ISTITUTO COMPRENSIVO “D’AOSTA” - icdaosta.edu.it · Occhiali e lenti da vista Consegnati al...
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ISTITUTO COMPRENSIVO “D’AOSTA” Tutti gli usi della parola a tutti, non perché tutti siano artisti, ma perché
nessuno sia schiavo (Rodari)
LE SEDIE DELL’UMANO
Percorso Shoah 2018.2019
II UA Tra vecchie sedie al tempo dei dialoghi
Documento per i docenti che celebreranno in questi giorni la Shoah in
tutte le sezioni e in tutte le classi e per i docenti e gli alunni convocati
per la Cerimonia ufficiale.
Premessa metodologica. Al fine di aiutare
docenti e genitori nel difficile compito di rendere
consapevoli i ragazzi del momento storico della
Shoah, abbiamo scritto questi suggerimenti, che
tentano un’operazione di rivisitazione storica,
fornisco documenti difficili da trovare, offrono
immagini e infine una piccola ma importante
antologia letteraria su cui lavorare. La scheda,
quindi, intende essere una guida per i docenti e
gli alunni di tutta la scuola.1
Essa è composta di due parti: la prima contiene
alcuni suggerimenti per le sezioni e le classi dei
vari ordini di scuola, che si cimenteranno nello
studio operativo della Shoah, la seconda riguarda
la cerimonia ufficiale, che tradizionalmente è a
cura delle seconde classi della scuola media e delle quarte classi della scuola primaria.
In particolare la Cerimonia Ufficiale tradizionale sarà caratterizzata dalla condivisione
di un cammino e non dovrà certo affidarsi a tristi performance offensive della memoria
stessa della Shoah. I ragazzi che vi parteciperanno dunque non dovranno esibirsi, ma
solo testimoniare, secondo gli strumenti didattici e le tecniche apprese, il lavoro svolto
nelle settimane precedenti il 27 gennaio 2019.
1I docenti potranno proporre modifiche e aggiungere idee e contributi alla scheda fino al giorno
giovedì 17 gennaio 2019.
2
Collocazione culturale. Quest’anno, in coerenza con il tema dell’umanizzazione
dell’apprendimento attraverso le cose, la Shoah
rappresenterà uno dei momenti di riflessione più alti di
questo anno scolastico, perché nulla più della tragedia dei
campi di sterminio, si presta ad essere considerata come
l’emblema della disumanità. E non a caso tale condizione
viene espressa dal disprezzo che i nazisti avevano per le
cose degli Ebrei, dei Rom, degli omosessuali, dei
Testimoni di Geova. Dalle fotografie, dai film, dai
documenti storici di settant’anni fa emerge questa abissale
brutalità verso gli oggetti a cui ciascuno si lega come il
bene essenziale in una condizione di abbandono e di
costrizione a lasciare tutto. Noi li vediamo nei repertori
documentali della Shoah: le valigie, gli occhiali, le scarpe,
i barattoli di biscotti o del borotalco, i gioielli, qualche
strumento musicale, gli specchi, i pettini, le spazzole, le pentole, le scatole per la toletta,
orologi, sveglie, cappelli.
Niente come l’uso degli oggetti quotidiani, la nostalgia per le cose che ci sono state
tramandate, aiuta la memoria a conservare una storia e a preservarne il valore, per la
nostra famiglia, per una comunità e infine per un Popolo intero.
Michele Sarfatti, direttore del Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec)
nel 2011 si è fatto promotore di un’interessante e provvidenziale iniziativa: chiedere a
quanti abbiano avuto familiarità con i deportati di raccogliere oggetti e documenti da
esaminare e catalogare, prima che possano perdersi nelle discariche o bruciati
inconsapevolmente. “L’intento è quello di salvare non soltanto gli scritti, ma anche le
fotografie, gli oggetti di uso quotidiano, gli abiti degli ebrei che, in Italia, finirono
nell’ingranaggio mortale della persecuzione nazifascista (…). In realtà noi cerchiamo,
certo, anche immagini. Ma il nostro progetto si affida più all’idea di oggetti comuni,
ricordi personali, aspetti anche secondari che però possano aiutarci a ricostruire a far
rivivere esistenze che altrimenti sarebbero destinate a sparire per sempre. Quanti
italiani che magari si sono trovati a incrociare la strada di una famiglia ebrea, di un
perseguitato in fuga, e hanno fatto il possibile per aiutare chi era in difficoltà, si sono
poi ritrovati in cantina valigie o scatole abbandonate perché troppo pesanti? Ecco,
invitiamo chi avesse questi oggetti, privi di un valore monetario ma importantissimi dal
punto di vista storico, a consegnarli salvandoli dall’abbandono”2
L’Ufficio centrale economico – amministrativo delle SS (in tedesco WVHA) riusciva a
trarre utili economici dallo sterminio degli Ebrei. Gli oggetti personali venivano
confiscati all’arrivo dei deportati nei campi, poi si procedeva al loro immagazzinamento
e successivamente riutilizzati o trasformati in denaro. Il meccanismo di ripartizione del
bottino era organizzato nel modo seguente3:
2 Paolo Salom, Corriere della sera, Piccoli oggetti e scritti personali. Per aiutare la memoria, 5
maggio 2011
3 Fonte (al 12.01.2019) http://www.lanzone.it/Shoah/Schede/lager2.htm
3
TIPOLOGIA DEI BENI DESTINAZIONE
Denaro l iquido in banconote di
valuta tedesca (Reichsmark) ;
Versa to sul conto corrente de l WVHA
presso la Reichsbank (Banca centrale
tedesca) ;
Valuta straniera, metall i rari ,
gioiell i , pietre preziose e
semipreziose, perle, denti e protesi
dentarie d 'oro, oro in scaglie
Inviat i a l l 'Uff ic io centra le de l WVHA e
da quest 'u l t imo deposita t i presso
la Reichsbank ;
Orologi da polso, al tr i t ipi di
orologi, penne st i lografiche, penne
a mina, rasoi , coltell i da tasca,
forbici , lampade a pila, scarpe,
portafogli e portamonete
Spedit i nei laborator i d i r iparazio ne de l
WVHA e po i dis tr ibuit i agli spacc i
mi l i ta r i per essere vendut i a i soldat i
tedeschi;
Biancheria e abit i da uomo Inviat i presso la Volksdeutsche
Mi ttelstel le (VOMI), organizzaz ione
pubblica di aiuto per i Tedeschi
etnici (Volksdeutsche) e da questa
dis tr ibuit i gra tui tamente ;
Biancheria e abit i femminili Vendut i a l la VOMI, tranne la b iancher ia
(da uomo e da donna) in se ta , inviata
diret tamente al Ministero dell 'Econo mia;
Piumini da let to, trapunte, coperte,
ombrell i , carrozzine, borsette,
cinture di pelle, borse per la spesa,
occhiali da sole, specchi, valige e
stoffe
Consegnati a l la VOMI, che l i avrebbe
pagat i in un secondo tempo;
Biancheria da casa (lenzuola,
cuscini , asciugamani, tovaglie )
Vendut i a l la VOMI
Occhiali e lenti da vis ta Consegnati a l Referat (uni tà
amminis tra t iva) medico D -III de l
Minis tero degl i Interni ;
Pellicce pregiate Inviate a l WVHA
Pellicce non pregiate Inviate a l KL d i Ravensbrück (Germania
se t tentr ionale) , dove sarebbero sta te
ut i l izzate ne l labora tor io del ves t iar io
delle SS;
Articoli di scarso valore e
inuti l izzabil i
Inviat i a l Minis tero del l 'Economia e
r ivendut i a peso;
Capelli umani (la raccolta venne
ordinata i l 6 agosto 1942)
Uti l izza ti per confez ionare calzature in
fe l tro per i l personale dei sommergibi l i e
gl i impiegat i de l le Ferrovie tedesche.
