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233 ISTRUZIONE, CRESCITA E DEMOCRAZIA: LE TEORIE DELLE COMPLESSE RELAZIONI di Lisa Grazzini 1. Introduzione Due temi centrali non solo nell’ambito del recente dibattito economico ma anche politico riguardano gli strumenti che potrebbero essere utilizzati per stimolare la crescita e promuovere la democrazia. Tra i possibili stru- menti, la letteratura economica ha sottolineato il ruolo che può essere svolto dall’istruzione e, a questo proposito, ha elaborato due diversi approcci: l’in- stitutional view e la development view. Secondo l’institutional view, sono le istituzioni politiche, e quindi la presenza di una democrazia, che possono fungere da motore per la crescita economica. In particolare, la presenza di un ordinamento politico democratico permetterebbe di garantire i diritti di proprietà, favorendo quindi gli investimenti sia in capitale fisico che umano, i quali a loro volta stimolerebbero la crescita economica. Secondo la devel- opment view, invece, il motore del processo deve essere individuato negli investimenti di capitale sia fisico che umano (effettuati anche nell’ambito di contesti non democratici) che stimolerebbero la crescita e quindi successiva- mente anche la democrazia. In questa ottica, in un primo stadio dello svi- luppo di un paese, pur all’interno di istituzioni non democratiche che però siano in grado di garantire i diritti di proprietà, l’accumulazione di capitale umano svolgerebbe un ruolo decisivo nello stimolare la crescita. In un se- condo stadio, il miglioramento nei livelli di istruzione e di ricchezza della po- polazione permetterebbe di innescare un processo di democratizzazione delle istituzioni politiche (Glaeser et al., 2004). Pur individuando diverse cause all’origine del processo di sviluppo di un paese, entrambi gli approcci met- tono in evidenza l’importanza ricoperta dal rispetto dei diritti di proprietà per promuovere gli investimenti in capitale fisico e umano, anche se l’insti- POLITICA ECONOMICA / a. XXV, n. 2, agosto 2009 Desidero ringraziare due referees anonimi per commenti e osservazioni molto stimolanti che hanno contribuito a migliorare la versione finale di questo lavoro. Desidero inoltre ringraziare Alessandro Petretto per gli utili suggerimenti ricevuti.

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ISTRUZIONE, CRESCITA E DEMOCRAZIA:LE TEORIE DELLE COMPLESSE RELAZIONI

di Lisa Grazzini

1. Introduzione

Due temi centrali non solo nell’ambito del recente dibattito economico ma anche politico riguardano gli strumenti che potrebbero essere utilizzati per stimolare la crescita e promuovere la democrazia. Tra i possibili stru-menti, la letteratura economica ha sottolineato il ruolo che può essere svolto dall’istruzione e, a questo proposito, ha elaborato due diversi approcci: l’in-stitutional view e la development view. Secondo l’institutional view, sono le istituzioni politiche, e quindi la presenza di una democrazia, che possono fungere da motore per la crescita economica. In particolare, la presenza di un ordinamento politico democratico permetterebbe di garantire i diritti di proprietà, favorendo quindi gli investimenti sia in capitale fisico che umano, i quali a loro volta stimolerebbero la crescita economica. Secondo la devel-opment view, invece, il motore del processo deve essere individuato negli investimenti di capitale sia fisico che umano (effettuati anche nell’ambito di contesti non democratici) che stimolerebbero la crescita e quindi successiva-mente anche la democrazia. In questa ottica, in un primo stadio dello svi-luppo di un paese, pur all’interno di istituzioni non democratiche che però siano in grado di garantire i diritti di proprietà, l’accumulazione di capitale umano svolgerebbe un ruolo decisivo nello stimolare la crescita. In un se-condo stadio, il miglioramento nei livelli di istruzione e di ricchezza della po-polazione permetterebbe di innescare un processo di democratizzazione delle istituzioni politiche (Glaeser et al., 2004). Pur individuando diverse cause all’origine del processo di sviluppo di un paese, entrambi gli approcci met-tono in evidenza l’importanza ricoperta dal rispetto dei diritti di proprietà per promuovere gli investimenti in capitale fisico e umano, anche se l’insti-

POLITICA ECONOMICA / a. XXV, n. 2, agosto 2009

Desidero ringraziare due referees anonimi per commenti e osservazioni molto stimolanti che hanno contribuito a migliorare la versione finale di questo lavoro. Desidero inoltre ringraziare Alessandro Petretto per gli utili suggerimenti ricevuti.

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tutional view ritiene che tale rispetto possa aver luogo nell’ambito di un con-testo democratico, dove i governi sono sottoposti a vincoli politici, mentre la development view ritiene che anche nell’ambito di un contesto dittatoriale possa esserci tale rispetto, come risultato di una scelta politica, e non a causa della presenza di vincoli politici 1.

Per comprendere i diversi filoni di ricerca che, nella letteratura economica, hanno tentato di analizzare le possibili relazioni tra le tre variabili prese in esame – istruzione, crescita e democrazia – è utile fare riferimento ad altret-tanti fatti stilizzati che sono stati al centro dell’attenzione degli studiosi e che hanno dato origine a diverse interpretazioni nell’ambito dei diversi approcci.

Un primo fatto stilizzato riguarda la correlazione esistente tra il tasso di crescita di un paese e il grado di istruzione della sua popolazione: i paesi con tassi di crescita più elevati sono anche quelli con tassi di scolarità più elevati (Checchi, 1999; Acemoglu, 2008a). L’esistenza di una tale correlazione non implica, tuttavia, l’esistenza anche di un nesso causale e, come vedremo nella sezione 2, diverse sono le interpretazioni elaborate nell’ambito della lettera-tura economica a questo proposito. Più in particolare, dopo aver analizzato il dibattito sorto nell’ambito dei modelli di crescita endogena sul fatto che la crescita sia influenzata dall’accumulazione di capitale umano nel corso del tempo (Lucas, 1988) o dallo stock di capitale umano esistente in un dato pe-riodo di tempo (Romer, 1990; Nelson e Phelps, 1966), passeremo in rassegna alcuni contributi empirici che hanno tentato di verificare se esiste un nesso causale tra istruzione e crescita, in caso affermativo, qual è la direzione di tale nesso causale e, infine, nel caso dei lavori che trovano un effetto positivo dell’istruzione sulla crescita, se quest’ultima dipende dal livello di istruzione raggiunto in un paese o piuttosto dall’aumento dell’istruzione in un determi-nato arco temporale.

Per quanto riguarda poi la relazione tra democrazia e crescita, già Lip-set (1959) aveva evidenziato un secondo fatto stilizzato, ossia la correlazione positiva tra queste due variabili: i paesi più ricchi tendono a essere anche più democratici. Ad esempio, prendendo come riferimento il 1990, sono tutti democratici, paesi ricchi come gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda e quelli appartenenti all’Unione europea, mentre sono meno demo-cratici, paesi poveri nell’Africa sub-Sahariana, nel Sud dell’Asia e in America Centrale (Acemoglu e Robinson, 2006). Su questi temi, soltanto recentemente si è sviluppata una letteratura economica di tipo teorico (Acemoglu, 2008a;

1 «[T]he institutional view sees the pro-investment policies as a consequence of political constraints on government, whereas the development view sees these policies in poor countries largely as choices of their – typically unconstrained – leaders», Glaeser et al., 2004, p. 272.

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Acemoglu e Robinson, 2006; Ellis e Fender, 2009), mentre esistono oramai due ampi filoni di ricerca empirica che analizzano, da un lato, se la crescita abbia o meno effetti sulla democrazia e, dall’altro, se la democrazia abbia o meno effetti sulla crescita, con risultati, come vedremo nella sezione 3, misti.

Anche nel caso della relazione tra istruzione e crescita, la letteratura ha evidenziato un terzo fatto stilizzato, ossia l’esistenza di una correlazione po-sitiva per cui i paesi con una popolazione più istruita tendono a essere più democratici (Acemoglu e Robinson, 2006). A questo proposito, pur esistendo oramai un’ampia letteratura sulla democratizzazione (Acemoglu e Robinson, 2006), i contributi teorici che concentrano l’attenzione in modo prioritario sul ruolo ricoperto dall’istruzione non sono molti (ad esempio, Glaeser et al., 2007; Cervellati et al., 2008), mentre, come vedremo nella sezione 4, anche in questo caso, molto più sviluppata è la letteratura empirica (sia economica che di scienza della politica) che, tuttavia, come per la relazione precedente, giunge a risultati contrastanti sulla direzione dell’eventuale nesso di causalità tra le due variabili.

I numerosi contributi elaborati nell’ambito dei tre filoni di ricerca sopra menzionati hanno permesso di migliorare la comprensione dei canali attra-verso i quali ciascuna delle tre variabili prese in esame influenza le altre, anche se, come risulterà più chiaramente in quanto segue, sulla base delle analisi empiriche, non vi è consenso non solo sull’esistenza di eventuali nessi causali, ma anche, laddove tale consenso vi sia, sulla loro direzione. Ciò no-nostante, i contributi appartenenti a questi tre approcci offrono interessanti spunti di ricerca anche nell’ottica di un’analisi ancor più ambiziosa, ossia quella che ha come obiettivo lo studio simultaneo delle relazioni che possono instaurarsi tra istruzione, crescita e democrazia. Fino a ora, tale obiettivo è stato perseguito da pochi studiosi (Saint-Paul e Verdier, 1993; Bourguignon e Verdier, 2000; Rajan e Zingales, 2006) e, a titolo esemplificativo, nella se-zione 5, presenteremo il modello di Bourguignon e Verdier (2000) che, in analogia all’approccio proposto da Acemoglu e Robinson (2006) e Acemoglu (2008a), riesce a endogenizzare il ruolo svolto dalle istituzioni e, in partico-lare, le scelte su istruzione, crescita e democrazia. Tale tipo di analisi, pur non essendo ancora ben sedimentata nell’ambito della letteratura economica, sembra essere promettente non solo da un punto di vista teorico ma anche per successive nuove analisi empiriche, e per questo motivo riteniamo utile dedicarvi la presente rassegna.

Infine, il presente lavoro si conclude con la sezione 6, che contiene al-cune indicazioni di policy.

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2. Istruzione e crescita

Gli effetti economici dell’istruzione sono stati analizzati da un’ampia let-teratura, sia da un punto di vista individuale che sociale. Mentre, però, vi è un generalizzato consenso tra gli studiosi sui risultati ottenuti nell’ambito del primo filone di ricerca, lo stesso non può dirsi per il secondo.

A livello microeconomico, vi è infatti un generalizzato consenso sul fatto che a maggiori livelli di istruzione corrispondono maggiori livelli di reddito 2. Tale risultato si fonda sul contributo di Mincer (1974) e, in particolare, sulla cosiddetta Mincerian wage equation

[1] lnWi = b0 + b1Si + b2Ti + b3Ti2 + ei ,

in base alla quale il logaritmo naturale del salario di un individuo i, Wi, di-pende linearmente dai suoi anni di istruzione, Si, per cui b1 rappresenta il rendimento privato dell’investimento in istruzione, e dall’esperienza che l’individuo acquisisce lavorando, Ti

3. Come sottolineato da Krueger e Lin-dahl (1999, p. 295), «[t]he Mincerian earnings function is one of the great success stories of empirical economics». Ovviamente, il rendimento privato dell’istruzione può essere maggiore o minore del suo rendimento sociale 4. In particolare, dato che, a differenza del rendimento privato, il rendimento so-ciale prende in considerazione, dal lato dei benefici, le possibili esternalità dell’istruzione 5 (ad esempio, in termini di progresso tecnologico, riduzione

2 Non vi è consenso, invece, sulle cause di questo fenomeno. Ad esempio, secondo Be-cker (1964), l’istruzione può essere uno strumento per aumentare la produttività del lavora-tore, mentre secondo Spence (1973), l’istruzione non svolge tale funzione ma può essere uti-lizzata dai lavoratori per «segnalare» la propria produttività che, in un contesto di selezione avversa, non è osservabile dai datori di lavoro. Sempre in un contesto di selezione avversa, secondo Stiglitz (1975), l’istruzione può essere utilizzata dai datori di lavoro per «selezionare» i lavoratori più produttivi che sono anche quelli che hanno maggiore successo scolastico. Per una discussione dei diversi approcci, si veda, ad esempio, Checchi (2006).

3 Tale risultato è ottenuto assumendo che il solo costo dell’istruzione sia dato dal costo opportunità del tempo dedicato allo studio rispetto al lavoro e che l’aumento proporzionale nel reddito dovuto a un anno aggiuntivo di istruzione sia costante nel tempo. Si noti, inoltre, che il coefficiente b1 potrebbe riflettere anche altre variabili non osservate, correlate all’istru-zione e al reddito, come ad esempio le abilità innate e il contesto famigliare di provenienza. Tuttavia, secondo Krueger e Lindahl (1999), la possibile sovrastima di b1 dovuta alla presenza di tali variabili omesse, sarebbe più o meno compensata dalla sottostima dovuta alla presenza di errori di misurazione di Si.

4 Per una rassegna su questi temi si veda Moretti (2006).5 Seguendo Acemoglu (2008a), è utile distinguere tra due tipi di esternalità: esternalità

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nel livello di criminalità, partecipazione politica più consapevole, maggiore stabilità politica, maggiore enforceability dello stato di diritto) e, dal lato dei costi, quelli sostenuti dal settore pubblico, il rendimento sociale dell’istru-zione sarà maggiore del suo rendimento privato, qualora la dimensione di tali esternalità sia sufficientemente elevata 6.

