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FULVIO DE GIORGI

CATTOLICI ED EDUCAZIONE TRARESTAURAZIONE E RISORGIMENTO

Ordini religiosi, antigesuitismo e pedagogianei processi di modernizzazione

Milano 1999

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INDICE

INTRODUZIONE

DALLA RIFORMA CATTOLICA AL RISORGIMENTO.................71. I processi di modernizzazione, l’educazione e i cattolici

italiani..................................................................................................72. Ordini religiosi e “gesuitismo”: caso storiografico e

problema storico ..............................................................................173. Le radici spirituali della pedagogia cattolica del secolo

XIX .....................................................................................................25

CAPITOLO IRELIGIOSI, MODERNIZZAZIONE ED EDUCAZIONENELL’OTTOCENTO ITALIANO .......................................................331. La modernizzazione delle strutture statali ..................................332. La modernizzazione della cultura civile ......................................583. La modernizzazione della cultura civile del clero ......................774. Lo scontro sull’educazione.............................................................915. Dalle polemiche ai diversi modelli educativi ............................103

CAPITOLO IIIL RIFORMISMO ‘ALBERTINO’ DEI MARCHESIDI BAROLO: DA BALBO E ROSMINI AL GESUITISMO...........1151. L’immagine tradizionale dei Barolo e la sua revisione ............1152. Nella società subalpina tra impegno civile e sociale ................1223. Politica, cultura, spiritualità .........................................................1304. Idee pedagogiche e iniziative educative ....................................1405. Dopo la morte del marchese: verso il gesuitismo .....................155

CAPITOLO IIIROSMINI E L’EREDITÀ FILIPPINA:EDUCAZIONE DEL CUORE............................................................1591. Formazione, indirizzi culturali, spiritualità...............................159

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2. Gli ideali educativi di Antonio Cesari ........................................1683. Lo spirito filippino.........................................................................1754. L’educazione cristiana ..................................................................1835. Una pedagogia del cuore..............................................................195

CAPITOLO IVROSMINI E L’EREDITÀ BORROMAICA:EDUCAZIONE E CARITÀ INTELLETTUALE ..............................2051. Rosmini a Milano: le “luminose tracce”

di S. Carlo Borromeo .....................................................................2052. Il modello borromaico...................................................................2143. Ascetica e spirito d’intelligenza...................................................2224. La carità intellettuale e l’educazione ..........................................2305. Una lezione non dimenticata .......................................................245

CAPITOLO VROSMINI E L’EREDITÀ CAPPUCCINA:EDUCAZIONE E AUTORIFORMA DELLA CHIESA..................2511. I mali della Chiesa come “piaghe” della Chiesa .......................2512. Bonaventura Massari da Recanati Predicatore

Apostolico .......................................................................................2553. L’ascetica di p. Bonaventura e l’immagine delle cinque

piaghe della Chiesa .......................................................................2654. Francesco Maria Casini da Arezzo Predicatore

Apostolico .......................................................................................2735. Giurisdizionalismo, piaghe della Chiesa, educazione .............281

CAPITOLO VINELL’ANNO DEI PORTENTI: RIFORMISMORELIGIOSO, EDUCAZIONE E LIBERTÀ .......................................2951. Risorgimento e nuove esigenze di evangelizzazione...............2952. Rosmini a Milano nel ‘48: riformismo religioso ........................3053. Libertà della società civile e libertà della Chiesa ......................3134. I religiosi nei processi di modernizzazione ...............................3215. Tra gesuitismo e anti-gesuitismo: il giusto

mezzo rosminiano .........................................................................324

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APPENDICII) Appunto di Rosmini sulla riforma della chiesa

milanese (ASIC, A,2 – 42/A, ff. 84r-86r) ....................................337II) Appunto di Rosmini sulla riforma dei religiosi

(ASIC, A.1, XIV – bis-, f.30r-v) .....................................................341

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INTRODUZIONE

DALLA RIFORMA CATTOLICAAL RISORGIMENTO

1. I processi di modernizzazione, l’educazione e i cattolici italiani

L’LXXX e ultima proposizione condannata, nel 1864, da Pio IX nelSillabo dei principali errori dell’età nostra recitava: “Il Romano Ponteficepuò e deve riconciliarsi e venire a composizione col progresso, colliberalismo e colla moderna civiltà”1. In realtà il problema del confrontotra cattolicesimo e civiltà moderna, in varie forme e secondomodulazioni comunque non univoche, fu avvertito come centrale daicattolici italiani dell’Ottocento. La discussione assunse spesso tinte fortie toni polemici: dai voluminosi tomi di Gioberti sul “gesuita moderno”alle pagine di Curci sul “moderno dissidio” alle idee di Stoppani sul“moderno contrasto”.

Da parte gesuitica si poneva l’equazione secca tra cristianesimomoderno e cattolicesimo post-tridentino2, mentre per altri il rapporto trala Chiesa cattolica e l’”ammodernamento” (o “incivilimento”) dellasocietà si poneva in maniera più articolata e problematica, giungendo aproporre, in qualche modo, un “ammodernamento” dello stessocattolicesimo. Se Gioberti era, come sempre, più impulsivamenteradicale, per esempio nei suoi appunti sulla Riforma cattolica (peraltroricchi di spunti di grande originalità), Rosmini invece suggerivaposizioni più serene e mediate, ma non meno potentemente innovatrici.

1 Tale proposizione era stata, per la prima volta, condannata da papa Mastai Ferrettinell’allocuzione Iamdudum cernimus del 18 marzo 1861.2 C. M. Curci, Il cristianesimo antico e moderno. Otto discorsi, Roma 1862, pp. 14-15.

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Egli infatti, per esempio nelle Cinque Piaghe, da una parte, consideraval’evoluzione politica (anche moderna) all’interno della civilizzazioneoperata dal cristianesimo3, dall’altra inseriva la stessa storia della Chiesanei generali processi ‘sociologici’ di incivilimento o, potremmo dire, dimodernizzazione4: in particolare immaginava (ed auspicava) un’epoca“di marcia” nella storia del cattolicesimo, dopo la lunga “epoca distazione” (che aveva compreso anche il Concilio di Trento)5 avvertendoperaltro che nelle epoche di marcia non diminuiscono i conflitti, maaumentano, così che il contrasto della Chiesa con i suoi avversaridoveva ritenersi sociologicamente normale e fisiologico6.

