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ISTITUTO NAZIONALE DI ECONOMIA AGRARIA

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MMOONNDDII AAGGRRIICCOOLLII EE RRUURRAALLII

PPRROOPPOOSSTTEE DDII RRIIFFLLEESSSSIIOONNEE SSUUII

CCAAMMBBIIAAMMEENNTTII SSOOCCIIAALLII EE CCUULLTTUURRAALLII

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Il volume è stato realizzato nell’ambito del progetto INEA “Promozione della cultura contadina” finanzia-to dal Mipaaf e chiude un percorso di riflessione e confronto che ha coinvolto numerosi esperti e operato-ri interessati ai temi del cambiamento sociale e culturale nel mondo agricolo e rurale, ai quali va un sin-cero ringraziamento.

Il volume è stato coordinato e curato da Francesca Giarè.

L’editing è di Manuela Scornaienghi.

Il progetto grafico è di Benedetto Venuto

Foto copertina: Biblioteca storica dell’Agricoltura del Mipaaf

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INDICE

Introduzione 5

Il capitale sociale e umano e lo sviluppo rurale. Alcune riflessioni 13

Le campagne urbane e le nuove forme dell’abitare 23

La legalità in agricoltura: la confisca dei terreni agricoli 57

Tra lavoro e non lavoro. L’agricoltura dentro e fuori le mura del carcere 73

Contesti rurali e benessere individuale 85

Contadini di città 97

Tutti giù per terra:verso un’ecologia della mente 115

Gli immigrati nella società e nell’agricoltura italiana 131

Cultivar e razze autoctone delle aree rurali 145

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INTRODUZIONEdi Francesca Giarè1

Con l’evoluzione del settore primario e l’urbanizzazione della nostra società, ilmondo agricolo e rurale ha subìto forti cambiamenti strutturali (riduzione delnumero di aziende, aumento della SAU, crescente meccanizzazione, diminuzionecapitale umano impiegato, ecc.), che – secondo alcuni - ne hanno modificatoanche i caratteri distintivi (valori, abitudini, tradizioni) che in passato distinguevanoil rurale dall’urbano.Certo è che la situazione si presenta diversificata nei diversi luoghi del mondo,dove le condizioni di incertezza e precarietà, che da sempre hanno caratterizzato ilmondo contadino, aggravate dall’impatto del radicamento del modello produttivodominante, trovano espressione in tanti modi differenti (De Benedictis, 2008). InItalia, probabilmente ci troviamo di fronte a contesti di marginalità sociale ed eco-nomica non sempre strettamente legati con il fenomeno della povertà, come avvie-ne invece nei Paesi dell’Africa Sub-sahariana o dell’America latina, e di manifesta-zione di ruralità differenti dal punto di vista delle produzioni e dei modi di vivere ilrapporto con la terra. Il processo di diversificazione dei modelli agricoli tende,infatti, a divenire più marcato nel tempo (Sabbatini, 2009) e in un periodo di crisidella società moderna e di continui mutamenti tecnologici, sociali ed economici,anche individuare un modello unico con cui analizzare il contesto rurale italianodiventa difficile.Certamente la relazione città-campagna, negli anni, si è venuta ridefinendo e haassunto ora connotati differenti rispetto al passato, anche a seguito di cambiamentipiù generali avvenuti nella nostra società, che hanno riguardato l’innalzamento deilivelli di istruzione, le migrazioni interne e la mobilità territoriale, la composizionee le funzioni della famiglia, i consumi materiali e culturali, la modifica delle rela-zioni di vicinato, ecc..La campagna da luogo di dispersione e isolamento è divenuta elemento di connes-sione tra realtà urbane, luogo in cui si svolge parte della vita quotidiana di famigliee gruppi sociali, contesto culturale e professionale con un legame più o meno fortecon altri luoghi a diversi livelli di urbanizzazione. Da una situazione di (presunta)netta separazione tra città e campagna e, dopo una fase che individuava gli ele-menti urbani e rurali lungo un continuum, oggi molti autori affermano con chiarez-za la non adeguatezza delle categorie di analisi utilizzate in passato per leggere

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Introduzione 5

1 Ricercatrice presso l’INEA (Istituto Nazionale di Economia Agraria)

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questa realtà. Ci troviamo, infatti, di fronte a una situazione – almeno apparente -di maggiore mobilità rispetto al passato e di estrema facilità nel comunicare, anchegrazie alle nuove tecnologie, per cui difficilmente oggi in Italia possiamo parlare dicontesti totalmente o fortemente esclusi (banda larga a parte) dall’informazione edalle opportunità offerte dalla rete per stare nel mercato e nella società in manieraattiva, senza subire in ritardo i cambiamenti che avvengono altrove.Negli ultimi anni, inoltre, mentre è proseguito l’esodo da alcune zone del territorioverso i centri urbani maggiori per motivi di studio e/o di lavoro, si è assistita a unamigrazione in senso contrario, verso luoghi meno caotici e con un costo della vitaminore, da parte di persone che hanno vissuto, studiato, lavorato in città per anni eche sentono il bisogno di un ambiente diverso in cui realizzare una nuova fasedella propria vita. La stessa scelta viene fatta da molti immigrati che, per una mag-giore facilità nel trovare lavoro e alloggi a costi contenuti, si ritrovano nei piccoliborghi delle nostre realtà rurali, dove (ri)creano piccole comunità di origine.Agricoltura e ambiente rurale trovano nuovi spazi anche nei contesti urbani conuna maggiore attenzione alle funzioni sociali, ecologiche, etiche, educative, riabili-tative di attività agricole: orti urbani in aree pubbliche comunali (per la socializza-zione degli anziani e l’autoconsumo, ma anche per la gestione del verde pubblicoa costi bassi/nulli), orti didattici nelle scuole, agricoltura terapeutica in ospedali,case di cura, ecc., utilizzo di animali per la gestione del verde rappresentano espe-rienze interessanti sulle quali diversi autori stanno concentrando l’attenzione.Secondo alcuni si può leggere tra le pieghe di queste esperienze soltanto un tentati-vo di abbellire il contesto urbano con elementi decorativi propri della campagna,cosa che probabilmente risulta vera in alcune situazioni; secondo altri, tuttavia, èpossibile vedere in tali pratiche anche un tentativo di rileggere il rapporto con lanatura e i cicli produttivi in maniera nuova, ristabilendo un contatto reale e sostan-ziale tra situazioni e contesti storicamente separati. La stessa esperienza delle filierecorte, se riletta in questa ottica, consente ad esempio di ricucire il rapporto tra pro-duzione e mercato separato dal consolidarsi dell’economia cittadina in contrappo-sizione con quella rurale.Tali esperienze, che nascono da esigenze e idee progettuali di privati cittadini e/oda enti pubblici, manifestano infatti una nuova richiesta di ruralità (Di Iacovo) chesi differenzia da quella espressa in passato, per collocazione (superamento delladistinzione urbano/rurale), finalità, articolazione dell’offerta. In qualche modoviene quindi ridisegnato il rapporto città-campagna che supera la visione del conti-nuum spazio-temporale lungo il quale differenti contesti si alternano, presentando

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invece una realtà in cui le due anime del rurale e dell’urbano si compenetrano e avolte si confondono. Si parla già da tempo, in questo senso, di nuove opportunitàdi sviluppo per le aree rurali, anche in relazione alla crisi del welfare e alla neces-sità di trovare soluzioni innovative per offrire servizi alle persone, soprattutto nellearee considerate più marginali dal punto di vista economico – e per questo sogget-te a riduzioni dei servizi disponibili - ma che dimostrano una rinnovata capacità diattrazione della popolazione (per bassi costi delle abitazioni, maggiore vivibilità,possibilità di posto di lavoro e/o buon collegamento con centri urbani, ecc.), comeemerge dal consolidarsi delle esperienze di agricoltura sociale e delle riflessioni aesse connesse (Di Iacovo, Senni ).Questa nuova richiesta di ruralità risponde anche a nuove esigenze dei consumato-ri che chiedono sempre più connotati sociali ed etici ai prodotti che consumano, esollecita le imprese agricole a offrire anche altri prodotti e nuovi servizi, ridisegnan-do sia il rapporto città-campagna sia il rapporto produzione-consumo. Si recupera-no in questo modo quei valori tradizionalmente riconosciuti al mondo contadino disolidarietà e accoglienza; tale recupero, tuttavia, avviene secondo alcuni semprepiù per il concorso dei “nuovi rurali” che per l’impegno dei contadini tradizionali(Barberis). Gli imprenditori agricoli e le famiglie che risiedono da sempre in areeagricole e rurali vivono, secondo alcuni, ancora una certa attrazione verso il mitourbano e tendono a modificare i propri comportamenti per uniformarsi al modellodi sviluppo dominante. I neorurali, cioè coloro che sono andati a stabilirsi in cam-pagna dopo percorsi diversi di vita e di lavoro, sono invece rimasti più attaccati aivalori tradizionali, si sono fatti prendere dal “mito contadino”, sono rimasti incan-tati dalle vecchie pratiche dei contadini, che i contadini stessi, quando possono,tendono ad abbandonare. La presenza dei cosiddetti neorurali, probabilmente, sirivela dunque provvidenziale per “salvare” e reinterpretare la cultura contadina e letradizioni proprie del mondo rurale.La tradizione infatti è dinamica, fatta dalle persone, e quindi quando le personecambiano, cambia anche l’atteggiamento verso la tradizione, verso la festa e versoil rito. I contadini chiaramente sono cambiati in questi anni ed è impensabile cheusino le stesse tecniche di 40 anni fa. Anche i riti e le feste hanno avuto una note-vole evoluzione; il gesto è ancora quello antico, ma viene riproposto in chiavemoderna; ciò perché le tradizioni rimangano qualcosa di vivo e non si trasforminoin una semplice riproposizione nostalgica di un atto. Non sono rari, nelle comu-nità rurali che hanno subìto un grosso spopolamento e una disgregazione sociale,casi in cui nuovi residenti riscoprono e reinterpretano sagre, feste, pratiche tipiche

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del luogo, ormai da tempo dimenticate, e ne fanno un’occasione di convivialità, discambio reciproco, ma anche di sviluppo economico. In alcune realtà sono lecomunità straniere insediatesi da poco nei territori rurali a svolgere questo ruolo dirivisitazione delle nostre tradizioni, anche compiendo interessanti operazioni dicontaminazione culturale.Non mancano comunque soggetti e gruppi sociali più propriamente urbani chetendono ancora a vedere la cultura rurale solo come un specie di giostra. Si tratta avolte di “elementi inquinanti”, che tendono a vedere cose che non esistono nellarealtà rurale, a leggere significati nascosti nei gesti e fenomeni culturali che spessonon esistono nella realtà. C’è da parte di queste persone il tentativo di fare unasorta di “non perdita della memoria”, operazione tutta intellettuale, che rischia diprodurre solo contesti museali invece che contribuire al mantenimento di una partedella nostra cultura.Sembra, inoltre, mancare in molti produttori la consapevolezza che fare l’agricolto-re è un gesto politico, culturale e sociale, oltre che economico, che produrre benialimentari e non a partire dalla terra e dall’impresa agricola è anche produrre cultu-ra.Analizzando esperienze nuove e alternative di impresa agricola, possiamo vederecome i cambiamenti avvenuti abbiano interessato non solo la “superficie dellecose” (la dimensione aziendale, il numero degli addetti, le tipologie produttive) maanche probabilmente la “sostanza” del mondo rurale. Secondo alcuni, infatti, lafase attuale è caratterizzata da una differente “natura” del rapporto tra addetti/con-duttori e terra, sintetizzato nella “trasformazione” del contadino in imprenditoreagricolo, che ha permesso alla nostra agricoltura di adeguarsi agli altri settori pro-duttivi e di essere competitiva. Altri, tuttavia, distinguono – più correttamente – losviluppo di una dualità in agricoltura tra imprese competitive sui mercati, ancheinternazionali, e aziende contadine legate più alle tradizioni e all’economia locale.In particolare, alcuni autori, ritengono che il processo in corso indichi ormai, dopola fase di intensa industrializzazione del settore agricolo, una tendenza alla “ricon-tadinizzazione” dell’agricoltura (Var Der Ploeg). In generale però possiamo affermare che l’analisi tende ancora oggi a leggere losviluppo in termini razionali e puramente economici, secondo la visione dominan-te dello sviluppo, mettendo in evidenza una sola direttrice lungo la quale le impre-se, le famiglie, i territori dovrebbero tendere (Cassano). Questa letteratura marca la differenza tra rurale e non rurale attraverso criteri con-solidati a livello internazionale e istituzionale che tengono conto soprattutto di

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macro aspetti quantitativi: il numero di abitanti per Kmq, il numero di aziende agri-cole, il numero di addetti per settore economico, ecc. Tali analisi tendono a foca-lizzare l’attenzione sui fattori carenti (risorse umane ed economiche, servizi, ecc.) egeneralmente non considerano altri indicatori che potrebbero consentire inveceuna lettura diversa dei fenomeni. Non è infatti (solo) la mancanza di beni essenzialia creare nel tempo condizioni ricorrenti di povertà, quanto piuttosto la difficoltà dioperare “razionali combinazioni tra le parti” (Guidicini). Analisi basate su una let-tura più complessiva e approfondita dei dati consentono di evidenziare come nonsia sempre automatico e ovvio il legame tra rurale e sottosviluppo e povertà(Anania e Tenuta, 2008) e come l’introduzione di criteri differenti consentano dianalizzare in maniera più precisa e adeguata il fenomeno. Altre analisi ancora,basate su dati qualitativi, mostrano come alcune tendenze in atto possano consenti-re una (ri)definizione del rurale non solo come contrapposto all’urbano, ma comeelemento autonomo e con connotati positivi in grado di proporre possibili modelli

alternativi di sviluppo (Van Der Ploeg, Di Iacovo, Cavazzani ). Andando oltre l’uni-ca direzione dello sviluppo immaginata dal disegno razionalista, basata su un’uni-ca direttrice di intervento sul territorio in risposta ai bisogni di una sola parte dellacittadinanza e quindi a un unico modello di uomo sociale, si possono infatti deli-neare le diverse possibili declinazioni dello sviluppo, che tengono conto di diffe-renti bisogni in differenti contesti.È lungo questa linea che il lavoro che presentiamo in questo volume intende porsi,senza la pretesa, comunque, di esaurire la discussione e di dare interpretazioniesaustive del rurale. Si tratta di una raccolta di contributi che chiude un percorsoavviato alla fine del 2007 con un ciclo di seminari realizzato nell’ambito di un pro-getto di promozione della cultura contadina finanziato dal Mipaaf. Il percorso haportato il gruppo di lavoro INEA impegnato su questo tema a incontrare persone egruppi con esperienze e percorsi differenti per approfondire insieme, da diversipunti di vista, alcune delle questioni che via via sembravano emergere.È stato un itinerario ricco che ha toccato temi molto differenti, mettendo in campoapprocci metodologici e visioni diverse, con l’obiettivo di creare un quadro artico-lato della situazione, convinti che lo sforzo migliore da fare per (ri)definire il ruraleoggi debba passare per la lettura d’insieme del tema e allo stesso tempo per unapprofondimento costante dei suoi diversi elementi, abbandonando la pretesa diindividuare un unico modello interpretativo. Si è quindi tentato di mettere in evi-denza “l’anima critica del rurale”, cioè quella parte capace di proporre modalità diprogrammazione del territorio e dello spazio nel suo complesso alternativa al

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modello dominante e di reinventare il proprio modo di fare agricoltura.Lontano dall’essere esaustivo dei temi e delle problematiche che riguardano la(nuova) ruralità emergente, il volume vuole essere un contributo al momento di sin-tesi degli elementi che appaiono sulla scena attuale e che possono contribuireall’analisi socio-economica del nostro Paese attraverso l’evidenza delle sue tenden-ze. I contributi sono diversi per tematiche affrontate e per punto di vista adottato.Essi tuttavia consentono di avvicinarsi ad alcune questioni che rimangono spesso aimargini della riflessione sullo sviluppo rurale e sul futuro della nostra agricoltura.Una prima parte del volume è dedicata alla riflessione sul capitale umano e socialee sull’evoluzione che gli approcci e le esperienze hanno avuto negli ultimi anni.L’intervento di chi scrive introduce l’argomento riconducendo la problematica allegame stretto che dovrebbe esistere tra enunciazione di principi e teorie interpre-tative da una parte e prassi promosse dalle politiche ed esperienze realizzate dagliattori locali dall’altro. Il tema è quindi affrontato dal punto di vista del “modo’’ incui le politiche di sviluppo rurale si muovono più che dalle tecniche e dalle risorseeconomiche messe in campo.Maurizio Di Mario e Alfonso Pascale, in continuità con le riflessioni precedenti,danno una lettura del territorio e delle modalità di intervenire su di esso che vaoltre le usuali tendenze della ricerca. Il tentativo che fanno è infatti quello di ana-lizzare le potenzialità dello spazio rurale attraverso le categorie proprie di diversediscipline, dall’urbanistica all’economia, dalle scienze sociali a quelle ambientali.Un secondo gruppo di contributi raccolti nel volume ha l’obiettivo di presentarediversi ambiti in cui l’agricoltura trova espressione e si declina nella società con-temporanea. Elisa Ascione e Manuela Scornaienghi fanno un’analisi del rapportotra agricoltura ed etica presentando dati ed esperienze legate all’uso dei terreniagricoli confiscati alle mafie, mentre Francesca Giarè legge l’esperienza dell’agri-coltura nelle carceri italiane da un doppio punto di vista, quello del lavoro e deilavoratori (con diritti e doveri differenti dagli altri lavoratori) e quello della produ-zione agricola e dei suoi effetti positivi sulle persone. Carmela Macrì evidenzia gli stessi effetti positivi partendo da un’altra esperienzainteressante, quella dei servizi terapeutici e socio-assistenziali realizzati in contestiagricoli. Si tratta di pratiche da sempre presenti nelle imprese agricole e in conti-nuità con la tradizione solidale e mutualistica del mondo rurale, recentemente ana-lizzate sotto una nuova luce, quella dell’agricoltura sociale. È una tradizione inno-vativa della nostra agricoltura, capace di includere soggetti con differenti problema-tiche di tipo sociale (tossicodipendenza, detenzione, alcoolismo, ecc.), sanitario

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(handicap psicofisici, malattie psichiatriche, ecc.) e, più in generale, di disagiosociale (come gli anziani o gli immigrati). Altri due contributi cercano di costruire un ponte tra i contesti urbani e ruralidescrivendo le esperienze degli orti urbani (Adalgisa Rubino e ManuelaScornaienghi) e degli orti didattici (Monica Caggiano). Sono entrambe esperienzeche rispondono alle esigenze di fasce di popolazioni, prevalentemente urbane, manon solo, di ricucire il rapporto con la terra e la natura attraverso la produzione dibeni per l’autoconsumo e la tessitura di relazioni significative di nuova prossimità.Dalle prime esperienze spontanee messe in piedi da singole scuole si è passatinegli ultimi anni a interventi promossi, finanziati e coordinati dalle amministrazionilocali; dalle riflessioni e dalle pratiche vissute in solitaria ci si trova di fronte oggi aun movimento articolato e composito di insegnanti, operatori sociali, tecnici agrarie altri soggetti che si incontrano, si scambiano esperienze – ma anche semi, piante,prodotti – e cercano di consolidare la rete di relazioni avviata negli ultimi tempi.Anche dal punto di vista dell’offerta extrascolastica, le esperienze si sono andatemoltiplicando nelle città così come nei piccoli comuni, con l’obiettivo di offriresoprattutto alle famiglie di anziani (ma non solo) occasioni di incontro, di recuperodi vecchie tradizioni, spesso rilette secondo le nuove esigenze ambientali e sociali,di produzione vera e propria di beni di prima necessità.Un altro contributo, quello di Carmela Macrì sul lavoro e gli immigrati, offre l’oc-casione di riflettere su un tema scottante e sempre più attuale, l’incontro tra culturedifferenti, reso ancora più critico dalla fase di particolare crisi economica e socialeche stiamo attraversando.Chiude il confronto Sabrina Giuca che presenta una riflessione sulla tradizione esull’innovazione in agricoltura a partire da cultivar e razze autoctone. Si tratta di uninteressante contributo che parte da un breve excursus sulla storia dell’agricolturaitaliana fino ad arrivare alle modalità di recupero e valorizzazione dei saperi e deisapori della nostra tradizione contadina.Da questa breve presentazione risulta chiaro come gli argomenti siano tanti e diffe-renti; il tentativo è stato quello di introdurre le questioni e raccoglierle insieme perlanciare anche ad altri la sfida di approfondire i diversi aspetti della “questionerurale”. Se in qualche modo siamo riusciti nell’intento lo dobbiamo alle tante per-sone incontrate lungo il nostro percorso, alle quali va un grande e sincero ringra-ziamento.

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IL CAPITALE SOCIALE E UMANO E LO SVILUPPO RURALE Alcune riflessionidi Francesca Giarè2

Capitale umano e capitale sociale sono considerati sempre di più gli elementi cen-trali dell’economia, soprattutto se caratterizzati da dinamicità e supportati da pro-cessi di formazione orientati a fornire agli individui un sistema utile a trovare, ana-lizzare ed elaborare autonomamente informazioni e conoscenze, e a costruire retidi relazione significative. La riflessione di esperti di diverse discipline si sono soffer-mate in questi ultimi anni molto sugli aspetti che li caratterizzano e sulle modalitàper incrementarli.Possiamo ora dire che il capitale umano può essere unanimemente definito nonsolo facendo riferimento ai livelli di istruzione della popolazione o degli occupati,ma anche e soprattutto dalla combinazione di risorse individuali e sociali, tacite ecodificate. Esso è costituito dall’insieme dei “saperi” che gli individui acquisiscononel corso della loro vita e usano per elaborare e implementare idee, teorie, concettie iniziative di vario genere, incluse le attività produttive di beni e servizi. Non sitratta quindi solo di capacità tecniche acquisite attraverso percorsi formativi codifi-cati e non coincide con le attestazioni formali di studio. Al contrario, il capitaleumano comprende spesso aree di esperienza concreta non formalizzate e non for-malizzabili. Il livello di istruzione delle forze di lavoro – pur essendo un indicatore strutturaleimportante – è quindi un elemento che può concorrere solo in parte alla determi-nazione del livello del capitale umano in agricoltura, accanto ad altri indicatorisignificativi come l’età degli addetti, la “femminilizzazione” del settore, l’introdu-zione di fattori innovativi quali l’informatica e la rete, le modalità organizzativedelle aziende, delle filiere e dei contesti lavorativi. Il capitale sociale, concetto introdotto da Pierre Bordieu (1980) per spiegare i pro-cessi di riproduzione delle classi sociali, viene spesso definito come l’elemento diconnessione tra la struttura sociale e l’economia in quanto concorre a esplicitarel’agire dell’individuo all’interno di specifiche strutture sociali. È quindi costituitodalle opportunità di accesso a risorse materiali e simboliche e dai modelli di socia-lizzazione propri di una società. Più recentemente, la sociologia ha concentratol’attenzione sulla dimensione collettiva del capitale sociale, mettendo l’accento

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sulla presenza di legami di fiducia e reciprocità come esito di uno scambio genera-zionale che può facilitare l’azione collettiva e, quindi, lo sviluppo socio-economi-co di un Paese. In questo senso, possiamo considerare il capitale sociale come unaforma di bene pubblico (Putnam, 1993, 2000), radicato nello sviluppo civico, chetende a realizzarsi esclusivamente all’interno dei gruppi associativi e in altri conte-sti di cooperazione sociale.Nell’analizzare i fattori che concorrono a creare e migliorare il capitale umano equello sociale sono state dunque messe in evidenza le modalità con cui le compe-tenze disponibili in un dato contesto vengono valorizzate, rinnovate e capitalizza-te. La rete di relazioni, le modalità organizzative e operative di un contesto, ladiversità dei soggetti coinvolti costituiscono secondo questo approccio la base fon-damentale su cui far leva per costruire il capitale sociale e umano di un territorio.Da queste premesse sono partiti anche molti interventi di sviluppo rurale, chehanno coniugato gli assunti teorici di riferimento con pratiche operative che nonsempre, per la verità, hanno consentito di raggiungere gli obiettivi prefissati.

Governo del territorio e progettazione partecipata

Da ormai diversi decenni, la Comunità europea e i governi nazionali hanno impo-stato gran parte della propria politica di sviluppo e di coesione prevedendo inter-venti a livello locale caratterizzati da diverse forme di partecipazione della cosid-detta base sociale. Si tratta di iniziative finanziate da enti pubblici finalizzate allo sviluppo di territoricaratterizzati da particolari situazioni di disagio, come nel caso dell’IniziativaComunitaria Leader, per le quali si prevede un intervento integrato e intersettoriale.In altri casi, si tratta invece di progetti finalizzati a intervenire su specifici ambiti osu particolari settori della popolazione, come i giovani, i soggetti con handicap, glianziani, gli immigrati (in particolare occorre citare l’Iniziativa Equal). Anche a livel-lo regionale, diverse amministrazioni hanno promosso esperienze di progettazionedal basso e intersettoriali con l’obiettivo di rispondere con migliore precisione aibisogni di specifici contesti locali.Si parla, in tutti questi casi, di approcci che tengano conto delle istanze dei territorie delle persone: bottom up, progettazione integrata, animazione territoriale, sonotutti termini utilizzati per indicare il tentativo dei governi – nazionali o locali - diprogettare e realizzare interventi che rispondano alle reali esigenze dei cittadini. Se il paradigma dello sviluppo locale endogeno si basa sulla determinazione locale

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delle opzioni di sviluppo, sul controllo locale del processo di sviluppo e sullo sfrut-tamento in loco dei benefici dello sviluppo stesso (Slee, 1992), il ruolo del capitaleumano e sociale dovrebbe diventare il nucleo fondamentale di ogni intervento e diogni conseguente valutazione dei suoi risultati. Per attivare processi di bottom upnelle aree marginali rurali, dovrebbero essere presenti, in teoria, almeno tre tipi dirisorse: un capitale umano competente e altamente qualificato, una rete coesa disoggetti, una leadership capace di mediare tra le diverse esigenze e portare a con-clusione il processo stesso. Il focus su tale aspetto, dunque, sembra doveroso.In molte delle esperienze realizzate, invece, i principi enunciati sono stati realizzatisecondo schemi e prassi tradizionali che hanno visto solo una partecipazione for-male della base sociale, per lo più attraverso le rappresentanze locali organizzate euna scarsa attenzione allo sviluppo del capitale sociale e umano. Ad esempio,nell’IC Leader fin dall’inizio è stata messa in evidenza l’importanza del fattoreumano e l’esigenza di coinvolgere la popolazione nei processi di sviluppo da atti-vare nei territori rurali; tuttavia, le modalità proposte nelle tre edizioni e le praticheadottate non sembrano essere state sempre coerenti con le premesse. Il partenariato(rete coesa di soggetti), ad esempio, è stato imposto come presupposto formaledella partecipazione all’IC, la leadership è stata delegata in molti casi alla sferapolitica per quanto riguarda la presidenza dei partenariati (leadership formale) ealla sfera tecnica per quanto riguarda la gestione operativa dei PSL (leadership tec-nica). L’accento sulla leadership, invece, è stato inteso come importanza di indivi-duare il soggetto o i soggetti con l’idea più originale e innovativa attorno alla qualesviluppare il PSL, concentrando l’attenzione sugli aspetti tecnici del processo (cosafare, quale innovazione) più che sul processo (come fare, come aggregare i sogget-ti, come creare un gruppo coeso).Si tratta, infatti, di un’interpretazione “limitata” del concetto di bottom up: secondole politiche di sviluppo e i “teorici del partenariato”, sviluppo dal basso significaessenzialmente raccolta delle istanze delle rappresentanze organizzate di un terri-torio. In passato, personalità come Adriano Olivetti avevano inteso diversamente laprogrammazione dal basso interpretandola come sviluppo di comunità, basatoessenzialmente sul coinvolgimento della comunità in un processo di crescita e disviluppo comune. La differenza tra raccogliere e mediare tra interessi di un territo-rio e coinvolgere la popolazione e i soggetti organizzati nell’analisi dei bisogni enell’individuazione delle strategie di sviluppo è sostanziale. Da una parte si ha lamediazione tra visioni già consolidate della realtà in oggetto, dall’altra si ha uncammino condiviso anche nella lettura di tale territorio. È, come dire, la differenza

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che intercorre nel gergo sindacale tra la contrattazione (che presuppone piattafor-me differenti già stabilite) e la concertazione (che richiede una lettura condivisadella situazione di partenza, delle necessità del momento, dei vincoli e delleopportunità).Ma la molteplicità e la complessità dei problemi pubblici da affrontare ha portatoormai da tempo ad affidare un ruolo importante alle rappresentanze organizzate eal lavoro degli esperti, generando – di conseguenza - una sorta di conflitto tra poli-tica e tecnica: si è infatti assistito alla crescita dell’esercizio di delega delle decisio-ni a organismi o persone con conoscenze specifiche, in grado di fornire risposte“oggettive” ai problemi da risolvere. Se però l’esperto è efficace nel trovare soluzio-ni tecniche ai problemi, non rientra nei suoi compiti la definizione degli obiettivi disviluppo che, riferendosi necessariamente a una scala di valori, sono ascrivibili allasfera della politica e della società e spettano, quindi, alla popolazione nel suoinsieme.

Formazione, innovazione e apprendimento

Nelle esperienze realizzate in questi anni è spesso mancato un approccio “più ele-vato” alla formazione e soprattutto diverso al capitale umano. L’impostazioneseguita rispecchia infatti l’approccio socio-economico che sta alla basedell’Iniziativa comunitaria Leader e dell’elaborazione degli altri strumenti di pro-grammazione regionali e nazionali, risentendo della mancanza di quella culturaformativa che invece negli anni si è andata costruendo anche in Italia, secondo laquale la centralità di ogni processo di apprendimento/cambiamento deve risiederenelle persone coinvolte e nel contesto in cui le persone si trovano. In altre parole,la formazione costituisce l’output di un processo di apprendimento che coinvolgegli aspetti culturali (le conoscenze e le competenze delle persone, il sistema deivalori e delle tradizioni, le motivazioni, le aspettative, ecc.) e gli aspetti organizzati-vi e contestuali, che ne costituiscono le “condizioni” di realizzazione.Secondo tale approccio, il corso è solo uno dei modi di fare formazione e di incide-re in maniera significativa sul capitale umano (e su quello sociale); sarebbe inveceopportuno – quando si parla di adulti e di contesti organizzati – operare in terminidi lifewide learning, cioè dell’insieme degli apprendimenti formali, non formali einformali che si realizzano nel corso della vita. Ogni intervento dovrebbe dunqueessere inserito in una cornice più complessiva di iniziative, in cui può trovare spa-zio anche la formazione tradizionale – meglio se a domanda e individualizzata – apatto che sia accompagnata da altre azioni, da altre tipologie di formazione come

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quella a distanza, il project work, l’action learning, e dalla costruzione di progettireali e realizzabili di innovazione e cambiamento organizzativo e produttivo. Il cambiamento di prospettiva che dovrebbe interessare le iniziative sul capitaleumano negli interventi di sviluppo rurale, dovrebbe – in sintesi – ripercorrere il per-corso fatto nell’ambito delle innovazioni in agricoltura. A tal proposito, occorrenotare come anche nel campo dello sviluppo agricolo e rurale l’attenzione degliaddetti ai lavori si sia progressivamente spostata dalle innovazioni ai contesti, rico-noscendo ciò che le teorie dell’apprendimento già da tempo andavano affermando:il fattore interno (le conoscenze, le motivazioni, gli interessi, ecc. del soggetto) inci-de sul cambiamento in maniera decisiva e molto più incisiva del fattore esterno(l’innovazione, l’informazione, il contenuto, ecc.). Per tale motivo l’accento si ponepiù di frequente sul modo in cui un’innovazione viene proposta e adottata in undeterminato contesto, sugli elementi che caratterizzano il contesto stesso, sugli stiliaziendali dei soggetti che rielaborano e introducono l’innovazione, piuttosto chesull’innovazione in sé (Van der Ploeg, 2006). La difficoltà è, nel nostro specificoambito di intervento, di operare una similitudine tra ciò che riguarda l’introduzionedi un’innovazione tecnica e un’innovazione che riguarda piuttosto le relazioni e lemodalità di lavoro. Se, infatti, lo sviluppo locale endogeno deve far leva su unarete coesa di soggetti competenti (che nei contesti marginali manca) e su una lea-dership capace di determinare e controllare un processo in loco, occorre offrirel’opportunità alle persone del territorio di formarsi lavorando insieme, magari con ilsupporto di forme di consulenza e supervisione specifiche nell’ambito di contestiorganizzativi ben definiti, in modo da produrre, al termine dell’intervento, comerisultato l’apprendimento e il cambiamento.

La questione della partecipazione

Ripensare, quindi, le modalità di governo di un territorio richiede di rivedere gliassunti teorici di riferimento, primo fra tutti , il concetto di partecipazione.Coinvolgere i cittadini nel processo di decisione significa, infatti, mutare completa-mente metodi, tecniche, strumenti di partecipazione: un progetto di sviluppo nonpuò essere il prodotto del lavoro di tecnici, né il risultato di una mediazione trapolitici, ma deve rappresentare il risultato di un processo che coinvolge, con ruoli ecompiti diversi, tutti i soggetti presenti su un territorio o interessati a una questioneda risolvere. Su tale tema rimangono aperte numerose questioni: innanzitutto sarebbe importan-te riflettere su come si costruisce una partecipazione rappresentativa e si affronta il

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problema della selettività dei processi partecipativi. È noto, infatti, che a tali inizia-tive generalmente partecipa solo chi sa già come difendere i propri interessi ed èculturalmente ed economicamente attrezzato alla partecipazione. I processi parte-cipativi, infatti, rischiano di creare non solo circoli virtuosi, ma anche circoli viziosinei riguardi delle persone che hanno minore vicinanza con tali metodologie: chinon partecipa di frequente a iniziative di questo genere, spesso, si sente poco coin-volto, non vede nell’immediato dei risultati tangibili, e ha la sensazione che tutto siriduca a una “chiacchierata tra amici”; per questo tende a non partecipare ad altreiniziative simili o comunque a sottovalutarne la portata. In realtà, è la questione della partecipazione a essere spesso sottovalutata dai poli-tici e anche dagli esperti di sviluppo, soprattutto per una inadeguata riflessionesugli aspetti più generali e teorici a essa connessi. Innanzitutto, l’utilizzo di unapproccio partecipativo può avere almeno due motivazioni, radicalmente differenti:la prima, di tipo funzionale, vede nella partecipazione lo strumento per ottenere ilconsenso rispetto alle iniziative da realizzare; la seconda vede nell’attivazionedella partecipazione la finalità principale dell’intervento stesso.Il punto centrale sta – in questo caso – nel nesso tra fini e mezzi che bene avevamesso in evidenza Dewey nel secolo scorso3 il valore di un fine è dato soprattuttodai mezzi necessari al suo conseguimento e dalla qualità dell’esperienza che pro-muove; esso è importante solo in quanto rappresenta l’orientamento dell’esperienzain corso. Fini e mezzi si legano, quindi, in un rapporto reciproco che dà significati-vità a entrambi e che mette in evidenza il rapporto tra presente e futuro. Laddove aimezzi è attribuita una funzione meramente pratica, lasciando ai fini il ruolo di por-tatori di valori ci si trova, di conseguenza, in una situazione inadeguata.L’approccio partenariale formalmente inteso, inoltre, si basa sul presupposto para-dossale, di cui si parlava in precedenza, secondo il quale gli interessi diversi e spes-so conflittuali degli attori sociali possano, in una situazione data, convergere in unapiattaforma comune d’intenti che riassuma e che rifletta le diverse posizioni. Taleidea, presuppone, infatti, che ci sia sostanzialmente una parità in termini di interes-si messi in campo e di possibilità di mediazione (paradosso della concordanza diinteressi), di possibilità decisionali (paradosso dell’uguaglianza del potere) e in ter-mini di conoscenza del territorio, delle sue potenzialità e dei suoi bisogni reali, masoprattutto delle potenzialità dello strumento programmatorio messo in campo(paradosso della simmetria informativa).

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3 Il nesso tra mezzi e fini costituisce uno dei fili conduttori della riflessione di John Dewey, soprattutto in relazioneal rapporto tra democrazia ed educazione.

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Il ruolo della progettazione

Negli ultimi anni il ruolo della progettazione nella riuscita delle iniziative e delleattività finalizzate al miglioramento dei contesti locali è stato messo in evidenza dapiù parti. Una buona progettazione – è opinione ormai comune - offre una maggio-re garanzia di successo dell’iniziativa, permette una verifica più puntuale di quantorealizzato, favorisce la documentazione dell’attività e, quindi, la diffusione delleesperienze e delle cosiddette buone prassi.La formalizzazione di un progetto, quindi, è diventato elemento necessario ancheper le pubbliche amministrazioni, senza la quale non si concedono finanziamenti esupporti di vario genere per la realizzazione degli interventi.Da più parti si fa però notare la scarsa capacità dei soggetti che presentanodomanda di finanziamento di presentare progetti ben costruiti, secondo le indica-zioni di volta in volta fornite da formulari e schemi da compilare. Motivo per cuinegli ultimi anni sono fiorite iniziative editoriali sul tema a cura delle stesse ammi-nistrazioni pubbliche o di istituti o, infine, di singoli esperti, e sono stati organizza-ti numerosi momenti informativi e formativi per promuovere una corretta progetta-zione degli interventi. Le iniziative riguardano sia metodi e strumenti per la proget-tazione di interventi di diversa natura, sia programmi specifici di finanziamento.Ciò che sfugge molto spesso all’attenzione di chi presenta metodi e strumenti per laprogettazione, però, è la necessità di focalizzare l’attenzione sugli aspetti teorici egenerali che guidano tale processo e che consentono di avere una visione più com-plessiva dei fenomeni e delle risposte che ci si appronta a confezionare. La man-canza di un tale approccio finisce, infatti, per consolidare atteggiamenti superficialinei confronti di temi così importanti, con il conseguente proliferare di false proget-tazioni basate su letture ideologiche dei problemi, con finalità altisonanti ed elen-chi banali di risposte buone per ogni occasione.Il punto della questione è essenzialmente uno: progettare lo sviluppo è una cosamolto seria e difficile, che richiede competenze complesse ed elevato senso diresponsabilità; prevedere la partecipazione dei diversi soggetti coinvolti nel proces-so di sviluppo comporta ulteriori competenze specifiche e un senso di responsabi-lità ancora più elevato, perché attivare le aspettative e non produrre risultati puòessere ancora più deleterio per un territorio e una comunità della mancanza diinterventi e dell’abbandono da parte delle istituzioni. Tuttavia risulta importanteanche considerare la progettazione come il punto di equilibrio tra la necessità diformalizzare il processo che si vuole avviare e quella di lasciare aperta la possibi-lità di modificare anche sostanzialmente la strategia individuata in base alla rispo-

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sta del territorio e delle persone coinvolte. In questo caso, però, si corre il rischio di pensare a interventi troppo indeterminati,che spesso si tende a giustificare con la necessità di accompagnare il processosenza forzarlo dall’alto. Per progettare un intervento di sviluppo non basta dunqueavere una buona capacità tecnica nel progettare; occorre avere buone idee, tecni-ca, capacità di prefigurare possibili scenari futuri, competenze negoziali, soprattut-to se si vuole utilizzare un approccio partecipativo.

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LE CAMPAGNE URBANE E LE NUOVE FORME DELL’ABITARE di Mazurizio di Mario e Alfonso Pascale3

Le città e le metropoli del mondo contemporaneo sono sempre più gravate da pro-blemi sociali, ecologici e funzionali, che vanno dalla povertà alla criminalità, daldegrado ambientale al traffico. I segni di questo malessere sono impressi nelle epo-cali metamorfosi delle geografie fisiche, economiche e sociali indotte dalla globa-lizzazione: i nuclei delle città diventano sempre più vuoti ed esplodono gli spaziaperti, dove brandelli urbanizzati superano spontaneamente i perimetri urbani sto-rici e conquistano aree agricole alle prese con mercati sempre più aperti e competi-tivi e con faticosi processi di riorganizzazione.Cresce il numero degli immigrati che affollano le bidonville e aumentano le perso-ne che lasciano i centri urbani e le loro attività per spostarsi nei territori aperti allaricerca di risposte esistenziali. Sono soprattutto le donne delle città e delle campa-gne che, rivitalizzando alcuni valori della ruralità ed elaborando inedite domandesociali, (re)inventano stili di vita e modelli di produzione e di consumo che nonsono più né rurali né cittadini. Sicché la questione urbana non attiene più soltantoalla qualità della vita, da affrontare dotando la città di servizi collettivi e di spaziverdi, ma è ridiventata una grande questione sociale perché i fenomeni di esclusio-ne si sono ingigantiti. E solo la dimensione territoriale è in grado di offrire lo spazioper avviare percorsi di sviluppo sostenibile, intesi come nuove costruzioni sociali. “La città è ovunque. Dunque non vi è più città”, ammonisce Massimo Cacciari(Cacciari, 2004); eppure, nonostante un “nuovo mondo” si sia ormai disvelato sottoi colpi delle ricolonizzazioni degli ambiti agricoli dismessi come delle immigrazio-ni e nella forma di un mix di attività e di insediamenti abitativi differenti per dimen-sione, tipologia e densità, nessuno nel panorama culturale italiano, né chi si occu-pa di agricoltura, né il mondo ambientalista, né gli urbanisti, né altri osservatori,salvo poche eccezioni, pare mostrare un qualche interesse a vederlo. Lo stessodiscorso pubblico sul paesaggio, che ha avuto un rilancio insperato dalla metàdegli anni ’80 in poi, se da una parte si presenta con una visione olistica e neou-manistica più convincente rispetto alle riduttive rappresentazioni meramente esteti-che del passato, dall’altra non riesce a intercettare la nuova dimensione socialedella questione urbana, le contraddizioni e i conflitti che essa apre (Sampietri,2008).

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4 Maurizio di Mario è Responsabile del Gruppo di Studio “Politiche agricole” dell’Istituto Nazionale di Urbanistica(INU); Alfonso Pascale è Presidente Rete Fattorie Sociali

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In una crisi economica mondiale che si annuncia peggiore di quella del 1929 ementre si dibattono temi, come le conclusioni dell’ Health check e le prospettivedella PAC per il post 2013, il “Libro verde” sul futuro del modello sociale delMinistero del Lavoro fino al più recente Piano casa 2009, di cui si stentano tuttaviaa riconoscere chiari palinsesti strategici, è forse utile soffermarsi su concetti, ideeed esperienze che potrebbero offrire spunti per nuove politiche di sviluppo.

L’urbanizzazione del pianeta

Nel 1950 meno di un terzo della popolazione mondiale (il 29 %) era urbano. Oggi,a distanza di poco più di mezzo secolo, metà della popolazione vive nelle città.Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, nel 2030, il tasso di urbanizzazionedovrebbe superare il 60 %.Finora abbiamo considerato la crescita costante della popolazione urbanizzata unesito dello sviluppo economico. Ma potrebbe trattarsi in larga misura dell’effettodel carattere repulsivo delle campagne ed essere, pertanto, un fenomeno autonomodai meccanismi di sviluppo (Vèron, 2008).In origine, a determinare il fenomeno urbano è stata in larga misura l’invenzionedell’agricoltura: l’aumento della produzione alimentare per unità di superficie hapermesso di realizzare un surplus cospicuo rispetto alle esigenze del consumo disopravvivenza, soddisfatte appena nell’economia della raccolta e della caccia. Imiglioramenti delle tecniche agricole, a partire dall’irrigazione, e l’accumulo deiprodotti consentirono che una parte della popolazione si dedicasse ad altre attivitànecessarie, quanto l’agricoltura, alla vita della comunità. È così che è aumentata ladensità di popolazione in un determinato luogo. Senza la rivoluzione neolitica,l’urbanizzazione sarebbe stata impossibile: per nutrire una città di 1.000 abitantisarebbe stato necessario un territorio più vasto di quello della Gran Bretagna.Con questo non si vuole dire che l’agricoltura abbia indotto direttamente il fenome-no urbano ma ne ha costituito la condizione preliminare. Ha preceduto e plasmatola sua prima forma, la cosiddetta “proto-urbanizzazione”. Non a caso le primecittà, come Gerico, fondata attorno al 7800 A. C., vengono definite “città pre-urba-ne”. Ma la vera rivoluzione urbana avviene in Medio Oriente negli anni 3500-3000 A.C. quando le città raggiungono i 20.000/30.000 abitanti. Da allora l’urbanizzazio-ne è notevolmente cresciuta a ritmi sempre più accelerati. Nel 1700 della nostra epoca, la popolazione mondiale superava il mezzo miliardo;il numero di cittadini si situava tra i 60 e gli 80 milioni, con un tasso di urbanizza-

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zione prossimo al 10 %.È tuttavia con la rivoluzione agricola, caratterizzata dall’abolizione del maggese,che si avvia l’industrializzazione, dapprima nel Regno Unito fin dal XVIII secolo epoi nel resto d’Europa, ed esplode il fenomeno urbano. L’aumento della produtti-vità agricola consente, infatti, una nuova crescita urbana. Sicché le città, in quantocentri di innovazione e di diffusione della tecnica, spingono lo sviluppo industriale.E grazie a esso, le dimensioni delle città possono accrescersi notevolmente. Nel1950 la popolazione europea diventa così prevalentemente urbana.I tassi di urbanizzazione dell’Africa e dell’Asia sono indubbiamente ancora moltobassi in rapporto a quelli degli altri continenti, ma è in Asia che si trova – e di granlunga – il numero più elevato di persone che vivono in città: la popolazione urbanadi questo continente è stimata a circa 1,5 miliardi di abitanti nel 2003, una cifrapiù di due volte superiore a quella della popolazione urbana del continente ameri-cano, che si trova in seconda posizione.La crescita urbana dei prossimi trent’anni avrà luogo principalmente nei Paesi invia di sviluppo. L’Africa dovrebbe conoscere il ritmo di crescita della popolazioneurbana più elevato: le Nazioni Unite stimano che il tasso di crescita medio annuodel continente sarà del 3,1% nel periodo 2000-30.