Chi volesse approfondire questo aspetto della Shoah può trovare abbondante materiale
su internet, in particolar nei siti dedicati; su Youtube al link
https://www.youtube.com/watch?v=vTRwih_r1Ns è possibile rendersi conto del lavoro
che si svolge intorno all’argomento dell’oggettistica che i nazisti strappavano ai
4
deportati, togliendo loro l’unica speranza rimasta, quella di conservare la propria
identità grazie alle cose scampate alla violenza più turpe.
Finalità ed obiettivi. Una riflessione sulle cose che appartenevano agli Ebrei è relativa
al fatto che per i nazifascisti l’uomo, la donna e il bambino ebrei dovevano essi
diventare oggetti, senza valore, buoni solo ad essere bruciati. La dialettica tra cose che
umanizzano ed oggetti freddi e insignificanti, che come scuola stiamo analizzando
dall’inizio dell’anno scolastico, faceva parte della mentalità nazifascista e il fine di
disumanizzare il tempo e l’esistenza delle persone deportate veniva realizzato con
crudele lucidità.
La testimonianza di una semplice e silenziosa cosa illumina l’umanità di questa gente, ci
fa pensare alla nostra umanità e al modo che abbiamo di esternarla e di condividerla con
gli altri; per questo accanto ad essa abbiamo bisogno di sviluppare pedagogicamente
una rielaborazione della memoria, che aiuti le nuove generazioni a non cadere nel tunnel
del rifiuto, perché troppo pesante il dolore della conoscenza e troppo drammatici gli
interrogativi che emergono, e a studiare e a pensare a come sviluppare percorsi di
trasformazione del turbamento comprensibile in luce per il futuro. E’ questa
essenzialmente la missione che la scuola ha in relazione alla Shoah. Ad Auschwitz su
una pietra anonima, incisa con un chiodo, uno sconosciuto prigioniero ha lasciato scritto
"Chi mai saprà quello che mi è capitato qui?". Ecco, noi rispondiamo a quella vittima
perduta nell’orrore dei campi che ci assumiamo il dovere di rispondere “Noi lo
sappiamo”. La memoria da sola non basta, sebbene sia essenziale ed indispensabile, in
quanto si deve nutrire di studio costante, di impegno documentale, di riflessione
costante e mai di retorica o di sentimentalismo.
Plac Bohateròw Getta, la Piazza degli eroi del ghetto di Cracovia. Nel ghetto di
Cracovia nel marzo del 1941 i Tedeschi decisero di rinchiudere gli Ebrei della città e da
qui partirono costantemente per i campi di sterminio. Oggi nella piazza una
straordinaria scultura fatta di settanta sedie ricorda come gli Ebrei, e sembra in
particolare una bambina che veniva dalla scuola, trascinassero con sé le sedie tra uno
spostamento e un altro prima di partire per le camere a gas. Due artisti polacchi hanno
immaginato la scultura ispirandosi ad una foto d’epoca che ritrae una bambina che sta
trasportando la sedia, che utilizzava a scuola, per spostarsi dal quartiere Kazimierz al
Ghetto. Operazioni analoghe venivano fatte per tutti gli abitanti; si diceva loro che
dovevano caricarsi di tutto ciò che riuscivano a portarsi per uno spostamento di routine
e invece quell’operazione, già di per sé trite e disperata, aveva ben altro scopo.
Nel libro “Una farmacia nel ghetto di Cracovia”4 si racconta di un analogo episodio
che vede gli abitanti protagonisti con le loro sedie. L’autore, Tadeusz Pankiewicz5, pur
4 Tadeusz Pankiewicz, Il farmacista del ghetto di Cracovia, Traduttore: Irene Picchianti, Torino
2016, Utet
5 Tadeusz Pankiewicz è nato il 21 Novembre 1908 a Samborz, la sua famiglia si è trasferita agli
inizi del secolo a Cracovia, dove il padre aveva acquistato nel 1910 un dispensario farmaceutico
nel quartiere di Podgórze, sulla riva destra della Vistola, ha studiato Farmacia all’Università di
Jagiellonian a Cracovia, è un appassionato d’arte e nel 1933 ha assunto la titolarità della
“Apoteka Pod Orlem”, la “Farmacia dell’aquila”, il cui esercizio è frequentato sia da ebrei che
polacchi. Egli subito si attiva per sopperire alla penuria di farmaci rastrellando forniture più
5
non essendo ebreo gestiva una farmacia nel Ghetto, l’unica del quartiere. Nel Ghetto
esercitavano dall’anteguerra 4 farmacie di non ebrei e solo uno dei titolari, il farmacista
Pankiewicz, cattolico, osò resistere all’offerta nazista di trasferimento nella zona ariana
della città e ottenne dalle autorità del Reich il permesso di continuare l’attività e,
addirittura, di soggiornare nella sua farmacia mentre per il suo staff ottenne un
lasciapassare per entrare e uscire dal Ghetto per lavoro. Pankiewicz sarà l’unico non
ebreo residente nel Ghetto per tutto il resto della 2^ Guerra Mondiale. Decidendo di
rimanere e di tenere aperta la sua bottega, il dottore divenne un punto di riferimento per
gli Ebrei; nel libro racconta ciò che succede, soccorre i più poveri, di altri salva le vite,
distribuisce medicine; tutto viene riportato con lucidità ed estrema compassione; il
ricordo spesso si fa struggente, soprattutto quando descrive alcuni momenti, come la
resistenza armata degli Ebrei, la ricerca del cianuro di potassio come soluzione estrema,
i casi di alcuni fuggitivi lungo le fogne della città.
Egli si fa interprete del terrore che sorgeva dalle voci che correvano circa la
deportazione: “Nonostante tutto, in quell’epoca non si accettava ancora l’idea
dell’assassinio di massa, della messa a morte col gas, delle cremazioni nei forni. Ma
sempre più sovente pervenivano voci sulle atrocità che avevano luogo nel momento in
cui la gente veniva caricata sui vagoni, su misteriose stazioni senza nome, su binari
morti che quei treni pieni di gente in attesa per giornate intere senza cibo né acqua
imboccava prima di sparire nel folto delle foreste circondate da fili spinati, da dove non
giungeva più alcuna voce (…) I tedeschi sono maestri nel creare un’atmosfera di
panico, di minaccia e di terrore. Lo strepito dei colpi d’arma da fuoco si mescola, in un
modo stranamente sgradevole, ai fischi, all’abbaiare dei cani e alle grida dei tedeschi.
consistenti nonché per farmaci particolari di difficile reperibilità che dispensa ai residenti del
Ghetto spesso gratuitamente, concorre in modo sostanziale ad alleviare le loro sofferenze e a
migliorarne la scadente qualità di vita e, soprattutto, ha un ruolo determinante nel contribuire
alla sopravvivenza stessa di molti ebrei. Nella farmacia, ben presto, ha inizio un massiccio
allestimento di tinture per capelli, usate da coloro che mascherano le loro identità, di
tranquillanti, somministrati ai bambini piagnucolosi per mantenere il vitale silenzio durante le
frequenti incursioni della Gestapo, di droghe pesanti, per alleviare il dolore dei feriti. La
farmacia, inoltre, diventa persino un luogo di incontro per gli abitanti di due mondi: la
popolazione ebraica e coloro che vivevano al di là delle mura del Ghetto. Pankiewicz, infine,
riesce anche a realizzare un caveau segreto sotto la sua farmacia che è stato utilizzato per
conservare documenti, Torahs e altri oggetti religiosi. La farmacia, in breve tempo, diviene
luogo di incontro per intellettuali, artisti e scienziati del Ghetto e centro di attività segreta.
