; e cosi li fratelli che v ’ intervennero diedero delle messe in n.° le quali furono consegnate al signor camerlengo e si risolse di fare due arme da affissare a spese della compagnia 9,<.

Così tiepidamente vi fu commemorato colui che tanto aveva fatto per questa patria istituzione, della quale regolarm ente anche negli ultimi anni si ricor­dava nelle sue elemosine 95.

E qui pongo fine alle informazioni, con le quali parrà ch’ io mi sia spaziato oltre i term ini che l’ og­getto di questa pubblicazione consentisse. Mi giu­stifichi non tanto l’ attrattiva della loro novità, onde potevo compiere un capitolo del tutto nuovo della vita del M arsigli, quanto la loro stretta dipendenza dalla memoria di quell’ orrenda schiavitù che, a lui sem pre presente, fu costante stimolo di carità verso gli schiavi cristiani, che avrebbe anche “ maggior­mente sollevato, quando nell’ auge della sue fortune non fosse stato annichilato dalle sventure „ 96.

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R A G G U A G L IO D E L L A SC H IA V IT Ù

DI LUIGI FERD IN A N D O C O N T E M AR SIGLI

addirizzato a’ suoi confratelli della Compagnia della Beata Vergine della Neve, direttiva del riscatto degii schiavi bolognesi, affine che loro serva di motivo per ringraziare la Beatissima

Vergine della grazia fattagli fra tanti strani accidenti e con tale esemplo conoscano che Maria Vergine è la vera protettrice di quelli

che solo confidano in lei fra tali miserie.

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Qu a n d o da me stesso non facessi questa narrativa della mia dura schiavitù nelle

mani de’ tartari e poi de’ turchi a’ miei cari confratelli della Compagnia del Riscatto di Santa Maria della Neve di Bologna, resterebbe incognita la miracolosa assistenza che Maria Vergine m’ accordò nella forma portentosa che ognuno intenderà, dopo d’ avere esposta la preliminar notizia ; chè nella solennità della sua Visitazione, che si celebra alli 2 di luglio, entrai fra le catene e nella festa del susseguente anno del suo mistero dell’ incarnazione uscii da

quelle, in forma così prodigiosa come esporrò.Questa narrativa mi protesto che sia lontana

da ogni mia vanità, ma solamente forzata, per­chè li medesimi confratelli con un esempio di tante circostanze s’ infervorino non solo a rin­graziar Maria Vergine d’ avere protetto me loro fratello, e che conoscano meco che alla gran Madre di Dio unicamente io doveva per gratitu­dine consacrare la fondazione dell’ Instituto a lei

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in quel gran mistero dell’ Incarnazione, primo

operato dell’ onnipotenza di Dio per la nostra redenzione. La pietà loro si confermerà che non vi è la più solida ed efficace intercessione ap­presso Dio per lo sollievo e liberazione totale

degli schiavi, che questa di Maria Vergine ; e però gli esorto quanto so e posso a sempre più mostrarne fervore con le loro continue preci alla medesima, prima perchè loro ottenga dal Figlio la costanza di non prevaricare, scostan­dosi dalla vera religione, per avere sollievo dagli strapazzi e dalle fatiche, chè soffrendole

costantemente loro sarà sicura la vita eterna e la liberazione loro, egualmente chè quella mi ottenne su la fiducia che in essa io aveva. E massime li prego di farle in quel giorno che passeranno nella Cappella dell’ Instituto, in con­formità del nostro sopraddetto instrumento fra noi stipulato, trovandosi a’ piedi della Beatis­sima Vergine, in quella della Santissima Nun­ziata dell’ Instituto, aggiungendovi la comme­morazione delle anime di quegli schiavi che morirono nella schiavitù dell’ assedio di Vienna ed in altri incontri successivi, e che periranno

pur troppo nell’ avvenire; giacché questi, abban­donati dalla reminiscenza de’ parenti, che non sanno nè della loro vita nè della loro morte, sono povere anime tutte derelitte dagli aiuti de’ suffragii istituiti dalla Chiesa.

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Ed in fine sentite il racconto puro, per con­fermarvi e nella vostra pietà e nella mia giusta premura che ho avuta d’ avere li vostri spirituali aiuti ne’ miei ringraziamenti a Dio ed alla Madre che placò l’ ira sua contro di me, per moverla a far lo stesso con gli altri che sono di presente e saranno d’ avvenire in simili miserie.

Il sultano allora regnante Maometto IV, per istigazione del suo gran visir Carà Mu- stafà, deliberò di venire al tentativo dell’ espu­gnazione di Vienna, mettendo le sue poderose forze in attuai marcia l’ anno 1683, dopo di avere orgogliosamente ributtate tutte le esibi­zioni di pace.

Nello stesso anno l’ imperator Leopoldo pre­maturamente a’ turchi si pose in campagna con le maggiori forze possibili, per tentare

l’ espugnazione di una qualche piazza vicina alle di lui frontiere ; e fu scelta quella di Naihesel. Ma non tosto aperte le trincee contro d’ essa, s’ intese vicina 1’ armata ottomana col gran visir e kam de’ tartari e Tekeli con tutti gli ungheri ribellati, e dovette Carlo, duca di Lorena, levar 1’ assedio e ritirarsi verso la for­tezza di Giavarino, per mettersi avanti del di lui esercito il fiume Rab.

Nel tempo che Sua Altezza eseguiva tale

ritirata, mi chiamò col premio di una compagnia

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d’ infanteria nel reggimento Tipentall, per istru­irmi come dovevo eseguire in quella mia assai giovenile età gli ordini di lui, per rendere utile quella disposizione di difesa di tante trincee ed altri lavori che io aveva ne’ due mesi pre­cedenti disposti su la ripa di quel fiume, dove dal principe Hermanno di Baden, presidente di guerra, ero stato spedito. Mi comunicò pure che la Maestà dell’ imperatore in Trasburg aveva divisa la difesa del fiume in due parti, inferiore

e superiore: la prima era tutta appoggiata a lui con l’ esercito cesareo e l’ altra agli ungheri, magnati di quella parte d’ Ungheria superiore, fino all’ isola del Rabao, e coperta dalla ripa del mentovato fiume R ab; e che fra tali divi­sioni ed ordini della Corte non avrebbe spediti tedeschi più sopra che la sponda superiore della medesima isola del Rabao, dove mi comandava anche di tenermi io con ducento dragoni, la maggior parte del reggimento del Cavaliere di Savoia, fratello del moderno principe Eugenio, e col positivo comando di assistere alle truppe unghere con la mia sola persona e nè pure

un sol soldato tedesco, affine di addirizzarli per le loro mosse ai posti fortificati da me.

Questi ungheri, fino a tanto che i turchi, tartari e ribelli furono lontani, erano tutto zelo, tutto valore per Cesare ; ma a misura che avan­zavano, non potevano tener nascosto il loro

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malanimo per la Corte di Vienna. E con un espresso avvisandolo, il Duca di Lorena mi rispose, con una lettera italiana tutta di suo pugno, che non dubitava punto della verità de’ miei avvisi, ma secondo li replicati ordini della Corte doveva lasciare intatta quella parte d’ Un­gheria da qualunque truppa tedesca, e che riti­rava anche dall’ isola del Rabao tutti i soldati alemanni, lasciandomi solo 120 dragoni per mia scorta, bastanti per ritirarmi su le truppe unghere,o pure per Capovar all’ armata, o verso l’ Austria.

Il giorno dedicato a S. Pietro i tartari in tre luoghi della medesima isola attaccarono e dagli ungheri, che meco ivi erano con li miei dragoni, furono respinti; e li primari magnati della parte superiore del fiume Rab, sentendo quell’ attacco dalla parte dove io era, entrarono

tutti nell’ isola del Rabao, dove erano più vicini alla fortezza di Papa, presidiata da ungheri, che apersero le porte alle truppe del Tekeli e al di lui ministro.

11 generai Budiani mi mandò nel mio posto un aiutante, con l’ avviso preciso che il giorno delli 2 di luglio sarebbe stato l ’ attacco grande de’ tartari nell’ isola del Rabao e che per que­sto ancora mandava 800 soldati ungheri nella medesima isola, assicurando che loro nel sito di Budael avrebbero fatti gli ultimi sforzi, come

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sarebbe seguito in tutte le altre parti, e che restassi pure sicuro che, quando avesse dovuto ritirarsi, mi avrebbe avvisato con lo sbaro di due cannoni, che aveva collocati sopra di una motta di terra, perchè in quel caso avessi potuto ritirarmi a Capovar, dove ci saremmo uniti insieme.

L ’ attacco sul principio, dalla parte dove era io, fu gagliardo; ma presto cessò, montando tutte le forze nemiche al sito di Budael, dove tutti gli ungheri della maggior qualità si sotto- misero al Tekeli. Ed essendo le ore 21, senza che mai si fosse sentito il segnale de’ cannoni, e per la necessità de’ viveri e con la ferma speranza che il medesimo Budiani si fosse difeso, uscimmo da quei pantani, entrando nella fertile campagna; dove quegli 800 ungheri, avve­dendosi che i turchi, tartari e ribelli erano come buoni amici mescolati con li loro compagni, senza dirci neppure una parola, a briglia sciolta corsero da’ loro compagni.

In tal contingenza noi tedeschi ci ritirammo in un bosco fra paludi, tenendo guardie sopra degli arbori, che ci avvisavano essere in marcia tartari con alcuni pochi turchi e ribelli, che a noi marciavano per cingerci, come fecero. Que­sti avvisi posero in costernazione il nostro poco

numero, che diventò presto anche minore, diser­tando molti alla parte de’ nemici; ed alla fine,

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ridottici a soli 60, ci promettemmo insieme la fede di difenderci, appresso di un’ acqua aspet­tando la notte vicinissima, per poterci con quella ritirare verso del lago di Naisidler. Ma la forza de’ tartari e l’ empietà de’ ribelli ci prevennero, attaccandoci da tutte le parti con un’ indicibile furia e passando tutti a fìl di spada e di frezze. Da due delle quali restando ferito io, ed il cavallo mio ucciso, credendomi morto come gli altri, un tartaro discese da cavallo per tron­carmi il capo, egualmente di quello che aveva fatto agli altri. Io in lingua turca, imparata nel mio viaggio di Costantinopoli, gli dissi : D e gm a! ferma; parola che l’ arrestò. Mi spogliò da capo a piedi, lasciandomi la camicia e le calzette di filo bianco e, legandomi con fune di cuoio barbaramente e senza riguardo alle mie ferite di frezza che da tutte le parti gron­davano sangue, mi condusse nel loro campo a passar la notte a ciel sereno, nè senza pen­sare a medicarmi, nè a darmi ristoro, ma sem­pre più a tormentarmi con istrettissime legature ed a farmi servire da capezzale a due tartari, che si servivano di me per riposarvi sopra le loro teste ed assicurarsi che non gli potessi fuggire.

Due ore avanti giorno, con fischi o gridi svegliarono le truppe ; e, fatto chiaro il giorno, mi levarono la camicia tutta sangue e le calze

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bianche, tagliandomi la bella capigliatura cheio aveva e coprendomi di una vecchia veste da tartaro, tutta piena di pidocchi. E per berretta mi posero un zucco di vecchio cappello in capo ; e le ferite le lavarono con acqua mescolata con latte di cavalla, e poi gli posero sopra del fior di pietra e dello sterco di cavallo, facendone un unguento col medesimo latte ; e, rallentando un poco le così atroci legature, mi posero sopra di un cavallo tartaro, che era assai buono, tenendo la fune un altro tartaro.

In questo miserabile stato mi condussero per due giorni con essi loro nella orribile scor­reria contro l’ Austria inferiore, incendiando tutti quei villaggi, facendo schiave le donne e i fanciulli e gli uomini capaci di lavori; gli inabili per malattie e vecchi decapitavano. Le chiese si saccheggiavano, le pianete servivano

di vestimento a’ tartari, le pissidi dorate, e credute di oro, si votavano dalle particole get­tandole per terra, le immagini con la sciabla si laceravano, li crocifissi si calpestavano deri­dendoli. Donne gravide che abortivano o che partorivano per le strade; preti, e massime gli

frati dell’ ordine di S. Francesco, tutti vilipesi

dentro de’ loro vestimenti. E trovando pane e vino nelle case, il mio tartaro me ne esibiva; ma, da dolori eccessivi e delle legature e delle ferite tormentato, per tre giorni di mia dimora

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con essi tartari non mi alimentai che di brodo di carne di cavalle e di latte delle medesime.

Questi tartari, ricchi di prede d’ uomini, d’ armenti, di suppellettili, fecero un distacca­mento per mandare a vender queste all’ esercito ottomano. Mi diedero ad altri e, bisognando traversare l’ emissario del lago di Naisidler, che forma il fiume Rabdniz, in un sito largo quanto può tirare un fucile e d’ una smisurata profondità e senza altro comodo da varcarlo che quello del nuoto sopra de’ cavalli, caccia­rono questi con tutti gli armenti dentro del­l’ acqua, con una particolare arte ed agilità. E in tal forma passano qualunque acqua e agli schiavi dànno la coda de’ cavalli nelle mani, insegnando loro di tenere le gambe rancinate. E per le donne a sorte ivi trovarono tre bar­chette che assisterono alle più giovani e alle più belle; e alle altre comandarono, coperte nel miglior modo che potevano, che passassero egualmente con noi. A gli uomini davano la

coda de’ cavalli nelle mani, ad altri pure attac­cavano piccole zattare di canna legate insieme, che nuotando portavano sopra di loro i vestiti, la sciabla, le frezze e 1’ arco, senza che si bagnassero: dimostrazioni tutte che si vedono nella figura del capofoglio primo.

Le grida, gli urli e i fischi erano indicibili, ed in fine era un orrido quanto curioso aspetto

s

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e che solo si vede in quella nazione, che fra

una tale agilità e costume non ha ritegno nè di fiumi, nè d’ acque considerabili.

S ’ inoltrò la marcia dopo di tal passaggio sino alla vista di Giavarino. Attorno del quale essendovi Michel Abaffì, principe di Transil- vania, con le sue truppe alla custodia de’ ponti fatti da essi turchi sopra del fiume Rab, mi condussero alla tenda di quel principe, per

esibirgli la vendita di mia persona; che doman­dandomi di qual paese fossi, gli dissi : “ Ita­liano „. E per questo anche chiamò un geno­vese di lui uffiziale, che servisse d’ interprete.

M’ interrogò in qual reggimento cesareo ser­vissi. Negai la mia qualità di soldato (giacché quelli tartari che mi presero non erano ivi pre­senti), dicendogli che io era veneziano, servidore del mercante Giusto Vanik, che mi mandava a Vienna per suoi affa ri mercantili. Mi domandò se la cristianità aveva più soldati da difendersi. Ma io, abbattuto di forze, non curai d’ altri discorsi che quello di supplicarlo, gettandomi a’ di lui piedi, di comprarmi dalle mani di questi

barbari. E stette esitante un pezzetto e parlando con i suoi cortigiani; poi mi licenziò, auguran­domi la libertà e costanza. E mi diedero un pane.

E li tartari di nuovo meco si rimisero alla marcia per la strada maestra verso Vienna ed

arrivarono alla retroguardia dell’ esercito otto­

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mano, che era comandata da Agm et bassà di Temisvar, che portava il predicato di t e u - t e r d a r , perchè in tal impiego fu sempre in Candia sotto del gran visir Kiuperlì, e che aveva genio per li franchi, che da giovane comprava facendoli rinnegare ; e di questi aveva composta tutta la sua corte.

Fui introdotto nella sua gran tenda, che subito mi domandò lo stesso del principe di Transilvania, riportando da me le istesse rispo­ste, e si inoltrò a ricercarmi se io era per l ’ avanti mai stato a Vienna. Gli risposi di sì, per esigenze della mercatura. Fu curioso di sapere se le fosse della città fossero profonde;

ma mi difesi da ulteriori discorsi in ciò, rac­cordandogli che un servitore di mercante poco pigliava guardia a queste cose e solo io poteva assicurarlo che le fosse vi erano. Mi domandò

se il Morosini, che aveva difesa Candia, era vivo e con buona salute; se più viveva un

zoppo nobile di casa Riva, che era stato ostag­gio della Repubblica in tempo della resa della piazza; e, volendogli baciare la veste, per pre­garlo di comprarmi dai tartari, mi donò un sultanino d’ oro ; e un di lui rinnegato francese

di Provenza mi condusse dal di lui mastro di casa, che mi comprò per 18 pezze e, chiamato un chirurgo ebreo, cominciò a medicarmi meto­dicamente.

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E sopra d’ un carro di questo gran bagaglio marciai con l ’ esercito sotto Vienna, dove vidi le tante loro strane disposizioni militari, che ho descritte nel mio Trattato della milizia ottomana.

Sotto di Vienna il campo del mio bassà cadette nel sito d’ Arnoltz, in un luogo di qual­che eminenza, da dove si vedeva il progresso delle trincee de’ turchi. E migliorato dalle mie ferite, mi posero col credenziere del bassà, che era un arabo, condannandomi al mestiere di cucinare e pestare il caffè, e a più altri vili servizi privati della casa del bassà, oltre a quelli che si chiamavano del b i e g l i k che era del sultano ; dove impiegarono tanto il giorno che la notte un certo numero di schiavi, con­dannati a portare legnami, fascine, gabbioni, pesi di più cose nelle trincee: congiuntura che faceva guadagnare agli schiavi limosine da’ turchi, come molte volte delle bastonate ancora.

Negli ultimi di luglio, il gran visir informato, la gran quantità degli schiavi che era rimasta

nel campo, oltre quelli che da particolari erano stati spediti in Turchia, furono condannati ad esser tutti decapitati alla ripa del Danubio, nel sito dove di presente è il lazzaretto, in distanza non molto grande da dove era io accampato, in maniera da poter vedere una così compas­sionevole carneficina.

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Il gran visir trovando ostacoli maggiori delli pensati al progresso dell’ assedio, gli causò ira anche contro dell’ istesso bassà mio padrone, che unitamente con Ibraim bassà di Buda cercò di dissuaderlo all’ impresa di Vienna. E da tale altercazione ne nacque la di lui barbara riso­luzione di dargli il veleno in una tazza di caffè, che in meno di 24 ore lo condusse alla morte; che anche rese vantaggio al medesimo gran visir per la confiscazione del suo grande baga­glio, oltre tutto quello che fu da’ servitori del defonto rubato, come la mia persona fu dal mastro di cucina trafugata.

In questo disordine pensai al primo di ago­sto, secondo il mio calcolo, di tentar la notte la fuga dentro della strada coperta di Vienna, in faccia della porta del Sotten; giacché molto prima avevo trovato il modo di sciogliermi le

catene che ogni notte mi ponevano a’ piedi. In circa alla mezzanotte, avendo gli piedi sciolti, dopo di avere invocato il nome di Maria, destra­mente uscii da quella tendetta e felicemente a tra­verso del campo ottomano per la stessa via di Arnoltz mi accostai in pochissima distanza alla strada coperta. Dove Dio volle che in un fondo m’ incontrassi in tre sentinelle turche morte che, arrestandomi, conobbero che ero uno schiavo fuggitivo in Vienna; e questi obbligandomi con battiture a dire di chi ero schiavo, lo dissi.

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Ed appunto a quella tenda, da dove ero fug­gito, da uno di essi fui ricondotto la stessa notte ; dove quei turchi che m’ avevano in custo­dia mi duplicarono le catene, senza nè pure dirmi una cattiva parola.

Ma, fatto il giorno, quell’ arabo sotto di cui10 pistava e cucinava il caffè, con l’ istesso pistone di ferro, di cui io mi serviva a pistare11 caffè, mi sfiancò sino a lasciarmi per morto. Ed alle 22 ore un turco m’ intimò che la mattina seguente sarebbe stato in pronto il carro che

conduceva al macello nel mentovato luogo del lazzaretto gli schiavi, per ivi decapitarmi. Que­sta sentenza non trovò in me altro dispiacere che quello di dover morire senza Sacramenti e senza che in mia patria potessi far sapere come io era morto.

Nel campo ottomano vi era Mauro Cordato che mi aveva conosciuto due anni avanti in Costantinopoli, vi era pure il residente di Ce­sare, col quale io aveva in tal tempo più volte

pranzato, per poter far sapere il mio fine con un biglietto. Ma, fra la fiducia nell’ assistenza di Maria Vergine e fra la considerazione cheio poteva farmi palese con sicurezza di esser mandato nelle Sette Torri, mi risolsi di sperare nella mia rassegnazione alla morte e negli aiuti

di Maria Vergine, senza punto alterare il mio preso sistema di tenermi occulto, soffrendo ogni

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maggiore strapazzo, per arrivare a quella libe­razione sollecita che sempre sperai.

Impiegai quella notte in preci a Dio, perchè facesse di me quello che avrebbe creduto pel mio meglio; soddisfeci col desiderio de’ Sacra­menti, dopo di un esame di coscienza, e con impazienza, ed indifferenza o per la vita o per la morte, attendendo il giorno.

Ed essendo due ore d’ esso, capitarono due bosnacchi, soldati a cavallo del bassà morto avvelenato, che erano soliti ogni giorno due volte di venire a bere il caffè a quella tenda, dove io era servidore dell’ arabo che per danaro ne dava a chi ne voleva, quando io era il di­stributore; ed egli ne tirava il contante. Questi, fra tale loro abituazione sentendomi parlare dei loro paesi di Bosna, per dove ero passato tornando da Costantinopoli a Venezia per terra a traverso di quel regno, e compiacendosi delle poche parole turche che io aveva imparate, s’ intenerirono vedendomi alla vista del carro, anzi in procinto di ascenderlo. Mi dissero : “ Animo, Federico ! „ (che appunto era il nome che mi ero posto invece di quello di Luigi), e si risolsero di salvarmi la vita con lo sborso solo di sette reali ; che sborsati subito, mi con­dussero alla loro piccola tenda, lasciando che quell’ arabo mi spogliasse di una piccola cami- sciola di vecchio panno.

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Questi subito mi diedero da mangiare par­camente, perchè anch’ essi erano poveri ; ma da bere del vino quanto io ne voleva, di quello che era nelle cantine de’ borghi : ristoro che maiio aveva avuto per tutto il tempo della mia schiavitù. Finito il meschino pranzo, col mezzo del mio balbettar turco stabilirono meco il con­tratto della somma di 200 zecchini per la mia liberazione, da pagar loro nella città di Seraglio, metropoli della Bosna, per la casa de’ Bernac- cowik, dalla quale viaggiando per Venezia io aveva preso 150 pezze. Vollero di più il mio giuramento sopra la religion cristiana, facendo con due deta la Croce, che mi obbligarono a baciare per l ’ osservanza alla promessa di mai pensare alla fuga : che eseguii con tutta la fermezza d’ animo per religiosamente osser­varla. Ed infatti, con tutta quiete e rassegna­zione alla loro somma povertà e gratitudine di avermi redento dalla morte, pensai a servirli durante 1’ assedio, come nella fuga da Vienna, con la ferma credenza che quel Bernacowik, cristiano di rito latino romano e che ben mi conosceva, non m’ avrebbe tradito, come a suo

luogo racconterò che fece.Durante tutto il mese d’ agosto, fino al tempo

del soccorso che la cristianità portò a Vienna, vissi fra stenti di vitto e di vestimenti: effetti della povertà de’ miei padroni. Del resto con

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qualche sorta di quiete, consolandomi nel cono­scere che i turchi ogni giorno mancavano di forze e che il calore dell’ assedio diminuiva, e che non era possibile che la cristianità non fosse vicina con un poderoso soccorso, che tre giorni avanti della liberazione di Vienna si pubblicò essere appunto apportato, senza cheio vedessi mai ne’ turchi una minima disposi­zione d’ ordine o per resistere o pure per fare una regolata ritirata. Solamente la mattina del giorno della liberazione di Vienna si videro truppe di migliaia di turchi che correvano in confusione alla falda del monte, alla sommità del quale scoprironsi le linee di battaglia di truppe alemanne e polacche, che a grave passo ordinato cominciarono a calare per le falde del monte; dove i turchi senza una minima resi­stenza si diedero a quella disordinata fuga, senza più rivedere nè le trincee piene di gian­nizzeri, nè le loro tende colme di ricchezze.