La nuova questione sociale e la periurbanità

Ultimamente la questione urbana ha assunto i caratteri di una vera e propria que-stione sociale con risvolti molto rilevanti nell’evoluzione della nuova ruralità. InItalia, la maggior parte delle città, soprattutto quelle più grandi, è diventata meta diuna ulteriore ondata di immigrazione dalle aree più periferiche delle singoleRegioni e dell’Italia, nonché dal Sud del mondo. Se è la miseria a motivare princi-palmente la fuga dai Paesi poveri, sono soprattutto la mancanza di lavoro per i gio-vani e l’erosione della rete dei servizi di prossimità a provocare l’abbandono dellenostre aree più periferiche. Nelle aree rurali più interne del nostro Paese, il fenomeno dell’invecchiamento cheinteressa tutta la società si sta accompagnando a quello dello spopolamento. Dauna parte, infatti, la concentrazione di anziani ha fatto aumentare la richiesta diservizi sanitari e cure mediche; dall’altra, l’inadeguatezza delle strutture ospedalie-re collocate nelle aree rurali fa sì che la popolazione locale tende a migrare verso icentri urbani per accedere a servizi sanitari di qualità (Di Iacovo-Senni, 2006).Sicché migliaia di piccoli comuni delle aree più interne dell’Appennino rischianodi estinguersi. E questo processo di spopolamento sta comportando anche l’abban-

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dono di vaste estensioni di aree agricole coltivate. Su 30 milioni di ettari, quant’ètutta la superficie del nostro Paese, 2,7 milioni sono le aree urbanizzate, mentresono 6 milioni i terreni che, negli ultimi anni, da pascolo sono diventati boscaglia aseguito di dismissioni di attività produttive (Notiziario INSOR, 2009). E tali superficisono collocate lungo la dorsale appenninica.I nuovi arrivati dalle aree rurali più interne non vanno più a insediarsi nei centriurbani, ma, insieme agli immigrati provenienti dai Paesi in via di sviluppo, vannoad abitare in quelle estese porzioni di territorio in cui convivono permanentementesia i caratteri tipici dell’urbanità, come la tendenza a una elevata densità demogra-fica e la prevalenza dell’edificato sull’open space, che i caratteri tipici delle areerurali, come la presenza di attività non solo agricole che si collegano al patrimonioculturale e paesaggistico dei luoghi di riferimento.In questi territori non si addensano più soltanto le villettopoli dei ricchi e i tuguridegli immigrati e dei nomadi, ma anche le abitazioni delle persone che rifuggonol’impazzimento delle città e ricercano in nuove attività agricole e rurali una secon-da chance per dare un senso alla propria esistenza. A cui si aggiungono le abitazio-ni a basso costo dei nuovi arrivati dalle zone più interne e dei nuovi poveri, cioè diquelle persone che pur lavorando saltuariamente hanno perduto le protezioni chepermettevano loro di assicurarsi l’indipendenza economica e sociale (Castel,2008).Questi sono attualmente i ceti sociali coinvolti in quel fenomeno descritto per laprima volta nel 1976 in un volume di Bauer e Roux con il termine di “periurbaniz-zazione”, derivante da due fattori principali: in primo luogo dai processi di urba-nizzazione intesi come espansione della città che determinano il consumo di suoliprogressivamente più periferici rispetto ai nuclei urbani consolidati, attraverso edifi-cazioni e infrastrutturazioni; in secondo luogo i processi di edificazione diffusa(sprawling) determinati principalmente da nuove preferenze abitative connesse allalocalizzazione di residenti e imprese in ambito rurale (Bauer-J.M. Roux, 1976).Questo fenomeno non ha più il carattere transitorio e fortemente dinamico dellafase in cui il flusso migratorio era solo quello derivante dalla fuga dalle aree piùperiferiche e motivato dalla crescita di opportunità di lavoro e di reddito nelle cam-pagne urbane. Ma ha assunto una condizione stabile, come esito dell’espansionediffusa della città a seguito dei processi di “rurbanizzazione ” derivanti dal progres-sivo trasferimento di popolazione urbana in ambito rurale (Ventura-Milone-Ploeg,2003).In alcuni territori della nostra Penisola, come le aree della Pianura Padana e le zone

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di pianura e collina costiera del Centro-Sud, la condizione di periurbanità è diven-tata strutturalmente preponderante rispetto alle condizioni estreme di urbanità eruralità, al punto che alcuni autori hanno introdotto il concetto di agro-ecosistemaurbano-rurale o di bioregione rurale-urbana, per indicare la ormai inscindibileinterconnessione, che attraverso i territori periurbani, si realizza tra ambiti rurali eambiti urbani (Council for Agricultural Science and Technology, 2002; Iacoponi,2004). In molti casi, quindi, “periurbano” è diventato quello spazio e quella dimen-sione sociale ed economica in cui convivono stabilmente caratteri e segni differen-ti, derivanti da matrici e dinamiche in alcuni casi contrapposte, quali quelle tipichedei processi di urbanizzazione e, al loro opposto, quelle di ruralizzazione. Questa contraddittorietà si è verificata in forme diverse anche in altre fasi storichedell’evoluzione della civiltà urbana e dipende dal fatto che noi abbiamo sempreavuto un atteggiamento duplice e contraddittorio nei confronti di questa forma divita associata: da una parte ci rivolgiamo alla città come a un luogo di otium nelquale ritrovarci, riconoscerci come comunità, un luogo accogliente, di scambioumano, una casa; dall’altra, sempre più la consideriamo una macchina, una fun-zione, uno strumento che ci permetta col minimo d’impedimento di fare i nostrinegotia (nec otia), i nostri affari. Quando la città delude troppo e diventa solonegozio, allora cominciano le fughe, così ben testimoniate dalla nostra letteratura:le arcadie, le nostalgie per una più o meno mitica età non-urbana; d’altra partequando invece la città assume davvero i connotati dell’agorà, allora immediata-mente ci affrettiamo a distruggere questo tipo di luogo, perché contrasta con la fun-zionalità della città come mezzo, come macchina. Voler superare tale incoerenza ècattiva utopia. Occorre invece valorizzarla in quanto tale, farla esplodere, darleforma perché la nostra domanda così violentemente contraddittoria può darsi chesia foriera di soluzioni creative, non in continuità con la storia che ci sta alle spalle(Cacciari, 2008).Quello che è certo è che non ci saranno più agorà e sempre più non abiteremocittà ma territori indefiniti, con limiti e confini perennemente in crisi, che esistonosolo per essere superati, insomma “territori de-territorializzati”, al cui interno lefunzioni non sono più definibili una volta per tutte ma interscambiabili: zone indu-striali dismesse che diventano centri di attività creative; aree agricole intensive chesi trasformano in strutture agricole e rurali terziarie, le quali producono alimenti diqualità per il mercato locale ma soprattutto erogano servizi sociali, culturali, ricrea-tivi e paesaggistici.A fare agricoltura nelle aree periurbane sono sempre più operatori che provengono

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da ambiti lontani dal settore primario e che trovano le loro motivazioni profondenel disagio provocato dagli aspetti quantitativi, standardizzati e consumistici delmodello di sviluppo della società contemporanea e, quindi, nel bisogno di speri-mentare nuove forme di vita, di produzione e di consumo per dare un senso allapropria esistenza. Questa domanda di senso, che si va manifestando in modo evidente nei soggetti“rurbanizzati”, incrocia analoghi percorsi personali di agricoltori “tradizionali”, iquali spinti dalla globalizzazione ad abbandonare modelli produttivi eccessiva-mente specializzati perché non premiati dai mercati, sono indotti, per integrare ilreddito, a sperimentare modelli agricoli multifunzionali. A guidare processi siffatti sono soprattutto le donne in quanto portatrici di unacapacità di inventare le risorse e valutare in modo attento e duttile le opportunità.Un’attitudine acquisita nella società rurale, quando l’assolvimento di ruoli sostituti-vi di quelli maschili, ritenuti irrilevanti nell’assetto formale del sistema che all’epo-ca vigeva, permetteva loro di saggiare continuamente le innovazioni e di introdurleinformalmente e senza contraccolpi (Signorelli, 1991).È fuor di dubbio che l’agricoltura periurbana assume in tal modo configurazioni deltutto inedite per nulla assimilabili alle agricolture delle zone rurali. L’agricolturadelle aree adiacenti alle città diventa una vera e propria funzione urbana da inte-grare con altre funzioni per rendere i territori urbani e metropolitani vivibili e soste-nibili.

Urbanizzazione e nuova ruralità

Ma oggi cosa distingue l’urbanità dalla ruralità? Sui criteri per definire questi dueambiti ancora non concordano i circa duecento uffici statistici che a livello mon-diale hanno cercato di definirli. Ne hanno dato infatti le più disparate versioni pun-tualmente censite negli annuari demografici delle Nazioni Unite (2003).I francesi considerano rurale il comune avente non meno di duemila abitanti con-centrati nel suo capoluogo. In Italia una più complessa definizione fu tentatadall’Istat nel 1963 sulla scorta non di un solo criterio, come in Francia, ma di unaserie di criteri tra i quali l’attività economica della popolazione, il grado di istruzio-ne, la fruizione di acqua potabile e impianti igienici adeguati, ecc..5 Con simili cri-teri risultava che a essere rurali erano i comuni con molti agricoltori e pochi profes-sionisti, molti analfabeti e pochi laureati, molti fruitori di latrine all’aperto e pochi

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5 I comuni erano divisi, secondo un crescendo, in: urbani, di tipo urbano, semiurbani, semirurali, di tipo rurale, rurali.

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di docce e wc. Si creava così una strettissima identificazione tra ruralità e sottosvi-luppo, un’identificazione che non venne meno quando – in un’ampliata serie diparametri – fu aggiunto il telefono. Con una sorpresa, però. Tra il 1963 e il 1986 losviluppo economico era stato tale che il numero dei comuni in qualche modo rura-li – cioè non sviluppati in base alla filosofia implicita nella classificazione – erasceso da 7.116 a 4.409. Nel nord, addirittura, la ruralità era quasi scomparsa (Istat,1986).6

È l’Insor (Istituto Nazionale di Sociologia Rurale) (che, disaccoppiando geografia edeconomia e riconducendo il territorio rurale al suo significato etimologico di rus(campagna) indipendentemente dall’attività di cui è sede, a introdurre negli anni’70 una nuova e più aggiornata classificazione: vengono, infatti, considerati rurali icomuni che, oltre ad avere almeno il 75% della superficie a verde, non costruita,presentano anche una densità fino a trecento abitanti per kmq” (Merlo-Zuccherini,1992; INSOR, 1994).Con l’introduzione di questi nuovi criteri di valutazione si è notevolmente ridimen-sionata l’ampiezza del mondo rurale. Secondo i vecchi criteri Istat 1963 la ruralitàavrebbe abbracciato 7.116 comuni con 26.129.000 abitanti nel 1971, pari al48,3% di tutti gli italiani, 27.739.000 nel 1981, pari al 49,1% e 28.959.000 nel1991 (51,0%). Secondo la revisione Insor si sarebbe invece trattato di 6.499 comu-ni con 20.616.000 abitanti nel 1971 (38,1%), 21.185.000 nel 1981 (37,4%) e21.688.000 nel 1991 (38,2%). Tra il 1951 e il 1981 alcune centinaia di comuni sisarebbero urbanizzati sull’onda di un esodo rurale che si è protratto fino alla metàdegli anni ’70. Dopodiché si sarebbe registrata un’inversione di tendenza e all’eso-do rurale avrebbe fatto seguito l’esodo urbano, metropolitano innanzitutto. Questainversione avrebbe dominato anche il successivo intervallo censuario. Nel 2001 laquota spettante ai 6.499 comuni rurali sarebbe stata di 22.144.000 abitanti su com-plessivi 56.997.000, pari al 38,8%. A partire dal 1975 si è quindi registrata, aseguito di saldi naturali o migratori, una consistente fuga demografica dalle città avantaggio delle campagne. La fuga dalle città e il ripopolamento delle campagnehanno interessato tutte le regioni dell’Italia centro-settentrionale, ossia le più ric-che, mentre al Sud solo la Puglia e la Sardegna si sono inserite nella corrente. Laruralizzazione è quindi un aspetto del benessere contemporaneo. Con questanuova ruralità, che si è avviata agli inizi degli anni ’70, si passa, per usare le effica-ci espressioni di Corrado Barberis, “da una ruralità di esodo a una ruralità di immi-

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6 Anche in questo caso le caratteristiche seguivano un crescendo: urbani, semiurbani, semirurali, rurali. Orbene, sui4.545 comuni in cui si articola l’Italia settentrionale solo 53 erano irrimediabilmente rurali.

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grazione. Da una ruralità di inerzia a una ruralità di iniziativa. Da una ruralità con-trassegnata da uno spirito di sconfitta a una ruralità improntata a volontà di conqui-sta” (Barberis, 2007).Questo fenomeno è stato identificato dagli studiosi come l’avvio di nuove forme disviluppo delle nostre campagne, attribuendone tuttavia l’origine a non meglio iden-tificati “localismi” anziché ai fattori propulsivi della ruralità. Una riluttanza cheforse deriva, secondo Barberis, dal timore di passare per epigoni del fascismo, ilquale aveva riempito di contenuti ideologici di stampo reazionario l’aggettivo“rurale”. Sulle politiche cosiddette “ruraliste” che si svilupparono nella prima metà del seco-lo scorso, e tuttora semplicisticamente etichettate come “fasciste”, occorre perciòsoffermarsi con maggiore attenzione e con un sguardo più largo, senza per questoalludere a sconto alcuno delle responsabilità a più largo spettro geopolitico esocio-culturale per le immani tragedie di quegli anni.Le crisi agricole del 1925-26, prima, e la grande crisi economica mondiale del1929, subito dopo, furono, infatti, le congiunturali situazioni che fecero maturare,in perfetta linea con le teorizzazioni ed esperienze del socialismo utopistico, dellegarden cities inglesi, del Back to the land dell’America di Roosevelt, un radicalecambiò di rotta tanto nei ruoli dell’urbanistica quanto nella proposizione di diversiassetti territoriali, per affrontare, contemporaneamente, i problemi di spopolamentodello spazio rurale e del nuovo urbanesimo (Di Mario, 2008).Manifesto del complessivo mutamento dell’idea come dell’uso del territorio rispettoai problemi dell’agricoltura, delle localizzazioni industriali, delle città, delle migra-zioni interne, della disoccupazione fu Il Piano regionale della Valle d’Aosta.Elaborato nel 1936 sotto la giuda di Adriano Olivetti (Olmo,1992; M. Fabbri,2001), rappresenta, avendo assunto l’intero territorio come il campo d’azione ditutti i fenomeni e perciò l’unicum spaziale su cui impostare la base fisica del piano,l’esemplare paradigma dell’intervento integrale e organico mediante la modifica-zione delle colture o la bonifica di aree depresse, la costruzione di nuove infrastrut-ture e nuovi servizi, la ristrutturazione o la creazione ex novo di nuclei insediativiautosufficienti diffusi, il controllo dell’estensione del concentrico urbano, il conse-guimento di una maggiore compenetrazione tra natura e città; insomma, per il rag-giungimento di un equilibrio tra le parti dello spazio geografico attraverso il gover-no della dimensione produttiva e delle condizioni socio-culturali delle popolazioniinsediate (Ciucci, 1989). In questa tensione verso la dissoluzione del confine tra città e campagna e la sim-

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biosi tra economie agricole e industriali, il programma urbanistico, a seguito diindagini e inchieste sul corpo vivo della società urbana e rurale intrecciate allo stu-dio della storia e della geografia, era concepito come strumento ermeneutico perdisvelare i meccanismi che regolavano, come in un organismo vivente in continuoe coerente sviluppo, l’assetto del territorio. Calibrato su un rapporto di tipo non autoritativo tra pubblico e privato, tra Stato emercato, e armato di maglie più che di norme, il piano assumeva dunque comesuo principale compito la trasformazione della città e del territorio extra-urbano inuna “confederazione” di elementi ordinati in reciproca e organica relazione.Una valutazione critica delle motivazioni che spinsero, nel dopoguerra, la culturaurbanistica e conseguentemente le politiche di governo territoriale ad abbandonarele teorie che avevano caratterizzato le esperienze della prima metà del secolo scor-so, nonostante fossero state e tuttora restino giuridicamente formalizzate nella legi-slazione urbanistica7, è tema che esula dagli scopi di questo scritto.Fatto sta, comunque, che a partire dagli anni ’70 si è verificata una netta virata con-cettuale, spingendo la disciplina urbanistica su un piano più strettamente politico-istituzionale. Una virata tanto più accentuata quanto più, avendo scelto la cittàcome “campo di battaglia” per fronteggiare lo schieramento degli interessi fondiari,si spostò il centro dell’attenzione progettuale dai sistemi territoriali ai tessuti urba-nizzati o urbanizzabili. È proprio da questo spostamento che può riconoscersi l’origine di una attitudineinedita e tuttora viva a considerare l’assetto del territorio in una chiave sostanzial-mente confinata nell’ambito della città compatta, ed è dunque a partire dall’ultimodopoguerra che può essere individuato, nella storia urbanistica del ‘900, lo spar-tiacque tra politiche territorialiste e politiche urbanocentriche. Se nel pensiero e nell’esperienza di Adriano Olivetti e degli altri urbanisti dei suoianni lo spazio geografico e sociale si configuravano come una articolazione di ele-menti dotati ciascuno di peso e dignità proprie nel quadro di un’organizzazionecomunque complessiva, nella successiva deriva dell’urbanistica lo spazio aperto,sottovalutato o addirittura ignorato nelle sue potenzialità strutturanti, si è trasforma-to nella sostanza in quell’indistinto vuoto (non solo fisico, ma anche socio-cultura-

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7 La tuttora vigente Legge urbanistica n.1150/1942, al comma 2 dell’art. 1 – Disciplina dell’attività urbanistica esuoi scopi - così testualmente recita: Il Ministero dei lavori pubblici vigila sull’attività urbanistica anche allo scopodi assicurare, nel rinnovamento ed ampliamento edilizio delle città, il rispetto dei caratteri tradizionali, di favorire ildisurbanamento e di frenare la tendenza all’urbanesimo. Viene da chiedersi se e quali piani urbanistici di qualsiasilivello e specie elaborati in Italia dal dopoguerra ad oggi abbiano osservato questo principio legislativo; o se, inve-ce, abbiano generalmente operato in senso diametralmente (e illegittimamente) opposto.

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le), utile solo, nei casi migliori, come barriera all’espansione edilizia incontrollata,nei peggiori, come territorio di riserva o di conquista in attesa di sempre nuoviarmistizi (Di Mario, 2005). Da qualche anno, tuttavia, nonostante la contraddittoria dialettica parlamentaresulla “riforma urbanistica nazionale” unanimemente tesa alla soppressione dellamissione che la legge 1150/1942 affidava e affida tuttora alla disciplina urbanistica,favorire il disurbanamento e frenare la tendenza all’urbanesimo, si moltiplicano letestimonianze di un nuovo cambiamento di orizzonte concettuale: dalle interpreta-zioni più mature dei nuovi fenomeni alle visioni interdisciplinari finalmente coraliche stanno via via sempre più connotando la pianificazione territoriale di ultimagenerazione, specie quella provinciale; all’animato dibattito che si sta sviluppandoall’interno dell’INU (Istituto Nazionale di Urbanistica) attraverso un confronto ser-rato sulla necessità di rinnovate politiche di governance che sappiano riconsiderareinsieme, come fondamentali risorse per lo sviluppo e il cambiamento, l’integrazio-ne urbano-rurale, il concepimento di nuove forme di urbanità, la riorganizzazionedel welfare locale, la rimodulazione delle filiere produttive, lo scambio virtuoso tracittà e campagna, la maturazione di più sofisticate concezioni e forme di tutelaambientale e di funzionamento delle reti ecologiche e dei servizi, e, soprattutto, lasperimentazione e l’attuazione di nuove e autentiche forme di cittadinanza e dipartecipazione democratica.8

Un confronto culturale, quello sui ruoli e le missioni dell’urbanistica per i territori ele comunità umane nel momento storico delicatissimo che stiamo vivendo, caratte-rizzato dalla congiunturale crisi economica mondiale e dall’epocale mutazione deiprofili socio-economici come delle stratigrafie sociali, che si presenta tuttora nonprivo di contraddizioni e ambiguità; contraddizioni e ambiguità entro cui tuttavia siriflettono, in questo periodo segnato da inquietudine e disorientamento, tutte le“nuove politiche” che sentiamo agitare, dai progetti di nuovo modello istituzionalee sociale, al social housing e al Piano Casa 2009, fino alle new town che stannodrammaticamente nascendo dalle macerie dell’ultima tragedia abruzzese.

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8 Tra le più recenti e significative testimonanze del dibattito in corso nell’INU possono citarsi i convegni “Agricolturae governo del territorio … trent’anni dopo”, a Roma il 29 settembre 2008, e “Oltre la città oltre la campagna.Organizzazione e gestione di servizi e reti nei territori della metropolizzazione”, a Venezia – Urbanpromo 2008 il13 ottobre 2008, i cui atti sono disponibili sul sito http: www.inu.it – Gds Politiche agricole.

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Lo sviluppo delle aree periurbane e rurbanizzate: un nuovo paradigma

Il fenomeno del disurbanamento, nonostante la sistematica inapplicazione deiprincipi contenuti nella Legge urbanistica del 1942, a partire dagli anni ’70 èugualmente avvenuto e in forma spontanea, avvalorando così di fatto quella lungi-mirante visione.Solo l’INSOR, interpretando correttamente i dati censuari, ha rilevato immediata-mente l’importanza del fenomeno, incontrando tuttavia, per un lungo periodo, loscetticismo dei diversi ambienti culturali, refrattari a una concezione dello sviluppoterritoriale fondata sulla rivitalizzazione dei valori della ruralità.Ci ha dovuto pensare il Consiglio d’Europa, quando ha lanciato nel 1987 laCampagna europea per il mondo rurale, a modificare totalmente il concetto diruralità, distaccandolo completamente da convinzioni obsolete legate esclusiva-mente al lavoro della terra e facendo assumere alla ruralità non agricola una con-notazione e uno sviluppo autonomi.Quali sono stati i fattori che hanno dato vita alla nuova ruralità? Innanzitutto quellidi ordine psico-sociologico. Si è scoperto da parte dei figli e dei nipoti di chi erafuggito dalla campagna alla ricerca di condizioni sociali ed economiche più appa-ganti che, a ricreare alcuni aspetti della società tradizionale fuori del suo contestodi miseria, le cose sarebbero potute andare meglio. Si sono così affermati stili divita che integrano gli aspetti irrinunciabili della condizione urbana, dalla fruizionepiù facile delle diverse forme della conoscenza e della cultura all’adozione dimodelli di abitabilità rispettosi della privacy, con le opportunità che solo i territorirurali sono in grado di offrire, dalla partecipazione alle fitte reti di legami sociali alpiacere di coltivare un orto o di preparare una pietanza tipica.Ma hanno agito anche fattori di ordine economico: l’alto costo degli affitti urbaniche spinge le giovani coppie a evadere dalla città dove però si continua a lavorare.Una relativa abbondanza degli impieghi rurali che consente una sempre più fre-quente occupazione non agricola all’interno delle aree verdi.Alle aree rurali spetta non meno del 35% dell’intero PIL nazionale, ma almeno il95% di questo 35% ha origini non agricole. L’agricoltura rimane il lievito dell’eco-nomia rurale anche se non si identifica più con essa. E non solo perché molte ini-ziative industriali e nei servizi nascono per opera di imprenditori già agricoli, maperché il mito dell’agricoltura di un tempo finisce per essere il collante dei nuoviarrivati che si dedicano sempre più ad attività legate all’ospitalità agrituristica, allavendita diretta di prodotti aziendali e alle attività educative, terapeutiche e riabilita-

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tive (Barberis, 1988).Occorre dunque individuare un nuovo paradigma nelle politiche per lo sviluppo diquesti ambiti territoriali, sostituendo definitivamente una visione dicotomico-dualedell’urbano-rurale con una visione del territorio basata sul riconoscimento di unarealtà costituita da un continuum urbano-rurale, al cui interno collocare a variotitolo il periurbano e il rurale urbanizzato.L’eliminazione dell’alterità tra la città e la campagna avviene non tanto sul versan-te dell’appianamento delle loro strutturali diversità, storiche, economiche e sociali,quanto su quello del rinnovamento delle categorie interpretative, ragionando in ter-mini di leggibilità, di contrasto tra figura e sfondo, di interpretazione delle forme apartire da quella delle sue significazioni (Choay, 1973).Le figure diventano significative se variano in funzione della topografia dei luoghi,della composizione” e delle aspirazioni delle popolazioni, se la città e la campa-gna saranno percepite “a posteriori”, derivando la loro specificità dalla conoscenzadel punto di vista degli abitanti. E il problema della leggibilità del territorio diventail problema di quando e come le forme si rendono decifrabili per chi le abita(Donadieu, 2006).Se nei territori della periurbanità la percezione spaziale e sociale dei cittadini edegli agricoltori è sempre meno distante fino a confondersi, bisognerà leggere que-sti spazi prestando ascolto a una società meticcia che si riconosce nello scarto trala voglia di vivere nella città e la scelta di starne fuori, mettendo a profitto la prossi-mità tra l’una e l’altra, la breve distanza tra i loro confini e della percezione delmondo.Se, invece, la città e la campagna continuano a essere viste in opposizione – in unalogica che considera le dinamiche economiche lente e a bassa performance dellacampagna aprioristicamente non competitive con quelle a rapida trasformabilitàdella città – non si riuscirà a cogliere il ruolo della campagna urbana, vista comeuno spazio tutto da fondare, abitata da cittadini, detentori della cultura della collet-tività, e da agricoltori, produttori e costruttori dello spazio rurale.La campagna urbana contiene la maggior parte delle nuove figure della città con-temporanea, ma in essa vanno rifondati i principi di una nuova abitabilità (Mininniin Donadieu, 2006). La lingua tedesca - ci ricorda Giorgio Grassi citando Cattaneo- chiama con la medesima voce l’arte di edificare e l’arte di coltivare. “Il nome del-l’agricoltore non suona coltivazione ma costruzione, Ackerbau, il colono è un edi-ficatore Bauer, e quindi un popolo deve edificare i suoi campi come una città”; e iltermine antico tedesco, buan, da cui deriva quella voce, significa “abitare” (Grassi,

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1975). Per governare un territorio, che non è più agricolo in termini meramenteproduttivistici, dobbiamo, pertanto, anche noi unificare tutti questi significati.La campagna urbana è quel territorio meno dotato di un progetto, ancora pococompreso dalla cultura urbanistica e scarsamente messo a fuoco da quella agricola,molto interpretato e poco descritto, perché richiede un’esperienza nuova dello spa-zio, un ordine da inventare più che da indovinare. È, pertanto, un territorio instabi-le che oppone una debole resistenza ai cambiamenti perché è lo spazio di espan-sione futura della città, nell’attesa di valorizzazione immobiliare, sia per i cittadinisia per gli agricoltori.La campagna urbana ha caratteri propri e spesso innovativi, diversi da quelli dellacampagna rurale che segue maggiormente le logiche di mercato, poiché elaboramodelli economici e sociali più creativi, derivanti non solo dalla trasformazione delmondo rurale tradizionale ma soprattutto dalla prossimità della città.La campagna urbana può, quindi, partecipare alla definizione del territorio dellacittà, portando con sé i suoi simboli e il suo patrimonio territoriale basato sui suoicampi, orti, spazi aperti e sul suo patrimonio socio-culturale rappresentato dagliagricoltori. L’agricoltura periurbana rappresenta, pertanto, una complessa articola-zione di attività inerenti la produzione di alimenti, la pesca, la silvicoltura e l’ero-gazione di servizi sociali, culturali, ricreativi e ambientali che si sviluppano ai mar-gini della città sia nei Paesi industrializzati che in quelli in via di sviluppo.La campagna urbana è, infine, luogo d’elezione dell’agricoltura sociale, ossia diquelle esperienze che vedono persone provate da diverse forme di disagio trovarenelle attività agricole un modo per realizzare il proprio progetto personale versol’autonomia. Si tratta di quei percorsi finalizzati a promuovere inclusione sociale elavorativa e servizi educativi, terapeutici e riabilitativi. L’inserimento lavorativo inagricoltura può riguardare persone con disabilità, ex tossicodipendenti, ex detenu-ti, disoccupati di lungo periodo, giovani con difficoltà nell’apprendimento o nel-l’organizzare la loro rete di relazioni, ecc. e si ottiene sia attraverso l’assunzione inimprese già esistenti, sia mediante percorsi di autoimprenditorialità. D’altro canto, iservizi terapeutici, riabilitativi e di inclusione sociale mediante l’utilizzo di risorseagricole possono interessare soggetti con disabilità gravi, anziani, malati terminali,donne che hanno subito violenza, extracomunitari, ecc. e sono erogati da aziende,enti pubblici, fondazioni, onlus. Per quanto riguarda, infine, i servizi educativi,vanno considerate le attività rivolte alla fascia di età prescolare mediante l’istituzio-ne di agrinidi e quelle orientate a supportare l’integrazione di alunni svantaggiatinelle scuole di ogni ordine e grado. Tali servizi costituiscono il naturale prolunga-

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mento dei percorsi formativi già largamente sperimentati con le fattorie didattiche(Finuola-Pascale, 2008).Nel rilevare le potenzialità delle pratiche agricole svolte nelle aree periurbane,alcuni studiosi osservano con preoccupazione che queste sono condizionate dal-l’ambiente urbano e dalla sua continua espansione. Il presupposto per affrontarecorrettamente la questione periurbana è dunque non considerare più le zoneperiurbane come se fossero l’ultimo anello mancante di una continuità urbana, mavalutarne le esigenze specifiche e la sfida che pone l’integrazione di vaste ed etero-genee zone conurbate. Di conseguenza, la necessità di dare coerenza ai processidi dilatazione urbana acquisisce oggi senso grazie all’enfasi che si sta mettendonella valorizzazione degli attributi patrimoniali degli spazi rurali conurbati, i qualiradunano indifferentemente il loro potenziale agricolo assieme ai valori paesaggi-stici, d’intrattenimento e d’integrazione sociale. Tuttavia, non è semplice capire e prevedere in tutte le sue dimensioni lo svolgimen-to delle funzioni residenziali e produttive delle zone rurali vicine ai centri urbani. Èpossibile pensare alla riqualificazione e al recupero delle aree periurbane permezzo dell’incorporazione di valori simbolici nei processi produttivi o come soste-gno di nuove attività. In altre parole, produrre un nuovo territorio mediante unarelazione fertile tra l’elemento umano e l’ambiente: uno sviluppo locale autososte-nibile, basato sulle interazioni di quattro elementi imprescindibili e propri di ogniterritorio, quali natura, storia, cultura e legami sociali. Il collante tra questi quattroelementi può essere costituito proprio da un’attività secolare e fondamentale inogni società: l’agricoltura (Gomez). Un’agricoltura però non rurale ma urbana.Un’agricoltura urbana da non confondere con la manutenzione del “verde”. Learee verdi non sono un luogo ma porzioni di terreno indifferenziate, i cui limitivengono stabiliti sull’universo astratto di una mappa; non hanno nulla a che vederecon la storia e con la cultura ma sono soltanto spazi sistemati secondo le “regole”della comodità (Le Dantec, 1987). L’agricoltura urbana è invece un insieme di atti-vità produttive di beni e servizi che contribuiscono ad artialiser le aree periurbane,cioè a “forgiare modelli di visione capaci di dare loro valore estetico” (Roger,2009). È per questo motivo che andrebbe inserita in un processo partecipativo direstauro condiviso del paesaggio. Ma come attuare un adeguato processo per individuare e consolidare specifichepolitiche di sviluppo per le aree periurbane? È necessaria una politica per l’agricol-tura periurbana o uno spazio per l’agricoltura periurbana in tutte le politiche?Occorre un sostegno alla produzione di servizi e beni agricoli offerti alle comunità

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urbane oppure un supporto alla diversificazione delle aziende agricole per avere incambio una fornitura di servizi rurali alla città? Sono interrogativi a cui non è facilerispondere e che meriterebbero un’analisi e un approfondimento di studiosi e dipolicy maker.

Il riconoscimento dell’agricoltura periurbana nella pianificazioneterritoriale

Sebbene il rapporto tra città e campagna sia da tempo considerato anche a livelloeuropeo uno degli elementi critici del suo sviluppo territoriale (1999), ha in realtàfaticato ad affermarsi nella programmazione una specifica attenzione al tema dellearee agricole prossime o contigue agli agglomerati urbani. Solo negli ultimi anni sisono manifestati segnali che lasciano intravedere un’inversione di tendenza.Una trattazione organica che cerca di rileggere in chiave di opportunità lo stato didifficoltà delle aree agricole periurbane è contenuta nel parere del ComitatoEconomico e Sociale Europeo (CESE) sulla “Agricoltura Periurbana” (CESE, 2004).Tre sono gli obiettivi principali individuati dal parere del CESE:riconoscere, sul piano sociale, politico e amministrativo, l’esistenza di spazi agrico-li periurbani, considerandoli zone soggette a difficoltà dovute a limitazioni specifi-che;evitare che gli spazi agricoli periurbani siano sottoposti a un processo di urbanizza-zione, mediante la pianificazione, l’assetto territoriale e gli incentivi a livello comu-nale;garantire uno sviluppo dinamico e sostenibile dell’agricoltura periurbana e deglispazi in cui viene praticata.Per il CESE lo sviluppo dinamico deve risultare da processi in cui le amministrazio-ni locali svolgano un ruolo fondamentale, facendo propri i criteri di gestione inter-comunale in cui sia centrale il ruolo dei partenariati. I gestori delle aree periurbane– si dice sempre nel parere del CESE – devono essere “conservatori per quanto con-cerne la salvaguardia dei valori territoriali, progressisti con atteggiamenti positivi,immaginativi e creativi, per quanto riguarda le proposte di sviluppo delle funzionidello spazio agricolo periurbano”. I progetti per gli spazi agricoli periurbani devo-no basarsi su “criteri multisettoriali che integrino aspetti produttivi rispondenti allerichieste dei consumatori, aspetti ambientali volti a ridurre al minimo l’impattodella attività produttiva sull’ambiente e a creare e conservare il paesaggio, e infineaspetti sociali che rispondano a necessità urbane, ad esempio l’uso dello spazioagricolo per attività creative e pedagogiche”.

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Le conclusioni del CESE richiamano un approccio fortemente partecipativo volto aperseguire tre risultati: la definizione di un progetto territoriale di conservazione e sviluppo;la stabilità dei terreni agricoli, riducendo la pressione urbanistica e le destinazioniestranee all’attività agricola, favorendo così l’accesso all’uso agricolo delle terre;una gestione integrata da parte di enti di gestione in grado di promuovere e renderedinamiche le aree agricole periurbane sulla base di progetti e contratti di gestioneagricola sostenibile attraverso il concorso di cittadini, pubblica amministrazione eagricoltori.Si tratta di strategie che richiedono il riconoscimento della specificità delle areeagricole periurbane, da applicare in ambiti intercomunali. Sarebbe necessario cheil comune del centro urbano predominante e i comuni limitrofi siano dotati di effi-caci strumenti di pianificazione, di assetto territoriale e di risorse finanziarie perevitare che le aree agricole periurbane siano sottoposte a ulteriori processi di urba-nizzazione tali da comprometterne la loro esistenza come tessuto organico.Occorrerebbe agire non in termini meramente vincolistici – che deprimerebbe ulte-riormente la già precaria economia agricola esistente - ma con azioni di sviluppo.Decisiva appare la scelta di dotarsi di politiche di tutela e valorizzazione del pae-saggio rurale periurbano come scenario in cui ospitare una nuova agricoltura diprossimità. Sono, infatti, molteplici le funzioni specifiche che gli agricoltori potreb-bero svolgere nelle aree periurbane a vantaggio della collettività. L’agricoltura potrebbe, in primo luogo, essere una componente determinante per lavitalità economica delle aree urbane attraverso la produzione di alimenti a elevatovalore aggiunto. Potrebbe, inoltre, essere caratterizzata da tipologie aziendali forte-mente orientate alla fornitura di servizi sociali, culturali, ricreativi, rendendo prima-rie attività economiche che nelle aree rurali sono in realtà complementari e secon-darie. Potrebbe, infine, contribuire a migliorare le condizioni di vita complessivedelle popolazioni urbane attraverso la produzione di un insieme di esternalità posi-tive. Rispetto a quanto avviene nell’agricoltura rurale, nelle aree periurbane sonoamplificate le funzioni conservative dell’agricoltura in riferimento all’uso dellerisorse naturali (suolo, aria e acqua), la capacità di mitigare l’effetto negativo dellealtre attività antropiche, la capacità di tutela di paesaggi agrari sempre più fragili, dipreservare habitat naturali e semi-naturali con un elevato valore in termini di biodi-versità.

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L’agricoltura periurbana nelle nuove politiche di sviluppo rurale

Il sostegno della componente agricola delle aree urbane è il principale contributoche le strategie di sviluppo rurale potrebbero dare allo sviluppo di questi territori.In questo senso il sostegno allo sviluppo rurale e lo sviluppo delle aree urbane nonsono concetti tra loro in conflitto (Pascucci, 2008). Il Regolamento (CE) 1698/2005 relativo allo sviluppo rurale non definisce con pre-cisione un set di interventi esplicitamente e specificamente orientati alle areeperiurbane degli Stati membri, ma si limita a delineare un principio generale che èquello per il quale è necessario considerare la varietà dei contesti rurali presentinell’Unione e le relazioni con il tessuto urbano per affrontare efficacemente le stra-tegie di sviluppo sostenibile che si intendono finanziare anche attraverso le misuredi sviluppo rurale. In altre parole, non è stata predisposta a priori una differentestrategia per i diversi ambiti territoriali europei, né assi o misure di intervento diffe-renziate, ma, al contrario, è stato rafforzato il principio per il quale ad aree ruralidiverse corrispondono opportunità e criticità differenti che debbono essere specifi-camente affrontate. Nonostante questi limiti, la “questione periurbana” è stata affrontata in Italia dalPiano Strategico Nazionale (PSN) e dai Piani di Sviluppo Rurale (PSR) delleRegioni. L’analisi del contesto socio-economico del territorio rurale italiano è caratterizzatoda un processo di classificazione in cui il tema dell’integrazione urbano-rurale si ètradotto nell’individuazione di una tipologia di macro-area di intervento di tipourbano (macro-area A “Poli urbani”). Il PSN indica le principali caratteristiche ditali macro-aree: elevata densità demografica (1.049 abitante/kmq), alta densità abi-tativa e bassa densità d’uso agricolo del suolo (in termini di Sau/superficie territo-riale), elevata redditività della terra (oltre 5.000 euro/ha di Sau) ed elevata competi-tività degli usi del suolo tra agricoltura e altri settori (perdita di circa il15% dellaSau tra il 1990 e il 2000), presenza di una parte rilevante dell’agro-industria (30%degli addetti totali del comparto). Sotto il profilo ambientale l’analisi proposta dalPSN indica come criticità specifica delle aree urbane la coesistenza di aree forte-mente suscettibili agli effetti delle attività antropiche e aree a forte valenza paesag-gistico-naturalistica. Complessivamente l’analisi indica alcuni fabbisogni specifici delle aree urbane ita-liane e delle attività agricole qui localizzate:- presenza di un forte consumo di suolo e di risorse idriche, soprattutto per effetto

della forte competizione esercitata dagli altri settori dell’economia;

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- processi di inquinamento delle risorse naturali;

- frammentazione e scarsi standard qualitativi della produzione agricola e agro-alimentare;

- congestione di imprese agro-alimentari;

- bassa innovazione tecnologica e organizzativa;

- scarsa diffusione di attività multifunzionali nelle aziende agricole;

- sviluppo inadeguato di filiere corte in mercati locali con alte potenzialità dipenetrazione.

Per rispondere a tali fabbisogni il PSN suggerisce di muoversi in tre direzioni prin-cipali: sostenere i processi di regolazione dell’uso delle risorse mediante l’integrazionedelle misure di sviluppo rurale con gli strumenti di pianificazione fisica e socio-economica;rafforzare le capacità di utilizzazione e fruizione sostenibile delle risorse finanzian-do progetti individuali con misure di sviluppo rurale specifiche; accrescere la complementarità tra usi delle risorse in ambito periurbano e usi dellerisorse in ambito rurale promuovendo progetti integrati territoriali o di filiera. Il primo aspetto concerne la necessità di adottare un sistema di vincoli e di oppor-tunità nell’uso delle risorse con priorità per le risorse scarse quali il suolo e l’acqua.In tal senso il PSN indica la necessità di prevedere uno stretto raccordo tra politicheper lo sviluppo rurale e strumenti per la pianificazione del territorio regionale, siain termini fisici (piani urbanistici, piani territoriali di coordinamento, ecc.) chesocio-economici (piani strategici regionali, ecc.). L’altro aspetto riguarda l’esigenza di utilizzare un set di misure particolarmenteorientate alla crescita dei fattori di competitività economica e sostenibilità ambien-tale. Il terzo aspetto concerne infine il bisogno di agire sulla complementarità dei siste-mi territoriali e delle filiere per non isolare le aree periurbane dalle dinamichecomplessive del sistema agricolo e rurale del territorio regionale, bensì accrescerele relazioni tra territori e operatori.In generale il PSN traccia un approccio che sembra in grado di rispondere con effi-cacia ai fabbisogni delle aree periurbane italiane e i PSR, nella loro maggioranza,precisano ulteriormente le modalità di intervento nell’ambito di tale strategia gene-rale. Le difficoltà sono, tuttavia, insorte quando ci si è resi conto della pressoché totale

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inesistenza di strumenti normativi efficaci per la gestione territoriale. Infine, una limitazione grave è intervenuta in sede di negoziazione dei PSR con laCommissione europea quando si sono definiti i criteri territoriali per l’applicazionedella misura destinata alla diversificazione delle attività agricole. Le Regioni, nellaloro stragrande maggioranza, avevano infatti indicato nella prima stesura dei PSRl’opportunità di allargare le aree beneficiarie della misura a tutto il territorio regio-nale in considerazione anche del ruolo che la multifunzionalità può svolgere percontrastare il declino delle aziende agricole e la diminuzione dell’occupazione disettore in tutte le aree dove questi fenomeni si presentano, compresi i Poli urbani.In particolare, veniva proposto che il sostegno alle produzioni di energia da fontirinnovabili e gli incentivi alla multifunzionalità (agricoltura sociale, fattorie didatti-che, ecc.) e all’offerta agrituristica potessero interessare anche le aree urbane eperiurbane.9

Ma, in sede di negoziato per l’approvazione dei PSR, i Servizi della Commissionehanno fatto valere una posizione rigidamente preclusiva all’utilizzo, nei Poli urba-ni, delle misure dell’Asse 3 e in particolare di quella destinata alla diversificazionedelle attività aziendali, in omaggio alla concezione del territorio rurale ancora pre-valente negli ambienti comunitari e in ambito OCSE (Orgenizzazione per laCooperazione e lo Sviluppo Economico), che sottovaluta le problematiche specifi-che delle aree periurbane ed è sostanzialmente legata in modo esclusivo ai dueindicatori tradizionali: densità della popolazione e incidenza degli addetti agricolisul totale degli occupati.Alle aree periurbane è, pertanto, precluso l’accesso alla misura “diversificazionedelle attività aziendali” e a progetti integrati territoriali (PIT) finalizzati a utilizzareanche le misure dell’Asse 3, ostacolando in tal modo un utilizzo integrato dei fondicomunitari per promuovere azioni volte a favorire l’incontro tra bisogni nuovi dellepopolazioni urbane e un’offerta differenziata di beni e servizi che potrebbe essereorganizzata nelle aree periurbane.

Il caso dell’area metropolitana di Roma

Le trasformazioni dell’area metropolitana romana avvenute negli ultimi decennirappresentano un esempio plasticamente significativo delle riflessioni finora svilup-pate.

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9 Vedi Regione Lazio, Progetto Integrato Aree Rurali Romane (PIARR) – Documento del Gruppo di Lavoro compostoda G. Cafiero, C. Cecchi, R. Finuola, G. Lucatello, A. Pascale, S. Senni, inedito, 2006.

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L’immagine zenitale della sua attuale configurazione, se guardata a occhi socchiusiin una visione sgranata e pulviscolare, ricorda le ipotesi di assetto del territorioromano e regionale elaborate nella prima metà del secolo scorso (dal Programmaurbanistico di Roma del 1929, al Progetto di massima del Piano Regionale di Romadel 1930, allo Schema preliminare del piano regolatore della zona da Roma al maredel 1938-39, fino alla cosiddetta Variante del ventennale del 1942), cioè a tutti queiprogetti irrealizzati che, per unanime convinzione del pensiero urbanistico deltempo, avrebbero dovuto restituirci una città-territorio sorretta da un’ossatura urba-nistica e tipologico-insediativa fatta di quartieri satelliti disposti secondo un model-lo a nuclei staccati, opportunamente dislocati “a rosario” sulle colline, verso ilmare, verso i Colli Albani, verso Civitavecchia, lungo le direttrici della Pontina,della Tiburtina e delle altre strade consolari, verso Anguillara Sabazia e il Lago diBracciano, in una alternanza di costruzioni, di parchi, di impianti sportivi e di ser-vizi, di aree agricole e aree industriali, non una continuità edilizia, insomma, mauna continuità urbanistica, assicurata da un’adeguata rete di infrastrutture di colle-gamento e di trasporto pubblico collettivo rapide ed economiche (Civico, 1937).Guardata a occhi aperti, quella stessa immagine, come le altre che si possono oggicogliere ad altezza d’uomo, mostra che di quel sogno ci resta ora solo la “marmel-lata insediativa” delle attuali conurbazioni metropolitane, che contraddicono eannullano l’organizzazione policentrica e reticolare un tempo immaginata.In 50 anni si è infatti registrata una ciclicità entro cui il rapporto tra popolazioneinsediata a Roma e nella provincia è passato da circa tre a uno negli anni ’50, aquattro a uno negli anni ’70, di nuovo tre a uno negli anni ’90, fino a quasi due auno nei giorni nostri.Una “respirazione demografica” che, senza il controllo di adeguate strategie piani-ficatorie e dietro l’incalzare della dispersione insediativa nell’area metropolitana,non è avvenuta senza lasciare pesanti deformazioni nello status complessivo delterritorio provinciale: l’irreversibile spostamento del “baricentro” demografico diRoma e provincia verso la fascia costiera; il definitivo appannamento dei ruoli stra-tegici svolti dai “nodi” dell’originario sistema multipolare (Civitavecchia,Colleferro, Velletri, Anzio-Nettuno); l’anomalo ingigantimento della dimensionemetropolitana che scaraventa popolazione oltre Roma, oltre i comuni di prima cin-tura, in una nebulosa di frammenti edilizi depositati nel territorio aperto.È il “big bang” di Roma e dell’area romana, ovvero la sua dilatazione “fredda”, per-ché a saldo demografico negativo, “a macchia d’olio”, perché isotropa, e nel vuoto,perché verso uno spazio ormai privo di qualsiasi elemento strutturante.

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I flussi migratori di popolazione verso l’hinterland metropolitano che stanno avve-nendo oggi sia a scapito della Capitale sia dalle regioni periferiche più depresse,corrispondono, infatti, alla drastica riduzione delle superfici utilizzate per fini agri-coli produttivi; una diminuzione che i dati del censimento del 2000 rispetto a quel-lo del 1991 indicano pari a quasi il 20%, portando la quota di superficie agricolanella provincia di Roma ad appena il 53,64% di quella totale, ovvero oltre 1/3 inmeno di quella degli anni ’50, quando era più dell’85% (Di Mario, 2006).Da una parte, si assiste alla fluttuazione dei rapporti demografici tra Roma e gli altricomuni della provincia nell’arco di tempo considerato, una “respirazione” appun-to, scandita dal nuovo urbanesimo degli anni ‘50 e ’60, e dall’inversione di questoprocesso, con passo lento a partire dagli anni ’70, fino agli odierni, ormai prorom-penti, fenomeni di dispersione insediativa.Dall’altra, si registra la costante dismissione delle attività agricole produttive, conun picco nell’ultimo decennio tanto negativo da sommare tutti i precedenti, e lospostamento degli epicentri geografici a più spiccata vocazione produttiva dallamontagna alla pianura, dalla pianura alla montagna, poi ovunque, e infine confina-ti in isole sempre più circoscritte e marginali.Due processi concorrenti, dispersione insediativa e dismissione delle attività agri-cole, la cui più recente simmetrica dirompenza ha sovente indotto a giustificarne, esemplificarne, il risultato entro un rapporto diretto di causa-effetto (il “consumo disuolo” è causa della dispersione insediativa), e di cui invece appare fondamentaleconsiderarne, per valutare l’effettivo grado di interdipendenza, sia le già evidenzia-te differenze di fenomenologia storica sia la diversa genesi.Infatti, sebbene intimamente collegati, i processi descritti agiscono nel territorio enel tessuto socio-economico con motivazioni diverse e tra loro indipendenti sinteti-camente riconducibili ai seguenti fattori di natura economica, geopolitica e tecno-logica: dal plusvalore fondiario accumulato nelle aree fabbricabili urbane alla tra-sformazione dei profili produttivi agricoli, dalla fuga dalla metropoli alla propensio-ne all’abitazione monofamiliare, nel caso della dispersione insediativa; dallo spo-stamento in aree extra europee delle grandi coltivazioni alla progressiva riduzionedelle provvidenze finanziarie erogate dall’UE, dalle trasformazioni tecnologiche,che rendono le pratiche agrarie sempre più classificabili nell’ambito del settoresecondario piuttosto che in quello tradizionalmente primario, alla conseguenteriduzione dell’influenza dei “vincoli” naturali (potenziale di crescita biologica,geomorfologia, esposizione, caratteristiche chimico-fisiche dei suoli, quantità d’ac-qua disponibile, clima locale) e predominanza dei vantaggi di localizzazione

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rispetto alle reti infrastrutturali, nel caso delle trasformazioni degli usi agricoli deisuoli.Il codice genetico di questi processi ne fa immaginare la durevolezza degli effetti, ene evidenzia anche aspetti e funzionamenti spesso non sufficientemente considera-ti: le dinamiche demografiche e quelle connesse all’uso agricolo dei suoli, seppurereciprocamente influenzate, funzionano con regole proprie e tra loro indipendenti;tra avanzamento del disperso insediativo e dismissione delle pratiche agricole pro-duttive sussiste un rapporto assimilabile a un principio di vasi comunicanti (a usiabbandonati se ne sostituiscono di nuovi); le diverse e autonome razionalità di fun-zionamento dei due fenomeni, come pure il principio dei vasi comunicanti a cuisembrerebbero assoggettati, contraddicono il pensiero ricorrente secondo cui ilcosiddetto “consumo di suolo” dipende pressoché esclusivamente dalla dispersioneinsediativa dalle città verso la campagna.Gli strumenti più recentemente varati, dal nuovo Piano Regolatore Generale (PGR)di Roma al nuovo Piano Territoriale Paesistico della Regione Lazio (PTPR), sembra-no tuttavia riflettere una tuttora diffusa inconsapevolezza dei fattori genetici profon-di alla base delle mutazioni che si stanno producendo (Palazzo, 2008). È parados-sale la distanza abissale tra quanto previsto da questi strumenti e le misure delProgramma di Sviluppo Rurale 2007-2013 della Regione Lazio. Ciò dimostra lascarsa integrazione tra politiche di programmazione e pianificazione, mentre, vice-versa, è proprio questa integrazione una delle priorità che l’attuale scenario territo-riale reclama. Cartina al tornasole di questa situazione è l’attuale dibattito in corsoa Roma e nel Lazio in merito alle politiche abitative e al Social Housing a seguitodel bando emanato dalla giunta Capitolina per il reperimento anche in zona agri-cola di aree necessarie alla realizzazione di interventi di edilizia sociale nell’ambi-to del Piano casa nazionale. In campo vi sono le posizioni di chi, in nome dellaresistenza ai processi di “consumo di suolo” e agli interessi degli speculatori delmomento, ritiene che i nuovi interventi debbano circoscriversi solo nell’ambitodella città compatta, nelle zone a ciò destinate nel nuovo PRG di Roma, anche acosto di riconsiderare le effettive esigenze in termini di nuovi alloggi da destinarsiai “senza casa”, da una parte; dall’altra, quelle di chi, considerando necessario eprioritario dar corso alla realizzazione dei nuovi programmi finanziati di ediliziasociale e valutando già insufficiente il potenziale edificatorio residuo che il PRGmette a disposizione, non esclude, se necessario, l’impegno di nuove aree attual-mente con destinazione agricola (Pascale-Di Mario, 2008).Un dibattito che tuttavia non sembra tenere in alcun conto le profonde trasforma-

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zioni che negli ultimi decenni si sono progressivamente verificate, i brandelli del-l’urbanizzazione senza regole che scardinando i tradizionali confini tra città com-patta e spazi aperti si sono progressivamente sovrapposti, cancellandole, alle arti-colazioni storiche delle tenute e dei casali della Campagna romana come alletrame degli interventi di bonifica. Un dibattito che non sembra cogliere quantol’Agro romano non sia più l’Agro romano delle nostre bucoliche immaginazioni, equanto invece sia oggi uno spazio ibrido, una periferia urbana e metropolitana, chenon è più campagna e che non può definirsi città, uno spazio che è oltre la città eoltre la campagna.Ebbene, di fronte a questo diverso scenario, a questo “nuovo mondo” in cui si con-densano e annidano problemi spaventosi di organizzazione e gestione dei servizialla popolazione, di degrado materiale e spirituale, di giustizia e di sicurezza socia-le, il dibattito sta invece ruotando esclusivamente intorno ai criteri di localizzazio-ne dei nuovi interventi di edilizia sociale finanziati dal “Piano casa”: come se tuttala questione possa risolversi su dove - e chi debba decidere dove -, costruire le“nuove borgate”; come se non fosse invece necessaria non solo una valutazionepiù integrata del tema del Social Housing ma anche e soprattutto una rivisitazionealla radice del concetto stesso del cosiddetto “consumo di suolo”.La realizzazione in forma intensiva di nuovi quartieri di edilizia sociale non sembraaffatto l’unica risposta possibile, mentre al contrario, così come avvenne al tempodella Città-giardino Aniene e della Garbatella, sarebbe più che mai utile e interes-sante la sperimentazione di nuove forme di urbanità, a bassa e bassissima densità,anche di autocostruzione, capaci di generare maggiore integrazione tra città e cam-pagna, sfruttando e capitalizzando le contiguità con gli ambiti rurali e agricoli intermini di approvvigionamento alimentare e di scambio di servizi.Allo stesso modo, l’incentivazione dell’agricoltura nuova potrebbe rivelarsi utile, intermini sia di maggiore equilibrio ecologico tra natura e città, sia di accentuazionedello scambio virtuoso di beni e benefici tra le dimensioni rurali e urbane, sia diconsolidamento delle reti di protezione e di inclusione sociale nello spazio urbanoe metropolitano.