Pankiewicz e il suo staff, Irena Drozdzikowska, Helena Krywaniuk e Aurelia Danek, rischiano
la vita per svolgere numerose operazioni clandestine: procacciare cibo, trasmettere messaggi di
famiglie sfrattate dal ghetto, carpire e riferire informazioni riservate, procurare cose utili o
importanti. Nell’aprile 1983, alla sua presenza si inaugura il Museo nazionale della Memoria
alloggiato nell’edificio dell’Apteka dell’Aquila a Podgórze, anch’essa trasformata in museo.
Intanto, la piazza della farmacia muta il nome in “Ghetto Heroes Plaza”, “Piazza degli eroi del
Ghetto”, e vi si installa un suggestivo monumento costituito da 70 sedie, ispirato dalla
descrizione del libro “Farmacia nel ghetto di Cracovia”. Tadeusz Pankiewicz muore a 85 anni il
5 novembre 1993 a causa di un’insufficienza renale, secondo quanto riferito dalla moglie
Selena, ed è sepolto nel Cimitero Cfr.
http://www.raimondovillano.com/cms/cms_files/20130511101947_wzub.pdf
6
L’angoscia per la sorte che sarà riservata ai bambini toglie alla gente ogni capacità di
ragionare”6. Nel 1983 a Tadeusz Pankiewicz, in riconoscenza dei suoi gesti eroici, è stato
riconosciuto dal governo israeliano, il titolo di "Giusto tra le nazioni"7.
La costruzione del ghetto venne iniziata il 3 maro 1941 con una cinta di mura decorate
con una merlatura a semicerchio tipica delle lapidi dei cimiteri ebraici, chiaro e lugubre
segno del destino che aspettava gli abitanti. Una recinzione di filo spinato e tensione
elettrica completava il lavoro. In questo spazio angusto, circa 30 strade e 320 edifici per
poco più di 3.000, stanze vennero pressati circa quindicimila ebrei, ciascuna stanza
degli alloggi disponibili conteneva circa cinque, sei persone.
“Una sola stanza fu assegnata a diverse famiglie male assortite, il che rese l’atmosfera
ancora più pesante, stroncando la resistenza nervosa della gente, facendola impazzire.
Furono liti continue sulla quantità di oggetti portati con sé, sullo spazio occupato, sulla
cucina. Chi doveva occuparsi del fuoco? Come mettere in comune il carbone? Chi
aveva più o meno diritto a quell’alloggio? Erano questi i tristi argomenti di discussioni
quotidiane. (…) L’agitazione era immensa nell’andirivieni di colonne interminabili di
persone cariche di suppellettili. Le abitazioni minacciavano di crollare sotto il peso di
tutti quei mobili che vi si accumulavano; nei cortili sorsero veri e propri labirinti di
armadi, credenze, comodini. Sui balconi e nei corridoi si ammassarono bauli, casse,
anticaglie. Non c’è da sorprendersi se nella confusione si perdeva sempre qualcosa.
Ogni giorno capitava che qualcuno aprisse una valigia o sballasse una cassa altrui.
Qui spariva il carbone, lì un lenzuolo, là le provviste. La vita diventò mostruosa, un
vero incubo.8
Gli abitanti si radunavano nella piazza, che divenne ben presto il punto di raduno e poi
di partenza per i campi di sterminio. Tra il maggio e il giugno del 1942 furono mandate
a morte 300 persone e 6.000 trasportate forzatamente nei campi di sterminio. Stessa
sorte toccò circa quattro mesi dopo, ad ottobre, a settemila persone; fino al 1943 quando
il Ghetto venne liquidato. In Polonia a Cracovia in ricordo di quei giorni ogni anno una
marcia silenziosa la prima domenica successiva al 13 marzo ricorda la tragedia. La
piazza ricorda con le sue sedie silenziose questa storia, la storia di coloro che “Come
ombre, spiriti delle storie di fantasmi, andavano a passo lento portando sulle spalle
6 Per le citazioni dal libro cfr. https://girodelmondoattraversoilibri.wordpress.com/2018/12/23/tadeusz-
pankiewicz-il-farmacista-del-ghetto-di-cracovia/
7 L’espressione “giusti fra le nazioni” era già usata nel X secolo dai rabbini per designare quei cristiani
meritevoli al punto da essere nominati membri della Casa di Israele, destinati cioè a condividere con gli
ebrei la ricompensa eterna. Per ottenere il riconoscimento di Giusti non era sufficiente astenersi dal male,
ma era necessario compiere il bene, non era sufficiente cioè vivere in ottemperanza alle leggi a livello
teoriche, ma bisognava applicarle nel concreto. la legge non venne applicata fino a maggio 1962, quando
Leon Kubovi, direttore del Museo della Shoah, propose di costruire nei pressi del museo stesso un viale
dedicato alle persone che avevano salvato gli ebrei durante lo sterminio. Fonti: ibid. (10) Chi viene
riconosciuto Giusto tra le Nazioni è insignito di una speciale medaglia con inciso il suo nome, riceve un
certificato d'onore ed il privilegio di vedere il proprio nome aggiunto agli altri presenti nel Giardino dei
Giusti presso il museo Yad Vashem di Gerusalemme. Ad ogni Giusto tra le Nazioni viene dedicata la
piantumazione di un albero, poiché tale pratica nella tradizione ebraica indica il desiderio di ricordo
eterno per una persona cara. Dagli anni Novanta, tuttavia, poiché il Monte della Rimembranza è
completamente ricoperto di alberi, il nome dei Giusti è inciso sul Muro d’Onore eretto a tale scopo nel
perimetro del Memoriale. A tutt’oggi, sono stati riconosciuti oltre 23.000 Giusti tra le Nazioni. Cfr.
http://www.raimondovillano.com/cms/cms_files/20130511101947_wzub.pdf (al 12.01.2019) pp.8,9. 8 T. Pankiewicz, op.cit. p.7
7
tutto ciò che possedevano e che pesava tanto quanto il loro tragico destino errante”. Di
fronte a questa tragedia il dottore stesso non sa darsi ragione, a tal punto che riporta le
parole di un assistito il quale gli chiede: “Dottore, mi dica: come mai ci sono così pochi
pazzi in giro dopo tutto quello che la gente ha dovuto sopportare? Possono le cellule
grigie del nostro cervello reggere così tanto dolore? In fondo, prima della guerra i
matti non mancavano, ma che mai potevano aver sofferto, quelli, in confronto alle
nostre tragedie, alla nostra infelicità? E dopo un momento, aggiunse: «Che cosa pensa
che accadrebbe se, a un tratto, diciamo oggi stesso, finisse la guerra? Queste persone,
ritrovando la libertà, diventerebbero tutte matte? Molto spesso penso che sarebbe
proprio così, ma in verità, non so… Sono fortunato a non avere nessuno, a essere solo
al mondo. E tuttavia non sono indifferente alla gente che mi circonda, mi sono abituato
a queste persone, ho cominciato ad amare i loro figli, sono diventate parte della mia
famiglia. Com’è strano tutto questo! ”9.