Se da un punto di vista microeconomico, la letteratura empirica è con-corde nel riconoscere un effetto benefico dell’istruzione sul reddito, sembre-rebbe naturale attendersi lo stesso tipo di effetto anche a livello macroeco-nomico. Da questo punto di vista, invece, la letteratura empirica non ha rag-giunto soluzioni univoche. Prima, però, di analizzare alcuni dei risultati empi-rici più interessanti, è utile presentare il diverso ruolo che l’istruzione può ri-coprire nell’ambito di alcuni modelli teorici di crescita endogena 7. Infatti, la letteratura macroeconomica che ha tentato di stimare l’effetto dell’istruzione sulla crescita economica può essere di ausilio sia nel testare la validità dei diversi modelli teorici proposti che nello stimare gli effetti esterni dell’istru-zione, non inclusi nell’ambito della letteratura microeconomica (Krueger e Lindahl, 2001).

pecuniarie e tecnologiche. Nel caso dell’istruzione, le prime producono effetti attraverso il mec-canismo dei prezzi e si verificano quando il mercato del lavoro è imperfetto e capitale umano e capitale fisico sono complementi. A questo proposito, vi è ampia evidenza empirica a soste-gno di tale complementarietà: investimenti più elevati in capitale fisico aumentano di più la produttività dei lavoratori con elevati investimenti in capitale umano piuttosto che dei lavo-ratori con bassi investimenti in capitale umano. In questo caso, maggiori investimenti in ca-pitale umano da parte di un gruppo di lavoratori ha effetti positivi anche sui salari degli altri lavoratori. Intuitivamente, all’aumentare dell’investimento in capitale umano da parte di alcuni lavoratori, un’impresa si attenderà di assumere in media un lavoratore con un livello di capi-tale umano più alto e quindi, data la complementarietà tra capitale fisico e umano, tenderà ad aumentare il proprio investimento in capitale fisico, con effetti positivi anche per i lavoratori che non hanno aumentato il proprio capitale umano. Le esternalità di tipo tecnologico, invece, si verificano quando lo stock di capitale umano dei lavoratori crea direttamente effetti esterni positivi sulla produttività di ciascun lavoratore.

6 Il rendimento sociale dell’istruzione può essere maggiore del suo rendimento pri-vato anche per altri fallimenti del mercato. Ad esempio, per la presenza di imperfezioni dei mercati finanziari, di esternalità intergenerazionali, di problemi di risk sharing (Moretti, 2006).

7 Si veda Gradstein e Justman (2002) per un modello teorico che analizza, invece, come l’istruzione possa favorire la crescita attraverso il suo ruolo di socializzazione.

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2.1. Il ruolo dell’istruzione in alcuni modelli di crescita endogena

Nell’ambito dei modelli di crescita endogena 8, alcuni studiosi sostengono che la crescita può essere influenzata dall’accumulazione di capitale umano nel corso del tempo (Lucas, 1988), mentre altri sostengono, invece, che la crescita dipenderebbe dallo stock di capitale umano esistente in un dato pe-riodo di tempo: questo permetterebbe di facilitare l’innovazione tecnologica (Romer, 1990) oppure i processi di imitazione e quindi di apprendimento di nuove tecnologie (Nelson e Phelps, 1966).

Nel modello di Lucas (1988), la funzione di produzione assume la forma seguente 9

[2] y = kb(uh)1 – b(ha)g,

dove y indica la produzione, k indica lo stock di capitale fisico, h denota lo stock di capitale umano dell’agente rappresentativo e u la quota del suo tempo correntemente impiegato in attività lavorativa (cosicché 1 – u denota,

invece, il tempo dedicato all’istruzione), e infine =1

(1/ )n

a ii

h n h indica lo

stock di capitale umano medio presente nell’economia. Se g > 0, vi sono esternalità positive dell’investimento in istruzione e ciò implica la possibi-lità che la crescita di equilibrio concorrenziale sia sub-ottimale: gli individui non internalizzano completamente gli effetti di spillovers del capitale umano quando allocano il loro tempo tra produzione corrente e istruzione e per-ciò tendono a sottoinvestire in quest’ultima attività. L’intervento pubblico potrebbe, quindi, servire a correggere tale fallimento. Inoltre, in questo mo-dello, il capitale umano cresce in base alle seguente funzione

[3] log( )= (1 – )

d hu

dtd ,

dove d rappresenta il massimo tasso di crescita raggiungibile del capitale

8 Utili rassegne sono Aghion e Howitt (1998, cap. 10); Stevens e Weale (2004) e Grad-stein et al. (2005), che adotta un punto di vista di Political Economy. Si veda, invece, Grazzini e Petretto (2005), per una rassegna che analizza, da un lato, la relazione che può stabilirsi tra spesa per il welfare e crescita economica e, dall’altro, come tale relazione possa essere influen-zata dalla diversa composizione della spesa pubblica (sicurezza sociale, istruzione e cura per la salute). Infine, Bertocchi e Spagat (2004) forniscono un’analisi di come il diverso mix di un sistema educativo (general versus technical) possa influenzare la crescita.

9 In quanto segue riferimento all’esposizione di Krueger e Lindahl (2001).

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umano. A seconda dei valori assunti da d e u, in steady state, si ha lo stesso tasso di crescita per la produzione e il capitale umano.

Per quanto riguarda, invece, il secondo tipo di approccio consideriamo prima il modello di Romer (1990). In questo contesto, la funzione di produ-zione assume la forma seguente

[4] 1 – –

0

= ( )A

yy h l x i dia b b ,

dove hy indica il capitale umano impiegato in settori diversi da R&S (Ricerca & Sviluppo), l rappresenta l’input lavoro e x(i) indica diverse tipologie di ca-pitale fisico che dipendono dal livello tecnologico A. In particolare, il pro-gresso tecnologico evolve sulla base della seguente equazione

[5] log( )= A

d Ach

dt,

dove hA rappresenta il capitale umano impiegato nel settore R&S. Di con-seguenza, all’aumentare di quest’ultimo aumenta il progresso tecnologico e quindi la produzione di capitale fisico che, a sua volta, permette di avere ef-fetti benefici sulla crescita della produzione corrente.

Nel caso, invece, del modello di Nelson e Phelps (1966), la funzione di produzione assume la forma seguente 10

[6] y(t) = A(t)l,

dove l’offerta di lavoro l è inelastica e quindi, non essendoci accumulazione di capitale fisico, solo la tecnologia varia nel tempo. Supponiamo che AF(t) rappresenti la frontiera della tecnologia a livello mondiale e che essa evolva nel tempo secondo la funzione seguente

[7] ( )=

( )F

FF

A tg

A t

con AF(0) > 0 come condizione iniziale. Come è facile notare, in questo mo-dello, il capitale umano non entrando nella funzione di produzione, non per-mette di migliorare la produttività ma di facilitare l’adozione di tecnologie

10 In quanto segue, facciamo riferimento all’esposizione del modello di Nelson e Phelps (1966) proposta da Acemoglu (2008a).

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più innovative (alla frontiera) nell’attività di produzione. Infatti, la funzione che descrive l’evoluzione della tecnologia usata al tempo t è la seguente

[8] ( ) = ( ) + ( ) ( )FA t gA t h A tF

con A(0) ∈ (0, AF(0)) come condizione iniziale e con g < gF. Come si evince da questa equazione, vi sono due canali attraverso i quali la tecnologia migliora. Il primo termine, gA(t), descrive il tasso di crescita della tecnologia, g, ad esempio, per attività tipo learning by doing. Il secondo termine, F(h)AF(t), descrive, invece, come i miglioramenti della tecnologia dipendano dall’ado-zione di tecnologie alla frontiera che, però, sono legate al livello medio di capitale umano dei lavoratori impiegati. In questo senso, quindi, gli investi-menti in capitale umano possono essere interpretati come uno strumento at-traverso cui implementare tecnologie più all’avanguardia 11.

2.2. La relazione empirica tra istruzione e crescita

Per quanto riguarda la letteratura empirica sull’argomento, come antici-pato sopra, essa non fornisce una risposta univoca al quesito se l’istruzione abbia effetti benefici per la crescita economica. Tuttavia, prima di procedere, è utile evidenziare alcune difficoltà che si incontrano nello stimare la rela-zione tra istruzione e crescita, anche perché le diverse soluzioni adottate pos-sono in parte spiegare l’eterogeneità dei risultati ottenuti.

In primo luogo, è difficile isolare il contributo alla crescita di politiche pubbliche a favore dell’istruzione quando queste si accompagnano ad altre politiche che hanno effetti positivi sulla crescita (Krueger e Lindahl, 2001). La relazione tra istruzione e crescita dipende poi anche dalle caratteristiche istituzionali del paese analizzato (ad esempio, la qualità del sistema scola-stico), rendendo difficili i confronti tra paesi. A questo proposito, è interes-sante notare come i risultati delle analisi empiriche siano diversi anche in base al tipo di dati utilizzati, ossia dati cross-section oppure dati panel 12. Ad esempio, Islam (1995, p. 1153) sostiene che «[w]henever researchers have at-tempted to incorporate the temporal dimension of human capital variables

11 Si veda Lucas (2009) per un modello che, in linea con l’approccio di Nelson e Phelps (1966), analizza come l’istruzione degli individui che compongono un’economia influenza la for-mazione di nuove idee e quindi l’avanzamento delle conoscenze con effetti benefici sulla crescita.

12 A questo proposito, segnaliamo sia Cohen e Soto (2007) che de la Fuente e Doménech (2006) per due lavori che discutono come la riduzione di errori di misurazione relativamente al capitale umano possa modificarne il contributo alla crescita economica.

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into growth regressions, outcomes of either statistical insignificance or nega-tive sign have surfaced». Infine, sulla base anche della disponibilità dei dati, vi sono difficoltà nel selezionare la variabile migliore per definire il capitale umano. A questo proposito, Wößmann (2003) evidenzia alcuni possibili er-rori di specificazione per le variabili proxy di solito usate per misurare il ca-pitale umano. Ad esempio, sia il tasso di alfabetizzazione degli adulti (adult literacy rate) che la frequenza scolastica 13 (school enrollment ratios) sono stati utilizzati nella letteratura empirica, visto anche che sono relativamente fa-cili da ottenere per un numero elevato di paesi (dati UNESCO). Tuttavia, entrambi non possono essere considerati variabili proxy soddisfacenti del capitale umano. Il tasso di alfabetizzazione degli adulti cattura soltanto la componente di base dell’investimento in istruzione, e non include quindi le componenti successive. Sottostante l’uso di questa variabile vi è l’ipotesi im-plicita che tutti gli investimenti in istruzione successivi all’apprendimento di conoscenze di base non influenzano la produttività dei lavoratori. Per quanto riguarda, invece, l’uso della frequenza scolastica, quella registrata a un certo istante temporale non può avere un effetto immediato sullo stock di capitale umano dei lavoratori dello stesso periodo ma potrà avere effetti solo in pe-riodi successivi. Date queste critiche, la variabile proxy che più è utilizzata nelle analisi empiriche è la media degli anni di scuola frequentati dai lavo-ratori (average years of schooling), che misura il livello medio di istruzione raggiunto dai lavoratori in un certo istante temporale (variabile stock). Tut-tavia, anche l’uso di questa variabile è stato assoggettato a critiche. In primo luogo, usando tale variabile, implicitamente si assume che sia costante il peso assegnato a ciascun anno di scuola di un individuo, mentre la letteratura em-pirica sui differenziali salariali mostra che l’investimento in istruzione pre-senta rendimenti decrescenti. In secondo luogo, l’effetto di un anno in più di istruzione sul capitale umano di un individuo dipende dalla qualità del si-stema scolastico frequentato. A questo proposito, alcuni studi hanno tentato di introdurre delle correzioni includendo altre variabili proxy per catturare i diversi input usati nell’ambito del sistema scolastico (ad esempio, il rapporto studenti per docente, la spesa pubblica in istruzione in rapporto al PIL, la spesa per studente), oppure i diversi tassi di rendimento dell’investimento in

13 In particolare, si distingue tra due indicatori. Il gross enrollemnt rate misura il numero di bambini che, indipendentemente dalla loro età, frequentano un particolare livello di istruzione, diviso la popolazione di bambini del gruppo di età associato a quel livello, mentre il net en-rollemnt rate misura il numero di bambini che frequentano un particolare livello di istruzione e che hanno un’età corrispondente al livello di istruzione frequentato, diviso la popolazione di bambini del gruppo di età associato a quel livello. Il secondo indicatore non prende, quindi, in considerazione i ripetenti.

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istruzione nei vari paesi, oppure ancora i risultati di test internazionali utiliz-zati per misurare i livelli di apprendimento degli studenti 14.