La modernizzazione o ammodernamento è dunque, innanzi tutto,una categoria storica, usata cioè dagli stessi attori storici delle vicende

3 Rosmini, in particolare, distingueva “due periodi diversi degli Stati. Perocché tutti imoderni Stati d’Europa dal tempo della loro fondazione al nostro mutarono affatto dinatura. Nel primo periodo erano Signorie […]. Ma gli Stati Europei si cangiaronolentamente, per un segreto lavoro del Cristianesimo e principalmente per l’influenza de’Papi, in vere Società civili. […] è desiderabile che la Chiesa fra le nazioni incivilite non siafavorita d’alcun privilegio che migliori la sua condizione nell’ordine temporale;bastandole che si lasci quel diritto sacro e inviolabile ch’ella si ha per natura, la libertà”(A. Rosmini, Delle Cinque Piaghe della Santa Chiesa, a cura di A. Valle, Roma 1981, p. 202).4 Rosmini affermava: “la Chiesa è una società composta di uomini […]. Indi è che questasocietà, nella parte in cui ella è umana, ubbidisce nel suo sviluppamento e nei suoiprogressi a quelle leggi comuni che presiedono all’andamento di tutte le altre umanesocietà” (ibid., p. 73).5 Il Roveretano notava: “Il momento, in cui comincia ad operare la forza che presiedeall’organizzazione, si può chiamare l’epoca di marcia; il momento in cui l’organizzazioneè finita si può chiamare l’epoca di stazione. La Chiesa si trova successivamente in questedue epoche […]. Organizzato perfettamente quel modo di essere della Chiesa, e cosìvenuta l’epoca di stazione, non potendo le cose umane cessare dal loro movimento,succede ben presto un altro movimento in senso contrario, un movimento cioè didistruzione […]. E già da molti secoli, già fino dal sempre memorabile 1076, e con nuovovigore dal Concilio di Trento, si lavora a ristorare minutamente i danni della disciplina edel costume ecclesiastico. Chi sa che non approssimi oggimai un tempo, in cui il grannaviglio sciolga nuovamente dalle sue rive, e spieghi le vele nell’alto alla scoperta di unqualche nuovo e fors’anco più vasto continente!” (ibid., pp. 73-74 e 76).6 Secondo Rosmini: “Contemporaneo poi alla distruzione è un periodo organizzatore:questo appartiene al movimento; è il tempo delle intraprese. […] Nel tempo di motoadunque lavorano due forze estremamente attive; l’una edifica, e l’altra distrugge”(ibid., p. 76).

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del XIX secolo. Essa è pure peraltro una categoria storiografica, o meglioun concetto sociologico, ripreso e utilizzato, con le opportune cauteledagli storici7. Dopo un periodo di relativa eclissi, la categoria dellamodernizzazione ha avuto recentemente un ampio rilancio8, dovutoprobabilmente, da una parte, al declino delle categorie marxiste e,dall’altro, al dibattito sulla società “post-moderna”.

Nell’ambito, dunque, degli studi sulla modernizzazione, rivolgiamola nostra attenzione a due specifici settori, che peraltro vogliamostudiare nei loro reciproci rapporti, indagati soprattutto attraverso lastoria della cultura e dei nessi che essa individua. Il primo settore èquello educativo: la modernizzazione – intesa come insieme di processistorici che, a partire dalla metà del XVIII secolo, hanno prodotto uncambiamento globale – ha infatti tra i suoi indicatori significativil’alfabetizzazione, lo sviluppo della scolarizzazione, lademocratizzazione dell’istruzione. In quest’ambito vanno peraltro vistianche i rapporti dell’industrializzazione con l’istruzione (sia per quantoriguarda le varie forme dell’apprendistato e della formazioneprofessionale, sia per quanto riguarda la spinta promozionale data dalla“cultura industriale”), lo sviluppo di sistemi scolastici pubblici e,insieme, della formazione degli impiegati pubblici e della burocrazia, ilmodificarsi dell’educazione familiare in collegamento allaprivatizzazione della vita della famiglia e agli effetti della mobilitàsociale, il ruolo della scuola nei processi di state-building e di nation-building, le forme di preparazione alle nuove professionalità in relazionealla differenziazione strutturale e alla specializzazione funzionale dellediverse sfere della vita sociale.

Il secondo aspetto riguarda i rapporti della modernizzazione con lareligione e con la Chiesa cattolica: in quest’ambito sembra prevalere,almeno per quanto riguarda gli studi sociologici, la prospettiva della

7 Cfr. soprattutto H. U. Weheler, Teoria della modernizzazione e storia, tr. it. Milano 1991.Ma cfr. anche almeno: T. Mason, Moderno, modernità, modernizzazione: un montaggio, in“Movimento operaio e socialista”, n. s., X (1987), pp. 45-62; R. Koselleck (a cura di), Gliinizi del mondo moderno, tr. it. Milano 1997.8 Cfr. U. Beck, A. Giddens, S. Lash, Reflexive modernization, Stanford 1994; S. N.Eisenstadt, Modernità, modernizzazione e oltre, tr. it. Roma 1997; A. Martinelli, Lamodernizzazione, Roma- Bari 1998 (con ampia bibliografia: pp. 145-160).

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secolarizzazione, intesa weberianamente come “disincantamento delmondo”, anche se la ricerca storica, come si vedrà, ha suggeritoorizzonti più articolati e più criticamente avvertiti. In particolare sitratta, a mio parere, di distinguere la laicizzazione dalla secolarizzazione.Per laicizzazione intendo i processi che, considerando il cristianesimocome estraneo-nemico della modernità, hanno portato alla separazionedello spirituale dal temporale, alla progressiva desacralizzazione dellerealtà temporali (e, nelle forme più estreme, alla scristianizzazione), allasdivinizzazione del mondo. Per secolarizzazione intendo invece iprocessi che hanno tentato di superare-inverare la religione,sacralizzando la natura (nelle forme del panteismo, dell’irrazionalismoneopagano, del ‘razzismo mistico’) e trasferendo a realtà profanesecolari caratteristiche sacrali, dalle liturgie civili alla divinizzazione delpotere politico. Tutto questo ha pure interagito, come si dirà ancora piùavanti, con la “modernizzazione ecclesiale”9.

All’incrocio, dunque, tra modernizzazione educativa emodernizzazione ecclesiale si pone l’interessante vicenda delle nuovecongregazioni religiose (che prende le mosse dalla Riforma cattolica, mache qui interessa, in particolare, per i tantissimi istituti di fondazioneottocentesca), che sono state da qualche anno oggetto di grandeattenzione da parte degli studiosi di storia dell’educazione10: si tratta diforme di ‘sociabilità’ religiosa, inizialmente non ben definite dal puntodi vista della loro stessa natura e del loro status canonico (almeno finoalla Conditae a Christo di Leone XIII, nel 1900, se non addirittura fino alCodex del 1917). Ha scritto Giuseppe Dossetti: “il codex ha segnato

9 Rimando alle considerazioni che ho svolto in: F. DE GIORGI, Note sulla modernizzazioneecclesiale, in “Rivista di storia contemporanea”, (1994-1995), n. 1-2, pp. 194-208.10 Si veda l’ottima rassegna (in particolare relativa all’area lombarda, ma con indicazionipiù generali): R. Sani, Indirizzi spirituali e proposte educative dei nuovi Istituti religiosidell’Ottocento in area lombarda, in R. Sani (a cura di), Chiesa, educazione e società nellaLombardia del primo Ottocento. Gli Istituti religiosi tra impegno educativo e nuove forme diapostolato (1815-1860), Milano 1996, pp. 77-138. Per una messa a fuoco dei problemistorici e storiografici cfr. N. Raponi, Congregazioni religiose e movimento cattolico, in F.Traniello – G. Campanini (a cura di), Dizionario storico del movimento cattolico.Aggiornamento 1980-1995, Genova 1997, pp. 82-95. Per le tematiche educative relativeall’Ottocento italiano è fondamentale: L. Pazzaglia (a cura di), Chiesa e prospettiveeducative in Italia tra Restaurazione e Unificazione, Brescia 1994.