Didattica della shoah secondo il tema delle cose. La Shoah va ricordata in maniera
elaborativa, secondo uno sguardo rivolto al futuro e letta come occasione per riflettere
sulle condizioni di ingiustizia, che ancora si vivono nel mondo e in un contesto
propositivo di ricerca delle alternative alla bruttura del male. La collocazione della
Shoah nel contesto delle cose che umanizzano è diretta e concreta se si pensa in
particolare all’evento del Ghetto di Cracovia di cui abbiamo raccontato sopra. In questa
maniera utilizzeremo la figura della sedia per rappresentare il concetto antropologico
che le cose che ci appartengono sono parte di noi ed esprimono il nostro mondo, la
nostra gioia, ma anche le nostre angosce.
I docenti, nelle loro lezioni, si concentreranno su questo aspetto, raffrontandolo in
maniera diretta al significato, anche in termini di emozioni, di ricordi, di sicurezza
interiore che le cose di ogni giorno hanno per gli alunni: lo zaino, i libri, le penne, gli
occhiali, il telefonino, le scarpe, le magliette, gli oggetti scaramantici ecc. Solo così gli
alunni potranno comprendere almeno un po’ lo strazio perpetrato ai danni dei deportati.
La rielaborazione a cui si accenna più sopra, attraverso la lettura della memorialistica, la
visione di brevi filmati, la visione dell’arte della Shoah (filone importante della storia
dell’arte novecentesca), la ricerca appassionata dei dati, delle informazioni, delle
testimonianze, la lettura della narrativa consigliata ad inizio d’anno, dovrà essere
finalizzata non ad un semplice momento celebrativo, che noi come scuola già
provvediamo ogni anno ad organizzare, ma al confronto con il mondo dei ragazzi, allo
studio delle Shoah dei nostri tempi, alle prospettive che dal punto di vista della
cittadinanza e della democrazia si aprono ad un bambino o ad un preadolescente. Basta
infatti ricercare dai titoli dei giornali o dagli episodi che quotidianamente avvengono in
Italia e nel mondo le informazioni, gli slogan, le riflessioni, i discorsi, le parole che
nutrono un tempo di odio, nel quale di nuovo sentiamo configurarsi l’idea del “nemico”
come proiezione di tutti i mali, in cui il Parlamento, luogo laico e sacro della nostra
democrazia, vede costantemente deturpata la sua funzione di luogo dove la parola si fa
confronto e reciprocità (Parlamento, appunto). Non dobbiamo avere paura di fare
politica se offriamo ai nostri ragazzi, senza alcuna finalità partitica o valutazione
personale, la realtà che li circonda, la cultura di esclusione che ridisegna di nuovo un
territorio da difendere, un confine da salvaguardare, che fa rinascere l’idea che ci siano
uomini di serie A e uomini di serie B: questa è la presenza alternativa di una scuola
9 T. Pankiewicz, op.cit. p.5
8
nella nostra società. Ricordare solo, per qualche inutile lacrimuccia, non servirebbe a
niente e ci renderebbe colpevole di una grave irresponsabilità, perché invieremmo il
messaggio che per celebrare la Shoah basti una serata di emozione o un bel film
commovente. Tutte le proposte vanno bene, la serata, il film, la lettura, la breve
drammatizzazione, la creatività di un laboratorio artistico o musicale, tutte sono grazia
pedagogica, ma solo se consentono di rielaborare le idee, di mettere in movimento il
pensiero critico, solo se servono a proiettare i nostri alunni, dai più piccoli ai più grandi,
in una prospettiva di organizzazione nonviolenta e interculturale del nostro futuro
prossimo.
PER LA SCUOLA DELL’INFANZIA E I PRIMI ANNI DELLA PRIMARIA
Per la scuola dell’Infanzia è importante, forse ancor di più rispetto agli altri ordini di
scuola, preparare il lavoro con costanza e con gradualità; una sola lezione, sottoforma di
evento, serve a poco e non rende giustizia al bisogno del bambino di sapere.
Il tema così duro può esser veicolato attraverso il campo di esperienza “Il corpo e il
movimento”, stando attenti a creare intorno ai bambini un contesto caldo umanamente e
propositivo, aperto alla gioia e alla speranza. E’ bene farli giocare con le sedie. Per
esempio per scaldare il clima, sarebbe interessante proporre il gioco del sedersi e
dell’alzarsi secondo alcune frasi che la maestra dice, come se fossero dei comandi.
“E’ il momento di andare a pranzo” (seduti)
“Laviamoci le mani” (in piedi)
“I Nonni sono venuti a trovarci” (seduti)
“Facciamo una passeggiata” (in piedi)
“Guardiamo dal finestrino del treno” (seduti)
“Beviamo una bella tazza di cioccolata calda” (seduti)
“Corriamo a fare la spesa” (in piedi)
“Ascoltiamo la maestra” (seduti)
“Leggiamo una bella fiaba” (seduti)
Alla fine del gioco i bambini possono ascoltare la seguente storia, mimarla, disegnarla,
drammatizzarla.
Il bambino che non voleva sedersi
Geremia era un bambino di appena
cinque anni, aveva sempre paura di
qualcosa e per questo preferiva
rimanere in piedi a casa, a scuola
dovunque. Diceva che così poteva
difendersi meglio dai mostri, dalle reti
che lo imprigionavano, dai draghi e
dagli animali feroci. Si sedeva solo
quando ormai era così stanco che non
reggeva più. Andava a letto e lì si
rincantucciava finalmente sicuro. La
mamma e il papà non sapevano perché
fosse venuto un figlio così; erano buoni e compassionevoli e non avevano mai fatto
male ad alcuno; perciò non riuscivano a spiegarsi il comportamento di Geremia.
9
Geremia era nato così, nessuno poteva farci nulla; tutti speravano che crescendo potesse
migliorare e diventare più sicuro di se stesso. Era probabile, spiegò un dottorone di
quelli importanti, che avesse subito un trauma da piccolissimo, ma nessuno se ne
ricordava.
Il nonno, che aveva sempre qualcosa da dire, sentenziò che il bambino era stato tirato
fuori dal pancione troppo presto e quell’episodio lo aveva fatto venire su così. Ciascuno
aveva da dire la sua, fatto sta che Geremia nonostante gli inviti e le rassicurazioni aveva
proprio preso la fissa dello stare in piedi.