Consapevoli delle difficoltà sopra menzionate, analizziamo ora alcuni contributi empirici che hanno tentato di controllare se la crescita economica sia influenzata dall’istruzione e, in caso affermativo, se dipenda dal livello di istruzione raggiunto in un paese (in linea con il modello di Romer, 1990; Nelson e Phelps, 1966) oppure piuttosto dall’aumento dell’istruzione in un determinato arco temporale (in linea con il modello di Lucas, 1988). La ri-sposta a questo quesito permette di discriminare tra i diversi modelli teorici di crescita endogena, ma allo stesso tempo può essere anche di ausilio per migliorare il targeting della spesa pubblica in istruzione. Ad esempio, mag-giori investimenti in istruzione primaria possono tradursi in un miglioramento delle conoscenze di base di tutti i lavoratori e migliorare quindi uno degli input della funzione di produzione, secondo quanto previsto dal modello di Lucas. Maggiori investimenti in istruzione secondaria e terziaria, invece, pos-sono favorire la ricerca e quindi le innovazioni tecnologiche, secondo quanto previsto dai modelli di Romer (1990) e Nelson e Phelps (1966).

Tra i lavori che mostrano l’esistenza di una relazione tra istruzione e cre-scita, Benhabib e Spiegel (1994) sostengono che l’istruzione non contribuisce alla crescita come input e, quindi, non è tanto l’accumulazione di istruzione a influenzare la crescita quanto piuttosto lo stock di istruzione che permette-rebbe ai paesi, con livelli di istruzione più elevati, di implementare con mag-giore rapidità nuove tecnologie create all’estero e svilupparne delle proprie. Sulla stessa linea sono anche i risultati di Barro e Sala-i-Martin (1995) che, analizzando un campione di paesi per il periodo 1965-1985, mostrano che la media degli anni di scuola frequentati dai lavoratori è significativamente correlata con la successiva crescita economica, così come anche la spesa pub-blica in istruzione in rapporto al PIL. Questo confermerebbe dunque le teo-rie di Romer (1990) e Nelson e Phelps (1966).

Recentemente, questi risultati sono stati però criticati ed è stato mostrato che la crescita economica non sarebbe influenzata soltanto dallo stock di capitale umano ma anche dalla sua accumulazione. A questo risultato giun-gono, ad esempio, Temple (1999) utilizzando gli stessi dati di Benhabib e Spiegel ma eliminando i paesi outlier, e Krueger e Lindahl (2001) e Topel (1999) dopo aver preso in considerazione il ruolo svolto da possibili errori di misurazione dell’istruzione. In particolare, Krueger e Lindahl (2001) riten-gono che sia necessaria molta cautela nell’effettuare confronti internazionali:

14 Per una critica relativa all’uso della variabile average years of schooling si veda anche Aghion et al. (2009).

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all’interno di un paese, l’istruzione può essere considerata una variabile eso-gena nell’analizzare la relazione tra istruzione e reddito ma, a livello interna-zionale, occorre maggiore cautela perché non sarebbe possibile poter esclu-dere l’esistenza di un nesso causale di tipo inverso, secondo cui non sarebbe tanto l’istruzione a causare maggiore crescita quanto la crescita a causare maggiore istruzione (ad esempio, secondo Bils e Klenow [2000], l’anticipa-zione della crescita ridurrebbe il tasso di sconto aumentando quindi la do-manda di istruzione) 15. Utilizzando dati panel per 110 paesi, per il periodo compreso tra il 1969 e il 1990, Krueger e Lindahl (2001) mostrano che l’ef-fetto del livello dell’istruzione sulla crescita non sarebbe lineare, ma avrebbe una forma a U rovesciata: per i paesi con bassi livelli di istruzione, i loro ri-sultati mostrano che vi è una relazione positiva tra istruzione e crescita, men-tre per i paesi con livelli medi e alti di istruzione, tale relazione è inesistente oppure la crescita è in relazione inversa con l’istruzione (con il paese medio OCSE che si collocherebbe sulla parte decrescente di tale curva).

Una possibile spiegazione al cosiddetto puzzle di Krueger e Lindahl è stata recentemente fornita da Aghion, Meghir e Vandenbussche (2006), i quali sottolineano la necessità di introdurre nell’analisi due precisazioni. In primo luogo, questi autori ritengono che, per i paesi OCSE, lo stock totale di capitale umano non sia una buona variabile per studiare gli effetti dell’istru-zione sulla crescita e che quindi sia necessario analizzare la composizione del capitale umano, ossia distinguere tra lavoratori che hanno un’istruzione di livello primario/secondario e lavoratori che invece hanno un’istruzione di livello terziario. In secondo luogo, essi mettono in evidenza come la cre-scita possa essere sostenuta sia attraverso processi imitativi della tecnologia di frontiera che attraverso processi innovativi rispetto a tecnologie passate, sottolineando come i processi innovativi diventino via via relativamente più importanti, più un paese si colloca vicino alla tecnologia di frontiera 16. Par-

15 A questo proposito, nel caso italiano, Checchi (1999, pp. 29-30) mostra che, nel se-condo dopoguerra, sussiste una relazione positiva tra accumulazione di capitale umano e PIL. Tuttavia, anche in questo caso, l’autore sottolinea come non sia chiaro quale sia il nesso cau-sale, ossia se un miglioramento dell’istruzione della popolazione abbia permesso una maggiore crescita oppure se, invece, maggiori risorse economiche delle famiglie abbiano permesso di finanziare periodi di studio più lunghi per i propri figli. Inoltre, sempre per il caso italiano, Checchi mostra che esiste una relazione non lineare tra stock di capitale umano e produzione, per cui tale relazione è negativa quando il numero di diplomati sulla forza lavoro è al di sotto di una soglia minima efficiente (stimata pari al 17%). Nel periodo successivo al secondo con-flitto mondiale, tale soglia è stata superata soltanto a partire dagli anni ’80. Di conseguenza, soltanto quando sono superati certi livelli soglia, l’istruzione genererebbe esternalità tali da in-nescare un effetto positivo dell’istruzione sulla crescita.

16 Su questo punto si veda anche Acemoglu et al., 2006.

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tendo da queste due osservazioni e, diversamente da Nelson e Phelps (1966), Aghion, Meghir e Vandenbussche (2006) assumono che mentre i processi imitativi tendono a fare un uso relativamente più intensivo di lavoratori con un’istruzione di livello primario/secondario, i processi innovativi tendono in-vece a fare un uso relativamente più intensivo di lavoratori con un’istruzione di livello terziario. Utilizzando un modello teorico, testato su dati panel per 19 paesi OCSE per il periodo 1960-2000, Aghion, Meghir e Vandenbussche (2006) mostrano che l’effetto dell’istruzione sulla crescita dipende sia dalla composizione del capitale umano che dalla distanza di un paese rispetto alla frontiera tecnologica. In particolare, l’effetto positivo del capitale umano con un livello di istruzione terziario (primario/secondario), sulla crescita, aumenta (diminuisce) più il paese è vicino alla frontiera tecnologica. La prescrizione normativa che si ricava da tale risultato dipende quindi da come si colloca ciascun paese rispetto alla frontiera tecnologica. Ad esempio, i paesi europei, collocandosi in prossimità della frontiera tecnologica, dovrebbero investire di più in istruzione terziaria allo scopo di promuovere la crescita. Se, però, osserviamo i dati, notiamo che, ad esempio nel 2005, la spesa in istruzione terziaria in rapporto al PIL era 1,3% rispetto al 2,9% degli USA e, nel 1999-2000, la percentuale di popolazione con età compresa tra i 25 e i 64 anni con un titolo di studio terziario era 23,8% rispetto al 37,3% degli USA (Aghion e Howitt, 2006) 17.

3. Crescita e democrazia

Nell’analizzare il rapporto tra crescita economica e democrazia, il fatto stilizzato da cui partire è l’evidenza empirica che mostra come vi sia una relazione positiva tra reddito pro-capite e democrazia. Attualmente, tutti i pae si OECD sono democrazie e molti dei paesi non democratici sono paesi a basso reddito: «[d]emocratization came together with growth» (Acemoglu et al., 2008, p. 1). Ovviamente, la democrazia è un valore in sé indipendente-mente dai suoi effetti sulla crescita economica, ma ciò non significa che non sia altrettanto importante capire se lo sviluppo dei diritti civili e politici sia una conseguenza oppure una causa del progresso economico (Tavares e Wac-ziarg, 2001), dato che l’esistenza di una correlazione positiva tra i due feno-

17 Su questo punto, si veda anche il modello teorico e l’evidenza empirica per gli Stati Uniti proposta da Aghion et al. (2009). Tra gli altri risultati, questi autori, prendendo in consi-derazione anche gli effetti migratori dei lavoratori più istruiti, mostrano come gli investimenti in ricerca hanno effetti benefici sulla crescita soltanto in quegli Stati la cui tecnologia è più vicina alla frontiera.

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meni non è sufficiente per stabilire un eventuale nesso causale. Fino alla fine degli anni ’90, il tema in oggetto non è stato al centro dell’attenzione della letteratura economica di tipo teorico (Barro, 1999) e, soltanto negli ultimi anni, vi è stato un crescente interesse nei confronti di questo tipo di pro-blematiche (Acemoglu, 2008a; Acemoglu e Robinson, 2006). Da un punto di vista empirico, esistono oramai due ampi filoni di ricerca che analizzano, da un lato, se la crescita abbia o meno effetti sulla democrazia e, dall’altro, se la democrazia abbia o meno effetti sulla crescita 18, anche se i risultati ottenuti fino a ora sono misti.

3.1. La crescita influenza la democrazia?

Per quanto riguarda il primo filone di ricerca, che analizza il nesso cau-sale tra crescita e democrazia, il lavoro più influente è stato quello di Lipset (1959) a cui è associata la cosiddetta modernization theory. L’obiettivo di Lipset è quello di individuare quale insieme di condizioni ha permesso la creazione e il consolidamento della democrazia nei vari paesi e la sua analisi giunge alla conclusione che tali condizioni debbano essere ricercate nel livello di industrializzazione, urbanizzazione, ricchezza e istruzione raggiunto in una determinata società 19. Lipset trova quindi una relazione di segno positivo tra sviluppo economico e democrazia e tale risultato è stato confermato anche da diversi lavori empirici recenti. Lo stesso Barro (1999), effettuando un’ana-lisi cross-country su cento paesi durante il periodo che va dal 1960 al 1995, trova una conferma empirica all’ipotesi di Lipset. In particolare, tale lavoro mostra che, da un lato, miglioramenti nella qualità della vita (PIL pro-capite, risultati conseguiti dalla scuola primaria, minore differenza di genere per la scuola primaria e importanza della classe media) sono in grado di prevedere miglioramenti nel livello di democrazia, dove questa è misurata utilizzando un indicatore che riguarda i diritti di voto 20. Dall’altro lato, tale lavoro mo-

18 I due effetti sono stati per lo più analizzati separatamente. Per un lavoro che, invece, prende in considerazione entrambi gli aspetti, si veda Przeworski et al. (2000).

19 «[T]he factors of industrialization, urbanization, wealth, and education, are so closely interrelated as to form one common factor. And the factors subsumed under economic de-velopment carry with it the political correlate of democracy» (Lipset, 1959, p. 80). Tuttavia, come sottolinea lo stesso autore, «[u]nfortunately [...] this conclusion does not justify the op-timistic liberal’s hope that an increase in wealth, in the size of the middle class, in education, and other related factors will necessarily mean the spread of democracy or the stabilizing of democracy» (ibidem, p. 103).

20 Inoltre, tale lavoro mostra anche che non vi è una relazione significativa tra democrazia e istruzione secondaria e terziaria e neanche tra democrazia e dimensione del paese. Invece,

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stra anche che tendono a non essere durature quelle democrazie che nascono in assenza di un adeguato sviluppo economico (ad esempio, perché sono im-poste da organizzazioni internazionali oppure da precedenti poteri coloniali). Lo stesso tipo di conclusione è raggiunta anche da La Porta et al. (1999). Questi autori mostrano, infatti, che i paesi con redditi pro-capite più elevati sono quelli con migliori performance di governo, dove la qualità del governo è misurata tramite proxy tipo il livello di intervento dello stato in economia, l’efficienza del settore pubblico, la qualità dei beni pubblici offerti, la dimen-sione del settore pubblico e le libertà politiche. Questi stessi autori non ne-gano però l’importanza che altre variabili possono avere nel determinare la qualità del governo di un paese. Se, da un lato, le performance di un go-verno sono in parte determinate dallo sviluppo economico dello stesso pa-ese, esse dipendono anche da altre variabili che possono essere ricondotte alla storia del paese. In linea con i risultati appena esposti, anche se l’oggetto dell’analisi non è identico, Londregan e Poole (1990) mostrano che sia un li-vello elevato di reddito pro-capite che un tasso elevato di crescita economica prevengono colpi di Stato, in altre parole, i paesi democratici più ricchi sono esposti a un numero minore di colpi di Stato (si veda anche Przeworski et al., 2000) 21.

La conclusione dei risultati empirici sopra esposti, ossia che esiste un nesso causale tra reddito pro-capite e democrazia, è stata recentemente criti-cata soprattutto nei lavori di Acemoglu et al. (2007; 2008). Questi autori so-stengono che, nonostante vi sia una correlazione positiva tra il livello di red-dito e il livello di democrazia, non sussista anche un nesso causale del red-dito sulla democrazia. In particolare, secondo questi autori, i lavori empirici, che invece trovano evidenza di tale nesso causale e che si basano su analisi di tipo cross-country, non sarebbero attendibili per due tipi di motivazioni. In primo luogo, il nesso causale potrebbe essere nella direzione opposta, os-sia potrebbe essere la democrazia a causare la crescita e non viceversa. In secondo luogo, la maggior parte dei lavori empirici, che sostengono la mod-ernization theory, non effettua controlli per variabili omesse, correlate sia con il reddito che con la democrazia. Per quanto riguarda il primo punto, riman-

per un dato livello di qualità della vita, vi è una relazione negativa tra democrazia e urbanizza-zione e dipendenza da risorse naturali.