Un caso esemplare di progettazione integrata territoriale nel bassoLazio

Alla frontiera dell’esplosione metropolitana romana si sta tentando, con una signifi-cativa esperienza di progettazione integrata territoriale, di affrontare le criticitàgenerate dall’ingovernato fenomeno di progressiva metropolizzazione.

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A partire dal 2007, il Comune di Cisterna di Latina ha promosso una serie di inizia-tive di informazione e animazione sociale finalizzate alla costruzione di un parte-nariato pubblico/privato, per definire obiettivi e azioni comuni per lo sviluppodegli ambiti agricoli, rurali e periurbani.10

Come primo risultato degli incontri e delle discussioni sviluppate, nell’ottobre 2008è stato varato il Protocollo di Intesa di partenariato pubblico/privato intitolato“Norba, Ninfa, Cora, Tres Tabernae”, sottoscritto da enti pubblici e privati, associa-zioni, imprese agricole, singoli cittadini, e riguardante un contesto geografico com-prensivo dell’arco pedemontano intorno ai monumenti naturalistici dei Giardini eRovine di Ninfa, di Torrecchia Vecchia e del lago di Giulianello, ed esteso fino aiterritori di Cisterna di Latina, Cori, Roccamassima e Aprilia.Coerentemente alla nuova filosofia e agli orizzonti programmatici delle politichecomunitarie e regionali, e nonostante una situazione in positiva controtendenzadelle economie agricole locali legate alla coltivazione del kiwi, la progettazioneintegrata territoriale, che con la sottoscrizione del Protocollo di Intesa ha presoavvio, intende promuovere l’esplorazione di nuove politiche di sviluppo capaci diincorporare le declinazioni multifunzionali che progressivamente stanno contraddi-stinguendo sempre più gli usi dello spazio extraurbano, come pure, in funzionedelle nuove domande sociali e culturali emergenti, proporre in una chiave più inte-grata il rapporto tra città, area metropolitana, hinterland e area vasta.Tra i potenziali obiettivi di nuove politiche di sviluppo vi è primariamente la valo-rizzazione delle aree rurali con caratteri di integrazione con ambiti di rilevantevalenza paesistica e storico monumentale, ovvero quelli particolarmente concen-trati tra il tracciato della via Appia e la linea pedemontana (Giardini e rovine diNinfa, Appia antica e sito archeologico Tres Tabernae, parco del Filetto, monumen-to naturale di Torrecchia Vecchia, ecc.), il sostegno e l’implementazione delladimensione multifunzionale degli usi di marca prevalentemente turistico-ricreativa,culturale, didattica e socio-assistenziale, la costruzione/ricomposizione di retimateriali e immateriali di servizio alla popolazione nonché dei sistemi di collega-mento ciclabile e pedonale tra centro urbano di Cisterna di Latina fino ai siti di rile-vanza storico-archeologica lungo la linea pedemontana e possibilmente anche oltrei limiti comunali.Concepita per stimolare una “progettualità dal basso”, e perciò per capitalizzare la

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10 La Progettazione Integrata Territoriale (PIT), in corso di elaborazione e denominata “Norba, Ninfa, Cora, TresTabernae”, è promossa dal Comune di Cisterna di Latina e vede l’adesione di numerosi enti pubblici, organizza-zioni sociali e imprenditoriali, aziende e singoli cittadini.

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partecipazione diretta dei cittadini alla costruzione di una idea di sviluppo, la pro-gettazione integrata territoriale è inoltre immaginata come uno strumento di sem-plificazione amministrativa e tecnico-operativa per la generazione di effettive rica-dute di sviluppo locale, mettendo a disposizione reti materiali e immateriali utiliper ricondurre ogni intervento in un più generale e organico programma di svilup-po territoriale e umano (Grignoli-Mancini, 2007).Ferme restando le finalità sinteticamente delineate, e in una dimensione assoluta-mente non esclusiva nell’ambito delle sue più generali prerogative, la progettazioneintegrata territoriale assume anche ruolo di strumento funzionale alla intercettazio-ne di fonti di finanziamento comunitarie, nazionali e regionali (PSR 2007-2013;POR Fers e Fse 2007-2013; L.R. 23 gennaio 2006, n. 1 sui Distretti Rurali eAgroalimentari di Qualità; DM 20 novembre 2007 sui Mercati agricoli di venditadiretta; e altre da identificare o di futura definizione).

Un territorio “ snodo”

Sin dall’antichità il territorio del Comune di Cisterna di Latina si è contraddistintocome spazio di frontiera, dal punto di vista sia fisico-morfologico, sia insediativo edelle grandi vie di comunicazione.Questo territorio, infatti, costituisce il cardine geografico tra sistemi di pianura, aloro volta distinti tra quelli della Campagna romana e dell’Agro pontino, e sistemicollinari e montani, anch’essi distinti tra quelli afferenti il complesso vulcanicolaziale dei Colli Albani, e i rilievi di origine carbonatica dei Monti Lepini.Proprio in corrispondenza del contatto tra Colli Albani e Monti Lepini è, alle spalledel centro urbano di Cisterna, uno dei più importanti varchi geomorfologici dellaPianura pontina con altri contesti geografici; in particolare, con la Valle del Saccoe i territori della Provincia di Frosinone.La marca di confine che contraddistingue questo contesto geografico, che si mani-festa anche nel sottosuolo dove la falda idrica appartenente al complesso idrogeo-logico del sistema vulcanico laziale entra in contatto con quella di tipo carsico delcomplesso idrogeologico dei Monti Lepini, si riflette anche nei processi insediativie di infrastrutturazione che hanno caratterizzato l’evoluzione delle sue geografiestoriche, nel tempo sia pre sia post bonifica.Nonostante le inversioni di ruolo che nell’età arcaica come in quelle via via piùrecenti fino all’epoca moderna sono avvenute tra la via Setina, la strada pedemon-tana e la via Appia in funzione delle cicliche espansioni o contrazioni della palude,gli insediamenti, infatti, sono stati sempre condizionati da medesime funzioni di

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presidio e controllo di un territorio strategicamente nodale per le antiche vie dicomunicazione, ovvero dove le strade pedemontane antiche si divaricano lascian-do le zone paludose verso la pianura costiera o per aggirare i rilievi retrostanti, edove l’Appia, piegando dopo aver disceso i versanti dolci del sistema vulcanico deiColli Albani, inizia il lunghissimo rettifilo fino a Terracina, tagliando longitudinal-mente l’intera Pianura Pontina.Anche la metamorfosi del contesto geografico determinata dalla bonifica integraledelle paludi pontine negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso non ha intaccato il ruolospecifico svolto dal contesto territoriale oggetto del PIT, che resta, anche a bonificaavvenuta, uno dei principali snodi geomorfologici e infrastrutturali dell’area ponti-na, e anzi acquisendone uno nuovo, quale anello di congiunzione tra i sisteminuovi della pianura e quelli antichi dell’entroterra collinare e montano. Le stazioni ferroviarie della tratta direttissima Roma-Napoli che lo attraversa, e leconnessioni trasversali con la Mediana di Bonifica, di collegamento tra area roma-na e città nuove dell’Agro Pontino, sono infatti i segni e gli strumenti del rinnovatoruolo strategico di questo ambito geografico, che era e resta dunque un fondamen-tale ganglio, fisico, amministrativo e funzionale del territorio pontino.A fronte delle grandi trasformazioni avvenute negli ultimi decenni e più prepotente-mente ancora in atto oggi, dai movimenti demografici ai mutamenti dei processiproduttivi industriali e agricoli, la consapevolezza dello speciale ruolo strategicoche la collocazione geografica e le caratteristiche fisico-morfologiche e funzionaliconferiscono a questo “territorio snodo” costituisce il fondamentale presupposto sucui si incardinano le prerogative di tutela, trasformazione e sviluppo della progetta-zione integrata territoriale. Un territorio “sotto assedio”Il contesto geografico come precedentemente delineato è attualmente messo a duraprova, potremmo dire “sotto assedio”, dai processi di cosiddetta metropolizzazioneche si stanno progressivamente manifestando con crescente intensità nella parte delLazio meridionale a più diretto contatto con le dinamiche dell’area romana, men-tre, contemporaneamente, prosegue il processo di abbandono degli habitat collina-ri e montani, di cui le aree di pianura rappresentano una sorta di “gronda” dellospostamento della popolazione.La concomitanza di questi fenomeni, da ritenersi con ogni probabilità inesorabili econ effetti di lungo periodo, mette in pericolo le caratteristiche peculiari del territo-rio in esame, sotto l’incombente rischio dell’indebolimento del suo ruolo di “terri-torio snodo” quando definitivamente investito dai processi di metropolizzazione e

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perciò omologato, come già avvenuto per Pomezia, Ardea, Aprilia e in larga misuragià anche per Latina, al semplice rango di periferia della già sterminata e problema-tica periferia romana.

Del resto anche in questo territorio, come ormai ovunque in Italia e in Europa, lacrisi dell’abitare in città e la concomitante instabilità dei sistemi agricoli produttivicome effetto della mutazione degli scenari geopolitici e della globalizzazione, ali-mentano questo fenomeno di cosiddetta “metropolizzazione”, che nel caso specifi-co del territorio laziale ha ormai superato i confini più ristretti dell’area romana, eche, secondo le direttrici prevalenti della fascia costiera e delle dorsali viarie e fer-roviarie, sta muovendo verso ambiti più lontani dal suo epicentro.

Senza adeguata attenzione fenomenologica e coerenti risposte operative, il più pro-babile esito dei processi in atto sarà in un tempo più o meno lungo, e come giàaltrove avvenuto, l’espansione incontrollata dei processi insediativi, sia in corri-spondenza dei nuclei urbanizzati consolidati e storici sia nel territorio aperto, lariduzione dei livelli di continuità delle reti ecologiche e biologiche, l’interferenzacritica con le residue potenzialità di implementazione delle attività produttive agri-cole ancora competitive, la banalizzazione del paesaggio con conseguente depau-peramento delle “risorse identitarie” ancora intelligibili nelle armature storico-ambientali.Tuttavia, alcuni dati in contro tendenza rispetto al più generale scenario descritto,registrati in particolare per il comune di Cisterna di Latina per effetto della fiorenteproduzione di kiwi, rappresentano una circostanza positiva, nella misura in cui,indipendentemente da quale sarà la parabola produttivistica delle attuali colture,offre la possibilità di poter operare su un territorio ancora in gran parte imperturba-to dai travolgenti effetti che già si stanno manifestando in ambiti anche vicini con-notati da caratteristiche di maggiore fragilità del sistema agricolo.Peraltro, la resistenza ai più generali fenomeni di metropolizzazione che caratteriz-za il contesto geografico oggetto del PIT è dovuta anche alla presenza deiMonumento Naturali di Torrecchia Vecchia e dei Giardini e rovine di Ninfa, metadi un flusso di visitatori attualmente nell’ordine delle 50.000 persone l’anno, delMonumento naturale del Lago di Giulianello, del Museo della Città e del territorioa Cori, dei Monumenti Nazionali del Tempio d’Ercole e della Chiesa della SS.Annunziata. Presenze che per la valenza ambientale e paesaggistica attraggonoforme di turismo sostenibile (i percorsi di pellegrini provenienti da tutto il mondolungo la Via Francigena del Sud, che fanno tappa a Sermoneta, Ninfa, Cori,Torrecchia e Lago di Giulianello).

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Rilevante è anche la presenza di aziende agricole che praticano l’allevamento dicavalli e svolgono attività sportive anche a livello internazionale con richiamo dipubblico stimabile intorno alle 8.000/10.000 persone all’anno.Flussi già cospicui, connessi al turismo culturale e ludico-sportivo, che se, da unaparte, danno conferma di una polarità già presente nel territorio, dall’altra, pongo-no all’attenzione l’insufficienza delle reti di connessione con e tra queste risorseterritoriali e delle strutture di supporto, segnatamente quelle di carattere ricettivo(agriturismo, offerta enogastronomica, ecc.), da cui dipende la scarsa “capitalizza-zione”, in termini di attrattività e competizione territoriale, di un potenziale ancorain gran parte inespresso.

La strategia del progetto “Norba, Ninfa, Cora, Ters Tabernae”

In piena armonia con la filosofia della nuova politica agricola comunitaria, la pro-gettazione integrata territoriale si pone come obiettivo strategico prioritario la meta-bolizzazione della crisi, attuale e/o potenziale futura, del sistema agricolo produtti-vo attraverso la sistematica attivazione e promozione di processi volti al migliora-mento delle qualità ambientali e paesaggistiche, alla ricostruzione e costruzione exnovo delle reti e dei sistemi di connessione ecobiologica e di mobilità lenta (anchemediante l’implementazione del trasporto pubblico locale e l’impiego sistematicodi mezzi innovativi non inquinanti), al miglioramento dell’offerta turistico-ricettivae ludico-ricreativa, alla diffusione di sistemi di produzione di energia da fonti rin-novabili, alla più generale integrazione socio-culturale e funzionale tra le dimen-sioni rurali e urbane anche attraverso la realizzazione di una nuova rete di servizidi natura socio-assistenziale e sanitaria alla popolazione rurale e non.

Facendo leva proprio sulle caratteristiche geografiche specifiche dell’ambito inte-ressato dal progetto integrato, “territorio snodo” tra area romana, pianura pontinaed entroterra collinare montano, sulle risorse che già ne valorizzano e caratterizza-no l’identità storico-culturale (Giardini e rovine di Ninfa, Torrecchia Vecchia, TresTabernae, Norba, Cora, Satricum, la Via Appia, la Consolare, il Lago di Giulianello,le armature storiche della bonifica pontina, ecc.), sulle capacità imprenditoriali giàmaturate in funzione di attività agrituristiche e ludico-sportive, sul tessuto già stori-cizzato di esperienze innovative in materia di welfare partecipativo, ovvero di ser-vizi di natura socio-assistenziale (il progetto sperimentale nell’Oasi di Ninfa per la“disabilità produttiva”, per esempio), il progetto integrato territoriale si proponecome strumento utile a mettere a sistema risorse e vocazioni già presenti, per molti-

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plicarne le potenzialità e aggiungerne di nuove, e, più ambiziosamente, per speri-mentare un modello nuovo ed esemplare dei rapporti socio-culturali e funzionalitra città e campagna e del welfare locale.Elementi portanti del progetto integrato territoriale, di cui si sta aggiornando voltaper volta un apposito master plan, sono le principali armature infrastrutturali viarie(esistenti e di progetto) e ferroviarie del vasto comprensorio interessato dalla pro-gettazione integrata, insieme alla rete idrografica e alle costellazioni dei centriurbani e dei nuovi nodi dello sviluppo integrato città-campagna, il tutto interpretatosotto forma di una nuova rete di “mobilità lenta” (percorsi ciclopedonali, carrabilicon mezzi innovativi non inquinanti come biciclette a pedalata assistita, macchineelettriche, “pulmino digitale”, ippovie, idrovie), con ruolo di infrastrutturazioneportante delle nuove relazioni territoriali che il progetto propone. La progressivadefinizione di alcuni “capisaldi strategici”, selezionati in base alle domande e allepropensioni alla trasformazione dei diversi protagonisti della progettazione integra-ta, è funzionale allo speciale ruolo che si intende affidare al sistema dei servizisocio-assistenziali e sanitari (sia pubblici, sia privati, sia del mondo associazionisti-co e delle cooperative), non solo per il sostegno alla implementazione funzionaledel sistema agricolo produttivo in termini di agricoltura sociale concorrente con letradizionali attuali pratiche colturali, ma anche per la costruzione di un modelloinnovativo di riorganizzazione del welfare locale, conferendo all’intero programmauno speciale valore “etico” e un più ambizioso profilo interpretativo di nuovi possi-bili rapporti di comunità che con il progetto stesso si intendono (ri)costruire.

Considerazioni conclusive

I processi incrementali e le tendenze alla saldatura, di cui ovunque la pianificazio-ne territoriale sta prendendo atto nell’evoluzione dei fenomeni insediativi, si river-berano in nuove intenzioni progettuali che reclamano l’urgenza di “centralitàurbane diffuse” per l’integrazione di servizi alla popolazione e la ricomposizionedelle reti eco-biologiche insieme alla salvaguardia delle risorse ambientali e allacura dei paesaggi. Politiche certo necessarie, e che tuttavia scontano approcci dua-listici nell’interpretazione dell’urbano e del rurale come due entità e due concetticontrapposti.Ma ha senso distinguere ancora in modo così netto l’urbanità dalla ruralità? La cittàè ovunque ed emerge il “nuovo mondo” dei territori montani abbandonati allaforesta che avanza e delle gronde vallive, periurbane e metropolitane, di popola-zioni che si spostano dai Paesi poveri o dagli alveoli delle città sempre più in crisi.

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Non ha, dunque, più senso considerare in modo separato l’urbano e il rurale: quel-lo che abbiamo di fronte è un nuovo spazio ibrido, fatto di “scudi di pietra” di ric-chi e di baraccopoli di poveri; di agricoltori che resistono e altri che reiventano atti-vità; tutto insieme, come in un magma di angosce e di speranze che stenta a pren-dere una forma.Un nuovo spazio ibrido, che è ibrido perché ingovernato, stralciato da ciò che siritiene degno di attenzione, reso vuoto dalle politiche di programmazione e pianifi-cazione degli ultimi decenni; nonostante l’Insor già negli anni ’70 ne avesse letto iprodromi analizzando i dati censuari. Eppure la “missione” urbanistica “di favorireil disurbanamento e combattere l’urbanesimo” è tuttora inscritta nei principi dellavigente Legge urbanistica del 1942, ma non c’è piano o programma di qualsiasilivello e specie - a parte qualche isolata, e dimenticata, esperienza di Olivetti eAstengo - che nel Dopoguerra italiano abbia osservato questo lungimirante dettato.Ci ha dovuto pensare l’Unione europea a indicarci, ancora con molti limiti, l’oriz-zonte di un rinnovato rapporto virtuoso tra urbanità e ruralità. E ora siamo allaricerca di nuovi strumenti concettuali prima ancora che finanziari, per la loro inte-grazione. L’impiego dei cicli produttivi agricoli come strumento di connessione cul-turale e veicolo di attività terziarie, dall’agriturismo ai servizi socio-sanitari, ne è ilprincipale motore. E le esperienze di Agricoltura Sociale, che ovunque in Italia e inEuropa si stanno diffondendo, sono l’esempio concreto di una nuova idea di urba-no-rurale che sta prendendo corpo; di un’idea in cui la condizione per la salva-guardia dell’ambiente e del paesaggio è la presenza dell’uomo, e la possibilità ditrasformare i problemi degli spazi periurbani e metropolitani sta nella (ri)costruzio-ne di nuove forme dell’abitare e di welfare locale.Significative esperienze di pianificazione, da quelle di molti piani provinciali illu-minati di ultima generazione a quelle di progettazione integrata territoriale “dalbasso” che stanno nascendo, indicano che una nuova stagione di impegno cultura-le e disciplinare ha già avuto inizio. È da sperare solo che in tempi brevi si perven-ga a politiche pubbliche nuove e di lungo respiro. La sfida è soprattutto nella capacità dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali dicollaborare per integrare le diverse politiche da attuare nei territori. Non è un com-pito semplice perché richiede un salto di qualità della classe dirigente a tutti i livel-li, in quanto la difficoltà maggiore risiede nel fatto che i differenti settori dell’ammi-nistrazione pubblica, a cui fanno capo le politiche, i sistemi delle competenze tec-niche e scientifiche da mobilitare e i soggetti sociali ed economici da rendere pro-tagonisti non sono avvezzi a dialogare.

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LA LEGALITÀ IN AGRICOLTURA: LA CONFISCA DEI TERRENIAGRICOLI11

di Elisa Ascione, Manuela Scornaienghi12

Introduzione

Il giro d’affari delle attività illegali inerenti l’ambito agricolo e rurale è “stimato”intorno ai cinque miliardi di euro (Confederazione Italiana Agricoltori, 2003);attraverso furti di attrezzature e mezzi agricoli, racket, abigeato, estorsioni, pizzo,danneggiamento alle colture, aggressioni, usura, macellazioni clandestine, discari-che abusive, truffe nei confronti dell’Unione europea e caporalato, la criminalitàorganizzata impone la sua presenza nel tessuto economico e sociale di molte realtàagricole italiane, ostacolandone il regolare sviluppo e influenzando, in manieradeterminante, la solidità e la crescita sociale ed economica. Non solo, tramite l’ac-quisto di terreni e aziende agricole le organizzazioni mafiose riciclano grandiquantità di denaro, rafforzando ulteriormente il loro potere.Lo Stato italiano è impegnato da vari decenni in azioni di contrasto e indebolimen-to delle capacità economico-finanziarie della criminalità organizzata, di cui le atti-vità agricole rappresentano una fetta consistente, anche attraverso la confisca e lariconversione dei patrimoni mafiosi e il loro inserimento nel circuito della produtti-vità legale.

La criminalità in agricoltura e il ruolo dell’impresa sociale

Nella letteratura economica agraria e nelle nuove politiche comunitarie sullo svi-luppo rurale l’agricoltura sociale, intesa come connubio dell’attività produttiva conl’offerta di servizi di natura sociale, è pienamente riconosciuta come un aspettodella multifunzionalità (Senni, 2005 e 2007; Finuola et al., 2008). Tra le varie formeche può assumere il risvolto sociale dell’agricoltura, una di esse è rappresentatadalla diffusione della cultura della legalità e dalla lotta alla criminalità nei territori. Negli ultimi anni si è rilevato un incremento della presenza della criminalità nel

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11 Il presente capitolo è una sintesi dei temi affrontati e delle riflessioni emerse nel corso del seminario L’agricolturalegale: i terreni agricoli confiscati alle mafie organizzato dall’INEA il 19 novembre 2008 nell’ambito del Progetto“Promozione della cultura contadina”.

12 Elisa Ascione è ricercatrice presso l’INEA (Istituto Nazionale di Economia Agraria), Manuela Scornaienghi è CTER(Collaboratore Tecnico di Ricerca) presso l’INEA.

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settore agricolo e agro-alimentare, tanto che l’ “agro-crimine” (Cnel, 2006;Fondazione Cloe, 2008) pervade i vari stadi della filiera agro-alimentare (dalla for-nitura di materie prime alla trasformazione e distribuzione dei prodotti), così comei processi di acquisizione e affitto dei terreni agricoli. Le cause dell’incremento ditale fenomeno sono molteplici: il crescente aumento del livello dei prezzi dei pro-dotti primari, lo sfruttamento del mercato del lavoro agricolo, nonché i finanzia-menti erogati all’agricoltura. In tale contesto, l’opera di confisca ha un ruolo decisi-vo nella lotta alla criminalità organizzata, in quanto va a indebolire a monte il suopotere economico, intaccando direttamente i patrimoni immobiliari. In particolare,i beni confiscati sono restituiti alla collettività attraverso l’attività delle cooperativesociali, che svolgono non solo un’attività produttiva, ma anche di natura sociale,fornendo occupazione e incentivando la diffusione della responsabilità sociale.In Italia le organizzazioni non profit hanno essenzialmente prodotto servizi di uti-lità sociale, assumendo la forma di impresa sociale e spesso, nell’ambito di taletipologia, quella di cooperativa (D’Alessio et al., 2007; Sabbatini, 2008; Gaudio,2008, Tarangioli et al., 2008). Dal punto di vista normativo, le cooperative socialisono regolamentate dalla legge 381/1991, che le distingue in cooperative di tipo Ae di tipo B. Le prime gestiscono servizi socio-sanitari ed educativi, mentre le coo-perative di tipo B svolgono un’attività produttiva destinata all’inserimento lavorativodi persone con vario tipo di svantaggio. Per rientrare nella categoria di impresasociale, normata dalla legge successiva 155/2006, le cooperative devono rispettarei due obblighi della redazione del bilancio sociale e della partecipazione dei lavo-ratori e dei destinatari delle attività in tutte le decisioni che riguardano le condizio-ni di lavoro e la qualità dei beni e servizi offerti. La tipologia organizzativa mag-giormente diffusa in agricoltura sociale è la cooperativa di tipo B, poiché le relativecaratteristiche sono particolarmente adatte alla realizzazione della dimensionemultifunzionale dell’agricoltura, come compresenza dell’agro-socialità (Senni,2007).

Le fonti normative

Nel 1982, la legge Rognoni-La Torre, che introdusse il reato di associazione mafio-sa, pose in risalto il potere economico delle cosche puntando a indebolirlo attraver-so il sequestro e l’acquisizione dei beni da parte dello Stato. In seguito, con ilDecreto legge n. 230 del 1989, che introdusse una procedura per l’assegnazionedei beni confiscati, veniva realizzata, per la prima volta, una prassi legislativa per lagestione e il riutilizzo di tali beni, allo scopo di trasformarli da illegali a legali. La

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procedura prevedeva quattro fasi, l’ultima delle quali attraverso un decreto delMinistero delle Finanze provvedeva alla destinazione del bene confiscato.L’inadeguatezza della legge (dal 1982 al 1996 a fronte delle migliaia di beni dispo-nibili solo 34 erano stati assegnati a nuovo utilizzo) spinse nel 1995 l’AssociazioneLibera13, a organizzare una petizione popolare che proponeva una riforma dellalegge che ponesse al centro il riutilizzo, a scopi sociali, dei beni confiscati. Il gran-de successo dell’iniziativa portò nel marzo 1996 alla promulgazione della Legge109/96 che, accogliendo le proposte dei firmatari, sanciva l’uso sociale dei beniconfiscati, introducendo numerose novità riguardo la loro gestione, in particolare:

- l’istituzione presso le Prefetture di un fondo le cui risorse devono essere destina-te al finanziamento di progetti relativi alla gestione degli immobili confiscati edi attività socialmente utili. Con questo strumento la legge introduce il finanzia-mento di progetti relativi alla gestione a fini istituzionali, sociali o di interessepubblico degli immobili confiscati;

- lo snellimento delle procedure per l’assegnazione dei beni confiscati grazie auna riduzione dei passaggi amministrativi che da quattro passano a tre;

- l’ introduzione della distinzione tra beni mobili, immobili e aziendali;

- l’avviamento della raccolta di dati relativi ai beni sequestrati o confiscati, riguar-danti lo stato del procedimento, la loro consistenza, destinazione e utilizzazio-ne e la trasmissione al Parlamento, ogni sei mesi, di una relazione sui dati sud-detti.

In questo ultimo ambito si inserisce il Progetto Sippi (Sistema Informativo Prefetturee Procure dell’Italia Meridionale), in funzione dal 2006, finalizzato alla creazionedi una Banca Dati centralizzata per la gestione di tutti i dati e le informazioni rela-tive ai beni sequestrati e confiscati alle organizzazioni criminali nell’ambito deiprocedimenti ablativi. Un Regolamento del Ministero della Giustizia prevede che idati relativi ai beni sequestrati e confiscati siano raccolti presso:

- Le cancellerie e le segreterie degli Uffici Giudiziari interessati;

- L’Agenzia del Demanio e gli Uffici del Territorio e/o le filiali del Demanio;

- Le Prefetture e le Questure;

- I comuni.

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13 l’Associazione Libera. Nomi e numeri contro le mafie è nata nel 1995 con l’intento di sollecitare la società civilenella lotta alle mafie e promuovere legalità e giustizia

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L’alta concentrazione di richieste di provvedimenti di confisca e di relativa attua-zione nelle regioni del Sud Italia, ha spinto il Ministero della Giustizia a proporre eottenere l’inserimento del progetto Sippi nell’ambito del “Programma OperativoNazionale – Sicurezza per lo Sviluppo del Mezzogiorno d’Italia 2000–2006”, chesi propone di garantire, su tutto il territorio del Mezzogiorno, condizioni fisiologi-che di sicurezza, pari o almeno paragonabili a quelle esistenti nel resto d’Italia, ecomunque sufficienti a incidere, in modo strutturale e non contingente, sul pesantegap che attualmente le caratterizza. Inoltre, al fine di dare continuità all’azionepubblica sui beni confiscati, rafforzando i meccanismi applicativi delle leggi vigen-ti, nel 2007 è stato istituito, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, ilCommissario straordinario per la gestione e la destinazione dei beni confiscati aorganizzazioni criminali. Si tratta di un’Autorità centrale di coordinamento operati-vo delle diverse competenze, amministrative e giudiziarie. Per il periodo 2007-2013, l’Autorità di Gestione del PON Sicurezza, ha stabilitouna specifica linea di finanziamento per i beni confiscati, affidandone la responsa-bilità proprio all’Ufficio del Commissario.I beni confiscati si distinguono in mobili, immobili e aziendali; i terreni e le azien-de agricole confiscate appartengono alle due ultime categorie, in particolare lalegge prevede per la tipologia dei beni immobili che essi possano:

a) essere mantenuti al patrimonio dello Stato per finalità di giustizia, di ordine pub-blico e di protezione civile, salvo che si debba procedere alla vendita degli stessifinalizzata al risarcimento delle vittime dei reati di tipo mafioso;

b) essere trasferiti al patrimonio del comune ove l’immobile è sito, per finalità isti-tuzionali e sociali. Il comune può amministrare direttamente il bene o assegnarloin concessione a titolo gratuito a comunità o enti, organizzazioni di volontariato,a cooperative sociali, a comunità terapeutiche e centri di recupero e cura di tos-sicodipendenti. Se entro un anno dal trasferimento il comune non ha provvedutoalla destinazione del bene, il Prefetto nomina un Commissario con poteri esecu-tivi;

c) essere trasferiti al patrimonio del comune ove l’immobile è sito; Il comune puòamministrare direttamente il bene oppure, preferibilmente, assegnarlo in conces-sione, anche a titolo gratuito, ad associazioni, comunità o enti per il recupero ditossicodipendenti operanti nel territorio ove è sito l’immobile.

Per i beni aziendali la legge 109/96 prevede che siano mantenuti al patrimoniodello Stato e destinati:

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- all’affitto, quando vi siano fondate prospettive di continuazione o di ripresa del-l’attività produttiva, a titolo oneroso, previa valutazione del competente ufficio delterritorio del Ministero delle Finanze, a società e a imprese pubbliche o private,ovvero a titolo gratuito, senza oneri a carico dello Stato, a cooperative di lavorato-ri dipendenti dell’impresa confiscata. Nella scelta dell’affittuario sono privilegiatele soluzioni che garantiscono il mantenimento dei livelli occupazionali. I beninon possono essere destinati all’affitto alle cooperative di lavoratori dipendentidell’impresa confiscata, se taluno dei relativi soci è parente, coniuge, affine oconvivente con il destinatario della confisca;

- alla vendita, per un corrispettivo non inferiore a quello determinato dalla stimadel competente ufficio del territorio del Ministero delle Finanze, a soggetti che neabbiano fatto richiesta, qualora vi sia una maggiore utilità per l’interesse pubblico.Riguardo alla riduzione dei passaggi, attualmente il processo di destinazione dibeni immobili confiscati prevede tre fasi. Nella prima, la Cancelleria delTribunale comunica il decreto definitivo di confisca a: Prefettura, Filialedell’Agenzia del Demanio, Dipartimento di pubblica sicurezza e Amministratoregiudiziario del bene. In una seconda fase, la filiale dell’Agenzia del Demaniostima il bene confiscato, raccoglie i pareri del Prefetto, Sindaco e Amministratoregiudiziario circa la destinazione del bene e comunica entro 90 giorni la propostadi destinazione all’Agenzia Centrale del Demanio. Infine, l’Agenzia Centrale delDemanio emana, entro 30 giorni, il decreto di destinazione del bene e consegnaall’utilizzatore finale (Stato, comune, enti privati/sociali).

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La destinazione dei terreni agricoli confiscati

L’analisi dei dati sulla localizzazione e destinazione dei terreni confiscati, fornitidall’Agenzia del Demanio14; evidenzia che il fenomeno si distribuisce in otto regio-ni, di cui 3 del centro-nord (Piemonte, Lombardia, Lazio) e le restanti 5 del meri-dione, compreso le isole (Campania, Puglia, Calabria, Sicilia, Sardegna). I terrenisono complessivamente 566, corrispondenti a 1.402 ettari di superficie totale: diquesti 549, pari a 1.388 ettari, sono situati al meridione.La Sicilia è la regione con il maggior numero di terre confiscate (tabella 1), pari al51% dei terreni, con una superficie media di circa 4 ettari e corrispondenti all’81%di superficie totale rispetto al dato nazionale. Seguono a notevole distanza - sia perla numerosità sia per superficie - Calabria (19% e 10%), Campania (14% e 5%) ePuglia (12% e 3%). Anche le regioni centro-settentrionali non sono esenti dall’azio-ne di confisca; in particolare il Piemonte con il 2% di terreni corrispondenti allo0,5% della superficie complessiva, a cui segue il Lazio rispettivamente con l’1% elo 0,4% del dato nazionale, ma con una superficie media maggiore pari a 1,2 ettari.

Tabella.1 - Terreni confiscati e relativa superficie totale per regione (31 -03- 2008)

Numero Superficie Superficie Superficieterreni (ha) terreni sul media per

Regioni Numero sul Totale Totale Italia numeroTerreni Italia (%) (%) terreni (ha)

Piemonte 11 2 7 0,5 0,6Lombardia 1 0,2 1 0,04 0,6Lazio 5 1 6 0,4 1,2Centro Nord 17 3 13 1 0,8Campania 82 14 70 5 0,9Puglia 70 12 47 3 0,7Calabria 106 19 140 10 1,3

Sicilia 289 51 1131 81 3,9Sardegna 2 0,4 0,05 0,003 0,02Sud 549 97 1388 99 2,5Totale Italia 566 100 1402 100 2,5Fonte: Nostra elaborazione su dati Agenzia del Demanio

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14 I dati forniti dall’Agenzia del Demanio sono riferiti al 31 marzo 2008. A tale proposito si desidera ringraziare ildott. Giuseppe Pisciotta, responsabile dell’Area Beni e Veicoli Confiscati dell’Agenzia del Demanio e il suo ufficioper la gentile disponibilità, nonché per la concessione dei dati sui terreni agricoli confiscati alle organizzazioni cri-minali.

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I terreni confiscati sono classificati in tre categorie, a seconda dello stato della pro-cedura di assegnazione in cui sui collocano:Terreni in gestione al Demanio;Terreni destinati al comune in cui ricadono;Terreni trasferiti al comune in cui ricadono, per essere utilizzati da parte di coope-rative agricole e consorzi per lo sviluppo di attività agricole.I terreni, una volta giunti alla fase di destinazione, diventano di proprietà dei comu-ni in cui sono ubicati. A loro volta i comuni li assegnano, mediante un contratto dicomodato d’uso gratuito della durata di circa 30 anni, alle cooperative sociali ditipo B per la messa in produzione. Dunque, le cooperative non sono proprietariedei terreni, ma solo “affidatarie” e, quindi, non possono utilizzare tali beni comegaranzia per l’ottenimento di mutui o linee di credito bancario. Sussistono signifi-cative differenze fra il numero dei terreni agricoli che ricadono nelle tre categorie.Infatti a livello nazionale (tabella 2), il 58% dei terreni confiscati è utilizzato dacooperative agricole e consorzi, mentre resta ancora un buon 30% in gestione e il13% di terre è destinato ai comuni.

Tabella 2 – Numero e superficie totale dei terreni confiscati per classificazione(31 marzo 2008)

Affidatiin gestione al Destinati a cooperative

Regioni Demanio ai comuni e consorzi TotaleTerreni Sup Terreni Sup Terreni Sup Terreni Sup

(n.) . (ha) (n.) . (ha) (n.) . (ha) (n.) . (ha)

Piemonte 2 0,4 9 6 11 7 Lombardia 1 1 1 1 Lazio 4 6 1 0,01 5 6 Campania 9 23 7 10 66 38 82 70 Puglia 10 5 47 36 13 5 70 47 Calabria 73 71 2 0,5 31 69 106 140 Sicilia 73 424 12 7 204 700 289 1131Sardegna 2 0,05 2 0,05 Totale Italia 169 528 71 55 326 819 566 1402Fonte: Nostra elaborazione su dati Agenzia del Demanio

Relativamente ai terreni che sono già in uso presso le cooperative e i consorzi, laSicilia con 204 terreni corrispondenti a 700 ettari è la regione con i valori più ele-vati. A essa seguono la Campania con 66 terreni (38 ha) e la Calabria con 31, madi più ampia dimensione in quanto corrispondono a ben 69 ha in totale. La Sicilia

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e la Calabria sono le regioni che possiedono il maggior numero di terreni che sonoancora in gestione al Demanio (73 ciascuna), anche se in termini di superficie è laSicilia che detiene più di 400 ha sugli oltre 500 ha in gestione dell’intero meridio-ne.Il valore economico stimato dei terreni confiscati, che a marzo del 2008 risultanoin gestione in Italia, è pari a oltre 13 milioni di euro per un totale di 169 terreni. Sesi tiene conto dell’andamento del valore medio di mercato dei terreni, si stima unvalore medio ad ettaro abbastanza alto per la Campania (120.000 euro/ha) controun valore più basso per la Puglia (30.000 euro/ha) e la Sicilia (10.000 euro/ha).Se si osserva il tempo che intercorre tra la definitività della confisca e la successivadata di destinazione ai comuni (tabella 3), si evince che per una serie storica cheva dal 1987 al 2008, il maggior numero di terreni destinati si è avuto nel 2006. Intale anno risultano destinati 43 terreni nella regione Puglia, ma per i quali si eraottenuta la definitività della confisca ben 10 anni prima. Altri 10 terreni, la cui con-fisca era avvenuta nel 1998, sono stati destinati in Sicilia nel 2008,; sette terrenirisultano destinati in Campania nel 2001: in questo caso la confisca risale a seianni prima. Il lasso di tempo che intercorre tra le fasi di confisca e di destinazionecomporta in molti casi la perdita di produttività dei terreni agricoli, con inevitabilicosti di riconversione produttiva, che si ripercuotono negativamente sul piano eco-nomico e sociale.

Tabella 3 - Terreni agricoli confiscati trasferiti ai Comuni secondo la definitivitàdella confisca e la successiva data di destinazione (31 marzo 2008)

Anno di Confisca 1987 1995 1997 1998 2001 2004 2005 2005 2007Anno di destinazione 2006 2006 2003 2008 2007 2008 2007 2008 2008Piemonte 2Lombardia 1Campania 7Puglia 43 4Calabria 2Sicilia 1 1 10

Totale Italia 1 43 1 10 7 1 2 4 2Fonte: Nostra elaborazione su dati Agenzia del Demanio

Invece, se si analizza il tempo che intercorre tra la confisca e l’affidamento a coo-perative e consorzi, si può evidenziare una maggiore velocizzazione della proce-dura che riguarda soprattutto gli ultimi anni. Infatti, nella serie storica che va dal

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1985 al 2006, si passa da una prima fase temporale - in cui intercorrono 5 anni (dal1996 al 2001) per 14 terreni in Sicilia, 6 anni (dal 1997 al 2003) per 40 terreni inCampania, 7 anni (dal 1999 al 2006) per 12 terreni in Calabria – a una secondafase, in cui intercorrono solo 2 anni (dal 2002 al 2004) per 15 terreni distribuiti traCalabria e Sicilia e per 11 terreni (dal 2005 al 2007) assegnati tra Campania, Pugliae Sicilia.In ultimo, dalla tabella 4 si evince che, relativamente alle finalità di utilizzo delleterre confiscate da parte di cooperative e consorzi agricoli, i 326 terreni complessi-vi si ripartiscono nel modo seguente:- Per la quasi totalità (242) le aree sono destinate a utilità sociali, di cui la gran

parte (163) è situata in Sicilia; - 43 terreni (di cui 40 in Campania e i restanti tre in Calabria) sono utilizzati

secondo le finalità previste dal PON Progetto pilota nuove generazioni; - le restanti 41 terre, tutte situate in Sicilia, sono affidate al Consorzio sviluppo e

legalità15.

Tabella 4 - Terreni agricoli confiscati e trasferiti ai relativi comuni per essere uti-lizzati da parte di cooperative agricole e consorzi per lo sviluppo diattività agricole, distinti per finalità e per regioni (31 marzo 2008)

Area destinata Consorzio PON Progetto a utilità sociali sviluppo e legalità pilota nuove generazioni

Piemonte 9Lazio 1Campania 26 40Puglia 13Calabria 28 3Sicilia 163 41Sardegna 2Totale Italia 242 41 43Fonte: Nostra elaborazione su dati Agenzia del Demanio

Alcune riflessioniIl primo dato che emerge da questa breve analisi è la sproporzione fra i terreni

agricoli sequestrati e quelli confiscati. L’analisi, infatti, evidenzia che, al 31 marzo2008, dei 566 terreni agricoli confiscati, solo 326 - poco più della metà - risultanoassegnati a cooperative e consorzi. I 120 giorni totali previsti dalla normativa, nei

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15 Il Consorzio sviluppo e legalità è un consorzio di 8 comuni della provincia di Palermo, costituito il 30 maggio2000 su iniziativa del Prefetto di Palermo per l’amministrazione, in forma associata e per finalità sociali, dei beniconfiscati alla criminalità organizzata (Frigerio et al., 2007).

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quali l’Agenzia diventa responsabile gestionale del bene e ne decreta la destinazio-ne, non sono evidentemente sufficienti. Ciò è dovuto a numerosi fattori: controver-sa interpretazione del provvedimento giudiziario, dati catastali incompleti o errati,presenza sul bene confiscato di ipoteche, occupazioni abusive che richiedono ulte-riori azioni giudiziarie per procedere agli sgomberi, beni definitivamente confiscatiin ambito di prevenzione ma oggetto di sequestro penale e, dunque, non destinabi-li; in molti casi, le problematiche presenti contemporaneamente sono più di una,soprattutto quando si tratta di beni aziendali.

I tempi, dunque, si allungano e questo provoca un deterioramento del bene che,nel caso di terreni e aziende agricole, provoca danni rilevanti in vista di una suc-cessiva ripresa dell’attività produttiva. Da più parti è stato proposto di affrontare ilproblema rendendo i beni confiscati diversi dagli ordinari beni del patrimonio delloStato, attribuendogli, comunque, specificità che contribuiscano a superare la straor-dinarietà del loro riutilizzo. A tale scopo, è stata avanzata la proposta di introdurreun testo legislativo unico, che superi le complessità relative alle attuali varie dispo-sizioni. La necessità di superare il carattere di “emergenza” che spesso caratterizzagli interventi destinati alla manutenzione ordinaria e straordinaria dei beni confi-scati ha spinto, inoltre, gli addetti ai lavori a chiedere l’istituzione di un fondo ordi-nario governativo, da integrare con le risorse finanziarie destinate per i suddettibeni dal PON Sicurezza (per la programmazione 2007-2013 oltre 91 milioni dieuro) in modo da introdurre una pratica regolare di sostegno e consolidarla neltempo.

Un’altra problematica emersa è legata al ruolo dei comuni ai quali spetta ilcompito di proporre l’assegnazione del bene, allorquando non utilizzato per finiistituzionali. Di frequente, a causa dei costi di gestione troppo onerosi o delleingenti spese necessarie per il riutilizzo, le amministrazioni locali tendono arimandare gli interventi chiedendo al soggetto assegnatario (associazione, coopera-tiva) di prendersi carico degli investimenti iniziali. Bisogna però considerare che lecooperative sociali di tipo B16, alle quali generalmente le aziende agricole confisca-te sono destinate risultano, dal punto di vista giuridico, soltanto “affidatarie” deibeni e ciò comporta, ad esempio, l’impossibilità di accedere a mutui bancari. Aproposito, è stato più volte avanzata la richiesta, da parte dei destinatari, di sostitui-

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16 Le cooperative sociali di tipo B operano in diversi settori (agricolo, industriale, commerciale e dei servizi).Forniscono opportunità occupazionali a persone svantaggiate, favorendo l’integrazione sociale di soggetti che altri-menti rimarrebbero esclusi dal mercato del lavoro (alcolisti, detenuti ed ex detenuti, disabili fisici, psichici e senso-riali, minori, pazienti psichiatrici, tossicodipendenti e altre persone che per povertà o per perdita di una preceden-te occupazione si trovano escluse dal mercato del lavoro).

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re il comodato d’uso con contratti di locazione almeno decennali, per consentirealle cooperative sociali di poter pianificare le attività economiche e ottenere inecessari finanziamenti bancari.

Un tentativo di soluzione dei problemi legati alla gestione dei beni confiscati, inparticolare per quelli agricoli, è rappresentato dalla costituzione di Consorzi dicomuni. Tale forma di associazionismo permette, infatti, alle cooperative agricoledi fare meglio impresa sociale, avendo a disposizione una quota maggiore di terre-ni, non circoscritti entro i confini di una singola amministrazione, di sviluppareprogettualità condivise e di facilitare la gestione finanziaria delle imprese.

Al ruolo delle amministrazioni locali è legato il problema delle relazioni sociali,spesso ambigue, tra i diversi attori coinvolti nella fase “conclusiva” della proceduradi assegnazione. Anche quando il procedimento di destinazione è concluso, risultadifficile coinvolgere le popolazioni residenti nei progetti e nella nuova gestione deibeni confiscati perché il “condizionamento ambientale” del potere mafioso nei ter-ritori prosegue, esercitando una forte pressione, in molti casi diretta, sui soggettiche esprimono interesse o partecipano ai progetti di riutilizzo. Questo problemariguarda anche la stessa produttività dei beni aziendali, in particolare quella delleaziende agricole, che risulta spesso compromessa dalla precedente gestione “ille-gale” che non ha permesso un regolare sviluppo imprenditoriale dell’attività.