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l’ultima tappa di un lungo processo storico, che ha condotto, nonostantecontrasti e resistenze gravissime, al riconoscimento della qualità direligiosi ai membri delle congregazioni, cioè delle associazioni a votisemplici. Esso ha effettuato la consacrazione solenne e l’inquadramentosistematico di una complessa e vasta categoria di istituti, che soppressi eproibiti alla fine del secolo XVI, avevano incominciato ad esserenuovamente tollerati a partire dalla metà del sec. XVIII, si eranograndemente sviluppati e moltiplicati nel secolo scorso ed avevanoinfine ricevuto un primo statuto organico – ma non ancora come veri eproprî istituti religiosi – agli inizi del ‘900”11.

Nel secolo XIX il celebre benedettino Luigi Tosti, per dare una“formola” plastica della possibile conciliazione tra cattolicesimo emodernizzazione, aveva evocato lo spirito di grandi fondatori di Ordinireligiosi: “Watt, trasportato a volo dal vapore sul tender d’una viaferrata, e San Francesco, rapito in estasi nella grotta di Alvernia, sonoper me una formola nella filosofia dell’umano progresso. Essirappresentano il diritto che ci ha comperato Cristo col suo sangue allaindeterminata perfettibilità della nostra natura nella doppia economiadella creatura e di Dio. Un uomo solo trovo che abbia in sé stessoadunato quel doppio ministero di ragione e di fede nella esplicazionedell’umana perfettibilità; e questi è San Benedetto: estatico come SanFrancesco, operoso quanto un pratico economista del nostro secolo”12.

In effetti i religiosi – e in particolare le nuove congregazioni di cui si èdetto – si posero in modo dialetticamente creativo di fronte ai processidi modernizzazione, almeno da quattro punti di vista: svilupparonoun’acuta sensibilità spirituale, pastorale e caritativa verso le nuovepovertà, i nuovi bisogni, le nuove piaghe sociali prodotte dallarivoluzione industriale, dall’urbanesimo, dalle trasformazioni sociali edeconomiche; pur con una cultura talvolta diffidente se non ostile versola “modernità”, istituirono tuttavia opere, specialmente nei campieducativo e socio-sanitario, che si ponevano in maniera nuova e più

11 G. Dossetti, Il concetto giuridico dello “status religiosus” in Sant’Ambrogio, [1940], ora inId., “Grandezza e miseria” del diritto della Chiesa, a cura di F. Margiotta Broglio, Bologna1996, pp. 99-100.12 L. Tosti, Gli Ordini religiosi nella Divina Commedia, in AA. VV., Dante e il suo secolo,Firenze 1865, p. 422.

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adeguata rispetto al contesto sociale, innovando metodi, strumenti,modalità operative; furono comunque costretti, a causa della vita di taliloro opere nel quadro legislativo e normativo moderno, ad acquisire unaconoscenza specifica e puntuale – non fosse altro per motivi dicontenzioso giudiziario o, al contrario, per evitarlo in via preventiva –dei meccanismi istituzionali statali e degli ingranaggi amministrativi eburocratici; diedero un contributo reale, specialmente in alcuni settori oin alcune particolari aree geografiche, alla modernizzazione della societàitaliana.

In questo loro impegno, più silenzioso delle polemiche dell’Opera deiCongressi e del Movimento Cattolico, ma forse più visibile nei contestipopolari e nella vita quotidiana, evitarono di prendere forme e movenzedi partito politico, anche se talvolta furono attaccati da liberali esocialisti: si pensi, per esempio, al caso, numericamente molto rilevante,delle religiose impegnate nella direzione dei convitti per giovani operaiedell’industria (talvolta pure con l’istituzione di mense, asili, infermerie)che furono decisamente attaccate dalla stampa socialista e laica. Ma, inquesto campo, l’anticlericalismo non sembrava particolarmente efficace,muovendosi su un terreno ideologico che non era quello propriodell’opera dei religiosi. Forse con qualche esagerazione, ma con acutogiudizio, Arturo Carlo Jemolo, a metà Novecento, affermava: “Sonostrette [le] cerchie, di quelli che s’indicano come cattolici integrali, ocattolici di stretta osservanza, che vivono in intimi rapporti con il clero,che ascoltano la voce di un ecclesiastico in ogni vicenda della loro vita.[…]. Il più dei contatti con la Chiesa il laicato italiano lo mantieneattraverso le suore, delle varie congregazioni, assistenziali ed educatrici.Se l’anticlericalismo diffuso di cinquant’anni or sono è stato battuto […],ciò è dovuto anche all’affetto che la maggior parte delle Congregazionifemminili hanno saputo meritare”13.

Un momento importante di questa vasta opera delle congregazionireligiose fu, come si è detto, l’istituzione di scuole e, in generale,l’attività educativa. Anche in questo campo, pur nei contrasti con leautorità pubbliche e nelle polemiche con parte della cultura laica, si 13 A. C. Jemolo, Il cattolicesimo nel costume italiano, in AA. VV., La filosofia contemporanea inItalia. Società e filosofia di oggi in Italia, Asti-Roma 1958, p. 505. Ma di Jemolo cfr. ancheDon Orione oggi, [1972], poi in Id., Gli uomini e la storia, Roma 1978, pp. 128-132.

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realizzò una loro modernizzazione nella misura in cui si lasciò lorolibertà di operare. Ecco perché un acuto osservatore laico comeBenedetto Croce poteva affermare: “ho tanta fiducia nella forza dellalibertà, del pensiero e della critica, di tutto ciò insomma che si chiamaspirito moderno, da non dubitare che dalla scuola libera non gli italianisaranno cattolicizzati, ma i cattolici italiani usciranno modernizzati”14.Del resto le stesse più note affermazioni di laicità e separatismo neirapporti tra Stato e Chiesa, quelle di Cavour e di Giolitti, furonoespresse proprio in relazione all’opera dei religiosi. Cavour partecipòalle grandi discussioni che accompagnarono il processo di laicizzazionedello Stato sardo e poté dunque esprimere il suo ideale di una liberaChiesa in un libero Stato (sulla base di una fiducia analoga a quella chesarebbe stata, come si è visto, di Croce), per esempio, nel dibattito sulla“legge sui frati” che si svolse nel Parlamento Subalpino nel 1855 e chevedremo meglio nel primo capitolo. Ma anche Giolitti affermò che loStato e la Chiesa dovevano essere due parallele che non si incontranomai, proprio per giustificare la sua indifferenza rispettoall’immigrazione in Italia di membri delle congregazioni religiose che inFrancia erano state soppresse.

Il discorso storico sui nuovi istituti religiosi dell’Ottocento diventaallora estremamente significativo nell’ambito di uno studio sui processidi modernizzazione. Si tratta cioè, innanzi tutto, di vedere l’importanzadelle congregazioni religiose nel processo di modernizzazione dellestrutture istituzionali civili e dunque del sistema di rapporti Stato-Chiesa, nella modernizzazione della cultura politica cattolica e dellamentalità civile del clero, nella modernizzazione (o non-modernizzazione) della vita religiosa e delle proposte pedagogico-spirituali.