21 «The coup-inhibiting effect of income is dramatic. For this reason, even authoritar-ian governments have powerful incentives to promote economic growth, not out of concern for the welfare of their citizens, but because failure to deliver adequate economic perform-ance may lead to their own downfall. By contrast, we uncover little evidence of feedback from coups to income growth. Our findings are consistent with the hypothesis that poverty spawns coups, but that coups do not have economic effects» (Londregan e Poole, 1990, p. 178).

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diamo la discussione alla sezione 3.2, mentre qui concentriamo l’attenzione sul secondo punto. Secondo gli autori presi in esame, è proprio l’omissione di alcune variabili che determina la correlazione tra reddito e democrazia. In-fatti, introducendo nell’analisi fattori storici, specifici ai vari paesi, Acemoglu et al. mostrano che viene meno la relazione positiva tra reddito pro-capite e democrazia: più in particolare, essi mostrano che non vi è nessuna rela-zione tra variazioni nel reddito pro-capite e variazioni nella democraticità di un paese, negli ultimi cento anni. Inoltre, utilizzando regressioni con variabili strumentali, essi mostrano anche che non vi è evidenza di un effetto causale del reddito sulla democrazia. Essi trovano, invece, una correlazione positiva tra variazioni delle due variabili per un periodo di tempo più ampio, corri-spondente più o meno agli ultimi cinquecento anni e giustificano tale risul-tato facendo riferimento alla cosiddetta critical junctures hypothesis, secondo cui i paesi si sono collocati su sentieri di sviluppo diversi in corrispondenza di qualche critical juncture 22. In particolare, sarebbero proprio i fattori di origine storica, omessi nelle analisi precedenti, che possono spiegare perché i paesi si sono collocati su sentieri diversi di sviluppo, in corrispondenza di diverse critical junctures durante la loro storia: alcuni sentieri hanno portato democrazia e ricchezza mentre altri hanno portato invece assenza di demo-crazia e povertà 23. Di conseguenza, secondo Acemoglu et al., democrazia e ricchezza possono evolvere insieme lungo il sentiero di sviluppo «virtuoso», ma questo non significa che esiste un nesso causale del reddito sulla demo-crazia, condizionato al sentiero di sviluppo seguito dal paese.

3.2. La democrazia influenza la crescita?

Per quanto riguarda il secondo filone di ricerca, che analizza il nesso cau-sale tra democrazia e crescita, da un punto di vista teorico, sono stati messi in evidenza sia gli aspetti della democrazia che potrebbero stimolare la cre-scita sia gli aspetti che invece potrebbero ritardarla (Barro, 1996; Baum e Lake, 2003). Per quanto riguarda i primi, la democrazia può rappresentare uno strumento per proteggere i diritti politici ed economici, stimolando gli

22 Nel campione preso in esame, la critical juncture, per la maggior parte dei paesi, corri-sponde al periodo di colonizzazione europeo.

23 Un recente filone di ricerca individua nella cultura, e in particolare nella morale di una popolazione, uno dei canali attraverso i quali la storia passata di un paese influenza il funzio-namento delle istituzioni presenti. A questo proposito, si veda Tabellini (2008) e i riferimenti bibliografici ivi citati.

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investimenti e quindi la crescita (compatibility school) 24. Per quanto riguarda, invece, i secondi, in democrazia, la presenza di un meccanismo di voto ba-sato sulla regola della maggioranza, associato a un reddito mediano di solito inferiore a quello medio, può condurre a una redistribuzione di risorse dai ricchi ai poveri con effetti negativi per i profitti e quindi per gli investimenti e la crescita. Inoltre, sempre in democrazia, la presenza di gruppi di pres-sione può favorire l’adozione di politiche che beneficiano gli interessi parti-colari degli stessi gruppi di pressione a danno dell’interesse generale (conflict perspective).

Da un punto di vista empirico, come nel caso del primo filone di ricerca, anche in questo caso l’evidenza è mista. Tra i lavori che mostrano l’esistenza di un nesso causale della democrazia sulla crescita, come ricordavamo sopra, devono essere annoverati i contributi recenti di Acemoglu e dei suoi coau-tori 25. Secondo questo approccio, per comprendere quali siano le cause della crescita è innanzitutto necessario distinguere tra cause «approssimative» e «fondamentali». Le prime possono spiegare le differenze di reddito tra paesi e sono sostanzialmente tre: differenze in tecnologia, differenze nell’accumula-zione di capitale fisico e differenze nell’accumulazione di capitale umano. Le seconde sono, invece, dette fondamentali perché la loro assenza impedisce ai paesi di investire un ammontare di risorse sufficiente in tecnologia, capitale fisico e umano. Potenzialmente, le cause fondamentali della crescita proposte in letteratura sono tre: geografia (ambiente fisico di un paese che è un dato esogeno), cultura (insieme di valori, credenze e preferenze che determinano il comportamento economico degli individui) e istituzioni (insieme di scelte sociali come leggi, politiche e regolamentazioni). Tra queste, l’approccio in esame privilegia il ruolo svolto dalle istituzioni intese, più in generale, come le regole che disciplinano l’interazione tra gli individui nell’ambito di una so-cietà e, più in particolare, come istituzioni economiche (diritti di proprietà, barriere all’entrata) che condizionano gli incentivi economici degli agenti e determinano l’allocazione delle risorse tra questi, e come istituzioni politiche (leggi elettorali, modello di governo) che condizionano gli incentivi politici degli agenti e determinano l’allocazione del potere politico (political economy of growth). Tuttavia, secondo questo approccio, l’evidenza empirica esistente

24 «An economy will be able to reap all potential gains from investment and from long-term transactions only if it has a government that is believed to be both strong enough to last and inhibited from violating individual rights to property and rights to contract enforcement» e inoltre «[democracies] have the extraordinary virtue that the same emphasis on individual rights that is necessary to lasting democracy is also necessary for secure rights to both prop-erty and the enforcement of contracts» (Olson, 1993, pp. 572 e 574).

25 Per un quadro generale di queste teorie, si veda Acemoglu (2008a).

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che predice un nesso causale della democrazia sulla crescita non è sufficien-temente robusta perché non prende in considerazione la complessità della relazione tra democrazia e crescita, complessità dovuta al fatto che le isti-tuzioni politiche sono endogene e cambiano in un contesto dinamico (Ace-moglu, 2008a, pp. 1087-1088). Infatti, le preferenze degli individui circa le istituzioni politiche devono essere ricavate sulla base delle implicazioni delle stesse istituzioni politiche sull’allocazione delle risorse economiche. Di conse-guenza, anche se in un contesto statico, le democrazie possono danneggiare la crescita, ad esempio per una eccessiva redistribuzione delle risorse, nel lungo periodo, esse, se confrontate con le oligarchie, dovrebbero evitare la «sclerosi politica» che si ha quando chi detiene il potere è in grado di erigere barriere all’entrata per proteggere lo status quo a scapito dell’efficienza 26. In questo senso, le democrazie possono favorire il processo di creative destruc-tion e adottare più velocemente le nuove tecnologie 27.

Tra i lavori empirici che trovano una relazione causale tra democrazia e crescita, alcuni mettono poi in evidenza aspetti particolari di tale relazione. Ad esempio, Giavazzi e Tabellini (2005) sottolineano l’importanza della se-quenza delle riforme: crescono di più quei paesi che prima liberalizzano l’economia e poi diventano democratici rispetto a quei paesi che, invece, prima diventano democratici e solo in un secondo momento liberalizzano la propria economia. Due possibili spiegazioni di questo risultato sono eviden-ziate dagli stessi autori. Da un lato, le caratteristiche del processo di liberaliz-zazione dell’economia sembrano dipendere dalle caratteristiche del contesto politico del paese in cui si realizzano. In particolare, gli effetti positivi dei processi di liberalizzazione, in termini di aumento nel volume degli scambi e minore inflazione, sembrano essere maggiori nel caso dei paesi che prima hanno liberalizzato l’economia e successivamente sono diventati democra-tici, rispetto a quelli che invece hanno fatto il percorso inverso. Questo può essere dovuto al fatto che, sebbene sia più difficile che un paese con una

26 Su questo punto si veda anche Acemoglu (2008b).27 Acemoglu (2008a, p. 1088) sottolinea che le democrazie possono comunque portare

risultati inefficienti quando sono dysfunctional. La principale caratteristica di «funzionamento» di un sistema democratico è che garantisce eguali diritti politici (libertà di ingresso per nuovi partiti, possibilità per le masse di esprimere le proprie preferenze, elezioni libere e imparziali, ecc.) ma ciò può portare all’adozione di politiche redistributive eccessivamente costose per le élite. Questo processo può portare a un caso particolare di democrazia dysfunctional, denomi-nato «democrazia catturata» dall’élite. In questo caso, la democrazia causa due tipi di ineffi-cienza. Da un lato, l’élite ha un incentivo a effettuare investimenti, inefficienti da un punto di vista sociale, per aumentare il proprio (de facto) potere politico. Dall’altro, l’élite grazie a tale investimento è in grado di influenzare le politiche a proprio favore, causando il sorgere di isti-tuzioni economiche pro-élite che sono inefficienti.

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dittatura intraprenda processi di liberalizzazione, laddove questo avvenga, il processo di liberalizzazione sembra essere più profondo rispetto a quello che invece si verifica nel caso di un paese che prima diventa democratico e poi liberalizza l’economia, dove può accadere che, pur in presenza di un’eco-nomia formalmente aperta, «protection remains pervasive, or new non-tariff barriers are introduced to replace formal tariffs» (Giavazzi e Tabellini, 2005, p. 1322). Dall’altro lato, sembra che nell’ambito di un’economia già libera-lizzata possano sorgere democrazie di qualità migliore, ad esempio perché un’economia che ha già intrapreso un processo di liberalizzazione, si è quindi aperta al commercio e alla concorrenza e ha di conseguenza intrapreso un processo di crescita che permette allo Stato di disporre di maggiori risorse per fini redistributivi. Nel caso, invece, di un paese che prima diventa demo-cratico e poi intraprende un processo di liberalizzazione, è più probabile che la democrazia sia il risultato di un conflitto civile che produce effetti negativi per l’economia e di conseguenza anche per l’attività redistributiva pubblica. Ovviamente, come sottolineato dagli autori, le riforme economiche e politi-che non sono dei farmaci e quindi «reforms are not ordered by a doctor and the data do suggest that autocrats are less likely to open up the economy» (ibidem, p. 1323) 28.

Tra i contributi che concentrano l’attenzione su aspetti particolari della relazione tra democrazia e crescita, ricordiamo Persson e Tabellini (2006a) che analizzano il ruolo svolto dalla diversa forma di governo, democrazia parlamentare versus democrazia presidenziale. Uno dei risultati principali di tale contributo mostra che una nuova democrazia parlamentare cresce meno di una nuova democrazia presidenziale perché le democrazie parlamentari tendono ad avere una spesa pubblica maggiore di quelle presidenziali, con possibili effetti distorsivi negativi sulla crescita. Questo risultato è ottenuto nonostante le democrazie parlamentari, avendo bisogno del sostegno di coa-lizioni più ampie, sono tendenzialmente più aperte a intraprendere successivi processi di liberalizzazione, che però, sulla base del risultato sopra esposto di Giavazzi e Tabellini (2005), hanno effetti più contenuti sulla crescita.

Prima di concludere, è utile fare riferimento anche ad alcuni lavori che, invece, non trovano una relazione robusta tra democrazia e crescita 29. Tra questi, è utile ricordare il lavoro di Barro (1996) che, pur trovando un effetto

28 Per lo stesso tipo di conclusione sulla sequenza delle riforme, si veda anche Barro (1996). Rodrik e Wacziarg (2005) trovano, invece, che i processi di democratizzazione comportano mi-glioramenti nella crescita di breve periodo e riducono la volatilità dell’economia, criticando quindi le posizioni di coloro che suggeriscono di postporre le riforme politiche nei paesi in via di sviluppo. Per un recente contributo empirico su questi temi si veda Giuliano et al. (2009).

29 Per una rassegna comprendente altri lavori, si veda Przeworski e Limongi (1993).

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totale della democrazia sulla crescita debolmente negativo, trova anche un’in-dicazione per una relazione non lineare (a forma di U rovesciata) tra demo-crazia e crescita: a bassi livelli di democrazia, un suo miglioramento avrebbe effetti positivi sulla crescita (prevarrebbero i vantaggi della democrazia con-nessi alla protezione dei diritti di proprietà e alla enforceability dei contratti), mentre ad alti livelli di democrazia, un ulteriore suo miglioramento avrebbe effetti negativi sulla crescita (prevarrebbero, in questo caso, gli svantaggi con-nessi a una eccessiva redistribuzione delle risorse dai ricchi ai poveri) 30.