In questo stato di cose i miei padroni, che mai dalla loro tenda si erano partiti, posero quattro loro stracci in due saccoccie, che posero a traverso d’ uno de’ loro cavalli ; e legandomi con una fune nel braccio destro, un d’ essi denudò la sciabla dicendomi: “ O marcia, o che ti decapito E dopo che ebbi riconosciuto che non mi era possibile alcuno scampo, mi risolvei con li piedi nudi di camminare, seguitando i

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loro cavalli per quelle vigne tutte piene di spuntoni di viti, che in breve tempo mi avevano ferito le suole de’ piedi con dolori atrocissimi, che mi obbligarono di pregarli a decapitarmi; perchè non era possibile li potessi seguire. Ed appunto Dio, che mi voleva salvo, fece incontrare un cavallo macilento e abbandonato ; e da questi fu preso e postomegli sopra, in maniera tale che mi fu possibile di fare in vent’ ore di tempo la precipitosa marcia di fuga sino al di là dal fiume Rab, fra’ pericoli d’ es­sere ogni momento decapitato o calpestato sopra de’ ponti de’ fiumi Rabniz e Rab.

Nel campo di là dal fiume Rab, alla vista di Giavarino, non si vide che una sola piccola tendina da soldato a cavallo, sotto della quale

fu ridptto il superbo visir; che allora più che mai si diede alla disperata barbarie contro dell’ uno e dell’ altro bassà, e particolarmente d’ Ibraim visire di Buda, da tutto l’ esercito venerato per la sua canizie e perchè disuase il gran visir dall’ impresa di Vienna ; che alla

sua presenza lo fece strangolare, facendolo reo che non si fosse impedito il soccorso a’ cristiani. Si levò in quell’ esercito turco un così fatto tumulto, che una gran parte di esso per le selve di Vesprino cominciò a darsi alla fuga; che il gran visir cercò d’ impedire con la forza, ordinando più corpi di cavalleria che decapi-

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tasserò i fuggitivi che non ritornassero alle loro bandiere. E in questo frangente trovandomi co’ miei padroni che si vedevano come perduti fra quell’ orrida confusione, avemmo lo scampo di salvarci nel fondo di certe vigne, aspettando la notte, per servirci del di lei vantaggio, per li mentovati boschi, da fuggire a Buda.

Per tre giorni si ricovrarono in casa d’ un turco loro amico, dove i cavalli e noi ci risto­rammo un poco, riparando massime la mia sella di così incomoda costituzione.

Ci avanzammo al fiume Dravo, traversando quel gran ponte di legno, di lunghezza di tre milia, sopra della di lui palude Esechina. Ma arrivando al vivo del fiume, tanto i miei padroni che io da quelle guardie fummo ricevuti con fierissime bastonate, che ci obbligarono a ripas­sare quel lungo ponte per ripigliare un’ altra strada lungo il Dravo; dove alla dirittura di Possega fortunatamente trovammo rasciani con

due barche, che ci traghettarono in Schiavonia. E lo stesso ci riuscì a Brot sul Savo, dove entrammo nella prima terra della Bosna.

E qui cominciai ad essere attaccato da febbre e da flusso che per tutto l’ inverno vegnente non m’ abbandonò e che mi rese il viaggio

penosissimo, mancando di vestiti; e solo dal­l’ abbondanza del fuoco in quelle .case nelle

quali pernottavamo e dalla carità degli ospiti

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che avevano di me compassione mi restauravo durante la notte.

Scoperta di lontano la desiderata città di Serraglio, invece di rallegrarmi, sentii dentro di me un’ oppression di cuore, presaga del cat­tivo trattamento del Bemaccowik. Al quale, giunto che fui dentro della città, scrissi una lettera descrivendogli che io era quegli che il bailo Civrani me gli aveva raccomandato, per­chè mi pagasse danaro, come fece, per la somma de’ 150 reali. Questi negò di conoscermi, dicendo al turco che si guardasse, chè io poteva essere un furbo, e che assolutamente non voleva venire a vedermi. Replicai un’ altra lettera, im­piegando tutte le arti per moverlo alla pietà cristiana; ma fu indarno. E ritornando uno de’ turchi con una tale ostinata risposta, mi con­venne di soffrire non solo molti strapazzi, ma anche bastonatura e minaccie di vendermi per quel poco che avesse potuto ricavare.

Ma il miserabile stato mio, nel quale io era, di salute impedì qualsisia compratore; ed io, animandomi alla tolleranza, colsi il ripiego che, dovendo portarci alla loro casa nel villaggio di Rama, distante due giornate dal mare, che avrei scritto a Spalatro e per quella strada spe­dite lettere a Venezia per avere il danaro. E con l’ aiuto di un pellizzaro di rito latino, che parlava buon italiano e che pose tutte le buone

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parole a mio vantaggio, mi condussero alla loro casa; che trovai miserabile, piena di donne e figliuoli pezzenti. Nella quale mi assegnarono una piccola stanzetta senza lastricata; ed in mezzo piantando un palo, al quale fermavano la notte i ceppi, mi diedero due lorde schiavine, una per mettermi sotto e l’ altra sopra, con un piccolo cuscinetto riempito di fieno, che sopra di una pietra mi serviva di capezzale.

E crescendomi l’ infermità, a segno di non dovere più sperare della mia vita, ebbi ricorso a domandare la carità che da me venisse un padre di quel convento de’ zoccolanti che era in Rama, perchè mi confessasse; ed il padrone stentò ad accordarmelo, ma il religioso, forse impedito, diferì molto a venire. A lla fine ebbi questa consolazione e sotto il titolo di confes­sione gli comunicai la mia qualità, perchè in una scattola mi avesse portato il Venerabile segretamente. Ma mai più lo vidi.

L a natura si aiutò con la crise dell’ orina; che essendo così frequente nella notte, furono obbligati di sciogliermi la catena dal palo, per­chè potessi uscire da quella carcere, in quei terribili freddi e nevi, ad orinare nella copia che faceva e senza che mi potessi più reggere per la destituzion delle forze.

Un poco migliorato, fui provvisto di carta e calamaio, per iscrivere a Spalatro ad un certo

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Mozzati, mio conoscente fatto ne’ miei viaggi per mare e per terra andando da Venezia a

Costantinopoli e da quello a questa ritornando per terra, perchè mi facesse passare il mio piego, diretto all’ eccellentissimo signor Pietro Civrani; che nel mio soggiorno a Costantino­poli m’ accordò un amore veramente da padre. A l quale raccomandavo il piego rinchiuso per Bologna, diretto al signor senatore conte Fran­cesco Carlo Caprara, che pure nell’ amore non mi era inferiore all’ altro, dandogli tutta la facoltà su’ miei fondi di provvedermi di 300 zecchini (somma che di 100 avevo aumentato nel Serraglio di Bosna sopra del primo con­cordato avanti di Vienna) : credendo che i miei fratelli fossero ancora a Parigi con monsignor Ranuzzi, nunzio pontificio.

11 turco più vecchio de’ miei padroni, che aveva in Magarsca fratellanza con un certo Marco Bassi, volle addirizzargli il mio piego per Spalatro, che tanto da lui che dal Mozzati fu fatto passare a Venezia con tutta fede e sollecitudine. Questo inaspettato piego, perchè ognuno mi credeva già morto, risvegliò di tal maniera l’ amore paterno del Civrani, che subito

dopo lette le lettere non solo preparò li 300 zecchini, ma ordinò in Spalatro per qualunque maggior somma che fosse bisognata, perchè in

ogni forma mi voleva libero. E per non perder

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tempo chiamò a sè un mio amorevole mercante da panno, Bernardo Caprara, consignandogli il contante e gli ordini per maggiori somme; e, facendolo subito imbarcare sopra d’ un’ espressa peotta, lo spedì a Spalatro. Come fece un cor­riere a Bologna col mio piego, congratulandosi con la casa che fossi vivo, e che a loro non rimaneva altro da fare che pregare Iddio che volesse assistere l’ esecuzione di tutto che egli aveva disposto per la mia liberazione.

Con tutta sollecitudine giunsero gli ordini e i danari a Spalatro, con ordine severo di tenere secreta la mia condizione. Con tutta fede e senza perder un momento di tempo il Caprara

col Mozzati si resero a Magarsca a trovare quel Marco Bassi, perchè avvisasse il turco suo corrispondente, che era il mio padrone, che già il mio riscatto era nelle di lui mani, per con­targlielo in un certo sito sul confine, purché colà mi avesse condotto. Ed il turco, fuori di sè per 1’ allegrezza d’ avere il danaro e di liberarsi dal pericolo che fossi morto, senza indugio, in compagnia di sei turchi di lui amici, mi pose sopra di un cavallo per condurmi al prescritto luogo sul confine e colà darmi la mia libertà, ritirando il convenuto danaro.

Felicemente con allegrezza continuò il viag­gio sino sotto del castello di Duvar, che era l’ ultimo luogo della frontiera della Bosna con

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la Dalmazia veneta, che aveva per comandante un agà ; che si ostinò di non lasciarmi pas­sare, per qualunque promessa che il mio pa­drone gli facesse, ed in guisa tale che si fu obbligato di ritornare addietro, che era appunto nel giorno di S. Giuseppe. E con qual dolore mio, ognuno se lo figurerà, riflettendo fra me che tutta la mia arte di tenere occulta la mia condizione sarebbe svanita per la prontezza che aveva avuta la missione del mio danaro. Di modo che, ritornato nella mia pristina car­cere, vivevo fra timore e speranza nella mise­ricordia di Dio, mossa dall’ intercessione di Maria Vergine ; che volle conoscessi che era quella che aveva dal Figlio ottenuta la mia libertà, che riservò nel giorno del suo gran mistero dell’ incarnazione, alle 23 ore e mezza; mentre, essendo appresso del fuoco, in quel tempo mi vidi comparire un morlacco, che mi chiamò col nome di Federico e mi pigliò la mano destra, osservando se avevo nella radice del deto grosso d’ essa una cicatrice, che gli fu data per signale se veramente era io quel Federico. E trovato tutto corrispondente, esso

morlacco mi baciò in fronte, dicendomi: * Io sono qui con 150 zecchini e con un’ obbliga­zione di Marco Bassi per gli altri 150, subito che sarete giunto in Magarsca. E se voi meco vorrete azzardarvi alla fuga, riposando il giorno

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in selve e la notte camminare, spererei di con­durvi a salvamento nella vostra libertà. A voi tocca, disse, di pensare se volete in tal guisa azzardare e la vita e il danaro

Volli prima sapere la mente del mio padrone, il quale disse che era contentissimo, perchè non sapeva altro modo da potere effettuare la mia liberazione.

Io, invocando il nome di Maria, domandai dal morlacco il danaro ; dal mio padrone la carta di libertà e lo scioglimento de’ ceppi, perchè nello stesso tempo gli avrei consegnatoil contante e l’ obbligazione del Bassi. E l’ uno e l’ altro atto essendosi eseguito, i padroni mi fecero sedere appresso di loro, dandomi da cena con tutta la famiglia e preparandomi un cavallo; sopra del quale più nudo che vestito montai col solo equipaggio delle mie catene, seguitando tutta la notte la guida, che aveva in una saccoccia un poco di focaccia e del for­maggio, ed un piccolo fiaschetto d’ acquavita.

E cominciando a spuntar l’ alba, ci arre­stammo fra balzi fuori di strada sino all’ altra notte, dove ripigliammo fuori di strada bat­tuta il nostro viaggio; e venendo giorno nuo­vamente ci nascondemmo, sino a quella notte, alla metà della quale giunsi in Magarsca, con­dotto dal morlacco in una casa, dove appresso d’ un gran fuoco, sopra di brìccole di legno mi

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buttai, domandando vino e pesce, che mi fu portato.

Come allo spuntar dell’ alba, il Caprara eil Mozzati col Bassi vennero a trovarmi con un nuovo zamberlucco di panno, foderato di pelle, e biancheria, conducendomi in un con­vento di frati, per attendere il buon vento. Che in un subito cominciò, conducendomi a vele piene a Spalatro, dove tutta la città venne sul porto a felicitarmi su la mia liberazione, con gridi di viva; e nel tempo che l’ emiro turco, che abitava in quella scala di Spalatro per riscontrar le merci che dallTmpero turco passavano in questa scala e delle altre che en­travano nella Turchia, doveva uscire da’ stati della Serenissima Repubblica, che allora aveva intimata la guerra al sultano : notizia che mi atterrì, riflettendo che, se avessi tardato un sol giorno, più non sarebbe seguita la mia libertà.

Questo emiro, entrato nella Bosna, cominciò a pubblicare che io era un figlio del re di Polonia; che confermò in Serraglio al bassà, esclamando le grandi accoglienze che io aveva ricevute in Spalatro. Di modo che i poveri

miei padroni furono fatti carcerare e spogliare de’ 300 zecchini, ed anche spiantare e distrug­gere quella povera famiglia.

In Zara fui accolto da quel generale della Dalmazia, che fu un senatore di casa Donata,

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che mi provvide d’ una ben armata galeotta, che volando mi condusse a Venezia; dove l’ amore del mio redentore Pietro Civrani per più giorni sul campanile di San Marco teneva una guardia che subito l ’ avesse avvisato quando scopriva la galeotta, che si era in concerto m’ avrebbe condotto a Venezia. Ed infatti, quando giunsi al magistrato della sanità per esibire le mie

nette patenti, trovai l’ eccellentissimo Civrani su la piazzetta di quella, accompagnato dal- 1’ eccellentissimo signor Andrea Dolfini seniore, allora nel magistrato della sanità, che mi pub­blicò il libero commercio: parole che mi getta­rono al collo le braccia del mio benefattore. Che nel baciarmi, gli posi a’ piedi le mie catene, dichiarandolo mio redentore, non solo per lo danaro speditomi con tanta sollecitudine nella congiuntura d’ allora di rottura di pace, ma maggiormente perchè mi aveva con sè condotto a Costantinopoli; dal qual viaggio, avendo presa notizia de’ turchi e di quelle poche parole tur­che e de’ paesi, presi il sistema di aiutarmi nella descritta forma.

Questo cavaliere con continuati baci m’ in­trodusse nella sua gondola, portandomi nel suo palazzo, per mettermi sopra di un morbi­dissimo letto: cosa che da molto tempo non aveva io goduta. E in esso maneggiandomi senza sentirmi il peso de’ ceppi a’ piedi, non mi pa­

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reva vero ; a segno tale eh’ io non mi poteva trattenere di esagerare, che la contentezza della libertà superava tutti i dolori sofferti nella schia­vitù che avevo provato nella descritta forma.

Subito comparve l’ amoroso mio amico, dottor medico Grandi, che interessandosi con tenerezza nella mia salute, dopo d’ avermi riconosciuto, confessò che senza il grand’ aiuto delle orine sarei già o morto o ridotto incurabile idropico. E con purganti calibeati in due settimane di tempo mi rimise in salute, da potere ripigliareil mio viaggio, prima per Bologna a rivedereil tetto paterno, i fratelli, e passare alla Santa Casa ed indi alla Santissima Vergine Nunziata

di Firenze; dove lasciai appese le mie catene.E meglio consolidato di forze, ripresi il

mio cammino per Linz, a’ piedi deli’ imperator Leopoldo che, con clemenza verso di me e curiosità somma per lui, volle sentirmi più volte e massime sopra del contegno de’ turchi, venendo il di lui soccorso a Vienna.

Ripigliai i miei impieghi, avanzandomi sem­pre di grado in grado ed abilitandomi anche per servirlo nella pace e poi, nell’ esecuzion d’ essa, stabilendo così vasti limiti fra ambi gl’ imperi cesareo ed ottomano ; dove ebbi incontro di vedere in poca distanza quella mon­tagna di Rama, a’ piedi della quale ero stato

schiavo. E riconoscendo quei contorni, assistito

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da’ commissari plenipotenziari della Porta, cioè uno a Cesare, 1’ altro alla Serenissima Repub­blica, della quale era commissario l’ eccellentis­simo senatore Giovanni Grimani, ebbi campo di riconoscere che poche miglia distavo dal villaggio di Rama. Con mia somma ammirazione, mostrando non solo a’ medesimi commissari, ma a tutte le truppe, tanto cristiane che turche, che colà ero stato schiavo e domandando a quei turchi del paese, che servivano di con­voglio al commissario turco a’ veneziani, se più vivevano i due fratelli, uno Omer e l’ altro Gelillo, che erano stati i miei padroni, queste parole non tosto proferite da me si promulga­rono per tutte le truppe turche; ed interrogato se vi fosse stato chi avesse voluto andarli a chiamare, molti se ne pigliarono la cura.

Infatti tre giorni dopo, ritornando io dal campo veneto, dove con tutta la maggior pompa di truppe alemanne e croatte io aveva data una pubblica visita al Grimani, cavalcando sopra pensiero per un angusto sentiero fra rupi di rocca, si mi fecero davanti due laceri turchi a piedi, che fra loro nella lingua turchesca dicevano : “ E ? o non è lui ? „

M’ arrestai col cavallo e, nello stesso mo­mento, tanto loro si determinarono che io era quegli che fui d’ essi schiavo, come io li rico­nobbi per quelli che erano stati i miei padroni,

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che mi avevano sotto Vienna comprato dalla morte, correndo ad abbracciarmi la gamba destra e a baciare la tromba dello stivale : atto che

corrisposi col chinarmi ad abbracciarli e ba­ciarli ambi in fronte. E dipoi feci avanzare due de’ miei cavalli da mano, volendo alla testa delle mie truppe marciare con averli ai fianchi e pubblicare a quelle che questi erano stati i miei padroni all’ assedio di Vienna : notizia che gli causò meraviglia e tenerezza.

Così laceri sopra di tali ornati cavalli entra­rono meco nel campo. Ed avendo loro fatto preparare una tenda per istare appresso di me alcuni giorni, li feci trattare lautamente ; e quando mi trovava disoccupato, li facevo venire da me, per informarmi dello stato della loro famiglia, che mi rappresentarono d’ una somma miseria, per essere stati nella guerra da’ mor- lacchi, sudditi della Repubblica, rovinati ed i loro bestiami depredati. E piangenti esagerarmi, che il mio riscatto de’ 300 zecchini gli era stato mangiato dal bassà di Bosna; chè, informati che io non fossi quel pover’ uomo che avevo detto, ma anzi un figlio o congiunto del re di Polonia, non potevano nè dovevano darmi la libertà, ma consegnarmi a lui, per essere man­dato al trono del sultano in Costantinopoli. Cercarono la loro difesa con attestati, che io

mostrava di non sapere nè meno stare a cavallo

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e che mai si potevano figurare che io fossi stato un uomo di tal condizione. E che non gli parve vero di riscattarsi dalla carcere, nella quale erano stati posti, col dare al bassà li 300 zecchini; e che si dovevano consolare che quell’ emiro ritornato da Spalatro, quando fu di là sfrattato per la dichiarazione di guerra, pochi mesi dopo, in gastigo di Dio di avergli fatto tanto male, era stato strangolato; e che avevano toccato con mano che il danaro acqui­stato per riscatto degli schiavi non aveva la benedizion di Dio.

Quando questi due turchi venivano alla mia tenda, erano sempre seguitati e da turchi e da cristiani, curiosi di sentire quei discorsi che fra loro e me si facevano con la tenda alzata.

Intesa la miseria di tutta la loro famiglia, comprobatami dal vederli cosi laceri, mi risolvei di far fare in Sebenico provvisioni di panno e raso per vestire la loro famiglia, e di prepa­rargli in una borsa dugento zecchini, e di più soccorrerli con mille capi di pecore, di quelle

migliaia che poco prima io aveva fatte confi­scare a’ morlacchi ribelli, che avevano ardito d’ insultare i campi turco e veneto, e promet­tergli una lettera di raccomandazione al gran visir in Costantinopoli, perchè quello di nome Omer, più vecchio fratello dell’ altro, fosse con­solato d’ un rimarrò che rendesse trecento reali.

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Quando questi vennero a licenziarsi, dalle mie mani in una borsa di raso ebbero i dugento zecchini; dal mio cameriere la quan­tità di panno e raso che fu stimata necessaria per vestire la famiglia ; dal mio mastro di stalla i mille capi di pecore; e da uno de’ miei segre­tari la copia della lettera che in di lui favore

scrivevo al gran visir. Questa era concepita nel raccontargli il caso d’ essere stato condotto dal servizio de’ due Imperi e della Repubblica di Venezia, per mettere il triplice confine di questi tre stati, a vista del luogo, dove io era stato condotto schiavo e poi liberato per resti­tuirmi di nuovo al servizio di Cesare ed in istato appunto di potere essere un esecutore della maggior felicità de’ popoli, che era quella appunto di stabilirli nella sospirata pace, dopo d’ una così lunga e sanguinosa guerra. E riflet­tendo che Dio si era valuto dell’ opera di que­sti due poveri monsulmani che mi comprarono nell’ assedio di Vienna, io conosceva essere giusto di presentarmi a Sua Eccellenza con

questa mia preghiera per ottenergli la grazia d’ un timarro, assicurandolo che d’ una tale beneficenza ne sarei io stato a parte, in ricom­pensa delle tante fatiche che io faceva per render serviti ambi gl’ Imperi ; e che per le ulte­riori informazioni mi rapportava al mio collega Ibraim effendi, commissario della Porta.

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In una prima conferenza che fu tenuta frai commissari di tutte le potenze, consegnai la lettera al gran visir, posta dentro d’ una borsa di broccato d’ oro, perchè col corriere che partiva per Costantinopoli il giorno seguente l’ avesse il mio collega fatta passare alla Porta.

In brevissimo tempo venne dal gran visir

la risposta, che si trova fra le tante lettere turche scrittemi dai pascià dell’ impero otto­mano, dove non solo fu lodata ed approvata la mia procedura verso di questi due poveri turchi che mi avevano salvata la vita, ma di più accreditata la mia intercessione per essi, individuandomi che il sultano, in vece d’ un timarro di 300 reali, accordava un ziametto di 1000 pezze. La patente, che era in essa lettera inchiusa, fu spedita al bassà di Bosna, che pose di tal grazia in possesso il turco che mi aveva dalla morte comprato e condotto alla libertà.

Se nel tempo delle mie prosperità incontrai, per ragione della mia schiavitù, gli descrittivi accidenti, non fu minore l’ altro, che è l’ ultimo, in tempo della mia disgrazia di Cesare, che m’ inspirò il riposo e la quiete d’ animo negli amenissimi climi di Linguadoca e Provenza, occupandomi fra geniali studi; attesoché un giorno, camminando per Marsiglia, m’ incontrai in un turco di smisurata grandezza che portavail nome d’ Assan, che fu cugino de’ miei descritti

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due padroni che mi salvarono la vita e che mi diedero la descrittavi libertà; e questi, servendo nella loro casa, era incaricato ogni sera di legar le mie catene al piede ad un palo piantato in mezzo della stanza. Egli ed io ben ravvi­satici ci abbracciammo, vedendolo carico di catene come schiavo su le galere di Marsiglia. Comprato con tutta la di lui famiglia da’ cro- vatti di Segna, sudditi dell’ Imperadore, che lo

vendettero ai trafficanti di schiavi, che lo con­dussero a Genova; dove egli separatamente fu venduto agli incettatori di schiavi per la prov­vista delle galere di Francia, e la di lui moglie da altri simili trafficanti comprata e condotta alle spiaggie di Spagna, a Santa Maria, alla vista di Cadice; dove nella guerra grande gl’ inglesi espugnandola s’ impadronirono d’ un gran nu­mero di schiavi turchi, quali tutti secondo le loro massime furono sopra d’una nave condotti in Algieri dando loro piena libertà. Questi, che ogni notte m’ incatenava, in mezzo della strada, alla vista di tutto il popolo, si gettò genuflesso

a’ miei piedi, domandandomi perdono de’ fat­timi strapazzi e ragguagliandomi il modo che fu preso da crovatti tedeschi con la moglie, che per ogni nave algierina gli mandava di lei nuove. E timido che io non fossi per ven­dicarmi de’ di lui passati mali trattamenti, non sapeva trovare espressioni le più sommesse che

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avessero ammollito quello sdegno che in me supponeva; ma sentendo da me proferite le parole: che se egli ogni sera mi aveva così aspramente incatenato, io avrei fatto tutto il possibile per disincatenarlo e farlo passare in

Algieri. Scrissi questo accidente al marchese di Ponsartren, ministro della marina di Francia, che riferendo al re un così curioso incontro ne riportò subito da Sua Maestà la grazia, spe­dendomi la carta di libertà ; che giunse in tempo che vi era una nave che partiva per Algieri : e sopra d’ essa gli diedi l ’ imbarco con molte vet­tovaglie per il di lui viaggio.