In questo ambito è stato notevole l’impegno dei vari partner coinvolti nei pro-getti finanziati dal PON sicurezza 2000-2006, nell’ambito dell’Asse II “Promozionee sostegno alla legalità” attraverso tre Misure rivolte a “Diffondere tra le popolazio-ni interessate una particolare sensibilità ai temi della legalità e della sicurezza”. In questi anni numerose iniziative imprenditoriali su terreni agricoli confiscati, mal-grado le difficoltà riscontrate, hanno prodotto buoni risultati (Valle del Marro inCalabria, Placido Rizzotto, Lavoro e non solo in Sicilia, Il Gabbiano nel Lazio)dimostrando le potenziali opportunità del settore agricolo nell’offrire, oltre a occu-pazione e reddito, servizi sociali alla popolazione locale nell’ottica dell’agricolturamultifunzionale. L’esperienza della Valle del Marro offre a riguardo un esempiosignificativo. La Cooperativa che opera nella provincia di Reggio Calabria (dopoPalermo, l’area con il maggior numero di beni confiscati) nel febbraio 2005 è dive-nuta assegnataria di circa 27 ettari di terreno sottoscrivendo contratti di comodatod’uso gratuito, della durata di 30 anni, con i Comuni di Gioia Tauro, OppidoMamertina e Rosarno. In seguito a un bando pubblico sono stati selezionati 15 gio-vani che dopo 4 mesi di formazione e un tirocinio presso cooperative dell’EmiliaRomagna e della Sicilia hanno dato inizio alla produzione di olio, miele, ortaggi

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con metodo biologico. I prodotti, commercializzati con il marchio “Libera Terra”,sono distribuiti essenzialmente dalla catena delle botteghe del biologico specializ-zato, le botteghe del commercio equo e solidale e in alcuni comparti della CoopItalia nazionale, che ha investito nel progetto “Libera Terra” dando supporto ancheattraverso consulenze. La cooperativa, per promuovere soprattutto nei giovani unasensibilità antimafia, realizza anche progetti nelle scuole coniugando gli aspettiformativi della educazione alla legalità con la sensibilizzazione verso il valoreetico e sociale contenuto nell’utilizzo dei beni confiscati, partecipa inoltre ai“campi della legalità”, un’iniziativa organizzata da Legambiente e da Libera conl’obiettivo di promuovere in tutto il mondo la cultura della legalità e dell’ambienta-lismo. Nell’ottica della diversificazione delle attività, la cooperativa è impegnataanche nella creazione di una fattoria didattica attraverso la quale intende promuo-vere percorsi di conoscenza nel territorio, salvaguardia e rilancio di antiche cultu-re contadine rivolti a scuole e gruppi di tutto il territorio nazionale. La Valle delMarro rappresenta per i territori in cui opera la prima esperienza di giovani disoc-cupati che investono risorse e competenze su terreni confiscati, puntando a ottene-re prodotti, capaci di stare sul mercato per l’alta qualità, la genuinità e il forte con-tenuto etico, nel rispetto della legalità, dell’ambiente e della salute dell’uomo. È in tali contesti che il lavoro in agricoltura è diventato occasione di riscatto socia-le e di lavoro per giovani e disoccupati, tossicodipendenti, ex-detenuti, per altrisoggetti svantaggiati. Le istituzioni hanno compreso la validità di queste esperienzee, in linea con quanto avvenuto nella passata programmazione 2000-2006, hannoattivato interventi di sostegno finanziario atti a favorire il riutilizzo dei beni confi-scati con specifiche linee di intervento all’interno della programmazione dei fondistrutturali 2007-2013. In Campania e in Sicilia, ad esempio, misure del PSR relativeall’indennità compensativa per le zone svantaggiate e montane sono destinateanche alle aziende agricole operanti su terreni confiscati alla criminalità organizza-ta; in Calabria la Misura 121, Ammodernamento delle aziende agricole, è rivolta aquelle imprese che svolgono attività legate all’agricoltura sociale, in particolare leattività svolte in strutture e terreni confiscati in via definitiva alla criminalità mafio-sa. In questo ambito è auspicabile una maggiore sinergia tra il quadro normativo diriferimento, il mondo dell’associazionismo e le azioni intraprese all’interno dellevarie politiche di sviluppo nazionali e comunitarie. Un esempio positivo in talesenso è rappresentato, anche in questo caso, dall’esperienza della cooperativaValle del Marro – Libera Terra. Il successo dell’iniziativa è stato determinato, infatti,dal metodo della concertazione e dalla rete costruita sul territorio dall’associazione

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“Libera” che ha coinvolto oltre alla Diocesi di Oppido-Palmi, la Prefettura diReggio Calabria, l’Agenzia del Demanio, le Amministrazioni locali interessate,l’Agenzia Italia Lavoro, la Lega Coop e le associazioni locali. Capofila delleIstituzioni coinvolte è stato il Ministero del Lavoro che, attraverso un finanziamentodella Legge 383/2000, ha permesso di dare inizio a una forma di concertazione equindi a un progetto concreto e di successo capace di creare reddito e consenso tral’opinione pubblica.

Conclusioni

Negli ultimi anni si è assistito a un rinnovato interesse della criminalità organiz-zata per il settore dell’agricoltura, che ha condotto all’affermarsi dell’ “agro-crimi-nalità” finalizzata al controllo dell’intera filiera agro-alimentare, con inevitabiliricadute negative sulla formazione dei prezzi, sul sistema creditizio, nonché sullaperdita di capitale sociale.

In tale scenario il possesso del territorio diventa un fattore cruciale, in quantoesso è da sempre la manifestazione concreta del potere delle organizzazioni crimi-nali. Dunque, se le istituzioni intendono impegnarsi per il recupero della legalitàdovrebbero partire proprio dal territorio. In questo senso diventa strategica l’azionedi confisca e la gestione dei terreni agricoli alle criminalità e, in particolare, la fun-zione delle cooperative sociali per la crescita dei territori, anche ai fini dell’inseri-mento lavorativo e dell’inclusione sociale. Infatti, attraverso l’azione di confiscanon solo si restituisce alla collettività il capitale fisico dei terreni, ma anche il capi-tale umano e sociale, indotto e utilizzato dalle cooperative stesse, innescando uncircuito virtuoso di competitività e di responsabilità sociale. Dunque, tali riflessioniconfermano l’importanza dell’impegno da parte delle istituzioni per la realizzazio-ne e lo sviluppo di relazioni efficienti ed efficaci con le comunità locali per la dif-fusione e affermazione della cultura della legalità, nonché per l’attuazione di uncontinuo processo di inclusione sociale.

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TRA LAVORO E NON LAVORO. L’AGRICOLTURA DENTRO EFUORI LE MURA DEL CARCEREdi Francesca Giarè17

Carcere e sicurezza sono temi sempre presenti nel nostro dibattito istituzionale,politico e sociale, in cui gli elementi centrali sono generalmente costituiti dalsovraffollamento degli istituti, dalla lunghezza dei procedimenti e dall’opportunitào meno di intervenire con indulti e/o riduzioni delle pene. Poca attenzione vieneinvece posta sulla questione del significato della carcerazione e del trattamentopenitenziario, questione tutta culturale che rimanda a quell’insieme di valori esignificati che costituiscono le fondamenta di ogni società. Tra i trattamenti previstidalla nostra normativa, il lavoro riveste un ruolo particolarmente interessante siacome attività che “impiega” il tempo dei detenuti sia come opportunità per la fasesuccessiva al periodo detentivo (si (re)impara un mestiere, si tengono (a volte) rap-porti con l’esterno, ecc..Il tema si presta dunque a due tipi di approfondimento: l’agricoltura in un ambitocircoscritto e con legami limitati con l’esterno consente di prendere in considera-zione e valutare positivamente le caratteristiche del lavoro agricolo (all’aperto, acontatto con il ciclo della vita, ecc.) come opportunità per ricollocarsi nellasocietà; il lavoro in carcere – anche quello agricolo - ha tuttavia caratteristiche,finalità e prospettive molto differenti dal lavoro in contesto “normale”.

Il lavoro in carcere

L’attività lavorativa in stato di detenzione nasce storicamente con una funzionestrettamente punitiva, in quanto costituisce un elemento della pena, una modalitàesecutiva della stessa, come si evince dal codice penale del 1889 e dal regolamen-to penitenziario del 1931, in vigore fino al 1975. Quest’ultimo, in particolare, reci-tava <<in ogni stabilimento carcerario le pene si scontano con l’obbligo del lavo-ro>>. L’esperienza del lavoro per i detenuti, dunque, è da sempre portatrice di unduplice significato: da un lato essa evoca il rapporto con la società esterna, in cui illavoro consente di avere un ruolo preciso, di confermare e completare la propriaidentità nella comunità, di essere autonomo e di sostenere la propria famiglia; dal-

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17 Ricercatrice presso l’INEA (Istituto Nazionale di Economia Agraria)

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l’altro il lavoro rappresenta la pena e costituisce un obbligo cui attenersi per evitarepunizioni come l’isolamento o la privazioni di benefici ottenibili in carcere (visite,uscite, attività ricreative, ecc.).Tra le attività lavorative proposte negli istituti penitenziari c’è, ovviamente, anchequella agricola. Fin dal 1800, in Italia, infatti, molti detenuti hanno lavorato nel set-tore agricolo, in particolar modo quelli residenti nelle colonie, prestando la propriaopera sia nei lavori di bonifica e ripristino delle aree agricole sia nella produzionee trasformazione (ortaggi, vite, olivo, allevamenti, ecc.).La pena della detenzione e le misure trattamentali a essa connesse (compreso illavoro) riflettono una concezione tipica del diritto penale liberale, secondo la qualela sanzione penale rappresenta il corrispettivo del male commesso attraverso ilreato (concezione retributiva della pena). Accanto a tale funzione, possono essereindividuate per la pena almeno altre due funzioni fondamentali: quella preventiva,secondo cui la minaccia della detenzione (e della pena in genere) serve per dissua-dere dal commettere o reiterare un reato, e quella satisfattoria, che consiste nell’ap-pagare il bisogno di giustizia della collettività.Il lavoro in carcere, dunque, rientra in un contesto più generale di trattamento deldetenuto (e del giudicando, cioè di colui che è in attesa di giudizio, che può usu-fruire di tale trattamento su richiesta) ed è regolato da un insieme di norme, cheprenderemo in esame molto brevemente per permettere un inquadramento delleesperienze di agricoltura che più avanti illustreremo.Innanzitutto occorre ricordare che le norme prima citate - Codice penale del 1889(precedente all’unità d’Italia) e Regolamento penitenziario del 1931 (redatto inpieno regime fascista) rimasero in vigore fino al 1975, quando fu emanata la Legge354. Il Regolamento penitenziario del 1931 come il Codice Rocco emanato unanno prima, poneva a carico dell’imputato l’onere di dimostrare la propria inno-cenza; la pena (e il lavoro che ne costituisce una parte) doveva avere funzioneafflittivo-puntiva ed essere esemplare. La Costituzione affronta il tema della pena e del trattamento all’articolo 27, cherecita: <<La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpe-vole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenticontrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.Non è ammessa la pena di morte>>. In questo articolo si stabilisce una differenzafondamentale tra giudicabile (l’imputato), che deve essere custodito, e il condan-nato, per il quale è previsto un trattamento di rieducazione.Con la riforma del 1975, maturata anche in seguito alle sollecitazioni del ’68 e alle

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analisi sociologiche del fenomeno carcerario che misero in evidenza come lapopolazione carceraria fosse caratterizzata da bassi livelli di istruzione, disoccupa-zione, bassi profili occupazionali, ecc., le strutture carcerarie si aprirono a soggettidiversi (operatori, educatori, assistenti sociali) e il detenuto cessò di essere conside-rato un numero, come avveniva sulla base della legislazione precedente, e potériacquistare – parzialmente - la propria dignità di persona. L’articolo 13 della leggestabilisce che il trattamento penitenziario deve rispondere i bisogni di ciascun sog-getto e che il trattamento rieducativo deve scaturire dall’osservazione della perso-na. Gli elementi del trattamento sono:l’istruzione, attraverso corsi di scuola dell’obbligo e di formazione professionale; lenuove norme prevedono anche corsi di scuola superiore e università (di rado attiva-ti);il lavoro, interno e/o esterno, remunerato, che deve riflettere per organizzazione emetodi il lavoro esterno alla struttura carceraria, al fine di agevolare il reinserimen-to sociale dei detenuti;la religione: è garantita ai detenuti e agli internati la libertà di professare la propriafede religiosa e di praticarne il culto;le attività ricreative, culturali e sportive (corsi, laboratori, ecc.);i contatti con il mondo esterno, attraverso la partecipazione di privati e di istituzio-ni pubbliche o private all’azione rieducativa;i rapporti con la famiglia, attraverso colloqui, telefonate, corrispondenza.La Legge n. 663 del 1986, detta Legge Gozzini, fu necessaria per apportare oppor-tune modifiche alla precedente, attuata solo parzialmente a causa, anche, dell’averingenuamente affidato la sua attuazione all’istituzione penitenziaria, decisamenteimpreparata per competenze professionali e percorso storico. La Legge Gozziniintroduce con forza i criteri di depenalizzazione, degiurisdizionalizzazione edescarcerazione, cercando di mediare tra le istanze di sicurezza dei cittadini e lanecessità di proporre trattamenti individualizzati extramurari. Lo scopo della legge,infatti, è favorire il reinserimento dei condannati nel tessuto sociale. La possibilitàdi usufruire delle misure alternative, così come di un determinato trattamento, èperò affidata all’”indulgenza” del singolo, che – sulla base dell’osservazione delcomportamento del condannato – esprime un giudizio favorevole o meno, conpossibilità di trovarsi di fronte a una disparità nel trattamento dovuta a sceltediscrezionali (Ferrajoli, 1989). A tale problema cercò successivamente di risponde-re la Legge n. 165 del 1989 (legge Simeone).Secondo la nostra legislazione e l’approccio tradizionale alla pena detentiva, dun-

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que, il lavoro è parte integrante della pena e per tale motivo non può essere consi-derato rapporto di lavoro subordinato. Ne deriva che non è in questo caso applica-bile la legislazione del lavoro sia per quanto riguarda l’organizzazione, sia per ciòche concerne la retribuzione e i diritti del lavoratore. Innanzitutto, per il detenuto illavoro non è un diritto, come sancito dalla Costituzione, ma è un obbligo. Nel casoin cui non sia possibile offrire a un detenuto un lavoro adeguato alle aspettative ealle competenze, questi deve svolgere un’altra attività lavorativa tra quelle organiz-zate nell’Istituto e il non adempimento dell’attività assegnata è punito con sanzionidisciplinari e ha importanti riflessi sulle possibilità successive di usufruire di ridu-zioni della pena o di misure alternative.L’assegnazione del lavoro e la tipologia del rapporto si configurano, quindi, comeuna sorta di premio dal quale si può essere esclusi sulla base del giudizio dell’am-ministrazione penitenziaria. In questo modo, tutto sommato, ci troviamo ancoranella concezione del lavoro come modalità espiativa della pena e non alla funzio-ne rieducativa e di reinserimento sociale data a questo nella legislazione vigentealmeno nelle intenzioni.La legislazione vigente, comunque, estende al lavoro in carcere le norme cheriguardano la durata massima dell’orario di lavoro e il riposo festivo, la tutela assi-curativa e previdenziale e gli assegni familiari. Tuttavia per quanto riguarda la retri-buzione ci sono notevoli differenze tra lavoro carcerario e lavoro ordinario: l’ordi-namento penitenziario stabilisce infatti che il lavoro è retribuito e non che il lavora-tore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla qualità e alla quantità di lavoroprestato. Larticolo 22 dell’ordinamento penitenziario inoltre stabilisce che la retri-buzione dei lavoratori sia calcolata nella misura non inferiore ai due terzi delletariffe sindacali, sui quali si applicano le trattenute e i prelievi. I detenuti lavoratorinon hanno diritto di costituirsi in associazione sindacale né hanno diritto di sciope-ro.La Legge 381/1991 e la 193 del 2000 (Legge Smuraglia) riconoscono i detenuticome soggetti svantaggiati e ne favoriscono il reinserimento nel mondo del lavoro,prevedendo agevolazioni per cooperative che assumono detenuti o persone chehanno già scontato la pena detentiva. Negli ultimi anni, quindi, sono notevolmenteaumentate le esperienze di lavoro in carcere e fuori in tutti i settori produttivi.

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Le esperienze in corso nel campo dell’agricoltura

Negli ultimi anni il Ministero di Grazia e Giustizia18 ha avviato una serie di iniziati-ve a sostegno del livello occupazionale dei detenuti con l’obiettivo di migliorarnela qualificazione professionale nel campo agricolo e della trasformazione e com-mercializzazione dei prodotti e favorirne il reinserimento sociale e lavorativo. Per larealizzazione dell’attività sono stati fatti investimenti in strutture e personale, inmodo da creare le condizioni per la realizzazione delle attività all’interno dellemura carcerarie, e sono state avviate collaborazioni con organizzazioni, enti di for-mazione, cooperative del territorio.In particolare, nell’ultimo periodo lo sforzo del Ministero si è concentrato nell’av-vio di attività agricole specializzate a indirizzo biologico, con una gestione direttao con collaborazioni esterne19. Il rapporto tra detenzione e agricoltura ha origini abbastanza lontane, anche se solonegli ultimi anni tale attività ha trovato nuovo impulso. Fin dall’800, infatti, ilgoverno italiano, sulla base di quanto avveniva in altri Paesi, pensò di utilizzare illavoro dei detenuti per la bonifica delle zone incolte e malariche e istituì le primeColonie agricole su piccole isole. Tale intervento costituiva l’occasione per speri-mentare forme di detenzione intermedie che consentivano di coniugare – nelleintenzioni dei riformisti di fine ’800 – le esigenze di sicurezza con l’utilizzo dellavoro dei detenuti. Alle attività erano assegnati detenuti a basso indice di pericolo-sità, che potevano svolgere lavoro all’aperto. Nei primi anni del ’900 erano presenti5 Colonie agricole in Sardegna e 3 nell’arcipelago toscano per un totale di 17.748ettari lavorati. La mancanza di personale disposto a operare in tali realtà è stataperò una delle cause della chiusura di queste strutture.Attualmente sono ancora in attività le colonie di Mamone, Isili e Is Arenas inSardegna e di Gorgona nell’Arcipelago toscano; le altre sono state chiuse (nel 1980Capraia, nel 1998 Pianosa e l’Asinara) per la mancanza personale disposto a lavo-rare in situazioni di isolamento dal resto del Paese, nonostante gli incentivi previstiper il personale in servizio nelle sedi disagiate. Nelle attuali colonie, viste le con-dizioni pedoclimatiche, l’indirizzo produttivo è prettamente zootecnico (bovini,ovini, caprini, suini, equini e avicunicoli), spesso con allevamento allo stato brado.

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18 Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Direzione Generale dei detenuti e del trattamento

19 É in corso di realizzazione una ricerca dell’AIAB, finanziata dal Ministero del Lavoro, della Salute e delle PoliticheSociali ai sensi dell’art. 12, lett. f) Legge 383/2000. Annualità 2007, finalizzata alla ricognizione e all’analisi dell’a-gricoltura biologica nelle carceri italiane e alla valorizzazione delle esperienze realizzate.

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La tipologia produttiva e l’utilizzo della manodopera detenuta rispecchia ancoraoggi i canoni della tradizionale colonia agricola e ha l’obiettivo di occupare il mag-gior numero di persone. L’obiettivo produttivo e imprenditoriale risulta invece resi-duale sia per una visione “tradizionale” del rapporto lavoro-detenzione, sia per gliostacoli burocratico-amministrativi che impediscono una gestione imprenditorialedell’attività.Una delle esperienze più interessanti riguarda proprio l’isola di Gorgona, dove conil supporto di un veterinario omeopata20 e la collaborazione degli enti locali, i dete-nuti della Casa di reclusione oltre a occuparsi dell’allevamento di suini, bovini,ovi-caprini, conigli, cavalli, asini e api, ora hanno a disposizione anche un labora-torio di biologia marina e un’attività di itticoltura.Accanto a queste esperienze, negli anni ne sono andate maturando altre in situa-zioni differenti per tipologia di struttura detentiva (case circondariali, case di reclu-sione, colonie agricole, ospedali psichiatrici giudiziari, carceri minorili, ecc.) e perattività agricola (biologico e biodinamico, apistica, ecc.) e di trasformazione.

Caratteristiche produttive e organizzative dell’agricoltura in carcere

Attualmente gli Istituti in cui si svolgono attività agricole e di trasformazione sono32: 4 colonie agricole e 28 tenimenti agricoli, 19 dei quali gestiti direttamentedall’Amministrazione penitenziaria.

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Situazione al 30 Giugno 2008TENIMENTI AGRICOLI E COLONIE

STRUTTURE DETENUTI LAVORANTI

NUMERO NUMERO TENIMENTI IN TENIMENTI

Regione di detenzione

COLONIE AGRICOLE GESTITI

DALL'A.P.

NON GESTITI

DALL'A.P.TOTALE

GESTITI DALL'A.P.

NON GESTITI

DALL'A.P.TOTALE

ABRUZZO 0 0 1 1 0 0 2 2 2 0, 5BASI LICAT A 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0, 0CALABRIA 0 3 0 3 0 16 0 16 16 3, 1CAMPANIA 0 1 0 1 0 9 0 9 9 0, 8EMIL IA ROMAGNA 0 2 0 2 0 24 0 24 24 3, 6F RIULI VENEZIA GIULIA 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0, 0L AZI O 0 4 4 8 0 17 4 21 21 1, 4L IGURIA 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0, 0L OMBARDI A 0 0 2 2 0 0 6 6 6 0, 3MARCHE 0 1 0 1 0 4 0 4 4 2, 3MOL ISE 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0, 0PIEMONTE 0 3 0 3 0 13 0 13 13 1, 3PUGLIA 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0, 0SARDEGNA 3 0 0 0 228 0 0 0 228 31, 4SICIL IA 0 2 0 2 0 9 0 9 9 0, 8T OSCANA 1 2 1 3 9 15 7 22 31 2, 3T RENTI NO AL TO ADIGE 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0, 0UMBRIA 0 1 0 1 0 3 0 3 3 0, 9VALL E D'AOSTA 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0, 0VENETO 0 0 1 1 0 0 6 6 6 1, 0

T OT ALE NAZI ONALE 4 19 9 28 237 110 25 135 372 2, 8

Fo nte : D.A .P. - Uffi cio p er l o Sv ilup po e la Gestione del Siste ma Info rma tivo Automa tizz ato - Sez ion e Sta tistic a

% SU LAVORANTI

IN COLONI

ETOTALE ADDETTI

AGRICOLTURA

20 Marco verdone, Il respiro di Gorgona. Storie di uomini, animali e omeopatia nell’ultima isola-carcere italiana,Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 2008

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In tutto i detenuti occupati nei 22 tenimenti agricoli e nelle 4 colonie (per oltre 110ettari complessivi) sono 372 (il 2,8% del totale dei lavoranti), quasi tutti uomini, perla maggior parte impegnati presso le colonie (228 in Sardegna).Il tipo di produzione che si realizza nelle strutture penitenziarie varia a secondadella vocazione agricola del territorio in cui si trova l’istituto, alle strutture produtti-ve esistenti, alla presenza o meno di figure professionali, come il tecnico agrario,alle competenze professionali dei detenuti lavoranti. Si va quindi dalla coltivazione dello zafferano nelle zone vocate per questa produ-zione, come l’Ospedale Psichiatrico di Montelupo Fiorentino e la Casa diReclusione San Gimignano, all’orticoltura biologica e alla frutticoltura in serra, dal-l’allevamento dei conigli d’angora alla floricoltura, dall’itticoltura all’apicoltura. Per la realizzazione delle attività gli Istituti si avvalgono anche di finanziamentinazionali ed europei, come è il caso del progetto “Api in carcere”, nato nel 2000su iniziativa dell’Amministrazione Penitenziaria in collaborazione con laFederazione Apicoltori Italiani (FAI), con l’obiettivo di offrire nuove opportunità direinserimento sociale e lavorativo ai detenuti, e finanziato per il 50% dal Ministerodelle politiche agricole alimentari e forestali e per il restante 50% dalla Comunitàeuropea ai sensi del Regolamento CEE 1221/97. L’Amministrazione penitenziaria,in questo caso, mette a disposizione appezzamenti di terreni e locali e ha provve-duto all’acquisto delle arnie, degli sciami e delle attrezzature per la lavorazione delmiele. La Federazione Apicoltori Italiani ha organizzato corsi di formazione profes-sionale nel settore dell’apicoltura e della lavorazione dei prodotti. L’idea del proget-to è nata da un’esperienza avviata nel 1996 presso la Casa di Reclusione diPianosa, dove il tecnico agrario attivò corsi di formazione professionale in apicoltu-ra rivolti ai detenuti, con la collaborazione della Federazione Italiana Agricoltori(FAI). Nel 2000, l’Amministrazione Penitenziaria propose al Ministero delle politi-che agricole alimentari e forestali, la realizzazione di un progetto vero e proprionell’ambito del Regolamento CEE 1221/97. L’iniziativa ha inizialmente coinvoltosette istituti penitenziari - la Casa di Reclusione di Gorgona, la Casa di Reclusionedi Porto Azzurro, la Casa Circondariale di Empoli, la Casa di Lavoro di CastelfrancoEmilia, la Casa Circondariale di Velletri, la Casa di Reclusione di Carinola, la CasaMandamentale di Macerate Feltre - e poi altri cinque istituti - la Casa Circondarialedi Viterbo, la Casa Circondariale di Terni, la Casa di Reclusione di Mamone, laCasa di Reclusione di Palermo Pagliarelli, la Casa di Reclusione Femminile diVenezia.Con il Ministero delle Politiche Sociali (Fondo Nazionale di intervento per la lotta

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alla droga) e il Ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali è stato inve-ce attivato dall’Amministrazione penitenziaria il progetto “Agricola 2000” (e suc-cessive edizioni), presso gli Istituti di Modena, Roma Rebibbia Femminile, Viterbo,Velletri, Giarre, Is Arenas, Milano Bollate, Alessandria, Asti, ecc..

Le problematiche rilevanti

Negli anni sono cambiate le caratteristiche della popolazione detenuta, con unnotevole aumento di extracomunitari, che generalmente hanno poche o nulle esi-genze di colloqui e rapporti con i familiari vista la lontananza dal proprio Paese edalla famiglia, e di persone con un residuo di pena inferiore o poco superiore a unanno. Ancor più che nel passato, in cui la maggior parte della popolazione italiana(e straniera) era dedita all’agricoltura, oggi risultano molto carenti le competenze ele esperienze nel campo agricolo e in particolare in quello zootecnico e questocostituisce, ovviamente, un problema in termini di produttività aziendale.Il “fattore umano” - e in particolare la “stabilità” della popolazione detenuta, piùevidente nelle Case di Reclusione che ospitano detenuti in espiazione di pena, emeno nelle Case Circondariali che ospitano in prevalenza detenuti a disposizionedell’Autorità giudiziaria - rappresenta un elemento importante per l’individuazionedelle attività da svolgere e per la loro riuscita.Le caratteristiche delle persone coinvolte nei processi produttivi e quelle strutturali(carenza di terreni e di strutture adeguate) hanno fatto sì che l’attività produttiva siconfigurasse nella maggior parte dei casi come residuale rispetto al fatto di poteroffrire ai detenuti un’occasione per “fare qualcosa” e acquisire abilità di base.Le esperienze in corso risentono anche di una serie di problemi legati all’organiz-zazione del lavoro all’interno dell’Istituzione penitenziaria e alla gestione del mer-cato. L’attività all’esterno della struttura detentiva è, infatti, condizionata dalla pre-senza o meno del personale di polizia penitenziaria che deve accompagnare eseguire il lavoro dei detenuti, ma è anche impegnato in altri compiti di sicurezzaall’interno dell’Istituto che prevalgono, in caso di necessità, su quelle agricole. Leconseguenze di tale organizzazione ricadono, ovviamente, sull’attività agricola,che non può essere programmata su dati certi e che non ha come obiettivo prima-rio l’efficienza economica e produttiva, come avviene in una normale azienda agri-cola. Scopo dell’Amministrazione penitenziaria è, infatti, in generale favorire l’oc-cupazione dei detenuti; tale scopo può essere raggiunto attraverso l’attività agricolao attraverso altre attività lavorative e/o ricreative. Anche le questioni fiscali, come la fatturazione e la contabilizzazione IVA, rappre-

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sentano punti problematici per il pieno sviluppo dell’attività agricola, con la conse-guenza che nella maggior parte dei casi la produzione viene commercializzata soloall’interno dei singoli Istituti al personale dipendente e – solo in qualche caso –anche ai detenuti. Lo sviluppo produttivo dei tenimenti è dunque strettamente lega-to alla capacità di assorbimento interno dei prodotti che soddisfa il consumo fami-liare del personale. Le entrate, inoltre, vengono versate annualmente all’erario enon possono essere utilizzate per investimenti nelle aziende agricole. Situazioninettamente diverse si hanno nei casi in cui è stata attivata una collaborazione concooperative o altre organizzazioni esterne alle strutture carcerarie attraverso lequali gestire anche la commercializzazione dei prodotti, come è il caso di Velletri,Perugia, Siracusa, ecc.. La scelta della gestione esterna si ripercuote però sul nume-ro di detenuti che è possibile occupare nell’attività agricola, sia per la maggioredifficoltà a collocare all’esterno i detenuti secondo le disposizioni vigenti sia per ilminor numero di persone necessarie con un’organizzazione del lavoro più raziona-le e attenta all’uso dei fattori produttivi.

Tra impresa e non impresa

Le esperienze più significative, come risulta dai dati e dalle informazioni fornite dalMinistero, si sono rivelate soprattutto quelle dell’allevamento e del biologico. Nellaregione Lazio, ad esempio, l’esperienza dell’Istituto di Velletri21 è diventata emble-matica sia per l’impatto positivo all’interno dell’ambiente carcerario sia per i risul-tati produttivi e commerciali del lavoro agricolo. In particolare, i vini prodotti dalcarcere di Velletri – “Quarto di Luna”, “Le sette mandate”, “Fuggiasco” - commer-cializzati anche attraverso la GDO nel Centro Italia, rappresentano il fiore all’oc-chiello di un’attività a indirizzo frutticolo, viticolo, serricolo e apistico realizzata incollaborazione con la Cooperativa Lazzaria.L’esperienza è nata nel 1998 da un casuale incontro con l’allora direttore LuigiMagri e il tecnico agronomo Rodolfo Craia, che aveva già avuto un’esperienza plu-riennale nel campo con la colonia agricola di Pianosa . L’idea iniziale era di realiz-zare un orto tra le mura dell’Istituto, nei cortili e negli spazi vuoti della casa circon-dariale fino ad allora anche dominati dalle erbacce, con l’obiettivo di offrire qual-che opportunità di impiego per gli oltre 350 detenuti ma anche di ridurre i costi perla falciatura dell’erba.

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21 Altre esperienze nel Lazio riguardano gli Istituti di Rebibbia (femminile, maschile e nuovo complesso), Viterbo,Civitavecchia, Frosinone e Latina

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A differenza delle colonie agricole, storicamente destinate al lavoro agricolo, laCasa Circondariale di Velletri offriva spazi e opportunità molto diversi, con mura dicinta e strade asfaltate. Tale differenza ha stimolato la riflessione in chiave modernasull’esperienza del lavoro agricolo in carcere, dando un ruolo importante alle capa-cità tecnologico-professionali impegnate nell’azienda agricola e non più solo dallasuperficie complessiva coltivata. Questa visione, più orientata all’efficienza dell’a-zienda e meno al tener occupato i detenuti, è diventato, paradossalmente, lo stru-mento per ottenere un investimento maggiore nel capitale umano, indirizzando glisforzi verso un più alto livello di professionalizzazione del detenuto stesso, finaliz-zato anche ad aumentare le possibilità di reinserimento lavorativo una volta termi-nata la fase detentiva.Il carcere sorge al confine tra i Castelli Romani e l’Agro Pontino e dispone di pochiettari su cui si sono concentrate viticoltura, frutticoltura, olivicoltura, apicoltura,orticoltura e le attività di trasformazione connesse: l’enologica, la conserviera e l’o-leicola. Attualmente la dimensione tecnica e produttiva dell’azienda (solo sei ettaricoltivabili nel territorio dell’istituto, che complessivamente conta dodici ettari com-presi edifici, strade e servizi) permette la produzione con sistemi a basso impattoambientale, con la prospettiva di giungere al biologico certificato nei prossimi anni.L’azienda dispone di strutture ed impianti d’alto livello:

- una cantina da 50.000 bottiglie dotata di sistemi di vinificazione per produzionidi alta qualità, a temperatura e atmosfera controllata nei processi di vinificazio-ne e affinamento, completa di una sala barriques, laboratorio d’analisi, eimpianti d’imbottigliamento con microfiltrazione;

- un frantoio a ciclo continuo da oltre 400 kg/h, con sistemi per la conservazionedell’olio extravergine ad atmosfera controllata;

- un laboratorio conserviero per la produzione di conserve alimentari, compreseconfetture e succhi di frutta, in grado di lavorare, secondo il ciclo produttivo,fino a 100 kg di prodotto l’ora;

- un apiario composto di 30 arnie, perfezionato da un laboratorio per le opera-zioni di smielatura e invasettamento;

- 3500 mq di serre riscaldate, predisposte per la coltivazione in assenza di suolo,sia in canalina sia in sacchi;

- 600 piante da frutto raccolte in un frutteto multispecie e in un agrumeto;

- 400 olivi, da mensa e da olio;

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- più di 100 viti per uva da tavola in pergolati;

- oltre 3 ettari di vigneti per produzioni di qualità d’uve bianche TrebbianoToscano e Malvasia di Candia, uve rosse Merlot, Sangiovese e Cabernet.

Il progetto prevede una stretta collaborazione con tutte le realtà sociali del territo-rio, sia per la produzione sia per la commercializzazione dei prodotti. In particola-re, la Cooperativa Lazzaria – attraverso una convenzione con l’Amministrazioneche prevede anche l’uso gratuito della cantina e delle strutture esistenti – commer-cializza i prodotti all’esterno della casa circondariale, utilizzando sia i canali delcommercio equo sia la grande distribuzione organizzata.

Qualche riflessione conclusiva

L’agricoltura negli istituti penitenziari può essere analizzata, abbiamo visto, parten-do dalle esperienze nel loro insieme oppure dalla questione del lavoro e dei lavora-tori. Nel primo caso, si evidenzia una grossa potenzialità dello “strumento” agricol-tura come opportunità per i detenuti di fare un’attività all’aria aperta, a contattocon piante e animali, con i quali è possibile in qualche modo ristabilire un contattocon l’esterno e con la cura dell’altro. Tali esperienze, inoltre, costituiscono un vei-colo di comunicazione importante per le amministrazioni penitenziarie, che attra-verso i prodotti commercializzati e la presentazione delle esperienze realizzatedanno un’immagine positiva dell’attività svolta e consentono di migliorare anchel’immagine del detenuto nella società.Il lavoro, infatti, costituisce uno degli aspetti fondamentali per la costruzione diun’identità adulta nella nostra società: esso consente di collocarsi in uno specificocontesto, di mantenersi economicamente e contribuire al sostentamento di altri, disvolgere un ruolo preciso all’interno della collettività in cui si riconosce ed è rico-nosciuto dagli altri. In un periodo di forte crisi identitaria e di scarse opportunitàprofessionali, svolgere un lavoro (e possedere una professionalità) è ancora piùimportante per costruire e/o rafforzare la propria identità e il proprio ruolo nellasocietà.Nell’esperienza di detenzione, invece, la persona è privata oltre che della proprialibertà (e di beni, servizi, relazioni, ecc.) anche della possibilità di esprimere apieno la propria identità svolgendo il proprio lavoro e di guadagnare contribuendocosì al mantenimento proprio e della propria famiglia. Il lavoro disponibile in car-cere non soddisfa tutte le richieste dei detenuti né per tipologia di attività né perposti di lavoro, così che ancora oggi il lavoro è un premio per i migliori, anche se

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scarsamente retribuito e poco qualificato.Dal punto di vista dei lavoratori e dei loro diritti, inoltre, permangono notevoliaspetti problematici che andrebbero affrontati con attenzione per evitare di enfatiz-zare “l’elemento lavoro” del trattamento penitenziario, quando questo rappresentaancora per alcuni aspetti una punizione e non un diritto sancito dalla Costituzionee segue solo parzialmente la legislazione del lavoro, non tutelando completamentei lavoratori.

Bibliografia

AA.VV., Filiera di inclusione socio lavorativa per persone in esecuzione penale,Perugia, 2006

Demetrio D., L’età adulta. Teorie dell’identità e pedagogie dello sviluppo, CarrocciEditore, Roma, 2001

Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Bari, 1989

Focault M., Sorvegliare e punire. La nascita della prigione, Einaudi, 1975

Finuola R., Pascale A., L’agricoltura sociale nelle politiche pubbliche, INEA-Agriconsulting, Roma, 2008

Morrone, Il trattamento penitenziario e le alternative alla detenzione, CEDAM,1999

Ricci A., Salierno G., Il carcere in Italia, Einaudi, Torino, 1971

Verdone M., Il respiro di Gorgona. Storie di uomini, animali e omeopatia nell’ultimaisola-carcere italiana, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 2008

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CONTESTI RURALI E BENESSERE INDIVIDUALEdi Maria Carmela Macrì22

Introduzione

Negli ultimi tempi si sta sviluppando un interesse crescente per la capacità dei con-testi rurali e dei processi produttivi agricoli di creare benessere per gli individui.Non ci si riferisce solo alla predisposizione generalmente e genericamente attribui-ta al contesto rurale di migliorare il benessere individuale per via delle miglioricondizioni ambientali e dei ritmi di vita più sereni, ma si parla dell’impiego di pro-cessi strutturati, finalizzati all’integrazione o alla riabilitazione di soggetti svantag-giati, e di attività terapeutiche. Si tratta di attività svolte da operatori professionalianche non agricoli, in aziende agricole ma anche al di fuori di esse, finalizzate almiglioramento della qualità di vita di individui in condizioni di difficoltà di varianatura: dipendenze da droghe, problemi psichici o mentali, stato di detenzione. Si parla dunque di specifiche esperienze dove il fine principale non è la produzio-ne di beni agricoli, ma questa costituisce uno strumento per migliorare la qualità divita di specifici soggetti oppure la finalità è la produzione ma intesa come opportu-nità di integrazione sociale. Tutto questo insieme di attività, identificato con ladenominazione di agricoltura sociale, sta raccogliendo numerosi consensi pressogli operatori, le istituzioni e l’opinione pubblica in generale e sta anche assumendoun ruolo all’interno delle politiche di settore e, più in generale, delle politichesociali (INEA, 2008). Si tratta di un insieme che coglie esperienze molto diverse traloro – per soggetti che la originano, caratteristiche, implicazioni economiche e nor-mative – che vanno dall’attività agricola nelle carceri, alle coltivazioni di piante opiccoli orti negli ospedali psichiatrici, alle terapie assistite con animali, ai progettidi integrazione lavorative (http://www.fattoriesociali.com/). Dal punto di vista giuridico, l’agricoltura sociale trova spesso collocazione nell’am-bito della cooperazione. In particolare, nella tipologia “A”, cioè quella legata allanatura dei servizi offerti, l’agricoltura svolge un ruolo strumentale alle attività diimprese socio-assistenziali, mentre un ruolo attivo lo assume nella tipologia “B”finalizzata all’integrazione lavorativa di soggetti svantaggiati23 (tab 1). Questo qua-dro normativo rimane però obbligato al vincolo della forma cooperativa.

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22 Ricercatrice INEA (Istituto Nazionale di Economia Agraria)

23 Secondo la legge 381 del 1991, le cooperative sociali si distinguono in:

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Opportunità nuove potrebbero essere offerte dal decreto legislativo n. 155 del 2006che ha riconosciuto la natura sociale dell’impresa che offre beni e servizi di utilitàsociale, ivi compresa l’integrazione lavorativa di soggetti svantaggiati. Va però pre-cisato che, dal momento che lo scopo di lucro viene escluso, la definizione diimpresa sociale può essere considerata un’opportunità per il settore agricolo solonella misura in cui permetterà uno sviluppo dell’offerta di servizi sociali e tra questidi quelli che usufruiscono dell’attività agricola in modo strumentale.

Le cooperative sociali di tipo B e a oggetto misto per area di attività e regione -Anno 2005 (a)

Agricola Industriale e Artigianale Commerciale e Servizi

Piemonte 39 52 114 Valle d’Aosta 9 1 2 Lombardia 86 135 208 Trentino-Alto Adige 15 14 32 Veneto 54 87 108 Friuli-Venezia Giulia 12 26 44 Liguria 14 28 102 Emilia-Romagna 82 90 149 Toscana 47 33 123 Umbria 6 12 32 Marche 22 26 49 Lazio 62 51 370 Abruzzo 9 9 57 Molise 2 6 16 Campania 8 9 83 Puglia 33 24 165 Basilicata 7 4 38 Calabria 11 9 78 Sicilia 18 9 85 Sardegna 35 14 96 ITALIA 571 639 1.951 Ciascuna cooperativa può operare in più di un’area.

Fonte: ISTAT, Le cooperative sociali in Italia, 2008

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• cooperative di tipo A, che svolgono attività finalizzate all’offerta di servizi socio-sanitari ed educativi;

• cooperative di tipo B, che svolgono attività finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate;• cooperative ad oggetto misto (A+B), quando svolgono si attività finalizzate all’offerta di servizi sociosanitari ed

educativi, sia attività finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate;• e infine ci sono o consorzi sociali, cioè le società cooperative con base sociale costituita per almeno il settanta

per cento da cooperative sociali.

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Al momento manca, invece, una normativa che inserisca esplicitamente l’attività ditipo sociale tra i servizi che possono essere offerti dall’impresa agricola, analoga-mente a quello che avviene per le fattorie didattiche o l’agriturismo. Le esperienzeesistenti hanno dovuto dunque adeguarsi a questo quadro normativo creando siner-gie con imprese o associazioni con finalità socio-assistenziali o adottando la formagiuridica della cooperativa di tipo B. Il riconoscimento giuridico della funzionesociale dell’agricoltura costituirebbe certo una semplificazione per lo sviluppo diquesti servizi nonché un’opportunità per la collettività. Infatti, dal punto di vistasettoriale, l’agricoltura sociale costituisce un’occasione di diversificazione produtti-va per potenziare le opportunità di reddito a livello aziendale, dal punto di vistaterritoriale l’azienda agricola si potrebbe proporre come una sorta di cornice fun-zionale all’offerta di una nuova tipologia di servizi sociali a vantaggio dello svilup-po e della qualità della vita delle aree rurali (Di Iacovo- Senni, 2005).

Integrazione lavorativa, attività riabilitative e “terapie verdi”

L’agricoltura sociale deriva dunque la sua denominazione dalle funzione di tiposocio-assistenziale che svolge e dall’accento sul miglioramento della qualità dellavita a favore della collettività che è in grado di generare. Essa opera in un campomolto vasto e in piena evoluzione, all’interno del quale alcune attività sono piùconsolidate, altre meno. Tra quelle consolidate possiamo considerare l’integrazionelavorativa di soggetti svantaggiati, che si attua fondamentalmente attraverso lo stru-mento della cooperative sociali di tipo B, a volte supportato da altre forme di asso-ciazionismo o volontariato. La distinzione tra integrazione lavorativa e riabilitazione può, però, risultare a volteartificiosa in quanto il senso di utilità sociale che deriva alle persone dal partecipa-re a un contesto sociale produttivo, se prima vi erano escluse, è di per sé un’attivitàriabilitante. Pertanto non sempre è possibile identificare due categorie distinte eseparate, ma si dovrà prendere in considerazione l’esistenza di un continuum diattività volte a migliorare l’autosufficienza degli individui. D’altro canto nella realtàspesso una stessa organizzazione svolge attività di diversa natura, come nel caso de“La Fattoria Solidale del Circeo” che, in collaborazione con la cooperativa sociale“Splende il Sole!Onlus”, svolge attività di integrazione lavorativa, ma si sta affac-ciando verso altri servizi di tipo sanitario (http://www.fattoriasolidaledelcirceo.com/).La fattoria solidale del Circeo è stata avviata in via sperimentale nell’aprile 2004,all’interno dell’azienda agricola “Marco Di Stefano” coinvolgendo, in momenti e

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fasi diverse, secondo le capacità lavorative di ognuno, un primo gruppo di circa 40persone. Durante questa prima esperienza i ragazzi disabili e gli operatori che lihanno accompagnati sono stati accolti in uno degli edifici all’interno della tenuta.Si tratta infatti di un’azienda molto vasta (175 ha) che ha al suo interno diversi edi-fici la cui attività è fondamentalmente zootecnica ovvero alleva capi bovini e bufa-lini. Per quanto riguarda quali coltivazioni affidare ai ragazzi disabili, si è scelto diavviare una produzione orticola, in quanto più facilmente gestibile e perché, pre-sentando un ciclo produttivo più breve, permette ai ragazzi di avere la percezioneconcreta della finalità del proprio lavoro. Oltre alla coltivazione, la sperimentazio-ne ha previsto attività di trasformazione che hanno coinvolto anche soggetti condisabilità più gravi per i quali le attività di coltivazione potevano risultare pericolo-se. Fin da subito il progetto è partito con un approccio di tipo imprenditoriale,orientato cioè alla autosufficienza economica. Il titolare dell’azienda Marco DiStefano ha subito registrato un marchio “Splende il Sole!” dichiarando in etichettache alla produzione avevano contribuito persone disabili. In seguito alla commer-cializzazione dei primi prodotti, si è giunti alla conclusione che il contenuto socia-le del prodotto – la possibilità di contribuire alla qualità di vita di persone svantag-giate – è in grado di orientare il consumatore solo a parità di prezzo rispetto ai pro-dotti dello stesso segmento. D’altro canto un prezzo allineato a quello di prodottianaloghi consente alle persone di realizzare un consumo solidale in maniera rego-lare e non solo come fatto episodico.La fase sperimentale ha dimostrato, in sostanza, la fattibilità del progetto, ma haanche messo in evidenza alcuni fabbisogni. Prima di tutto l’esigenza di formazioneagricola, sia da parte dei lavoratori disabili sia degli operatori che li seguono e chedelle attività agricole non hanno alcuna esperienza e quindi non possono valutarnené le potenzialità né i rischi. Inoltre, anche gli altri addetti in azienda devono impa-rare a relazionarsi in modo costruttivo alle persone con disagi, soprattutto se men-tali. La formazione è diventata dunque un’attività importante per “la Fattoria solida-le del Circeo” che ne ha fatto una propria linea di intervento che va al di là delleesigenze aziendali. Ne sono nate infatti diverse esperienze che hanno anche datol’occasione di attivare collaborazioni con istituti scolastici locali, altre cooperativesociali e associazioni: corsi di formazioni, esperienze di lavoro in azienda pergruppi di giovani con svantaggi psico-fisici o sociali. Tra queste, l’esperienza piùstrutturata è quella che si sta svolgendo dall’autunno del 2007, giunta ormai quasia compimento, realizzata in collaborazione con l’ente di formazione provinciale“Latina Formazione e Lavoro”. Si tratta di un corso di due anni per 30 studenti disa-

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bili per “Addetto polivalente in agricoltura e florovivaistica - Fattorie Sociali” fina-lizzato all’inserimento lavorativo evidentemente non solo all’interno dellaCooperativa Solidale del Circeo. Nei quattro anni di attività seguite alla sperimentazione del 2004 all’interno dellacooperativa si è stabilita, dunque, una commistione e integrazione di competenzediverse, agricole, sanitarie e psico-pedagogiche. Mentre, verso l’esterno, in man-canza di una contemplazione esplicita delle attività socio-sanitarie tra i serviziofferti dall’agricoltura, è nata la necessità di formulare collaborazioni e protocollid’intesa24 che, forse, un’azienda meno solidamente stabilita sul territorio avrebbeavuto difficoltà ad avviare. Accanto alle attività di integrazione e riabilitazione, altre esperienze adottano l’a-gricoltura e/o i contesti rurali per attività di tipo terapeutico, per la quali di recentesi è adottata l’espressione “terapie verdi” (green care). Ci si riferisce a un insieme dipratiche, anche molto diverse tra loro, finalizzate a promuovere la salute e il benes-sere degli individui che hanno come denominatore comune l’impiego delle risorsenaturali, nonché l’ambiente naturale come contesto di riferimento privilegiato. Nonsi tratta dell’esperienza passiva della bellezza dei paesaggi agricoli, come avvienenel turismo rurale, ma di un uso delle risorse vegetali e animali sia in processi dicoltivazione veri e propri (come nell’ortoterapia) sia in attività di relazione (comenella pet therapy), che offrono a individui affetti da disagi psicofisici l’opportunitàdi rafforzare i propri percorsi riabilitativi-terapeutici specifici. Si tratta di pratiche che avrebbero necessità di una definizione in grado di identifi-carle inequivocabilmente rispetto ad attività vicine, in particolare distinguerle dal-l’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati. Allo stesso tempo, però, la defini-zione dovrebbe essere sufficientemente inclusiva da aderire alla natura intrinseca-mente innovativa di queste pratiche, che si fondano sull’esperienza professionaledei singoli esperti che le hanno concepite e che le devono continuamente adattarein base agli aggiustamenti che l’esperienza quotidiana richiede. Nel mondo degli operatori del sociale e agricoli, nonché a livello accademico, sista sviluppando un ampio dibattito sul tema. A livello internazionale esiste un’azio-ne COST25, la numero 866, finalizzata a identificare le terapie verdi a circoscriver-

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24 Nel 2008 ha attivato un protocollo d’intesa con il Dipartimento di Salute Mentale della Provincia di Latina per larealizzazione di borse lavoro e tirocini ri-socializzanti all’interno della Fattoria Sociale

25 L’iniziativa COST (Cooperation in Science and Technology) non finanzia ricerche ma facilita la cooperazione e loscambio di esperienze tra ricercatori di paesi diversi. Lo scopo di COST è di creare un coordinamento a livelloeuropeo delle ricerche nazionali, contribuendo così a ridurre la frammentazione negli investimenti europei inricerca e ad aprire l’Area Europea della Ricerca alla cooperazione internazionale.