La possibilità che la democrazia abbia effetti negativi sulla crescita è evi-denziato anche da Tavares e Wacziarg (2001). Più in particolare, il loro la-voro individua i seguenti come canali principali attraverso i quali la demo-crazia potrebbe influenzare la crescita: l’accumulazione di capitale umano e fisico, gli effetti sulla diseguaglianza e sulle dimensioni del settore pubblico. Sulla base della loro analisi, gli autori mostrano che, se da un lato, la de-mocrazia stimola la crescita aumentando l’accumulazione di capitale umano e riducendo la diseguaglianza, dall’altro lato, essa contrae la crescita ridu-cendo l’accumulazione di capitale fisico e aumentando i consumi del governo rispetto al PIL 31. L’effetto totale della democrazia sulla crescita potrebbe quindi essere moderatamente negativo. L’interpretazione di questo risul-tato fornita dagli autori è che in un contesto democratico, le fasce più po-vere della popolazione riescono a ottenere una maggiore spesa pubblica in istruzione e in altre politiche che riducono la diseguaglianza, a scapito però dell’accumulazione di capitale fisico.

Infine, anche il modello e l’analisi empirica in Aghion, Alesina e Trebbi

30 Papaioannou e Siourounis (2008) trovano invece una curva a forma di J: durante la transizione da un regime non democratico a uno democratico, la crescita è lenta e talvolta ne-gativa mentre è positiva nel breve e soprattutto nel lungo periodo.

31 Si noti, in particolare, che secondo gli autori, la democrazia produrrebbe effetti op-posti sull’accumulazione di capitale umano e fisico. Da un lato, l’effetto positivo della demo-crazia sull’accumulazione di capitale umano e di questo sulla crescita, sarebbe dovuto al fatto che le democrazie, rispetto alle dittature, sceglierebbero di destinare una quota maggiore della spesa pubblica all’istruzione per rispondere alla domanda delle popolazioni e, così facendo, aumenterebbero la produttività della forza lavoro con effetti positivi sulla crescita. Dall’altro lato, l’effetto negativo della democrazia sull’accumulazione di capitale fisico con i conseguenti riflessi negativi sulla crescita, sarebbe dovuto al fatto che, nell’ambito di una democrazia, il processo politico può portare a una distribuzione del reddito nazionale che favorisce la com-ponente lavoro rispetto al capitale cosicché, grazie anche al ruolo ricoperto dai sindacati, ce-teris paribus, i salari sarebbero più elevati a discapito del rendimento del capitale con effetti negativi sugli investimenti. Questo effetto, secondo gli autori, più che compenserebbe l’effetto positivo della democrazia sull’accumulazione di capitale fisico dovuto, ad esempio, al rispetto dei diritti di proprietà, all’enforceability dello Stato di diritto, alla riduzione dell’incertezza sia politica che economica.

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(2008) non trovano, a livello aggregato, un effetto robusto della democrazia sulla crescita 32. Questi autori, tuttavia, trovano che le istituzioni democrati-che migliorano la crescita dei settori più avanzati (sectorial growth), ossia dei settori più vicini alla frontiera delle possibilità tecnologiche e ciò avviene per-ché la democrazia garantisce maggiormente la libertà di entrata sui mercati, incoraggiando le innovazioni tecnologiche.

Quanto sopra esposto mette in luce come l’evidenza empirica sulla rela-zione tra crescita e democrazia, da un lato, e democrazia e crescita, dall’altro, sia al momento mista. Un possibile motivo potrebbe essere ricercato nel fatto che la relazione è di tipo bidirezionale e, a questo proposito, riteniamo utile concludere questa sezione facendo riferimento al recente lavoro di Persson e Tabellini (2006b), i quali ritengono che, nell’analisi della relazione tra demo-crazia e crescita, è probabile che, se effetti positivi vi sono, questi siano in entrambe le direzioni: «[b]oth a priori reasoning and causal observation lead us to expect a two-way interaction, with stable democracy promoting the pace of economic development, and economic development promoting the consolidation of democracy» (Persson e Tabellini, 2006b, p. 2) 33. Come Ace-moglu (2008a), anche questi autori, adottando un punto di vista dinamico, sottolineano l’importanza delle aspettative degli agenti economici circa la sta-bilità del regime democratico e quindi degli effetti positivi di questa sugli in-vestimenti e di conseguenza sulla crescita 34. Tale processo avviene attraverso l’accumulazione di una forma particolare di capitale, definito democratic capital, ossia lo «stock of civic and social assets that takes place through a country’s learning from its own historical experience or from its neighboring countries» (Persson e Tabellini, 2006b, p. 3). Sebbene tale forma di capitale non influenzi direttamente la crescita, gli autori concludono che è possibile che venga a crearsi una sorta di circolo virtuoso, in base al quale la stabilità di una democrazia stimola la crescita che a sua volta ha effetti positivi sul consolidamento della democrazia stessa, favorendo così l’accumulazione di democratic capital, che produrrà ulteriori effetti positivi sia sulla crescita che sulla stabilità democratica.

32 Mulligan, Gil e Sala-i-Martin (2004) dubitano che esista una relazione tra democrazia e crescita. Essi mostrano, infatti, che paesi democratici e paesi non democratici scelgono po-litiche economiche e sociali simili mentre scelgono politiche diverse, ad esempio, in tema di spese militari, libertà di culto, censura, uso di torture.

33 Si veda anche Ellis e Fender (2009) per un modello teorico che prevede che il nesso causale tra democrazia e crescita sia di tipo bidirezionale.

34 Si veda anche Alesina e Perotti (1996) per un lavoro che mostra come la democrazia favorisca la crescita attraverso la riduzione dell’instabilità politica.

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4. Istruzione e democrazia

Per quanto riguarda la relazione tra istruzione e democrazia, già Dewey (1916) sottolineava l’importanza dell’istruzione nel promuovere la democrazia attraverso la diffusione di una cultura democratica. La stessa idea, come sot-tolineato nella sezione precedente, è anche alla base della modernization the-ory. Lipset (1959), infatti, riconosce, tra le determinanti più importanti della democrazia, il ruolo svolto dall’istruzione: «[i]f we cannot say that a “high” level of education is a sufficient condition for democracy, the available evi-dence does suggest that it comes close to being a necessary condition in modern world» (Lipset, 1959, p. 80). A questo proposito, sembra esserci un diffuso consenso sull’importanza delle esternalità positive dell’istruzione nella sfera politica. Ad esempio, Dee (2004, p. 1698) afferma che «it is widely be-lieved that education is an essential component of a stable democratic society because it encourages citizens to participate in democratic processes and pre-pares them to do so in an informed and intelligent manner» 35 mentre Milli-gan et al. (2004, p. 1668) sostiene che «economists, educators and politicians commonly argue that one of the benefits of education is that a more edu-cated electorate enhances the quality of democracy». Secondo questo punto di vista, un elettorato più istruito permette di migliorare la qualità di una de-mocrazia attraverso due canali principali: da un lato, l’istruzione permette di migliorare la qualità della partecipazione politica, nel senso che dovrebbe mi-gliorare la capacità degli elettori di selezionare i legislatori, di comprenderne le piattaforme elettorali e di controllarne l’operato; dall’altro, l’istruzione per-mette di ampliare la partecipazione politica e civile della popolazione, sia ri-ducendone i costi (maggiore abilità nell’elaborare le informazioni politiche, nel prendere decisioni, ecc.) che aumentandone i benefici (apprendimento di valori democratici, pluralistici e, più in generale, di una coscienza civile).

Rispetto alle relazioni analizzate nelle due sezioni precedenti, quella tra istruzione e democrazia è stata meno indagata nell’ambito della letteratura economica, soprattutto a livello teorico (Barro, 1999) 36. Tuttavia, recente-

35 Dee (2004) nota come, teoricamente, l’istruzione potrebbe anche avere effetti negativi sulla partecipazione politica e civile. Ad esempio, un livello di istruzione più elevato non solo aumenta il costo opportunità del tempo e quindi potrebbe ridurre la disponibilità di un in-dividuo a svolgere attività di tipo civile (volontariato), ma potrebbe anche aumentare la con-sapevolezza che la probabilità di poter influenzare le decisioni politiche è infinitesima, sco-raggiando la partecipazione politica (elezioni). Come sottolineato dallo stesso autore, gli Stati Uniti sono un esempio di un paese dove un aumento del livello di istruzione della popolazione non è stato accompagnato da un aumento dell’affluenza degli elettori alle urne.

36 Si veda, tuttavia, Cervellati et al. (2008) per un modello teorico che mostra l’impor-

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mente, Glaeser et al. (2007) hanno elaborato un modello per mostrare un ca-nale attraverso il quale l’istruzione può favorire la democrazia, sotto l’ipotesi (fondamentale) che, all’aumentare del livello di istruzione, aumentano i bene-fici che gli individui traggono dalla partecipazione politica, e quindi aumenta anche il loro impegno politico 37. In questo contesto, gli incentivi degli indi-vidui a partecipare alla vita politica del proprio paese cambiano a seconda del livello di istruzione. In particolare, questi autori considerano un paese composto da cittadini identici, ciascuno con un livello di istruzione (esogena-mente dato) pari a h, h ≥ 0, e con una popolazione normalizzata a 1. Gli indi-vidui possono o meno essere membri del regime che è al potere in un certo periodo di tempo (incumbent), e tale eventuale appartenenza è fissata in ma-niera esogena, nel primo periodo. A questo proposito, Gi definisce un regime e gi, con gi ∈[0, 1], definisce il numero di agenti che appartengono a tale re-gime, cioè la sua dimensione. Tuttavia, non tutti coloro che appartengono a un regime sono politicamente attivi, cioè supporters del regime di apparte-nenza. Nel secondo periodo, infatti, si presenta la possibilità di sostituire il regime incumbent con un regime challenger e gli agenti devono decidere se sostenere un regime, e in tal caso quale (l’incumbent o il challenger), oppure se non sostenere un regime (un individuo non può sostenere due regimi con-temporaneamente). Tale decisione è presa da ogni individuo sulla base del confronto tra tre tipi di costo/beneficio.

Il primo costo (di tipo top-down) descrive la capacità di un regime (del le-ader), di punire i propri membri che non sono politicamente attivi nell’attività di sostegno al regime stesso. Più in particolare, gli individui che non difen-dono il proprio regime di appartenenza subiscono una perdita di utilità attesa, decrescente rispetto alla numerosità del regime: i regimi di dimensioni più ri-dotte possono contare su un numero ridotto di supporters ma sono più effi-caci nel punire i trasgressori, ossia coloro che non difendono il regime (Olson, 1965). Un regime democratico potrà dunque contare su un bacino di poten-ziali supporters molto ampio ma con scarsi incentivi individuali a sostenerlo.

Il secondo beneficio (di tipo laterale) descrive la capacità dei supporters di un regime di convincere gli altri membri dello stesso regime a sostenerlo.

tanza relativa dell’investimento in capitale umano, rispetto alla disponibilità di risorse naturali, nei processi di democratizzazione.

37 Due sono le possibili giustificazioni di tale ipotesi fornite dagli autori, anche se la se-conda è preferita sulla base dell’evidenza empirica proposta. Da un lato, tra i compiti della scuola vi è anche quello di insegnare che la partecipazione politica rientra tra i valori fon-damentali per poter diventare un «buon cittadino» (indoctrination hypothesis); dall’altro, la scuola favorisce la socializzazione tra gli alunni, diminuendo così i costi connessi all’intera-zione sociale (socialization hypothesis).

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Per ciascun individuo, tale incentivo non dipende dalle dimensioni del re-gime ma dal tasso di partecipazione al sostegno politico del proprio regime, definito con ai ∈ [0, 1]. In particolare, gli autori assumono che il beneficio, b(ai h), derivante dalla partecipazione politica a favore del regime di appar-tenenza non dipenda soltanto dal tasso di partecipazione ai, ma anche dal livello di istruzione dei membri del regime, h. La funzione b(ai h) permette quindi di catturare l’ipotesi che l’istruzione consenta di aumentare i bene-fici che derivano dalla partecipazione politica, attraverso un duplice ruolo giocato dall’istruzione: da un lato, all’aumentare del livello di istruzione dei supporters di un regime aumenta la loro capacità di persuadere gli altri mem-bri dello stesso regime a essere politicamente attivi e, dall’altro, un individuo, all’aumentare del proprio livello di istruzione, trae maggiori benefici dall’es-sere politicamente attivo perché è meglio in grado di interpretare la realtà che lo circonda e quindi di comprendere le motivazioni che sottostanno al suo impegno politico.

Infine, il terzo tipo di costo connesso all’attività politica descrive il costo dello sforzo che l’individuo deve sostenere nel caso decida di essere politica-mente attivo (identico per tutti gli individui).

L’insieme delle decisioni individuali determinerà, in maniera endogena, il tasso di partecipazione politica di equilibrio. In particolare, è possibile mostrare che, in equilibrio, i) il tasso di partecipazione è una funzione de-crescente rispetto alla dimensione del regime, in linea con le tesi di Olson (1965); ii) il tasso di partecipazione è una funzione crescente rispetto al li-vello di istruzione, indipendentemente dalla dimensione del regime.

Sulla base di ciò, gli autori mostrano che la probabilità che un regime democratico riesca a prendere il posto di un regime dittatoriale al potere au-menta, all’aumentare del livello di istruzione della popolazione. L’intuizione di tale risultato dipende dal diverso ruolo ricoperto dagli incentivi alla par-tecipazione politica in regimi di diversa dimensione. Infatti, gli individui che appartengono a un regime democratico, ossia di dimensioni ampie, fronteg-giano un incentivo di tipo top-down alla partecipazione politica molto ridotto mentre per loro è più rilevante l’incentivo di tipo laterale, la cui importanza aumenta all’aumentare del livello di istruzione. Quindi, maggiori livelli di istruzione favoriscono di più i regimi democratici rispetto a quelli dittatoriali dato che i primi sono più numerosi e per loro, pur essendo meno efficace l’incentivo di tipo top-down, risulta molto più efficace, in termini assoluti, l’incentivo di tipo laterale associato a un livello elevato di capitale umano 38.