Occorre tuttavia indicare pure come lo sviluppo e l’opera dei religiosisiano stati visti, da certa apologetica cattolica tra Ottocento e primoNovecento, in funzione anti-moderna, cioè come frutto indiretto dellalotta della civiltà moderna contro la Chiesa. Padre Bresciani facevanotare come l’ostilità del mondo moderno alla Chiesa e ai religiosi aveva 14 In “Idea Nazionale”, 8 aprile 1920. Ma per una più completa ricostruzione delleposizioni crociane cfr. B. Tognon, Benedetto Croce alla Minerva. La politica scolastica italianatra Caporetto e la marcia su Roma, Brescia 1990.

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come effetto di purificare le vocazioni religiose15. Il card. Mercier, nel1909, al congresso di Malines, citando l’opera dei religiosi, affermavache il cattolicesimo, a causa della scristianizzazione moderna, avevaperduto in estensione ma aveva guadagnato in intensità16. Un concettoanalogo aveva espresso Sturzo, già nel 1903, pur in una prospettiva‘assimilazionista’ della civiltà moderna da parte della Chiesa17. Più tardi,il Maritain anti-moderno avrebbe esaltato dell’Ottocento larestaurazione dei grandi ordini religiosi, l’unità dei cattolici intorno alpapa infallibile e la rinascita del tomismo18. Era tuttavia soprattuttoAgostino Gemelli, francescano e fondatore dell’Università Cattolica, avalorizzare l’opera storica ‘moderna’ dei religiosi in un quadroapologetico anti-moderno. Egli ricordava “che, durante tutta la secondametà del secolo scorso e durante la prima metà di questo nostroNovecento, la persecuzione intellettuale contro la Chiesa rinacque aquando a quando, anche là dove meno si sarebbe creduto; non sempre enon dovunque questa persecuzione fu pubblica, violenta, diretta; tale èstata invece in alcune Nazioni e in alcune epoche quella infierita nellescuole, nei libri, nei giornali; deleteria perché astuta e coperta; comequella lotta sul terreno morale che si manifestava nell’eccitamento alpiacere, nella moda, nei costumi, e soprattutto in una concezioneateistica della vita che cercava di strappare all’ora fuggente il massimogodimento e poneva sullo stesso piano, come esperienza e sviluppodell’odio, il bene e il male”. Dopo aver tracciato questo quadro a tinteforti e fosche, Gemelli continuava:

A questa ribellione che dall’intelletto discende alla vita pratica e dalla praticarisale al pensiero per ottenebrarlo, gli Ordini Religiosi prima, e poscia leCongregazioni religiose, vera Milizia della Chiesa, hanno risposto,profondendosi in opere di assistenza e di previdenza sociale, ossia in quella

15 A. Bresciani, L’Ebreo di Verona. Racconto storico-italiano che tocca i tempi dal 1864 adoggidì, vol. II, Bologna 1851, p. 9.16 D. Mercier, L’attuale crisi morale e sociale, in “Rivista di Filosofia Neo-Scolastica”, II(1910), n. 2, pp. 159-170 (in particolare pp. 167-169).17 L Sturzo, Leone XIII e la civiltà moderna, [1903], in Id., Sintesi sociali, Bologna 19612, pp.61-62.18 J. Maritain, Antimoderno. Rinascita del tomismo e libertà intellettuale, tr. it. Roma 1979, p.207.

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inesauribile carità che è la grande forza del Cristianesimo. Proprio a questa tacitaed eroica carità si deve il fatto, altrimenti inspiegabile, che la civiltà moderna, perquanto travagliata nel pensiero, attua lentamente il Regno di Dio, quasi senzaaccorgersene. A questo persistere nell’apostolato, pur nelle condizioni difficilicreate dal mondo attuale, si deve se nelle relazioni di popoli e di classi, nelrispetto della vita umana, nei criteri di giustizia, nella stima della dignitàsacerdotale, la nostra società si avvicina per tante manifestazioni al Vangelo, piùche in altre epoche della vita cristiana. Questo si deve (giova ripeterlo) all’operadi amore della Chiesa, compiuta per mezzo del suo esercito virgineo. La societàmoderna accetta le conseguenze pratiche del Cristianesimo, gode dei beneficidelle Congregazioni religiose, specialmente negli ospedali, nelle carceri, neibrefotrofi, negli Istituti popolari di educazione e di correzione, dovunque l’operadei laici non ha l’eroismo di arrivare e di resistere; ma la nostra società rifiutal’autorità della Chiesa. Se ne fa un aiuto e, se occorre, un puntello, ma non lariconosce maestra19.

Un modo di pensare analogo, anche se di segno ideologicorovesciato, si ritrovava pure in alcuni intellettuali laici. Così seFrancesco Saverio Nitti segnalava l’arroccamento nelle dottrine, mal’adattamento pratico della Chiesa alla civiltà moderna20, Prezzolinilamentava che la Chiesa conservasse una forte influenza nell’educazionee negli ospedali, perché le istituzioni laiche moderne “non sannoprenderne il posto, che invano cacciano le suore dagli ospedali se non sison trovate le infermiere laiche che possan degnamente sostituirle, cheinvano proteggon la scuola elementare se il prete, senza famiglia, e ilfrate, sostenuto dal convento, senza pesi, obbedienti, disciplinati, sonconcorrenti formidabili al maestrino laico povero e abbandonato”21.

Si trattava in ogni caso di uno schema – apologetico ocontroversistico – che sussumeva osservazioni storiche anche acute inun quadro interpretativo ideologico, inutilizzabile sul pianostoriografico (se mai esso stesso da studiare nell’ambito della storia dellacultura).

19 A. Gemelli, Gli Istituti Secolari come strumento di apostolato, in AA. VV., Apostolato e vitainteriore, Milano 1950, pp. 192-194.20 F. S. Nitti, Il socialismo cattolico, in Id., Scritti di economia e finanza, vol. I, Bari 1971, p.390.21 G. Prezzolini, Parole d’un uomo moderno, in “La Voce”, V (1913), n. 11, p. 1033.

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Un altro schema apologetico, ancorché non anti-moderno, disottolineare l’importanza storica degli ordini e delle congregazionireligiose era quello di chi ne poneva in primo piano la valenza socialedell’opera, in sintonia con la sensibilità sociale moderna vista talvoltacome eredità, pur laicizzata, del cristianesimo. Così il card. Capecelatro,esaltando l’impegno delle “suore operative”, ricordava che nella“paganità non erano né ospedali né ritiri né ricoveri né scuole per ipoveri fanciulli”22. E mons. Bonomelli notava che la società modernapiuttosto che i monasteri di clausura “preferisce gli ospedali, le case diricovero, di lavoro, di istruzione, i sanatorii, gli asili, dove la povertà,l’ignoranza, la sventura e il dolore hanno soccorso e lenimento”23. Ilmodernista Minocchi affermava che l’incameramento dei beni degliordini religiosi aveva danneggiato soprattutto i poveri24. E FilippoMeda, parlando dell’opera sociale ed educativa di Guanella (ma anchedi Bosco e di Cottolengo), inseriva tale opera in una più articolata emoderna visione dell’assistenza pubblica e della beneficenza25.