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ne requisiti e contenuti a vantaggio degli utenti e dei professionisti coinvolti. Nonessendo questa la sede opportuna per approfondire la discussione sulla definizionee sull’efficacia di queste attività, ci si limiterà a dire che con l’espressione “terapieverdi” ci si riferisce, al momento, fondamentalmente ad alcune specifiche esperien-ze, ovvero:- le comunità terapeutiche, la cui origine viene fatta risalire addirittura alle comu-

nità rurali che nel XIII° secolo accoglievano e accudivano i malati psichiatricinel Nord del Belgio (Hadden e Haigh, 2007);

- gli interventi assistiti con gli animali che si distinguono a loro volta in attivitàassistete con animali e terapie assistite con gli animali26;

- l’attività di coltivazione svolta da soggetti con disagi mentali di diversa natura,anche in contesti ospedalieri. In questo ambito si distinguono l’ortoterapia(Horticultural therapy) che consiste in attività di coltivazione e giardinaggioimpiegata in processi terapeutici che prevedono obiettivi clinici predefiniti, el’orticoltura terapeutica (Therapeutic horticulture) finalizzata a migliorare ilbenessere dell’individuo ma che non prevede obiettivi clinici precisi (Sempik,2007).

Nel caso delle terapie verdi, il problema dell’inquadramento giuridico del ruolosvolto dall’azienda agricola si pone in modo ancora più evidente che nel caso del-l’integrazione lavorativa che comunque assume la forma di un coinvolgimentonelle attività produttive dell’azienda. In questi casi è ancora più necessario indivi-duare percorsi di consociazione, più o meno formalizzati, tra organizzazioni diver-se. Così avviene per le attività educativo/terapeutiche offerte all’interno dell’agritu-rismo “Podere Lecceta”. Si tratta di un’azienda agricola biologica che fornisce sup-porto logistico alle attività dell’associazione Istituto Terapie e Attività Con Animali(ITACA) che offre programmi destinati a bambini o ragazzi con disturbi di tipo auti-stico anche molto gravi. Si tratta di programmi residenziali che hanno necessità direalizzati in “un ambiente tranquillo e rilassante, tra boschi e dolci colline, dove lostress della vita cittadina appare più che mai lontano” (http://www.itaca-pet-the-rapy.com/attivitapg.htm). Oggetto dell’attività dell’associazione sono programmiriabilitativi e di recupero in ambienti non medicalizzati, che sono ritenuti più effi-caci perché vissuti piacevolmente sia dai pazienti che dagli operatori. La maggioreinclusività del contesto rurale discende anche dal fatto di essere meno frenetico e

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26 Le attività assistete con l’ausilio di animale e le attività terapeutiche con gli animali riscuotono in Italia, molta atten-zione dal parte del Ministero della salute cui, pertanto, si rimanda per maggiori informazioni (http://www.ministe-rosalute.it/dettaglio/pdPrimoPiano.jsp?id=118&sub=0&lang=it)

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quindi offrire ritmi più adeguati a soggetti che presentano una qualche forma disvantaggio. D’altro canto i contesti rurali offrono adeguata sistemazione anche adaltri attori essenziali di queste attività: gli operatori non umani ovvero, in questocaso, i cani impiegati nelle attività di riabilitazione. L’animale viene impiegatocome una sorta di mediatore nella relazioni tra soggetti disabili e operatori. A que-sto riguardo può valere, per tutte, l’esperienza di Temple Grandin. Benché fosseautistica, ha conseguito la laurea in Scienze animali e poi il PhD nell’Univeristàdell’Illinois divenendo professore associato alla Colorado State University. Secondoquanto ella stessa ha ripetuto nei suoi libri e nelle interviste, la Grandin si è sempresentita completamente a proprio agio tra gli animali, diversamente da quanto per-cepiva nei rapporti con le altre persone. L’incontro con gli animali è stato lo stimo-lo determinante nella sua esistenza. Infatti nello sforzo di comprenderli, di porsi –letteralmente – dal loro “punto di vista”, ha impiegato la specificità di “pensare perimmagini” legata all’autismo per progettare strutture per allevamento e movimenta-zione in grado di ridurre gli stimoli negativi per gli animali. Grandin ha lavoratocon successo per grandi compagnie americane ridefinendo la percezione collettivadi ciò che un autistico è in grado di fare se il contesto in cui vive gli offre gli stimoligiusti. L’associazione ITACA applica le linee guida di un metodo, la Pet TherapyIntegrata®, che prevede l’attuazione di un preciso disciplinare che si è dimostratoefficace nei quindici anni di attività dell’associazione. Oltre alle sessioni di TerapieAssistite con gli Animali, questo metodo si compone di varie attività ludiche ededucative svolte nel verde o in piscina, riunioni di gruppo e colloqui con le fami-glie. Infine sono previste anche attività di raccolta di erbe e frutta, preparazione delpane; escursioni e giochi psicomotori nel verde. Nel caso delle attività riabilitative offerte da ITACA non è l’azienda agricola a forni-re direttamente il servizio terapeutico, ma fornisce alcuni dei fattori essenziali nelleattività terapeutiche, cioè gli animali e le strutture e costituisce la cornice piùappropriata per l’efficacia delle attività svolte. Solo la disponibilità del “PodereLecceta” – o, comunque, di una qualche azienda agricola – rende possibile l’offertadi questi servizi così come sono attualmente configurati.

Considerazioni sui possibili schemi teorici di riferimento

Le due aziende agricole prese ad esempio chiariscono efficacemente quanto posso-no essere diverse le espressione che l’agricoltura sociale assume nella realtà.Intanto le due aziende non potrebbero essere tra loro più diverse: un’azienda di

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grandi dimensioni la prima, con produzioni convenzionali, solidamente stabilitasul territorio che conserva memoria di almeno tre precedenti generazioni imprendi-toriali della stessa famiglia, un’azienda di pochi ettari la seconda, con produzionibiologiche, nata di recente per volontà dell’imprenditrice che la gestisce.L’esperienza di agricoltura sociale nel primo caso è nata dalla volontà dell’impren-ditore agricolo di impiegare parte del proprio patrimonio aziendale, nonché dellapropria capacità ed esperienza professionale, per dare vita a un esperimento diintegrazione lavorativa di persone disabili, per dare seguito a una personale espe-rienza di volontariato nel campo del sociale. Nel secondo caso nasce dalla volontàdi integrare le competenze professionali assistenziali e agricole nel contesto piùappropriato e reciprocamente vantaggioso nel convincimento che il mondo ruraleoffra i migliori orizzonti per la realizzazione dell’identità individuale di qualunqueindividuo. Ciò che accomuna le due esperienze, oltre alla speciale considerazione per il con-testo rurale, è l’impostazione fortemente imprenditoriale, lo sforzo creativo e inno-vativo messo in campo, sebbene secondo modalità differenti, dai due giovaniimprenditori per creare realtà economiche autosufficienti. La fattoria solidale delCirceo, oltre ad avere registrato un marchio che identifica i prodotti “solidali” dellafattoria con la prospettiva di aprire uno sbocco commerciale nella grande distribu-zione organizzata, nel 2007, ha inaugurato un centro di formazione dotato di certi-ficazione di qualità ISO 9001:2000 per la progettazione e l’erogazione di corsi diformazione che vuole diventare un punto di riferimento per la formazione per l’in-tegrazione professionale per il territorio. Nell’esperienza del “Podere Lecceta” lasinergia con il mondo del sociale fertilizza l’offerta di servizi nuovi che l’azienda èin grado di offrire, come l’ospitalità a convegni scientifici sul tema delle terapieverdi e corsi di formazione. Gli esempi sopra riportati sono solo due casi di un vasto panorama di soluzioniescogitate dal mondo agricolo per occuparsi di servizi sociali. L’agricoltura sociale investe infatti una realtà complessa che recupera in chiaveinnovativa funzioni che l’agricoltura tradizionale probabilmente svolgeva in modoimplicito e inconsapevole (Finuola e Pascale, 2008). Le forme istituzionali assunte dall’agricoltura sociale variano in base ai contesti incui si stabiliscono, ne è testimonianza lo sforzo che si sta attuando in ambito euro-peo per darne una definizione condivisa attraverso la redazione di un “Manifesto”comune (http://www.sofar-d.de/?Positionspapier).Al di là della suggestione dell’argomento, quello che qui più interessa è una lettura

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in grado di ricollocare queste attività all’interno di canoni usuali per l’analisi dell’e-conomia agraria. A questo riguardo si ritiene possibile fare ricorso almeno a tre schemi teorici. Unprimo approccio può considerare l’agricoltura sociale come una forma di innova-zione finalizzata alla diversificazione dell’offerta aziendale. L’intensa capitalizza-zione che ha caratterizzato il settore nel secondo dopoguerra ha determinato unsostenuto aumento della produttività in agricoltura e una forte riduzione dellaoccupazione. Mentre il valore assoluto della produzione primaria cresceva, dimi-nuiva il suo peso relativo sul prodotto totale. Pertanto, la percezione collettiva hamolto ridimensionato il ruolo del settore per il benessere sociale fino a quando,negli anni ’80, non è diventato chiaro che il settore poteva dare un contributo albenessere sociale che andava al di là della produzione di beni di prima necessità ela crescente domanda per beni diversi da quelli strettamente agricoli ha permessolo sviluppo di altre attività che vanno a integrare il reddito aziendale. La prima epiù nota forma di diversificazione è l’agriturismo che in Italia assume una dimen-sione significativa e un ruolo crescente27, l’agricoltura sociale potrebbe costituire,dunque, semplicemente una gamma di servizi nuovi che l’azienda può offrire permigliorare la propria redditività. Un altro schema di riferimento è offerto dalla letteratura sulla responsabilità socialedi impresa che ricolloca il tradizionale obiettivo della massimizzazione del profittoin un’ottica di lungo periodo. La crescente sensibilità verso le problematicheambientali e sociali rende necessario “…ampliare la definizione di capitalismodalla dimensione specificamente economica per includere quella sociale edambientale…La ragione per farlo è assicurare un futuro sostenibile” (David Birch,2003).Il vantaggio dell’introduzione di strategie di Responsabilità Sociale di Impresa (RSI)non è solo per la collettività ma si riflette sull’azienda perché migliora il contesto incui l’azienda agisce e, dunque, la redditività aziendale. Infatti, se le due fonti diconflitto nell’economia di mercato sono le esternalità e i problemi distributivi la RSIpuò essere concepita come “un programma di azione per ridurre i costi sociali e iconflitti distributivi” (Heal, 2005) e migliorare i rapporti interni ed esterni dell’a-zienda.Il concetto di responsabilità sociale delle imprese viene integrato dalle politichecomunitarie che riconoscono nella possibilità che le aziende decidano di propria

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27 In Italia nel 2006 c’erano 16.765 aziende agrituristiche, il 9,4% in più dell’anno precedente.

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iniziativa di contribuire a migliorare la società e rendere più pulito l’ambiente unostrumento di sviluppo sostenibile (Commissione europea, 2001).“Per “responsabilità sociale delle imprese” s’intende l’integrazione volontaria dellepreoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commer-ciali e nei loro rapporti con le parti interessate (Commissione europea, 2001). Eancora: “le imprese hanno un comportamento socialmente responsabile se decido-no di andare oltre le prescrizioni minime e gli obblighi giuridici derivanti dai con-tratti collettivi per rispondere alle esigenze della società” (Commissione europea,2006). Tra le pratiche menzionate in questi documenti ci sono già quelle volteall’inclusione lavorativa di soggetti svantaggiati. Più in generale, però, l’agricolturasociale può trovare collocazione tra le pratiche socialmente responsabili in basealla constatazione che, negli esempi concreti, essa nasce più spesso dalla volontàdi contribuire a un miglioramento di lungo periodo della società che da esigenzedi ricerca di un utile immediato. Infine, tra le categorie interpretative non si può ignorare la multifunzionalità dell’a-gricoltura, ovvero la capacità dell’agricoltura di svolgere altre funzioni accanto aquella di produrre fibre e alimenti. Sebbene la mutifunzionalità sia spesso identifi-cata con la diversificazione, in realtà è una precisa categoria della teoria economi-ca agraria. Essa, basandosi sui due concetti della presenza di produzioni “congiun-te” e della natura di esternalità o bene pubblico di uno dei beni prodotti “congiun-tamente”, giustifica il sostegno pubblico in agricoltura, purché sia più efficientedell’iniziativa privata (OECD28, 2001). La non rivalità e non escludibilità può essereanche solo parziale, comunque laddove l’escludibilità esiste e non è troppo costo-sa, c’è la possibilità di un ruolo per l’iniziativa privata, per esempio il paesaggiorurale può diventare un “prodotto” per l’azienda agricola che impianta un agrituri-smo (OECD, 2005). I servizi offerti dall’agricoltura sociale non esauriscono i proprivantaggi negli effetti positivi sui singoli che ne usufruiscono ma, come tutti i servizisocio-assistenziali vanno a vantaggio della collettività intera. La coesione socialeche essi contribuiscono a costruire è, pertanto, il bene pubblico che ne giustifical’integrazione nell’ambito del paradigma della multifunzionalità dell’agricoltura. L’individuazione del contesto teorico non è un fatto puramente accademico, maserve a individuare il ruolo che il settore pubblico deve avere: di sostegno al conte-sto più generale se di innovazione si tratta, di garanzia nella trasparenza dei rap-porti se si considera la responsabilità sociale di impresa, di sostegno economico

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28 OECD (Organisation for Economic Co-operation and Development)

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vero e proprio quando si fornisce un bene pubblico o c’è produzione di esternalitàpositive. Probabilmente gli schemi teorici di riferimento possono essere di volta involta diversi come diverse sono le pratiche di agricoltura sociale esistenti.

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CONTADINI DI CITTÀdi Adalgisa Rubino e Manuela Scornaienghi29

L’esperienza degli orti urbani in Italia

Giulio Crespi30 li ha definiti come <<un appezzamento di qualche centinaio al mas-simo di metri quadrati, ad ordinamento policolturale, coltivato direttamente dall’in-teressato con l’eventuale aiuto di familiari, il cui prodotto serve in maniera prepon-derante per l’autoconsumo e si immette in un ciclo di economia di baratto>>. Gliorti urbani rappresentano il collegamento concreto più diretto e antico tra realtàurbana e cultura contadina ma hanno testimoniato anche, con la loro gradualediminuzione e costante marginalizzazione, l’affermarsi di una cultura in cui ilmodello urbano viene percepito come superiore rispetto a quello rurale. In Italia,quindi, la presenza di orti nelle aree urbane non è un fenomeno recente, al contra-rio, esso ha da sempre accompagnato lo sviluppo e le trasformazioni delle nostrecittà. Coltivazioni orticole a ridosso delle mura cittadine facevano parte integrantedel paesaggio agrario medioevale e, successivamente annesse all’interno delle forti-ficazioni, assunsero la duplice funzione difensiva e di produzione. In seguito, ana-logamente a quanto accadeva in tutta Europa, la demolizione delle mura intornoalle città, consentì la libera espansione della struttura urbana, all’interno dellaquale vennero inglobati appezzamenti di terreno alcuni destinati ancora alla colti-vazione altri a diventare orti-giardini per edifici privati. Testimonianza del graduale e sofferto passaggio da una economia essenzialmenterurale a una industriale, gli orti urbani, nel corso della prima rivoluzione industria-le, coesistono con iniziali forme di assegnazione e gestione di aree orticole messein atto direttamente da imprenditori industriali attraverso la costruzione dei cosid-detti “villaggi operai” (analogamente a quanto avveniva in Francia dove aree ortico-le erano spesso gestite dalle compagnie ferroviarie e minerarie). Pensate e progetta-te in funzione degli insediamenti industriali, le case operaie disponevano di un pic-colo giardino-orto che oltre a dare un’illusione di continuità con il passato contadi-no alla manodopera ora impegnata in fabbrica, offrivano una sorta di economia disussistenza a integrazione dei salari provenienti dal lavoro industriale. Il villaggiooperaio di Crespi d’Adda (Patrimonio dell’UNESCO) costruito nel 1877, il

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29 Adalgisa Rubino, giornalista , insegna presso il Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione delterritoriodell’Università degli Studi di Firenze; Manuela Scornaienghi è CTER (Collaboratore Tecnico di Ricerca)all’INEA (Istituto Nazionale di Economia Agraria)

30 G. Crespi, AA.VV Orti urbani una risorsa, a cura di Italia Nostra, Milano, Angeli, 1982

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Leumann, edificato intorno all’omonimo cotonificio tra la fine dell’ ’800 e i primidel’900, i cosiddetti “complessi semirurali” destinati agli operai della Falck, percitarne alcuni, benché complementari e di natura diversa rispetto a quella degli ortiurbani veri e propri, rivelano il rapporto privilegiato tra le prime esperienze indu-striali e la cultura contadina e spiegano, ancora oggi, la presenza e la maggioreconcentrazione di spazi orticoli in determinate zone delle attuali aree metropolita-ne.Gli orti urbani furono numerosi durante il ventennio fascista e in particolare neglianni della seconda guerra mondiale quando, per fronteggiare la grave crisi econo-mica, il regime decise di intensificare la cosiddetta “battaglia del grano” promuo-vendo la coltivazione degli “Orti di guerra”. Giardini privati, parchi pubblici e areeedificabili furono resi produttivi grazie al lavoro degli stessi cittadini e degli aderen-ti alle organizzazioni del partito. Qualcosa di analogo a quanto accadeva nel con-tempo dall’altra parte della barricata, negli Stati Uniti, dove nei cosiddetti “Giardinidella Vittoria” gli americani coltivavano una percentuale importante del fabbisognoorticolo nazionale.Ma è con il grande sviluppo industriale della seconda metà del XX secolo che, infasce importanti del territorio italiano, soprattutto settentrionale, si assiste a un veroe proprio boom degli orti urbani, tanto da fare emergere la necessità di una loroprima regolamentazione. La cosiddetta “seconda rivoluzione industriale” investe in particolare le aree periur-bane, cioè quelle zone di “transizione” tra città e campagna destinate storicamentead accogliere determinate attività (grandi impianti industriali, infrastrutture ferrovia-rie e aeroportuali, cimiteri, ecc.). Tali aree in quegli anni furono assorbite dallecittà, caratterizzandosi però per il diffuso degrado e l’isolamento sociale tipici deiquartieri delle estreme periferie cittadine. Sono queste le zone in cui saranno edifi-cati i complessi abitativi destinati alla nuova manodopera industriale provenientedalle regioni dell’Italia meridionale, e sono queste le aree in cui il fenomeno degliorti urbani avrà il suo massimo sviluppo. Il caso di Torino è significativo a riguardo.Tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso il capoluogo piemontese passa da unapopolazione di 600.000 abitanti a circa un milione; negli anni ’7031 gli orti urbaniinteressavano quasi 2 milioni di mq di territorio urbano e periurbano e nel 1980 suuna popolazione residente di 1.143.263 abitanti risultava una superficie ortiva di146.4 ettari. I dati, oltre a indicare l’estensione del fenomeno spiegano la preoccu-

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31 G. Brino, Orti Urbani a Torino, Firenze Aliena 1982

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pazione da parte delle Istituzioni locali per una situazione inconsueta che, tra l’al-tro, si presentava quasi del tutto abusiva.Analoghe condizioni si riscontrano in altre città, soprattutto Milano, Bologna,Firenze e Roma dove, all’aumento consistente della popolazione coincide un’espansione delle aree orticole gestite, nella maggior parte dei casi in maniera abu-siva da parte dei nuovi residenti, generalmente immigrati meridionali: contadini,braccianti, pastori che, costretti a trasformarsi in operai nelle grandi fabbriche o inaddetti di altri settori produttivi, mantenevano un rapporto con la loro cultura d’ori-gine attraverso la coltivazione di decine di migliaia di piccoli appezzamenti, rica-vati lungo le rive dei fiumi cittadini, le reti ferroviarie, i tracciati viari e in qualun-que altro pezzo di terreno residuale. Una integrazione al reddito, ottenuta congrande fatica (spesso i terreni si presentavano come vere e proprie discariche), maanche la volontà di recuperare valori ed esperienze lontani attraverso strumenticome la terra e l’agricoltura legati al vissuto di questi nuovi contadini di città. L’ortodunque si rivela elemento di identificazione per gli immigrati, ma non solo; essorappresenta anche opportunità di svago, di impiego del tempo libero, un’occasionedi ritrovo. Il legame della nuova società industrializzata con la cultura contadina che i primiimprenditori italiani avevano intuito come elemento fondamentale per il benesseredei loro operai-contadini (maggiore qualità della vita, migliore produttività) e ripro-dotto attraverso la creazione dei villaggi operai, dopo circa un secolo di grande svi-luppo industriale appariva dunque, più forte che mai.

L’esigenza di una regolamentazione: da orti abusivi a orti socialiL’esigenza di contenere gli aspetti di spontaneità e abusivismo del fenomeno ortiurbani e il riconoscimento dell’ importanza socio-economica da essi esercitata sitradussero, negli anni ’80, nella redazione delle prime normative relative all’asse-gnazione di aree orticole ai cittadini interessati. Collegati alle politiche a favore delle classi disagiate (anziani, disoccupati, disabili),i regolamenti per assegnazione degli orti in base a criteri sociali, se da un lato san-civano, finalmente, il riconoscimento ufficiale del fenomeno, dall’altro ne provoca-vano, inevitabilmente, il contenimento, limitandone fortemente il carattere di spon-taneità e “creatività”. Molte delle aree orticole si caratterizzavano, infatti, per il dif-fuso degrado, l’utilizzo di materiali riciclati, spesso non idonei all’uso, oltre chescadenti dal punto di vista estetico. Cosa che, di fatto, ancora oggi si riscontra nellearee orticole non sottoposte a regolamentazione.

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Il primo regolamento italiano di orti sociali comunali fu redatto nel 1980 aModena32, e sulla sua base furono assegnati a pensionati di età superiore ai 55 annisei orti per anziani su un terreno suburbano non edificabile. Di questa prima nor-mativa è importante sottolineare la provvisorietà della concessione (ogni sei mesi oa raccolto avvenuto gli orti dovevano essere riassegnati) e il notevole controllo suglianziani assegnatari, tenuti a coltivare gli orti in prima persona, anche se il contribu-to di familiari era ammesso. Da allora la creazione e l’assegnazione di aree orticole da parte delle amministra-zioni comunali di gran parte del Paese è notevolmente aumentata ed è spesso inse-rita nell’ambito di progetti di riqualificazione ambientale che fanno riferimento amodelli di sostenibilità delle aree urbane che tengono conto di nuove esigenzesociali culturali e ambientali in linea, oltre che con il movimento di riscoperta diun’agricoltura self-made, (nel contesto internazionale si parla di urban agriculture),con la Convenzione Europea del Paesaggio (CEP) e con il concetto di multifunzio-nalità in agricoltura. È in questo ambito che si inserisce, ad esempio, il progetto diriqualificazione delle aree industriali e agricole periurbane del milanese con lacostituzione del Parco Nord di Milano. Sorto alla fine degli anni ’70 su un territorio caratterizzato da un esteso fenomenodi abusivismo orticolo, il parco attualmente ospita 250 orti, collocati in aree diconfine con gli insediamenti urbani, gestiti da 350 persone; altri nuclei ortivi sonoin fase di realizzazione perché la richiesta di terra da coltivare è molto elevata.Ogni orto ha una superficie di 50 mq e dispone di un contenitore per attrezzi e unattacco per l’acqua. Gli orti, recintati e chiusi, si affacciano su vialetti transitabili inmodo da formare un itinerario ortivo, della cui bellezza possono godere tutti i visi-tatori del parco. L’estetica è molto curata: il regolamento infatti, oltre a vietarecostruzioni prevede che almeno il 10% della superficie dell’orto sia coltivata afiori. Hanno diritto all’assegnazione pensionati, casalinghe con oltre 60 anni di etàe disoccupati, residenti in uno dei comuni facenti parte del consorzio del Parco.L’assegnazione dura sei anni, con possibilità di rinnovo per altri sei e poi annuale;in caso di assenza prolungata dell’assegnatario, un’apposita delega consente di affi-dare la cura dell’orto ad altra persona. È previsto, inoltre, il pagamento di un cano-ne annuale calcolato in base al reddito dell’ortista e l’impegno a conoscere erispettare con rigore gli articoli del regolamento. In continuità con le varie esperienze di orticoltura urbana cittadina, si inserisce la

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32 AA.VV., Orti urbani una risorsa, a cura di Italia Nostra, Milano, Angeli, 1982

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recente assegnazione, avvenuta nell’aprile 2007, di orti urbani nell’ambito del pro-getto “Riqualificazione Parco del Sangone” a Torino. Sono 101, su 270 domande,gli appezzamenti di circa 100 mq di terreno, da coltivare esclusivamente a ortaggiper consumo familiare, affidati ai cittadini per cinque anni. La creazione di questanuova area orticola urbana, che ha visto la rimozione delle recinzione e dei capan-ni di 230 orti abusivi, si inserisce nel progetto di riqualificazione ambientale diun’ampia area verde (circa 190 mila metri quadrati) lungo la sponda sinistra deltorrente Sangone, e prevede, oltre agli orti regolamentati, settecento metri di pistaciclabile, punti sosta, pergolati in legno e altri interventi per il recupero e la trasfor-mazione in parco pubblico dell’area, nell’ambito del piano “Torino Città d’Acque”.Nel campo più ampio dell’agricoltura sociale si inserisce l’esperienza del progetto“Orti in città” realizzato dall’amministrazione di Pontecagnano Faiano (SA) in col-laborazione con la locale sezione di Legambiente. Nata nel 2001 con il patrociniodella Soprintendenza Archeologica di Salerno e dall’Aiab (Associazione ItalianaAgicoltura Biologica), la prima esperienza di orti cittadini regolamentati del meri-dione d’Italia, assegnava a pensionati con reddito basso, mediante bando pubblico,otto appezzamenti di terreno di 100 mq da coltivare in base ai principi dell’agricol-tura biologica. Il successo dell’iniziativa oltre a indurre gli organizzatori, nel corsodegli anni, ad ampliarla, anche con l’istituzione di laboratori didattici aperti allescuole (gli ortisti insieme a esperti incontrano, periodicamente, gli alunni dellescuole dell’obbligo per insegnare la cura delle piante e la loro trasformazione incibo) ha portato, d’intesa con il Centro Giustizia Minorile Campania, alla promo-zione di un nuovo progetto per lo svolgimento di attività di volontariato da parte diminori sottoposti a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria Minorile. È importantesottolineare che gli orti di Pontecagnano sono inseriti all’interno di un ParcoArcheologico Urbano in cui sono presenti spazi verdi a uso pubblico che si integra-no alle vere e proprie evidenze archeologiche. Il luogo è così diventato uno spaziovivo, un punto di incontro per tutti i cittadini in cui vivere e condividere esperienzesociali, culturali, didattiche (è prevista anche la realizzazione di un museo botani-co all’aperto, nel quale saranno coltivate specie vegetali autoctone e in via di estin-zione). Oggi gli orti a Pontecagnano sono 47, altri 18 si trovano nel vicino comune di Ebolie altri ancora, data la grande richiesta, sono in procinto di essere realizzati in varicentri della provincia di Salerno, tanto che Legambiente Campania ha da poco pro-posto la creazione di una Rete regionale di orti urbani, allo scopo di recuperare daldegrado ambientale aree urbane periferiche o marginali valorizzandole attraverso

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la costituzione di aree orticole in cui i cittadini possano diventare protagonisti-frui-tori dell’ambiente in cui vivono.

Un caso particolare all’interno del panorama italiano è quello della città diRoma, dove il fenomeno dell’abusivismo orticolo è ancora molto elevato. Secondouno studio commissionato dalla stessa Amministrazione cittadina nel 2005, gli ortispontanei nella capitale sono 2.303 per una superficie di circa 887.050 metri qua-drati. Come nelle altre realtà caratterizzate dal fenomeno dell’abusivismo, la situa-zione si presenta particolarmente difficile da gestire in quanto l’evidente e pressan-te domanda di ruralità, espressa dai cittadini romani attraverso la continua occupa-zione illegale di spazi orticoli, si scontra con la necessità di una regolamentazioneche tenga conto di necessità di natura ambientali, sanitarie, urbanistiche e sociali.Accogliendo le indicazioni contenute nel concetto di multifunzionalità agricola, ilprogetto dell’Assessorato all’Ambiente denominato “Parco degli orti urbani”, intra-preso nel 2000, mirava ad affrontare e risolvere tali problematiche, trasformando learee orticole abusive in aree nelle quali, secondo precisi regolamenti, si potessero,sinergicamente, integrare la “domanda di ruralità” degli orticoltori tradizionali conquella di altre componenti sociali, quali nuovi hobbisti, bambini e soggetti condisagio. Le difficoltà culturali, politiche e burocratiche hanno limitato fortemente losviluppo del progetto, tanto che a oggi solo nel 16° municipio è stata avviata lavera e propria realizzazione. Un esempio, quello di Roma, di come sia ancora diffi-cile organizzare e realizzare una regolamentazione orticola di vaste dimensioni eche di fatto impedisce una evoluzione del settore in chiave moderna, nonostantesollecitazioni e riflessioni sull’argomento nella capitale siano presenti e diffuse findai primi anni ’80 del secolo scorso.

Un rapido sguardo oltre confine: Europa e Stati UnitiNegli ultimi anni gli orti urbani sono al centro delle politiche di riqualificazioneurbana in diversi contesti metropolitani per le varie funzioni che svolgono a livellosociale, ambientale, economico e culturale. Presenti con accezioni e modalità dif-ferenti in Europa, America del Nord e in Giappone, sono uno strumento di svilupposociale, di riappropriazione dei luoghi e di costruzione di comunità capaci dirispondere a una nuova domanda sociale, a un bisogno di naturalità e di rapportocon la terra e gli spazi naturali. Gli orti urbani sono realtà riscontrabili nella maggioranza dei Paesi europei e rive-stono un ruolo e un valore che si differenzia nei diversi contesti, come si evinceanche dalle diverse denominazioni che assumono: in Francia, sono generalmente

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chiamati jardins familiaux, in Spagna il termine huertos familiares sta lentamentesostituendo quello di huertos marginales, così come in Italia il termine orti urbaniquello di orti abusivi; in Germania e in Austria sono chiamati kleingarten (piccoligiardini) e in Inghilterra viene usato il termine allotment garden (letteralmente ortidi giardino). Diverse denominazioni che fanno riferimento a “insiemi di piccoli orti,generalmente situati in zone urbane e periurbane, ma disgiunti dai luoghi di abita-zione dei loro coltivatori che li mettono in valore con dei fini di autoconsumo fami-liare”33. Tale finalità, che vieta la vendita dei prodotti, accomuna la normativa didiversi Paesi europei ad eccezione della Polonia e della Repubblica Ceca dove,infatti, la vendita è autorizzata. Se gli orti urbani rispondono in Europa a una definizione morfologica sostanzial-mente univoca, le situazioni sono molto diverse, “esiste una vera linea di demarca-zione, situata approssimativamente lungo il 45 parallelo. A Nord di questa frontiera,gli orti urbani, molto sviluppati, si impongono come delle realtà istituzionali e cultu-rali e si inseriscono fortemente nelle pratiche locali”34. È il caso di Germania,Austria, Belgio, Gran Bretagna, Repubblica Ceca e Polonia. Al Sud, come in Italia eSpagna, gli orti urbani sono una realtà più marginale sia per quantità che per gli usianche se, come visto precedentemente, negli ultimi decenni sono al centro didiverse importanti iniziative.Gli orti urbani dei Paesi del Nord si distinguono sotto il profilo delle pratiche collet-tive. Nati sia per favorire l’autoconsumo sia per creare occasioni di vita comunita-ria si integrano al loro contesto urbano assumendo la vera e propria configurazio-ne di infrastruttura territoriale: hanno un carattere fortemente ricreativo e sonoluogo di incontro, di passeggiate, di pic-nic e in un certo qual modo anche di vil-leggiatura. In Germania e in Austria, per esempio, la legge prevede che i capannidegli orti possano essere usati come una sorta di residenza secondaria. In Francia,invece, vige un modello più restrittivo che punta sulla vocazione produttiva dellearee orticole vietando il soggiorno prolungato nei capanni le cui dimensioni perlegge, non possono superare i 2 mq (sono dunque esclusivamente un ricovero degliattrezzi) mentre in Germania sono concessi 24 mq. In Francia, inoltre, si riscontrauna forte tensione estetica e progettuale che si esplica non solo nell’integrazionepaesaggistica del sito, ma anche nell’attenzione della progettazione dei capanni.

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33 Definizione della Bergerie National della Francia (1996)

34 J. N. Consales Le jardins familiaux a Marseille, Gens et Baecelone laboratories territoriaux de l’agricolture urbanedans l’arc mediterranee.

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Diversa è la situazione nei Paesi dell’Europa meridionale dove pochi sono gli esem-pi strutturati, manca una legislazione precisa e spesso l’esistenza di aree orticoledipende dalla volontà dei diversi amministratori più che dagli strumenti di pianifi-cazione e, a differenza degli altri Paesi europei, pochi sono gli istituti di gestione.In Italia, l’unica associazione, attiva dal 1990, è l’ANCeSCAO (AssociazioneNazionale Centri Sociali, Comitati Anziani e Orti). Il nome orti è stato inserito nelladenominazione in quanto al Coordinamento possono aderire i Comitati di gestionedelle zone ortive assegnate alle persone anziane dagli Enti locali.Nell’Europa del Nord le competenze in materia sono affidate alle amministrazionicomunali che inseriscono gli orti nei loro strumenti di pianificazione, ma anche adaltre istituzioni come le società delle ferrovie, gli istituti case popolari, o le associa-zioni caritatevoli. Molte delle organizzazioni fanno capo a una federazione nazio-nale che, a sua volta, appartiene a una rete più ampia di scala europea: l’OfficeInternational du Coin de Terre et des jardins familiaux35, una federazione che offre aicomitati locali o alle associazioni aderenti competenze in materia giuridica, finan-ziaria, informativa e di tipo progettuale. Nata nel 1926 al fine di diffondere la prati-ca degli orti urbani svolge ancora oggi un importante ruolo di confronto e di coor-dinamento tra le diverse esperienze ormai consolidate specie nei Paesi del Nord edell’Est europeo. In particolare, in Europa, l’Office International du coin de Terre etdes Jardins Familiaux riunisce le associazioni di 15 Paesi (Germania, Austria, Belgio,Danimarca, Finlandia, Francia, Gran Bretagna, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi,Polonia, Repubblica Ceca, Slovenia, Svezia e Svizzera) con l’obiettivo di diffondereesperienze e coordinare attività, specialmente in aree dove è necessario interagirecon le istituzioni, per ottenere spazi necessari e la possibilità di gestirli. Negli ultimimesi, l’organizzazione ha stretto i contatti anche con l’omologa associazione giap-ponese, attraverso un accordo di cooperazione, in cui, entrambi i soggetti, si impe-gnano alla collaborazione e allo scambio di conoscenze.Negli Stati Uniti e in Canada, l’American Community Gardening Association riuni-sce principalmente le iniziative di Community Gardening e di City Farming, dandonotevole spazio anche alle School Farm e ai progetti di educazione ambientalerivolti ai bambini. L’esperienza dei Community Gardens, giardini pensati, realizzati e curati dai e per i

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35 Si tratta di un’organizzazione che riunisce la federazione tedesca, austriaca, belga, finlandese, francese, delLussemburgo, norvegese, olandese, polacca, britannica, slovacca, svedese, svizzera, ceca, e una federazione noneuropea quale quella del Giappone. Inizialmente denominata Office International du Coin de Terre et des jardinsouvries in quanto destinata alle classi sfavorite della società industriale, nel secondo dopoguerra sostituisce il temi-ne ouvriers, ossia operai, con quello di familiari spostando l’accento sui caratteri di socialità.

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cittadini, nasce spontaneamente negli anni ’70 a New York come movimento perl’occupazione di aree e spazi urbani degradati da adibire a giardini e orti fruibilidalle comunità residenti. Liz Christie, fautrice dell’iniziativa, avviò un’operazionedi cosiddetta “guerriglia verde” seminando alcune zone incolte e abbandonate diun quartiere di Manhattan: un gesto che segnò lo sviluppo di un movimento e inseguito la nascita dei Community Gardens, che oggi nella metropoli americanaoccupano una superficie urbana di oltre 300 ettari in cui oltre a coltivare pianteornamentali, ortaggi e frutta vengono organizzati mostre, fiere, eventi a carattereecologico – ambientale. Come testimoniano la nascita di diverse associazioni e i sempre più numerosi inter-venti di “guerrilla gardening”, molti sono nelle metropoli degli Stati Uniti i progettivolti a rinaturalizzare aree urbane degradate per trasformarle in giardini e orti o ariqualificare aree verdi o aree agricole urbane e periurbane che rispondono allacrescente domanda sociale di luoghi naturali nei quali esprimesi creativamente.Alcuni di questi spazi, specie nelle aree più periferiche, nel tempo divengono deiveri luoghi pubblici frequentati dalle comunità locali e in alcuni casi assumono unriconoscimento istituzionale. Si pensi che il giardino di Liz gode oggi addiritturadella protezione del dipartimento parchi di New York.Una realtà americana nuova in materia di Urban Farming e/o City Farming è rap-presentata dalla città di Detroit. Nel capoluogo del Michigan, che guida la classifi-ca nazionale del decremento demografico, le difficoltà economiche e sociali pro-vocate dalla crisi industriale hanno moltiplicato la conversione dei terreni e dellearee abbandonate in fattorie urbane. Il Garden Resource Program gestisce 115community gardens e 220 family gardens in tutte le aree della città, per accedere alquale è sufficiente versare una quota simbolica in cambio della quale si ricevonopiante e sementi per avviare la propria piccola fattoria urbana. Si tratta di un feno-meno nuovo, in una realtà economica basata, storicamente, sull’industria automo-bilistica, della cui estensione anche l’amministrazione comunale ha dovuto, suomalgrado, ammetterne l’esistenza e l’importanza, riconoscendo al Programma unruolo essenziale nella rinascita dei quartieri.

Le sperimentazioni dell’Ile de FranceNell’Ile de France l’Office International du Coin de Terre et des jardins familiaux èuna delle associazioni più attive in materia di orti urbani. L’associazione si occupadella loro progettazione, gestione e regolamentazione fissando i principi generali diutilizzazione e norma le attività ammesse secondo le indicazioni del Codice rura-

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le36. Ogni parcella è affidata a un capofamiglia richiedente che si impegna a colti-vare l’orto esclusivamente per l’autoconsumo e a pagare un canone annuale.Quest’ultimo non ha carattere locatario ma di rimborso spese. In generale il canonevaria a secondo della grandezza dei lotti e va dai 70 fino a 150 euro per gli appez-zamenti più grandi ma può toccare cifre più elevate nel caso di parcelle moltoampie. La dimensione di queste, infatti, è variabile e dipende dalla collocazionepiù o meno urbana del sito, in media è di 100-300 mq ma può oscillare dai 20 mqai 1000 mq, dimensione massima, oltre la quale, l’attività lavorativa diventa troppoonerosa per rimanere una semplice attività ricreativa non professionale. In tutti icasi gli orti urbani assicurano una produzione varia in cui la coltivazione di ortaggiprevale su quella fruttifera poiché quest’ultima, forte consumatrice di sostanzeorganiche, impoverisce velocemente i suoli. È possibile infatti piantare un soloalbero per parcella, non sono escluse le colture floreali, i tappeti erbosi e le areepiù propriamente destinate al loisir ma queste, nel loro insieme, non possono supe-rare il 50% della dimensione totale del lotto. Nell’Ile de France gli orti urbani mostrano un’interessante particolarità, quella diessere dei veri e propri spazi pubblici. Essi assumono la fisionomia specifica di unvero e proprio progetto urbano dove la composizione delle parcelle, quella dellezone collettive, l’approvvigionamento idrico, l’architettura dei capanni, le funzionilegate alle attività sportive e ludiche caratterizzano il luogo in un rapporto più omeno equilibrato tra pratiche individuali e vita comunitaria. In ogni progetto emer-ge una tensione tra aree destinate al giardinaggio e quelle necessarie all’integrazio-ne del sito con l’ambiente circostante. Gli spazi comuni diventano dei veri e propriluoghi pubblici frequentati dai giardinieri ma anche dagli abitanti del quartiere. Ingenerale si registra una forte attenzione estetica alla progettazione del sito ancheper superare le titubanze degli amministratori locali verso gli orti urbani, spessopercepiti come elemento di degrado e come minaccia per l’immagine del lorocomune. D’altra parte questi sono meno ostili allo sviluppo degli orti a condizioneche vengano trattati secondo una logica che potremo definire di spazio pubblicopaesistico. È emblematico il caso degli orti urbani del Parco Dipartimentale HautesBruyères, nei pressi di Lione, dove il coinvolgimento di Renzo Piano per la sola

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36 “giardini familiari, sono dei terreni suddivisi in lotti, che sono destinati a privati che praticano il giardinaggio per leloro necessità e quelli della loro famiglia, a l ‘esclusione di ogni impiego commerciale. Tutti i giardini che rispon-dono a questi criteri, indipendentemente dalla loro denominazione, sono assimilati a giardini familiari. L‘assegna-zione di un lotto deriva dal contratto di adesione all’associazione che è incaricata di gestire il gruppo di giardinifamiliari in oggetto.” Codice Rurale, L561-1

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realizzazione dei capanni ha tranquillizzato l’Amministrazione pubblica che teme-va che i jardins familiaux avrebbero potuto danneggiare l’immagine del luogo evanificare lo sforzo compiuto nella progettazione del parco37. Molti sono comun-que gli esempi di parchi e giardini pubblici nei quali sono presenti gli orti urbani.Il parco di Maison Alfort posto nel hinterland parigino o gli orti pedagogici rivolti aibambini di una scuola elementare del Parc de Bercy situato nel cuore della capitalefrancese costituiscono degli esempi interessanti. Gli orti di Plessis Robinson, nel dipartimento dell’Hauts-de-Seine della regione oquelli di Chatenay La Butte rouge a Parigi, costituiscono degli esempi molto inte-ressanti di jardin au pied des immobles. I primi sono posti nei cortili delle abitazio-ni sociali e sono dei veri e propri giardini paragonabili al verde pubblico destinatoa standard. I diversi appezzamenti mettono in evidenza un alto livello estetico,espressione della creatività di ciascuno, e un senso di appropriazione dei luoghi edi rispetto per il lavoro altrui. Anche se si tratta di quartieri popolari dove sono fre-quenti gli atti di vandalismo, gli orti urbani sono riconosciuti come importanti luo-ghi di vita nei quali l’utilità visibile del lavoro e lo sforzo compiuto dalle personegiustificano il rispetto e facilitano la condivisione di regole di uso e di fruizionedello spazio. I secondi invece, situati in un quartiere residenziale del dipartimentodi Haute de Seine, sono, al loro interno, attraversati da un percorso, luogo di pas-seggiate e nello stesso tempo tappa del sentiero più ampio che, attraversando ilquartiere, collega la foresta de Verrieres a quella di Meudon.Per quanto riguarda le sperimentazioni effettuate nelle aree più densamente urba-nizzate è molto interessante l’esempio di Paris XIII. Si tratta di un intervento postoin un quartiere popolare caratterizzato da fenomeni di immigrazione recente, nonlontano dal centro della città dove un piccolo terreno incolto situato su una sorta diterrazza urbana è stato trasformato in uno spazio ricreativo multifunzionale conpanchine, aree giochi per bambini, aree ping-pong per gli adolescenti e orti urbaniper i più grandi. Si tratta di un piccolo intervento di 25 micro-appezzamenti dicirca 25 mq ciascuno che ha dato al quartiere un nuovo luogo di aggregazione38. Non mancano esempi di orti urbani in cui si sperimentano tecniche volte allarazionalizzazione dei consumi idrici. Interessante appare l’esempio di Hayes les

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37 È necessario sottolineare che è prassi comune da parte delle associazioni locali affidarsi ad un team diversificatocomposto da urbanisti, paesaggisti e architetti che si occupano rispettivamente della localizzazione e infrastruttura-zione del sito, dell’articolazione spaziale e dell’inserimento ambientale e della progettazione dei capanni.

38 In generale la collocazione delle parcelle è variabile e dipende dalla collocazione più o meno urbana del sito. Inmedia va dai 100 ai 300 mq ma può oscillare dai 20 ai 1000 mq. Dimensione massima oltre la quale l’attivitàlavorativa diventa troppo onerosa per rimanere una semplice attività ricreativa e non professionale.

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Roses, dove un bacino è stato progettato in maniera tale da prevedere diversi tipi difruibilità a seconda del livello di portata delle acque ed è strettamente integrato aun’area verde attrezzata che lo separa dagli orti urbani. Un’altra interessante forma di verde pubblico agro-urbano in Francia è rappresenta-ta dai chantier d’insertion . Nati con l’obiettivo di inserire nell’ambiente del lavoroagricolo persone in grande difficoltà sociale e professionale, per fornire loro l’op-portunità e il know-out necessario per intraprendere una attività lavorativa, si sonopoi sviluppati come luoghi terapeutici e di integrazione sociale. Alcuni centri siindirizzano ai malati mentali e ne stimolano la creatività e il senso di responsabi-lità, altri sono destinati e organizzati per i ciechi (accesso facile alle piante, targhet-te in braille) o per gli disabili motori, altri ancora si rivolgono all’ambiente carcera-rio a all’inserimento sociale degli immigrati. Si tratta di una tipologia di orti urbani,molto sviluppata in Francia39 e in America del Nord, che vede l’attività del giardi-naggio come strumento terapeutico, non solo in relazione all’esercizio fisico oall’aiuto psicologico, ma anche perché cura il “malessere dell’abitare” creando,infatti, nuovi legami e forme di solidarietà, che stimolano processi di appartenenzae di appropriazione dello spazio fecondi per la riqualificazione, non solo sociale,della città. Esistono tre grandi tipi di giardini di inserimento: i giardini di orticoltura collettiva,gli orti urbani di sviluppo sociale, i giardini collettivi di inserimento sociale. I primisono portati avanti dalla Rete Cocagne “Coltivons la solidaritè”. Le potager diMarcoussis nell’Ile de France, ne sono un esempio: cantieri permanenti di riqualifi-cazione forestale, di custodia del patrimonio naturalistico e di incremento per leorticolture biologiche dove i cittadini aderenti diventano cooproduttori del progettoagricolo, passando da un ruolo di spettatori a un ruolo di “consum’attori”, essendocoinvolti attivamente nel progetto di riqualificazione del territorio. La particolaritàinfatti è che i prodotti non vengono venduti sul mercato ma vengono distribuitisotto forma di panieri settimanali ai cittadini associati in cambio di una quotaannuale. Se i giardini di “Coltivons la solidaritè” privilegiano la dimensione economica eambientale, i giardini sociali (i jardin collectifs d’insertion, i jardin familiaux di svi-luppo sociale) della rete “Les Jardin d’Aujourd’hui”, puntano sulla reintegrazione

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39 Esistono tre grandi tipi di giardini di inserimento: i giardini di orticoltura collettiva, gli orti urbani di sviluppo socia-le, i giardini collettivi di inserimento sociale che in Francia fanno riferimento a tre diverse Associazioni Nazionali:la Rete Cocagne “Coltivons la solidaritè”. Les Jardin d’Aujourd’hui e i Jardin collectifs d’insertion.