38 Gli autori mostrano anche un secondo risultato particolarmente interessante. Nel caso il regime incumbent sia un’oligarchia, le caratteristiche del regime challenger che ha maggiori

256

4.1. La relazione empirica tra istruzione e democrazia

Nell’ambito della scienza politica, esiste un’ampia letteratura empirica che mostra l’esistenza di una correlazione tra l’istruzione e una serie di compor-tamenti nella sfera civica, a testimonianza del fatto che l’istruzione sarebbe in grado di migliorare la partecipazione politica sia in termini quantitativi che qualitativi 39. Tuttavia, come più volte sottolineato, l’esistenza di una correla-zione non implica anche l’esistenza di un nesso causale, dato che sia l’istru-zione che la partecipazione politica e civile potrebbero essere influenzate da una serie di variabili non osservate, come ad esempio le abilità individuali, il background famigliare o la comunità di appartenenza (Moretti, 2006). Re-centemente, questo tipo di problematiche è stato affrontato da Dee (2004) e Milligan et al. (2004) usando un approccio con variabili strumentali. In par-ticolare, Dee (2004) mostra che l’istruzione ha un effetto positivo sulla parte-cipazione elettorale, sul riconoscimento della libertà di parola e sul livello di informazioni possedute (frequenza nella lettura dei quotidiani), mentre Mil-ligan et al. (2004) mostrano l’esistenza di un effetto positivo dell’istruzione sulla partecipazione politica (misurata con la probabilità di recarsi alle urne) negli Stati Uniti ma non in Gran Bretagna 40. Inoltre, sia negli Stati Uniti che in Gran Bretagna, essi mostrano che gli individui più istruiti hanno maggiori probabilità di essere informati sulle piattaforme elettorali presentate dai can-didati, di far parte di gruppi politici e, più in generale, di essere politica-mente attivi.

Per quanto riguarda poi la relazione tra istruzione e democrazia, come nel caso delle relazioni esaminate nelle due sezioni precedenti, nella lettera-

probabilità di sostituirlo dipendono dal livello di istruzione prevalente nella popolazione. Più in particolare, quando il livello di istruzione è basso, è più probabile che il regime challenger che prende il posto dell’incumbent sia anch’esso un’oligarchia. Al contrario, quando il livello di istruzione è elevato, è più probabile che il regime challenger che prende il posto dell’incum-bent sia una democrazia.

39 Si veda Dee (2004) per alcuni riferimenti bibliografici relativi a questa letteratura. Nell’ambito della letteratura economica, Glaeser et al. (2007) mostrano che il coefficiente di correlazione tra istruzione (numero medio di anni di istruzione di un paese nel 1960) e demo-crazia è pari a 74%. Sempre su questo punto, Castelló-Climent (2008) nota come tutti i paesi che nel 1960 avevano un livello medio di istruzione pari a 4 anni oggi sono democrazie stabili mentre i paesi che nel 1960 avevano un livello medio di istruzione inferiore a un anno, hanno continuato ad avere un regime autoritario nel periodo 1960-2000.

40 Questo risultato è influenzato dalla diversa normativa riguardo alla registrazione nelle liste elettorali esistente nei due paesi. Negli USA, la registrazione è responsabilità di ciascun individuo e la complessità della procedura burocratica da seguire dipende dallo Stato di resi-denza. In Gran Bretagna, invece, le liste elettorali sono aggiornate da pubblici ufficiali.

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tura empirica non vi è consenso sulla direzione dell’eventuale nesso causale tra le due variabili. Tra i recenti lavori empirici che confermano la moderniza-tion theory ricordiamo il contributo di Barro (1999) 41. In generale, il risultato principale a cui giunge questo autore mostra che miglioramenti nella qualità della vita hanno effetti benefici sulla democrazia. Più in particolare, Barro (1999) mostra che la qualità di una democrazia è influenzata positivamente da una serie di variabili che descrivono, in senso lato, la qualità della vita di una popolazione e che quindi si riferiscono non solo al reddito, ma anche all’istruzione e alla composizione per classi di una popolazione. Infatti, utiliz-zando dati relativi a 100 paesi per il periodo compreso tra il 1960 e il 1995, l’analisi mostra che non solo il livello di PIL pro-capite, ma anche il numero medio di anni di istruzione primaria, la riduzione nella differenza di genere, sempre nel caso dell’istruzione primaria e l’importanza della classe media influenzano positivamente la qualità di una democrazia 42. Questa è definita da Barro utilizzando due tipi di variabili proxy: un indice dei diritti eletto-rali e un indice delle libertà civili (Freedom House). Per quanto riguarda il primo indice, questo descrive, in generale, il diritto di partecipare alla vita politica di un paese e quindi, in particolare, il diritto di voto e di poter es-sere eletto, nonché il diritto di voto per i legislatori sulle politiche pubbli-che. Sulla base di tale definizione applicata in maniera soggettiva, ogni anno i pae si sono classificati in sette categorie e riportati da Barro sulla scala da 0 a 1. Ad esempio, gli Stati Uniti e la maggior parte dei paesi OCSE si collo-cano in corrispondenza di 1 mentre, nel 1995, l’Indonesia, l’Iraq, la Siria e lo Zaire si sono collocati in corrispondenza dello 0 e la Colombia, il Messico, il Senegal e lo Sri Lanka in corrispondenza dello 0,5. Per quanto riguarda, invece, il secondo indice (fortemente correlato con il precedente), le libertà a cui si fa riferimento sono quelle di espressione, di stampa, di organizzazione, di religione, di istruzione, di movimento, ecc. Come per l’indice precedente, anche in questo caso, i paesi sono soggettivamente classificati in sette catego-rie, riportate da Barro sulla scala 0-1.

Una ulteriore conferma alla modernization theory viene da Glaeser et al. (2004) che mostrano come variazioni in istruzione determinino variazioni non solo nella qualità di una democrazia ma, più in generale, delle istituzioni po-litiche 43. In particolare, l’evidenza empirica proposta da questi autori mostra

41 Si veda anche Przeworski et al. (2000).42 Al contrario, l’istruzione secondaria e terziaria non sembrano avere effetti significativi

sulla qualità di una democrazia ma sembrano, invece, avere effetti positivi sulla crescita mag-giori rispetto all’istruzione primaria.

43 Essi mostrano anche che non esiste una relazione causale di segno opposto, ossia tra democrazia e istruzione.

258

che il livello medio di istruzione della popolazione influenza positivamente le istituzioni politiche nei cinque anni successivi, dove le istituzioni sono misu-rate facendo riferimento a tre diverse variabili proxy («Polity IV»): «vincoli sull’esecutivo», che misura la presenza di vincoli istituzionali al potere deci-sionale dell’esecutivo e in base alla quale i paesi sono classificati in sette cate-gorie; «democrazia», che misura il grado di democrazia di un paese sulla base i) del grado di competitività della partecipazione politica, ii) dell’apertura e della competitività nel reclutamento dei membri dell’esecutivo e iii) dei vin-coli a cui l’esecutivo deve sottostare (in questo caso, i paesi sono classificati in dieci categorie); «autocrazia», che, rispetto alla precedente, considera an-che il grado di regolamentazione della partecipazione politica 44.

Questi risultati sono, però, criticati da Acemoglu et al. (2005), i quali, come nel caso dell’analisi della relazione tra reddito e democrazia, sottoli-neano come l’esistenza di una forte correlazione tra istruzione e democrazia non implichi anche un nesso di causalità. In particolare, essi ritengono che l’esistenza di un tale nesso causale mostrato dai lavori empirici di cui sopra sia dovuto all’uso di analisi cross-section invece che relative a ciascun paese e quindi alla mancata introduzione di variabili che, nel lungo periodo, in-fluenzano sia l’istruzione che la democrazia. Introducendo effetti fissi rela-tivi a ciascun paese, essi mostrano che tale relazione causale viene meno nel breve periodo (5 e 10 anni), in altre parole, «[c]ountries that become more educated show no greater tendency to become more democratic» (Acemoglu et al., 2005, p. 44) 45. Più in particolare, essi replicano le stime di Glaeser et al. (2004) introducendo però effetti temporali che catturano shock comuni al punteggio relativo al grado di democrazia di tutti i paesi e, così facendo, mo-strano che viene meno la relazione positiva tra istruzione e istituzioni 46.

Recentemente, la modernization theory è stata tuttavia riconfermata da Bobba e Coviello (2007) e Castellò-Climent (2008). Il primo lavoro prende in considerazione effetti fissi relativi a ciascun paese ed effetti temporali come in Acemoglu et al. (2005). Diversamente dai lavori precedenti, Bobba e Coviello (2007) ritengono, però, che il livello di istruzione di un paese non possa essere

44 Quando gli autori usano, invece, una quarta misura delle istituzioni, «Autocracy Alva-rez», non ottengono un’influenza positiva dell’istruzione sulla qualità delle istituzioni. La via-riabile proxy «Autocracy Alvarez» classifica i paesi in tre categorie: democrazie, dittature con una legislatura e dittature senza una legislatura.

45 Questo risultato, tuttavia, non esclude che vi siano effetti causali in periodi di tempo più lunghi.

46 Baum e Lake (2001) mostrano, invece, l’esistenza di un nesso causale di segno oppo-sto, ossia che il livello democratico raggiunto da un paese determina la qualità dell’istruzione (e anche dell’assistenza sanitaria).

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considerato una variabile esogena ma debba essere considerata una variabile di tipo forward-looking in quanto gli individui deciderebbero quanto investire in istruzione anche sulla base del livello futuro atteso di sviluppo politico. Uti-lizzando quindi diverse tecniche econometriche rispetto ai lavori precedenti, gli autori mostrano che i livelli passati di istruzione hanno un effetto positivo sia sui livelli che sulle variazioni della democrazia (misurata dall’indice dei di-ritti politici – Freedom House). Anche il secondo lavoro di Castellò-Climent (2008), conferma l’ipotesi di Lipset, pur prendendo in considerazione effetti fissi relativi a ciascun paese. Diversamente dai lavori precedenti, questo con-tributo non si basa sull’ipotesi che la democrazia sia influenzata dal numero medio di anni di istruzione della popolazione ma da come l’istruzione si di-stribuisce nella popolazione: dato che una democrazia ha bisogno di essere sostenuta dalla maggioranza dei cittadini, una distribuzione dell’istruzione più egalitaria dovrebbe favorirla. L’autore fornisce evidenza empirica a sostegno di tale ipotesi, mostrando che la percentuale di istruzione ottenuta dal 60% della popolazione influenza positivamente la democrazia (non solo l’indice dei diritti politici – Freedom House, ma anche «vincoli sull’esecutivo» e «autocra-zia» da «Polity IV», come in Glaeser et al., 2004) 47.

5. Istruzione, crescita e democrazia

Come sottolineato nell’introduzione, l’analisi simultanea delle relazioni tra istruzione, crescita e democrazia, nonostante sembri un campo di inda-gine potenzialmente fertile, è stata al centro di pochi contributi 48. Tra questi, in quanto segue, faremo prima un breve riferimento ai lavori di Saint-Paul e Verdier (1993) e Rajan e Zingales (2006), per poi concentrare maggiormente l’attenzione sul modello di Bourguignon e Verdier (2000) perché, endogeniz-zando tutte e tre le variabili prese in esame, istruzione, crescita e sistema po-litico, fornisce un utile schema teorico per evidenziare come la crescita e il processo di democratizzazione di un paese dipendano dalle politiche pubbli-che in tema di istruzione.

47 Si veda anche Papaioannou e Siourounis (2005) per un lavoro empirico che mostra che l’istruzione ha un effetto positivo nella transizione da un regime dittatoriale a uno de-mocratico.

48 In realtà, già Lipset (1959) offre un’analisi simultanea delle interrelazioni tra istruzione, democrazia e crescita quando afferma che «[i]ncreased wealth and education also serve de-mocracy by increasing the extent to which the lower strata are exposed to cross pressures which will reduce the intensity of their commitment to given ideologies and make them less receptive to supporting extremist ones» (p. 83).

260

Per quanto riguarda il contributo di Saint-Paul e Verdier (1993), questi autori analizzano simultaneamente le tre grandezze nell’ambito di un mo-dello in cui il finanziamento pubblico dell’istruzione svolge il duplice ruolo di redistribuire risorse tra le generazioni e stimolare la crescita. Nel conte-sto dinamico esaminato nell’articolo, l’investimento in istruzione e la crescita sono due variabili endogene tra loro strettamente collegate. Da un lato, la distribuzione del reddito nella popolazione determina attraverso il processo elettorale l’investimento in istruzione che a sua volta influenza la crescita. Dall’altro lato, la stessa distribuzione del reddito varia in maniera endogena grazie al ruolo svolto dall’istruzione nel modificare la trasmissione del capi-tale umano tra le generazioni. Utilizzando tale modello, gli autori mostrano che la democrazia promuove la crescita e che, laddove è presente la demo-crazia, una maggiore diseguaglianza può favorire la crescita, posto che essa permetta maggiori investimenti in istruzione 49.