Raccogliendo, in qualche modo, le indicazioni di entrambi gli schemiapologetici, Giuseppe Toniolo ne costruiva uno suo proprio, chepresentava anch’esso una valenza ideologica – già intuibile nellacategoria di “storia della carità” forse mutuata da Cesare Balbo e cheaveva pure degli esempi contemporanei fuori d’Italia26 – e tuttavia nonprivo di originali e ancor oggi, in parte, condivisibili osservazionistoriche. Anch’egli affermava che la storia della carità era la storia stessadell’incivilimento e che prima del cristianesimo non esisteva carità.Parlava di un’età dell’oro della carità nel medioevo comunale efrancescano così che “il trionfo della carità si identifica con quello dellacivile libertà e della democrazia”. Vedeva poi un’ostilità alla carità e unadecadenza dell’incivilimento a causa della Riforma luterana prima e

22 A. Capecelatro, La questione sociale e il cristianesimo, Milano 1902, pp. 7-8.23 G. Bonomelli, Sentimentalismo e formalismo in religione, Cremona 1902, pp. 56-57.24 [S.Minocchi], Le condizioni religiose dell’Italia, in “Studi Religiosi”, III (1903), p. 7.25 F. Meda, Don Luigi Guanella, in “Vita e Pensiero”, I (1915), vol. II, pp. 278-286 (inparticolare pp. 285-286).26 Alcuni studiosi suggeriscono oggi una ripresa della categoria di “storia della carità”:cfr. E. Bressan, Carità e riforme sociali nella Lombardia moderna e contemporanea. Storia eproblemi, Milano 1998, pp. 135-170.

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della rivoluzione francese e del regime napoleonico poi. In questoquadro, ideologicamente molto segnato, Toniolo inseriva invece dueacute osservazioni che appaiono storicamente valide: da una partenotava la valenza essenzialmente educativa della carità sociale in Italia edall’altra indicava – con qualche enfasi apologetica ma con giudiziostorico non errato – la continuità della storia della carità dalla Riformacattolica all’Ottocento, dalle Congregazioni religiose del Cinquecento aquelle del XIX secolo, dai Borromeo, Filippo Neri, Gaetano Thiene,Girolamo Emiliani, Camillo de Lellis a don Bosco, alla Barolo, a Mazza,a Comboni e agli altri fondatori ottocenteschi di istituti religiosi27.

Per articolare l’analisi storica, evitando deformazioni apologetiche oapriorismi ideologici, potrà essere opportuno allora riportare il temadelle congregazioni religiose e della loro opera educativa nell’Ottocentoai nessi con i processi di modernizzazione, indagati – a loro volta –senza riduzionismi funzionalisti, ma operando sulla categoria di“modernizzazione” (che, come si è visto, è sia storica sia sociologica siastoriografica) quello sforzo analitico di piena storicizzazione che è statocompiuto, per esempio, per la categoria di “secolarizzazione”28.

2. Ordini religiosi e “gesuitismo”: caso storiografico e problema storico

Nel 1932, nella sua ricostruzione della storia d’Europa nel secolodecimonono, Benedetto Croce – com’è noto – impostava il discorso sulcontrasto e la lotta, a dimensione europea, tra due fedi religiosecontrapposte: il liberalismo (cioè la civiltà moderna) e l’anti-liberalismo(cioè, innanzi tutto, la Chiesa cattolica). Il cattolicesimo dell’Ottocentoera visto come culmine di un processo storico, iniziato con laControriforma e caratterizzato da una decadenza interiore delcattolicesimo in quanto potenza spirituale. Alla mancanza di vitalitàreligiosa si surrogava – secondo Croce – con la potenza politica e con unfanatismo clericale meccanico:

27 G. Toniolo, Per la storia della carità in Italia, [1893], in Id., Dei remoti fattori della potenzaeconomica di Firenze nel Medio Evo e Scritti storici, Roma 1952, pp. 436-453.28 Cfr. G. Miccoli, Fra mito della cristianità e secolarizzazione. Studi sul rapporto chiesa-societànell’età contemporanea, Casale Monferrato 1985; D. Menozzi, La chiesa cattolica e lasecolarizzazione, Torino 1993.

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Priva perciò del suo elemento vivificatore – concludeva – e incapace di generarenuove forme e persino nuovi ordini religiosi, come ancora ne aveva generati nelCinquecento, tanto che non seppe far di meglio che ristabilire i gesuiti da essastessa aboliti, la Chiesa cattolica non poteva inseguire i suoi avversari nelle altesfere in cui si muovevano, e vieppiù si riduceva a potenza prevalentementepolitica29.

Questa sorprendente affermazione di Croce sulla mancatafondazione di nuovi istituti religiosi nell’Ottocento, ancorchéformalmente non inesatta (nessuno dei nuovi istituti fu riconosciutocome “ordine”), si ricollegava più in generale, indubbiamente, allascarsa sensibilità che la cultura e la storiografia laica dimostravano versoil mondo della vita consacrata, come riconobbe qualche anno dopoGioacchino Volpe30. Ma la fonte specifica dalla quale, a mio avviso,Croce aveva attinto, era in realtà cattolica ed addirittura in lato sensugesuitica.

In Il moderno dissidio tra la Chiesa e l’Italia, Carlo Maria Curci, appenauscito dalla Compagnia di Gesù, aveva infatti notato che, “avendo ilnostro secolo un carattere tutto suo proprio, e necessità e tendenze chein parte hanno compiuto, in parte annunziano una trasformazionesociale, non ci è ad aspettare che alcuno degli antichi Sodalizii sitrasformi in certa guisa con esso, per rispondere pienamente alle sue

29 B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, Bari 1932; cito dalla III ed. economica, p.84.30 Nel 1947 Volpe avrebbe infatti scritto (sia pure non in riferimento a Croce ma a sestesso): “Ricordo certe mie impressioni, per esempio, davanti a libri e riviste cheparlavano di missionari, di santi dalla vita operosa, di uomini volti alla beneficenza, allaistruzione del popolo, all’assistenza degli infermi eccetera. Non avevo idea, e raramentela hanno gli storici, tutti volti alla politica e rivoluzioni e guerre e, al più, alla società ecultura secolaresca, di un così vasto mondo di uomini e di opere. È vero: questi uominioperano sopra un materiale che trovasi al margine o fuori della storia, brulicante come èdi poveri e diseredati, di infelici, di razze inferiori. Ma essi, come uomini, anziincarnazione di alta umanità, come riflesso di una determinata civiltà a cui essi siadeguano o magari si contrappongono, ma da cui in ogni modo derivano e su cuioperano, essi sono ben degni di storia, degni che se ne divulghi la conoscenza che sianomessi al loro posto da chi vuol caratterizzare quella civiltà” (G. Volpe, L’Italia che fu.Come un italiano la vide, sentì, amò, Milano 1961, pp. 298-299).