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sociale e sugli aspetti relazionali. I jardin collectifs d’insertion, propongono a grup-pi, formati da persone in difficoltà, di coltivare insieme un’unica parcella, e di divi-dere tra loro la produzione rivolta principalmente all’autoconsumo. I jardin fami-liaux di sviluppo sociale, invece, sono dei veri e propri orti urbani, strumento diprevenzione economica e culturale nei quartieri in difficoltà. Si tratta di una formu-la molto simile agli orti urbani classici e offrono alle persone in difficoltà la possibi-lità di coltivare individualmente una parcella. Tali giardini sono destinati a residentia rischio esclusione o disagio sociale e per questo spesso prevedono la presenza ditecnici e di assistenti sociali. In relazione alle difficoltà degli utenti vengono adotta-ti degli accorgimenti progettuali che facilitano o permettono a queste persone dipraticare l’attività di giardinaggio. Nei giardini rivolti agli ipovedenti, diverse sonole strategie volte a facilitare l’orientamento: la presenza di piante molto profumate,come la melissa o la lavanda, o la sistemazione di campanelle o carillon che pos-sono indicare l’entrata, gli incroci, l’accesso alle parcelle del giardino. Anche ilcambio di pavimentazione può costituire un importante elemento di riferimento,l’utilizzazione diversificata dei materiali può segnalare le separazioni tra i differentispazi, indicando, per esempio, la presenza di una fontana. Per facilitare l’orienta-mento, i sentieri sono tracciati in maniera lineare e perpendicolari tra loro e, oltre asegnare trasversalmente il giardino, devono correre lungo tutto il confine in mododa permettere la circolazione, mentre i limiti perimetrali devono essere segnalaticon la presenza di siepi o di rampicanti. Questi ultimi accorgimenti vengono usati anche nei giardini rivolti a persone condifficoltà motorie dove vengono realizzate delle parcelle sopraelevate, di altezzavariabile o dove i muri di confine vengono utilizzati come supporto per appenderei vasi creando così delle quinte vegetali o per realizzare dei banchi di lavoro.

Le reti sociali agro-urbaneNegli ultimi anni sono nate molte iniziative volte alla valorizzazione e al riconosci-mento delle aree agricole periurbane, il cui carattere sperimentale e innovativo hamesso in evidenza la necessità di aprire forme di relazioni e di scambio tra le diver-se esperienze. Una necessità testimoniata dalla formazione di diverse reti di coope-razione che raggruppano entità territoriali, parchi e associazioni nate per confronta-re le soluzioni adottate nei diversi contesti, sostenere lo sviluppo sostenibile e lerelazioni mutuali tra agricoltura periurbana e città. Una delle prime organizzazionisorta nel contesto europeo è la “Federazione degli spazi naturali e rurali metropoli-

tani e periurbani” (Federnatur) che oggi conta tra i soci 26 parchi periurbani40 La

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rete si propone di favorire lo scambio di esperienze in tema di pianificazione,

gestione, protezione e finanziamento di questi spazi e di sviluppare attività con-

giunte a livello europeo anche attraverso la realizzazione di studi applicati.

All’affermazione di Federnatur, che raggruppa esclusivamente parchi riconosciuti

istituzionalmente come aree protette, ha fatto seguito la nascita di altre associazio-

ni più direttamente finalizzate alla valorizzazione delle aree agricole periurbane.

Ne sono un esempio, oltre le numerose iniziative internazionali41 l’associazione

francese Terres en villes e la rete europea PURPLE42 (Peri Urban Regions Platforme

Europe). Le organizzazioni si pongono l’obiettivo di ricercare le modalità di svilup-

po sostenibile delle campagne urbane, di mettere in comune le diverse conoscen-

ze, di promuovere il ruolo e l’interesse dell’agricoltura periurbana e di favorire lo

sviluppo di queste politiche. Uno dei principi cardine è il riconoscimento del ruolo

della governance nei processi di valorizzazione e trasformazione del territorio agri-

colo periurbano. Le diverse entità territoriali, infatti, lavorano per l’integrazione del-

l’agricoltura, della foresta e degli spazi aperti nella progettazione del territorio in

un’ottica multifunzionale, attraverso la messa in atto di forme di parternariato tra le

collettività e il mondo agricolo che assumono al loro interno la domanda urbana.

Inoltre, si pongono l’obiettivo di favorire gli scambi e le buone pratiche tra i diversi

attori locali, di rinforzare e moltiplicare le relazioni costruttive sui progetti portati

avanti nei diversi contesti territoriali e di promuovere delle nuove collaborazioni

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40 Federnatur nasce nel 1997 e raggruppa diversi parchi periurbani: in Belgio la Forêt de Soignes; in Spagna l’Espairural de Gallecs, il Parc de Collserola, la Xarxa de Parcs Naturals, Il Parc Serralada Litoral, Il Parque Natural LosVillares, la Dehesa del Generalife, il Parque Natural Monte de la Sierra, il Parque Natural Montes de Málaga, leDunas de San Antón, il Parque Natural La Corchuela, l’Anillo Verde; in Francia l’Espaces Verts - Seine-Saint Denis,l’Arche de la Nature, l’Espace Naturel Lille Métropole, la Forêts Rhénanes périurbaines, la Base de Loisirs de St.Quentin, il Grand Parc de Miribel Jonage;.in Italia il Parco Agricolo Sud Milano, il Parco Fluviale del Po Torinese,RomaNatura, il Parco Naturale di Portofino, il Parco di Montemarcello-Magra, il Parco Nord Milano, il ParcoNaturale del Conero; in Portogallo il Parque Florestal de Monsanto.

41 A questo proposito è importante segnalare le diverse reti nate per la promozione dell’agricoltura periurbana: ilRUAF (Resource centre on Urban Agriculture & Forestry) un centro di ricerca sull’agricoltura e la forestazioneurbana che ha avviato una rete di scambi a livello mondiale e che si occupa del riconoscimento dell’agricolturaurbana come attività produttrice di economie e di paesaggi e della promozione di reti locali a sostegno dell’agri-coltura periurbana. La Rete ENUPA (European Network for Urban and Periurban Agricolture). Altre reti si occupa-no della promozione dell’agricoltura periurbana nei Paesi del Sud del mondo, come AGUILA una rete di istituzionigovernative e non, di ricercatori nata in Bolivia che si occupa di migliorare le pratiche dell’agricoltura urbana inAmerica latina e la rete di sviluppo sostenibile di ASIA del Sud-Est volta a rinforzare il contributo della sicurezzaalimentare, accrescere le capacità di intervento delle istituzioni pubbliche e incoraggiare il miglioramento e la dif-fusione di pratiche innovative.

42 La rete PURPLE coinvolge 11 regioni metropolitane: la Catalogna, Ile de France, Nord-Pas de Calais, Sud-Estd’Inghiltterra, West Midlands, Ramstadt, Fiandre, MHAL, Francfort Rhin-Main, Mazovie, Stoccolma.

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trans-europee. Parallelamente alla costituzione delle associazioni di reti di città e di parchi è possi-bile annoverare esperienze che praticano più direttamente percorsi di riappropria-zione sociale. Si assiste, infatti, alla nascita di un nuovo tipo di rete legata alladomanda urbana di ambiente e di beni alimentari di qualità, che non si esauriscenella richiesta, “elitaria”, di prodotti tipici di cui viene certificato il luogo di produ-zione e le modalità di trasformazione, ma che si allarga nella sperimentazione dinuove forme di scambio, commercializzazione e acquisizione dei prodotti che ten-dono a riavvicinare il consumatore al produttore. Si tratta di nuove forme di coope-razione come i Gruppi di Acquisto Solidale (GAS), le Reti e i Distretti di EconomiaSolidale, le AMAP (Association pour le Maintien de l’Agriculture Paysanne) o CSA(Community Supported Agriculture), che puntano sulla relazione diretta con il pro-duttore e su un’organizzazione collettiva dell’acquisto variamente organizzata incatene e gruppi sociali.Le AMAP nascono in Giappone negli anni ’70 quando un gruppo di donne, preoc-cupate per l’aumento delle importazioni di cibo e per la chiusura di molte aziendeagricole locali, promossero un rapporto diretto “produzione-acquisto” tra loro e icontadini locali. Questo modello di organizzazione, denominato Tekey (letteral-mente “volto dell’agricoltore sul prodotto”) si sviluppa in seguito in Svizzera eGermania poi negli Usa con il nome, appunto, di Community SupportedAgricolture (CSA) e in Canada come Agricolture Soutenue par la Communauté(ASC).Come sottolineato poc’anzi, non si tratta solamente di una nuova domanda legataalla qualità dei prodotti e alla sicurezza alimentare, ma di un processo di innova-zione sociale e culturale che apre verso una diversa concezione dello sviluppo,degli stili di vita e del benessere collettivo i cui principi si fondano sul concetto dicooperazione ed equità sociale e sulla cultura delle differenze. Le AMAP, poco svi-luppate in Italia ma ormai diffuse in tutto il mondo, sono associazioni formate daconsumatori e da uno o più agricoltori che desiderano costruire insieme una formadi paternariato su alcuni prodotti. Sono qualcosa in più del semplice gruppo diacquisto in quanto i consumatori scelgono con gli agricoltori le verdure o i frutti dacoltivare, il prezzo della sottoscrizione e le modalità di produzione e di distribuzio-ne dei prodotti (frequenza, luoghi, orari, ecc.). Ogni consumatore compra in antici-po (al momento della stipula del contratto che spesso coincide con la semina) lasua parte di raccolto, condividendo con gli agricoltori eventuali rischi.Molte sono le aziende legate al circuito delle reti di economie solidali, soprattutto

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come fornitori dei Gruppi di Acquisto che costituiscono una realtà consolidata eormai molto diffusa sul territorio, finalizzata ad aprire un rapporto di scambio traproduttori e cittadini. Si tratta di gruppi di persone che si organizzano per acquista-re insieme dei prodotti d’uso alimentare e di ridistribuirli tra loro, rivolgendosidirettamente alle aziende. La relazione di sostegno mutualistico tra gli agricoltorilocali e i consumatori contribuisce a rendere il funzionamento dell’azienda econo-micamente stabile, agli agricoltori viene garantita una vendita sicura per un’ampiavarietà di prodotti, e assicura ai membri della comunità il prodotto di miglior qua-lità, spesso a prezzo inferiore di quello di mercato. Si tratta di una strategia innova-tiva assai utile per mettere in comunicazione gli agricoltori con i consumatori loca-li, per favorire lo sviluppo dell’economia locale e il senso di appartenenza, inco-raggiando inoltre la corretta gestione del territorio.Anche le modalità di commercializzazione acquistano in questo contesto un carat-tere innovativo di integrazione tra agricoltura e città con le filiere corte, la venditadiretta o con le cuillette (punti di vendita dove il compratore raccoglie il prodottodirettamente dalla pianta), così come le nuove modalità di fruizione delle aree agri-cole (sentieri, percorsi didattico conoscitivi, ecc.). La creazione di nuove economie territoriali basate sull’agricoltura intesa comesistema multifunzionale si basa anche sulla creazione di circuiti agrituristici di qua-lità, di attività formative e culturali come, ad esempio, i giardini di inserimentosociale o le biofattorie didattiche, che costituiscono un esempio di come l’agricol-tura di qualità, la salvaguardia della biodiversità, la produzione legata ai cicli natu-rali e capace di valorizzare il territorio e l’ambiente, siano considerati fattori impor-tante per la diffusione della cultura della sostenibilità e per la formazione delle gio-vani generazioni.

Conclusioni

Il presente capitolo, partendo da un breve percorso storico, ha analizzato varieesperienze europee ed extraeuropee di agricoltura urbana e periurbana, certamentenon esaustive, che testimoniano una dinamicità del fenomeno che risponde allarichiesta, sempre più pressante, delle popolazioni, di benessere ambientale, e chesi traduce in un vivacità difficilmente riscontrabile in altri settori “più tradizionali”della vita economica e sociale dei Paesi occidentali.L’utilizzo delle attività agricole in zone urbane per migliorare la vita civica e la

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qualità ambientale e paesaggistica è chiamato ”Agricivismo”43; esso risponde amolteplici esigenze e diversi obiettivi: dal punto di vista sociale è occasione diaggregazione, di riscoperta della comunità e rafforzamento e della solidarietà; sottoil profilo culturale contribuisce alla riscoperta dei tempi biologici, delle percezionisensoriali, del saper fare. Offre occasione di scambio di esperienze, di acquisizionee arricchimento di competenze. La coltivazione stessa di prodotti secondo metodinon convenzionali fornisce l’opportunità di conoscere l’ambiente, di contribuirealla sua salvaguardia. Infine la costruzione di un capitale di conoscenze e di rela-zioni, alimentato dal lavoro comune, permette di comprendere l’importanza dell’a-spetto paesaggistico contribuendo alla sua pianificazione e conservazione. Nell’ottica della multifunzionalità, l’attuazione di un progetto di agricoltura urbanae periurbana deve inserirsi all’interno di politiche di sviluppo locale sostenibile cheincludano azioni di pianificazione territoriale, di politica e integrazione sociale, digestione partecipata del territorio. Deve puntare al superamento del carattere diisolamento che caratterizza ancora molte esperienze, prevedendo l’integrazione diaree destinate alla coltivazione artistica nel contesto paesaggistico, pianificando laloro presenza all’interno dei progetti urbanistici, coinvolgendo nella fase di proget-tazione, realizzazione e gestione le comunità locali, attraverso momenti di parteci-pazione in cui analizzare il contesto territoriale e le problematiche connesse. Sonoinfatti i cittadini i fruitori dell’agricivismo, da essi partono le istanze a cui un pro-getto propone risposte, attraverso essi bisogna creare consapevolezza e consensosul valore dello spazio ambientale, puntando a renderlo una risorsa umana e pae-saggistica.In conclusione, la crescente richiesta di benessere ambientale da parte dei cittadinioccidentali esige un ampliamento delle aree adibite alle attività agricole urbane,una loro maggiore diversificazione, adottando criteri di assegnazione che permetta-no di coinvolgere quanti più soggetti possibili allo scopo di generare reti di innova-zione sociale in cui i bisogni legati ai contesti urbani e rurali coesistano in modoarmonico.

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43 termine adottato dal Dott. Richard Ingersoli, urbanista statunitense, che ha tra l’altro proposto di destinare il 30%di ogni sito urbano alle coltivazioni. “[…] la coltivazione, che è cura, fonda un nuovo senso di appartenenza equindi di responsabilità verso lo spazio urbano e il verde che ne fa parte”.

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Bibliografia

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TUTTI GIÚ PER TERRA: VERSO UN’ECONOMIA DELLA MENTEdi Monica Caggiano44

«E che te magn’!» ha esclamato compiaciuto Salvatore, scugnizzo napoletano di 8anni, assaggiando il fagiolino che ha visto crescere nel suo orto in una scuola ele-mentare di Montesanto. Siamo nel cuore pulsante del centro storico di Napoli,assediato dal degrado e dai cumuli di munnezza che, quando fortuna vuole, nonbruciano in strada, ma giacciono ammassati per giorni45. Se per i nostri nonni eranaturale che una buccia di una banana si trasformasse in humus, in una Campaniain emergenza rifiuti da circa 14 anni, si è tentati di gridare al miracolo di fronte alcompost ottenuto attraverso gli scarti dei loro pasti dagli “alunni a rischio” dellascuola elementare “Oberdan”. I processi di apprendimento che si sviluppano “mettendo le mani nella terra” sonotipici degli orti scolastici, che ricalcano il famoso detto di Confucio: “Sento edimentico, vedo e ricordo, faccio e comprendo”. Queste realtà si stanno diffonden-do sempre più in Italia, come nel resto del mondo46. Negli ultimi anni a fianco alleesperienze delle singole scuole, sono sorti dei progetti che si pongono come obiet-tivo la promozione e la messa in rete di queste pratiche. Particolarmente interessan-te è la rete degli “Orti di pace, sentieri della biodiversità, contadini custodi”, nataintorno all’Ecoistituto delle tecnologie appropriate di Cesena47, così come il proget-to “Orti in condotta” di Slow food48. Quest’ultimo è nato negli USA come strumen-to di educazione alimentare e si è rapidamente diffuso in molti Paesi, dal MedioOriente all’Oceania; in Italia, al momento, il progetto coinvolge 102 orti, per untotale di circa 3.500 bambini.

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44 Ricercatrice INEA (Istituto Nazionale di Economia Agraria)

45 La Campania nel periodo di riferimento, primavera del 2007, ha attraversato l’ennesima recrudescenza dell’emer-genza rifiuti con un commissariamento straordinario che si protrae da 14 anni. In questi mesi la popolazione, esa-sperata dalla lunga permanenza delle montagne di rifiuti in strada, ha spesso dato fuoco alla spazzatura che ostrui-va il passaggio con forti ripercussioni igienico-sanitarie, aggravando così le già precarie condizioni ambientali delterritorio.

46 Particolarmente interessante è l’esperienza degli orti realizzati dal Center for Ecoliteracy di Berkeley (USA).

47 Cfr. www.ortidipace.org.

48 Cfr. http://educazione.slowfood.it/educazione/ita/orto.lasso.

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In alcuni casi, poi,Provincie e Regionihanno attivatocanali specifici difinanziamento eprogrammi dedicatialla realizzazionedegli orti didattici.È il caso, ad esem-pio, dell’EmiliaRomagna che hapromosso il proget-to “L’orto a scuola.Seminiamo buoncibo”, un’esperien-

za pilota che ha interessato 55 scuole, nell’anno scolastico 2006/07, con l’obiettivodi sostenere la conoscenza e il consumo degli ortaggi. L’esperienza realizzata nella scuola Oberdan49 nell’ambito del progetto “Scuoleaperte” del Comune di Napoli esemplifica diverse questioni che riguardano gli ortiscolastici e offre un’occasione per avviare una riflessione sulle loro potenzialitànell’alimentare dei processi di apprendimento “in chiave ecologica”.

L’esperienza di Napoli Il Laboratorio Orti urbani di Napoli è parte di un programma più ampio, il ProgettoScuole Aperte “Ri-trovarsi a scuola”, attraverso cui il XII Circolo didattico Oberdanha aderito alla proposta del Comune di aprire le scuole e accogliere gli allievi al dilà dell’orario scolastico per offrire loro uno spazio di aggregazione sociale e unpunto di incontro territoriale. Per comprendere a pieno la valenza dell’esperienza napoletana bisogna considera-re l’eccezionalità del contesto di riferimento, che presenta delle problematicitàsocio-economiche decisamente rilevanti e peculiari. Ciò si evince chiaramente daiparametri riportati nella Figura I, riferiti al quartiere Avvocata in cui si è realizzato ilprogetto Orti urbani.Il programma ha coinvolto 45 allievi appartenenti a classi diverse, comprese tra il

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49 L’esperienza è stata condotta dall’autrice durante il periodo in cui ha svolto un assegno di ricerca presso l’IstitutoNazionale di Economia Agraria

FIGURA I UN QUADRO SOCIALE DEL QUARTIERE AVVOCATADEL COMUNE DI NAPOLI

Tasso di fertilità femminile: 3,3 figli per ogni donnaPopolazione al di sotto dei 18 anni: 22% (Italia meno del13%)Tasso di disoccupazione maschile oltre 50%, femminile 60%Densità abitativa: 230.000 abitanti in circa 8,5 KmqMedia dei detenuti: 4 volte la media nazionaleReati portati a termine da minori: 4 volte la media nazionaleTasso di gravidanze portate a termine entro 16 anni: 1000volte circa la media nazionaleDispersione scolastica del 10-15% nella fascia d’età 13-15 anniIl 45% dei licenziati delle medie non si iscrive alle superiori Il 70% degli allievi si licenzia dalle medie con il voto minimo Presenza diffusa di lavoro nero e lavoro minorile

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secondo e il quinto anno, scelti sulla base della presenza di condizioni problemati-che in famiglia e/o in ambito scolastico.Il progetto si è sviluppato nell’arco di tre mesi, da marzo a maggio, con due incon-tri a settimana. I bambini, assistiti dagli operatori, hanno dato vita a un orto all’in-terno di uno spazio verde incluso nel plesso scolastico. Le operazioni di semina,cura e raccolta dei vegetali si sono concluse con un’insalata finale che gli allievihanno preparato e condiviso con i propri genitori durante la giornata di chiusuradel progetto.Gli allievi sono stati divisi in due gruppi ognuno dei quali ha predisposto la propriaaiuola, preparando il terreno per la messa a dimora delle piantine e la semina.Quando è stato possibile, come per i piselli, si è piantato direttamente il seme,giacché vederlo germogliare ha un valore aggiunto maggiore per i bambini dalpunto di vista pedagogico, rafforzato dal fattore “emozionale”. Nelle aiuole hannotrovato simultaneamente posto più specie di ortaggi diversi con la predilezione divarietà autoctone (pomodori, melanzane, cavolfiori, fagiolini, piante aromatiche,ecc.); al fine di trasmettere e valorizzare l’idea di biodiversità e la capacità di con-vivenza e complementarietà di culture differenti. Lo spazio verde è, inoltre, statoabbellito da piantine di primule e violette, molto apprezzate dagli allievi. Per la cura delle aiuole i bambini hanno ricevuto alcuni attrezzi: piccole zappe,vanghe, palette, punteruoli, un innafiatoio. Si tratta di utensili che, se mal adopera-ti, possono essere molto pericolosi, tuttavia nonostante l’esuberanza degli allievi,si è preferito affidarli direttamente alle loro mani, nel tentativo di autoresponsabiliz-zarli. Nonostante il caso isolato di un bambino che ha colpito un suo coetaneo con unattrezzo sulla mano provocandogli una leggera distorsione, tuttavia, considerandol’indole da “scugnizzi” degli allievi, i dovuti avvertimenti, nel complesso, hannosortito l’effetto sperato e il loro comportamento è stato generalmente corretto. Per la concimazione dell’orto è stato utilizzato, quando disponibile, soltanto ilcompost realizzato dagli stessi allievi. Nell’orto, infatti, ha trovato spazio ancheun’attività di compostaggio dei rifiuti organici, con la finalità di dimostrare la possi-bilità di ottenere del buon concime naturale dagli scarti dei pasti degli studenti, chealtrimenti avrebbero alimentato i cassonetti già stracolmi del quartiere. Il problemadei rifiuti, infatti, è particolarmente avvertito dai bambini, che più volte hanno evi-denziato il loro disagio per la sporcizia delle strade e degli spazi pubblici. È emble-matica la frase di un allievo di origini asiatiche che, con il suo linguaggio napoleta-no verace, ha affermato di volersi trasferire a Modena (?!) <<perché Napoli è chie-

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na é munnezza.>>. I bambini hanno ancora lamentato la difficoltà di giocare libe-ramente nelle strade, non solo perché sporche, ma soprattutto perché occupatedalle automobili. Al riguardo, in un’intervista svolta a chiusura del progetto unbambino ha proposto di liberare tutte le strade dalle macchine e dalla spazzatura eal loro posto di coltivare grandi orti. Importante è stata, inoltre, l’attività di pulizia dello spazio verde: i bambini hannoraccolto quasi a ogni incontro rifiuti di ogni genere, perché come hanno detto i piùpiccoli <<I vandali sporcano tutto e non risparmiano nulla>>. La coltivazione dell’orto ha consentito, inoltre, di intrecciare delle interessanti rela-zioni tra generazioni e Paesi diversi, giacché il quartiere è uno dei luoghi della cittàa più alta densità di migranti. Nel gruppo, infatti, erano presenti alcuni allievi figlidi extracomunitari, i cui genitori o nonni erano contadini o si dedicavano alla curadi un orto; proprio loro sono stati quelli che avevano una maggiore conoscenzadelle piante e delle tecniche di coltivazione e grazie ai loro racconti si sono vissutidei momenti di condivisione inaspettati e, talvolta, sorprendenti.Il progetto si è aperto con un’indagine preliminare sulla percezione dell’agricolturada parte degli allievi della scuola. Allo scopo di chiarire le conoscenze pregressenon solo dei partecipanti, ma di tutti gli studenti, la ricerca si è sviluppata mediantela somministrazione di un questionario a un campione casuale composto da 41alunni. Figura II Alcuni risultati dell’indagine preliminare sulla percezione dell’agricoltura

Dalla lettura dei risultati, alcuni dei quali riportati nella Figura II, emerge una cono-scenza superficiale dell’ambiente naturale, del mondo rurale e dei processi produt-tivi degli alimenti. Le informazioni sull’argomento risultano veicolate agli scolari

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Agricoltura è… • Coltivare la terra• Frutta e ortaggi • Non so

Per i più “fantasiosi”…. • Vegetazione importante per i vegetaliani • È un simbolo di frutti di estate• Montagne• Una vegetazione cioè tutte le cose che

si mangiano

Risulta che…• più del 51% degli intervistati non ha

mai visto un orto • più del 68% non conosce un contadino • a più del 70% non piacerebbe diventare

contadino • secondo il 27% i cereali si trovano al

supermercato • per i nomi degli ortaggi si usa con fre-

quenza il dialetto

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principalmente attraverso la televisione, da cui sono assorbiti dei modelli di consu-mo che non privilegiano la ricerca della salubrità. Questa lettura è in linea con irisultati di una recente indagine dei giovani agricoltori europei (Ceja) svolta su uncampione di 2.400 bambini tra i 9 e i 10 anni nei 15 Paesi dell’Unione. Dalla ricer-ca è emerso che i piccoli cittadini europei sono estremamente condizionati daimessaggi pubblicitari e hanno difficoltà ad associare i prodotti agricoli originali allaloro forma finale dopo i processi di trasformazione, tanto da ritenere che il latteprovenga da una fabbrica, che i polli hanno quattro zampe e il pane cresca suglialberi50.La reticenza iniziale dei partecipanti a mettere le mani nella terra, a toccare gliinsetti, a sporcarsi si è poi trasformata in un’entusiasmante scoperta di tutte le formedi vita presenti nello spazio verde e, per molti, in una passione per la cura dellepiante che diversi allievi hanno cominciato a coltivare anche nelle proprie case. Il successo del progetto è stato evidenziato anche dai risultati di una sua valutazio-ne finale effettuata attraverso la realizzazione di interviste, singole e di gruppo, aipartecipanti.Quest’esperienza ha ulteriormente comprovato il valore degli orti scolastici comelaboratori didattici all’aperto, in cui il contatto diretto con la natura offre una varietàdi stimoli utili ad attivare delle esperienze pedagogiche estremamente interessantisotto molteplici profili. Seppur sinteticamente, proviamo di seguito a declinare alcu-ni di questi aspetti, focalizzando l’attenzione su quelle questioni che sembrano piùrilevanti rispetto al contesto e all’economia complessiva del ragionamento.

L’orto come laboratorio di educazione ambientaleL’orto è un “laboratorio di educazione ambientale” all’aperto che, oltre ad arricchi-re il patrimonio di conoscenze sulle piante e gli animali, è uno strumento in gradodi far comprendere i cicli della natura, la scoperta dei tempi biologici, di affrontarela problematica dei rifiuti in chiave ecologica. La possibilità di affiancare all’ortouna piccola attività di compostaggio dei residui organici da cui ricavare humus peril terreno, infatti, rende chiara la chiusura dei cicli e l’inesistenza del rifiuto in natu-ra, un concetto “tutto umano”. La cognizione della rete della vita e dei cicli ecologici che la animano, propriadelle società tradizionali venuta meno nell’era industriale, rappresenta un puntochiave nella risoluzione del conflitto tra l’ecologia e gli attuali sistemi economici 51.

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50 Cfr. http://www.ceja.educagri.fr.

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Tale divergenza nasce dal fatto che la natura è ciclica, mentre i nostri sistemi indu-striali sono lineari52, per cui la sostenibilità dei processi produttivi va ricercata pro-prio in una loro organizzazione che imiti i cicli naturali.Questi concetti, per quanto intuitivi e paradossalmente semplici, in realtà sono icapisaldi dell’educazione ecologica e dell’epistemologia della complessità, su cuisi fondano le scienze della sostenibilità53.La capacità di riconoscere l’uomo come parte di un sistema di relazioni più ampioche lo legano al contesto e ai processi con cui interagisce, e attraverso cui si defini-sce, rappresenta infatti un punto centrale del pensiero sistemico54. In quest’ottica, larealizzazione di un orto è un’occasione per stimolare lo spirito creativo e la rifles-sione degli allievi nella ricerca di comportamenti più sostenibili che inglobino il“senso del limite” e la “capacità di attendere”. Si tratta di concetti con cui l’uomo moderno deve necessariamente confrontarsi, sindall’infanzia, per la ricerca di un rapporto più equilibrato con il proprio esserenaturale e sociale.L’illusione di poter superare i limiti naturali attraverso l’uso della tecnologia e lapossibilità di prevedere e controllare il comportamento degli ecosistemi rappresen-tano due aspetti che contraddistinguono il comportamento della cosiddetta societàdei consumi, in cui il 20% degli abitanti del pianeta utilizza l’80% delle risorse

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51 Cfr. Capra Fritjof, Ecoalfabeto. L’orto dei bambini, Stampa alternativa, 2005, Viterbo.

52 I cicli industriali sono lineari, in quanto non si chiudono, comprendendo l’estrazione delle risorse, la loro trasfor-mazione in prodotti e rifiuti, beni che una volta consumati divengono essi stessi rifiuti.

53 Il termine Sustainability Science indica una convergenza transdisciplinare di riflessioni e ricerche derivanti damaterie diverse, che cercano di analizzare le interazioni dinamiche tra i sistemi naturali, sociali ed economici. Cfr.Bologna G., Manuale della sostenibilità. Idee, concetti, nuove discipline capaci di futuro, Edizioni Ambiente,2005.

54 <<Nel nuovo paradigma il rapporto fra le parti e il tutto è invertito. Le proprietà delle parti possono essere compre-se solo alla luce della dinamica dell’intero. In definitiva, le parti non esistono. Ciò che chiamiamo parte è solo unaconfigurazione in una rete inseparabile di relazioni.>> Cfr. Capra Fritjof, Il punto di svolta, Feltrinelli, 1984.Il “paradigma sistemico”, nato dall’esigenza di superare la frammentazione e la separazione dei saperi propriadella tradizione “riduzionistica” cartesiana, si è delineato tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50 grazie alcontributo di vari studiosi, tra cui Gregory Bateson, Ludwig Von Bertalanffy, Margaret Mead, Norbert Wiener, Johnvon Neuman.La concezione sistemica della realtà è applicabile ai fenomeni che caratterizzano un “sistema” indipendentementedal loro contesto fisico-chimico, biologico o psico-socio-culturale, laddove per “sistema” si intende “ un insiemedi oggetti e di relazioni tra gli oggetti e tra i loro attributi”.

55 L’ecologia non può essere separata dall’equità, né l’equità dall’ecologia. La crisi della natura e la crisi della giusti-zia sociale sono interconnesse. Cfr. Wolfgang Sachs (a cura di), Dizionario dello sviluppo, Edizioni Gruppo Abele,Torino 1998. È sufficiente, a tal riguardo, considerare che se tutta la popolazione mondiale volesse adottare lo stes-so stile di vita dei cittadini degli USA sarebbero necessari l’equivalente di cinque pianeti come la terra. Cfr. GlobalFootprint Network, 2007.

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globali disponibili, adottando così degli stili di vita chiaramente non sostenibili, siada un punto di vista ecologico, sia da quello sociale55.In un’epoca di “alta velocità”, pertanto, veder crescere un vegetale giorno per gior-no è un’esperienza che, in opposizione all’imperante logica del tutto e subito, pro-pone una visione più coerente con i “tempi della natura”. A tal proposito, è interessante riproporre la riflessione di alcuni autori secondo cuil’affermazione di cognizioni e relazioni ecologiche richiede dei processi di appren-dimento che vanno costruiti, seppur con un’ottica particolare, anche perl’infanzia56. Quest’opinione considera un pregiudizio la visione del rapporto trabambini e natura influenzata dalla letteratura romantica, secondo cui i fanciulliistintivamente sarebbero più vicini e sensibili all’ambiente. Se ciò per molti aspettiè vero, tuttavia non bisogna incorrere nell’adozione di automatismi pericolosi.Come ha evidenziato Piaget, sebbene i bambini costruiscono dei rapporti menomediati con la natura, perché sprovvisti di sovrastrutture culturali, tuttavia essiritengono che ogni cosa sia funzionale agli individui con una tensione nel trovarecoscienza e intenzione nelle cose, anche quelle inanimate57. Secondo questa visio-ne, una coscienza ambientalista non si forma “spontaneamente” nei bambini, mala scoperta della natura andrebbe indirizzata dagli adulti che li possono guidarenella costruzione di significati, e dunque pratiche, “sostenibili”58. La propensione “animista” dell’infanzia, tuttavia, può essere una leva di fondamen-tale importanza nei processi di educazione ambientale: la comprensione dei ciclinaturali aiuta gli allievi a sentirsi parte della “struttura che connette”; prendersi curadi organismi viventi, inoltre, favorisce un senso di responsabilità e sviluppa un rap-porto emotivo con la natura, in grado di attivare una maggiore sensibilità verso leproblematiche ambientali. L’orto, in tal senso, è uno strumento in grado di infonde-re quel senso del “Sacro” che secondo Bateson nasce dalla consapevolezza deilegami che animano il Mondo, una visione intesa come amore e protezione, chenon si riferisce alla sacralità propria delle religioni storiche, ma che pure in questeè presente come rispetto del Creato e del Creatore59.

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56 Hart Roger A., La partecipazione dei bambini, Unicef, Roma, 2004.

57 Piaget J, The moral development of the child, Free press, New York, 1965.

58 “Perché educare? Per recuperare quell’armonia fondamentale che non distrugge, che non schiaccia, che nonabusa, che non pretende di dominare il mondo naturale, bensì vuole conoscerlo nell’ambito di una accettazione eun rispetto tramite cui il benessere umano è raggiunto nel benessere della natura di cui l’uomo fa parte…”Humberto Maturara, Emotiones y lenguaje en education y politica, Hachette-CED, Santiago del Chile, 1990.

59 “Alla fine, non conserveremo altro che quello che amiamo, e non ameremo altro che le cose che comprendiamo,e non comprenderemo altro che le cose che abbiamo imparato a conoscere”. Baba Dioum, poeta senegalese.

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L’orto come laboratorio di educazione alimentareL’orto scolastico rappresenta un’opportunità per affrontare le tematiche proprie“dell’educazione alimentare” e promuovere sin dall’infanzia un consumo consape-vole e responsabile. Questa proprietà è centrale in diversi programmi di orti didatti-ci finalizzati principalmente a migliorare le abitudini alimentari degli scolari.Nonostante sia noto che la dieta ha un effetto cruciale per la crescita, la salute e lacapacità di apprendimento dei bambini, tuttavia la necessità di un rapporto correttocon il cibo rappresenta un’emergenza anche nelle società del benessere. Si consi-deri, al riguardo, la crescente diffusione dei disturbi del comportamento alimentare(bulimia, anoressia, ecc.) 60. Secondo i dati diffusi dal Ministero della salute, inItalia la stima delle persone in sovrappeso è la più alta d’Europa e risulta pari al45% se si comprendono gli obesi. Non migliore è la situazione dell’universo infan-tile, già all’età di 9 anni il 23,9% dei bambini è in soprappeso e il 13,6% è obeso,con una più elevata prevalenza di obesità nelle regioni del Sud rispetto al Nord epunte del 16% proprio a Napoli61. Le scelte alimentari dei bambini dipendono dall’educazione, dall’ambiente socio-culturale e, purtroppo, dalla pubblicità che promuove prodotti per l’infanzia moltoappetibili, ma che sono ad alto contenuto in grassi e zuccheri, ricchi di additivi econservanti, con diversi effetti nocivi62. È, pertanto, evidente l’importanza dell’edu-cazione alimentare e, parallelamente, delle notevoli potenzialità degli orti scolasti-ci. La loro coltivazione, infatti, consente di diffondere le conoscenze per una sananutrizione, riannodando quell’esperienza diretta tra consumo e produzione deglialimenti venuta a mancare con lo sviluppo della moderna industria agro-alimenta-re. Tra le altre evidenze importanti, in un orto i bambini si accorgono che la perfe-zione dei prodotti vegetali venduti al supermercato non è naturale; ciò li stimola acomprendere e accettare la biodiversità e per suo tramite la diversità più in genera-le, anche sociale, etnica, religiosa.

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60 Già LUCREZIO nel De rerum natura (V,1007-8) sosteneva: Tum penuria deinde cibi languentia leto Membra dabat,contra nunc rerum copia mersat [ Allora la penuria di cibo annientava corpi macilenti, adesso li affoga l’abbondan-za di cose]. L’altra faccia della medaglia sono la fame e malnutrizione che rappresentano il problema centrale percirca 820 milioni di persone nei paesi in via di sviluppo, non per una carenza dell’offerta alimentare, ma per l’in-capacità di accedervi a causa di una penuria dei mezzi necessari a comprare o produrre cibo sufficiente e dibuona qualità. FAO (2007).

61 L’indagine di riferimento è stata promossa dal Ministero della Salute in alcune città campione di Lombardia,Toscana, Emilia Romagna, Campania, Puglia e Calabria.

62 Tra le conseguenze dannose di un’alimentazione poco sana, a parte il sovrappeso, vi sono problemi di carie, irrita-bilità, ansia, allergie, difese immunitarie abbassate, difficoltà di concentrazione ed apprendimento, comportamentiasociali e aggressività.

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Un rapporto equilibrato con l’alimentazione ha anche una forte valenza culturale esociale. È noto, infatti, che il cibo è un prodotto culturale, cui è riconosciuta lacapacità di tessere legami sociali63, nonché un prodotto fortemente identitario.L’alimentazione, infatti, fa parte delle pratiche dirette alla “cura del sé” e, tra lealtre funzioni, svolge un’azione simbolica nella costruzione e comunicazione dellapropria identità64. Il cibo è uno strumento di conoscenza dell’altro e della sua cul-tura.Migliorare il consumo alimentare attraverso la promozione del buon convivio (cumvivere=vivere assieme), pertanto, significa anche incidere sulla capacità dei soggettidi attribuire senso alle pratiche e alle relazioni sociali, limitando l’adozione di unorientamento edonistico-estetico ai consumi alimentari e ai rapporti sociali65.

L’orto come terapiaL’orto è sempre più considerato come uno strumento prezioso nel supporto di per-corsi che affrontano la devianza minorile e alcune problematiche della sfera psichi-ca (in particolare depressione, stress, ansia) e sociale (soggetti diversamente abili).Numerosi studi, infatti, hanno dimostrato che il rapporto diretto con la natura favo-risce il recupero del benessere fisico e psicologico. Su queste evidenze si fonda la”ortoterapia”, traduzione di horticultural therapy, che come disciplina ha iniziato aessere conosciuta una quindicina di anni fa negli Stati Uniti, grazie agli studi dellaAmerican Horticultural Therapy Association – AHTA, già attiva dal 1973.Quest’ultima ha evidenziato come la cura di organismi vivi, svolta individualmentema ancor di più in gruppo, stimola lo sviluppo del senso di responsabilità e disocialità, combatte efficacemente il senso di isolamento e di inutilità in personecon handicap fisici o negli anziani. A livello fisico, ancora, richiedendo un’attivitàmotoria, l’agricoltura migliora il tono generale dell’organismo e contribuisce adattenuare stress e ansia. È stato, poi, provato che la vista di un paesaggio verdeaiuta a sopportare meglio il dolore, la depressione e contribuisce alla ripresa del-l’organismo in fase di convalescenza. Il progetto dell’orto di Napoli, diretto ad alunni particolarmente vivaci, è un buon

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63 Si consideri il tradizionale rituale familiare dello stare a tavola, della cucina di casa, del convivio domestico, deldono e della condivisione del cibo.

64 Cfr. Lupton, D, L’anima nel piatto, il Mulino, Bologna, 1999.

65 La dieta mediterranea spesso è indicata come la via per evitare due rischi estremi, giacché bisogna:Uscire, allora,dal mito di una cucina tradizionale, unica, genuina, tipica, esclusiva, basata sul mito del buon tempo antico chein realtà non è mai esistito. E dal mito di una cucina mondiale, che non esiste se non come negazione. Cfr. Teti V,Il colore del cibo, Meltemi, Roma, 1999.

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esempio delle capacità “tranquillizzanti” della coltivazione. Le attività svolte nellospazio verde sono state in grado di incanalare delle energie che si sentivano repres-se tra le pareti di un’aula, opportunamente convogliate nella cura dell’orto, conl’effetto di sedare gli animi anche degli allievi più irrequieti. Oltre alla funzione terapeutica, gli orti scolastici valorizzano anche le capacitàinclusive dell’agricoltura nel coinvolgimento di soggetti svantaggiati o diversamenteabili, giacché essa consente a ogni individuo di acquisire competenze eautonomia66. Queste proprietà, non a caso, sono alla base dell’agricoltura sociale, praticata daquelle aziende, private o cooperative, che adoperano manodopera “svantaggiata”al fine di accrescerne il benessere e di promuoverne l’inclusione economica esociale67.

L’orto come laboratorio territoriale La coltivazione di un orto rappresenta un’occasione di conoscenza “del proprioterritorio e della cultura locale”, il cui valore è amplificato se si prediligono varietàautoctone, si promuove la differenziazione e l’importanza della salvaguardia dellabiodiversità. La scoperta che la terra non è un corpo inerte, ma è “ricca di vita”, è per i bambiniuna conquista importante e feconda di implicazioni sociali e culturali68. Riconoscere che gli ecosistemi sono delle comunità formate da membri interdipen-denti, legati da relazioni molteplici e dinamiche, infatti, significa superare la “men-talità monoculturale” affermatasi con l’agricoltura industriale69. Quest’ultima èincapace di apprezzare le interconnessioni esistenti tra piante, animali e individuie, quindi, di comprendere il valore delle relazioni di mutuo sostegno che esistono

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66 “L’agricoltura contadina non conosceva i disabili. Tutti erano a loro modo abili, quali che fossero il loro livello cul-turale o le condizioni mentali. Le piante e gli animali non discriminano nessuno, non si voltano dall’altra parte ecrescono sane chiunque le accudisca” Saverio Senni in Acanfora M, Se la fattoria è sociale, AltraEconomia n. 73,Milano, 2006.

67 L’agricoltura sociale rappresenta un campo in espansione anche in Italia, per approfondire l’argomento si veda ilsito www.agrietica.it.

68 La conservazione della biodiversità è entrata a far parte degli obiettivi internazionali con La Convenzione sulladiversità biologica adottata nel 1992, tuttavia a livello ufficiale non si è ancora espressa la dovuta attenzione alruolo che la biodiversità svolge nella vita produttiva, sociale e culturale delle comunità rurali.

69 “La principale minaccia alla diversità deriva dall’abitudine a pensare in termini di monocolture, quelle che io chia-mo monocolture della mente. Le monocolture della mente cancellano la percezione della diversità e insieme ladiversità stessa. La scomparsa della diversità fa scomparire le alternative e crea la sindrome della mancanza dialternative. ... Passare alla diversità come modo di pensare e come contesto in cui agire, libera una molteplicità discelte”. Cfr. Vandana Shiva, Monocolture della mente, Bollati Boringhieri, 2001.

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in natura, così come in società. Gli stessi agricoltori, nel corso del XX secolo, non

hanno manifestato la dovuta cura nei confronti del suolo come organismo vivente,

abbandonando le tradizionali rotazioni agricole con l’adozione dell’uso intensivo

di concimi chimici che, non a caso, non fertilizzano la terra, ma nutrono diretta-

mente le piante.

L’orto, pertanto, può diventare uno strumento di “educazione sociale” attraverso

cui sperimentare una “gestione condivisa della terra”, tale da far maturare negli

allievi l’idea del “bene comune”70.

Si tratta di aspetti particolarmente interessanti dal momento che investono le capa-

cità dell’individuo di relazionarsi in società rispetto a una risorsa vitale, per la

quale, allo stato attuale, è ragionevole parlare di un vera e propria “tragedia della

dissacrazione e mercificazione della terra”71. A ciò si è pervenuti mediante un pro-

cesso che ha definito il passaggio da una concezione ancestrale di “terra sacra e

risorsa identitaria”, all’affermazione di un modello culturale in cui la terra è essen-

zialmente “merce o non luogo”.

In tutte le società tradizionali esiste, seppur declinata in maniera diversa, l’idea di

Pacha mama, e l’osservanza di pratiche ataviche legate a essa e alla sua fecondità,

cui si riconosce un carattere sacro72. Nella terra, inoltre, era radicato il patrimonio

sociale, relazionale e identitario delle comunità; non a caso le condizioni di tra-

smissione e accesso alla terra erano regolate da pratiche comunitarie finalizzate a

preservare i legami sociali e d’identità di una collettività.

Nel modello culturale produttivista, invece, la terra è soltanto uno “strumento di

produzione” con un “valore d’uso!” (che talvolta fa rima con ab-uso) e un “valore

di mercato”. L’affermazione della libertà degli individui di trasformare la terra in

bene commerciale ha richiesto la rimozione dei regimi tradizionali e, assieme a

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70 Per una definizione del concetto di bene comune come bene né pubblico, né privato si veda il lavoro curato daG. Ricoveri, Beni comuni fra tradizione e futuro,EMI, Bologna 2005, che ne adotta un’accezione estensiva: “Unaprima categoria include l’acqua, la terra , l’aria, le foreste e la pesca e cioè i beni di sussistenza da cui dipende lavita….saperi locali, spazi pubblici, biodoversità;…spazi di autorganizzazione delle comunità locali; una secondacategoria comprende i beni comuni globali come l’atmosfera, il clima, gli oceani, la sicurezza alimentare, lapace… su cui non esistono diritti comunitari territoriali; una terza categoria è quella dei servizi pubblici: acqua,scuola, sanità, trasporti…”.

71 Il richiamo è alla celebre “tragedia dei beni comuni” di Garret Hardin usata per sostenere le teorie che promuovo-no la negazione/rimozione dei beni comuni a favore della proprietà privata. Hardin G., The Tragedy of the com-mons, Science n.162, 1968.

72 È indicativa la frase compresa nella lettera inviata dal capo degli amerindiani Duwamish, Seattle, al presidentedegli Stati Uniti nel 1885 che recita: la terra non appartiene all’uomo, ma l’uomo alla terra.

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essi, dei legami sociali che reciprocamente si alimentavano73. Si è affermata, per-tanto, la concezione e la gestione della terra come spazio che “non integra in sé lamemoria” e che, di conseguenza, non è più capace di costruire relazioni, un’ideaprossima al “non-luogo” di Marc Augè. Questi processi si sono parallelamenteaccompagnati all’instaurazione di un regime di sfruttamento integrale della risorsaterra, ecologicamente e socialmente insostenibile.Il prevalere degli interessi individuali (i consumatori) rispetto a quelli collettivi (icittadini), inoltre, ha progressivamente depauperato l’idea di bene comune conce-pito sempre più come somma di interessi egoistici. La delega della cura e gestionedei luoghi pubblici alle istituzioni, per di più, troppo spesso ha determinato proces-si di alienazione e di disaffezione dei cittadini nei loro confronti.A Napoli, in aggiunta, lavorare per l’affermazione di un’idea di “bene comune”assume una valenza tutta particolare dal momento che, generalmente, nel contestopartenopeo res comunis omnium equivale a res nullius o meglio, come accadevanel diritto latino, res nullius est primi occupantis. Un esempio lampante di “que-st’approccio culturale” sono le diffusissime occupazioni e recinzioni del suolo pub-blico. Le stesse edicole sacre, costruite in strada, non di rado sono protette da can-cellate inaccessibili ai più, a testimonianza di una visione privatistica ed escluden-te perfino del culto religioso, che perde così la prerogativa di bene comune. L’esperienza dell’orto scolastico offre, invece, la possibilità di attivare dei processidi identificazione e una maggiore attenzione per il proprio territorio, giacché l’or-ganizzazione dell’orto e la sua cura, anche estetica, consente agli allievi di incideresull’ambiente circostante e di sentirlo “proprio”, ma attraverso una gestione condi-visa. Il valore di quest’esperienza, se ben veicolata, valica i propri confini, fornen-do ai cittadini un esempio positivo nella promozione di processi di recupero diaree degradate. L’orto, infatti, può essere anche “un’occasione di socializzazione”,in grado di offrire momenti d’incontro e di discussione, attraverso cui realizzareforme di volontariato e di solidarietà mediante attività estese a tutto il quartiere,come ad esempio le “Feste dell’orto”. Queste potenzialità sono ben valorizzate se,in fase progettuale, si delinea una mappa concettuale in grado di comprenderecome l’orto si colloca all’interno dei rapporti tra scuola e territorio ed è in grado di

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73 Una tappa significativa di questo processo è rappresentata dalle Leggi sull’enclosure promulgate in Inghilterra tra il1700 e il 1845, che secondo Karl Polanyi rappresentarono l’esproprio dei pastori inglesi costretti a diventare lamanodopera della nascente industria manifatturiera, segnando così l’inizio della creazione del sistema economicomoderno. Cfr. Polanyi, K., La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974 – The Great Transformation, New York,1944<

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“mobilitarne le risorse in modo virtuoso”.In definitiva, coltivare assieme la consapevolezza che la terra, l’agricoltura e il cibosono beni comuni è un primo passo di un percorso di ricostruzione di comunitàconsapevoli del senso e della possibilità di una loro gestione partecipata, perché”vivere lasciandosi penetrare dalla vita del giardino vuol dire condividerlo con chilo abita, presente e passato. Inventa nuove forme chi ha percepito quelle a lui tra-smesse vivendoci dentro, e vivendoci con altri”74.