Il lavoro di Rajan e Zingales (2006) analizza, invece, quali sono i fattori che possono favorire non solo riforme che migliorano il livello di istruzione della popolazione (I) ma anche riforme che aumentano il grado di compe-titività dell’economia di un paese (C), con conseguenti effetti positivi sulla crescita. L’obiettivo principale di Rajan e Zingales è, infatti, quello di indi-viduare le cause che sono alla base del persistere del sottosviluppo in al-cuni paesi, ponendo l’accento sul ruolo svolto dall’allocazione iniziale delle dotazioni individuali (compresa quella in istruzione). Nel contesto in esame, è, infatti, l’allocazione iniziale delle risorse che determina la formazione di diversi gruppi sociali e il relativo potere politico ed economico detenuto da ciascuno (constituency) 50. In particolare, gli autori suppongono che vi siano tre constituencies (tipi di agenti): oligopolisti incumbent, lavoratori istruiti e lavoratori non istruiti. Gli agenti che appartengono alla stessa constituency

49 «It is quite possible, however, that this may not hold if poverty is correlated with non-participation in the electoral process. In such a world, increased inequality may well produce less support for education [...] in which case our model predicts that it would have a negative impact on growth» (Saint-Paul e Verdier, 1993, p. 406).

50 Ciò non significa che Rajan e Zingales negano l’importanza che possa essere svolta an-che da altri fattori, come ad esempio le istituzioni o le politiche pubbliche scelte dai governi. Il loro modello mostra però come il sottosviluppo di un paese possa persistere anche quando tali aspetti del vivere sociale non sono modellati se non in forma minimale e quindi come il persistere «of bad policies is possible without perverse political insitutions (in the sense of constitutional rules aggregating preferences in a skewed or perverse way) and regardless of their ability to produce a supporting ideology» (Rajan e Zingales, 2006, p. 4). Come notano gli stessi autori, nel modello, permane una certa ambiguità sul fatto che le istituzioni politiche siano una variabile endogena o esogena, diversamente dall’approccio di political economy of growth (Acemoglu, 2008a) e, in particolare, del lavoro di Bourguignon e Verdier (2000).

261

hanno le stesse preferenze e quindi votano allo stesso modo nel momento in cui devono scegliere se adottare o meno una determinata riforma rispetto allo status quo 51.

Il risultato principale del modello mostra che lo status quo prevale in un sottoinsieme piuttosto ampio di combinazioni dei parametri principali del modello, così come la riforma C; al contrario, il supporto a entrambe le riforme (IC) difficilmente è raggiunto (solo per un piccolo sottoinsieme di combinazioni dei parametri). Da ciò segue quindi che, da un lato, la riforma I non vince mai: il miglioramento del livello di istruzione è possibile soltanto nell’ambito della riforma IC che, però, vince solo in un insieme ristretto di situazioni: quando esiste una classe media istruita e l’oligopolista è abba-stanza efficiente cosicché le rendite associate allo status quo sono ridotte 52. Dall’altro lato, invece, è molto probabile che lo status quo (e quindi il sot-tosviluppo) persista perché questa è l’alternativa che alla fine vince per un insieme molto ampio di condizioni iniziali. In particolare, in presenza di una società caratterizzata da un’ampia fascia della popolazione che non è istruita, ossia in assenza di una classe media, il piccolo gruppo di individui istruiti è in grado di ottenere ampie rendite e quindi si allea con l’oligopolista per bloccare una riforma che migliori il livello di istruzione della popolazione. Inoltre, sempre in questo contesto, l’ampia fascia di popolazione non istruita condivide con l’oligopolista l’opposizione a riforme che aumentino il grado di competitività del sitema economico, perché tali riforme non avvantaggiano tale fascia della popolazione quando non sono associate a riforme che miglio-rano anche il livello di istruzione 53.

51 A differenza del modello di Bourguignon e Verdier (2000), nell’ambito del quale, come vedremo, è l’élite al potere che sceglie se adottare o meno riforme tese a migliorare il livello di istruzione dei poveri, nel modello di Rajan e Zingales, le riforme sono decise attraverso un meccanismo di aggregazione delle preferenze delle diverse constituencies, compresi quindi i poveri non istruiti. Nonostante i poveri abbiano diritto di voto, gli autori mostrano che «a democracy can sometimes be worse than a dictatorship in promoting development, and that the underprivileged can oppose reform as strongly as the privileged – an otherwise puzzling real-life phenomenon» (Rajan e Zingales, 2006, p. 4).

52 «Reforms that expand access to endowments and expand the opportunities of the very poor, seem to be particularly difficult, and typically emerge as a package of reforms rather than on a stand-alone basis. The extremely privileged oligopolist fears them because they broaden solidarity and could lead to comprehensive reforms, the less privileged educated fear them because they create direct competition to their interests» (Rajan e Zingales, 2006, p. 23). Si veda, inoltre, il testo del paper per una discussione sui motivi in base ai quali difficilmente un sistema di trasferimenti compensatori tra i gruppi può essere impletato per modificare l’equilibrio raggiunto.

53 «More generally, everyone typically enjoys some rents in an uncompetitive environment. More competition typically creates more opportunities for the well-endowed, which compen-

262

In conclusione, secondo il punto di vista proposto da Rajan e Zingales, le cause principali del sottosviluppo non dovrebbero essere ricercate in isti-tuzioni politiche o economiche inadeguate (bad) ma piuttosto in una orga-nizzazione sociale ingessata che si perpetua 54. In particolare, sotto l’ipotesi che le preferenze individuali a favore o contro un maggior grado di com-petitività del sistema economico dipendano dal livello di istruzione, il risul-tato più importante a cui pervengono gli autori è che una maggiore disegua-glianza iniziale nei livelli di istruzione rallenta la crescita imprigionando la società nella cosidetta trappola del sottosviluppo. L’implicazione normativa di tale risultato è quindi che per uscire dalla trappola del sottosviluppo il timing delle riforme diventa cruciale. In particolare, Rajan e Zingales sugge-riscono un approccio di tipo bottom-up: in un primo momento, è necessario modificare la distribuzione delle risorse tra gli individui e poi procedere a migliorare le istituzioni. In pratica ciò significa che prima dovrebbero essere intraprese riforme che migliorano il livello di istruzione della popolazione di un paese e solo successivamente riforme che migliorano il grado di competi-tività dell’economia.

5.1. Il modello di Bourguignon e Verdier (2000)

A differenza del modello di Rajan e Zingales (2006), l’obiettivo princi-pale di questo articolo è quello di mettere in evidenza come il processo di democratizzazione di un paese e il suo processo di crescita dipendano esclu-sivamente dalle scelte fatte dall’élite che, di volta in volta, si trova al potere (l’oligarchia). A questo fine, il meccanismo di decisione politica è endoge-nizzato durante il processo di crescita: ciò significa che il risultato del mec-canismo politico, che permette di selezionare le politiche pubbliche, cambia nel corso del tempo, a seconda delle scelte fatte da coloro che detengono il potere politico in un certo istante temporale. Come vedremo, questo è reso possibile introducendo tre ipotesi che risultano essere cruciali ai fini del mo-dello: i) la partecipazione politica, e quindi la partecipazione al voto, dipende dal livello di istruzione degli agenti 55; ii) il livello di istruzione della popola-

sates them for their forgone rents. But for others who are less well endowed, more competi-tion may mean a loss of existing rents with no compensating increase in opportunities» (Rajan e Zingales, 2006, pp. 5-6).

54 A differenza dell’approccio proposto da Acemoglu (2008a), «[i]nstitutions may often be only the proximate cause» (Rajan e Zingales, 2006, p. 40).

55 Per l’evidenza empirica a sostegno di tale ipotesi rimandiamo alla sezione 4. Ovvia-mente, si potrebbe obiettare che nella realtà vi sono numerosi paesi dove la partecipazione

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zione è scelto esclusivamente da coloro che detengono il potere politico in corrispondenza di ogni istante temporale 56; iii) la crescita economica dipende esclusivamente dall’accumulazione di capitale umano. Sulla base di queste tre ipotesi fondamentali e dei valori che possono assumere le variabili principali del modello, questo predice il raggiungimento di un diverso tipo di equili-brio: a seconda delle condizioni in cui si trova inizialmente un paese in via di sviluppo, alcuni di questi possono collocarsi su sentieri caratterizzati da una crescita lenta e rimanere intrappolati in regimi politici autoritari, mentre altri possono collocarsi su sentieri caratterizzati da crescita sostenuta e apertura a processi di democratizzazione.

5.1.1. Il contesto sociale ed economico

L’economia presa in esame è caratterizzata da una popolazione norma-lizzata a uno e inizialmente divisa in due gruppi di individui: l’oligarchia e il resto della popolazione (i poveri). L’oligarchia rappresenta una minoranza della popolazione, 1 – p, con p > 1/2. Tutti gli agenti che ne fanno parte sono identici e hanno un reddito iniziale pari a yr; inoltre, grazie al fatto di essere figli di genitori istruiti, hanno maggiori capacità di guadagno ed esprimono le proprie preferenze in materia di decisioni pubbliche attraverso i propri com-portamenti di voto. Il resto della popolazione, invece, rappresenta la mag-gioranza, p, ed è composto da agenti identici che hanno un reddito iniziale pari a yp < yr, e che, essendo figli di genitori non istruiti, non partecipano alla vita politica, non recandosi alle urne. Di conseguenza, nel primo periodo, il livello di istruzione dei genitori determina il fatto che i propri figli parteci-pino o meno alle elezioni e quindi la partecipazione politica è esogena. Nel secondo periodo, invece, la partecipazione politica degli agenti è endogena perché dipende dal livello di istruzione ricevuto nel periodo precedente, che è scelto endogenamente dall’élite al potere.

politica è molto elevata nonostante il livello di istruzione della popolazione sia basso. Tuttavia, anche in questi casi, l’ipotesi in oggetto potrebbe comunque essere plausibile se riformulata nel senso di sostenere che la minoranza istruita è più in grado di influenzare il voto della massa non istruita. Da notare poi che, invece, in Glaeser et al. (2007) tale ipotesi significa che gli individui più istruiti sono maggiormente in grado di convincere gli altri membri di un re-gime a partecipare in maniera attiva al sostegno politico del regime stesso.

56 Il modello è pensato con riferimento all’istruzione ma, come notano gli autori, po-trebbe essere reinterpretato con riferimento a qualsiasi altra riforma che, pur avvantaggiando economicamente coloro che detengono il potere politico, permette a nuovi soggetti di entrare a far parte dell’élite di governo, riducendo quindi il potere politico dei primi (ad esempio, riforme terriere o commerciali).

264

Per quanto riguarda la scelta sul livello di istruzione, nel primo periodo, gli individui scelgono se istruirsi o meno e, nel caso decidano di farlo, de-vono sostenere un costo fisso pari a 1. L’istruzione è considerata come un investimento in capitale umano che comporta due tipi di rendimento: un rendimento privato pari a R > 1, ricevuto da colui che decide di istruirsi e un rendimento sociale (esternalità à la Lucas) tale che i redditi di tutti gli individui (istruiti e non) nel secondo periodo sono aumentati di un ammon-tare pari a mE, dove E rappresenta la percentuale di popolazione istruita nel secondo periodo e m è un coefficiente positivo.

Nel primo periodo, per ipotesi, i poveri hanno vincoli di reddito e non hanno accesso al mercato dei capitali che è imperfetto, per cui non sono in grado di istruirsi. Al contrario, nel primo periodo, essendo per ipotesi yp < 1 < yr, gli oligarchi hanno sempre interesse a investire in istruzione dato che sono in grado di sostenerne il costo (yr > 1) e così facendo ottengono il rendimento privato R (per semplicità si suppone non vi sia un tasso di sconto tra i due periodi). Inoltre, sempre nel primo periodo, gli oligarchi scelgono un livello di redistribuzione tale da consentire anche a una certa percentuale di poveri di potersi istruire 57.

Se indichiamo con e il numero di poveri che l’oligarchia decide di sus-sidiare per consentire loro di poter istruirsi, il trasferimento, T, necessario a tale scopo è dato da

[9] = (1 – )pT e y .

Dal punto di vista dell’oligarchia, tuttavia, tale trasferimento è costoso per due motivi. In primo luogo, vi sono costi in termini di efficienza che devono essere sostenuti: per poter finanziare il trasferimento T, l’oligarchia deve pagare una somma pari a

[10]

Ty

+ aTy

2

y ,

dove y rappresenta il reddito medio della popolazione nel periodo 1 ed è dato da y ≡ pyp + (1 – p)yr. Di conseguenza, tale scelta dipenderà dal confronto tra il costo in termini di efficienza [10] che implica la redistribuzione di ri-

57 Si noti che il livello di redistribuzione che ha luogo nel primo periodo è scelto dall’oli-garchia nel suo interesse (i poveri non votano e quindi non possono influenzare in alcun modo tale scelta). Al contrario, Perotti (1993) assume che un certo livello di redistribuzione può es-sere imposto ai ricchi da una maggioranza di poveri (che, in questo modello, invece, votano).

265

sorse a favore dei poveri con il guadagno in termini di esternalità positiva che l’oligarchia sarà in grado di ricevere nel periodo successivo.