Questi, giunto ad unirsi con la moglie, si presentò avanti del bassà, per pregarlo d’ aver carità a quei tanti schiavi che avevano fatti avanti Dorano ; ed in fatti, raccontando l’ in­contro avuto meco, causò del bene a quei

poveri cristiani: racconto che in una diffusa lettera mi fece e che era accompagnata dal regalo d’ un fazzoletto ricamato d’ oro, con un sacco di dattoli.

C on questi stravaganti avvenimenti termino a’ miei confratelli la relazione della mia schia­vitù, per la quale avranno compreso quanto sia stata valida ed efficace la protezione di Maria Vergine, per volermi punito nel dì del suo mi­stero della Visitazione e libero nell’ altro della

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di lei Annunziazione dell’ anno seguente, con­servandomi la vita fra così strani accidenti dentro d’ una campagna, dove la barbarie de’ turchi non credeva che vi fosse terra sufficiente al loro orgoglio e fierezza contro del sangue cristiano.

Questa miracolosa preservazione di me piac­cia alla stessa Maria Vergine, che non mi costi­tuisca reo d’ avere malamente impiegata la vita con poco servizio del di lei Figlio e meno gra­titudine verso lo stato miserabile degli schiavi, che avrei maggiormente sollevato, quando nel­l’ auge delle mie fortune non fossi stato anni­chilato dalle sventure.

Per ultimo spererò nelle vostre sante ora­zioni, che voi e i vostri successori faranno in

perpetuo nell’ anniversario della mia liberazione e massime quando sarete in quella Cappella dell’ Instituto, dalla fondazione a quel mistero consagrata, in retribuzione di quelle grazie, che avete per estenso intese, durante la mia schiavitù, e non meno per tutti i miei commessi

errori nel corso di così strana vita e forse d’ aver mal’ impiegato il tempo lasciatomi dalla misericordia di Dio, non conoscendo nell’uomo

colpa maggiore che quella di non averlo impie­gato come da me forse voleva avendomi così

specialmente preservato.V i prego pure nelle vostre orazioni di met­

tervi a’ piedi di Dio, perchè accordi a tutti gli

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schiavi la costanza nella religion cattolica, che a me donò per di lui misericordia fra quei strapazzi e battiture che praticano i turchi per far prevaricare gli schiavi; ed a qual grado arrivassero quelli che da me sofferti furono in questa vita, all’ altra saranno noti, per sempre comprovare quanto sia stata grande la prote­zione di Maria Vergine per me a mantenermi in quella religione, nella quale unicamente vi è da sperar la salute eterna.

E vi abbraccio tutti con pienezza di cristiana cordialità e consolazione.

Bollo impresso nella rilegatura dei libri del Marsigli

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L ’ isola, dove il Marsigli cadde prigioniero dei tartari il 2 luglio 1683.

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E S T R A T T O

D A L L ’ A U T O B IO G R A F IA D EL M ARSIGLI

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Giu n t o al fiume Rab, dove i comitati te- neano la loro dieta sotto il presidio del

Draskovig, potei dar mano all’ esecuzione del- l’ incaricatomi, facendo alzar forti contra d’ altri eguali, attraversati con palizzate piene di stec­che, facendo ancora precipitose le ripe e ta­gliando più selve alle sponde, con formar di que’ rami un impenetrabile steccato.

Nulla mancava intorno a tutto quello che riguardava 1’ opera ed il travaglio, perchè più di 12 mila guastadori erano pronti nel fiume. Ma quando dicevo ch’ era tempo d’ animar questi corpi con munizioni e con gente d’ arme, mai ne vedevo 1’ effetto ; anzi sentivo dirmi eh’ era im­possibile di poter contribuire tanta gente, esa­gerandomi che il conte Budiani, generale de’ con­fini di Kanissa, non secondava esso Draskovig, per odio eh’ avea alla sua persona. Ma poi al contrario vedevo che la corrispondenza delle lettere e de’ messi era fra di loro continua;

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ed un giorno, essendo il medesimo Draskovig in una sedia volante meco e riscaldatosi nel discorso, uscì ad esagerarmi li torti eh’ avea riceuti dalla Corte per il bene d’ Ungaris Oltenberg, confiscatoli per la sola reità d’ aver tenuto il cavallo del conte Nadasti, suo cognato, quando in un bosco ebbe una conferenza con l’ inviato di Francia. Di modo che, aggiugnendoio agli andamenti sul fiume Rab l’ animo suo corrotto, scoprii che quanto egli mostrava in

apparenza era tutto simulazione. Però ne scrissi al Duca di Lorena, e cui formai di quell’ opera un cattivo pronostico.

Il Duca, trovata impossibile 1’ espugnazione di Strigonia, mi avvisò la sua improvvisa riso­luzione di passare a quella di Neilhausel, co­mandandomi che, se le disposizioni delle difese sul fiume Rab fossero finite, là mi portassi ; e mi ordinò strettamente a dissimulare quello che con molta accortezza avevo conosciuto.

Io senza dimora obbedii e colle poste mi trovai nel campo un giorno avanti che comin­ciasse la trincea di Neilhausel; dove Sua Altezza volle sentire il mio debole parere sopra più cose. E perchè appena cominciato finì per or­dine della Corte, e nella ritirata vacò una compagnia di fanteria nel reggimento di Tin-

tibal, per opera del generai Rabatta mi fu dal colonnello conferita; e nell’ istesso momento fui

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d a l l ’ « a u t o b io g r a f ia » 99

dal Duca rispedito al fiume Rab, acciocché sempre più facessi migliorar le difese e met­terle in istato tale che lui con l’ armata capi­tale se ne fusse potuto servire; giacché avea ordine preciso di ritirarsi a quel fiume, per far ivi testa al nemico, che con quella formida­bile nota potenza a gran passi si avanzava.

Ritornato sul Rab, ritrovai il conte Draskovig partito per Vienna e tutta quella difesa, tanto importante, appoggiata solo a pochi subalterni capitani ungati; e considerando che il maggior pericolo era verso l’ isola del Rabachos, colà mi portai e feci alzarvi terreno, preparando bat­terie e disponendo, per ogni bisogno, la demo­lizione di vari ponti e preparandone altri sopra le paludi di Asvagn, per la comunicazione con Giavarino, dove il Duca m’ avea confidato di volersi porre coll’ armata.

Tutte le mie operazioni andavano in appa­renza con vigore; ma in sostanza nel trovare ordine ed efficacia per la difesa si andava molto lentamente. Precorsero lettere del Tekely, che minacciavano chiunque non si fusse unito con lui a’ danni de’ tedeschi. Io di tutto davo parte al Duca ed a’ sudditi stessi, tutti ribelli nel cuore. Sua Altezza, che volea prendere le sue misure, mi mandò un aiutante con più

dragoni del reggimento del Cavalier di Savoia, acciocché restassero appresso di me, e mi assi­

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IOO LA SCHIAVITÙ T)EL MARSIGLI

curò nell’ istesso tempo di presto soccorso e di mandarmi il necessario per la fortificazione di Asvagn.

Ma non sì tosto da me partissi l ’ aiutante, che, seguita la vigilia di San Pietro, si comin­ciarono a vedere le fiamme verso Papa, por­tatevi da’ tartari ; onde gli abitatori di Rabachos, tutti confusi allor che speravano la lor salute nel cedere agli inviti del ribelle, fingevano meco desiderio di difesa. E nel giorno di San Pietro, un gran squadrone di tartari attaccando il ponte di Budel, per necessità del proprio bisogno gli

ungari mi secondarono con molto valore, ribut­tando i nemici con nostro sommo vantaggio. Ne’ giorni seguenti, fra 1’ armata ed il luogo dov’ io stavo, non sentivasi lungo il fiume fuoco di cannone nè di moschetto.

Nel primo di luglio entrò al Rabachos, alle rimostrazioni eh’ io facevo del pericolo del- l ’ isola, il conte Adamo Budiani, figlio del vec­chio podagroso, entrò dentro con alcune truppe, e si posero cannoni in più siti. La notte pre­cedente alli 2 del mese si tenne una confe­renza, distribuendo ad ognuno i posti, giacché inevitabile vedevasi nel seguente giorno un gran cimento. A me toccò, con i dragoni sud­detti e con alcuni bravi ungari del generale di Giavarino, la difesa della palude di A svagn;

la quale i turchi ed i tartari cercavano di gua­

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d a l l ’« AUTOBIOGRAFIA » IOI

dagnare per tagliar la nostra comunicazione con l’ armata.

Fra selve e paludi, e fra qualche tagliata di legnami, con ferma risoluzione di difenderci, quattro assalti dal mio posto furono rispinti, con figurarmi egual sorte negli altri posti, giacché non erano seguiti li concertati segni de’ sbari in caso di sinistro evento.

Glorioso intanto del mio buon successo

credevo d’ uscire de’ stenti de’ fanghi al riposo del buon terreno, mentre solo tre ore manca­vano alla notte. Ma giunto ad un gran prato, si videro e turchi e tartari ed ungari abitanti dell’ isola, mischiati insieme senza verun segno

di ostilità; il che meglio conosciutosi da quella brava milizia ungara che meco era, si separò da me e si unì con l’ altra, fatta ribelle. Di modo

che restando io solo con sessanta dragoni, ab­bandonato e d’ aiuto e di viveri, e cinto da paludi e da nemici e da sudditi fatti ribelli, mi convenne mettermi fra le braccia d’ un riso­luto tentativo, cioè di guadagnare un luogo fra le selve e boschi, detto Caposvar.

Ma la moltitudine de’ tartari, per le buone guide che avea, in tre passi mi attese ; e li due primi superando con la morte de’ miei, nel terzo mi convenne soccombere, dopo d’ es­sermi difeso con quella poca gente restatami, insino a perderla tutta. E conoscendo inevita­

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102 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

bile la mia perdita, Iddio mi diede tanto lume che gettai nell’ acqua alcune lettere di proprio pugno del Duca di Lorena. Uccisomi dopo il cavallo sotto, con due ferite di freccia fui neces­sitato a cadere in terra, la quale ormai consi­deravo come sepolcro. In questo mentre un tartaro, mosso dalla Provvidenza di Dio che volle aiutarmi, trattenne il colpo d’ un altro che mi volea decapitare, come a quel misero resto della mia gente fu fatto. Spogliatomi

poi nudo, con la riserva delle calzette bianche, mi diedero i tartari una veste all’ uso loro, piena di pidocchi, e non mi fecero altra lega­tura alle ferite, che quella d’ una crudel fune di pelle. E per lungo tempo strascinandomi a piedi, più desideravo la morte che la vita.

La notte, per stagnarmi il sangue mi fecero un empiastro di sterco di bove, di fiori di pietra cotta e sale. Dopo mi condussero con loro per tre giorni sopra d’ un cavallo tartaro senza sella, e sempre legato, senz’ altro cibo che di carne di cavallo. E fui spettatore della loro barbarie che non lasciò intatti nè anche i templi di Dio. Ma in ciò non mi stendo, per non fare

inorridire la mia memoria e chiunque leggerà.Altri tartari, di quelli che mi aveano preso,

mi condussero nel gran campo ottomano, che

stava di là dal fiume Rab, sotto Giavarino, gridando chi volesse comprarmi. Mi occorse di

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DALL’ (( AUTOBIOGRAFIA » 103

essere condotto al campo di Michele Abaffi, principe di Transilvania, dove li di lui segre­tarii stavano consultando se mi doveano com­prare. A quali chiedendo io il sollievo d’ un poco di pane, me lo diedero, e mi domanda­rono se il valore tedesco era perduto e perchè

l ’ armata cesarea s’ era ritirata dall’ incontrare un esercito ottomano, eh’ appariva più di quello ch’ era. A questi, come a ciascun altro, occul­tando la mia condizione, fui con dispregio tirato da’ tartari fuor della tenda e condotto in altre vicine, eh’ erano d’ Ahmet pascià di Temeswar, stato precedentemente tefterdar della Porta otto­mana, di nazione bulgaro ed uomo di molta prudenza, amico de’ franchi; e per questo am­biva d’ aver anche tutta la sua corte formata di schiavi di tal nazione. Fra’ quali essendo

due francesi, cercarono che di me facesse com­pra; che seguì per il prezzo di 17 talleri.

Liberato da sì barbare mani, come quelle de’ tartari, fui consegnato ad un ebreo chirurgo, e nutrito con cibi turchi, e ristorato in parte

da quella gran debolezza in cui ero caduto.Il pascià mi chiamò a sè e mi domandò

chi ero. Dissi : servidore d’ un mercante di Venezia, che, sulla strada per andare a Sopro- nio, da’ tartari ero stato preso. Li dissi d’ essere stato a Costantinopoli servitore del bailo Civrani e che avrei cercato quel riscatto che fosse stato

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104 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

possibile alla mia miserabile condizione. Mi domandò se sapevo dove fusse l’ armata tedesca. Risposi che, prima di essere fatto schiavo, per strada avevo inteso che fusse a Giavarino. Volle anche sapere da me se credevo che i tedeschi si sarebbero difesi in Vienna. Li ri­sposi che la di lui prudenza potea meglio giu­dicarlo, come più di me informato dello stato militare di quella piazza. Mi domandò s’ ero mai stato a Vienna. Dissi di sì, con mercanzie. Mi ricercò s’ era vero che il fosso si ritrovasse così profondo, e glielo confermai. Scuotendo

egli la testa, passò ad altro discorso e mi do­mandò se pensavo a fuggire. Io gli dissi di nò, per la speranza che m’ avrebbe aiutato a

liberarmi. Mi donò due ungari d’ oro e mi ri­mandò appresso i suoi servidori.

Il giorno seguente sopra due ponti sulli fiumi Rab e Rabniz si pose 1’ armata del sul­tano, guidata dall’ orgoglio di Carà Mustafà, primo vesiro, in piena marcia verso Vienna, contra il parere del suddetto pascià, mio pa­drone, e dell’ altro tanto accreditato Ibrahim di Buda; che voleano o l’ assedio di Giavarino o quello di Leopoldstat, con la desolazione della Moravia per le scorrerie de’ tartari, e la totale

sommessione dell’ Ungaria inferiore per opera de’ ribelli, e susseguentemente nell’ inverno prossimo formare la bloccata a Gomorra.

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DALL’« AUTOBIOGRAFIA )' 105

In quelle pianure di Ungaris Oltenburg 1’ ampiezza dell’ esercito ottomano, la quantità

del cannone e del bagaglio facea un’ appa­renza che minacciava l’ espugnazione di tutta la cristianità, non che di Vienna. Li campi in figura rotonda, con sì sontuose tende, pare­vano tante mobili città. Nell’ ultimo campo, prima di giugnere sotto Vienna si fecero gli apparati d’ ornamenti, di lancie, di bandiere e d’ aste e musiche militari; immaginando di causare a’ difensori uno spavento all’ apparenza maggiore di quel che potea dar l’ essere del loro esercito.

Investirono la piazza e nel medesimo tempo l’ assediarono, scegliendosi l’attacco in sito che non era il più debole, ma bensì il più comodo per le mine; col mezzo delle quali speravano la espugnazione della piazza medesima.

Il campo del mio pascià era in faccia della porta del Schotten.

L e mie ferite già cominciavano a saldarsi, e per questo anche a varii impieghi mi desti­navano, ora alla stalla ed ora a pulire le tende. Fui dato in fine per servidore ad un creden­ziere che tenea pubblica bottega di caffè, in cui dovevo abbruciarlo, cuocerlo e distribuirlo a’ compratori.

Fra molti turchi che solevano venire a be- vere ogni mattina, erano due, detto Bastelli

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106 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

l’ uno e l’ altro Omer-spelli, nativi di Bosnia; che m’ aveano preso qualche affetto, perchè con quelle poche parole che avevo imparate

mi sentivano parlar della Bosnia, dov’ ero stato ritornando da Costantinopoli l’ anno 1680.

Dovetti per cinque giorni portarmi a lavo­rare con altri schiavi sul principio del formar le trincee, e servire or da lavoratore ed ora da facchino, portando legni e gabbioni ed altre

simili materie. Così ebbi allora campo di vedere il lor modo nel disporre le trincee, tanto pro­fonde eh’ ugualmente ad essi ed a’ nemici sono d’ intrigo. Ebbi insieme anche l’ occasione d’ os­servare il poco effetto delle loro batterie. Nelle mie miserie mi consolavo in veder fra di loro notabile confusione e, per mancanza d’ ordine, difficoltà di potere, in quei laberinti d’ approcci, avanzar gli assalti.

In questo mentre si era fatto pubblico editto, di dover decapitare tutti li schiavi eh’ ec- cedeano l’ età di 15 o di 16 anni; e perchè ciò mi diede molto da temere, mi obbligò altresì a

tentar la fuga, con speranza di poter meco portare alla città notizie utili a tutta la cristia­nità. Trovato il modo di sferrarmi quelle catene che la notte mi ponevano, dopo d’ essermi raccomandato a Dio, fra il sonno de’ turchi che stavano di guardia nella mia tenda, felice­mente mi diedi allo scampo. Ma, giunto alla

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spranata della città, invece di trovarmi al porto, mi vidi nuovamente in naufragio; mentre da alcuni turchi, eh’ erano ivi sentinelle morte (stando sulla terra bocconi), ripreso e battuto mi convenne confessare di chi ero schiavo. Per il che fui da’ medesimi ricondotto al campo del mio pascià ed indi all’ affumicata tenda del caffè; dove fui da due arabi basto­nato in quel modo che può ogniuno imma­ginarsi. E poche ore dopo intesi la sentenza

della mia morte, da eseguirsi nel giorno se­guente che, giusta il mio conto, poteva essere il secondo d’ agosto, consecrato alla festività della Porziuncula.

Soffrii l’ intimazione di quest’ orribile colpo con quella costanza che conveniva alla vita miserabile che vivevo, la quale altro non era

eh’ una morte continua. Mi travagliava sola­mente l’ animo il pensare che dovevo morire senza speranza eh’ avesse potuto mai saperne la mia casa o il come o il quando.

Tutto ciò non ostante, feci puntualmente tutto il giorno gli esercizi di mia obbligazione nella bottega del caffè; e, fisso colla mente al debito di cattolico, non lasciai tutti quegli atti di spirito eh’ apperteneano alla mia coscienza ed all’ anima mia, con quel pentimento de’ miei peccati e con quel desiderio de’ Sacramenti, di cui mi volle Dio graziare.

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108 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

Nella notte seguente, caricato più di mai di catene, vigilai aspettando il fine della mia vita; e, fattosi giorno, capitarono secondo il solito li due bosnesi turchi a bevere il caffè. Questi, come era di lor costume volendo meco burlare, mi trovarono tutto pensieroso e turbato; e ricercandomene la causa, li mostrai il carro col carnefice, che avanti la tenda presentavasi per ricevermi con altri miseri schiavi, che sopra di esso trasportavansi vicino al lazzaretto, sulla sponda del Danubio: campo della decol­lazione di tanti poveri innocenti. Tralasciando, ciò inteso, i suddetti turchi di bevere il caffè, si portarono immediatamente al chiaia del pascià

e lo supplicarono della mia vita, offrendosi di comprarmi, come fecero, per il prezzo di 24 talleri, che senza indugio sborsarono, levan­domi davanti 1’ orribile aspetto del carro e del carnefice.

Mi condussero poi alla loro tenda, in cui trovai di più il fratello deU’ Omer-spei, di nome Gerillo, il quale da quel punto insino all’ altro della mia libertà ebbe sempre rigorosa cura di me. Tutti assieme costoro mi obbligarono due

giorni dopo a prometterli il certo riscatto di cento zecchini, con la sicurezza che Filippo Bernacovitz, mercante dimorante in Bosna Serai, gli avrebbe pagati ; mentre, in tempo eh’ avevo

a’ medesimi venduto il caffè, più volte gli

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avevo detto di conoscere questo mercatante, il quale nell’ anno 1680, ritornando io da Costan­tinopoli a Venezia, mi pagò 200 talleri, per una lettera di Pietro Civrani, bailo alla Porta. Nè m’ ingannai nella speranza presa su tal uomo, perchè, essendo egli di molto credito appresso turchi, fu una delle maggiori cause che con­corsero prima a liberarmi dalla morte e poi dalla schiavitudine.

Questi nuovi miei padroni non mi stra­pazzavano con le fatighe nel campo sotto Vienna, e mi cibavano con i loro avanzi di carne e di frumento pilato, e mi permetteano di bevere quanto vino giornalmente volevo; giacché li carrettieri di tutta l’ armata, de’ quali era la maggior parte raziana, in abbondanza

ne portavano dalle ricche cantine de’ borghi di Vienna.

Avendo voluto poco dopo il vesir dare un for­midabile assalto alla piazza (per il quale nelle tende del campo nè anche i cuochi erano restati : portatisi tutti armati alla sua presenza), l’Ahmet, pascià di Temiswar, eh’ era stato mio padrone, arditamente li disse che non intendea ciò che intraprendeva e s’ inoltrò alla correzione con

quella rabbia che gli inspirava non meno il zelo ch’ avea del buon servigio del suo monarca, che la passione che pativa per un’ impresa alla quale era stato sempre contrario. Il vesir,

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n o LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

fra parole di palliata confidenza, l ’ obbligò a bevere del caffè avvelenato. Fatto il pascià ritorno al suo padiglione, fu sorpreso la notte seguente da tali dolori che non ebbero altro medico che un ebreo. Il quale, dal vesir mede­simo corrotto e mandatoli, servì solo ad affret­tarli la morte ; che successe nel seguente giorno, con notabil’ enfiagione del cadavero, che fu sepolto sotto due gran noci sulla strada di Herlnoltz.

Si avanzava intanto la stagione, mancavano le forze de’ turchi, crescevano fra di loro le mormorazioni e le discordie, venivano meno i viveri d’ ogni sorta. Ed il maggior rimedio di questo disordine erano li tartari che, con l’ aiuto di quelli schiavi ricomprati a vilissimo prezzo

da’ turchi e dalla morte (per tema che la decol­lazione di tanti innocenti avrebbe cagionata qualche gran ruina all’ esercito, come poi nella rotta gli avvenne), raccoglievano per le cam­pagne quel poco di grano che trovar si potea.

L ’ esercito perciò poco buon fine general­mente sperava dall’ assedio. Stanco nelle fa- tighe, abbattuto dalle malattie e ferite, dimi­nuito per le morti, e resa inabile la cavalleria dell’ Asia per le fredde notti che sopravveni­vano, tutto stava in pericolo di minarsi. Aggiu- gnevasi a ciò che il gran vesiro, quanto più volea col rigore, anzi con la tirannia, mante­

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DALL’« AUTOBIOGRAFIA » III

nersi in credito, altrettanto cadeva di concetto; di cui cadde affatto allor che rifiutò l’ esibizioni, che li fecero li giannizzeri, gli ufficiali ed i pascià dell’ armata, di volersi cimentare ad un

assalto generale con tutte le loro forze. Perchè con questo rifiuto avendo penetrato l’ esercito ch’ egli pretendea di prendere a patti e non a forza la piazza, per appropriarsi tutte le ric­chezze che vi erano e per saziare così la sua avarizia, lo prese in tant’ odio ed orrore, che10 facea giornalmente autore di tutti quelli disor­dini che di continuo succedeano, per non avere permesso l’ assalto suddetto.

In ultimo il medesimo gran vesir fu obbli­gato a rinvigorirsi con tutte le truppe ch’ avea lasciate a Giavarino sotto il comando d’ Ibrahim, pascià di Buda, in pena di essersi opposto con suoi consigli all’ impresa di Vienna. Ma il tiranno ebbe principalmente l’ intenzione d’ averlo com­pagno nella disgrazia, sul dubbio del buon fine dell’ assedio. Giunto al campo, Ibrahim prono­sticò da sperimentato capitano l’ esito infelice dell’ esercito, poiché lo vide così mal accam­pato ed indebolito, senz’ ordine e senza dispo­sizione, in un tempo che sentivasi vicina l’ unione del re di Polonia all’ armata di Cesare; benché11 gran vesir tenesse ciò occulto, sino a tanto che fu obbligato a palesarlo per i lamenti di tutti che vedeano perire li propri cavalli per

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112 LA SCHIAVITÙ DEI. MARSIGLI

difetto di foraggio, mentre l’ andar facendone

provvisione gli era proibito ; come altresì era vietato il raccogliere l’ uva, nella quale, com­piacendosi molto li turchi, ne patirono poi li medesimi quella gran dissenteria che regnò.