La maestra della sua scuola, pensava ogni giorno a come aiutarlo, ma anche a lei non
veniva in mente nulla. Poi un giorno si ricordò di una preghiera bellissima, in cui si
diceva che Dio non dimentica nessuno e che se anche non risolve i problemi fa
compagnia a chi ha paura. Pensò che doveva fare anche lei così, dire a Geremia che non
poteva capitargli nulla se qualcuno era accanto a lui. Così un giorno freddo di inverno,
quando tutto ci invita a starcene al calduccio, la maestra lo condusse con tutti i suoi
compagni, in una stanzetta dove erano soliti leggere e cominciò a spiegare che per
leggere bisognava sedersi e che solo così poteva ascoltare le parole di un amico forte e
potente che lo invitava a non avere paura. Geremia guardò fisso negli occhi della
maestra, poi si girò intorno a guardare i suoi compagni. Tutti aspettavano in silenzio.
Guarda e guarda Geremia alla fine accetto, si sedette e ascoltò.
“Non ti lascerò prendere nella rete come un uccello. Cosi hai detto. Non ti lascerò
cadere nelle mani di chi ti vuole male. Così hai detto.
Ti terrò al riparo sotto le mie ali. Al caldo tra le mie piume. Ti starò vicino e ti
difenderò. Così hai detto.
Non permetterò che tu abbia paura. Paura di giorno, paura di notte. Vedrai la sfortuna
colpirne mille e mille vedrai cadere. Ma tu sarai risparmiato. Vedrai il mostro portarne
via ancora di più. Ma tu non sarai neppure sfiorato. Così hai detto.
I cattivi vedrai precipitare. Ma tu ti sei affidato al mio cuore. E il mio nome ti sta
intorno attorno come una tenda. Nulla di male colpirà te, quelli che ami e la tua casa. I
miei angeli cammineranno con te. E ti alzeranno in volo, dove troppe sono le pietre.
Così hai detto.
Senza paura passerai tra vipere e iene. I draghi e i leoni tu li cavalcherai. La tua
fiducia in me ti rende invincibile. Così hai detto.
Chiamami ti ascolterò. Dì il mio nome, ti risponderò. Così hai detto.
Così ho detto. Così ti dico.
Se nella rete cadrai come un uccello io sarò con te nella rete. Se chi ti vuole male
allungherà le mani su di te, prenderà anche me. Se avrai paura, sarò con te ad aver
paura. Se piangerai, con te piangerò, se le lacrime non smetteranno ad una ad una le
asciugherò. Se il mostro ti prenderà, starò con te nelle grinfie del mostro.
Ma io ti voglio libero e salvo. Ti voglio nei giorni felice. Dentro la vita ti voglio,
creatura.
Così ti dico.
10
Il film proposto
LA SIGNORA DELLO ZOO DI VARSAVIA
Matinée al cinema - Sala Eduardo
Classi partecipanti e calendario:
Sabato 26 gennaio 2019 ore 10.30 – 12.45: 5^B,
5^C scuola primaria, 2^A, 2^B, 2^C, 2^D, 2^E
scuola secondaria.
Venerdì 25 gennaio 2019 ore 10.30 – 12.45: 5^A
scuola primaria, 3^A, 3^B, 3^C scuola secondaria.
Dati tecnici. Un film di Niki Caro con Jessica
Chastain, Daniel Brühl, Johan Heldenbergh, Iddo
Goldberg, Michael McElhatton, Anna Rust, Goran
Kostic, Shira Haas, Slavko Sobin, Marian Mitas.
Genere Biografico durata 127 minuti. Produzione
USA, Repubblica ceca, Gran Bretagna 2017.
Trama e commento. Il film porta all'attenzione del grande pubblico una pagina di
storia poco nota, di straordinario coraggio e umanità, ambientata tra le gabbie di uno
zoo.
Jan Zabisnki diventa direttore dello zoo di Varsavia nel 1929. Insieme a sua moglie
Antonina popola il giardino zoologico, nato da una mostra itinerante ottocentesca di
animali, delle specie più belle ed esotiche. Nel '39, però, l'invasione della Polonia da
parte della Germania nazista, e il bombardamento che la precede, distruggono lo zoo e
uccidono molti animali. Un accordo con il capo zoologo del Reich, Lutz Heck, permette
loro di restare e riprendere il lavoro, ma i coniugi Żabiński faranno molto di più:
riempiranno la loro cantina e le gabbie rimaste vuote con tutte le persone che
riusciranno a far fuoriuscire in segreto dal ghetto di Varsavia. Rischiando la propria vita
e quella di loro figlio, Antonina e Jan metteranno in salvo più di duecento ebrei, amici e
sconosciuti, distinguendosi per straordinario coraggio e umanità.
Niki Caro, specializzata in storie di forza e riscatto al femminile, porta sullo schermo il
libro di Diane Ackerman che racconta una pagina poco nota della storia della
resistenza polacca e non solo.
L'impianto del film è classico, narrativo, e poggia saldamente sugli elementi di pathos e
di thrilling che sono interni al racconto storico: su tutti il fatto che il trasporto degli
esseri umani dentro e fuori lo zoo avvenisse in un luogo presidiato quasi continuamente
dai nazisti, sotto il loro naso, con un tasso di rischio da togliere il fiato.
La sceneggiatura romanza alcuni aspetti, per rendere più ricco e complesso il ruolo di
Jessica Chastain. Antonina ci viene mostrata mentre "parla" con gli elefanti, mentre
avvicina con pazienza una ragazzina violata come farebbe con un animale ferito e
impaurito, e mentre tiene le redini di un "gioco" ad alta tensione con l'ufficiale tedesco,
attratto da lei, per portarlo dalla propria parte senza cedere sul fronte della dignità
personale. E la performance della Chastain, improntata a far trasparire un'eccezionale
forza interiore sotto un abito modesto e quasi ingenuo, è effettivamente convincente. È
piuttosto nel racconto dell'istituzione del ghetto, delle condizioni di vita e morte al suo
interno, o in quello degli "ospiti" degli Żabiński, che risalgono in superficie la notte per
un respiro di normalità, che il film offre il suo contributo più particolare e straziante,
senza bisogno di alcun intervento di riscrittura rispetto alla realtà dei fatti.
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L'immagine, infine, degli animali spauriti che invadono la città dopo la distruzione dello
zoo, vale mille discorsi su cosa vogliano dire i termini "umanità" e "bestialità" e quali
terribili ribaltamenti di prospettiva alcuni periodi storici siano stati in grado di inscenare
in questo senso.
Fonte: http://www.mymovies.it/pdf/?recensione=725873
LE SEDIE DELL’UMANO Tre movimenti scenici per ricordare la Shoah
Cerimonia ufficiale
Venerdì 25 gennaio 2019 ore 17.00 sala Eduardo
Quest’anno l’idea di lavorare sulle cose ci pone di fronte ad una bella scelta, quella di
far tacere le parole e organizzare una serata utilizzando solo musica ed oggetti, cuciti
insieme dai movimenti del corpo; non una danza vera propria ma corpi che si muovono,
esprimendo il desiderio di reciprocità e di fratellanza, di comune destino. Una corale
figurazione che parla di oggi e di ieri, dell’antico bisogno di trovare risposte al male del
mondo e della speranza di usare compassione uno con l’altro. Alla fine potrebbe
leggersi il salmo 91, salmo ebraico della speranza e del rinnovamento.
In questa prospettiva diventa essenziale la collaborazione dei docenti di Educazione
Fisica.