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condizioni. Il perché si viene in pensiero, che Iddio farebbe al nostrosecolo ed alla Chiesa una molto grande misericordia, se mandasse loroun nuovo sussidio tutto fatto al dosso di questo secolo stesso; talmenteche come la stagione dei barbari ebbe il suo Benedetto, quella dellecupidigie feroci il suo Francesco, e quella della Riforma il suo Ignazio, cosìquesta nostra, che potrebbe dirsi dell’apostasia sociale, avesse uno di queigrandi Istitutori, che rispondesse pienamente al suo bisogno. Ma noinon lo abbiamo; e quest’assenza, congiunta al silenzio della santitàtaumaturga, ed alla penuria dell’apostolato veramente fecondo, sono,con molti altri, indizii manifesti di quel divino giudizio rigoroso, che stapesando sopra della Chiesa o piuttosto sopra del mondo”31. Il Curci, checonosceva Ludovico da Casoria fondatore dei Bigi (presso il quale trovòper qualche tempo ospitalità subito dopo l’uscita del saggio sul“moderno dissidio”) e avrebbe avuto un carteggio con Piamarta,fondatore degli Artigianelli32, si riferiva evidentemente a una grandefigura di religioso e di mistico che avrebbe dovuto dominare il secolo:un gigante, un eroe alla Carlyle. Il giudizio, morale e meta-storico, diquesta sorta di curciano ‘storicismo della Provvidenza’, diventavagiudizio storico, ma anche errore storiografico, nello storicismo assolutocrociano.

Al Croce, dunque, replicava immediatamente, sulla “NuovaAntologia”, Giovanni Papini con una certa superficialità apologetica,non priva tuttavia di qualche giudizio acuto, come quando indicava “ilsenso dell’infinito, il senso del peccato, il senso della carità calda eoperante”33, che sono in effetti le note caratteristiche preminenti dellareligiosità dell’Ottocento cattolico. Papini comunque aveva buon gioconel contestare a Croce l’inesattezza storiografica sulla questione deinuovi istituti religiosi:

31 C. M. Curci, Il moderno dissidio tra la Chiesa e l’Italia considerato per occasione di un fattoparticolare, Firenze 1878, pp. 232-233. Cfr. G. Mucci, Il primo direttore della “CiviltàCattolica”. Carlo Maria Curci tra la cultura dell’immobilismo e la cultura della storicità, Roma1986.32 Cfr. Mucci, Il primo direttore..., cit., pp. 7-8 e 10-12; F. Molinari, La spiritualità delPiamarta e il suo tempo, in AA.VV., Giovanni Piamarta ed il suo tempo (1841-1913), Brescia1987, pp. 117-152.33 Cfr. G. Papini, Il Croce e la Croce, in “Nuova Antologia”, LXVII (1932), p. 2 l.

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Se il Croce, gran lettore di storie, si fosse degnato di sfogliare una qualsiasi storiadella Chiesa avrebbe visto che nuovi ordini sorsero, numerosissimi, nel periododa lui considerato”. Ne dava un elenco (che pur conteneva qualcheimprecisione): “la Congregazione di Picpus, per le missioni straniere, fondata nel1801 e approvata da Pio VII nel 1817 col nome di “Société des Saints Coeurs deJésus et de Marie”; gli Oblati di Maria Immacolata fondati da p. E. De Mazenodnel 1816; i Maristi fondati nello stesso anno dall’abate Colin; i Frerès del’Instruction chrétienne (ricordati dallo stesso Croce a pagina 99) istituiti nel 1816-20 dal fratello del Lamennais; le Dame del Sacro Cuore fondate nel 1800 da SantaMaddalena Sofia Barat; le Giuseppine che risalgono al 1819; le Suore del BuonPastore sorte nel 1829, senza contare altre congregazioni minori create in queglianni o quelle, importanti, sorte poco dopo il ‘30 (gli Assunzionisti nel 1840, leSuore di Carità nel 1835, i Salesiani nel 1855)34.

Oggi potremmo dire che nell’Ottocento si ebbero in Italia 183 nuovefondazioni femminili (tra Cinque, Sei e Settecento erano state in tutto 43)e 23 maschili, per non parlare delle quattrocento fondazioniottocentesche francesi, della settantina di nuovi istituti spagnoli e cosìvia.

Ma il ‘caso storiografico’ non può dirsi chiuso né il problema storicodefinitivamente chiarito dopo le osservazioni di Papini. A riaprire laquestione è Gramsci con alcune penetranti note dei Quaderni:

L’osservazione di maggior rilievo – egli annotava – fatta dal Papini alla Storiad’Europa, e che sia congruente, è quella riguardante gli ordini religiosi. Mal’osservazione non è valida, poiché è verissimo che dopo il Concilio di Trento e lafondazione della Compagnia di Gesù, non sorse più nessun grande ordinereligiosamente attivo e fecondo di nuove o rinnovate correnti di sentimentocristiano; sorsero nuovi ordini, è vero, ma essi ebbero un carattere, per così dire,prevalentemente amministrativo e corporativo. Il giansenismo e il modernismo,che furono i due grandi movimenti religiosi e rinnovatori che sorsero nel senodella Chiesa in questo periodo, non hanno suscitato ordini nuovi o rinnovato ivecchi35.

34 Ibid., pp. 12-13.35 A. Gramsci, Quaderni del carcere, vol. II: Quaderni 6 (VII)- 11 (XVIII), Torino 1975, p.1219.

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Questo carattere “prevalentemente amministrativo e corporativo”che Gramsci attribuisce ai nuovi ordini religiosi e che risulta alquantooscuro e ambiguo, è chiarito da altre riflessioni gramsciane, inserite indifferente contesto, ma in realtà anch’esse riferite alle osservazioni diPapini. I movimenti ereticali del Medio Evo, secondo Gramsci (cheriprendeva suggestioni volpiane), nati sulla base dei conflitti socialideterminati dalla nascita dei comuni, si opponevano, insieme, alpoliticantismo della Chiesa e alla filosofia scolastica, creando unafrattura tra massa e intellettuali nella Chiesa: tale frattura erarimarginata da forti movimenti di massa, da movimenti popolarireligiosi, i quali poi erano riassorbiti dalla Chiesa, con la formazionedegli ordini mendicanti, in una nuova unità religiosa. “Ma – osservava aquesto punto Gramsci – la Controriforma ha isterilito questo pullularedi forze popolari: la Compagnia di Gesù è l’ultimo grande ordinereligioso, di origine reazionario e autoritario, con carattere repressivo e“diplomatico”, che ha segnato, con la sua nascita, l’irrigidimentodell’organismo cattolico. I nuovi ordini sorti dopo hanno scarsissimosignificato “religioso” e un grande significato “disciplinare” sulla massadei fedeli, sono ramificazioni e tentacoli della Compagnia di Gesù o nesono diventati tali, strumenti di “resistenza” per conservare le posizionipolitiche acquisite, non forze rinnovatrici di sviluppo. Il cattolicesimo èdiventato “gesuitismo””36.