Nel terzo giorno prima della rotta fatale, co­minciò a spedire verso San Beld, con alcuni scelti turchi e tartari, Carà Mehemet pascià, sua fedele creatura, ch’ era stato quello appunto ch’ avea condotti li tartari all’ invasione dell’Austria. Nel secondo giorno distaccò maggior numero di mi­lizia verso li monti. Ma tutto era senz’ ordine, senza coraggio e speranza d’ alcuno buon fine. Nel terzo, in cui successe la rotta, uscì del suo

campo il vesir con tutto lo sforzo della caval­leria e passò vicino alla tenda dov’ io stavo nascosto spettatore delle operazioni di quella moltitudine di gente, ch’ era tutta dubbiosa ed irresoluta in tutto ciò che designava di fare, o

coll’ avanzarsi o col fermarsi. Gerillo, fratello deH’ Omer mio padrone, venne alla tenda e coll’ aiuto mio pose il meglio della sua roba in due saccoccie. Si preparò un poco di pilào, del quale, cibatisi più turchi, tutti tremanti, fu a me dato il resto; che lo mangiai dietro di un monticello di fieno, con l’ occhio sempre fisso alla montagna detta Kalemberg, dove fiammeg­giando il fuoco de’ nostri vidi in un momento tutto l’ esercito che sembrava un campo d’ ariste,

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che agitate dal vento par che vadano con le loro spighe contra il medesimo.

Li turchi, senza che li nostri facessero gran fuoco, voltarono le bianche loro teste, tutti muti, verso il proprio campo; ed ivi neanche poterono eseguire l’ intenzione, che forse aveano, di correre alle tende per salvare quel ch’ era possibile delle loro sostanze. Poiché, arrivativi appena, non seppersi risolvere a trattenersi un momento ; anzi prendendo qualcuno alcun cam­mello o mulo carico per condurlo esso seco, quanto a lui serviva di remora, tanto agli altri fuggitivi d’ intrigo e d’ ostacolo, perchè, giu- gnendo questi animali alle fosse, cadendo chiu­devano li passi : spettacolo che facea conoscere la giustizia di Dio, e che io rimiravo legato nel braccio sinistro con una fune tenuta da Gerillo a cavallo, che colla nuda scimitarra in mano, correndo seco a piedi nudi, mi strascinava. Posto

così io in necessità di seguirlo con la morte avanti agli occhi, cominciai subito a sentire i tormenti delle piaghe che mi faceano li bronchi ed i sarmenti de’ vigneti, per i quali era forza camminare; onde prevedendo che o di ferro (e tanto più che molti turchi compagni esorta­vano il Gerillo ad uccidermi) o di dolore avrei douto morire, mi preparai a render a Dio l’ anima, con una cordiale benedizione che diedi

all’ esercito cristiano.

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i i 4 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

Venute le tenebre della notte, benché molto chiara risplendesse la luna, cessò nulla di meno

il timore a Gerillo; il quale commiserando infine il mio povero stato e vedendo vagabondo un cavallo, sopra di esso, stanco per la debolezza, senza sella mi pose. E posso dire che seguitò

a strascinarmi tutta quella notte e tutto il giorno che sopravvenne, in cui (senza un momento di riposo, dal punto che l’ esercito ottomano comin­ciò a fuggire) si rese fra Giavarino ed Ungaris Oltenburg: marcia di 15 leghe, fatta in meno d’ ore 18, come contai.

In questa fuga, tanto a me tormentosa per i spasimi che soffrivo, altra consolazione non mi diede Iddio, se non di farmi vedere abbat­tuto l’ orgoglio del gran vesir Carà Mustafà, che marciava con la testa e con le braccia cadenti, e colla faccia da un fazzoletto cinta, quasi la volesse coprire per vergogna alla vista di quell’ esercito che di continuo lo malediceva.

Nel suddetto campo, che fu il termine della prima frettolosa marcia, furono rinfrescati, con l ’ erba eh’ ivi trovossi, piuttosto gli animali che gli uomini; li quali già trovavansi privi di provvisione e di tende. Il mio padrone, eh’ altro non avea seco se non tre o quattro pezzi di biscotto ed una mezza candela, pose quelli a mollo nell’ acqua e questa a struggere in una padella da un vicino imprestatali ; e tal vivanda,

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DALL’« AUTOBIOGRAFIA » ” 5

la più dilicata che potesse allora trovarsi, sod­disfece non men la sua, che la mia fame.

A l nascere della luna, col medesimo splen­dore della precedente notte, lo sconfitto esercito continuò la sua fuga, passando sopra i ponti di Rabniza e Rab, ne’ quali sa Iddio il pericolo, che passai, di perdermi fra le bastonate, fra le zampe de’ cavalli di soma e fra la precipitosa fuga di tutti, che sembravano dar l’ assalto a que’ ponti; giacché credeano che nel termine di quel passaggio si trovasse la loro salvezza. Ed in effetto assai maturamente il campo si era di là dal Rab, molto da Giavarino distante, collocato. Ed in esso altro non vedeansi che piccole tende appresso il quartiere del gran vesiro ; eh’ ivi per due giorni riposandosi volle

far reo dell’ infelicità di tutto il sinistro successo l ’ Ibrahim, pascià di Buda, suo emulo, che alla sua presenza lo fece strangolare; non senza

gran pericolo della sua vita, per il dispiacere che ne mostrò l’ esercito con susurri e mor­morazioni.

In questo riposo mi fu solamente di sollievo il seguitar li due fratelli miei padroni, che andarono alle vigne di Martinsberg a racco­gliere uve squisitissime, le quali a caro prezzo venderono poi nel campo affamato. Il che gli

animò a secondar nel giorno seguente la mer­canzia, ma non senza pericolo della loro vita

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i i 6 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

e della mia ; perchè, fattosi un strepitoso allarmi da’ turchi (a causa che l’ esercito cri­stiano era giunto a Rab), la maggior parte di essi preparatasi alla fuga, il gran vesir ordinò a gente sceltissima, che tagliasse a pezzi tutti li schiavi, col guadagno delle loro

spoglie ; onde alcuni vennero sopra di noi con le scimitarre nude, per eseguir anche l’ or­dine contra la mia persona. Ma l’ Omer-spei seppe tanto efficacemente raccomandarsi, che il danno si ridusse solamente alla perdita del suo miglior cavallo : disgrazia che cadde ancora sovra di me, mentre, se il mio padrone dovea marciare a piede, come dovevo viaggiar io, eh’ ero suo schiavo ?

11 terzo giorno si fece la marcia verso Buda; e camminando io a piedi nudi per una gran pianura, priva d’ ogni sorta di acqua, soffrii sete così ardente, che mi rese odiosa l’ istessa vita. Guadagnatasi al fine la gran selva eh’ è fra Strigonia e Buda, si accompagnarono li miei padroni con alcuni turchi loro amici e con questi discorrendo allentarono un poco la marcia e restarono alquanto addietro, con lo motivo preciso di non farmi morir di strapazzo in

un precipitoso cammino.In Buda, e propriamente nella città bassa,

ricevessimo quartiere in casa d’ un cristiano, amico del mio padrone; che in quel tempo

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facendo le vendemmie, continuamente mi da­vano le sue donne uva da mangiare e mosto

da bere. Ivi ancora nel medesimo tempo cele­brarono i turchi il loro Bairamo, o sia Pasqua, con lo sbaro de’ cannoni della piazza.

Passata questa festività, si accompagnarono li miei padroni con alcuni altri turchi e, pagato qualche danaio per il viglietto di passo, pre­sero la strada di ritorno verso le loro case nella Bosnia. Usciti della città, dopo il viag­gio di un giorno ci accampassimo sotto quattro noci; ed in quel sito ebbi comodità di osser­vare il campo di Buda e la di lei situazione, formandone con foglie di erba sulla carta alcuni segni, con intenzione di dame notizia per l’ assedio della medesima, come in effetto sùbito che fui liberato la diedi al Duca di Lorena in una relazione, giunta con un’ altra del ponte di Oessek, avendomi sempre conservata questa carta, in piccolo busto di tela, insino che libe­rato giunsi a Venezia.

Dal suddetto luogo passassimo al campo del gran vesir, nella pianura di là dalla mon­tagna di San Gherardo, e propriamente alla sponda del Danubio. Questo nostro passaggio

fu nel tempo istesso che da Baracano erano state ivi mandate due barche di teste cristiane, le quali diedero grande allegrezza; la quale però cangiossi ben tosto in pianto, per la nuova

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n 8 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

della sconfitta dell’ esercito ivi spedito e della perdita del medesimo, per la qualità, se non per la quantità della gente, più sensibile a’ turchi della rotta sotto Vienna.

Il Kam de’ tartari, con alcuni suoi pochi più scelti ufficiali, distaccatosi dal gran vesir, si pose in marcia con noi verso Oessek per la strada regia, eh’ era molto ben fornita di ponti, osterie e d’ ogni altra cosa necessaria.

Col viaggio di molte fatigose giornate giu- gnessimo a Darda, villaggio che stava nel principio del famoso ponte di Oessek; il quale, col beneficio della dimora di un giorno alla

metà della allora asciutta palude, osservai e ne feci disegno con sugo d’ erba nella carta suddetta, come dopo la mia liberazione da Venezia ne diedi conto al Duca di Lorena.

Il ponte, eh’ era fatto sulla palude di travi ed agucchie di legno, si passò felicemente ; ma giunti al corso del Dravo, che era attraversato da un altro ponte,- fatto di barche, non avessimo ugual fortuna, mentre li miei padroni al par di me furono rispinti, con una furia di bastonate, dalle guardie che stavano all’ imboccatura di que’ navigli. Onde li convenne desistere dal tentativo di passare e, lungo il fiume Dravo, fra le asciutte paludi ascendere per più ore, insin’ a tanto che potessimo arrivare ad un

certo villaggietto, passando con una piccola

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barca il Dravo, giacché privi d’ ogni compagnia

eravamo restati noi tre soli.Fatto questo passaggio, fui preso da una

indicevole tristezza d’ animo, per la dissenteria

che mi cominciò, senza lasciarmi per tutto il resto dell’ autunno e per tutto l’ inverno che sopravvenne: infermità così grave, che mi ri­dusse quasi all’ ultimo della mia vita.

Attraversassimo la Schiavonia, alloggiando ogni sera in villaggi de’ cristiani, che non mancarono di darci in cibo galline, ovi, frutta, ed a me particolarmente pane.

Passassimo il Savo a Babinacreta e lungo il fiume Bosna entrassimo nel regno della Bosnia, pigliando la strada del Seraglio, sua città capi­tale, per effettuar ivi la mia liberazione, secondo sotto Vienna me n’ ero obbligato. Ma l’ infermità mi cresceva, le forze mi mancavano ed il mio

padrone non volea permettermi altro rimedio che il mangiar frutta, le quali si trovavano in abbondanza e squisite.

A l veder da lontano la suddetta città di Serraglio mi oggettava in prospettiva la pros­sima fortuna, eh’ io speravo, della mia libe­razione. Ivi subito giunti, li due fratelli miei padroni mi obbligorono a scrivere a Filippo Bernacovitz un viglietto, il quale conteneva: eh’ era in quella città capitato schiavo quello

istesso al quale nell’ anno 1680, nel mese di

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120 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

settembre, aveva egli pagato una polizza di duecento talleri per il bailo Civrani e che, avendo accordato il riscatto per cento zec­chini da pagarsi da lui, non dubitavo ch’ a­vrebbe fatta questa carità, con sicurezza del rimborso dal Civrani medesimo o da me. Fu portato il viglietto da Omer al mercante, il quale dopo lettolo disse di non conoscere tale

schiavo che li scriveva e che nulla di lui sapea, e che perciò non averebbe un soldo pagato; ondechè poteva farne quello che li pareva.

Ritornato l ’ Omer a casa, invece di sentirio la bramata nuova della mia libertà, mi vidi

minacciato di bastonate e come bugiardo rimpro­verato. Qui s’ accrebbe all’ indicevole la miseria del mio stato; e perchè la mia complessione si era tanto indebolita e li disagi mi avevano reso tanto sparuto, che ero incapace a poter esser da altri comperato, risolsero li miei pa­droni di strascinarmi, come fecero, alla loro casa, con un viaggio di tre giorni, e propria­mente al paese di Ramma; eh’ è una valle fra monti alpestri, per cui corre il fiume del suo nome. Erano ivi più case di turchi e di cristiani, disperse in qua ed in là, con un convento de’ padri francescani della stretta osservanza.

Questa casa de’ miei padroni era un tugurio, fatto di legno e tutto affumicato; ed ivi abita­

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vano ancora due altri loro fratelli, ciascuno de’ quali avea moglie con molti figliuoli, e

tutti miserabili di vestito e poveri di vitto, ch’ era solamente di focaccie di farina o di miglio o di avena. Per companatico altro non si ebbe in tutto quell’ inverno, che un piccolo bue, ammazzato nel nostro arrivo e posto tra il fumo d’ un camino, per farne cibo di più mesi, mischiato con cavoli. La maggior delizia però del gusto consistea nelle prugne, nelle poma e nelle persiche, che bollite nell’ acqua facevano una vivanda chiamata in turco o z a f f .

Fu a me assegnato per camera un piccolo buco di un camerino, con una angustissima fenestrella, e dalla madre de’ miei padroni, già vecchia decrepita ma molto caritativa, mi fu dato un sacco di fieno ed un capezzale ripieno

anche di fieno, che, posto sopra una pietra, mi serviva di guanciale.

In questo mentre avanzossi la mia malattia all’ ultimo grado della disperazione, ed in essa non ebbi altro conforto, se non che la permes- sione, che dopo molte supplichevoli istanze mi diedero, di farmi venire il superiore de’ padri francescani; a cui confessandomi rivelai la mia condizione, ch’ egli creder non volea. Del resto medicamenti non vi erano ed il ristoro del cibo era di un ovo.

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122 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

Non tralasciavo però di raccomandarmi sem­pre per la vita e per la morte alla Beatissima Vergine, nel di cui aiuto unicamente speravo. L a durezza del letto, dove giacevo, mi aveva piagati li ginocchi; se pure non furono piaghe

della crisi della natura che, cominciando a gua­dagnare sopra il male, passò nella terribile crisi delle urine; per le quali principiando a respirare un poco, fui condennato a stare ogni notte sotto il grave peso d’ una catena fer­mata in un chiodo fitto nel mezzo del came­rino. L ’ appetito intanto facevasi canino, il ventre si gonfiava, le forze non ritornavano, il freddo era orrido, li pidocchi mi divora­vano ; ed il mio vestito consisteva in una pelle d’ agnello, che mi era busto, ed in un paio di braghe di tela vecchia, privo affatto di stivali e di scarpe, in di cui vece avevo un solo paio di scarpini di lana : miseria eh’ al­trettanto rendevami tediosa la vita, quanto la povertà de’ miei padroni mi privava d’ ogni possibile aiuto.

In questo mentre che le forze in qualche parte mi ritornavano, feci nuovo contratto con li miei padroni per il mio riscatto e li promisi di pagarli 300 zecchini in contanti ed altri 100

in robe, ogni volta che avessero fatte capitar

con sicurezza le lettere che io scrivevo (dissi) a Venezia, alla mia madre vecchia, affinchè

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avesse domandato questo danaio al signor Giusto Vaneich, famoso mercante fiammengo ; il quale avevo detto che m’ avea spedito all’ Un- garia per suoi negozi, quando fui fatto schiavo. Ma scrissi effettivamente a Venezia a Pietro Civrani ed a più amici a Bologna, immaginan­domi che li miei fratelli, partiti per la Francia

con monsignor Ranucci, non fussero più in patria. Tutte queste lettere indrizzai sotto sua coperta ad Antonio Mozzato, mercante ch’avevo conosciuto a Spalatro nell’ anno 1679 andando a Costantinopoli. Oltr’ a ciò il turco Omer tro- vavasi d’ avere per fratello d’ amicizia, giusta 1’ uso croatto, un certo Marco Bassi di Magasca, a cui con un corriere indrizzò le mie lettere; le quali, giunte a Venezia ed alla mia patria, fecero risorgere tra’ vivi un ch’ era già tenuto tra’ morti con tutte quelle circostanze che sono

aborti dell’ immaginativa ; e tanto più che, es­sendo state fatte di me tutte le diligenze pos­sibili, non se n’ era mai avuta nuova.

Capitato, prima che agli altri, a Pietro Ci­vrani il mio avviso e risvegliatosi in lui l ’ antico affetto, assai lieto per vedere ancor vivo colui eh’ avea pianto per morto, altro non fece eh’ a- prire il suo scrigno, chiamare un mercante di panni, amico mio, e dargli danaio e bastimento espresso, con ricapito nella Dalmazia, dove tempo prima era stato generale.

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124 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

Il danaio che diede fu di due mila zecchini, posti in una borsa, con ordine che, non essendo sufficienti, si fusse impegnata maggior somma a suo debito.

Giunto questo mercante a Spalatro, si rese col Mozzato a Magasca nel convento de’ padri francescani, tenendo con molta prudenza occulta la mia condizione al medesimo Marco Bassi; il quale scrisse una lettera all’ Omer-spei, mio padrone, avvisandolo eh’ era pronto a pagare il mio riscatto, purché m’ avesse condotto sopra d’ una montagna di qua dal castello di Dovaria, dove avrebbe fatto il pagamento.

In questo mentre li morlacchi delli confini de’ turchi già cominciavano a ribellarsi ed a fare qualche scorreria a danno de’ medesimi, tanto per terra quanto per mare, ed avevano in quell’ istesso tempo attaccata, in faccia di Magasca, una barca carica di merci e di turchi, che passava da Venezia a Durazzo. Quindi, avendo saputo alcuni di essi che l’ Omer-spei con alcuni turchi dovea rendersi con un schiavo al suddetto luogo, si posero in agguato (il che fu nel giorno di San Giuseppe) entro ad una

selva; ma temendo di uccidere lo schiavo, se avessero scaricata una salva d’ archibugiate, o che li turchi medesimi l’ avrebbero per dispetto

decapitato, si astennero da ogni insulto e die­dero libero il passaggio.

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Ma uscito di questo pericolo, dopo poche ore mi trovai nell’ altro; perchè il capitano di Dovaria, ch’ era turco, non solo negò il passo, ma anche minacciò di arrestar me ed il mio padrone. Il quale fu perciò obbligato a fuggir di nuovo ed a riportarmi alla sua casa, con ferma risoluzione di volermi vendere altrove in Turchia. Onde io, tutto malinconico ed ormai disperando quella libertà ch’ avevo quasi toccata con le mani, ricorsi (come altresì avevo sempre fatto in tutto il tempo della mia schiavitudine) al patrocinio della Beatissima Vergine, che nel giorno delli 2 di luglio, consecrato alla sua Visi­tazione, avea permessa la privazione della mia libertà. Non restai per ciò privo del suo aiuto; anzi nella sera del giorno dedicato alla sua San­tissima Annunziazione mi arrivò la felice nuova del riscatto, perchè sul tramontar del sole vidi

comparire nella casa del mio padrone un uomo miseramente vestito, turco di religione e di nome Saban; il quale, dopo d’aver abbracciato l ’Omer-

spei, li domandò dove era lo schiavo Federico (così appunto avevo fatto sempre chiamarmi), ed essendoli stato io additato, mi prese la mano destra ed osservò un segno eh’ avevo nella me­desima; onde m’ avvidi eh’ essendo stato così struito teneva la facoltà di liberarmi.

Il mio padrone, con i fratelli e con tutta la sua famiglia, si rallegrò meco, in tempo ch’ io

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126 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

fra il timore ed il giubilo stavo tutto dubbioso e confuso. Indi ritiratosi il mio padrone col suddetto Saban in una torre di pietra non lungi dalla sua casa, ivi mi chiamarono e, dopo di esservi asceso con grandissima difficoltà e tra­vaglio a causa delle pesantissime catene rad­doppiatemi nel ritorno da Dovaria, mi diedero

ambedue un pezzo di carta del Mozzato, il quale m* avvisava che il latore della lettera aveva 200 zecchini, metà del mio riscatto, e eh’ erano

a mia disposizione quando avessi voluto arri­schiarmi nella forma che il latore medesimo m’ avrebbe insinuato, e che per l’ altra metà il Marco Bassi restava fideijussore.

Di ciò così avvertito, feci che prima il mio padrone ratificasse il contratto di 400 zecchini per la mia liberazione e restasse contento di liberarmi collo sborso attuale della metà. Così egli fece ed assieme col Saban mi avvertì del pericolo in cui ero di essere ammazzato o

trattenuto dal capitano di Dovaria ; e perciò volle sapere s’ ero risoluto d’ espormici, assi­curandomi dall’ altra parte sì 1* uno come l’ altro che avrebbe tentata ogni strada per il mio libero scampo ; ed il Saban particolarmente si offrì d’ accompagnarmi insino ad un luogo detto Studenza, di qua dalla valle di Duvne, e che ivi poi m’ avrebbe ad un morlacco fedelissimo consegnato.

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La memoria della passata violenza di quel capitano di Dovaria e questa espressione de’ turchi mi rendea non poco sospeso; ma riflet­tendo alla fine che il mio padrone non avrebbe voluto perdere facilmente li 200 zecchini di resto per il mio riscatto (come li sarebbe acca­duto, se non fusse seguita la mia libertà), mi confermai nella speranza presa d’ un fine felice e, stimando che potea soffrirsi ogni cimento di pericolo per uscir d’ una durissima schiavitù- dine, pigliai dalle mani del Saban li 200 zec­chini e dissi al mio padrone che m’ avesse riconfermata la carta della libertà, m’ avesse tolte le catene (come seguì per mano di Gelillo) e che, mentre io mi fidavo di lui e che gli avevo mantenuta la mia parola con ogni pun­tualità, ricevesse pure quei 200 zecchini, cheio stesso li contai. E nel medesimo tempo eh’ egli li tirò a se, io tirai a me il viglietto della liberazione. Dopo quest’ atto, immediata­mente mi abbracciò, mi baciò (come fecero tutti gli altri della sua famiglia) e preparò una cena, giusta la sua povertà, permettendomi di sedere appresso di sè sopra di un coscino.

Il contento, il timore e la debolezza non mi lasciavano luogo di mangiare. E dopo di essere così stato due ore, preparatosi per me un cavallo, nella scurità della notte lasciai col Saban quella casa che fu un purgatorio della

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128 LA SCHIAVITÙ DEL RIARSIGLI

mia vita. E continuando il viaggio giunsi in due notti a Studenza, dalla quale in altre due (pas­sando a vista del castello di Dovaria) mi resi per asprissime strade a Magasca, guidato da due morlacchi; li quali mi condussero alla casa

di Marco Bassi e propriamente ad un affumi­cato camino, dove mi furon date alcune sar­delle ed un boccale di vino : liquore di cui tanto tempo ero stato digiuno. Buttatomi poi sopra di alcuni legni da fuoco, caddi in un profondissimo sonno e non ne fui ritolto se non allo spuntar del giorno dagli abbraccia­menti dell’ amico del Mozzato e del padre guar­diano de’ francescani di Magasca ; ond’ io per il sonno e per la debolezza quasi stupido non sapevo conoscere se vegliavo o pur sognavo,o se fossi libero o ancor tra le catene.

Mi portarono costoro di peso al convento de’ francescani, dove erano preparati vestiti, biancherie, letto morbidissimo ed acqua calda per lavarmi : mutazione che mi richiamò dalla morte alla vita e che, tenendomi per tre giorni continui quasi delirante, mi pose in una grande inquietudine ed appetenza di voler mangiare

tutto quello che mi rappresentava il gusto nel- l’ idea ; non dubitando che si potesse soffrire un’ altra miserabile schiavitudine per riavere quel giubilo cordiale che dava il piacer della libertà.

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Mi condussero poi a Spalatro per mare; ed approdandovi la nave, fu sì grande il concorso del popolo, che restò, come credo, vuota tutta la città d’ abitatori ; li quali con la voce e con le mani ringraziavano Iddio per la mia libertà.

Erano in tal tempo capitati da Venezia gli ordini che potessero i morlacchi sicuramente agire contra i turchi e che il doganiere de’ turchi medesimi, dimorante a Spalatro, fusse stato condotto fuora de’ confini ; come seguì due giorni dopo il mio arrivo colà. E giunto questo doganiere a Seraglio di Bosnia, esagerò il male che i turchi aveano fatto in lasciare in libertà la mia persona, poiché il re di Polonia, di cui ero congionto, per liberarmi avrebbe fatta la pace con la Porta. Perciò l’ Omer-spei con tutta la sua famiglia a Livne fu condotto prigione, perdendo non solamente la somma ricevuta per il mio riscatto, ma anche molto della sua povertà, prima di poter essere assoluto.