Per questo tre canti a cura degli alunni delle seconde, si alterneranno a tre movimenti
scenici con le sedie, che restituiranno l’idea di un tempo umano che non ha fine né
inizio, ma è solo il tempo umano che si siede per ascoltare le voci di pace che si alzano
dalla coscienza.
La scaletta e i movimenti scenici saranno resi pubblici a parte, non rientrando
nell’economia del presente documento. Solo a conclusione della cerimonia, per
completezza didattica sarà pubblicato il documento integrale.
MATERIALI DIDATTICI
Ripresentiamo una parte dei materiali degli anni scorsi, così come chiesto da alcuni
insegnanti (che si ringraziano vivamente), per un ideale raccolta, che anno per anno, si
va arricchendo e che si trova già a disposizione dei ragazzi per una lettura mediante la
lim o in cartaceo.
Accanto ad essa aggiungiamo brani tratti dalla letteratura che analizzano più da vicino il
tema che stiamo trattando.
Ciascun docente è libero nell’organizzare questo spazio didattico, l’unica condizione è
che avvenga all’interno del curricolo, come cifra didattica tipica della D’Aosta e non sia
una “argomento in più” che appesantisce le lezioni, creando sconcerto negli alunni e
demotivazione nei docenti. I materiali sono per l’uso in classe, ma anche per la
condivisione con i genitori o fra classi parallele. Essi, infine, sono adatti non solo alle
classi che cureranno la Cerimonia Ufficiale, ma anche a tutti gli altri alunni che
svilupperanno lo stesso tema in classe.
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Materiali di archivio
Tematica Luce e tenebra. Primo Levi. Con tutte le nostre forze abbiamo lottato perché
l’inverno non venisse. Ci siamo aggrappati a tutte le ore tiepide, a ogni tramonto
abbiamo cercato di trattenere il sole in cielo ancora un poco, ma tutto è stato inutile. Ieri
sera il sole si è coricato irrevocabilmente in un intrico di nebbia sporca, di ciminiere e di
fili, e stamattina è inverno. Noi sappiamo che cosa vuol dire, perché eravamo qui
l’inverno scorso e gli altri lo impareranno presto. Vuol dire che, nel corso di questi
mesi, dall’ottobre all’aprile, su dici di noi sette moriranno. Chi non morrà, soffrirà
minuto per minuto, per ogni giorno, per tutti i giorni: dal mattino avanti all’alba fino
alla distribuzione della zuppa serale, dovrà tenere costantemente i muscoli tesi, danzare
da un piede all’altro, sbattersi le braccia sotto le ascelle per resistere al freddo. Dovrà
spendere pane per procurarsi guanti, e perdere ore di sonno per ripararli quando saranno
scuciti. Poiché non si potrà più mangiare all’aperto, dovremo consumare i nostri pasti
nella baracca, in piedi, disponendo ciascuno di un palmo di pavimento, e appoggiarsi
sulle cuccette è proibito. A tutti si apriranno ferite sulle mani, e per ottenere un
bendaggio bisognerà attendere ogni sera per ore in piedi nella neve e nel vento. […]
P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1987
Elie Wiesel. Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della
mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata. Mai dimenticherò quel fumo. Mai
dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute
di fumo sotto un cielo muto. Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per
sempre la mia Fede. Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per
l'eternità il desiderio di vivere. Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio
Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto. Mai dimenticherò
tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai.
E. Wiesel, La notte, introduzione
Tematica: Interrogativi dell’essere umano di fronte alla violenza e allo sterminio.
Elie Wiesel. Dov’è il Buon Dio? Dov’è? domandò qualcuno dietro di me. A un cenno
del capo del campo le tre seggiole vennero tolte. Silenzio assoluto. All’orizzonte il sole
tramontava. “Scopritevi!”, urlò il capo del campo. La sua voce era rauca. Quanto a noi,
noi piangevamo. “Copritevi!”. Poi cominciò la sfilata. E noi dovevamo guardarli bene
in faccia. Dietro di me udii il solito uomo domandare: “Dov’è dunque Dio?”. E io
sentivo in me una voce che gli rispondeva: Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca…
Quella sera la zuppa aveva un sapore di cadavere».
E. Wiesel, La notte, p.66
Hetty Hillesum. Ieri, per un momento, ho pensato che non avrei potuto continuare a
vivere, che avevo bisogno di aiuto. La vita e il dolore avevano perso il loro significato,
avevo la sensazione di "sfasciarmi" sotto un peso enorme, ma anche questa volta ho
combattuto una battaglia che poi all'improvviso mi ha permesso di andare avanti con
maggiore forza. Ho provato a guardare in faccia il "dolore dell'umanità". Ho affrontato questo dolore, molti interrogativi hanno trovato risposta, l'assurdità ha
ceduto il posto ad un po' più di ordine e di coerenza: ora posso andare avanti di nuovo.
E' stata un'altra breve, ma violenta battaglia, ne sono uscita con un pezzetto di maturità
in più. Mi sento come un piccolo campo di battaglia su cui si combattono i problemi o
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alcuni problemi del nostro tempo. L'unica cosa che si può fare è offrirsi umilmente
come campo di battaglia. Quei problemi devono pur trovare ospitalità in qualche parte,
in cui possono combattere e placarsi e noi dobbiamo aprire loro il nostro spazio
interiore senza sfuggire.
Il marciume che c'è negli altri c'è anche in noi, continuavo a predicare; non vedo
nessun'altra soluzione, veramente non ne vedo nessun altra, che quella di raccoglierci in
noi stessi e di strappare via il nostro marciume. Non credo più che si possa migliorare
qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi. E'
l'unica soluzione di questa guerra (seconda guerra mondiale): dobbiamo cercare in noi
stessi, non altrove.
Hetty Hillesum Le minacce e il terrore crescono di giorno in giorno. M'innalzo intorno
la preghiera come un muro oscuro che offre riparo, mi ritiro nella preghiera come nella
cella di un convento, ne esco fuori più "raccolta", concentrata e forte. Questo ritirarmi
nella chiusa cella della preghiera, diventa per me una realtà sempre più grande.
Dappertutto c'erano cartelli che ci vietavano le strada per la campagna: ma sopra
quell'unico pezzo di strada che ci rimane c'è pur sempre il cielo, tutto quanto. Non
possono farci nulla, non possono veramente farci niente.
Possono renderci la vita spiacevole, possono provarci di qualche bene materiale e di un
po' di libertà di movimento, ma siamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori col
nostro atteggiamento sbagliato: col nostro sentirci perseguitati, umiliati ed oppressi, col
nostro odio e con la millanteria che maschera la paura. Certo che ogni tanto si può
essere tristi e abbattuti per quello che ci fanno, è umano e comprensibile che sia così. E
tuttavia: siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli.
Hetty Hillesum. Si deve anche avere la forza di soffrire da soli e di non pesare sugli
altri con le proprie paure e con i propri fardelli. Lo dobbiamo ancora imparare e ci si
dovrebbe reciprocamente educare a ciò, se possibile con la dolcezza e altrimenti con la
severità. Dobbiamo pregare di tutto cuore che succeda qualcosa di buono, finché
conserviamo la disposizione verso questo qualcosa di buono. Infatti, se il nostro odio ci
fa degenerare in bestie come lo sono loro, non servirà a nulla.