Molto simile alle riflessioni gramsciane era l’analisi che già da tempoil grande storico del cristianesimo Adolf Harnack aveva condotto in unsuo lavoro sul “monachismo”, tradotto in italiano nel 1909 e forseconosciuto da Gramsci. In tale opera Harnack, esponente delprotestantesimo liberale, aveva presentato la Compagnia di Gesù comeuna “forma nuova” del monachesimo occidentale, la quale realizzavaun rovesciamento completo di ogni relazione tra ascetismo e servizioecclesiale37 e incarnava quasi un ideale opposto rispetto a quello del

36 Ibid., p. 1384; cfr. anche pp. 1080-1081 (dove è esplicito il riferimento a Papini). Per laconsiderazione della più vasta concezione gramsciana, si veda: E. Fattorini,Modernizzazione “passiva” della Chiesa e del movimento cattolico nell’Europa tra ‘800 e ‘900.Spunti di riflessione in Gramsci, in “Dimensioni e problemi della ricerca storica”, I (1988),1, pp. 69-106.37 Harnack scriveva: “Rimaneva ancora possibile il trovare, in luogo di una unione

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monachesimo precedente: “L’emancipazione dal mondo si estendesemplicemente fino al punto da esserne emancipati per poterlo meglioconquistare, per esercitare sullo stesso un dominio, un dominio chedoveva esser esercitato politicamente, coi mezzi di cui la chiesa potevaessere fornita. L’ordine si proponeva di raggiungere lo scopo diassicurare alla chiesa il dominio del mondo”38. Ma, oltre ad essere unaforma nuova, la Compagnia di Gesù era anche, secondo Harnack,l’ultima forma del monachesimo occidentale:

Qualora vengano considerati sotto il loro aspetto di fatti storici, siamo costretti adire che oggi gli ordini religiosi sono ridotti ad una quantità trascurabile. LaCompagnia di Gesù ha esercitata la sua influenza, quasi senza eccezioni, tantosugli ordini più antichi, quanto sugli ordini più giovani. […] Il posto che costoroprima occupavano è stato preso dall’ordine dei gesuiti, dalle “Congregazioni”,nella creazione elastica e pieghevole delle quali lo spirito da cui era animatol’ordine dei gesuiti trovava un punto di contatto con i bisogni e le istituzioni dellasocietà moderna. Le congregazioni fondate e dirette secondo lo spirito dellaCompagnia di Gesù, e tutte quelle innumerevoli associazioni cattoliche così dette“libere” che lavorano nello stesso spirito della Compagnia di Gesù, e che, aseconda dei bisogni secolari o spirituali, sono libere o tiepide, ecco a che cosa èstato ridotto veramente il monachismo cattolico dei tempi moderni39.

Ma un altro aspetto dell’analisi di Harnack merita un’attentaconsiderazione. Nel modo ‘gesuitico’ con cui la Chiesa cattolicamanteneva un contegno puramente negativo di fronte agli statimoderni, lo storico di Berlino scorgeva “una essenzialesecolarizzazione”. Con uno sguardo analitico ampio, che comprendevaanche le modalità della spiritualità e della cultura, Harnack scriveva:“La Compagnia di Gesù diede la stura ad una nuova forma di pietà, ediede a quella pietà così sorta una espressione tutta sua ed una formaassolutamente metodica, e sotto questo riguardo appellò e con successoa tutto l’insieme del cristianesimo cattolico. Ha saputo scoprire il modo

ascetica con tutte le varie tendenze ecclesiastiche, una società che non perseguisse altroscopo all’infuori di quello di rinforzare e dilatare il dominio della chiesa” (A. Harnack, Ilmonachismo. Le Confessioni di S. Agostino. Sulle relazioni che passano tra la storia ecclesiastica ela storia universale, tr. it Piacenza 1909, pp.141-142).38 Ibid., pp. 142-143.39 Ibid., pp. 147-148.

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con cui interessare il laicato alla chiesa, ed ha aperto allo stesso in senoalla chiesa, mediante il suo misticismo, ciò che fino allora gli era statonegato. Ha penetrata la vita della chiesa in tutti i suoi dominii, ed èriescita a portare il fedele ai piedi del papa […], ed oggi governa ancorala chiesa con quel tipo di cristianesimo che gli è proprio, colle modalitàfanatiche e sensuali del culto, colla sua politica e colla sua morale. […]Messa sotto la supremazia dei gesuiti, la chiesa divenne in brevespecificamente e definitivamente secolarizzata; essa incominciò adopporsi al mondo, alla storia, alla civiltà”40.

Tenendo, dunque, presenti queste interessanti riflessioni di Harnack,mi pare che si possano riprendere altre annotazioni gramsciane per farsì che il problema storico sia posto con sufficiente chiarezza earticolazione di questioni.

Gramsci vedeva infatti l’età contemporanea, ma – in particolare – ilXIX secolo dalla Restaurazione all’Unità nazionale, caratterizzato dal‘gesuitismo’, che a sua volta poteva essere ricapitolato nella figura dipadre Bresciani, per più versi emblematica: “La psicologia che hapreceduto una tale manifestazione intellettuale è quella creata dalpanico, da una paura cosmica di forze demoniache che non sicomprendono e non si possono quindi controllare altro che con unauniversale costruzione repressiva. Il ricordo di questo panico (della suafase acuta) perdura a lungo e dirige la volontà e i sentimenti: la libertà ela spontaneità creatrice spariscono e rimane l’astio, lo spirito divendetta, l’accecamento balordo ammantati dalla mellifluità gesuitica.Tutto diventa pratico (nel senso deteriore), tutto è propaganda,polemica, negazione implicita, in forma meschina, angusta, spessoignobile e rivoltante come nell’Ebreo di Verona”41. D’altra parte, vedendo– come si è detto – l’origine dei movimenti e degli ordini religiosi nellanecessità da parte della Chiesa di recuperare sulle “disgregazioni” dellaconcezione religiosa del mondo, Gramsci indicava la nuova, peculiaredisgregazione, tipica dell’età contemporanea: “l’apostasia di interemasse, imponente, […] il superamento di massa della concezione

40 Ibid., pp. 144-146.41 A. Gramsci, Quaderni del carcere, vol. III: Quaderni 12 (XXIX) – 29 (XXI), Torino 1975, p.2232.

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religiosa del mondo”42. Ecco allora quella che Harnack chiamava“secolarizzazione” e che per Gramsci – come per Croce – eral’inevitabile politicizzazione della Chiesa cattolica43, la quale non davapiù vita ad ordini religiosi ma a movimenti essenzialmente politici: unareligiosità politica era a fondamento del giobertismo44, ma anchedell’Azione Cattolica o movimento cattolico (sulla base delgesuitismo)45, perfino il modernismo non dava vita a un ordine religiosoma a un movimento politico, la democrazia cristiana46. Si comprendedunque perché, secondo Gramsci, i “due grandi movimenti religiosiriformatori” moderni, che egli – come abbiamo visto – indicava nelgiansenismo e nel modernismo, non avessero dato vita a ordini religiosi.