Terminata la Pasqua in casa del Mozzato ed ottenuta la mia fede di sanità dal conte di quella città, della famiglia Priuli, fratello della moglie del baron Tassi, ambedue miei vecchi amici, presi la strada di Zara, metropoli della Dalmazia, dove trovai generale Lorenzo Donado. Il quale con molta cortesia mi rice­vette e mi fece un costituto strettissimo dello stato di quella frontiera turca, in cui ero io stato,

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130 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

e lo fece soscrivere dal suo segretario; indi mi diede una fusta o galeotta armata, acciocché con maggior prestezza mi fussi potuto rendere a Venezia, come feci dopo d’ una navigazione di quattro giorni.

In Venezia fui condotto al magistrato della sanità, che con pienezza di voti mi diede la pratica e gli amplessi di congratulazione per la mia libertà.

E giugnendo il mio benefattore Pietro Ci- vrani, con sommessione da figlio lo ringraziai, ed egli con tenerezza da padre abbracciommi ed in gondola mi condusse alla sua casa; dove già

era preparato letto e medico, che fu Giacomo Grandi. 11 quale, conosciutomi nel pericolo del- l ’ idropisia, mi curò per tre settimane; nel di cui termine, avendomi resa la salute, potei con maggior allegrezza goder le visite degli amici, che furono molte, e gradire il giubilo della mia patria e de’ miei parenti.

Di là diedi parte a Sua Maestà Cesarea della mia liberazione e; della prontezza di ren­dermi al suo servigio, sùbito che mi fossi perfettamente ristabilito nella salute. L ’ atto me­desimo esercitai col Duca di Lorena, a cui tra­smisi la relazione delle mie osservazioni sopra Buda e ponte d’ Oessek. Indi visitai molti amici e senatori grandi, e particolarmente Lorenzo

Soranzo, savio grande; sotto la di cui set-

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rimana essendo stata fatta la spedizione a tutti li principi della cristianità con l’ avviso dell’ intimazione della guerra che avea fatta la Repubblica alla Porta ottomana, per risen­tirsi giustamente delle tante violenze fattesi da’ turchi a’ sudditi della medesima nella pace di Candia, confidentemente mi disse eh’ era egli stato direttamente contrario a questa risolu­zione della sua patria; ma, giacché la vedea tanto impegnata, eh’ avrebbe fatto tutto il possibile per averne un fine felice. Mi domandò poi cosaio credevo che dovesse riuscire della guerra di Dalmazia, a paragone di quella di Levante. Indi mi consolò con darmi notizia della morte del capitano di Dovaria (che tanto m’ avea tra­vagliato), sorpreso di notte e fatto in pezzi da’ morlacchi.

Mi resi alla patria passando per Ferrara, dove governava tuttavia il cardinal Acciaioli, legato a latere, che per due giorni mi volle seco; ed in questo tempo fui incontrato da’ fra­telli, li quali a volo mi portarono alla patria, in cui la moltiplicità degli uffizi de’ parenti, amici e concittadini mi rese confuso. E tanto più grandi furono le congratulazioni, quanto più, avendomi la fama decantato morto, mi erano state fatte anche 1’ esequie.

Con un tanto giubilo del mio cuore e col respiro dell’ aria natia (che per alcuni giorni

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132 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

godetti nella villa di Bel Poggio del marchese Azzolini, mio tanto amico) mi resi affatto alla salute. Indi con le poste' mi portai a soddisfare i voti alla Santa Casa di Loreto ed alla San­tissima Annunziata di Firenze; dove mi fu dato 1’ onore di presentarmi al granduca Cosmo, al principe Ferdinando ed a Don Castone (eh’ erano allora il sangue di quella Serenissima Casa), e di essere da’ medesimi benignamente accolto.

Riportatomi poi alla patria, mi accadde lo

strano caso che siegue. Un religioso, di un certo ordine a me ignoto, venne a trovarmi una mattina che stavo sotto il barbiere e, sedutosi appresso di me, disse di avere un urgentis­simo negozio da presentarmi, il quale era di mio servigio e che non ammettea dilazione. Una esagerazione così grande m’ obbligò a levarmi dalla sedia, con mezza barba, ed an­dare ad un gabinetto a discorrere con lui. Egli mi disse che un certo uomo se gli era insinuato e gli avea riferto che gli erano state promesse cento doppie per uccidermi e che n’ avea già riceute venti. Altrettanto strana mi fu questa notizia, quanto io sapevo di non aver alcuna persona disgustata e che dovevo piuttosto esser commiserato per una schiavitudine così dura­mente patita (toltomi dalla quale mi pareva di essere rinato), che diventare oggetto dell’ altrui odio. Contuttociò usai ogni diligenza per tro­

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vare la radice di questo male ed il fondamento di questa macchina. Ma tutto fu indarno, poiché altro non potei sentire, nè sapere, se non che veniva il colpo da genti forestiere; e questo istesso con termini tanto generali che, comu­nicato a’ miei parenti, restò anche impenetrabile.

Questo caso, che mi facea conoscere tanto sottoposto ad una stravagante empietà della mia nazione, mi rese così odiosa la patria, che negligendo li troppo affettuosi consigli delli miei parenti ed amici, che non voleano che mi fossi di nuovo posto ne’ cimenti della guerra, presi la strada d’ Inspruk ; dove la regina di Polonia, moglie del Duca di Lorena eh’ allora era in campagna, mi accolse con benigno compiacimento e per due giorni nel suo giardino ebbe gusto di parlar sempre meco dell’ occorsomi nella mia schiavitudine.

Indi in Hala m’ imbarcai verso Lintz, dove la Maestà dell’ Imperadore con tutta l’Augustis-

sima Casa tuttavia trattenevasi, per dar tempo alla ristaurazione di Vienna. La Maestà mede­sima con una somma clemenza mi ammise a’ suoi piedi e mi dichiarò la soddisfazione eh’ avea di vedermi restituito alla libertà ed all’ imperiale suo servigio. Mi ricercò di molte notizie circa la sofferta schiavitudine e princi­palmente dell’ assedio di Vienna, giacché avea saputo ch’ero stato sempre in esso fra le catene...

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134 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

La Imperadrice Eleonora non solamente mi graziò di più udienze, ma anche mi volle ap­presso la sua tavola e m’ interrogò dello stato della mia già miserabile schiavitudine. Il Mar­chese di Baden, eh’ era tuttavia presidente di guerra, eccedette nella consolazione di vedermi libero e continuamente mi volle seco.

Sigillo del Marcigli

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A i sjlovt h* i l %fi*o Jfamutio

i l Fiume detto

CtniTn

T erm ine J d V dcovo dico n quelli di Sp aiarro c M a la rica

w a£ /¿r Jinotmnationc - / ) i jutjli; difljxtto tutto della LfijA Jcoufqia come gran parte di Rama, dove sono /lato Schiavo.

Cjtatwtui lo/fi: era JifìjU to

R e g io n e intorno a R a m a , d o v e il Marsigli stette prigioniero fino alla sua liberazione.

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M EM ORIALE

A L PRINCIPE GIUSEPPE

FIG LIO DI LEO PO LD O IM PERADORE

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S A C R A R E A L M A E S T À

Tr a i molti disastri della schiavitù vi sono

stati quegli di più imperfezioni nel corpo, causate dalle malatie e da due ferite, che riportai

nell’ ultimo cimento per fare gli ultimi sforzi di difesa contro l’ inimico comune e il domestico, che furono gli ungheri, a Dio, a Cesare ribelli; e questi m’ hanno impedito di potere sollecita­mente presentarmi con lettera alla riverita pre­senza di Vostra Maestà per corrispondere al di lei generoso patrocinio verso di me e tutta la mia casa. Non manca la Maestà Vostra, appena restituitomi in libertà, di farmi provare gli atti della di lei clemenza con l’ intercedermi da Cesare sollievo, se non all’oppressioni del corpo, almeno a quelle del dispendio, che senza verun risparmio ho voluto incontrare, anco per potermi con maggior sollecitudine di nuovo sacrificare al servizio di Sua Maestà Cesarea. E conoscendoil di lei elevato talento che non aggradisce l ’ espressioni de’ proprii servitori, se non quando

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138 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

vanno unite a qualche notizia curiosa, e perciò esibisco i miei riverenti ringraziamenti alla Maestà Vostra, accompagnati da un breve rac­conto di quanto m’ è occorso nel mio incontro ; e inoltre al vantaggio d’ aver soddisfatto a qual­che curiosità della Maestà Vostra posso sperare anco il benefìcio che con la di lei propensione mi possi più fondatamente giovare in opportuna congiuntura appresso Sua Maestà.

La nazione unghera, di genio in tutto con­traria all’ alemanna e di natura volubile et

amante di novità, puntigliosa e superba, come appunto sogliono essere quelle nazioni che

vantano d’ essere libere, non ha mancato di tenere ogni strada, benché illecita, per dare effetto alle di lei parti così perverse.

Sa la Maestà Vostra che molti anni sono si fecero capi di tutto il regno d’ Ungheria contro Cesare il Nadasti, Skerino, Frangipani, unitamente col padre del presente Tekli, abi­tante nel comitato dell’ Ungheria superiore. E i tre primi furono dalla giusta spada di Sua Maestà Cesarea decapitati, e l’ ultimo solo punito

nella confìscazione de’ beni, assicurando la per­sona col figliuolo nella dimora in Transilvania;

e, morto il padre, restò il figlio, di presente capo ribelle. Il qual grado facilmente ottenne coi vantaggi della di lui presenza, dell’ eleva­tezza del suo spirito e per gli consigli del

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MEMORIALE 139

principe di Transilvania, che pretendeva di erigere un corpo da animar poi a suo talento. Ma il fatto ha delusa ogni sua speranza, tron­cata principalmente da quattro consiglieri che di continuo assistono il Tekli e che sono stati quegli hanno animato i popoli a ribellarsi dall’ ubbidienza di Cesare e di venire a quella del Tekli, facendosi forti con i pretesti della

religione, che non fossero dal loro re mante­nuti i naturali privilegi del regno e particolar­mente per la elezione del Palatino, causa della prima mossa del Nadasti, Sdrino e Frangipani e del padre del presente Tekli (il di cui sangue bisognava vendicare), prendendo la congiuntura

dell’ essere la Maestà dell’ Imperadore divertita

dall’ armi francesi sul Reno e facendosi forte coll’ assistenza della Porta ottomana confinante a loro.

E perciò fino al tempo della mia dimora in Costantinopoli, che fu l’ anno 1679, v ’ erano

negoziati con Carà Mustafà bassà, primo visir, avido di segnalarsi in una vasta guerra e con­seguentemente attento nel dar orecchio alle instanze del Tekli e suoi collegati, e nel som­ministrargli i più opportuni consigli per tem­poreggiare con gl’ imperiali, fintanto che lui avesse superata ogni difficoltà nell’ animo del gran signore, nell’ apprestare una considerabile

armata.

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14° LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

Il Tekli non ha mancato punto a tali con­sigli, mentre con false promesse di voler venire all’ ubbidienza di Cesare, di voler lui medesimo

essere mediatore della pace fra l’ Imperadore e la Porta ottomana, ha divertito Sua Maestà Cesarea, che nella campagna del 1682 non potè

difendersi dalla sorpresa di Cassovia e demo­lizione di Filch : colpo che affatto pose in chiaro l’ animo suo mendace.

Nel principio del 1683 la Maestà dell’ Impe- radore risolse di voler punire la baldanza d’ un ribelle reso superbo dalle congiunture e repri­mere P orgoglio di Carà Mustafà visire, motore

primario di questa guerra. E perciò la Maestà Sua senza risparmio di denaro risolse di ridurre la di lui armata sino al numero di 84 mila combattenti, di progettare una lega coi polacchi, di porre alla prova la costanza de’ suoi vas­salli, che ne’ paesi ereditarii a gara uno del- l ’ altro hanno contribuito denaro e capi per comporre valido esercito e magazzeni. L ’ ob­bligo di una lega con il re di Spagna con buona parte dell’ impero, agitato da sospetti che il re di Francia fosse per moversi a’ danni della Fiandra, fu causa che il detto corpo di 84 mila combattenti dovesse essere smembrato, oltre il riguardo di dover presidiare validamente tutte

le piazze per ambe le frontiere dell’ Ungheria e del Reno ; e perciò la Maestà dell’ Imperadore

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MEMORIALE 141

non potè stabilire un corpo, da campeggiare a danno de’ turchi, niente più eccedente di 35 mila combattenti; che furono posti in bat­taglia il giorno 6 maggio nella campagna di Chinsim, nel distretto di Possonia, dove inter­venne tutta l’ Augustissima Casa.

Questo corpo, benché forse mediocre, fu stimato atto a poter tentare qualche valida impresa a danno dell’ inimico comune, col be­neficio di sapere che, se non dopo alcune set­timane, potesse essere in campagna con tutte le sue forze.

Furono più gli oggetti a questa impresa e ad un medemo tempo non si omise di consi­derare la difesa, quando avesse bisognato rimet­tersi ad un tal stato; e per questo non si con­siderarono meno le forze dell’ armata, che i vantaggi del sito a quelle frontiere, dove la natura è stata generosa col mezzo de’ fiumi, delle paludi e delle selve.

Sa la Maestà Vostra che il Danubio a

Possonia comincia all’ isola Schutt, divisa in grande e piccola, assicurata alla di lei punta dalla fortezza di Comorra e ad un fianco di quella di Giavarino con due altri fianchi, cioè uno per parte, fatti dai fiumi Vagh e Rab.Il fiume Vagh, assistito, al di lui principio dal ponte, dalla fortezza di Leopolstat e più alto dal forte di Trenchin, forma valida frontiera

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contro Naiassel e tutte le forze transdanubiane, coprendo i stati ereditari della Moravia e Slesia.Il fiume Rab, all’ altra parte dell’ isola Schutt, è l’ unico riparo che abbiano le provincie del­l ’ Austria e Stiria contro le forze che il turco possa condurre al loro danno, assistito dalle fortezze di Canissa, d’ Albaregale, di Buda.

Tutte queste considerazioni, ventilate dal­l’ autorità dell’ Imperadore, esaminate dall’ espe­rienza de’ capi, risolsero che sopra i detti fiumi V ag e Rab si dovessero porre le primarie difese e particolarmente al Rab, sapendosi che questa era la strada che pensava di tenere il turco con tutto il suo sforzo per tentare l’ im­presa di Giavarino e di Vienna.

Sua Altezza il Duca di Lorena, comandato dall’ Imperadore di dover validamente munire il detto fiume Rab e guarnirlo di milizia unghera, assignandoli per capi i conti Budiani e Brascoig (i quali a Possonia supplicarono la Maestà Sua a voler concedere alla loro nazione e partico­larmente a proprii sudditi questa occasione di contrassegnare la loro inalterabile fedeltà e non

aggravarli d’ alcun presidio alemanno, per non distruggere il paese e per non causare aliena­zione d’ affetto nelli medesimi ungheri, bastan­doli solo che avesse mandato un capo tedesco per esaminare le loro forze, per disporli a’ posti e per secondare i vantaggi della natura e sopra-

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MEMORIALE 143

intendere a tutte le loro operazioni), risolse di conferire in me questo comando, spedendomi ad intervenire al congresso che fecero i comitati di Castraferro, di Sopronia, d’Altemburg, di Giavarino, acciò con fondamento sapessi le loro forze; che non meno nell’ esibizioni che negli effetti consisterono in j o mila guastatori e 7 mila combattenti.

Senza perdita di tempo feci il necessario ripartimento dell’ una e l’ altra specie d’ uomini. Stabilii di mantenere cinque ponti per tutto il fiume, muniti con validi forti, adattati al sito; e due di questi erano nell’ isola di Rabao ai ponti di Chesso e d’Arpas, e gli altri tre a quelli

di Sarvar, Cherment, San Gottardo. Tutti gli altri, ascendenti al numero di quarantadue, presi con valide trinciere, restarono chiusi da più

cavalli di Frisia, fatti perpendicolarmente nel­l’ alveo del fiume; e tutte le ripe, che erano comode ad esser salite, furono rese precipitose

e palizzate, di forma tale che si poteva da tali operazioni sperare una valida difesa quando fossero state animate dalla fedeltà de’ difensori.

Tutta questa operazione, che occupava il paese per 130 miglia d’ Italia, fu posta in ordine, presidiata e guarnita d’ artiglieria nello spazio di dieci giorni e provvista di fuochi per dar il segno di porsi in armi ; e con tal comparto che in un’ ora e mezza di tempo da Gratz sino a

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144 LA s c h i a v i t ù d e l m a r s i g l i

Giavarino passava l’ avviso ai presidii del fiume tutti per porsi in armi, e tra un forte e l’ altro stavano più corpi di guardia di cavalleria, che battevano giorno e notte le ripe infrapposte.

Subito effettuata questa disposizione ne spedii l ’ avviso al Duca di Lorena, che mi comandò di non partire da questa frontiera, incaricandomi nuove commissioni; che posi in esecuzione a misura del tempo, avvegnaché i tartari e turchiil giorno di S. Pietro si facessero vedere con

fiamme avanti il ponte di Arpas, per dove mandai 200 cavalli ungheri a riconoscerli. Ma questi, fuggendo con un sollecito ritiro di qua dal ponte, diedero motivo all’ inimico di tentar l’ acquisto del medemo ponte, facendosi forte almeno di 5 mila in circa, buttandosi una gran parte de’ tartari a nuoto, accompagnando gli urli con una folta pioggia di frezze, che pose in fuga quasi tutta la guarnigione del forte; di­modoché fui costretto a valermi del mezzo del fuoco per tentare il disfacimento del medesimo ponte. E la sola minaccia di farlo fu bastante a porre in fuga l’ inimico, che abbandonò alcuni compagni che natavano e che senza permetterli quartiere volsi che fossero tagliati a pezzi.

Da detto giorno sino alli 2 di luglio furono continuati gli assalti in più luoghi dell’ isola e

felicemente superati.Il giorno delli 2, sul surgere del giorno, da

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MEMORIALE 145

tutte le parti sentii gli avvisi da porsi in arme. Perciò senza perdere tempo corsi a visitare tutti gli posti dell’ isola, conoscendo che questa era la parte minacciata vigorosamente e spedendo­ne 1* avviso al conte Budiani che la sera avanti d’ ordine del Duca avevo fatto venire nell’ isola.

Stimai necessario alzare una batteria di più e alla richiesta d’ alcuni guastatori mi fu risposto dal conte Budiani, che non ardiva comandare a’ suoi soldati, perchè non erano pagati dal- l’ Imperadore. Tal risposta dissimulai e feci che i miei domestici servitori unitamente con pochi altri alzassero la detta necessaria batteria.

Mi portai alla tenda del conte Budiani per sollecitarlo a sì gloriosa giornata e lo trovai tutto agitato ed occupato ne’ colloquii co’ suoi consiglieri, assignatigli dal padre inabile a cam­peggiare per la podagra che di continuo l’ ob­bliga al letto; e dissimulando io di conoscere la di lui perversa intenzione, li mostrai tutta la fede e tutta la credenza possibile, e gli spiegaii miei sensi, fondati sopra la prudente condotta del Duca di Lorena.

Nel tempo seguivano questi colloquii che fa­cevano differire il discoprimento dell’animo degli ungheri, fui avvisato che l’ inimico si faceva vedere su la ripa opposta del fiume e perciò animai, col maggiore ardore possibile, il conte Budiani, di dare effetto alla fede promessa a

IO

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146 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

Cesare nel congresso di Possonia; ma in un medesimo tempo vidi che disarboravano i sten­dardi da posto, ritirandosi tutta l ’ infanteria. Per

il che rivoltandomi acremente al conte Budiani e agli ungheri tutti, e richiedendogli della causa di tal’ improvvisa risoluzione, mi fu risposto universalmente: che non volevano servire, a

causa di non essere pagati, e che volevano andare alle proprie case per capitolare coll’ ini­mico. Il conte Budiani succedette nel dirmi :

“ Imparate voi altri tedeschi di far conto de’ poveri ungheri e di non mangiar tutto „.

A tal temerario parlare denudai la spada e gli dissi :

“ Conte Budiani, questa è la fede promessa

a Cesare? S ’ aspetta a far doglianze per le paghe quando l’ inimico è a fronte e conseguentemente senza tempo di chiedere denaro al Duca? „.

Lasciai il conte Budiani e mi posi nel mezzo degli ungheri, animandoli ad alta voce con le ragioni, assicurandoli di volere con loro morire in sì bella occasione, raccordandoli che tutti gli abitanti stavano tra i monti dell’Austria e il fiume e godevano la quiete delle proprie case

su la nostra fede, e per maggiormente animarli gli diedi tutto quel poco denaro mi trovai. Re­plicandomi volerlo da Cesare e non da me, del che altamente dolendomi, gli obbligai a pren­derlo; e tale a me dovuta azione piegò l’ uni­

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MEMORIALE 147

versale a promettermi fedeltà per Nmperadore, rimettendo i stendardi ai posti assignatigli. Il che tanto più indurì l’ animo del conte Budiani, che pregai provvedere di polvere mentre alcuni me ne chiedevano, e mi rispose:

“ La polvere del treno dell’ artiglieria non è dell’ Imperadore: è mia; e non voglio parta da’ miei carri

Di tal maniera che fui obbligato privarmi della mia particolare, che facevo conservare per uso de’ miei domestici servidori.

Tutto continuai pure a dissimulare, paren­domi che così richiedesse il bisogno, stimu- lando con il fatto e con le vive ragioni il conte Budiani a porsi in battaglia e portarsi ad un certo luogo chiamato Budael, dove l’ ini­mico faceva maggior sforzo, replicandogli di voler seco assolutamente morire.

S ’ incamminò la marcia al detto luogo : il conte Budiani sempre fuggiva d’ essermi vicino. Giunse l’ avviso che l’ inimico per fianco ad un luogo chiamato Endese attaccava valida­mente e che già quasi era penetrato nell’ isola; dal che il conte Budiani prese animo di rim­proverarmi dicendomi :

“ Voi godete di vedermi distrutto con tutta la mia gente „.

A l che risposi : “ Conte Budiani, assicuratevi voi dall’ attacco di Budael, come v ’ assicuro io

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148 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

di quello di Endese. E spero di darvene in ora la prova, quando gli ungheri del conte Drascovig mi vogliano fedelmente ubbidire e distaccarsi da voi — (come fecero). E voi, conte Budiani, non mancate, rotto che foste, di dare i concertati segni d’ avviso ai poveri abitanti dell’ isola; acciò sotto la fede non

restino preda de’ nemici, con le loro sostanze, ed acciò io pure possa regolarmi nel posto che mi accingo difendere. E non mancherò di tentare di trasmettere, per qualche strada, av­viso al campo cesareo, che ci soccorra. Conte Budiani, addio „.

Mi portai alla fronte del detto passo di Endese, dove trovai l’ inimico quasi divenuto affatto padrone; che, investitolo con un furioso fuoco, lo feci perdere terreno. Et io, trovando due corde ed accumulando fascine, posi al co­perto i soldati; traversai il cammino all’ inimico che, dopo essersi battuto un’ ora e mezza in circa con perdita di molti de’ suoi e lasciato uno stendardo nel fango, abbandonò l’ impresa.

Allegro di sì felice successo, animato dal non sentire verun avviso che il conte Budiani fosse rotto, m’ incamminava a quella parte dove

l’ avevo lasciato, per seco unirmi ; ma, inoltran­domi nel cammino sotto la fede datami, lo trovai mescolato coi tartari che a fiamma e fuoco tutta l’ isola ponevano, che saccheggia­

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MEMORIALE 149

vano le chiese, che facevano schiavi, che de­capitavano i vecchi e i piccioli fanciulli. Da sì terribile aspetto non men che improvviso, mi voltai a quei pochi ungheri che erano meco, chiedendogli: “ Che dite? „

Ma, dati ad una precipitosa fuga, mi dissero : * Non so che farvi „.

Nulladimeno con soli cinque che meco resta­rono risolsi di piuttosto morire, che unirmi ad un traditore, procurando col benefizio del ca­vallo di ritirarmi, come mi riuscì, sotto un forte di Capoar, che apparteneva al decapitato conte Nadasti ; e subito chiamai il comandante di quello avvisandolo che si allestisse per una valida difesa, nella quale me gli sarei interes­sato secondo era l’ obbligo mio. Esso coman­dante disse che non mi conosceva per nulla, e quale autorità avevo io per pretendere co­mando ivi. A che risposi con dirli saper bene che gli ero noto, ma che ad ogni modo volevo soddisfare alla di lui importuna domanda, e gli esibii la patente del Duca di Lorena; della quale ridendosi, disse :

“ Volentieri vi riceverò, quando vogliate as­sistermi a minutare le capitulazioni della resa „.