L'unica cosa che possiamo salvare in questi tempi e anche l'unica che veramente conti è
un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a
disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì mio Dio sembra che tu non possa far
molto per modificare le circostanze attuali. Io non chiamo in causa la tua responsabilità,
più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi ad ogni battito del mio cuore
cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino
all'ultimo la tua casa in noi. Esistono persone che all'ultimo momento si preoccupano di
mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d'argento, invece di salvare te, mio
Dio. E altre persone che sono ridotte a ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze,
vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: me non mi prenderanno.
Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessun se si è nelle tue braccia. Mio
Dio è un periodo troppo duro per persone fragili come me. So che seguirà un periodo
diverso, un periodo di umanesimo. Vorrei tanto poter trasmettere ai tempi futuri tutta
l'umanità che conservo in me stessa, malgrado le mie esperienze quotidiane. L'unico
modo che abbiamo di preparare questi tempi nuovi e di prepararli fin d'ora in noi stessi.
Vorrei tanto vivere per aiutare a preparare questi tempi nuovi: verranno di certo, non
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sento forse che stanno crescendo in me, ogni giorno? La miseria che c'è qui è veramente
terribile, eppure alla sera tardi quando il giorno si è inabissato dentro di noi, mi capita
spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato e allora dal mio cuore s'innalza
sempre una voce: non ci posso far niente, è così, è di una forza elementare e questa voce
dice: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire in mondo
completamente nuovo. A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo
pezzettino di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire
ma non dobbiamo soccombere. E se sopravviveremo intatti a questo tempo, corpo e
anima ma soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto
di dire la nostra parola a guerra finita.
Scuola dell’Infanzia: racconto. Il campo
C’era una volta un campo chiuso e nero dove i bambini, con le loro mamme e i loro
papà spesso venivano rinchiusi, non perché fossero cattivi o avessero fatto qualcosa di
male, ma perché. Dovevano indossare grigi pigiami a strisce e, siccome era vietato
perfino chiamarli con il loro nome, per riconoscerli furono segnati sul braccio con un
numero. In questo modo non potevano nemmeno più chiamarsi l’un l’altro.
Il campo era così brutto che anche gli animaletti che vi erano presenti, stavano tutti
nascosti nelle loro tane: un volpacchiotto dal pelo rosso, tre pettirossi canterini, due
gattini tigrati, un cane e perfino un cavallo bianco. Tutti loro guardavano dalle tane ciò
che succedeva e avrebbero voluto volentieri giocar con i bambini, ma la paura li teneva
immobili. Perfino il sole era triste e spesso non se la sentiva di uscire.
Così tutto era buio e malinconico.
Quando i bambini venivano chiusi nei campi poi nessuno poteva ascoltarli; nessuno
poteva vederli; e nessuno poteva toccarli.
Gli animaletti fremevano di rabbia nei loro nascondigli e pensavano giorno e notte a che
cosa avrebbero potuto fare in quella situazione.
Così pensa che ti ripensa venne in mente loro una buona idea. Essi si dissero che
dovevano aiutare i piccoli a fare in modo che tutti venissero a conoscenza della loro
situazione.
Ma come fare, se erano presi anche loro da tanta paura e se temevano di essere anche
loro rinchiusi? Come si poteva insegnare ai bambini a protestare, se essi per primi non
riuscivano a farlo?
La cosa non fu facile, ma poi ciascuno si rese conto che bastava fare ciò che essi già
sapevano fare: per esempio gli uccellini dovevano gridare e cantare con i bambini, i
gattini e il cane cominciarono anch’essi ad abbaiare, a miagolare e a fare un chiasso
indiavolato. Appena usciva il sole tutti a gridare, abbaiare, trillare per salutarlo.
Poi venne il turno del cavallo e del volpacchiotto che insegnarono ai bambini a lanciare
oggetti come bacche, noci, sassi, rametti in maniera che tutti fuori dal campo si
chiedessero: “Ma cosa sta succedendo la dentro?”
E così fu, quando tutti si accorsero di quello che succedeva nel campo, andarono subito
a liberare i bambini e gli animaletti e nessuno più ebbe paura.
I bambini capirono che quella era la cosa giusta da fare e allora ne approfittarono per
gridar a squarciagola il loro nome e tutti insieme si chiamavano per essere contenti: ehi,
Luca, ciao Antonio, Anna dove ti sei cacciata, Carlo sei lì, Giuseppina dai vieni, Gianni
corri da me, Lucia sbrigati, era un chiamarsi continuo.
Il campo divenne uno splendido giardino pieno di animali e di fiori variopinti e i
bambini ci andavano a passare il loro tempo migliore.
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Materiali nuovi
Tematica: attualizzazione del pericolo della Shoah per i nostri tempi.
Primo Levi, Se questo è un uomo, introduzione. Per mia fortuna sono stato deportato
ad Auschwitz solo nel 1944, e cioè dopo che il governo tedesco, data la crescente
scarsità di manodopera, aveva stabilito di allungare la vita media dei prigionieri da
eliminarsi concedendo sensibili miglioramenti nel tenore di vita e sospendendo
temporaneamente le uccisioni ad arbitrio dei singoli. Perciò questo mio libro in fatto di
particolari atroci non aggiunge nulla a quanto è ormai noto ai lettori di tutto il mondo
sull’inquietante argomento dei campi di distruzione. Esso non è stato scritto allo scopo
di formulare nuovi capi di accusa; potrà piuttosto fornire documenti per uno studio
pacato di alcuni aspetti dell’animo umano. A molti, individui o popoli, può accadere di
ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni straniero è nemico”. Per lo più questa
convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in
atti saltuari e incoordinati e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando
avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo,
allora, al termine della catena, sta il lager. Esso è il prodotto di una concezione del
mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione
sussiste, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe
venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo.
Tematica: sulle cose. Primo Levi, Se questo è un uomo – La tregua, Einaudi Tascabili,
Torino 1989, p.23
“Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua
casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà
un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento,
poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si
potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità
umana”.
Tematica: la vita ordinaria di una bambina ebrea durante il Fascismo e le Leggi
razziali.
Il libro “La perfida Ester” di Lia Levi raccoglie due storie: “La perfida Ester” e
“Sorelle”, ambientate in Italia, durante il periodo fascista. La prima parla di una ragazza
ebrea che è costretta a frequentare una scuola ebraica. Tra le compagne c’è una ragazza
di nome Ambretta, spavalda e vanitosa, che sta antipatica a tutta la classe, perché tutti
gli anni è sempre lei la protagonista della recita. E' una storia realmente successa in una
scuola ebraica in Italia negli anni dal 1941 al 1943, durante le leggi antisemitiche
promulgate dal fascismo e racconta le vicende accadute alla classe V B.
La seconda storia parla di due amiche, una ebrea e l’altra no. Le ragazze rimangono
fedeli, giurando l’una all’altra di essere per sempre amiche, anche se i genitori non
vogliono.