In conclusione

Coltivare un orto è un processo complesso che, seppur con una forte connotazioneludica, riesce a coinvolgere abilità manuali e conoscenze scientifiche, a promuo-vere un pensiero logico interdipendente, a sviluppare un rapporto di cura verso ilterritorio. Attraverso un orto scolastico, in definitiva, è possibile dare vita a una“comunità che apprende delle relazioni sociali ecologiche”. Le esperienze che possono realizzarsi in un orto, infatti, sono dei veri e propri “vis-suti di connessione”, giacché si creano delle relazioni tra la teoria e la pratica, tragli allievi e l’ambiente con i suoi ecosistemi, ma anche tra gli stessi studenti checoltivano l’orto, tra i bambini e il territorio con i suoi abitanti. Il valore di quest’e-sperienza è tanto più importante in contesti urbani fortemente antropizzati, in cui siha una limitata conoscenza dell’ambiente naturale e dei processi produttivi deglialimenti, laddove i luoghi hanno perso troppo spesso la loro funzione di spazio dicreazione e fruizione di relazioni sociali. Gli orti scolastici rappresentano uno strumento per educare alla complessità e all’e-laborazione di un rapporto equilibrato tra uomo e ambiente, sia attraverso i conte-nuti, sia nei mezzi usati per veicolarli, perché <<La pedagogia non è mai ingenua,essa è uno strumento che trasmette un proprio messaggio>>75.L’approccio pedagogico adoperato nella realizzazione di un orto potrebbe definirsicome l’attivazione di “relazioni di cura”, giacché coltivare un orto significa “pren-dersi cura di” e promuove quell’abitare che <<non è primariamente occupare, mal’avere cura e creare quello spazio nel quale qualcosa di individuale sorge e pro-spera>>76. Si tratta di un concetto di fondamentale importanza, specialmente nel

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74 Michel Conan, Essais de poètique des jardins, Giardini e paesaggio, vol. 10, Casa Editrice Leo S. Olschki, Firenze,2005.

75 Cfr. Jerome Bruner, Il conoscere. Saggi per la mano sinistra, Roma, Armando, 1968.

76 Cfr. Heidegger M., Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976.

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contesto “noncurante” napoletano, dove fenomeni di degrado urbano, sociale eumano si alimentano della mancanza di cura verso il prossimo, verso il contesto,ma anche verso se stessi, perché in fondo in un’epoca di attenzione spasmodicaverso l’estetica di apparenza c’è, paradossalmente, poca capacità di ascolto e con-siderazione dei propri bisogni e del proprio essere.Come sostiene Heidegger <<La cura è quella relazione in cui rappresentandosi almondo e agli altri, ne va di noi stessi, del nostro rapporto con le nostre possibilitàesistenziali, perciò è contemporaneamente cura di sé e cura degli altri>> 77.La definizione di “relazioni di cura” possono, pertanto, contribuire ad attivare unavera e propria rivoluzione paradigmatica in grado di decolonizzare <<l’immagina-rio da categorie di degrado e distruzione, ambientale e sociale, per procedere versoun’ecologia della mente>>78.

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77 Per Heidegger la cura nel suo significato autentico rappresenta “quella possibilità […] che, anziché porsi al postodegli altri li presuppone nel loro poter essere esistentivo non già per sottrarre loro la cura ma per inserirli autentica-mente in essa. Questa forma di aver cura che riguarda essenzialmente la cura autentica , cioè l’esistenza degli altrie non qualcosa di cui essi si prendono cura, aiuta gli altri a divenire consapevoli e liberi per la propria cura”. Cfr.M. Heidegger, op. cit.

78 Cfr. Bateson G, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1984.

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Sitografia

www.agrietica.it.www.ortidipace.org.http://educazione.slowfood.it/educazione/ita/orto.lasso.

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GLI IMMIGRATI NELLA SOCIETA E NELL’AGRICOLTURA ITALIANAMonica Caggiano79

Introduzione

Gli spostamenti della popolazione sono sempre stati un fattore cruciale nell’evolu-zione delle nazioni e delle civiltà. L’Italia fin dall’unificazione ha contribuito note-volmente a questi movimenti: tra la fine del XIX secolo e i primi anni ’20 quasi 15milioni di persone hanno lasciato il Paese per dirigersi verso l’Europa settentrionaleo verso gli altri continenti, con un esodo che ha raggiunto e superato le 800 milapersone nel picco del 1913 (Biggeri, 2008). Di contro la storia dell’Italia comePaese di immigrazione è piuttosto recente. I primi rilevanti movimenti in entrata sisono registrati negli anni ’70, ma i saldi migratori netti sono diventati positivi solonegli anni ’90 trasformando il Paese da esportatore netto a importatore netto dimanodopera80. Da sempre dunque le persone si spostano alla ricerca di condizionidi vita migliori contribuendo in questo modo allo sviluppo dei Paesi dove arrivano.Gli attuali movimenti interessano un’area più vasta dell’Italia che rappresenta solouna delle destinazioni di un movimento più ampio. Secondo il terzo rapportoannuale della Commissione europea (COM(2007) 512 final), l’immigrazione rima-ne il principale fattore della crescita demografica europea e la maggior parte degliStati membri ha un bilancio migratorio positivo81. Dal 2002 il valore del bilanciomigratorio netto dell’Unione oscilla tra 1,5 milioni e 2 milioni di persone, mentrenegli anni ’90 si trattava di valori inferiori al milione di persone. Nel contesto comunitario l’immigrazione assume caratteristiche diverse tra gli Statimembri: il ricongiungimento familiare è una parte considerevole dei flussi in alcuniPaesi, come l’Austria, la Francia e la Svezia, in altri come l’Irlanda, la Spagna, ilPortogallo e il Regno Unito l’immigrazione è ancora strettamente connessa allaricerca di occupazione. Inoltre alcuni Paesi hanno realizzato importanti processi diregolarizzazione come in Spagna, mentre in altri, come Francia, Germania eOlanda, si è optato per processi di regolarizzazione diretti ad alcuni specifici grup-pi di immigrati.

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79 Ricercatrice presso l’INEA (Istituto Nazionale di Economia Agraria)

80 Ci si riferisce qui alla popolazione residente pertanto parte del fenomeno potrebbe essere sfuggito a causa dellacomponente di immigrazione irregolare o clandestina

81 È forse il caso di sottolineare che il rapporto si riferisce solo ai flussi dall’esterno dell’Unione e non consideraanche i flussi intracomunitari

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Nelle realtà che presentano una storia più lunga di immigrazione come la Francia,la Svezia, l’Olanda e il Regno Unito il numero di stranieri residenti è in realtà piùelevato di quello che appare dalla statistiche per via del fatto che molti di lorohanno ottenuto la cittadinanza del Paese ospite. La rapidità della trasformazione daPaese di emigrazione a Paese di immigrazione altera in Italia la percezione dell’in-cidenza del fenomeno che in realtà, sebbene in crescita, rimane piuttosto contenu-to. Questo contribuisce a polarizzare la discussione tra fautori e contrari all’immi-grazione, e a concentrare l’attenzione sulla difesa dei valori e dell’identità culturalenazionale, dimenticando che a condurre le persone in Italia è l’attrazione che l’e-conomia italiana, con le sue luci e le sue ombre, esercita su di loro. I movimenti della popolazione sono un fenomeno globale e come tale andrebbeaffrontato: la diversa velocità con la quale la popolazione cresce nel Nord e nelSud del mondo crea enormi squilibri demografici ai quali i movimenti migratori rie-scono a dare una risposta solo parziale. Infatti, se l’immigrazione può risolvere lacarenza di offerta di lavoro della parte ricca e industrializzata del mondo essa èuna risposta insufficiente alla “crisi demografico-economica del Sud” del mondo(Golini, 2008, pagina 16).

Gli stranieri residenti in Italia

Secondo l’Istat gli stranieri residenti in Italia al 1° gennaio 2008 erano poco menodi tre milioni e mezzo (1.701.817 maschi e 1.730.834 femmine) ovvero circa il 6%della popolazione totale residente. Di questi il 13,3%, poco meno di mezzo milio-ne di persone non sono immigrati ma sono di “seconda generazione” ovvero sononati in Italia ma non hanno la cittadinanza italiana perché figli di stranieri. Rispetto al 2007 si registra un aumento del 16,8% pari a 494 mila unità dovuto inbuona parte al massiccio ingresso di cittadini rumeni (283 mila). Il 47% dei resi-denti stranieri proviene dai Paesi dell’Est europeo e, in particolare, 839 mila, circaun quarto del totale, provengono da Paesi non comunitari e 777 mila dai Paesi dinuova adesione. I flussi provenienti dai Paesi di nuova adesione dal 2005 sono inprogressivo aumento mentre diminuiscono quelli provenienti da altre aree, in parti-colare la Romania è al primo posto nella classifica delle nazionalità di provenienza(tabella 1).La distribuzione dei cittadini stranieri sul territorio italiano è molto disomogenea(Istat, 2008c): l’incidenza dei cittadini residenti – escludendo dunque le presenzenon regolari e quelle temporanee – sulla popolazione totale è massima nel Nord-Est (più dell’8%), di poco inferiore nel Nord-Ovest (7,8%) e nel Centro (7,3%) men-

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tre nel mezzogiorno il valore è molto basso intorno al 2%. In particolare, quasi unquarto degli stranieri residenti è iscritto nelle anagrafi della Lombardia e il 10%nella sola provincia di Milano. Le regioni che presentano un’incidenza più elevatadella media nazionale (5,8%) sono l’Emilia Romagna (8,6%), l’Umbria (8,6%), laLombardia (8,5%) e il Veneto (8,4%). Al contrario, percentuali molto contenute siregistrano nel meridione: in Puglia, in Basilicata e in Sardegna gli stranieri residentipesano per meno del 2% sulla popolazione totale.Per quanto riguarda le dinamiche l’incremento massimo si registra in Calabria e inBasilicata (+44,5% e +42,7%), mentre gli incrementi sono stati più ridotti per leregioni storicamente molto attrattive per l’immigrazione, come la Lombardia(+11,9%) o l’Emilia-Romagna (15%).

Gli stranieri nel mercato nel lavoro italiano

La presenza straniera caratterizza sempre di più l’offerta di lavoro in Italia per que-sta ragione l’Istat ha allargato la base di informazioni statistiche della rilevazione

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Tabella 1: Popolazione straniera residente per sesso e cittadinanza al 1° gennaio2008. Primi 16 paesi

Totale M/F*100Romania 625.278 88,9Albania 401.949 123,6Marocco 365.908 144,9Cina,Rep.Pop. 156.519 111,2Ucraina 132.718 24,3Filippine 105.675 70,9Tunisia 93.601 185,3Polonia 90.218 42,4Macedonia, ex Rep.Jugos. 78.090 135,9India 77.432 148,9Ecuador 73.235 66,2Perù 70.755 64,8Egitto 69.572 239,5Moldova 68.591 50,6Montenegro 68.542 123,9Senegal 62.620 416,8

Europa a 27 934.435 76,2TOTALE 3.432.651 98,3Fonte: Istat, La popolazione straniera residente in Italia – Statistiche in breve, ottobre 2008

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sulle forze di lavoro alla componente straniera iscritta in anagrafe. Questa fontecoglie dunque solo la componente regolare degli stranieri presenti sul territorio;sebbene non sia una fonte esaustiva, è certamente in grado di cogliere le caratteri-stiche e le tendenze di lungo periodo del fenomeno. Dalla rilevazione sulle forze di lavoro emerge che, come negli altri Paesi dove iflussi in entrata hanno preso vigore solo di recente, in Italia i tassi di occupazionedegli stranieri sono più sostenuti e i tassi di disoccupazione inferiori di quelli degliitaliani. Questo risultato dipende da due fenomeni contestuali: la struttura per età,che per gli stranieri è più spostata verso le classi in età lavorative (come si vede intabella 2 quasi la metà dei cittadini stranieri presenti al 1° gennaio 2007 aveva unetà tra i 18 e i 39, fatto rilevante per l’Italia che presenta un elevato processo diinvecchiamento, il più sostenuto in Europa), e la maggiore disponibilità dell’offertastraniera di rispondere alla domanda di lavoro per qualifiche meno attraenti perl’offerta nazionale. Infatti quasi tre stranieri su quattro svolgono attività manuali onon qualificate nonostante i livelli di istruzione piuttosto elevati.

Tabella 2: Cittadini stranieri residenti per classe di età e per ripartizione geografi-ca al 1° gennaio 2007

Istat: Rapporto annuale 2007

Dai dati relativi agli occupati per settore, emerge che l’incidenza complessiva deglistranieri sugli occupati totali è pari al 7,5%, un dato chiaramente in crescita negliultimi anni (tabella 3). Nello specifico dei settori di attività, la maggiore incidenzasi registra per le costruzioni, seguito dal manifatturiero mentre l’agricoltura si trovasolo al terzo posto. Per tutti i settori l’incidenza degli stranieri è più elevata se siconsiderano solo i dipendenti, ma è particolarmente vero per l’agricoltura dovepassa da 6,6 al 13% (tabella 4).

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Composizione percentuale

per classi di età incidenza percentuale sulla

popolazione totale

Totalestranieriresidenti 0-17 18-39 40-64 65 e più

etàmedia 0-17 18-39 40-64

65 e più totale

Nord-ovest 1.067.218 23,6 49,7 24,7 1,9 30,3 10,3 12,1 4,8 0,6 6,8

Nord-est 802.239 23,9 50 24,3 1,7 30 10,7 12,6 5,0 0,6 7,2

Centro 727.690 21,5 48,7 27,2 2,6 31,8 8,5 10,8 5,0 0,8 6,3

Sud 244.088 18,4 48,6 30,3 2,6 33,1 1,6 2,7 1,6 0,3 1,7

Isole 97.687 21,1 45,5 30,4 2,9 32,6 1,7 2,2 1,4 0,2 1,5

Italia 2.938.922 22,7 49,3 25,9 2,1 30,9 6,6 8,4 3,8 0,5 5

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Tabella 3: Occupati totali e occupati stranieri per settore di attività economica(migliaia di unità)

Industria in Agricoltura senso stretto Costruzioni Servizi Totale

2 0 0 6979 5030 1899 15.075 22.983

di cui stranieri 52 320 232 744 1.348% stranieri su totale 5,3 6,4 12,2 4,9 5,9

2 0 0 7928 5048 1950 15.285 23.211

di cui stranieri 52 349 257 844 1.502% stranieri su totale 5,6 6,9 13,2 5,5 6,5

2 0 0 8895 4991 1967 15.558 23.412

di cui stranieri 59 407 286 1000 1751% stranieri su totale 6,6 8,1 14,5 6,4 7,5Fonte: Istat, Rilevazione continua sulle forze di lavoro

Tabella 4: Occupati dipendenti totali e stranieri per settore di attività economica(migliaia di unità)

Industria in Agricoltura senso stretto Costruzioni Servizi Totale

2 0 0 6475 4.268 1.189 10.983 16.915

di cui stranieri 49 298 186 613 1146% stranieri su totale 10,4 7,0 15,6 5,6 6,8

2 0 0 7442 4285 1229 11211 17167

di cui stranieri 49 324 195 701 1268% stranieri su totale 11,1 7,6 15,9 6,2 7,4

2 0 0 8425 4249 1250 11522 17446

di cui stranieri 56 380 209 841 1485% stranieri su totale 13,1 8,9 16,7 7,3 8,5Fonte: Istat, Rilevazione continua sulle forze di lavoro

Tra gli occupati stranieri c’è una maggiore specializzazione nel settore delle costru-zioni e minore nei servizi, ma la distribuzione degli occupati per settore di attivitàeconomica non è drasticamente diversa da quella della popolazione totale (figura1). Maggiori differenze si riscontrano andando più nello specifico delle caratteristi-che del lavoro. A questo proposito, la minore quota di indipendenti è indicativa

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della difficoltà di raggiungere un livello di integrazione tale da essere in grado diavviare un’attività in proprio; d’altro canto l’analisi delle professioni segnala la pre-senza di una forma di segregazione della forza di lavoro straniera che si trova adaccettare occupazioni che presentano un minore livello di appetibilità per gli italia-ni, perché scarsamente retribuiti, pesanti e/o discontinui (Istat, 2008b).

Figura 1: Occupati per settori di attività economica

Fonte: Istat, Rilevazione continua sulle forze di lavoro - Anno 2008

L’agricoltura e l’immigrazioneIl quadro che emerge dalla rilevazione sulle forze di lavoro dell’Istat non assegnaall’agricoltura un ruolo privilegiato rispetto al fenomeno immigratorio che investel’Italia negli anni recenti. Questo contrasta però con la percezione che si ottienegirando per le campagne italiane, soprattutto in certi periodo dell’anno. Un quadrodiverso emerge da una fonte di informazione più specifica, ovvero l’indagine svoltaannualmente dall’INEA presso testimoni privilegiati su base regionale che riguardal’impiego in agricoltura di immigrati extracomunitari82. Secondo questa fonte nel2007 gli immigrati extracomunitari occupati in agricoltura erano 114.000 unità. Sitratta di un dato apparentemente poco coerente con quanto rilevato poco sopradall’indagine sulle forze di lavoro. In realtà però le due rilevazioni hanno universidi riferimento molto diversi: nella rilevazione Istat la popolazione di riferimento èquella degli stranieri iscritti in anagrafe, pertanto sono esclusi sia gli irregolari chegli stagionali. L’indagine INEA è, invece, più ristretta per un verso, perché interessa-

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agricoltura4% industria

21%

servizi67% costruzioni

8%

agricoltura3% industria

23%

servizi58%

costruzioni16%

Occupati totali per settore di attività economica Occupati stranieri per settore di attività economica

82 Maggiori dettagli sulla metodologia dell’indagine sono disponibili sull’Annuario dell’agricoltura italiana dell’Inea

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ta alle caratteristiche della sola componente degli stranieri extracomunitari, piùampia per un altro, perché considera anche chi è presente in maniera non regolaree/o stagionale. Al di la dei valori assoluti, molto difficili da definire per un fenomeno che si evolverapidamente e che, soprattutto, sconta la problematica della volontà delle compo-nenti clandestina e irregolare83 di rimanere nascoste, dall’indagine INEA emergeche l’impiego di immigrati extracomunitari è decisamente molto consistente. Si tratta di un fenomeno che varia molto a livello territoriale: nel Nord, l’impiegorisulta molto elevato in Lombardia e in Veneto e, se si considera in termini relativial totale degli occupati, anche in Valle d’Aosta. Nel Sud spiccano per numerosità laPuglia e la Campania (INEA, 2008).Allo stesso tempo emergono sostanziali differenze territoriali sia nelle attività svoltecome conseguenza della specializzazione produttiva territoriale, che nella qualitàdelle relazioni contrattuali che dipende invece dalle condizioni più generali delmercato del lavoro e dell’economia locale. Guardando alle attività svolte (tabella 5), nel Nord prevale l’impiego nelle coltureortive e nella zootecnia, nel Centro la zootecnia e le colture arboree a frontecomunque, in entrambi i casi, di una certa diffusione in tutte le specializzazioni,mentre nel Sud e, soprattutto nelle isole, appare esserci una forte concentrazionenelle colture arboree e in quelle ortive.

Tabella 5 - Impiego degli immigrati extracomunitari nell’agricoltura italiana perattività nel 2007 (valori percentuali)

Area Zootecnia Colture Colture Vivaismo Colture Altre Totaliortive arboree industriali colture attività

agricole

Nord 22,5 26,8 20,3 18,9 6,5 5,0 100Centro 27,8 13,0 23,1 8,7 13,6 13,8 100Sud 12,3 26,8 37,1 3,3 20,4 0,0 100Isole 8,4 43,7 43,0 5,0 100

Italia 18,8 25,7 28,2 10,6 12,2 4,6 100Fonte: INEA, Annuario 2008

Oltre che nelle attività strettamente agricole, l’indagine mette in evidenza anche unnotevole impiego degli immigrati in attività connesse, in particolare nell’agrituri-smo nel Sud e nella trasformazione nel Nord (figura 2).

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83 Sono clandestini gli stranieri entrati in Italia senza regolare visto di ingresso; sono irregolari gli stranieri che hannoperduto i requisiti necessari per la permanenza sul territorio nazionale (es: permesso di soggiorno scaduto e nonrinnovato), di cui erano però in possesso all’ingresso in Italia.

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Figura 2 - Impiego degli immigrati extracomunitari nell’attività connesse - 2007(numero di occupati)

FoFonte: INEA, Annuario 2008

Altre differenze riguardano la continuità dell’impiego nell’arco dell’anno e la con-dizione contrattuale sia rispetto alla presenza di un contratto formale sia rispettoalla remunerazione. Rispetto alla continuità, la specializzazione produttiva ha unpeso rilevante, determinando un fabbisogno stagionale più o meno elevato.Rispetto alle caratteristiche contrattuali, l’indagine rileva la stagionalità, la presenzao meno di in contratto formale, la remunerazione in linea o meno con gli accordidi sindacali. Sulla base di queste informazioni, incrociando i dati sulle stagionalitàe sulla percentuale di remunerazione sindacale emerge un quadro dicotomico incui in molte regioni del Sud le condizioni offerta appaiono decisamente pocoappetibili (figura 3).Rispetto alle condizioni nel mercato del lavoro degli stranieri extracomunitari lapolitica di immigrazione gioca un ruolo chiave. Infatti la condizione di regolarità omeno, così come la presenza di servizi di assistenza e di iniziative di integrazione,influenzano notevolmente le condizioni di vita e il potere contrattuale degli immi-grati. L’irregolarità espone le persone ad accettare condizioni di vita e contrattualiche altrimenti rifiuterebbero: le difficili condizioni di vita in cui versano gli immi-grati stagionali in alcune realtà del Sud Italia ha indotto alcune organizzazioni

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924 8351.017

183

4.292

2.270

1.368

344

0

500

1.000

1.500

2.000

2.500

3.000

3.500

4.000

4.500

5.000

Nord Centro Sud Isole

Agriturismo e Turismo rurale

Trasf. e Commercializ.

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umanitarie a denunciare l’esistenza di situazioni di “crisi umanitaria” (Medicisenza frontiere, Una stagione all’inferno).In sostanza, la qualità delle opportunità di impiego in agricoltura per gli extraco-munitari sembra differire molto a livello territoriale: in alcune parti del Paese (collo-cate soprattutto al Nord) si tratta di una domanda di lavoro regolare, continua edeconomicamente solida. In altre, dove i processi di accumulazione sono ridotti e,pertanto l’innovazione è lenta e i margini produttivi scarni, le opportunità di lavoroin agricoltura assumono sempre di più forme temporanee e sottopagate. In linea dimassima la dicotomia Nord/Sud corrisponde a differenze nella specializzazioneproduttiva in agricoltura ma anche a condizioni strutturali nell’economia italianache contribuiscono a indebolire il potere contrattuale di alcune componenti delmercato del lavoro.D’altro canto, l’offerta di lavoro da parte degli immigrati non è omogenea perchécorrisponde a progetti di vita diversi: in alcuni casi l’orizzonte è quello del trasferi-mento definitivo o comunque di lungo periodo in altri casi si tratta di un’immigra-zione di passaggio, diretta verso le aree più ricche dell’Europa del Centro-Nord. Inquesti casi le persone sono disposte ad adattarsi a sistemazioni disagiate, a cambia-

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Piemonte

Valle d'AostaLiguria

Lombardia

Veneto

Trentino A.A.Friul i V.G.

Emilia Romagna Toscana

Marche

Umbria

Laz io

MoliseCampania

Sicil ia

Sardegna

Abruzzo

Puglia

Bas ilicata

Calabria

0,0

10,0

20,0

30,0

40,0

50,0

60,0

70,0

80,0

90,0

100,0

0,0 10,0 20,0 30,0 40,0 50,0 60,0 70,0 80,0 90,0 100,0

percentuale a tariffa non sindacale

perc

entu

ale

di s

tagi

onal

i

Figura 3 - Immigrati extracomunitari impiegati in agricoltura, percentuale di con-tratti stagionali e percentuale di contratti a tariffa non sindacale, Anno2007

Fonte: INEA, Annuario 2008

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re spesso occupazione, a lavorare in modo non regolare, pur di avere l’opportunitàdi transitare verso una migliore qualità di vita. L’agricoltura, come l’edilizia, offreloro questa possibilità.L’incontro di queste contrapposte esigenze determina un ruolo degli immigrati inagricoltura piuttosto contraddittorio. In alcuni contesti l’impiego degli immigratirisolve la carenza di offerta di manodopera italiana per lavori discontinui e faticosi,in molti casi il loro contributo come imprenditori rivitalizza un settore affetto dauna scarsa capacità di ricambio generazionale; in altri casi invece sostiene un’eco-nomia asfittica e marginale che in questo modo perde di vista la necessità di rinno-varsi per adeguarsi alla nuova domanda di produzioni qualità e di servizi innovativiai singoli e alla collettività.

Migranti come capitale umano e sociale

Nonostante la difficoltà trovata dagli studiosi nella ricostruzione precisa delle geo-grafie e dell’entità dei fenomeni migratori nell’agricoltura italiana, è innegabile chenel settore primario del Bel Paese la manodopera immigrata costituisce una neces-sità strutturale e determinante. Ben più complesse e rare sono, tuttavia, le analisi di tipo qualitativo volte a com-prendere i profili dei migranti occupati in agricoltura, le loro condizioni di lavoro edi vita, le loro aspirazioni e i loro percorsi. Sarebbe, invece, utile e doveroso riflet-tere in maniera più approfondita sul contributo, reale e potenziale, degli extraco-munitari all’agricoltura italiana in termini non solo di forza lavoro “fisica”, maanche e soprattutto, in termini di capitale umano e sociale, mettendo in luce lavolontà e la capacità del sistema vigente di valorizzarne effettivamente il lavoroattraverso la concreta integrazione dei loro saperi, delle capacità, delle esperienze,delle ritualità, delle reti e via dicendo. Sarebbe auspicabile, in definitiva, analizzareil loro apporto, attuale e prospettico, alle trasformazioni socio-culturali dell’agricol-tura italiana. Una problematica, questa, che potrebbe apparire eccessivamenteambiziosa a chi conosce la realtà del lavoro degli stranieri in agricoltura frequente-mente contraddistinto da fenomeni quali stagionalità, precarietà, invisibilità, irrego-larità, quando non proprio illegalità, sfruttamento, miseria e schiavitù. Il compartoagro-alimentare italiano, che basa la propria competitività sulle produzioni di qua-lità, considerate come il frutto della cultura e della capacità di coltivare i rapporticon il territorio, nei fatti si concilia con un sistema che troppo spesso tollera l’utiliz-zo al ribasso del valore lavoro e non di rado sfocia in un vero e proprio sfruttamen-to disumano e irregolare. Ciò genera chiaramente dei fenomeni di spreco di capita-

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le umano (brain wasting), oltre che di ingiustizia sociale, senza pensare che diversimigranti occupati in agricoltura provengono da un contesto rurale e sono portatoridi competenze specifiche in campo agricolo che potrebbero riutilizzare nel conte-sto italiano, ma anche coloro che provengono da contesti urbani spesso sono por-tatori di altre professionalità (titoli di studio e competenze difficilmente riconosciu-te) che potrebbero giovare comunque allo sviluppo dell’agricoltura nostrana. A questa consapevolezza, tuttavia, talvolta non corrisponde però uno sforzo delleistituzioni e della politica mirante a assicurare delle condizioni di vita e di lavorodignitose. Ciò riflette una dicotomia tra le esigenze dell’economia reale, per cuinumerose aziende e comparti agricoli non riuscirebbero a sopravvivere senza lamanodopera immigrata, e quelle della politica dominante e dell’opinione pubblicaprevalente, che bollano ufficialmente gli immigrati come un problema sociale.Nonostante i lavoratori immigrati siano diventati indispensabili in molti distrettiagricoli, come nel caso delle mele in Trentino, delle fragole nel Veronese, della frut-ta in Emilia Romagna, dell’uva in Piemonte e Toscana, del tabacco in Umbria o delpomodoro in Puglia, le istituzioni preferiscono invece non governare efficacementee seriamente il fenomeno, adottando delle deboli misure di reclutamento che gene-ralmente considerano gli immigrati come forza lavoro provvisoria, temporanea, intransito, con l’effetto di delegarne spesso la gestione al campo dell’irregolarità,quando non illegalità. Alla marginalità economica corrisponde, pertanto, una mar-ginalità sociale e politica. Il tutto contribuisce a rafforzare la posizione di debolez-za della forza lavoro immigrata con l’effetto di renderla più economica, così comeimpone la concorrenza del mercato globale. Si tratta evidentemente di una questio-ne che non riguarda solo il settore agricolo, ma le politiche d’integrazione e acco-glienza più in generale. La criticità della situazione italiana in proposito è statamessa in evidenza anche dal rapporto annuale dell’ILO (Organizzazione interna-zionale del lavoro) per il 2009 sull’applicazione degli standard internazionali dellavoro, in cui si denuncia la violazione della Convenzione sulla promozione dellaparità di opportunità e di trattamento dei lavoratori migranti, ratificata dall’Italia nel1981. Nel rapporto dell’Agenzia dell’ONU si legge <<è evidente e crescente l’inci-denza della discriminazione e delle violazioni dei diritti umani fondamentali neiconfronti degli immigrati in Italia. Nel paese persistono razzismo e xenofobiaanche verso richiedenti asilo e rifugiati, compresi i Rom>>. Il Comitato di espertidell’ILO ha espresso una’’profonda preoccupazione’’ e ha invitato il governo italia-no a prendere <<le dovute misure affinché ci sia parità di trattamento, nelle condi-zioni di lavoro, per tutti i migranti>>, oltre che interventi per <<migliorare, nella

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pubblica opinione, la conoscenza e la consapevolezza della discriminazione,

facendo accettare i migranti e le loro famiglie come membri della società a tutti gli

effetti>>83.

Per quel che concerne poi il settore primario, alle carenze delle politiche migrato-

rie si sommano le caratteristiche di marginalità del lavoro agricolo. Richiamando la

“funzione specchio dell’immigrazione”, di cui parla Sayad, è pertanto doveroso

chiedersi se constatare che il fenomeno migratorio trova uno dei suoi volti più disu-

mani proprio nell’agricoltura, soprattutto nel Meridione, non sia forse sintomatico

delle profonde contraddizioni del settore. I rischi ambientali e sociali dell’agricoltu-

ra intensiva, la carenza di manodopera sia in termini quantitativi, che qualitativi, la

forbice tra costi di produzione e prezzi al consumo sono solo alcuni degli elementi

che contribuiscono a far sì che la manodopera agricola assommi le caratteristiche

tipiche dei lavori delle 5 P destinati agli extracomunitari: Precari, Pesanti,

Pericolosi, Poco pagati, Penalizzati socialmente.

Per valorizzare il contributo dei migranti all’agricoltura italiana, anche in termini

sociali e culturali, bisognerebbe pertanto agire da un lato sulle politiche di acco-

glienza e di inclusione nel sistema dei diritti per gli immigranti e dall’altro interve-

nire sui nodi che caratterizzano il comparto agricolo, assicurandone la giusta reddi-

tività e dignità del lavoro, superando così la marginalità economica che si riflette in

una marginalità sociale e culturale. Si dovrebbero, in definitiva, creare le condizio-

ni per assicurare che il lavoro diventi uno strumento di emancipazione e spazio di

riconoscimento sociale, superando il modello di “integrazione subalterna” (Jabbar,

1998), quando non vero e proprio sfruttamento, che considera gli immigrati come

mera forza lavoro, e riconoscere la complessità delle relazioni che i migranti intes-

sono con il territorio dove risiedono e il settore in cui operano, favorendo così

anche la ricostruzione delle reti sociali in ambito rurale, la diffusione delle compe-

tenze esistenti e la creazione di nuove. Un processo, questo, a cui potrebbe dare

un contributo sostanziale una migliore e diffusa consapevolezza, a tutti i livelli,

delle trasformazioni sociali e culturali in atto in agricoltura, anche riguardo ai

migranti.

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83 Nel rapporto si fa riferimento anche alle dichiarazioni del CERD, Comitato dell’ONU per l’Eliminazione di OgniForma di Discriminazione Razziale, che sempre in Italia ha rilevato <<gravi violazioni dei diritti umani verso ilavoratori migranti dell’Africa, dell’Est Europa e dell’Asia, con maltrattamenti , salari bassi e corrisposti in ritardo,orari eccessivi e situazioni di lavoro schiavistico

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Bibliografia

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Biggeri in ISTAT, 2008a, atti del convegno “La presenza straniera in Italia: l’accerta-mento e l’analisi”, Roma 15-16 dicembre 2005

Golini, in ISTAT, 2008a, atti del convegno “La presenza straniera in Italia: l’accerta-mento e l’analisi”, Roma 15-16 dicembre 2005

ISTAT, 2008b, Gli stranieri nel mercato del lavoro. I dati della rilevazione sulle forzedi lavoro in un’ottica individuale e familiare

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Jabbar A., Confine e identità migranti, in “E’cole”, 60, 1998

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CULTIVAR E RAZZE AUTOCTONE DELLE AREE RURALI: TRADIZIONE E INNOVAZIONE NELLA CONSERVAZIONEE NELL’USOdi Sabrina Giuca84

L’origine dei saperi e dei sapori

Sin dalla sua origine, l’agricoltura contadina è stata custode dei saperi e dei saporidella terra. Da quando, cioè, le prime comunità sedentarie del Neolitico, oltre12.000 anni fa, hanno imparato ad addomesticare gli animali - e a ricavarne carne,latte, uova, lana e pelli - e hanno scoperto che le piante hanno un ciclo e si rigene-rano attraverso i loro semi. La terra, dapprima lavorata con la zappa, poi con l’aratro a mano a un vomere inlegno (6000 A.C.) e, successivamente, con l’aratro a un vomere in ferro adatto aiterreni più compatti, trainato dai buoi (1200 A.C.) e, in seguito, anche dai cavalli(800 A.C.), restituiva frutti sempre più abbondanti, dalla cui manipolazione l’uomocominciò a ottenere pane, olio, vino.Per centinaia di anni l’aratro, strumento agricolo per eccellenza, ha agevolato illavoro della terra, consentendo di produrre oltre la sopravvivenza e di stoccare ilcibo per far fronte alle avversità della natura e dell’uomo, rendendo possibile lanascita di classi sociali e di nuovi mestieri. Il legame che univa l’uomo contadinoagli animali, utilizzati per il lavoro nei campi, per l’alimentazione e il vestiario, perla concimazione della terra, per il trasporto dei prodotti ai mercati, sempre piùdiventava un vincolo di necessità e sussistenza.Cultivar e razze autoctone rappresentano, oggi, il frutto di una selezione operatanel tempo sia dalla natura che dall’uomo: piante e animali si sono evoluti nelleforme e nelle caratteristiche genetiche in modo tale da resistere e adattarsi alledisponibilità offerte dall’ambiente naturale e alle tecniche colturali e di allevamen-to imposte dall’uomo per rispondere alle proprie necessità. Nel tempo, il patrimo-nio di conoscenze, esperienze e tradizioni del mondo contadino è stato, dunque,tramandato di generazione in generazione per il lavoro nei campi e negli insedia-menti e per l’uso ottimale delle varietà e delle specie locali.Per molto tempo l’agricoltura si è basata sulla rotazione biennale e sul maggese,con un ulteriore miglioramento nella capacità di lavorare la terra avvenuto in epocamedievale, con la nascita del primo aratro asimmetrico a trazione animale che, nel

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84 Ricercatrice presso l’INEA (Istituto Nazionale di Economia Agraria)

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tempo, è andato migliorando nelle forme consentendo, con minor fatica per l’uo-mo e l’animale, di smuovere le zolle fino a girarle completamente. Ma, in realtà, leprime innovazioni in agricoltura si manifestano a partire dal XVII secolo, quando lescoperte geografiche, il progressivo sviluppo dei commerci e l’introduzione di spe-cie non autoctone hanno reso possibile adottare nuove tecniche produttive in gradodi migliorare la resa dei terreni. Con la diffusione dei mezzi meccanici - innanzitutto la seminatrice, inventata nel 1701 dall’inglese Jethro Tull, poi la trebbiatrice,in uso nella seconda metà dell’800 -, dei mezzi a vapore come la mietitrice, bre-vettata nel 1849 da James Usher, e dei primi trattori a motore, frutto dello sviluppoindustriale, si realizza un cambiamento epocale del modo di fare agricoltura e dimigliorare la produttività della terra (AA.VV., 2008). Tale cambiamento trova la suamassima espressione nella seconda metà del XIX secolo, quando non solo si diffon-dono nuovi strumenti aratori e migliori sistemi di semina - con l’acquisizione su unmercato più ampio di nuove sementi e nuove piante con elevata produttività - mafanno la loro comparsa i concimi minerali, i fertilizzanti azotati messi a punto daltedesco Justus Von Liebig. L’avvento della moderna società dei consumi, imperniata sull’industrializzazione esullo sviluppo urbano, porta a una nuova dimensione agricola nel XX secolo, con iPaesi industrializzati che, a partire dagli anni ’60, nell’ambito di quella che fu defi-nita la “Rivoluzione verde”, investono in maniera consistente nella ricerca agricoladirettamente sui campi degli agricoltori, per creare nuovi sistemi che portino allamassima resa produttiva. Se facciamo un passo indietro nell’Italia del secondo dopoguerra, lo scenario chetroviamo è quello di un Paese agricolo-manifatturiero con le “campagne alla fame”e una disoccupazione diffusa, conseguenza di una pressione demografica notevolea seguito, anche, della riduzione delle migrazioni verso l’America e verso i Paesidel Centro Europa durante il periodo fascista (Minoia, 2007).Secondo i dati del censimento ISTAT, nel 1931 oltre il 46,8% della popolazioneattiva era impiegato in agricoltura e gli addetti alle manifatture e all’artigianatoerano il 22,4%, ma subito dopo il conflitto mondiale gli occupati nel settore prima-rio erano scesi a 8,6 milioni e il settore agricolo forniva un quarto del prodottointerno lordo (PIL). Il Paese “contadino”, che era stato investito da trasformazionisociali “traumatiche” che avevano portato all’abbandono delle campagne da partedi migliaia di famiglie, si trovò a vivere grandi cambiamenti nelle politiche agrariee nell’uso del suolo con la riforma agraria degli anni ’50, volta a rimuovere lasocietà contadina tradizionalmente associata al latifondo e ai baronati - e legata

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alla diffusione della monocultura - a favore di una classe di contadini proprietari,sullo sfondo delle spinte verso l’industrializzazione e l’urbanizzazione del Paeseche hanno segnato proprio l’esodo dalle campagne. In pieno “boom economico”, a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, mentre esplodeval’Italia “cittadina”, cresciuta e assoggettata a fini urbanistici, industriali e speculativi(e cominciava il degrado ambientale), iniziava la “dissoluzione” dell’Italia agricola(secondo l’ISTAT nel 1970 gli occupati in agricoltura erano scesi a 4 milioni, pocopiù del 20% della popolazione attiva) che, sull’onda della “Rivoluzione verde”,veniva investita da innovazioni meccaniche, chimiche e biologiche - con materialigenetici innovativi - destinate a intensificarsi nei decenni successivi e a rivoluziona-re le tradizionali pratiche agricole.

Il rinnovamento dei saperi e l’omologazione dei sapori

Il cosiddetto ”accanimento agricolo” finalizzato a massimizzare la produttività delsettore primario, ha portato all’. “agricoltura industrializzata”, con sistemi agrono-mici e zootecnici sempre più intensivi, con pochi addetti occupati85, largo impiegodi mezzi tecnici e chimici, uso consistente di macchinari ed energia, ma anchesfruttamento dei suoli e forte inquinamento non solo dei terreni e delle acque maanche dell’aria, per effetto dell’emissione nell’atmosfera di metano, proveniente dazootecnia e risicoltura, e di ossido d’azoto, collegato a fertilizzazioni e deiezionizootecniche (Pettenella, Zanchi, Ciccarese, 2006).Oggi tutto ciò, oltre a peggiorare il degrado ambientale, già retaggio della modernasocietà urbana, ha finito per modificare profondamente non solo la tradizionaleazienda agricola ma l’intera collettività contadina e rurale, con l’inevitabile disgre-gazione della sua organizzazione sociale a vantaggio delle grandi industrie agro-alimentari, che tendono a modificare i prodotti stessi della terra, attraverso la sele-zione e la modificazione delle sementi e delle specie - fino agli organismi genetica-mente modificati (OGM) - per ottenere la massificazione del prodotto e l’omologa-zione del gusto, negando l’origine, anzi rompendo, il legame con il territorio(Dottori, 2007). È pur vero che, attualmente, l’agricoltura e le aree rurali si trovano ad assolverenuove funzioni nella società, in un contesto di operatività multifunzionale che inte-gra l’attività strettamente agricola/produttiva “sul” territorio allo svolgimento di atti-

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85 Il settore agricolo copre, attualmente, una quota del 5% del PIL ed anche se negli ultimi cinquanta anni la produ-zione lorda vendibile è più che raddoppiata, gli addetti del settore primario sono scesi a poco più di 1 milione,pari al 4,0% della popolazione attiva (dati ISTAT, 2008).

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vità “per” il territorio, da quelle turistico-ricreative e paesaggistiche a quelle cultu-rali, didattiche e sociali, queste ultime declinate in molteplici sfaccettature, dall’in-clusione lavorativa di soggetti svantaggiati (persone con disagi psicologici, ex tossi-codipendenti, ex detenuti, disoccupati di lungo periodo) all’erogazione di serviziterapeutici per portatori di handicap e anziani. Ma le aree rurali restano, comun-que, profondamente segnate dalla perdita delle tradizioni, dei mezzi e degli usilegati alla lavorazione della terra (come l’aratura a trazione animale o la concima-zione con il bestiame). L’utilizzo delle risorse genetiche a scopi scientifici e/o a scopi commerciali rischiadi portare in secondo piano proprio la caratterizzazione locale e la conservazionedella memoria storica, con la progressiva sostituzione delle varietà tradizionali (conil rischio della loro estinzione) - non più in grado di sostenere il confronto sul mer-cato - con cultivar uniformi e standardizzate a livello di sementi e metodi di colti-vazione. Gli esperti hanno calcolato che dall’inizio del XX secolo 3/4 della diver-sità genetica delle colture agricole italiane è scomparsa e si è passati da centinaiadi migliaia di specie vegetali a un numero esiguo di varietà di grano, riso, mais,patata, a partire da una ristretta base genetica; oggi si coltivano solo 8 varietà difrumento duro delle 400 esistenti cento anni fa, mentre almeno 1.500 varietà difrutta sono praticamente considerate a rischio di estinzione. Le trasformazioni che si sono susseguite nell’ambiente rurale e nelle popolazionicontadine, hanno modificato addirittura il concetto di “bestiame” che, nella versio-ne originaria dell’art. 2135 del C.c. del 1942 definiva tutti gli: «animali legati alfondo o da un rapporto di necessità (lavoro) o di complementarietà (alimentazionee concimazione)». Un tempo, dunque, l’allevamento di bestiame comprendeva igrandi mammiferi - bovini, equini, caprini e ovini - ed era attività agricola principa-le mentre l’allevamento degli animali più piccoli, c.d. di “bassa corte” (prevalente-mente oche e galline), qualora fossero alimentati con prodotti di scarto della colti-vazione o con prodotti naturali del fondo, era considerata attività agricola connes-sa. Poi i buoi non hanno più tirato l’aratro, i cavalli, i muli e gli asini non hanno piùtrasportato i prodotti al mercato, le capre e le pecore non hanno più concimato ilterreno ed è venuta meno la necessità di mantenere a prato porzioni di podere peralimentare il bestiame (Germanò A., 2006). In tal senso, si è verificata la “rottura”tra allevamento e coltivazione del fondo, con il passaggio giuridico del concetto diallevamento del “bestiame”, come descritto all’art. 2135 del C.c. del 1942, al con-cetto di allevamento degli animali descritto nel nuovo testo dell’articolo 2135 delC.c., riscritto - conformemente all’evoluzione del concetto stesso di ruralità - dal

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Decreto legislativo del 18 maggio 2001, n. 228, di “Orientamento e modernizza-zione del settore agricolo”. Nel nuovo testo dell’art. 2135, al primo e secondocomma si legge: «È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività:coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse. Percoltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono leattività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessa-ria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utiliz-zare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine». Dunque, dalla lettura congiunta dell’art. 2135 del C.c. e delle norme successive, sene ricava che l’allevamento riguarda tutti quegli animali che in una ricostruzionesociologica dell’ambiente agrario possono comunque essere allevati non solo sulfondo; dunque, si possono allevare suini, conigli e cavalli di qualsiasi razza (anchele razze da sport), cani - ma solo quando l’agricoltore possiede più di 5 fattrici chegenerano almeno 30 cuccioli l’anno - api e bachi da seta, struzzi - anche se l’alle-vamento di questi uccelli non idonei al volo e, dunque, paragonabili ai nostri ani-mali di “bassa corte”, è di tradizione contadina sudafricana e non originaria delnostro Paese - e poi rane, mitili, crostacei, ostriche e molluschi, insomma animaliche vivono in acque dolci, salmastre o marine ma, certamente, non i coccodrilliperché, oltre a essere carnivori non hanno niente a che vedere con l’allevamento ditradizione contadina (si pensi, invece, ai cani presenti sul fondo agricolo per aiuta-re la movimentazione delle greggi)!

La conservazione dei saperi e dei sapori

Nel tempo, dunque, alcune razze ad alto rendimento non autoctone, in grado difornire prodotti uniformi, maggiormente richiesti dal mercato, si sono diffuse sulnostro territorio soppiantando le razze originarie delle aree rurali; gli esperti hannocalcolato che negli ultimi sessanta anni si sono estinte, tra gli animali da alleva-mento, 5 razze di bovini, 3 di caprini e ben 10 tra ovini e suini. Il Ministero dellepolitiche agricole, alimentari e forestali ha redatto un elenco delle razze localiminacciate di estinzione, ovvero quelle razze con un numero di femmine riprodut-trici inferiore alla soglia stabilita a livello comunitario86: si tratta di 71 razze di ovinie caprini, 26 di bovini, 23 di equini e 6 di suini. Se collochiamo questi numeri nella dimensione più ampia del ricchissimo patrimo-

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86 Cfr. Regolamento CE n. 1698/05 e art 27 del regolamento CE n. 1974/06 riguardo alle misure di conservazionedelle razze e delle varietà locali a rischio di estinzione nell’ambito della programmazione per lo sviluppo rurale2007-2013.

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nio italiano di specie animali e vegetali, con oltre 57.000 specie animali (più di unterzo dell’intera fauna europea) e 9.000 specie di piante, muschi e licheni (addirit-tura la metà delle specie vegetali del continente), poiché almeno 5.000 tra animalie piante sono considerate endemiche, ovvero esclusive di un dato territorio, oltre lametà è a rischio di estinzione87. A partire dalla metà del secolo scorso, l’utilizzo - e il consumo - del suolo per effet-to delle attività umane, hanno decretato una forte riduzione della biodiversità,soprattutto delle zone umide e dei boschi di pianura che, si calcola, si siano ridottidel 90% nell’arco di un millennio. Attualmente è presente nel nostro Paese soltantoil 16% della vegetazione “potenziale” stimata e ogni anno vengono sottratti all’am-biente naturale almeno 240.000 ettari del suolo. Confrontando i dati ISTAT relativiai censimenti 1990 e 2000, si può constatare che in 10 anni sono andati perduti3,1 milioni di ettari di suolo, di cui 1,8 milioni erano utilizzati a fini agricoli.La necessità di conservare la natura e mantenere la diversità biologica in specifichearee non solo è fondamentale per l’equilibrio ecologico ma è indispensabile per lacostituzione di una banca genetica irrinunciabile per il progresso agricolo, biologi-co e medico. Tutto ciò è ancora più impellente se lo si inserisce in un contesto più ampio, conte-stualmente al delicato tema degli organismi geneticamente modificati. Con unapolitica frammentata tra gli Stati UE e posizioni altalenanti all’interno della stessaCommissione europea - che vanno dalla cautela della DG Ambiente al sostegnoagli OGM da parte delle DG Commercio e Agricoltura - in una cornice di evidenteritrosia dei consumatori nei confronti di questi prodotti, le norme UE in materia diorganismi geneticamente modificati affrontano, da un lato, i potenziali rischi perl’ambiente e la salute umana (norme per la coltivazione e l’impiego di OGM neiprodotti alimentari e nei mangimi) e, dall’altro, il diritto di scelta dei consumatori(norme sul commercio e l’etichettatura dei prodotti contenenti, costituiti o ottenutia partire da OGM). Queste norme, tuttavia, non prendono nella dovuta considera-zione tutta una serie di implicazioni - sociali, economiche, politiche ed etiche -connesse al loro impiego e addirittura trascurano il problema di fondo, ovveroquello di accertare se l’agricoltura convenzionale e/o biologica e quella transgeni-ca possano convivere, soprattutto nelle tante regioni - come quelle italiane - i cuiterritori sono caratterizzati da migliaia di piccole e medie aziende con un tessuto

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87 In Italia, attualmente, sono a rischio di estinzione il 68% dei vertebrati terrestri, il 66% degli uccelli, il 64% deimammiferi, il 76% degli anfibi, il 69% dei rettili, l’88% dei pesci d’acqua dolce, il 15% della flora vascolare e il40% delle piante inferiori, ovvero alghe, funghi, licheni, muschi e felci.