Proposta che mi obbligò di dirli: che per la prima campagna nella quale servivo Sua Maestà non volevo capitular resa e che perciò secondo la fede data m’ assegnasse competente

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LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

convoglio per unirmi al campo cesareo: il che baldanzosamente mi ricusò. .

Vedendomi perciò disperato e in conse­guenza di dover sciegliere o di pormi in braccio

alla fortuna, o essere a parte di questo tradi­mento, risolsi di prender la prima, per non tradir la mia condizione e nascita, e per non mancare alla candidezza della mia nazione e

all’ augustissimo servizio.E perciò pochi passi allontanatomi dal detto

forte, fui assalito da una squadra di ungheri, che percuotendomi mi spogliarono di quel poco di buono che mi trovavo avere, lacerando di parole la Maestà dell’ Imperadore e la nazione tutta tedesca; e, levatomi un buon cavallo che avevo e cambiatami la mia buona spada in una cattiva, mi dissero :

“ T i lasciamo per nostra generosità la spada ; ti diamo un cavallo, acciò vadi al campo e dichi a’ tuoi compagni, che non ci mangie- ranno più le nostre sostanze coi quartieri d’ in­verno, perchè ora abbiamo altro padrone

Così maltrattato di botte datemi con calzi di schioppo, continuai alcuni altri passi il mio

viaggio, riscontrandomi in una partita di tar­tari, che di tutta fuga mi vennero ad investire.

Riconoscendomi allora disperato di salute, gettai in una palude vicina tutte le lettere che tenevo in saccoccia, la maggior parte del Duca

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MEMORIALE

di Lorena, e la patente medema; e ferito da due colpi di frezza nella spalla e fianco destro, siccome il cavallo in più parti, fui obbligato soccombere alla forza e al tradimento, e pas­sare alla dura condizione di schiavo, legandomi barbaramente e levandomi ogni vestito, e con­ducendomi nella vicinanza d’ un villaggio che buon numero di tartari abbrugiavano, e facendo

di me que’ strazii che mi riserbo dire alla Maestà Vostra in un’ altra lettera, unendoli tutte le notizie delle vicende della schiavitù e mia libertà, e quelle parimenti che ho raccolte per stabilire quali siano le forze ed ordine de’ turchi nella guerra, essendo con loro ne’ ceppi stato sotto tutto l’ assedio di Vienna e fuggito con essi pure fino a Buda. E ciò adempirò per la futura posta.

E per fine inchinandomi ossequiosamente sono di Vostra Maestà

Bologna, 17 maggio 1684

umile, devoto, obbligato servitore L u ig i F e r d in a n d o M a r s ig l i

Firma autografa

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N O T E A L L A PR E F A Z IO N E

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1 [ G ia m p ie t r o Z a n o t t i ] , Storia dell'accad em ia clem entina d i B ologna, aggregata all" instituto delle scienze * dell*arti, Bologna, *739» 1 1 7 ; c f r . L . D . C [ h a r l e s ] H [ e r b e r t ] D [e ] Q u in c y ,

M cm oires su r la vie de m onsieur le comte d-; M o r sig li ecc., Zuric, 1741, IV , 3 e [ B e r n a r d L e B o v i e r d e ] F o n t e n e l l e , Éloge de m onsieur le com te M arsig li, in H isto ire de V academ ie royale des sciences, annce M D C C X X X , Paris, 1732, 133, o nelle sue Oeuvres, Paris, 174a, V I, 467, al quale aveva fornito informazioni il Q u in c y , v . op. cit., II, 37.

a Z a n o t t i cit., I, 124 ; cfr. Q u i n c y cit., IV , 14 e F o n t e n e l l e ,

Eloge cit., 138, Oeuvres cit., V I, 477, dove sono le medesime parole.

8 A n d r e a V e r e s s , I l conte L u ig i F erdinando M a rsig li e g li ungheresi, in S tu d i e m em orie per la storia d e ll' università d i B ologna, Imola, 1929, X , 85 in n.

4 Q u in c y c i t . , I , 166.

* Archivio Bevilacqua in Bologna, fondo M arsili, busta 3, lettera di Prospero Lambertini, da Roma 7 settembre 1728. Devo ringraziare la squisita cortesia del duca Bevilacqua, che mi per­mise di vedere questa, come altre preziose lettere che vengo citando. E ringrazio il dotto Romeo Monari per il valido aiuto portomi nell’ identificare parecchi dei nomi registrati nella Tavola che segue.

• Ivi, lett. da Roma 19 giugno 1723.

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*56 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

7 M a t t h a e u s B a z z a n i , In obitu com itis L u d o v ici F erd in a n d i M a r sillii oratio, Bononiae, 1732, pp. 33-4 : “ Omnia enim se facere aiebat Marsillius magnitudine voluntatis in patriam et charitatis suae. Quorsum igitur hi ? (sic ille iam me multisque vestrum saepe praesentibus, audientibusque) quorsum hi tandem labores mei ? quid ego cogito ? quid specto ? nisi ut ne intereat praeclaia haec civitas mea, mihique diarissim a patria, sed ut stet, quin etiam exsurgat et effiorescat magis, novoque cum litteris, studiisque humanioribus in gratiam reditu pristinam illam dignitatis speciem consequatur. Dum bene occupati sunt cives mei, dum florentes virtute honoribus fama, dum honestissimae vitae fructibus perfruentes, ego cedam libenter et ibo ex hac vita, quoniam laborum omnium fructum uberrimum me retulisse videbo

8 E m il io C o s t a , L a fo n d a zio n e d e ll’ istituto delle scienze ed una r ifo rm a dello studio bolognese proposta da L u ig i F erdinando M a rsili, in S tu d i e m em orie p er la storia della università d i Bologna, Bologna, 1930, V , 65-6.

» R. biblioteca universitaria di Bologna, mss. Marsili, voi. 85, n. 9.

10 A rch. Bevilacqua, 1. cit., lett. da Roma 25 giugno 1718.

11 Questo R a g g u a g l i o , come il capopagina che l’ adorna ed è con esso qui riprodotto, si trova in “ A tt i leg a li per la f o n ­dazione d e ll* instituto delle scienze ed a rti lib era li per m emoria d eg li o r d in i ecclesiastici e secolari che com pongono la città d i B ologna. In Bologna M • D • CC * X X V III. Nella stamperia bolo­gnese di San Tommaso d’ Aquino. Con licenza de’ superiori „, e porta per titolo : 1727- D ie vigesim a secunda m ensis m artii. Con- ventiones inter excellentiam d. co. A loy siu m F erdinan d um gene- ralem M a r sig li et hom ines a rch icon fra tem ita tis Sanctae M ariae de N ive. R o g itu s ser A u g u s tin i Ig n a tii P ed retti civ is <S* n otarii colleg iati Bononiae. Dopo la consueta formula iniziale latina con la data, seguono queste dichiarazioni in volgare :

“ Impressa ben vivamente in mente e cuore, anzi quotidia­namente e come presente avanti agli occhi, ritenendo sua eccel­lenza signor conte Luigi Ferdinando generale M arsigli quella non mai abbastanza deplorata e compianta miseria, nella quale si ritrovano quelli poveri cristiani ridotti in schiavitù nelle mani

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NOTE *57

de' barbari turchi, mentre convenne a sua eccellenza una tale miseria soffrire per giusto e divino volere, allora quando nel- l’ anno 1683, il dì a del mese di luglio, giorno dedicato alla solennità della Visitazione di Maria Vergine, ritrovandosi per difesa della religione cristiana e de’ stati austriaci, impedendo all* esercito ottomano il passaggio del fiume Rab, dopo forte con­tesa cadette schiavo in mano de’ barbari, restando in loro potere e permanendo in un tale stato fino a che con 1’ aiuto divino e mediante la specialissima grazia di Maria Vergine e nel solen­nissimo giorno della di lei Santissima Annunciazione, ricuperò la pristina libertà, e come più ampiamente del successo e miseria accadute all* eccellenza sua in tale schiavitù, e che anche mag­giori si provano dagli altri schiavi, appare da veridica esposi­zione fatta da sua eccellenza e a me notaro consegnata per reg i­strarla in fine di questo instrumento ; con tale dunque viva e come presentanea rimembranza avendo sempre procurato e procurando esso signor conte Luigi, per quanto è in suo potere, contribuire alla liberazione di detti poveri cristiani schiavi e cercare ogni mezzo per sovvenirli, ha finalmente impetrato, con apostolica autorità delegata all* eminentissimo e reverendissimo signor cardinale legato di questa città, che sia riposta nella cappella eretta nell* istituto delle scienze ed arti una cassetta, in cui vengano riposte e raccolte quelle elemosine, che secondo le inspirazioni divine verranno da’ fedeli lasciate per sollievo de’ schiavi cristiani. Ed inoltre sapendo esso signor conte Luigi quanto sia il zelo ed amore che gli uomini dell’ archiconfratcrnita detta di Santa Maria della Neve e del Riscatto fondata in questa città, e nella quale egli è annoverato come confratello, hanno per accumulare elemosine per il riscatto de’ poveri schiavi cri­stiani, massime bolognesi, diterminò che le elemosine da racco­gliersi in detta cassetta dovessero annualmente, e nel giorno in cui nella detta cappella dell’ istituto si solennizza 1’ alto mistero della Santissima Annunciazione, si consegnassero al signor ca­merlengo del Riscatto, con la presenza del signor priore pro tempore della medesima archiconfraternita, per erogarle sempre a benefizio del riscatto, nè mai in altro uso, e con facoltà agli uomini della suddetta archiconfraternita, da’ primi vespri di detta solennità sino al fine di quella, di ricercare elemosine in detta cappella per un tal fine, col solo obbligo a’ suddetti confra­telli di andare processionalmente alla detta cappella, ivi anco

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*58 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

scambievolmente assistendo, e come in appresso si dirà ; lo che tutto conferitosi da sua eccellenza agli uomini di detta archicon- fraternita, e fra essi fattene ed avutene le mature riflessioni e risoluzioni per maggiore dimostranza del loro amore nel pio esercizio di raccogliere elemosine a beneficio di poveri schiavi, risolvettero, mediante la deputazione degl’ infrascritti assonti, di accettare e convenire con detto signor conte Luigi come siegue.

u Quindi è che costituiti, davanti li testimoni e me notaro in­frascritti, il signor Giuseppe Stamarini priore, signor Pellegrino Biasoni camerlengo dell* opera, signor Francesco Dal Buono depo­sitario della compagnia, tre delli quattro signori assonti spezial­mente deputati dagli uomini di detta archiconfraternita, constando di tale loro deputazione per rogito di me notaro infrascritto, il di cui tenore si registrerà in fine del presente instrumento dopo le clausole generali, spontaneamente etc. per gli uomini di detta archiconfraternita e loro successori, hanno accettato ed accettano da sua eccellenza, signor conte Luigi Ferdinando Marsigli, della buona memoria del signor conte Carlo Francesco nobile e patrizio di questa città, presente il caritatevole e procurato atto di per­manenza della detta cassetta nella cappella dell’ istituto per rac­colta dell’ elemosine ed a benefizio de’ poveri cristiani schiavi bolognesi, come sopra ; convenendo e promettendo essi signori assonti, in nome come sopra, la perpetua osservanza delle se­guenti capitolazioni, cioè :

" I. Dovranno gli uomini di detta archiconfraternita proces- sionalmente ogni anno, e la mattina per tempo partendosi dalla loro chiesa, nel giorno della Santissima Annunziata, andare alla cappella dell’ istituto dedicata a tale solennità, salmeggiando nel viaggio con preci gloriose ed uniformi a sì gran mistero, ed ivi giunti, deposto il loro stendardo ed entrati nella cappella, reci­teranno qualche salmo, per implorare da Dio la costanza e per­severanza nella santa religione cattolica a quei poveri schiavi cristiani, massime bolognesi, che di tempo in tempo si ritrove­ranno in tale stato, e nel giorno di tale solennità, siccome ne’ primi vespri del giorno antecedente, assistendo a detta cappella dell’ istituto con vicenda scambievole e secondo che fra di essi si determinerà ricercheranno anco pubblicamente col solito loro zelo, in detto istituto e vicinanza di quello, elemosine per il r i­scatto e quelle raccolte uniranno alla somma che da detta ed infrascritta cassetta in tal giorno si leveranno ; e verso la sera

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NOTE *59

di tale giorno di nuovo, uscendo processionalmente dall* istituto, piacerà loro di recitare il salmo M i s e r e r e e tre D e p r o f u n ­d i s con le L i t a n i e d e i S a n t i per l'anim a di detto signor conte Luigi, se sarà passata da questa all’ altra vita, e fino che venga una tale mancanza, per le anime de’ poveri schiavi cri­stiani bolognesi mancati sotto detta servitù.

“ II. L i denari, che dal signor camerlengo del Riscatto, con la presenza del signor priore prò tempore di detta archiconfra- ternita nel giorno di detto loro accesso e solennità saranno levati dalla detta cassetta, le di cui due chiavi si determina stiino una presso l’ illustrissimo signor senatore decano dell’ illustrissima assonteria dell’ istituto, 1* altra presso il signor presidente prò tempore del medesimo istituto, siccome le altre elemosine raccolte come sopra, si dovranno depositare dal suddetto signor camer­lengo sul sagro Monte di Pietà, per erogarle sempre con altre sul riscatto suddetto, con obbligo di darne giustificazione al signor presidente prò tempore di detto istituto, o signor secretano di quello, nè mai potransi convertire in altro uso o causa.

a III. L ’ esigenza di tali elemosine, siccome l’ accesso ed assistenza sopra convenuti, dovranno avere il suo principio nella solennità della Santissima Annunziata dell’ anno presente 1737, rimanendo in detta cassetta qualsiasi elemosina che anco per l’ avanti si fosse raccolta ; l’ altre elemosine, che si raccoglieranno nel prossimo giorno della Santissima Annunziata, le riporranno in detta cassetta, e le raccolte e da raccogliersi sino alla solennità della Beata Vergine Annunziata dell’ anno prossimo 1738 reste­ranno in detta cassetta per levarle da quella solo in detta solen­nità, e così poi sempre proseguire.

u Quae omnia etc. poena dupli etc. qua poena etc. refectio- nibus damnorum etc. obligationibus bonorum archiconfraternitatis tantum etc. pacto precarii etc. renunciationibus beneficiorum etc. iuramentis etc. etiam in animas etc. Tenor relationis et mandati procurae sequens est, videlicet

A questo punto incomincia il citato R a g g u a g l i o , al quale fa seguito prima della chiusa il verbale della riunione tenuta dai confratelli un dì innanzi, per udir leggere dal notaio la minuta dell’ atto presente e approvarlo.

La votazione segreta non fu unanime : 31 voti favorevoli e uno contrario.

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IÓO LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

Il testo del Ragguaglio che noi ripubblichiamo è stato per scrupolo confrontato con la minuta esistente nell' archivio nota­rile di Bologna, P. 9-2 a 41, protocollo n. 13, instrumenta n. 122 (1727) del notaio A . I. Pedretti, fase. 23, in pochi luoghi migliore della stampa.

18 R. bibl. univ. di Bologna, ms. 1044, 145, II; cfr. L o d o v ic o

F r a t i , Catalogo d ei m anoscritti d i L u ig i F erdinand o M o r sili conservati n ella biblioteca universitaria d i B ologna, Firenze, 1928, 133-4, estratto dalla B ib lio filia , volumi X X V II-X X X . Per inca­rico della r. accademia delle scienze dell’ istituto di Bologna, quando già era stata preparata questa pubblicazione, fu fornital 'A u tobiografia d i L u ig i B'e r d in a n d o M a r s i l i , m essa in luce nel l i collettario dalla m orte d i lu i d a l com itato m arsiliano a cura d i E m id io L o v a r i n i , Bologna, N. Zanichelli, 1930 ; v. pp. 42-64, e cfr. p. x i della N ota p relim inare.

18 [G i o v a n n i F a n t u z z i] , M em orie della vita del generale co. L u ig i F erdinan d o M a rsig li, Bologna, 1770, 306. Carte e avvisi di guerra a 2 bolognini l ’ uno si vendevano in gran numero allora per Bologna, come ne testimonia pure una stampa del 1684 di G. M. Mitelli, eh’ è nella sua raccolta del fondo Gozzadini nella bibl. dell’ archiginnasio ctf Bologna.

14 A n t o n io F r a n c e s c o G h i s e l l i , M em orie antiche m anuscritte d i Bologna, in r. bibl. univ. di Bologna, voi. 42, a. 1680, 623, passo riportato nella nota 28.

15 Si trova in un fascicolo di lettere trascritte, in piccola parte originali, e di appunti, che chiameremo Raccolta m ss. Fan- tu ssi, esistente presso la bibl. dell' archiginnasio.

16 Nel K riegarchiv di Vienna, H ofkriegrath 1685, Protokoll expedit, fol. 287, citato dal V e r e s s , op. cit., p. 88 e nn. 7 e 8.

17 C f r . C a m i l l o C o n t a r i n i , Istoria d elle g uerre d i Leopoldo p rim o im peradore e d ei p rin c ip i collegati contro i l turco dalV anno

1683 fin o a lla fin e , Venezia, 1710, I, 214-5.

18 M a r s i l i , A utobiografia cit., p. 44 ; e qui a p. 102.

19 R . bibliot. univ. di Bologna, mss. Marsili, voi. 53, cc. 109- 204. Alcune di queste lettere conservano ancora il sigillo di cera­lacca con la testa d’ un uomo barbato e laureato, o con lo stemma della famiglia Marsigli.

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NOTE l6 l

ao Ivi, C. 13 4.11 Ivi, cc. 125 6-137 a, cfr. cc. 202 «-203«.

** Ivi, cc. 1346-125/-», cfr. c. 3ot.

, s F a n t u z z i , M em orie c i t . , 375-7.

34 R accolta m ss. F a n tu zzi cit.

*8 E nel voi. 53, cc. 313-18, dei mss. Marsili e fu pubblicata in parte dal V e r e s s , G r o f M a rsig li A la jo s F erd in a n d je len tesci

es térképei B udavàr i6 8 4 -ió j6 - ik i, Budapest, 1907, 17-9.

*® G h i s e l l i cit., voi. 46, a. 1684, 337-8. La data dell’ arrivo del M arsigli a Bologna ci è confermata da un’ altra cronaca : N ic o l ò F a v a , D ia r io delle cose n ota b ili succedute nella città *

territorio d i B ologn a p rincipiando d a l/' anno 1644 3tno anno ryoo, ms. B, 33, p. 345, in bibl. dell’ archiginnasio: “ 6 maggio. Ieri sera giunse il signor conte Luigi Marsigli „.

17 Idem, voi. 43, a. 1680, 623 ; e voi. 66, a. 1704, 331-3 ; passi riportati nelle note seguenti 38 e 29.

*8 Idem, voi. 43, 621-3 : “ 23 novembre [1680]. L e lettere di V enezia portarono l’ avviso della morte colà seguita di Carlo Marsilii, che s’ era portato colà per vedere il figlio ritornato da Costantinopoli, ove era stato longamente schiavo in mano a quella barbara nazione, che senza considerarlo prigione di guerra co- in’ era, ne fecero strazio, avendoli non poco pregiudicato presso quella libidinosa canaglia la sua gioventù accompagnata da bel­lezza di corpo a segno che veniva riputato per uno de’ più bei giovani del suo tempo. Rovinatolo poi che I’ ebbero con le lasci­vie, lo maltrattarono con battiture alla turca e con tenerlo stret­tamente legato con funi così crudeli, che incarnatesi nelle sue membra le furono sempre lagrimevoli testimonii della sua dolo­rosissima schiavitudine.

u Non mi estendo di più su questo particolare, potendo il lettore averne intiera contezza da molte relazioni e stampate e manoscritte eh’ andarono attorno ; ed egli stesso portando, come ho detto, le marche della sventura in sè medesimo, basta per ogni più vera relazione „.

88 Idem, voi. 66, a. 1704, 172-3: • Questo signore è stato 7 anni in durissim a servitù carico di gravissim e catene in Turchia,

11

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LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

ove di lui i turchi fecero ogni strascio anche vituperoso E a pp. 321-3 : u L a prigionia che provò per tanto tempo in mano de’ turchi che fecero del suo corpo e di lui ogni strascio anche più abominevole, quella che provò in mano a’ tartari, le ritorte delle quali lasciarono nel suo corpo segni indelebili della cru­deltà di quei barbari, le numerose cicatrici che tuttora conserva nelle proprie membra, marche incancellabili del suo valore, 1* applicazione indefessa con la quale procurò i vantaggi del- 1’ imperio nel disporre i confini col turco, opera che altrettanto fu a lui di pena e di travaglio, quanto d’ augumento e di van­taggio all’ istesso Cesare „.

80 Idem, voi. 55, a. 1693, 57-8 : “ A ’ dì 17 detto [febbraio]. L e lettere di Vienna portarono avviso come l’ imperatore aveva conferito al conte Luigi Marsilii nostro bolognese un reggimento di cavalleria, detto il reggimento Beck, premio delle tante fatiche e patimenti fatti in servizio di Sua Maestà Imperiale, particolar­mente nella dura, crudele e barbara prigionia che sofferse in mano a’ turchi che se ne servirono in usi i più abominevoli, con tanta barbarie che lo rovinarono a tal segno, che in quelle parti non aveva più ritegno alcuno, avendolo spietatamente aperto ; oltre poi i longhi e continui v iaggi fattili fare da Costantinopoli a Vienna e da Vienna a Costantinopoli, in Olanda et altrove, a segno che se ne servivano i tedeschi ancora come per postiglione, con pensiero forse di perderlo, odiando naturalmente quella nazione tutti gli italiani che s’ impiegano in servizio dell’ impe­ratore, per dobbio che non li levino 1’ utile e non faccino aprir gli occhi e vedersi mal serviti da’ loro „.

al Q u i n c y cit., II, 189. Fra quella settantina di lettere di Prospero Lambertini che si conservano nell’ archivio Bevilacqua ve n’ ha una, datata da Roma, 29 dicembre 1625, dove il buono e grande amico rispondeva al M arsigli ancora afflitto da quelle voci maligne, con queste parole : “ E perchè nel fine della sua lettera V ostra Eccellenza rinnova la memoria della consaputa calunnia d ’ aver E lla abbandonata la nostra santa religione, Le dirò che tempo fa, discorrendo con un padre della Mercede, che è uno di quelli che si chiamano Redentori, per andare in per­sona a riscattare i poveri schiavi, questo, in discorso dandomi altre notizie, mi disse che un cameriere senese di casa Marsilii, che da molti anni era schiavo, non avendo più coraggio di resi­

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NOTE

stere ai stenti, aveva finalmente apostatato, e da questo fatto avrà certamente avuto origine la sopraddetta calunnia „.

•* G h i s e l u cit., voi. 3q, a. 16 79, 8 26 -7: " A ' dì 8 novembre. Ritrovandosi il senatore conte Agostino Marsilli fuori di Bologna per la causa già narrata d eir abate Grati, venne avviso esserle stata mandata una scatola ben chiusa e legata ; la quale non poca impressione fece in lui, non sapendo che si pensare, tanto più ritrovandosi nel presente stato d'inim icizia. Tuttavia senten­dola leggiera, a segno da non poter credere vi fossero canne o altro ordegno simile, armatosi di preservativi e controveleni et altro, risolse aprirla, come fece ; e vi trovò essere un ritratto... (seguono le parole riportate nella Prefazione). Questo Luigi fu figliuolo di Carlo Marsili, il quale andato alcuni mesi innanzi a Venezia, si portò col bailo in Costantinopoli, come altrove dices­simo. Era questi un giovine bizzarro, ma non bravo, che dava piuttosto nel glorioso, onde fu creduto, eh' essendo in Venezia fatto conoscere di simili qualità, dasse motivo a questo trovato ; e molti lo pensarono proveniente dal barone de' T assis. Ma di questo giovine cavaliere averemo molte occasioni di discorrerne altrove „.