Lia Levi, La perfida Ester, ed. Mondadori, pp. 15 -23
“C’è una festa ebraica che si chiama Purim (che significa sorte e la sorte c’entra nella
vicenda che racconterò) dove in via eccezionale – le altre feste ebraiche sono tutte
piuttosto tristi – si ride, si scherza e ci si mette in maschera. E soprattutto si
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organizzano un bel po’ di recite. Sul palcoscenico si recita appunto la famosa storia di
Ester, quella che si festeggia a Purim. Molti la sanno già, questa storia, perché fa parte
dei libri della Bibbia, ma per chi non la ricordasse vale la pena di perderci due minuti,
se no non si capirà il resto.
Ester era una bellissima ragazza che nella lontana Persia e in un tempo lontano, un
giorno fu scelta come sposa da re Assuero. Ester era ebrea, ma al re non glielo aveva
detto.
Rimasta orfana, era stata adottata da suo cugino Mordechai, un uomo saggio e
intelligentissimo che sapeva dare buoni consigli a tutti.
Anche il re aveva un consigliere, il primo ministro Haman, di cui si fidava
completamente. Ma in realtà Haman era un malvagio. Un bel giorno, forse perché
geloso di Mordechai, così benvoluto in città e stimato anche dal sovrano, persuase re
Assuero a condannare a morte tutti gli ebrei del regno, raccontandogli che erano suoi
nemici e complottavano contro di lui. Una bugia colossale, naturalmente.
Il re disse subito:” Va bene!” e fissò la data dell’esecuzione, tirandola a sorte (ed ecco
Purim). Gli ebri erano proprio disperati, perché l’idea di dover morire prima del
necessario non gli andava giù. Allora il saggio Mordechai chiamò la cugina Ester e le
disse: “Vai dal re e convincili a cancellare quest’ordine”. Una cosa più facile a dirsi
che a farsi!
Andare dal re senza essere chiamati significava una condanna a morte immediata.
Questo era l’uso del tempo e la legge valeva anche per la moglie del re, la regina. E’
comprensibile dunque che Ester avesse una certa paura, ma Mordechai insistette:
“Devi farlo per il tuo popolo!”.
Così Ester si decise, si mise il più elegante possibile, si truccò, si profumò, andò dal re,
cercando di non farsi accorgere che tremava.
Il re, a vederla così bella, splendente come non mai, si commosse e le disse “Chiedimi
tutto quello che vuoi!”. La regina Ester gli confidò che qualcuno voleva ucciderla. “Chi
osa levare la mano contro la mia sposa?” tuonò re Assuero (da notare che nella recita
questa è la scena migliore). “Il tuo ministro Haman vuol far uccidere me e tutti i miei
fratelli ebrei.”
Così il re venne a sapere che Ester era ebrea, ma non gliene importò niente, anche
perché in quel tempo c’erano così tanti dei che, uno più uno meno, faceva poca
differenza. Ester era la sua amatissima moglie e guai a chi la toccava.
“Che il perfido Haman venga impiccato sulla stessa forca che aveva preparato per gli
ebrei” urlò il re.
E infatti successe proprio così. Nella stessa data scelta dalla “sorte” e sulla stessa
forca trovò la morte l’intrigante cattivo, perfido Haman.
Ci fu una gran festa per lo scampato pericolo e per la punizione del malvagio e questa
festa si ripete ogni anni da secoli e secoli.
Fino a diventare una recita. E bisogna proprio ammettere che è una bellissima trama
da recitare. Nel nostro caso va detto subito che il copione dello spettacolo, ricco di
battute e di personaggi anche minori l’aveva scritto dieci anni prima la signora
Clotilde in persona, durante una vacanza estiva. La storia di Ester così era diventata
sua e la sezione B aveva conquistato per sempre il diritto di metterla in scena. Certo a
scuola un po’ avevano brontolato. Le altre classi e sezioni non erano affatto contente
che il palcoscenico di Purim spettasse sempre alla B e per di più con uno spettacolo
prettamente uguale anno dopo anno. Ma non c’era stato niente da fare. La signora
Clotilde al suo copione ci teneva troppo e poi i genitori degli alunni l’avevano resa
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felice, assicurandole con tutto il cuore che lei era nata regista e che quindi si ritrovava
maestra solo per caso, forse per colpa della guerra. Insomma nessuno, nemmeno la
direttrice, se l’era sentita d’incominciare una battaglia contro di lei. (…) La storia non
finiva lì. Non si trattava solo di ripetere per l’ennesima volta lo stesso spettacolo con le
stesse identiche battute. Il fatto è che le parti principali Ester, Assuero, Mordechai,
Haman erano destinate, per chissà quale diritto divino, sempre agli stessi bambini.
Potevano fare eccezione solo i personaggi minori. (…) E’ così arrivato il momento di
conoscere la nostra Ester, la predestinata fin dalla terza elementare. Tanto per
cominciare dirò il suo nome. Si chiamava Ambretta, Cavaglion Ambretta. E siccome
nessuna di noi poteva vantare un nome come “Ambretta”, già questo ci metteva in
condizioni di enorme inferiorità. Poi, suo padre era un ingegnere. A dire il vero la cosa
ci avrebbe lasciato del tutto indifferenti se non fosse stato per la maestra Clotilde che,
invece, quando le capitava di ricordarlo si emozionava moltissimo. E lo ricordava
sempre. Secondo noi, Mussolini aveva cacciato dal lavoro anche gli ingegneri, ma forse
il padre di Ambretta si teneva occupato con qualcos’altro, perché aveva un bel pò di
soldi ed era stato nominato presidente della scuola. Ma questo non c’entrava con
l’ammirazione della maestra. Era proprio al parola “ingegnere! A piacerle tanto.
Tematica: il senso di fiducia nell’altro/Altro.
Giusi Quarenghi, Salmi per voce di bambino, Così hi detto dal salmo 91 (il libro si
può chiedere in presidenza).
“Non ti lascerò prendere nella rete come un uccello. Cosi hai detto. Non ti lascerò
cadere nelle mani di chi ti vuole male. Così hai detto.
Ti terrò al riparo sotto le mie ali. Al caldo tra le mie piume. Ti starò vicino e ti
difenderò. Così hai detto.
Non permetterò che tu abbia paura. Paura di giorno, paura di notte. Vedrai la sfortuna
colpirne mille e mille vedrai cadere. Ma tu sarai risparmiato. Vedrai il mostro portarne
via ancora di più. Ma tu non sarai neppure sfiorato. Così hai detto.
I cattivi vedrai precipitare. Ma tu ti sei affidato al mio cuore. E il mio nome ti sta
intorno attorno come una tenda. Nulla di male colpirà te, quelli che ami e la tua casa. I
miei angeli cammineranno con te. E ti alzeranno in volo, dove troppe sono le pietre.
Così hai detto.
Senza paura passerai tra vipere e iene. I draghi e i leoni tu li cavalcherai. La tua
fiducia in me ti rende invincibile. Così hai detto.
Chiamami ti ascolterò. Dì il mio nome, ti risponderò. Così hai detto.
Così ho detto. Così ti dico.
Se nella rete cadrai come un uccello io sarò con te nella rete. Se chi ti vuole male
allungherà le mani su di te, prenderà anche me. Se avrai paura, sarò con te ad aver
paura. Se piangerai, con te piangerò, se le lacrime non smetteranno ad una ad una le
asciugherò. Se il mostro ti prenderà, starò con te nelle grinfie del mostro.
Ma io ti voglio libero e salvo. Ti voglio nei giorni felice. Dentro la vita ti voglio,
creatura.
Così ti dico.