In secondo luogo, la redistibuzione implica anche un costo di tipo poli-tico: l’oligarchia finanziando l’istruzione dei poveri indebolisce il proprio po-tere politico perché i nuovi istruiti, nel periodo successivo, voteranno e po-trebbero favorire un livello di redistribuzione molto elevato. A seconda delle dimensioni dell’esternalità associata all’istruzione possono verificarsi due casi principali: i) l’esternalità è sufficientemente elevata da compensare l’oligar-chia del costo di tipo politico che deve sostenere (la perdita che subisce dalla maggiore redistribuzione associata alla perdita di potere politico); ii) l’ester-nalità non è sufficientemente elevata, e quindi l’oligarchia deciderà un livello di redistribuzione tale da permettere a un certo numero di poveri di istruirsi, favorendo quindi la nascita di una classe media, ma senza modificare l’elet-tore mediano del secondo periodo. In questo caso, è nell’interesse dell’oligar-chia ridurre il tasso di crescita dell’economia rispetto a quanto sarebbe possi-bile nel caso in cui, invece, a tutti i poveri fosse data la possibilità di istruirsi.

Da quanto detto, fin d’ora risulta evidente che la distribuzione iniziale delle risorse tra ricchi e poveri e la numerosità degli individui appartenenti all’oligarchia influenzano lo sviluppo economico e politico di una società. A questo proposito, l’ineguaglianza iniziale di reddito tra le due classi è definita con x ≡ yr – yp. Usando tale definizione e quella di reddito medio, possiamo esprimere il reddito dei poveri con yp = y – (1 – p)x e il reddito dei ricchi con yr = y + px.

5.1.2. I risultati principali

La soluzione del modello avviene per backward induction e, quindi, prima di analizzare qual è la percentuale e di poveri che l’oligarchia nel periodo 1 decide di sussidiare, è necessario risolvere il problema relativo al periodo 2. Per fare questo, bisogna però tenere in considerazione che possono verifi-carsi due casi:

caso (i): e < 1 – p. L’oligarchia mantiene il suo potere politico perché e è sufficientemente piccolo. Dal punto di vista dell’oligarchia, essa avrà in-teresse a sussidiare l’istruzione di e poveri se il beneficio marginale di tale trasferimento è maggiore del costo marginale, calcolato in corrispondenza di

e = 0, ossia del primo povero da sussidiare: 1 –1 –

pyp

. Se tale condizione è

soddisfatta, nel periodo 1, l’oligarchia decide di sussidiare un numero di po-veri tale da massimizzare il suo reddito totale calcolato su entrambi i periodi.

caso (ii): e ≥1 – p. L’oligarchia perde il suo potere politico perché e è suffi-

266

cientemente elevato. In questo caso, i poveri che si istruiscono nel primo pe-riodo diventeranno classe media nel secondo periodo e voteranno a favore di una maggiore redistribuzione che non potrà essere bloccata dalla «vecchia» oligarchia avendo questa perso la maggioranza. La politica redistributiva che verrà votata nel secondo periodo prevede un’imposta con aliquota marginale flat pari a t e un trasferimento lump-sum pari a c = tyB(1 – at), dove, yB ,yB ≡ y + (m + R)(1 – p + e) rappresenta il reddito medio della popolazione nel periodo 2 e il termine (1 – at) descrive il costo in termini di efficienza insito nella politica redistributiva. In particolare, dalla soluzione del problema di massimizzazione del reddito nel periodo 2 da parte della classe media, si ot-tiene che

[11] * = 0

* 0

MB

MB

se y y

se y y

dove, yM, yM ≡ yp + R + m(1 – p + e), rappresenta il reddito lordo della classe me-dia. In base alla [11], la classe media sceglierà un’aliquota positiva (nulla), permettendo quindi una redistribuzione di risorse, se il proprio reddito è mi-nore (maggiore o uguale) del reddito medio dell’intera popolazione nel pe-riodo 2. Questo perché l’elettore mediano riferito alla classe media voterà a favore di (contro) una politica redistributiva soltanto se questa implica che il sussidio che riceve è maggiore (minore) dell’imposta che deve pagare. Dato che il sussidio c dipende dal reddito medio della popolazione nel periodo 2, y¤B, la classe media sarà a favore di (contro) una politica redistributiva se il suo reddito è minore (maggiore) del reddito medio dell’intera popolazione. Inoltre, è possibile mostrare che, in [11], l’aliquota t* dipende da e, il nu-mero di poveri che sono sussidiati e quindi possono istruirsi; a, il costo in termini di efficienza associato alla politica redistributiva e D, D ≡ yB – yM, la differenza tra il reddito medio dell’intera popolazione nel periodo 2 e il red-dito della classe media.

A questo punto, data la scelta della politica redistributiva nel periodo 2, è possibile determinare il numero e di poveri che l’oligarchia avrà interesse a sussidiare nel primo periodo. In assenza di una politica redistributiva (t* = 0), il reddito totale (sui due periodi) dell’oligarchia è lo stesso che nel caso (i) e quindi il livello ottimale di poveri da sussidiare sarà lo stesso che nel caso (i). In presenza, invece, di una politica redistributiva (t* > 0), il numero ottimale di poveri che l’oligarchia decide di sussidiare sarà tale da massimizzare la dif-ferenza tra il reddito totale di un oligarca (calcolato su entrambi i periodi) e la perdita di reddito che l’oligarchia deve subire a causa della politica redi-stributiva scelta dalla classe media.

Sulla base di quanto sopra esposto e a seconda del numero di poveri che

267

l’oligarchia decide di far istruire nel primo periodo, possono presentarsi di-verse configurazioni di equilibrio. Quale di queste configurazioni si verifica dipende dal valore assunto dai parametri fondamentali del modello: tra que-sti, i più importanti sono la dimensione dell’esternalità dell’istruzione, m, che misura anche il beneficio che l’oligarchia riceve finanziando l’istruzione dei poveri e la diseguaglianza iniziale di reddito, x, che determina la dimensione della politica redistributiva che sarà votata dalla classe media nel caso l’oli-garchia perda il suo potere politico. In particolare, è possibile distinguere le seguenti configurazioni di equilibrio.

– Pura oligarchia e assenza di crescita: tale configurazione si verifica

quando 1 –1 –

pyp

e quindi l’oligarchia non ha interesse a sussidiare l’istru-

zione dei poveri. – Oligarchia con una classe media minoritaria e una crescita moderata: tale

configurazione si verifica quando, nel primo periodo, l’oligarchia decide di sussidiare l’istruzione di un numero limitato di poveri così da mantenere il potere politico nel periodo 2 (caso (i)).

– Oligarchia con una classe media di dimensione (quasi) uguale e crescita moderata: tale configurazione si verifica quando l’oligarchia, per evitare una politica redistributiva che sarebbe ai propri fini svantaggiosa, decide di istru-ire 1 – p poveri e mantiene il potere politico.

– Democrazia con una classe media che diventa maggioranza ma non vota una politica redistributiva e con crescita media: questa configurazione corri-sponde al caso in cui la classe media una volta ottenuto il potere politico sarà contraria a una politica redistributiva e quindi, nel primo periodo, l’oli-garchia può sussidiare l’istruzione di un numero sufficientemente elevato di poveri perché non subirà alcuna perdita nel periodo successivo e, al contra-rio, potrà beneficiare dell’esternalità dell’istruzione (caso (ii) con t* = 0).

– Democrazia con una classe media che diventa maggioranza e vota a favore di una politica redistributiva e con crescita sostenuta: questa configurazione si verifica quando l’esternalità dell’istruzione è sufficientemente elevata cosicché è nell’interesse dell’oligarchia sussidiare l’istruzione di un numero elevato di poveri anche se questo avviene a scapito del mantenimento del potere poli-tico nel secondo periodo (caso (ii) con t* > 0).

In conclusione, una delle novità più interessanti di questo modello con-siste nell’analizzare in maniera simultanea gli effetti della diseguaglianza ini-ziale del reddito, la dimensione della politica redistributiva e il processo di democratizzazione. Sulla base di tale analisi, il risultato principale a cui per-vengono gli autori mostra che esiste una relazione negativa tra la disegua-glianza nella distribuzione del reddito nel primo periodo, da un lato, e l’inve-stimento in istruzione, il processo di democratizzazione e la crescita, dall’al-

268

tro. In altre parole, tra i paesi caratterizzati da regimi oligarchici, quelli che inizialmente presentano livelli di reddito più elevati e minore diseguaglianza sperimenteranno non solo tassi di crescita più sostenuti ma avvieranno anche più rapidamente processi di democratizzazione e di redistribuzione del red-dito. Tuttavia, ciò non significa che la distribuzione del reddito è più eguali-taria in corrispondenza dei regimi democratici piuttosto che di quelli oligar-chici. Infatti, nel caso in cui sia interesse dell’oligarchia sussidiare l’istruzione di un numero esiguo di poveri, può darsi che, nel periodo 2, la distribuzione del reddito sia più ineguale di quella di partenza perché, anche se l’ester-nalità positiva dell’istruzione produce benefici per tutti, il beneficio privato derivante dall’investimento in istruzione favorisce soltanto la classe media e l’oligarchia.

Infine, si noti che, a differenza di altri lavori (Perotti, 1996; Persson e Tabellini, 1994), una maggiore diseguaglianza iniziale del reddito non è ne-cessariamente associata a una politica redistributiva più generosa. Anzi, cete-ris paribus, una minore diseguaglianza iniziale del reddito garantisce politiche redistributive più generose. Infatti, se inizialmente vi fosse una forte disegua-glianza, l’oligarchia non avrebbe alcun interesse a intraprendere un processo di democratizzazione e, al limite, avrebbe interesse a sussidiare l’istruzione di una percentuale modesta di poveri, in modo tale che la classe media che così verrebbe a formarsi, nel periodo successivo, non avrebbe sufficiente potere politico per votare a favore di politiche redistributive.

6. Considerazioni conclusive

Da un punto di vista individuale, seguendo l’approccio proposto inizial-mente da Becker (1964) e Schultz (1961), l’istruzione può essere considerata un investimento in capitale umano. In questa ottica, il capitale umano di ciascun individuo dipende, infatti, dall’ammontare di istruzione che egli (o i suoi genitori in sua vece) decide di acquisire, dalla qualità del sistema scola-stico frequentato, dalle proprie abilità innate e dal background famigliare di provenienza.

Da un punto di vista sociale, l’istruzione può anche essere considerata uno degli strumenti più importanti per promuovere il concetto di giustizia sociale inteso come uguaglianza delle opportunità tra i membri di una col-lettività. Infatti, se uguaglianza delle opportunità significa che la collocazione sociale di un individuo non deve dipendere dal proprio background fami-gliare, inteso come ricchezza famigliare e/o livello di istruzione dei propri genitori, allora l’istruzione può svolgere il delicato compito di promuovere

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tale uguaglianza di opportunità, favorendo la mobilità sociale. Inoltre, se-guendo Roemer (2006), se la democrazia è intesa come l’istituzione politica che dovrebbe meglio garantire il perseguimento della giustizia sociale, allora essa dovrebbe garantire investimenti sufficienti nel settore dell’istruzione per ottenere il raggiungimento dell’uguaglianza delle opportunità. Tuttavia, per poter assegnare risorse sufficienti a questo settore è importante che vi sia un elettorato a favore di tale investimento e un contesto economico che lo possa permettere (una economia in crescita). Sulla base delle teorie esposte in questo articolo, sembra possibile poter inferire che adeguati investimenti in istruzione possano portare al realizzarsi di almeno due circoli virtuosi. Da un lato, investimenti in istruzione possono avere effetti positivi sulla demo-craticità di un paese e questa, a sua volta, può favorire ulteriori investimenti in istruzione. Dall’altro lato, investimenti in istruzione possono favorire la crescita economica con ulteriori effetti positivi di ritorno sull’istruzione. In più, il realizzarsi di questi due circoli virtuosi può favorire anche un terzo circolo virtuoso messo in evidenza da Persson e Tabellini (2006b), ossia che la democraticità di un paese favorisce la crescita, che a sua volta contribuisce a consolidare la democrazia stessa, con ulteriori effetti positivi sia sulla cre-scita che sulla stabilità democratica.

Infine, come sottolineato da Rajan e Zingales (2006), il timing delle ri-forme è di cruciale importanza e gli investimenti in istruzione dovrebbero essere prioritari rispetto ad altri tipi di intervento, tesi ad esempio ad aumen-tare il grado di competitività di un’economia.

Often, it is felt that the strengthening of property rights and the expansion of competi-tion and associated opportunities will help the very poor [...]. But the lack of endowments, especially of education, may leave the poor unprepared for the market economy. In a second best world, the expansion in opportunities for the middle class may come at the expense of the poor. Perhaps then, in some situations of extreme inequality, it may be wiser to focus first on broadening the access to endowments. If market oriented reforms follow soon after, they may fall on more fertile ground (Rajan e Zingales, 2006, p. 38).

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Theories on the Relationships among Education, Growth, and Democracyby Lisa Grazzini

Summary: The aim of this paper is to analyse how the economic literature has examined the relationships arising among education, democracy, and growth. First, we present a brief survey of the three strands of research which have analysed in a separated way, the relation-ship between education and growth, democracy and growth, and education and democracy. Second, we present a sketch of the model by Bourguignon and Verdier (2000), as an example of a promising field of research which aims to study in a simultaneous way, the relationship among education, growth, and democracy.

Keywords: education, growth, democracy.

J.E.L. Classification: H52; I28; O1.

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Dipartimento di Scienze Economiche, Università di Firenze, Via delle Pandette 9, I-50127 Firenze. E-mail: [email protected].