*• G h i s e l l i cit., voi. 44, a. 1682, 21 : * nell* emergenza de' contrabbandi non sparagnò alcun pericolo, esponendo anche la propria vita per servigio del bailo Chi voglia informazioni maggiori sul grave incidente, oltre rivolgersi alle narrazioni dei noti storici, troverà molto in Stato m ilita re d e ll’ im pero ottomano, increm ento e decremento del m edesim o, del signore di M a r s i g l i

d ell'a ca d em ia reale delle scienze d i P a r ig i e d i M onpelieri e della società reale d i L on d ra , fo n d a to re dell*instituto d i B ologna, opera ornata d i tavole tagliate in rame, in Haya, 1732, I, 164-70.

84 Ivi, voi. 44, a. 1683, 547-8. L a storia di questo schiavo va da p. 538 a p. 556.

88 R . archivio di stato di Bologna, Enti autonomi, Opera pia del riscatto degli schiavi, Rinfuse, Tomo IV , n.° 4 ; trascritta nel L ib ro delle congregazioni et a ltro d ell’ archicon fratem ita d i S . M aria della N eve, ió - f j- ió g } , c. 30 a ; con l ' indirizzo : “ Al Signor Priore della Illustre Reverenda Compagnia del Riscatto (Bologna) „.

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164 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

“ Molto Illustre Signore Osservandissimo

“ Se ai passatempi mondani e alle felicità che godo nella mia presente dimora in Costantinopoli potessi aggiungere il me­rito di servire a Dio e a Vostra Signoria e a tutta la sua Illustre Reverenda Compagnia con il riscatto di qualche schiavo, stimarei molto fortunato questo mio viaggio di Costantinopoli ; dove si vedono i poveri cristiani con catene, vilipesi e maltrattati più che cani : aspetto che intenerisce ogni fedel cristiano e maggior­mente quando si v i presentono paesani, parenti di persone a voi cognite, come a me è occorso nella persona di Giovanni Maria, schiavo su la galera del bei di Scio e fratello materno del signor don Antonio Maria Buari dalla Barigella, che con generosa offerta concorre a questa opera di pietà ; che per effettuarla non avrà forsi altro ostacolo che la somma grande del danaro, che ricercono, ascendendo a 500 reali, che si procurerà diminuire, quando Vostra Signoria per parte della sua Illustre Reverenda Compagnia dii 1* adito con un qualche generoso soccorso, affine di potere tutti unitamente insieme fare quest’ opera santa e levare dalle pene questo meschino.

u Per il che con ogni espressioni li raccomando ciò e li pro­metto che questo suo santo loco merita più facoltà di quello ha, affine di potere con più frequenza fare quest’ elemosine. E ciò solo lo conosce chi si trova dove sono io in ora, che certo ho concepito massima di soccorrere a questa sua Compagnia in ogn’ incontro, acciò massime nei paesani prima possi mostrare la sua pietà.

" A ltro paesano non ho ritrovato finora ; e caso avessero da questa parte alcun trattato, m’ avvisino, che procurarò portarli, a fine, e parimente li dirò che, se il denaro, puole essere mi mandino, per il detto non fosse sufficiente, procurarò d’ im­piegarlo in altro, se non bolognese, almeno papalino, o al più cristiano, acciò il denaro non venghi senza frutto. Solo li racordo la sollecitudine, che inelle risposte di questo spazio che farà la Serenissima Repubblica di Venezia, bisogna si facci conoscere, potendo esse partire di qui alla fine d* aprile, come a viva voce intenderanno anche da mio padre.

u Consideri Vostra Signoria, come tutta la Illustre Veneranda Compagnia, questo offizio come originato da zielo cristiano e dal

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NOTE

desiderio che tengo d’ effettuare i loro giusti desiderii, che da me all* occasioni saranno corrisposti con ogni operazione, godendo ancor io, in benemerito delle mie operazioni, che ella si contenti annoverarmi tra i loro confratelli, dei quali a parte e in generale sarò sempre, come di Vostra Signoria (alla quale dico che mi valerò della bona grazia dell* eccellentissimo bailo, tanto mio Signore, acciò m* avvantaggi fino al termine permissoli)

M Costantinopoli, li ao novembre 1679

affezionatissimo servitore Luigi Ferdinando Marsiglii

86 Ivi, sempre T . IV , n.* 4, con l’ indirizzo: “ L a Reverenda Compagnia del Riscatto (Bologna) „, è questa lettera :

" Molto Illustri Signori Colendissimi e Carissimi Fratelli

H Con quell’ affetto che ben è proprio all’ essere di fratello, devo venire a ringraziare tutte le Signorie loro dell’ aggrega­zione che a loro di mia persona hanno fatto, et assicurarli che in ogni loco e tempo oltre all’ unione spirituale sarò servo par­ziale di ciascheduno di loro Signori in particolare, come di tutta questa sì nobil* unione, che degnamente governa un’ opera di così segnalata pietà, che con tanto fervore ad un semplice motivo s ’ è fatto conoscere nell’ impegnarsi per la liberazione di Giovanni Maria Ghiselli nostro bolognese.

“ L* operato mio per tal suggetto e la disposizione di quanto desiderano e vogliono i loro statuti, lo sentiranno dal signor senatore Gozzadini, al qual diffusamente rispondo.

u Di novo ringraziandoli della carità fattali, non mancarò, benché alla carità loro sii superfluo, a sollecitarli al studio d ’ in­ventare mezzi proprii per accumular denaro e pregar i superiori a prestarli ogni assistenza per tal effettuazione, essendo una delle più gran opere di pietà, che mai i boni cristiani possine arricchire. E sono sicuro che sariano tutti del mio sentimento... (Segue il passo citato nella Prefazione].

u Preghino per ultimo le Signorie loro Dio e la Beata V e r­gine nostra. Con augurar felicità a ciascheduno di loro in parti­colare e in generale, ora di tutto cuore faccio con il desiderio quello che al mio ritorno di persona spero fare, che è d ’ abbrac­

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l66 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

ciarli et assicurarli, che per i rispetti divini e del mondo sono delle Signorie Loro Illustrissime

“ Costantinopoli, li 16 maggio 1680

affezionatissimo servitore e fratello Luigi Ferdinando Marsilii „.

87 Libro delle congr. cit., cc. 36 a, 37 a e 37 b.

88 G h i s e l l i cit., voi. 43, a. 1680, oltre la notizia di pp. 631-3,

riportata nella nota 38, a p. 640 c* è quest' altra : “ 3 dicembre. Fu portato a Bologna il cadavero di Carlo Marsili, morto, come si disse, a Venezia, ma nascosto e posto nella chiesa delle mo­nache del Corpus Domini e sepolto sotto al confessio, dove sta il confessore ad ascoltare le confessioni delle monache che vanno per la città, benché esso avesse nel suo testamento ordinato di essere seppellito a’ piedi della Beata Catarina.

u Che piaccia a Dio che l’ anima sua sia passata ben ricevuta nell’ altro mondo e non gli abbia dato fastidio le tante mercanzie che faceva in vita sua. A veva aperto in San Mamolo, contiguo alla sua casa, un negozio d ’ acquavite, tabacco etc. ; e si videro alla posta più lettere con la soprascritta : Al Signor Carlo Mar- silli, mercante d* acquavita in San Mamolo „.

89 R. arch. di stato di Bologna, 1. cit., Rinfuse, T . IV , n. 4.

40 Libro delle congr. cit., c. 46 a .

41 Rinfuse, 1. cit. L a lettera, senza indirizzo, è questa :

“ Molt* Illustre Signore Osservandissim o

u La congiontura favorevole di poter servire all’ Arciconfra- ternita nostra, della quale n’ è degnamente Priore, mi dà adito d’ essere a riverirli tutti comunicandoli [a] Vostra Signoria che starò attendendo un’ informazione esatta di quanto puoi occorrere a benefizio delle nostre indulgenze; mentre dalla Santità d i Nostro Signore, narrandogli le miserie de’ schiavi e l ’ attenzione della nostra Arciconfraternita di Bologna in sollevarli per quanto puole, ebbi ordine di cercare la spedizione del giusto premio dell* indulgenze, quando non vi fosse stata cosa contravvenente ai buoni riti, restandovi solo, per effettuare il concordato con il segretario della Congregazione dell’ Indulgenze, 1’ avere la d esi­derata informazione per scrivere al Cardinal Arcivescovo e far

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NOTE

ogn’ altra cosa necessaria. Sia Vostra Signoria, di grazia, solle­cita a spedire il richiesto, mentre sono spinto alla partenza per passar poi in Alemagna, per goder i frutti della beneficenza di Nostro Signore, che in forma sì distinta nella mia persona, a secondare la vocazione, s ’ è fatta conoscere, di soldato. Facci pregare Iddio per me da’ nostri fratelli, acciò con la vita e la salute possi incontrare occasione di farli conoscere con gli effetti che sono di tutti li Signori fratelli, come di Vostra Signoria

u Roma, li 13 agosto 1681

affezionatissimo servitore Luigi Ferdinando Marsiglii „.

43 G h i s e l l i cit., voi. 43, a. 1681, 437.

48 Ivi, 462.

44 Idem, voi. 44, a. 1682, 372.

45 L ibro delle congr. cit., c. 62.

46 Ivi, c. 72 a.

47 R . arch. di stato di Bologna, 1. cit., Rinfuse, T . I, mazzo 3, Lettere d i d iv ersi circa la liberazione d i schiavi, d a l 1604 a l 17 12 .

48 Libro delle congr. cit., c. 76.

49 Ivi, cc. 77-8, 15 e 24 giugno ; Lettere d i d iversi dal i ó j i a l 1683, mazzo 4, 7 e 17 giugno.

80 L ib ro delle congr. cit., c. 81.

81 Ivi, c. 82 a ; Lettere d i d iversi cit., mazzo 4 ; G h is e l l i

cit., voi. 44, a. 1683, 528-56.

88 G h i s e l l i , ivi, 554.

88 Ivi, 598.

84 In M a r s i l i , Stato m ilitare d e ll’ impero ottomano cit., alla pagina X della Parte Prima, 1’ autore riassume in breve la sua prigionia; poi c ’ è da vedere nella Parte Seconda, dove a pp. 49-50 si legge la “ Espiegazione della Tavola X V I, cioè del passaggio a nuoto che si fece da’ tartari nel fondo canale eh’ è fra il lago detto Naiasiller et l’ isola di Rheba, nel quale l’ autore era pure schiavo strascinato „ . La rappresentazione è qui più complessa

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168 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

e varia che quella del capopagina del Ragguaglio, che pare ispirato da questo passo : “ 1* abilità dei tartari ed abituazione a passar le acque nella guisa descritta è meravigliosa, atteso­ché un sol tartaro in camicia, disteso sul dorso del suo cavallo, col fischio e frusta farà passare a nuoto venti cavalli ed altri armenti sciolti „ ; e da quest’ altro : * ciascuno conducea uno schiavo che si riteneva alla coda del cavallo con le gambe ran­nicchiate ; nella qual forma passò 1’ autore

Riporto poi questo tratto (da p. 47), che aggiunge più che ripetere osservazioni del M arsigli fatte in quei terribili giorni. Hanno que’ tartari loro zattera “ o ponticello volante fatto di fasci di arundini palustri o altr’ erbe legate... che attaccano alla coda del cavallo, col nome di saldau-sal, sopra de’ quali pongono i loro vestiti cattivi, arco, freccie e sciabola, che galleggiando mantengono quelli quasi asciutti, e col benefizio di simili fascetti, che sulle spalle legano a ’ poveri schiavi, obbligano essi a pas­sare le acque, imponendo loro tenere con ambe le mani la coda del cavallo e le gambe ritirate : che fu quello convenne a me sostenere a quattro passaggi delle acque de’ canali, che fa il lago di Neisiden, dove formasi il fiume Ramniz, che veggonsi nella T a v. X V I, e senza neppur l’ aiuto della descritta fascina, non ostanti le duplicate gravi ferite che avevo.

“ E questi passaggi erano per verità uno spettacolo delle miserie de’ cristiani, perchè chi lasciava la coda de’ cavalli avea per pena il sommergersi, e chi fosse stato renitente a mettersi a sì fatto cimento, su la riva erano tartari con la sciabola nuda pronti a decapitare „.

Nelle pp. 119-124 della stessa parte dell’ opera si racconta e descrive 1’ assedio di Vienna come egli lo vide dal campo turco, indi la fuga, della quale basterà per il suo caso particolare rileg­gere questo tratto : “ L a mattina del dì veniente per tutto il corpo dell’ esercito turco si sentiva gridare g i a u r - j a c h i n d e r , cioè gl’ infedeli sono vicini, e gran numero della milizia, che dovea pensare alla difesa del campo, cominciò a porre in sac- coccie di pelle quel poco di migliore che aveva, per metterlo sul suo cavallo, presagio di quella fuga che poi seguì. Io, che stava accampato alla dirittura della Porta del Soten, vedeva i turchi che co’ loro turbanti coprivano la falda del monte, come di bianco tappeto, vedeva, dissi, che ascendevano, ma con un moto sempre ondeggiante, poco avanzandosi e ritirandosi poco ; quando ecco

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NOTE

improvvisamente cominciarono a fuggire a migliaia e molti anche de jenizzeri dalle trincere, da dove vedevano 1’ incostanza de’ defensori, che precipitosamente si diedero alla fuga, senza più entrare nel campo.

u Io, contento di veder libera Vienna, fui da quel turco, di cui ero schiavo, sciolto dal palo a cui mi aveva legato e costretto a fuggir con esso a piedi nudi per le vigne e, non potendo resi­stere a tal viaggio più lungamente, fui per sollievo posto sopra uno scheletro di cavallo che si trovò per la marcia abbandonato, e sull’ ore ventitré perdetti la vista di Vienna.

u Tutta la notte col favor della luna si marciò, trovandosi il dì al fiume Laita ; e senza punto arrestarsi, si pensò a riunire le truppe fuggitive dopo del mezzogiorno. Fra i stenti della mol­titudine de’ fuggitivi passammo i ponti del Raab, essendo io consolato per aver nella marcia visto 1’ orgoglioso visir fuggitivo con 1’ occhio destro bendato, e vilipeso da tutti.

“ Passato il fiume Raab, cominciò ivi 1’ esercito ad accam­parsi, non già più con le tende, poiché ve n’ era sol una di quella forma e grandezza che descrissi per i soldati a cavallo, che servì allora per il visir.

“ Nel dì venente verso il mezzogiorno si sparse una falsa voce, che l’ armata imperiale fosse a vista, ed ecco qui nuova fuga, a cui risolvette il v isir porre rimedio con lo spedir più mila cavalli scelti e sicuri, che obbligassero i fuggitivi al ritorno, con ordine che decapitassero gl’ inubbidienti ; dimodoché si ve­deva in quelle aperte campagne una battaglia fra loro.

“ Intanto, dopo aver egli fatto decapitare avanti la sua tendail detto Ibraim passà, a cui attribuiva tale sconfitta, fece disporre T esercito, che ivi potè riammassare, nell’ ordine di battaglia solito a’ turchi, passando i tartari più avanti verso il fiume e dietro la cavalleria de* passà e della Porta, e lui in mezzo della fanteria addietro su la pendenza della collina delle vigne opposte alla fortezza di Giavarino „.

Anche nel trattatello sul caffè, pubblicato a Vienna nel 1685 e dedicato al nunzio pontificio, vi fa menzione della schiavitù, quando comprato dal pascià di Tem isvar * dovetti — egli narra — per molti giorni in una fumicata tenda esercitare 1* arte di cuoco del cavé, non solo per la quantità necessaria all’ uso della sua domestica corte, ma anche per quello bisognava a tener fornita una bottega che si potrebbe equiparare a un’ osteria delle

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170 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

nostre : impiego che m’ ha erudito nell’ arte di preparare il cavè, d ’ osservarne molti effetti ; e che m’ ha data la vita, mentre con questo mezzo m’ ero fatto conoscente di quei bosnacchi che mi comprorono in quel tempo appunto dovevo soccumbere al prepa­ratomi colpo della sabla in pena della fuga tentai „ (Bevanda asiatica, brindata a ll ’ em inentissim o B o n v isi, n unzio apostolico appresso la m aestà dell‘ im peratore, da L u i g i F e r d in a n d o co. M a r s i g l i . Che narra V /tintoria m edica del cave, Vienna d ’ A u ­stria, Appresso Gio : Van Ghellen, 1685, 8, cfr. 38-40).

Qui troviamo pure descritta quella bevanda ozaff, che lo con­solava nel misero esilio di Bosnia (p. ai) : “ et ancora [i turchi] praticano di bevere quell’ acque, dentro delle quali hanno fatto bollire o il cibibo o l’ uva passa o altri frutti secchi, come peri, brugne : bevanda molto più fam igliare nelle provincie della Servia e Bosnia, così abbondante di brugne, frutto che con la sua sostanza e con il sapore dava quell’ acqua in cui era bollito e con quel spirito che era tirato a forza di fuoco in un lambicco, in forma eguale di quello si facci 1’ acquavita, restorava la debolezza del mio corpo afflitto dalle miserie della schiavitù, che in tal paese m’ era dolorosa per la mancanza di cibo e bevanda “ .

65 A utobiografia cit., 62 ; e qui a p. 131.

66 G h i s e l l i cit., voi. 46, a. 1684, 167-70. L ’ annunzio del fatto trovasi pure in altra cronaca ristretto in poche righe : “ 26 aprile 1684. Le lettere di Venezia recano avviso come una feluca arri­vata da Spalatro abbia condotto in queste parti il signor conte Luigi Marsigli, figlio del fu signor Carlo. Questi ritrovandosi nel militare impiego appresso la maestà dell’ imperadore Leopoldo fu nel passaggio del Raab preso e fatto prigioniere de’ tartari e venduto a’ turchi in tempo eh’ era spedito come ingegnere a fortificare le ripe di detto fiume. Dopo dieci e più mesi di penosa schiavitù si è poi riscattato col prezzo di 600 zecchini „ (F a v a

cit., 344).

67 [F r a n c e s c o M a r i a Z a n o t t i], D e bononiensi scientiarum et artium instituto atque academ ia com m entarii, Bononiae, 1745, T . I, Pars I, p. 6.

48 A utobiografia cit., 57, e qui a pp. 133-4 ; cfr. R agguaglio,78-9.

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NOTE

59 V . p. e . M a r s i g l i , Stato m ilitare dell‘ impero ottomano cit., I, 16.

«° A rch. Bevilacqua, 1. cit., mazzo 3. Questa lettera porta segnato per errore 1’ anno 1684 invece del 1704 ; ma v i si parla dell’ affare di Breisach.

61 Ivi. Queste dichiarazioni del Marsigli, con ciò che ne scrisse il Ghiselli, servano a smentire quelli che per falsi ri­guardi verso parenti attribuirono loro in questa e in altra occa­sione meriti e sentimenti che per lui non ebbero mai ; cfr. G. P. Z a n o t t i cit., 118, 131, F a n t u z z i cit., 39 ecc.

68 L ib ro delle congregazioni cit., c. 87 a.

88 Ivi, c. 87 b.

84 G h i s e l l i c i t . , v o i . 46, a . 1684, p . 3 17 .

85 Q u i n c y c i t . , I , 165.

68 Idem, I, 127-8, 136, 148-51.

87 Idem, I, 162 e 165 ; cfr. S a lm i C X X III, 7 e C X V III, 61.

88 Ivi, nell’ Advertissem ent des éditeurs.

69 L ib ro cit., cc. 906-91«.

70 Ivi, c. 92 a,

71 R . arch. di stato in Bologna, 1. cit., Rinfuse, T . I, mazzo 8.

72 L ib ro cit., c. 92 b\ cfr. G h i s e l l i cit., voi. 46, a. 1684, 454.

78 Cod. 66, c. n.° 161. Un' altra carta molto più bella egli ci ha data della regione dove stette prigione in quell' orribile in­verno, che abbiamo voluto riprodurre a corredo di questa pub­blicazione, insieme con quella, non meno interessante, dell’ isola del Rabau, dove cadde nelle mani dei tartari, tratta da una che spiega tutta la difesa da lui fatta sul Raab 1’ anno 1683. Gli ori­ginali sono nel ms. Marsili 50, cc. 27 e 33. La seconda in formato più piccolo ritorna a c. 58, ed ha valore “ anche dal lato stret­tamente geografico „, v. G i u s e p p e B r u z z o , L u ig i Ferdinando M a r sili, n u ovi s tu d i su lla sua vita e su lle opere m inori edite ed

inedite, Bologna, 1921, p. 70 in n.

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172 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

74 F a n t u z z i , M em orie c i t . , 2 19-2 1 e 313 ; e q u i il R aggttaglio, p . 89-91.

78 Mss. Marsili cit., cod. 77, lett. 1.

76 F a n t u z z i , M em orie cit., p. 140 e n. 46, p. 2 79 e n. 2.

77 Mss. Marsili cit., cod. 53, pp. 254-5.

78 Ivi, cod. 70, n.° 4, cc. 74-80.

79 L ibro delle cottgr. 169J-170J ', c. 780.

80 Ivi, c. 79.

81 Ivi, cc. 87 a e 108 a.

88 Ivi, c. 118 b, 21 nov. 1702; c. 129 a, 18 nov. 1703; c. 132, 25 marzo 1704.

88 Ivi, c. 1x3 b.

84 L ib ro delle congr. 17 0 0 -17 15 : 10 aprile e 26 giugno 1712.

86 Arch. Bevilacqua, 1. cit.

86 Ivi.

87 Biblioteca dell’ archiginnasio in Bologna, ms. B. 4067, all’ a. 1726 ; cfr. A l b e r t o B a c c h i d e l l a L e g a , I l pittore Marco A n ton io F ra n ceschin i e /’ opera sua in B ologn a , Città di Castello, 1911, 64-5.

88 Arch. Bevilacqua, 1. cit., lett. 2 aprile 1727.

89 Libro delle congr. 17 2 5 -17 3 6 , alle date 9 febbraio, 2 e 25 marzo 1727.

90 Ivi. Queste cerimonie piuttosto rare possono svegliare an­cora qualche curiosità per la storia del costume. Il 21 marzo 1717 per la liberazione del bolognese Lazzaro Gaetano Vincenci, bimbi vestiti da angeli procedevano a due a due, portando 1’ uno le cartelle coi nomi dei riscattati dalla compagnia e l’ altro le catene dei medesimi ; 11 e del novo riscattato a Livorno uno teneva in mano la cartella, un altro li ferri da piedi, un altro un zeppo et altro la collana e la catena da collo, et in mezzo alli quattro angioli v i era „ lui. E qualche cosa di simile si vide il 15

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NOTE 173

agosto 1722 ; ma ceppo, catena da collo, balze da gambe, tutto era fatto di stucco.

91 A lcu n e lettere inedite del generale conte L u ig i Ferdinando

M o r sig li a l canonico L e lio T rio n fetti, Bologna, 1849, 23 n*

9* Pag. 234, n. 84.

98 V . qui a p. 84, cfr. pp. 81 e 83. Le catene degli altri schiavi liberati, con la Madonna che veneravasi in S. Maria della N eve, andarono a finire nella chiesa della Certosa; v. Descrizione d el cim itero d i B ologn a e della cam era m ortuaria in S . Rocco per l ’ anno 18 2 1 , s. d. t., p. 7 ; G io v a n n i Z e c c h i , D escrizione della

Certosa d i Bologna ora cim itero com unale, Bologna, 1828, p. X L V II, n. 76 ecc.

94 L ibro delle congr. cit., 13 nov. 1730.

95 A rch. di stato di Bologna, Assunteria dell’ istituto, Diver- sorum : dove è nota che dal 1726 al '30 il generale diede 30 lire annue in elemosina per gli schiavi.