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poderale estremamente polverizzato. Non è un caso che diverse Regioni e centi-

naia di Comuni di diversi Stati membri, tra cui l’Italia88, abbiano scelto - pur andan-

do contro alle disposizioni comunitarie - di escludere o di limitare fortemente le

coltivazioni OGM sul proprio territorio, maturate proprio in seguito al rinvenimento

di partite di sementi e di piante contaminate.

Dunque, alla luce di tutte queste considerazioni, che cosa si sta facendo, oggi, per

la salvaguardia e la conservazione della biodiversità e, specificatamente, delle

varietà e delle razze agricole locali89? Si tratta di un compito che - non solo nell’im-

maginario collettivo - si è sempre identificato come esclusivo degli agricoltori.

Come si è detto, infatti, le comunità contadine hanno coltivato e allevato, nel

tempo, piante e animali che più si adattavano allo specifico ambiente pedo-climati-

co, per soddisfare le abitudini alimentari e i bisogni dell’agricoltore e della sua

famiglia ed erano, dunque, alla base non solo della loro sopravvivenza ma delle

stesse economie rurali. Dunque, le comunità contadine hanno tramandando di

generazione in generazione le pratiche agricole e zootecniche e gli usi e i consumi

delle specificità vegetali e animali del loro territorio.

Di più: le comunità locali - agricoltori e comunità contadine - sono riconosciute

titolari del patrimonio delle risorse genetiche e, pertanto, hanno diritto alla prote-

zione delle conoscenze tradizionali e a partecipare in maniera equa alla ripartizio-

ne dei benefici (Farmer’s Rights); lo dice chiaramente l’art. 8 della Convenzione

sulla biodiversità di Rio de Janeiro90, l’impegno multilaterale adottato a livello inter-

nazionale nell’ambito della Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo svi-

luppo (UNCED) che si è svolta nella città brasiliana nel 1992. In tale contesto,

l’ONU ha potuto calibrare il percorso sulla tutela ambientale - che aveva avviato a

livello internazionale un ventennio prima con la Conferenza sull’Ambiente Umano

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88 La posizione italiana è quella di difendere la filiera agro-alimentare libera da OGM (“tolleranza zero”) a comincia-re dalle sementi, ancora in attesa di una regolamentazione UE. La legge 5/05 ha dettato il quadro normativo mini-mo per la coesistenza tra le colture transgeniche, convenzionali e biologiche, previa predisposizione di pianiregionali che evitino la contaminazione tra le diverse colture, in ottemperanza al principio comunitario della coe-sistenza che ha lasciato agli Stati membri la discrezionalità di stabilire norme più restrittive; la Conferenza delleRegioni ha approvato nel 2007 le Linee guida per le normative regionali di coesistenza tra colture convenzionali,biologiche e geneticamente modificate.

89 «In agricoltura la diversità biologica rappresenta un sottoinsieme della diversità biologica generale e si componedella diversità genetica intesa come diversità dei geni entro una specie animale, vegetale e microbica, della diver-sità di specie, riferita al numero di popolazioni vegetali, animali, in produzione zootecnica e selvatici, e di micror-ganismi e della diversità degli ecosistemi ossia della variabilità degli ecosistemi presenti sul pianeta Terra (Pianonazionale sulla biodiversità di interesse agricolo, MIPAAF, 2008)».

90 La Convenzione sulla biodiversità è stata ratificata in Italia con la legge 14 febbraio 1994, n. 124.

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(Stoccolma, 1972) - su tematiche prioritarie: la salvaguardia del territorio e delleforeste, lo sviluppo sostenibile, la biodiversità, i cambiamenti climatici. Contestualmente, l’Unione europea - che aveva modificato con l’Atto unico euro-peo del 1986 il suo Trattato istitutivo inserendo formalmente l’ambiente tra le com-petenze comunitarie - proprio nel 1992, con il Trattato di Maastricht, ha individua-to la promozione di una crescita sostenibile e rispettosa dell’ambiente quale finalitàprioritaria per l’UE, riconoscendo la necessità di una maggiore integrazione trapolitiche produttive e di tutela. Nell’ambito della riforma della PAC, inoltre, l’UEha previsto un regime specifico di aiuti (Regolamento CEE n. 2078/92) finalizzato apromuovere, tra l’altro, l’estensivizzazione delle produzioni vegetali e dell’alleva-mento bovino e ovino e forme di conduzione dei terreni agricoli «compatibili conla tutela e con il miglioramento dell’ambiente, dello spazio naturale, del paesaggio,delle risorse naturali, del suolo, nonché della diversità genetica». Dopo aver definito gli obiettivi settoriali per il settore agricolo nella Strategia comu-nitaria per la diversità biologica (COM 1998 42 def.), l’UE concretizza, con ladirettiva 98/95/CE, la necessità di perseguire interventi di salvaguardia delle specievegetali minacciate da erosione genetica mediante sistemi di conservazione in situche utilizzano le tecniche agronomiche della tradizione rurale. Con questo provve-dimento, l’UE ha cercato di proporre una regolamentazione per rispondere all’esi-genza di conservare la biodiversità nei campi, creando il concetto di “varietà daconservazione” - strettamente legate al bioterritorio e al mantenimento dello stesso- e di “varietà amatoriali” (delocalizzate); tale possibilità, tuttavia, non ha presoforma perché le norme attuative non sono mai state elaborate dal legislatore euro-peo e le bozze di direttive in materia sono in discussione da tempo nel ComitatoPermanente Sementi della DG Agricoltura. Da ultimo, con la rivisitazione del Piano di azione sulla biodiversità (COM 216 del22 maggio 2006) presentato nel marzo 2001, la Commissione europea si è postal’obiettivo di arrestare la perdita della biodiversità entro il 2010, rafforzando lemisure per assicurarne la conservazione e la disponibilità per l’uso con riguardo, inparticolare, ad habitat e specie selvatiche; mentre sul piano degli aiuti finanziari, ilPiano Strategico Nazionale (PSN) e i Piani regionali di sviluppo rurale (PSR) per ilperiodo 2007-2013, promuovono la diffusione di sistemi agro-forestali ad alto valo-re naturalistico e sostengono le misure per un’agricoltura ecocompatibile che man-tenga e consolidi “attivamente” gli attuali livelli di biodiversità (Iannolino, 2008).Dunque, a ben guardare, gli impegni assunti dagli Organismi internazionali,dall’Unione europea e dai singoli Stati membri, poi tradotti negli anni seguenti in

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molteplici iniziative legislative, di ricerca, di programmazione e di gestione del ter-ritorio, se non hanno eliminato le minacce alla conservazione della natura e delladiversità biologica, di certo hanno decretato una razionale e sistematica presa dicoscienza globale per arginare tale fenomeno. Fondamentale è stato il Protocollo di Cartagena sulla Biosicurezza (che l’Italia hafirmato nel maggio 2000) perché rappresenta il primo strumento attuativo dellaConvenzione sulla Diversità Biologica del 1992 e si propone come strumento pro-grammatico in funzione di altri accordi internazionali come quello sui diritti di pro-prietà intellettuale attinenti al commercio (TRIPs) gli elaborati dell’OrganizzazioneMondiale della proprietà intellettuale (WIPO), l’Organizzazione mondiale per ilcommercio (WTO)e il Trattato Internazionale sulle Risorse genetiche perl’Alimentazione e l’Agricoltura della FAO. Proprio nel Trattato sulle risorse genetiche del 2001, la FAO focalizza il tema dellabiodiversità agricola e ribadisce - all’art.9 - l’enorme contributo che gli agricoltori ele comunità contadine di tutto il mondo hanno dato e continuano a dare alla con-servazione e allo sviluppo delle risorse genetiche e - in epoca assai recente, ovveronel 2007 - la FAO si è impegnata a fermare l’erosione della diversità del patrimoniozootecnico e a supportarne l’uso sostenibile, adottando il Piano d’Azione Globaleper le risorse genetiche animali. In Europa sono scomparse circa la metà dellerazze che esistevano all’inizio del Novecento, mentre quasi il 20% delle razzebovine, ovine, suine, equine e avicole della Terra sono attualmente a rischio d’e-stinzione: «molte razze a rischio di estinzione presentano caratteristiche uniche chepotrebbero essere utili nell’affrontare cambiamenti climatici ed epidemie del bestia-me. Senza le capacità di adattamento dei sistemi di produzione agricoli - è l’appel-lo lanciato dalla FAO - si rischia una perdita di diversità genetica a causa dell’utiliz-zo di un numero limitato di maschi riproduttori». Un appello affinché venga predisposto un sistema di allarme preventivo sullo statodei terreni per agire in tempo contro le minacce di erosione, inquinamento e perdi-ta della biodiversità, è stato recentemente lanciato dal Parlamento europeo, nellaRisoluzione del 23 febbraio 2009 sulla sfida del deterioramento dei terreni agricolinell’UE. Il Parlamento sollecita maggiori fondi per la prevenzione e la ricerca, maanche politiche agricole nuove, adatte alle condizioni mediterranee e allo sviluppodi colture locali, in tal senso, il Parlamento riconosce il ruolo fondamentale dellerisorse citogenetiche, al fine di adeguare le attività agricole ai cambiamenti dellecondizioni climatiche, e invita la Commissione e gli Stati membri a presentare pro-grammi che promuovano la conservazione e lo sviluppo delle risorse citogenetiche

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sia tramite gli agricoltori sia attraverso le piccole e medie aziende vivaistiche, ricor-rendo al secondo pilastro della PAC.

Tradizione e innovazione nella conservazione e nell’uso di cultivar erazze autoctocne italiane

A livello nazionale, il Decreto legislativo n. 212 del 2001 ha previsto l’istituzionedi una sezione del Registro Nazionale che comprenda le “varietà da conservazio-ne” individuate «tenendo anche conto di valutazioni non ufficiali e delle conoscen-ze acquisite con l’esperienza pratica durante la coltivazione». Il DPR n. 322 del 9maggio 2001 si propone di regolamentare lo scambio fra agricoltori della sementedi varietà da conservazione; al riguardo, l’Unione europea ha definito i parametrientro cui gli agricoltori possono legittimamente riprodurre in azienda le varietàiscritte al catalogo ufficiale e in Italia, ad esempio, il 10% delle sementi di frumen-to duro e il 30% delle sementi di frumento tenero sono riprodotte in azienda. Oggi,però, i requisiti in materia di qualità delle sementi e le norme di proprietà intellet-tuale rendono i semi sempre più dei prodotti commerciali standardizzati (Benozzo,2004; Bocci, 2007); Velvée (1993) già da tempo sostiene che «la biodiversità nonabita più le campagne, quantomeno quelle inserite nella filiera agro-industriale» el’agricoltura è ormai destinata a diventare una qualsiasi altra attività economica delsistema capitalistico e in questo passaggio l’agricoltore - non più contadino ma“imprenditore agricolo” - «acquistando beni e tecnologia prodotte altrove ha persola capacità di saper leggere e interpretare il proprio ambiente» (Bocci, 2007). Ciònonostante, il mercato delle sementi certificate si attesta, attualmente, intorno al50% del seme (dati della Federazione internazionale dell’industria cementiera),affiancato dalla presenza di sementi non iscritte al catalogo ufficiale e spesso defi-nibili come varietà locali o tradizionali; in Italia, ad esempio, il 20% delle sementidi erba medica proviene da sementi non iscritte al catalogo ufficiale (l’industriasementiera le definisce “illegali”).In considerazione del fatto che le sementi attualmente disponibili sul mercato nonsoddisfano le esigenze degli agricoltori (Deléage, 2004) e al fine, anche, di indivi-duare il sistema legislativo e il regime di proprietà intellettuale più adatti per riavvi-cinare gli agricoltori alle sementi, si sono recentemente sviluppate in alcuni Paesieuropei le Reti sementi contadine91. Le Reti, formate da gruppi di agricoltori in pre-valenza biologici o comunque non legati alla filiera agro-industriale, intendono

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91 In Francia la Réseau Semences Paysannes (www.semencespaysannes.org), in Spagna la Red de Semillas (www.red-semillas.info) e in Italia la Rete semi rurali (www.semirurali.net).

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rivendicare la centralità degli agricoltori e dei loro saperi nel conservare, coltivare esviluppare la biodiversità agricola (Almekinders, Hardon, 2007). Ad ogni modo, diverse Regioni italiane si sono attivate per tutelare le risorse autoc-tone animali e vegetali con apposite leggi regionali - alcune in vigore da oltre undecennio - e rappresentano, oggi, l’unico esempio operativo in Europa a livello diterritorio di origine (bioterritorio). Le norme regionali tutelano la conservazione insitu delle specie, razze, varietà, cultivar, popolazioni, ecotipi e cloni originari delterritorio regionale oppure in esso introdotti da almeno mezzo secolo e ormai inte-grati tradizionalmente nell’agricoltura e nell’allevamento di quel territorio; ma tute-lano anche le varietà locali attualmente scomparse dal territorio regionale e conser-vate ex situ nelle cosiddette “banche del germoplasma” degli orti botanici, degliallevamenti e dei centri di ricerca situati anche in altre Regioni o in altri Paesi,molto spesso per volontà della Reti semi rurali ma anche di altri soggetti di naturaprivatistica (RARE, AIAB, Civiltà Contadina, Slowfood). Per le risorse genetiche autoctone vegetali le Regioni hanno operato, innanzi tutto,il censimento e la caratterizzazione varietale delle cultivar a rischio di erosionegenetica o addirittura di estinzione e, a seguito del riconoscimento di un interessegenerale alla loro tutela dal punto di vista economico, scientifico o culturale, lehanno inserite nei Repertori Regionali e ne hanno decretato la conservazione insitu (tramite i c.d. “agricoltori/coltivatori custodi”) ed ex situ. In seguito, sono statimessi in atto strumenti (programmi di miglioramento genetico, attività di moltipli-cazione tramite innesto, ecc.) per valorizzare e diffondere nuovamente sul territoriole antiche varietà e gli ecotipi locali (finalizzati all’ottenimento, ad esempio, di pro-dotti di nicchia), avviando specifici progetti in collaborazione con le agenzie regio-nali di sviluppo agricolo e gli istituti di ricerca che spesso hanno coinvolto anzianiagricoltori per la ricerca sulle vecchie varietà e giovani imprenditori per il recuperoproduttivo di tali varietà. Ad esempio, la Comunità montana del Casentino, inProvincia di Arezzo, ha promosso la diffusione di cultivar locali da frutto tramiteconcessione gratuita di piantine prodotte nel vivaio Cerreta di Camaldoli: prece-dentemente erano sono state censite, caratterizzate e inserite nei RepertoriRegionali ben 145 accessioni di melo (45 varietà), 70 accessioni di pero (30varietà), 24 accessioni di ciliegio (13 varietà) e 1 accessione di pesco e tutti i datiraccolti (fenotipici, genetici, etnobotanici, fiitosanitari, ecc.) sono stati elaborati einseriti in un data-base informatizzato (Segantini, 2008).Specificatamente per le risorse genetiche animali, i censimenti condotti in Italianegli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, hanno fornito dati utili, raccolti negli Atlanti

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del consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR); tuttavia in alcuni casi i dati hannogenerato confusione sulla nomenclatura, sulla diffusione e sulla numerosità deicapi, quest’ultima non sempre verificata sul campo (Fortina, 2008). Le prime misu-re di conservazione a livello internazionale prendono corpo negli anni ’90 con l’e-lenco FAO delle razze (WWL) e, nell’ambito della rete europea di informazione eosservazione ambientale, con la documentazione scientifica e tecnica nazionalemessa a punto dalle strutture di ricerca del National Focal Point italiano e basatasull’analisi del rischio di base FAO (grado di rischio di estinzione). A partire dalnuovo millennio, con l’adozione di nuove misure di conservazione che originanodalle disposizione comunitarie, in particolare dai regolamenti sul sostegno allo svi-luppo rurale, dove le razze zootecniche a limitata diffusione e il loro sistema diallevamento pastorale trovano ampio spazio, la valutazione dello stato di rischioviene effettuata tenendo conto anche delle principali associazioni italiane che svol-gono - su incarico istituzionale o volontariamente92 - attività finalizzate al migliora-mento morfologico, genetico e funzionale delle razze animali allevate in Italiaattraverso la gestione dei Libri Genealogici. Tuttavia, l’unica finalità definita ai finidella strategia della salvaguardia delle razze a rischio di estinzione - che trovanocollocazione nei Registri Anagrafici nazionali e nella lista UE delle razze protette -è l’incremento numerico dei capi (infatti la definizione amministrativa di razzazootecnica a limitata diffusione si rifà alla consistenza della specie), senza maiprendere espressamente in considerazione il valore specifico della singola razza eil suo contributo alla diversità genetica. Le iniziative a favore del patrimonio zoo-tecnico a rischio di estinzione messe in atto negli anni, hanno spesso avuto uncarattere “individualista” a beneficio di una singola razza, contribuendo all’odiernasituazione di disomogeneità del livello di salvaguardia delle razze autoctone; inmolti casi, inoltre, le misure adottate sono risultate inefficaci per i pochi fondimessi a disposizione o perché gli allevatori non sono stati informati o non sonostati in grado di applicare le misure di salvaguardia della razza. Ad esempio, il set-tore zootecnico legato all’allevamento caprino in territorio alpino italiano risulta incostante crescita numerica da un paio di decenni ma «questo fenomeno è legatoalla recente diffusione di realtà intensive/convenzionali che utilizzano razze selezio-nate, piuttosto che all’espansione di allevamenti pastorali più adatti a utilizzarerazze caprine locali che potrebbero offrire una maggiore garanzia per un ottimalerapporto di sostenibilità verso il territorio montano» (Brambilla, 2008).

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92 L’Associazione Nazionale Pastorizia (AssoNaPa), le Associazioni Provinciali Allevatori (APA), l’Associazione italia-na per la tutela, salvaguardia e valorizzazione delle razze autoctone a rischio di estinzione (RARE).

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Alla luce di tutte queste considerazioni, Fortina93 ha proposto di scegliere le razzeda tutelare sulla base di più parametri: non solo quello classico del grado di minac-cia (numerosità e trend della popolazione) ma anche nuovi parametri, quali il valo-re economico attuale e futuro, il valore paesaggistico, storico e culturale, il valorescientifico, le caratteristiche e le unicità genetiche e quelle di interesse locale. In talsenso Fortina (2008) sottolinea che la richiesta di progetti per il recupero dellerazze minacciate, può provenire tanto dalle Università e dagli Enti di ricerca per lostudio dell’unicità genetica, quanto dai piccoli e medi allevatori, i primi intenzio-nati ad allevare la razza dei padri e dei nonni, i secondi interessati alla razza daallevare in plein air o al pascolo brado. Anche i trasformatori interessati all’otteni-mento di un prodotto fortemente tipico e gli agriturismi che intendono allevare unarazza autoctona per offrire prodotti locali, possono farsi promotori di richieste perla salvaguardia delle razze locali. Inoltre, è possibile promuovere le attività assistite con gli animali che, in un concet-to di azienda agricola multifunzionale, rientrano nell’ambito dell’agricoltura socia-le, inserita per la prima volta tra le azioni chiave dell’Asse 3 delle linee guida delPiano Strategico Nazionale (PSN) per lo sviluppo rurale per il periodo 2007-2013.Nel richiamare l’attenzione sulle razze asinine siciliane a rischio di estinzione - l’a-sino pantesco, presente in soli 80 esemplari, l’asino grigio o Ferrante di cui non esi-stono stime ufficiali ma di cui si ipotizza la presenza di circa 200 capi e l’asinoragusano in purezza, più consistente su territorio nazionale (1.800 capi) - Iannolino(2008) osserva che «il successo delle misure di conservazione della biodiversitàdipende dal ruolo “attivo” che le razze locali assumono all’interno del sistema agri-colo e sociale di un territorio»; i progetti promossi dall’Istituto SperimentaleZootecnico per la Sicilia sono articolati in una serie di iniziative all’insegna dellarivalutazione di una animale quasi dimenticato con molte connessioni con l’agri-coltura sociale: oltre all’utilizzazione del latte per l’alimentazione umana per scopiterapeutici o per la produzione di prodotti cosmetici, i progetti prevedono: l’onotu-rismo, il recupero delle tradizioni e lo sviluppo delle aree rurali; l’onoterapia e lariabilitazione di soggetti a rischio; l’onodidattica, l’onocomunicazione e gli scopiricreativi; la tutela del paesaggio e la promozione del territorio e dell’ambiente. IlComune di Castelbuono, in provincia di Palermo, da diversi anni utilizza gli asiniper molte di queste attività e, in particolare, per la raccolta differenziata e per laconsegna della posta, offrendo un’opportunità di inserimento nel mondo del lavoro

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93 Riccardo Fortina, Dipartimento di Scienze Zootecniche dell’Università di Torino e presidente RARE.

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ai soggetti svantaggiati.Il Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, tenuto conto della neces-sità di coordinare le numerose iniziative “privatistiche” e istituzionali94 e con loscopo di fornire le linee guida per preservare e valorizzare le risorse genetiche diinteresse agrario, forestale e zootecnico a rischio di estinzione a tutti i soggetti chesi propongono per la loro tutela, ha pubblicato, il 14 febbraio 2008, il Piano nazio-nale sulla biodiversità di interesse agricolo. Il Piano si colloca nel contesto piùampio del Piano Strategico Nazionale (PSN) per lo sviluppo rurale - e dei PSR - peril periodo 2007-2013, che ha segnato un concreto cambiamento di rotta delle poli-tiche agricole che, negli anni, «hanno privilegiato un mercato indirizzato all’omolo-gazione dei sapori a discapito dei prodotti locali» (Iannolino, 2008) decretando, perlunghissimo tempo, il disinteresse per il patrimonio zootecnico locale a favoredelle razze cosmopolite. Il Piano nazionale sulla biodiversità di interesse agricolo descrive alcune iniziativericonosciute prioritarie a livello nazionale: la costituzione del Comitato permanen-te per le risorse genetiche coordinato dal Ministero; l’istituzione dell’anagrafe dellevarietà e razze locali e delle iniziative a essi dedicate; la fissazione di standard qua-litativi di rischio di estinzione o erosione genetica. Naturalmente, tutte le varietàlocali «devono essere correttamente identificate attraverso una caratterizzazionebasata su una ricerca storico-documentale tendente a dimostrare il legame con ilterritorio di provenienza e le caratteristiche varietali che questo ha favorito neltempo, e una caratterizzazione morfologica, quando possibile, anche molecolare ogenetica».Nell’ambito delle strategie di mantenimento della competitività delle risorse geneti-che locali, il Piano elenca le possibili azioni specifiche: 1) il sostegno diretto agliagricoltori/allevatori attraverso le misure dei PSR o specifiche azioni locali; 2) l’in-serimento delle popolazioni autoctone in sistemi zootecnici sostenibili, orientati aproduzioni tipiche e ad alto valore aggiunto; 3) la caratterizzazione della qualitàdei prodotti e loro promozione in sintonia con il bioterritorio di produzione; 4) lavalorizzazione dei materiali selezionati in funzione della commercializzazione deiprodotti tipici ottenuti.Le operazioni di conservazione delle risorse genetiche in agricoltura sovvenziona-bili dalle Regioni attraverso i PSR comprendono: a) azioni mirate volte a promuove-re la conservazione in situ ed ex situ, la caratterizzazione, la raccolta e l’utilizza-

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94 Regioni, Corpo forestale dello Stato, Consiglio per la Ricerca e Sperimentazione in Agricoltura, Consorzio per laSperimentazione, Divulgazione ed Applicazione di Biotecniche innovative, Centro Nazionale Ricerche.

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zione delle risorse genetiche in agricoltura, nonché la compilazione di inventari; b)azioni concertate volte a promuovere, tra gli organismi competenti degli Stati mem-bri, lo scambio di informazioni in materia di conservazione, caratterizzazione, rac-colta e utilizzazione delle risorse genetiche in agricoltura nell’UE; c) azioni diaccompagnamento che consistono in azioni di informazione, diffusione e consu-lenza con la partecipazione di organizzazioni non governative e di altri soggettiinteressati, corsi di formazione e preparazione di rapporti tecnici. Nell’ambito della Misura 214 “Pagamenti agroambientali” dei PSR, le Regioni pos-sono concedere un sostegno agli agricoltori/allevatori “custodi” della biodiversitàesclusivamente per: a) allevare razze animali locali originarie della zona e minac-ciate di abbandono95; b) preservare risorse genetiche vegetali che siano naturalmen-te adattate alle condizioni locali e regionali e siano minacciate di erosione geneti-ca; c) ulteriori impegni per conservare le risorse genetiche in agricoltura. Enti eagenzie pubbliche beneficiano dei contributi per la conservazione ex situ e per lealtre azioni mirate, concertate e di accompagnamento, anche attraverso Progetticomprensoriali integrati poliennali.Dall’analisi della misura 214 “Pagamenti agroambientali” dei 21 PSR condottadalla Rete Rurale Nazionale96 per conto del Mipaaf, è emerso che 19Regioni/Province Autonome (90% del totale) hanno previsto all’interno della misu-ra almeno un intervento relativo alla salvaguardia del patrimonio di razze animalie/o varietà vegetali autoctone minacciate di abbandono e/o di erosione genetica;mentre il sostegno per la conservazione delle risorse genetiche è stato inserito in 13PSR (62% del totale). L’azione relativa all’allevamento di razze animali locali originarie della zona eminacciate di abbandono è stata inserita in 17 PSR (80%), 9 dei quali prevedonodue tipologie di intervento: il sostegno agli allevatori delle razze minacciate diabbandono e il sostegno alla conservazione delle risorse genetiche ex situ, i cuibeneficiari sono Enti e agenzie pubbliche (quest’ultimo intervento è stato inseritoda 4 Regioni in un Progetto comprensoriale integrato).L’azione relativa alla tutela delle varietà vegetali autoctone minacciate di erosionegenetica è stata inserita in 13 PSR (62%), 10 dei quali hanno previsto due tipologiedi intervento: il sostegno alla coltivazione di almeno una delle varietà vegetaliautoctone a rischio di erosione genetica e il sostegno per la conservazione dellerisorse genetiche vegetali, i cui beneficiari sono Enti e agenzie pubbliche (anche in

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95 Cfr. l’Elenco delle razze locali minacciate di estinzione redatto dal Mipaaf nell’ottobre 2007.

96 Cfr. www.reterurale.it.

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questo caso, quest’ultima azione è stata inserita da 4 Regioni in un Progetto com-prensoriale integrato). In totale i Progetti comprensoriali integrati, il cui sostegno è erogato ai beneficiari(Enti e agenzie pubbliche) sulla base di progetti poliennali, sono stati attivati in 6PSR e hanno come obiettivi specifici la caratterizzazione, il recupero e la raccoltadelle risorse genetiche animali e vegetali e, specificatamente, l’aumento e la diffu-sione delle conoscenze in materia di biodiversità.

Valorizzazione e promozione dei saperi e dei sapori

Riguardo, infine, alla caratterizzazione della qualità dei prodotti autoctoni (adesempio un’antica varietà di frutta o di vite, un formaggio esclusivo di una razzacaprina alpina, ecc.) e alla loro promozione in sintonia con il bioterritorio di pro-duzione, occorre tener conto che produrre secondo le metodiche autentiche/stori-che, a partire dal sistema di coltivazione e di allevamento (pastorale tradizionale),garantisce l’identità vera del prodotto “tipico” perché è espressione di un’autentica“identità agricola/pastorale” in un rapporto di continuità territoriale o culturale; la“rivisitazione” della metodica di produzione, per consentire la produzione in con-testi contadini e di allevamento non tradizionali, invece, sminuisce il prodotto“tipico”, riconducendolo a semplice prodotto “locale”, anche se ottenibile conlavorazioni artigianali (Brambilla, 2008). Si possono riconoscere almeno quattro elementi che conferiscono tipicità al pro-dotto (Giuca, 2008): 1) la localizzazione geografica, in quanto le condizioniambientali dell’area di coltivazione o allevamento imprimono al prodotto caratteri-stiche non riproducibili; 2) le metodiche di lavorazione, che sono tradizionali eartigianali con l’utilizzo di materie prime locali; 3) la memoria storica, ovvero ilprodotto è direttamente collegabile alla storia e alle tradizioni del luogo di produ-zione; 4) le qualità organolettiche e nutrizionali del prodotto, strettamente connes-se ai criteri precedenti, che conferiscono a esso gusto, genuinità e unicità. Come fare per valorizzare questi elementi e renderli percepibili al consumatore?Sicuramente comunicandoli, ovvero divulgando il plus-valore del prodotto tipicodell’agricoltura e della zootecnia di uno specifico territorio, rispetto a un altro pro-dotto appartenente alla stessa categoria merceologica. Ciò si colloca in un contestopiù ampio di cambiamento delle sensibilità dei consumatori e dei cittadini, piùattenti alla qualità, alla sicurezza e al contenuto etico e sociale dei prodotti; d’altrocanto, la politica agricola nazionale si sta sempre più indirizzando alla valorizza-zione e alla difesa del made in Italy agro-alimentare, alla garanzia della qualità

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organolettica e igienico-sanitaria dei prodotti, alla garanzia della loro tracciabilità etrasparenza a partire dall’etichetta, adottando spesso misure più restrittive di quellepreviste a livello UE.Poiché le produzioni ottenute da varietà vegetali autoctone e da razze locali spessosono prodotti delle microfiliere aziendali, “a filiera corta”, questi vengono commer-cializzati per la maggior parte all’interno della medesima fattoria o in punti orga-nizzati da uno o più operatori, nelle fiere o nelle città. La vendita diretta da partedegli agricoltori - già disciplinata dal d.lgs. 228/01 - trova oggi spazio nei mercatiai quali hanno accesso le imprese agricole operanti nell’ambito territoriale ovesono istituiti detti mercati, i c.d. farmers’ market (D.M. 20/11/2007; legge 296/06,art. 1, comma 1065). Si tratta di una realtà che sta crescendo sotto l’impulso dell’a-griturismo e della propensione della popolazione urbana ai prodotti genuini dellaterra e della campagna e diversi centri urbani si stanno facendo promotori di questispazi.Le esperienze di filiera corta e, in generale, tutte le forme di vendita diretta97 in unalogica di recupero e valorizzazione delle tipicità del territorio, all’insegna dellacreazione di circuiti “corti” di produzione/consumo o di produzione/trasformazio-ne/consumo, basati su un rapporto stretto con i consumatori (ad esempio con iGAS98), si configurano come uno strumento nei processi di sviluppo rurale all’inter-no di strategie di promozione del territorio e dei prodotti tipici a esso strettamentelegati; tali strategie rappresentano, per i piccoli produttori in particolare, un’oppor-tunità per migliore il loro posizionamento strategico e, al tempo stesso, ne facilita-no l’inserimento nelle reti socio-istituzionali, ad esempio per la fornitura al sistemadella ristorazione locale di qualità. Il principio dell’origine, ovvero del legame assoluto con il territorio, è l’unico vali-do nell’identificare un prodotto agricolo, poiché ne valorizza il territorio e le comu-nità che vi abitano e che hanno contribuito all’evoluzione di una determinata qua-lità/specie (Dottori, 2007). Già da un paio di decenni l’Unione europea ha istitu-

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97 Oltre alla vendita diretta in azienda e nei farmers’ market, si citano: la vendita a negozi specializzati, a spacciaziendali, a comunità, a ristoranti “tipici”; outlet di prodotti agricoli gestiti in forma diretta o associata in specificiambiti territoriali; vendita on-line; vendita su catalogo.

98 I GAS (Gruppi di Acquisto Solidale) sono formati da consumatori che, partendo da un approccio critico al consu-mo, applicano il principio di equità e solidarietà ai propri acquisti, scegliendo i fornitori sulla base della qualitàdel prodotto e dell’impatto ambientale (prodotti locali, alimenti da agricoltura biologica o integrata, imballaggi arendere, ecc). Cfr. www.retegas.org.

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zionalizzato la certificazione dell’origine dei prodotti agricoli e agro-alimentari,partendo dal principio che tali prodotti devono soddisfare gli stessi requisiti e devo-no rispettare gli stessi obblighi normativi in un mercato che muove verso la globa-lizzazione. Così, l’UE ha riconosciuto, quale elemento di differenziazione, la qua-lità legata all’origine geografica (legame con il territorio), alla tradizionalità del pro-cesso produttivo e al talento dell’uomo, regolamentando i prodotti a denominazio-ne di origine (DOP/IGP)99 e, contestualmente, ha riconosciuto la qualità legataall’impiego di pratiche ecocompatibili rispettose dell’ambiente e della salute del-l’uomo, regolamentando la certificazione dei prodotti ottenuti da agricoltura biolo-gica100 e incentivando l’utilizzo di questi prodotti e di quelli ottenuti da agricoltu-ra101 integrata nell’ambito delle misure agro-ambientali della PAC.Ciò nonostante, ogni realtà contadina vive oggi le contraddizioni di legislazioniche sembrano favorire l’agro-industria (Dottori, 2007): HACCP102, tracciabilità, con-trolli per i prodotti a denominazione di origine, certificazioni di prodotti biologici,legislazione europea relativa alla PAC, marchi e disciplinari di qualità. Negli ultimianni l’ampia attività legislativa dell’Unione europea103 ha avuto lo scopo di miglio-

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99 Un prodotto agricolo o alimentare (ad esclusione del vino ma solo fino al 1° agosto 2009, quando entrerà in vigo-re la riforma del settore vitivinicolo - regolamento CE n. 479/2008) originario di una regione, di un luogo determi-nato o, in casi eccezionali, di un paese può ottenere la DOP (Denominazione di Origine Protetta) quando «lecaratteristiche sono dovute essenzialmente o esclusivamente ad un particolare ambiente geografico, inclusi i fattorinaturali e umani, e la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avvengono nella zona geografica delimita-ta» o la IGP (Indicazione Geografica Protetta) quando «una determinata qualità, la reputazione o altre caratteristi-che possono essere attribuiti all’origine geografica e la cui produzione e/o trasformazione e/o elaborazione avven-gono nell'area geografica determinata». Cfr. regolamento CEE n. 2081/92, poi abrogato e sostituito dal regolamen-to CE n. 510/2006.

100 L’agricoltura biologica rappresenta un sistema di produzione agricola, vegetale e animale, che tende a minimiz-zare l’impatto umano sull’ambiente, operando nel modo più naturale possibile in modo da contribuire alla soste-nibilità dell’eco-sistema. Cfr. Regolamento CE n. 2092/91 abrogato e sostituito dal regolamento CE n. 834/2007in vigore dal 1° gennaio 2009, completato per la parte tecnica dal regolamento CE n. 889/2008.

101 A livello comunitario non esistono regole cogenti ma indicazioni programmatiche su questo tipo di produzioni; idisciplinari di produzione integrata si caratterizzano per l’impiego delle tecniche di lotta biologica, per le fortilimitazioni nell’uso di fertilizzanti chimici e per il divieto dell’uso di diserbanti chimici residuali.

102 Il sistema di autocontrollo HACCP (Hazard Analysis Critical Control Point) - introdotto dalla direttiva 93/43/CEEnelle industrie alimentari ed esteso al settore primario e alla produzione di mangimi con il reg. CE n. 178/02 -consente di evidenziare nella filiera produttiva i possibili rischi, individuarne i punti critici e prevedere per ognu-no di essi modalità di controllo tali da prevenirli. Dal 1° gennaio 2006, come dispone il reg. CE n. 852/04, tuttigli operatori della filiera agro-alimentare, compresi gli agricoltori, sono tenuti a dotarsi di un Manuale di correttaprassi igienica e rispettare le norme della metodologia HACCP

103 A partire dal Libro Bianco sulla sicurezza alimentare del 2000 e con il regolamento CE n. 178/02, la UE ha adot-tato un approccio globale, integrato e scientifico dell’intera catena alimentare “dai campi alla tavola”, con misuree strumenti nuovi che ruotano intorno ad una serie di concetti-chiave volti a garantire la sicurezza alimentare: ilcontrollo di filiera; la rintracciabilità dei percorsi degli alimenti, dei mangimi e dei loro ingredienti; la responsabi-lizzazione del produttore; l’informazione nei confronti del consumatore.

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rare gli standard sanitari e igienici nell’intera catena alimentare e di ripristinare,dopo varie emergenze sanitarie, la fiducia dei consumatori, finendo per sovrappor-re la qualità, nelle disposizioni normative, alla sicurezza e all’igiene degli alimen-ti104. Appare quanto mai difficile accettare la logica delle certificazioni di qualità appli-cate ai prodotti agro-alimentari industriali, mentre sembra quanto mai necessariogarantire il legame diretto con il territorio in una certificazione utile e responsabilein cui venga dichiarato come si lavora la terra, quali sono i rapporti con il lavoro eil capitale, come vengono trasformati i prodotti. In tal senso, occorre individuare un “disciplinare di produzione” che tenga contodell’ambiente di coltivazione o di allevamento, dei metodi tradizionali di produzio-ne, delle caratteristiche genetiche degli animali interessati, delle cultivar e dellerazze autoctone. Le produzioni così ottenute:

1) possono essere individuate dalle Regioni come Prodotto agro-alimentare tradi-zionale (d.lgs. 173/98) e inserite nell’elenco istituito presso il Mipaaf se le meto-diche di lavorazione, conservazione e stagionatura, riconosciute in deroga allanormativa UE (norme igienico-sanitarie), risultano consolidate da almeno 25anni. L’elenco, da ultimo aggiornato dal DM 16 giugno 2008, conta ben 4.396prodotti con caratteristiche davvero uniche e irripetibili in qualsiasi altro luogo,come la Salsiccia di Capalbio, le Formaggette di Capua, i Manicotti diMirandola, il Formaggio di fossa, la Soppressata cilentana, il Caciocavalloabruzzese, le Friselle pugliesi, il Farro umbro, il Lonzino di fico dell’anconetanoe la Giuncata del grossetano;

2) possono ottenere un Contrassegno regionale che segnala che i prodotti proven-gono da varietà locali a rischio di estinzione;

3) possono essere collegate ai prodotti tipici di parchi e aree naturali limitrofi inse-riti nell’Atlante dei prodotti tipici dei parchi italiani105 che utilizzano cultivar erazze autoctone.

Sul fronte della certificazione, è importante, dunque, valorizzare il sistema legatoalle razze e alle varietà locali che faccia leva sui seguenti elementi: territorio, pro-

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104 Proprio sul tema della qualità dei prodotti agricoli nella politica comunitaria la Commissione Europea ha avviatouna consultazione pubblica il 15 ottobre 2008 (Libro verde sulla qualità dei prodotti agricoli - COM 2008 641) alfine di suscitare un dibattito sul ruolo delle norme di commercializzazione per i prodotti agricoli, sul futuro svi-luppo delle indicazioni geografiche e sui numerosi sistemi di certificazione della qualità dei prodotti alimentari.

105 Progetto del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare con la collaborazione di Slow Food,Legambiente e Federparchi (www.atlanteparchi.com).

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duzione, trasformazione, cultura, identità, attraverso strumenti di valorizzazionespecifici e mirati. Ad esempio, attraverso l’uso del toponimo, ovvero di un nomeentità geografica (nazione, regione, provincia, città, monte, lago, fiume, podere)che a livello individuale, come noto, è vietato: infatti, il nome di una zona, indi-cando la provenienza di un certo territorio costituisce patrimonio comune di tutti iproduttori di quel determinato luogo i quali hanno diritto a usarlo (Germanò,2006). L’utilizzo della denominazione di origine DOP/IGP di cui si è accennato, con riferi-mento a materie prime che provengono da varietà e razze autoctone di un determi-nato territorio, trova i punti di forza nella difesa delle produzioni locali, delle tipi-cità e delle tradizioni e nella capacità di fare sistema nel tessuto produttivo locale;si tratta, oltre tutto, di un segno distintivo garantito dalla stessa Unione europea106

che autorizza l’uso della denominazione e del marchio. I disciplinari di produzioneper i prodotti DO/IGP, identificano i diversi attori della filiera e i flussi materialidalla materia prima al prodotto finito mentre il controllo da parte di organismiaccreditati avviene in tutti i livelli della filiera (produzione, trasformazione, confe-zionamento, commercializzazione). Tuttavia, i costi particolarmente alti di certificazione per le DOP/IGP e le modalitàdi commercializzazione del prodotto certificato, che spesso scontano l’assenza diun’adeguata strategia relativa sia alla gestione del prodotto a marchio nella fase diproduzione e certificazione, sia all’immissione di questo sul mercato, scoraggianoin particolar modo i piccoli produttori. Una strategia efficace ed efficiente è prope-deutica a una reale valorizzazione del prodotto, così da produrre un valore aggiun-to superiore all’incremento di costi, diretti e indiretti, derivanti dalle procedure dicontrollo e certificazione previste dalla regolamentazione comunitaria.In alternativa, può essere conveniente ricorrere all’utilizzo di un marchio collettivopubblico o privato per le produzioni che provengono da varietà e razze autoctonedi un determinato territorio, quale segno idoneo a trasmettere un messaggio checomprende più elementi: la localizzazione geografica, il richiamo alla terra, la rile-vanza del suolo e del clima nella determinazione delle qualità di gusto e di profu-mo del prodotto agricolo. Il marchio collettivo, che si configura per la separazione tra uso e titolarità del mar-chio (d.lgs. 30/05), è promosso da Regioni, Enti locali, Enti Parco, Associazionipubblico-private (Consorzi, Consorzi d’area, Cooperative) e assolve una funzione

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106 In Italia, inoltre, i prodotti DOP e IGP delle aree montane hanno la possibilità di fregiarsi della menzione aggiun-tiva “Prodotto nella montagna”, previa iscrizione ad uno specifico albo presso il MIPAAF (legge 289/02, art. 85).

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di garanzia di qualità del prodotto, ad esempio garantisce che quel prodotto è rea-lizzato con materie prime provenienti da varietà vegetali e specie animali locali,secondo tecniche tradizionali. Il marchio collettivo pubblico, nel quale non possono essere usati toponimi, attestasoprattutto il metodo di produzione e può essere: 1) un marchio regionale, istituitocon legge regionale anche per più categorie merceologiche di prodotto per identifi-care produzioni agricole locali soprattutto ottenute da programmi di agricolturaintegrata; 2) un marchio istituito con provvedimenti delle Amministrazioni locali edi cui sono titolari le Camere di commercio per identificare le produzioni agricoletipiche dei territori di Province, Comunità montane, Comuni e altri Enti locali.Il marchio collettivo pubblico-privato o privatistico, nel quale possono essere usatitoponimi, attesta soprattutto l’origine geografica e può essere: 1) un marchio d’area,ovvero un marchio dei consorzi d’area pubblico-privati, localizzati in una zonadelimitata per attività esterne di promozione e vendita di prodotti di imprese con-sorziate tramite un ufficio comune; 2) un marchio dei Consorzi di tutela dei prodot-ti tipici, affidato in gestione in seguito a legge nazionale ai consorzi riconosciuticon decreto del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali; 3) un mar-chio di proprietà di organizzazioni o soggetti privati quali consorzi di imprese (adesempio Consorzio Chianti classico) e cooperative.In alcuni casi, gli Enti territoriali che hanno realizzato i marchi collettivi, per pro-muovere sia le produzioni da agricoltura integrata che quelle tipiche, oltre ad adot-tare strategie di marketing territoriale, emanano appositi bandi per la concessionedi contributi a favore degli operatori che adottano tecniche di produzione secondoil sistema certificato dal marchio collettivo di natura pubblica; non sempre l’aiutoviene concesso al singolo produttore, ma viene collocato in una dimensione collet-tiva (associazioni di produttori, consorzi, cooperative), nell’ambito di progetti locali(ad esempio, Consorzi d’area, Gruppi di Azione Locale/Iniziativa comunitariaLeader) fino a una dimensione più ampia a livello territoriale o di filiera (distrettirurali e agro-alimentari, contratti di filiera e di distretto, Patti territoriali, Progetti difiliera nell’ambito dei Piani di sviluppo rurale). Dunque non solo DOP/IGP, ma prodotti a marchio collettivo possono rappresenta-re un’opportunità per le produzioni che utilizzano materie prime provenienti davarietà e razze autoctone, ma la scelta del percorso di certificazione dell’origine edella tipicità non sempre si rivela accessibile, a causa di molteplici fattori, oltre aicosti, che vanno dall’estrema frammentarietà delle filiere produttive, alle ridottedimensioni delle aziende di prodotti tipici con scarsa redditività, ai limiti alla com-

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mercializzazione nel caso di quantità ridotte - soprattutto per piccoli trasformatoridi tipo artigianale - alla localizzazione a volte decentrata.

Conclusioni

Oggi, l’agricoltura rappresenta un presidio fondamentale del territorio e del gusto,l’unico baluardo (Dottori, 2007) per la salvaguardia di beni collettivi, territori epaesaggi agricoli e per preservare la memoria storica e culturale, le conoscenze, imestieri, le arti e le tradizioni eno-gastronomiche.Le cultivar e le razze autoctone delle aree rurali sono, dunque, patrimonio colletti-vo di saperi, tecniche e consuetudini del quale sono titolari le comunità rurali; essesono espressione di un forte legame tra economia e cultura locale, valorizzano lerisorse endogene, rappresentano una base occupazionale, si traducono in prodottitradizionali riconosciuti persino “espressione del patrimonio culturale” del Paese(DM 19 aprile 2008) e contribuiscono alla tutela della salute umana, traendo origi-ne da un’agricoltura sana, naturale e sostenibile. Le risorse genetiche di interesse agrario, forestale e zootecnico assolvono, inoltre,al ruolo multifunzionale dell’agricoltura, contribuendo al mantenimento del pae-saggio agrario e alla salvaguardia della biodiversità, alla conservazione delle tradi-zioni e alla valorizzazione del territorio rurale, caricandosi anche di valenze socialie culturali.Come si è avuto modo di descrivere, l’erosione di questo patrimonio comporta laperdita di identità culturale e di abilità contadine tramandate di generazione ingenerazione che minaccia le stesse economie rurali.I limiti strutturali e culturali delle imprese e delle filiere e la scarsa attività di coor-dinamento del sistema a livello delle istituzioni nazionali, rappresentano le princi-pali problematiche. Si ravvisa quanto mai urgente la necessità di norme attuative didisposizioni comunitarie e nazionali per una effettiva valorizzazione delle varietà erazze locali, una maggiore coerenza tra attività legislative -se si punta alla tuteladella biodiversità ha senso permettere che un bene comune come l’acqua possaessere privatizzato a scopi commerciali come prevede la recente legge 133/2008,art. 23 bis - e una maggiore coerenza tra le diverse attività di caratterizzazione,catalogazione e conservazione delle risorse genetiche vegetali e animali, con ilrafforzamento del coordinamento nazionale tra le Regioni e tra queste e le istituzio-ni scientifiche nazionali.Nei documenti triennali di programmazione economica e finanziaria delle Regioni,

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si fa spesso richiamo, tra gli obiettivi strategici, alla qualificazione delle iniziative dipromozione e valorizzazione delle produzioni agro-alimentari e del territorio rura-le, con particolare attenzione ai meccanismi di filiera e all’associazionismo ingenerale, nonché all’incremento del numero di marchi di origine per i prodottiregionali. Più specificatamente, gli Assessorati agricoltura delle Regioni, adottanoannualmente le linee di indirizzo, orientamento e priorità per la promozione deiprodotti agricoli, agro-alimentari, zootecnici e biologici dei propri territori; sarebbeopportuno che tali linee, che si inseriscono anche nel contesto degli interventistrutturali per lo sviluppo rurale e nei programmi regionali per la montagna, tenes-sero adeguatamente conto della tutela, del miglioramento, della moltiplicazione edella valorizzazione delle razze e delle cultivar autoctone, secondo un approcciosistemico al settore, con la formazione di sinergie e collaborazioni tra soggetti avario titolo coinvolti: Stato, Regioni, istituzioni scientifiche, soggetti privati, agricol-tori, allevatori, trasformatori.Occorre, inoltre, un’adeguata assistenza tecnica e un’opportuna divulgazione, for-mazione e informazione finalizzate alla conoscenza della biodiversità agricola eforestale, oltre a efficaci campagne di comunicazione che puntino alla cultura eall’identità e a significative azioni di valorizzazione della produzione e trasforma-zione; tali campagne e azioni potrebbero affiancarsi o essere ricompresse in quellegià proposte da Regioni, Enti locali, Enti Parco e Camere di Commercio, Industria,Artigianato e Agricoltura (CCIAA) a favore dei produttori che adottano una politicadella qualità. Servirebbero, infine, strumenti di valorizzazione specifici e mirati diinserimento dell’azienda e/o dei prodotti non solo nei programmi di valorizzazioneregolamentati e promossi dalle istituzioni ma anche nei programmi di valorizzazio-ne promossi da altri soggetti (Associazioni di categoria, Presidi del gusto SlowFood, Progetto “Filiera corta” Terra Madre, ecc.).Naturalmente, forme di finanziamento dedicate all’adozione di sistemi di certifica-zione delle produzioni agricole e mutui agevolati per le colture, messe a disposi-zione dal sistema creditizio privato, potrebbero diversificarsi sulla valorizzazione diantiche varietà e razze locali.

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