96 V . qui a p. 92.

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T A V O L A

DEI NOMI PR O P R I E D’ A L T R O

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A b a f f i [Apafi] Michele, princ. di Transilvania66, 103

abituazione 71, 168 'c o n ­suetudine 5

Acciaioli [Acciaiuoli Nico­lò], card. 131

Acmet, v. Ahmet addirizzato 55 'indirizzato’ agà 80 e prefetto dei gian­

nizzeri 5 Agmet, v. Ahmet agucchie di legno 118 c pali

appuntiti *Ahmet [Ahmed], pascià di

Temesvàr 15, 67, 103, 109, 169

aiduchi 12 e militi unghe­resi *

Albaregale [ Stuhlweissen- burg, Székesfehérvàr]14, 142

alcorano 22 * Corano 5 Alemagna 27, 167 Algieri 90, 91 Almissa [Omis] 17

Altemburg [Ungarisch Al­tenburg, Magyar O’vàr], comit. 98, 105, 114, 143

Ancona 6Arnoltz 68, 69, cfr. Herl-

noltzArpas 13, 14, 143, 144 arundini palustri 168 'canne* Asia 110 Assan 44, 89Asvagn, Asvagnan [ Asva-

n y] 13. ' 4, 99. 100 Austria 8, 61, 64, 112, 142,

146, 170 avvocato 5 ' patrocinatore * Azzolini [ in origine Zolini

Francesco], marchese

39, 132

B abinacreta [ Babinagre- da] 119

Bacchi della Lega Alberto172

Badael, v. Budael Baden (principe di) Her-

manno 60, 134

13

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178 LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

bailaggio, bailo e ambascia­ta, ambasciatore e go­vernatore veneto in Co­stantinopoli ’

baiocco 34 'soldo dello stato pontificio’

bairamo [ bayram ] , ossia pasqua dei turchi 117

Baracano [Parcany] 117 Barigella 164Basadonna [Pietro], card. 27 bassà 31 ' pascià 5 Bassi Giuseppe 39; Marco

17, 78, 79, 80, 81, 82, 123, 124, 126, 128

Bastelli 15, 105; v. Gerillo Batthyàny Adamo 10, 100,

145; Cristoforo 12, 13, 31, 61, 62, 97, 100, 142, 145, 146, 147, 148

Bazzani Matteo 156 Beck, reggim. 21, 162 bei 23 f signore ’Bel Poggio 39, 132 Benedetto X IV , v. Lam­

bertiniBernaccowik, Bernacovitz,

Bernacowik Filippo 72, 76, 108, 119

Bevilacqua Lamberto, duca

15. 155 Bianconi Giovanni Giu­

seppe 51 Biasoni Pellegrino 158 bieglick [beglik] 68 'dom i­

nio, fisco’

Billi Agostino 48 bloccata 104 c blocco, as­

sedio ’bollo impresso nella rile­

gatura dei libri del Mar- si gli 93

Bologna 4, 5, 7, 19, 20, 22, 26, 28, 29, 30, 31, 35, 45, 47, 57, 78, 79, 84, 123, 151, 163, 165, 166,173

Boneri 15B011 visi [Francesco], card.

170 Bosforo 23Bosna (fiume e regione),

Bosnia 15, 16, 31, 32,

35, 7*. 72, 75, 78, 79, 82, 86, 89, 106, 108, 117, 119, 129, 170

Bosna Serai, v. Seraglio bosnacchi 71, 170, bosnesi

108 [bosnyàk ] bosniaci Brascoig, v. DraskoWics Bregenz 8, 21, 46 Breisach 171brìccole di legno 81, v. 128,

'stiappe’ , cfr. boi. bra­gia, braguel, ven. sbre- ghe, sbregariole

Brod [o Brood] 45, 75 Brosor Naisende Sianoza 15 Brot, v. Brod brugne 170 c prugne ’ Bruzzo Giuseppe 171 Buari Antonio Maria 164

Page 189: marsigli schiavitu' 1930

TAVOLA 179

Buda [Budin, Ofen] 18, 19, 69» 75, 104, n i , 116,117» 130, 142 , 1 5 1 ; B u -davàr 161

Budael, Budel [ Budhel, Bodehel, Bodohely, Pu- dahel ] 13, 61, 62, 100, 147

Budiani, v. Batthyàny busto 117 ebusta’

C a d ic e 90calibeati (purganti) 84 'p re­

parati con calibe, ac­ciaio ’

camerlengo 35 ' cassiere * Candia 67, 131 canino (appetito) 122 e da

lupo, rabbioso*Canissa, v. Katiissa canne 163 'arm e da fuoco* Capoar, v. Capovar capofoglio 65 (v. 55) 'c a ­

popagina ’Capovar, Caposvar [Kapu-

vàr] 61, 62, 101 Capellini G iovanni, mu­

seo zoologico 51 Caprara, reggim. 20; Ber­

nardo 16, 17, 79, 82; Francesco Carlo 31, 78; Olimpia, v. Nani

Carà Mehemet [Karà Meh- med], pascià 112; C. Mustafà [Karà M.] 59, 104, 114, 139, 140, 169

Caraffa [Carlo], card. 28 Cassovia [Kassa, Kaschau]

140Castone, v. Medici Castraferro[Eisenstadt,Kis-

Màrton], comit. 143 Catarina [de’ Vigri], beata

166cavalli di Frisia 143 't r a ­

vicelli con bastoni aguz­zi e punte di ferro per trinceramenti ’

cavè 169, 170 ' caffè ’ cendadi 31 'zendadi, fini

drappi di seta ’ cerca (fatta la) 18 'isp e­

zione ’Certosa 173Cherment [Kirment] 143 Cheso, Chesso, v. Keso chiaia 108 'tenente* Chinsim 141 Chio 23, 64cibibo 170 'sibib, zibibbo’ Civrani Pietro, bailo 15, 23,

3 *, 33, 34, 37, 76, 78, 83, 103, 109, 120, 123, 130

Clemente XI [Gian Fran­cesco Albani] 47

Comorra, v. Gomora Contarini Camillo 160 contribuire 97 ' fornire ’ Cordato, v. Mauro C. corpi maligni 12 ' i l con­

trario di ombre, di so­spetti maligni ’

Page 190: marsigli schiavitu' 1930

i 8 o LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

Corpus Domini (monache del) 26, 166

Cosimo, v. Medici Costa Emilio 156 Costantinopoli 21, 22, 23,

26, 28, 29, 34, 45, 46, 63, 70, 71, 78, 83, 86,87, 89, 103, 106, 109,123, 139» 161, 162, 163, 164, 165, 166

costituto 129 * atto d ’ in­chiesta, interrogazioni e risposte ’

Buono Francesco 158 Dalmazia, 80, 82, 129, 131 Danubio [Donau, Dunaj]

30, 68, 108, 117, 141 Darda 118Davia Giovanni Battista

e suo padre [Virginio] 44, 45

degma 63, turco : durma, 'a l t ! ’ , 'fe r m a ’

Delft 22Dell, v. Mustafà D. deta, deto 72, 80 'd iti,-o * ;

cfr. boi. did, dida, ven. deo

divertito 140 'distratto5 Dolfitii Andrea seniore 83 Donado, Donato Giovanni

Battista, bailo 29; Lo­renzo, generale, 82, 129

Dorano 91Dovaria, v. Zadvaria

Drascovig, Draskovig, Dra- skoviz [Draskowics] Ni­colò 11, 14, 97, 98, 99,142, 148

Dravo [Drava, Dràva, Drau] 75. “ 8, 119

Duare, v. Zadvaria ducati veneti 29 'monete d ’o­

ro, del valore di circa lire 7,38*

Durazzo [Durresi, Drac] 124 Duvar, v. Zadvaria Duvne [Duvno] 126

0ffendi 88 ' maestro, dot­tore di legge *

Eleonora [Maddalena di Pfalz Neuburg], impera­trice 134

emiro 87 ' signore ’Endese 147, 148 Ercolani [Alfonso], abate,

zio del Marsigli 3T esagerare 86,97,98 'esporre’ esclamando 82 ' rappor­

tando ’Esechina [di Eszék], pa­

lude 75 Eszék [Esseg, Osijek] 18,

19, 117, 118, 130

F a n tu zz i Giovanni 9, 15, 51, 160, 161, 171, 172

Fava Nicolò 161, 170 fave 59 'p allin e per vota­

zione ’

Page 191: marsigli schiavitu' 1930

TAVOLA 181

Federico 15, 71, 8o, 125, (Maulier) 32, nome finto del Marsigli

feluca 31, 170 'n a v e leg­giera ’

Ferrara 131 Ferrari Filippo 43 Fiandra 140 Filch [Fillek] 140 fior di pietra cotta 20, 64,

102 'polvere fina di p. c .’ Firenze 4, 52, 54, 132 firma del Marsigli 151 Fontenelle Bernard Le Bo-

vier 155 forzata 57 ' necessitata ’ Franceschini Marc’Antonio

7 , 47, >72 Francia 90, 91, 98, 123, 140 Frangipani [Francesco Cri­

stoforo] 138, 139 Frati Lodovico 160 fusta, - e 18, 130 ' naviglio

da remo, di basso bordo, da corseggiare ’

ga b b ion i 63, 106 'cesteper trinceramenti ’

galeotta, - e 17, 83, 130 'p ic ­cola galea’

Gelillo, v. Gerillo Genova 90G erillo 15, 43, 85, 105,

112, 113, 114, 127 Germania 20, 28 Gerusalemme 47

Ghiselli Antonio Francesco, cronista 8, a i, 22, 160, 161, 163, 166, 167, 170,171 ; Giovanni Maria, schiavo 23, 24, 26, 28,29, 42, 46, 164. 165

giannizzeri 73, i n , 169 'sol­dati a piedi, pretoriani turchi*

giaur-jachinder 168 rgl* in­fedeli sono vicini*

Giavarino, v. Györ Giuseppe d ’ Asburgo 9 Gomora, Gomorra [ Ko-

m àrom, Komorn] 14, 104, 141

Gozzadini Marco Antonio 24, 35, 41, 165; fondo G.160

Grandi Giacomo 20, 84, 130 Grati [Domenico], abate 163 Gratz [Graz] 143 Grimani Giovanni, bailo

43,85Györ 11, 14, 59, 66, 74. 99,

ioo, 102, 104, i n , 114, 115, 141, 142, 143, 144.169

H a l a [Hall] 133Hercolani, villa 39 Herlnoltz 110, cfr Arnoltz

Ibrahim , Ibraim, effendi 88; pascià di Buda 69, 74, 104, i n , 115, 169

Page 192: marsigli schiavitu' 1930

182 LA SCHIAVITÙ PEL MARSIGLI

Imberti Martino 45 individuare 8 9 'informare ’ Innocenzo X I [Benedetto

Odescalchi] 27 Innsbruck 42, 133 inspavoriti 13, cfr. boi. in-

spuréInspruk, v. Innsbruck Italia 5, 143

Javarino, v. Gyòr jenizzeri, v. giannizzeri

K a lem b e rg [Kahlenberg] 112

kam 59,118 [cane] 'signore’ Kanissa [Kanizsa, Kanit-

za] 97, 142 Karlowitz 45 Keso [KessoJ 11, 12, 143 Kiuperli [Ahmed Fazil Kò-

priilii 67

L a i t a [Leitha], fiume 169 Lambertini Prospero [Be­

nedetto X IV ] 5 sg., 22, 37, 48, 155, 162

Leopoldo I d ’ Asburgo, im­peratore 9, 59, 84, 130, 135, ecc.

Leopoldstat, Leopolstat [Li- pótvàr, Leopoldstadt] 104, 141

Lesina 16 Linguadoca 89

Linz, Lintz 84, 133 Livne [Livno] 129 Livorno 25, 172 Londra 163Lorena (duca di) Carlo 11,

18, 59, 61, 98, 99, 102,117, 118, 130, 133, 142, 144, 145, 146, 149, 150

Loreto (Santa Casa di) 4,84, 132

Lovarini Emilio 160 Luigi X IV 44, 91, 140

IVIacarsca, Magarsca Ma- gasca [Makarska] 15, 16, 78, 79, 80, 81, 123, 124, 128

Maddalena (chiesa della) 49 Magarsca, v. Macarsca maneggiandomi 83 ' moven­

domi liberamente’ Maometto [Mehmed] iv 59 mappe: I. dell’ isola del

Rabau 94-95, 171; II. della regione di Rama 43, 134 5, 171

Marchi (casa del) 18; Car-

lo 43Marescotti Riniero 31 Marsigli, Marsili, Marsilii,

Marsilli Agostino 22,163 ; Antonio Felice 31, 46; [Carlo Francesco] 26, 158, 161, 163, 166, 170; Filippo 20, 33, 44

Marsiglia, 44, 89, 90

Page 193: marsigli schiavitu' 1930

TAVOLA

Martinsberg [Märtonhegy]

” 5Marzal [Marczal] 13 Maulier, v. Federico Mauro Cordato [Alessandro

Scarlatti Maurocordato] 70

Medici (de) Castone [Gio­vanni Gastone], Cosmo [Cosimo Ili], Ferdinan­do 132

Mehemet, v. Carà M. mentre c inquantochè * Milano 8Mitelli Gioseffo Maria, di­

segnatore 160 Monari Romeo 155 Monpelieri [M ontpellier]

163Montmorì 44Moravia [Mähren, Morava]

104, 142 morlacchi, - cco 16, 17, 80,

81, 86, 124, 126, 128, 129, 131 c slavi della monta­gna, slavi rustici in Dal­mazia *

Morosini [Francesco] 67 motta 62 'eminenza di ter­

reno 5 Mousselon 44Mozzati, Mozzato Antonio

15, <7, 78, 79. 82, 123,124, 126, 128, 129

Mustafà Dell, bei di Scio 23

N a d a sti, v, Nàdasdy Nàdasdy Francesco [ iv,

la cui sorella Elisabetta Cristina sposò Niklas Draskowics] 98,138, 139, 149; Stefano n

Naihesel, v. Neiihausel Naiasiller, v. Naisidler Naiassel, v. Neiihausel Naisende, v. Brosor Naisidler [Neusiedler See,

Neusiedl, Nezsider, Fer- tò Tava], lago 63, 65, 167, 168

Nani Caprara Olimpia 28 Neisiden, v. Neisidler Neiihausel [Neuhaiisel, Ér-

sekujvàr, Nove Zamky] 59, 98, 142

O la n d a 162Oltenberg, v. Ungaris O. Omer spai, spei, spelli 15,

43, 85, 87, 106, 108, 112, 116, 120, 123, 124, 125, 129

Osek, v. Eszék Ottoboni [Pietro Vito, Ales­

sandro V ili] , card. 27 ozaff I2i, 170 'bevanda di

frutta cotte5

P alatin o 139 ' principe d ’ Ungheria ’

Papa [Papa] 11, 61, 100

Page 194: marsigli schiavitu' 1930

184 LA SCHIAVITÙ DEL RIARSIGLI

paragone (bello a) 15 Parigi 78, 163 partite 13, 150 'sch iere ’ passà ' pascià ’Passau 31Pedretti Agostino Ignazio

156, 160 peotta 17, 79 'barca di me­

diocre grandezza* peri 170 'p e r e ’ persiche 121 'p e s c h e 9 Perugia 46Petervaradino [Petrovarin,

Peterwardein, Pètervà- rad] 44

pezze 67, 72, 89 're a li ’ pilào 112 eriso asciutto con

pezzi di montone ’ pilato (frumento) 109 ' bril­

lato ’Poggi, palazzo 4 polizza 34, 38 ' biglietto

d ’ invito 9 Polonia (re di) [Giovanni So-

bieski] i n , 129; regina, moglie del Duca di Lo­rena [Eleonora d ’ Au­stria, vedova di re Mi­chele W isniowiecki] 133; figlio del re, [Giacomo]82, 86

Ponsartren, v. Pontchartrain Pontchartrain [Louis Phély-

peaux] 44, 91 ponticello volante 168 e zat­

tera 5

portatura 33 ' portamento ’ Possega [PozsegaJ 75 Possonia [Pozsony, Press-

burg, Bratislava] r4i,142, 146

prefate 31 predette presentanea 157 'sem pre

presente ’Principe (mare del) 17 *m.

della dominante’ ? Priuli, conte 129 Provenza 67, 89 Puglia 23

C^uincy [Charles Herbert]36, 155, 162, 171

R a a b [Ràba, Arrabo] 11, 3°, 31» 59, 60, 61, 66, 74, 97, 98, 99, I02, io4, 115, 116, 141, 142, 157, 169, 170, 171

Rab, v. Raab Rabachos, Rabao, isola 11,

12, 14, 60, 61, 99, 100,143, 167, 171

Rabatta [Rodolfo], genera­le 98

Rabau, v. Rabachos Rabdniz, Rabniz, Rabniza

[Rabnitz, Repcze] 65, 74, 104, 115, 168

Radobilia [Radobiglia] 16 Rama, Ramma 43, 76, 77,

84, 85, 120 Ramniz, v. Rabdniz

Page 195: marsigli schiavitu' 1930

TAVOLA

rancinate (le gambe) 65, cfr. rannicchiate, ritirate 168; cfr. boi. arancinar, ven. ranzignar, D a n t e ,

/w/., x v i, 136: da pie’ si rattrappa

Ranucci, Ranuzzi [Angelo Maria], nunzio pontificio 78, 123

rasciani, raziani 75, 109 ' soldatesche di serbi emigrati *

reali 29, 71, 76, 87, 89 'moneta spicciola di Spa­gna, ventesima parte del­la piastra’

Reno [Rhein] 139, 140 Rheba, v. Rabachos riferto 132 'confidato, ri­

ferito *Riva (zoppo di casa) 67 rocca 85 ' roccia ’Rocchi Francesco 51, 52 Roma 6, 27, 30, 46, 162, 167 ruspi (zecchini) 31 'ruvidi,

fior di conio*

S a b a ti 125, 126, 127 sabla, v. sciabla Salaroli Carlo 48 saldau - sai 168 Salm [Leopoldo Filippo],

principe 9 San Beld [Sankt Pòlten] 112 San Donato (strada di) 49 San Gherardo 117

San Gottardo [Sankt Got- thard, Szent G.] 143

San Mamolo, via 166 San Marco(campanile di)83 San Rocco, chiesa 173 Santa Maria [Puerto de S.

Maria nella Bahia de Cadiz] 90

Sarvar [Sàrvàr] 13, 143 Savo [Sava, Sau] 75, 119 Savoia (cavaliere di) [Lu­

dovico] 60 ; principe Eu­genio 60

sbari,-062, 101, 117 'spari* scala 82 ' scalo ’ scarlatto 31 'panno tinto in

rosso9 schiavine 77 'coperte’ Schiavonia 75, 119 Schotten (porta del) 69,

105, 168 Schutt[Schfitt], isola 141,142 sciabla 22, 64, 65, 73, 170

'sciabola*Scio, v. Cliio Sdrino [Pietro Zrinyi] 138,

139 Sebenico 87sedia volante 98 'biroccino* Segna [Sing, Sinj] 90 sentinelle morte 69, 107 's .

nascoste nei posti avan­zati più pericolosi*

Seraglio, Serraglio [Sera- jevo] 72, 76, 78, 82, 108, 119, 129

Page 196: marsigli schiavitu' 1930

LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI

Servia 170Sette Torri [Heptapurgon,

Yési-koulé], carcere 70 Sianoza, v. Brcsor sigillo del Marsigli 134 Skerino, v. Sdrino Slesia [Schlesien] 142 soggezione 34 e aggravio’ Sopronia, - io [Soprony, Oe-

denburg] 103, 143 Soranzo Lorenzo, bailo 45,

130Soten, Sotten, v. Schotten Spagna (re di) [Carlo II] 104 spai [spahi] 15, 16 'soldato

a cavallo 9 Spalato, Spalatro 15, 29, 31,

7 6 , 7 7 , 7 8 . 7 9 , 8 2 , 8 7 ,123, 124, 170

spei, spelli, v. spai Spinola Gaetano 41 spranata 107 'spianata’ Starnarmi Giuseppe 158 Stiria [Steiermark] 142 Strigonia [G ran, Eszter-

gom ] 98, 116 struito 115 'istru tto5 Studenza [Studence] 126,

128sultanino 67 'm oneta d ’ oro

turchesca9

tartari, come passano i fiumi 55, 65-66, 167-8

Tassi, Tassis, barone 129, 163

tefterdar 103 'ufficiale del­l ’ erario, questore, teso­riere dell’ impero’

Tekeli, Tekli, v. Thököly Temesvar, Temeswar, Te-

misvar, Temiswar [Te­meswar, Temesvar, T i­misoara] 15, 30, 103, 109, 169

Thököly [Emerico] 11, 12, 14, 59, 61, 62, 99, 139, 140; il padre [Stefano]138

timarro 87, 88, 89 'ben e­ficio militare, specie di feudo9

Tintibal, Tipental [Diepen- thal], reggini. 60, 98

T ra n s ilv a n ia [Siebenbür­ger, Erdely Oyzag] 66,67, 103, 138, 139

Trasburg [Strassburg] 60 trasversali 29, 53 'straor­

dinarie, eccezionali*T renchin [T rencsen, T renc-

szyn, Trentschin], forte 141

Trionfetti Lelio 173 Turchia 30, 68, 82, 125, 161

U n g a r i d ’ oro 104 'm one­ta simile allo zecchino*

Ungaria, v. Ungheria Ungaris Oltenberg, Unga-

ris Oltenburg, v. Al- temburg

Page 197: marsigli schiavitu' 1930

TAVOLA 187

Ungheria 4, 15, 45, 6o, 61, 104, »23. *38, 140

V ag, Vagh [Vàg, Vàh,W aag] 141, 142

Vaneich Giusto, Vanik Gio­vanni 66, 123

Venerabile 77 eil SS. Sa­cramento dell’ altare’

Venezia 15, 18, 19, 20, 25, 26, 29, 35, 71, 72, 76, 78, 83, 103, 109, 117,118, 122, 123, 124, 129, 130, 161, 163, 164, 166,170

Veress Andrea 3, 155, 160,161

Vesprino [Veszprém] 12, 74 Vienna 14, 18, 21, 30, 31,

34, 58, 61, 66, 67, 68, 72, 73, 74, 78, 84, 86,

88, 99, 104, 105, 109, i n , 118, 119, 133, 142, 151, 162, 168, 169, 170

Vincenzi Lazzaro Gaetano172

125, 126, 127, 128, 131 zamberlucco di panno 82

'veste lunga e larga, con maniche e cappuccio’

Zamboni (via) 4 Zanotti Francesco Maria

3, 32, 170; Giampietro

155, 171Zara 82, 129 Zecchi Giovanni 173 ziametto 89 e feudo e ren­

dita militare » zucco di cappello 64 'c o ­

cuzzolo ’

Page 198: marsigli schiavitu' 1930
Page 199: marsigli schiavitu' 1930

I N D I C E

Page 200: marsigli schiavitu' 1930
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P r e f a z i o n e .........................................................................

(Pregi del R a g g u a g l i o del M arsigli 3; suo culto della V ergine e la cappella dedicatale 4. Am icizia, lodi e aiuti di monsignor Lamber­tini 5. L ’ A u t o b i o g r a f i a e il M e m o r i a l e al principe G iuseppe 8. Documenti della vigilia della cattura 10, lettere al duca di Lorena 12. Carta d’ obbligazione coi fratelli bosniaci e let­tere di Antonio Mozzato 15. La prima lettera del M arsigli al duca di Lorena, dopo la libera­zione 18. Suo stato di salute 19; una turpe malignazione 21 ; le calunnie di apostasia 22. Lo schiavo Ghiselli al bailaggio veneto 23 ; in­teressamento del M arsigli presso l’ arciconfra- ternita del Riscatto 24. Tentativo diplomatico del M. e ciarle che se ne fanno 27. Ghiselli liberato e M arsigli disperso 29. Notizie della sua prigionia 31; Civrani e i fratelli Marsigli 33; esposizione del Santissimo 34. Ritorno; visite a casa M arsigli 35 ; festa all’ arciconfrater- nita 39. L ’ incontro coi fratelli bosniaci 43 e col gigante A ssan 44. Ricerche di schiavi da libe­rare 45; memoriale e convenzioni per la cap­pella dell’ istituto 46. L e catene del Marsigli 50. Dopo morto 56)

R a g g u a g l i o d e l l a s c h i a v i t ù . . . .

E s t r a t t o d a l l ’ a u t o b i o g r a f i a . . .

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M e m o r i a l e a l p r i n c i p e G i u s e p p e . „ 135

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INDICE

N o t e a l l a p r e f a z i o n e ........................................Pag. 153

(Convenzioni premesse al Ragguaglio pp. 156-60, n. 11. Sevizie e turpitudini turche 161-2, nn. 28-30. Calunnie di apostasia 162-3, nn. 31-2. Let­tere del M arsigli all’ arciconfraternita 163-7, nn. 35-6, 41. Il padre del M arsigli mercante d’ acquavita e tabacco 166, n. 38. Come i tar­tari passano i fiumi 167-8, n. 54; la fuga da Vienna 168-9; M arsigli alla torrefazione e me­scita del caffè 169-70 ; la bevanda ozaff 170. Ca­tene e insegne di schiavi redenti 172-3, nn. 90

e 93)

T a v o l a d e i n o m i p r o p r i e d ’ a l t r o . . „ 175

!. S. A.B IB L IO T E C A

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