Tuttavia è anche vero che nei Quaderni si trovano brevi osservazioni enote che potrebbero essere sviluppate in altro senso. Si pensi a questoappunto: “Ricerca sui diversi atteggiamenti del clero nel Risorgimento,in dipendenza delle nuove correnti religiose-ecclesiastiche. Giobertismo,rosminianismo. Episodio più caratteristico del giansenismo”47. Delgiobertismo si è già detto. Ma non si ha invece nessuno sviluppoanalitico sul rosminianesimo, pur qualificato nuova corrente religiosa-ecclesiastica48. È da notare però che al rosminianesimo si avvicinava,com’è noto, Ferrante Aporti, rispetto al quale Gramsci osservava:“Quistione della scuola: attività dei moderati per introdurre il principiopedagogico dell’insegnamento reciproco (Confalonieri, Capponi ecc.); 42 Ibid., p. 2086.43 Scriveva infatti: “Non è più la Chiesa che fissa il terreno e i mezzi della lotta; essainvece deve accettare il terreno impostole dagli avversari o dall’indifferenza e servirsi diarmi prese a prestito dall’arsenale dei suoi avversari (l’organizzazione politica dimassa). La Chiesa, cioè, è sulla difensiva, ha perduto l’autonomia dei movimenti e delleiniziative, non è più una forza ideologica mondiale, ma solo una forza subalterna” (ibid.,pp. 2086-2087).44 Ibid., p. 1912.45 Ibid., p. 2086.46 Ibid., vol. II, cit., p. 1384. Quest’impostazione gramsciana ha trovato poi uno sviluppostoriografico nelle opere storiche di Giorgio Candeloro: cfr. F. De Giorgi, Cattolicesimo eciviltà moderna nella storiografia di Giorgio Candeloro, Cavallino di Lecce 1990.47 Id., Quaderni del carcere, vol. I: Quaderni 1 (XVI) – 5 (IX), Torino 1975, p. 65.48 Di Rosmini Gramsci aveva una conoscenza diretta superficiale, limitata peraltro adaspetti parziali e non significativi. È tuttavia notevole che egli accenni alla grandeimportanza – sembrerebbe maggiore del giansenismo – del rosminianesimo.

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movimento di Ferrante Aporti e degli asili, legato al problema delpauperismo. Nei moderati si affermava il solo movimento pedagogicoconcreto opposto alla scuola “gesuitica”; ciò non poteva non avereefficacia sia tra i laici, ai quali dava nella scuola una propria personalità,sia nel clero liberaleggiante e anti-gesuitico (ostilità accanita controFerrante Aporti, ecc.; […])49.

Il problema storico appare dunque sufficientemente articolato in unacostellazione di plessi tematici: la questione delle “correnti religiose-ecclesistiche” dalla Restaurazione al Risorgimento, la questione cioè delgesuitismo come forma egemone ma anche la questione delrosminianesimo come alternativa, infine la questione degli indirizzipedagogico-educativi.

3. Le radici spirituali della pedagogia cattolica del secolo XIX

In un suo scritto su Stato e Chiesa in Italia da Pio IX a Pio XI, pubblicatopostumo, quell’acuto storico sia del medioevo sia dell’etàcontemporanea che fu Gaetano Salvemini scriveva: “Nel periodo delRisorgimento, fra il 1848 e il 1870, la popolazione “cattolica vera epropria” doveva essere assai più numerosa che non sia oggi,specialmente nell’artigianato delle città e nelle campagne, non ancoraintaccate dalla propaganda socialista. Ma l’influenza politica deicattolici doveva essere allora assai più scarsa che non sia oggi, dato chele classi artigiane e rurali erano allora politicamente inerti”50. Salveminiindividuava dunque un processo contemporaneo e duplice: da unaparte una scristianizzazione del popolo dall’altra una crescita delcattolicesimo politico. Egli si riferiva ai “cattolici militanti italiani”, cioèal “movimento cattolico” intransigente e temporalista: pursegnalandone la crescita, Salvemini riteneva che esso fosse minoritariotra i cattolici italiani e comunque ben distinto dalle posizioni di quelliche chiamava i “mistici italiani “, cioè la “parte più semplice e più puradei cattolici italiani”. E per descrivere questi ultimi, egli scriveva:

49 Gramsci, Quaderni del carcere, III, cit., p. 2047.50 G. Salvemini, Stato e Chiesa in Italia; a cura di E. Conti, Milano 1969, p. 120.

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Chi ha del popolo italiano una conoscenza non superficiale, sa che esiste,specialmente nelle donne, nelle classi rurali e, meno raramente che non si creda,anche nelle classi ricche e nelle classi intellettuali, una Italia mistica, che produssenel secolo XIII san Francesco d’Assisi. Il basso clero italiano presenta moltospesso degli eroi ignoti, che vivono una vita di povertà e di sacrificio […]. Questicattolici mistici accettano il dogma senza discuterlo, ma non se ne interessano, enon amano che altri ne discuta neanche per difenderlo. […]Delle questionipolitiche, di regola, l’Italia mistica non si interessa. […] L’attività di molti misticiè molteplice e mirabile nelle opere di carità, ma è nulla nel campo politico. […]Ho scritto che i mistici di regola non s’interessano di politica. Ma accade chealcuni se ne interessino. Allora, pur mantenendosi rigidamente fedeliall’insegnamento morale e dogmatico della Chiesa, parlano ed agiscono nelcampo politico con una libertà, da cui l’alto clero rimane sconcertato e atterrito.[…] Manzoni, Rosmini, don Bosco (il fondatore dei Salesiani), appartengono nelsecolo XIX a questa grande discendenza di mistici italiani51.

A parte una certa ingenuità e l’innegabile schematicità di alcunigiudizi (che la ricerca storica successiva ha reso ormai insostenibili),tuttavia è interessante sia l’indicazione di una fondamentale e, per cosìdire, strutturale dialettica interna nel cattolicesimo italianodell’Ottocento sia l’individuazione di una tradizione eminentementespirituale (che Salvemini chiamava “mistica”) di lunga durata chegiungeva fino a Manzoni e a Rosmini.

I nomi di Manzoni e di Rosmini richiamano le pagine di FrancescoDe Sanctis sulla scuola liberale in Italia. Sono riflessioni molto note, maricordate soprattutto nell’ambito della storia della letteratura italiana odella storia etico-politica, per rimarcare i contrasti tra scuola liberale escuola democratica. Mi pare opportuno riprenderle per recuperarne unaduplice indicazione: da una parte una più precisa caratterizzazione delladialettica interna al cattolicesimo italiano, già suggerita, sia pureapprossimativamente, da Salvemini; dall’altra la consapevolezzadell’importanza e della essenza soprattutto educativa della scuolaliberale o, come dice De Sanctis, della scuola di Manzoni.

Per quanto riguarda il primo aspetto, parlando della scuola lombardae della scuola piemontese, De Sanctis affermava: “Entrambe hanno unfondo comune d’idee che si può riassumere così: conciliazione della

51 Ibid., pp. 122 e 124.

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religione con la civiltà, col mondo moderno”52. E per Manzoniaggiungeva: “Manzoni vi presenta un ideale cristiano compenetrato conun ideale moderno”53. In questo modo lo scrittore lombardo diveniva ilcaposcuola del movimento che si riconosceva in quell’ideale e che aveva“in Pellico e Berchet i suoi poeti, in Massimo d’Azeglio il suoromanziere, il suo storico in Cesare Balbo, i suoi filosofi in Rosmini eGioberti”54. Importante era Rosmini anche per il suo disegno di riformadella Chiesa, presente nelle Cinque Piaghe: “Le cinque piaghe – sichiedeva dunque De Sanctis – sono cose accozzate senza disegno? E sedisegno c’è, qual è? Egli non lo dice; ma chi legge con spirito filosofico,trova subito il concetto generale che spiega le parti del suo lavoro.Chiesa, pensa il Rosmini, non è il papa, non i cardinali, né i vescovi,nemmeno tutto il clero; nel senso primitivo e vero è la comunione ditutt’i fedeli. Non è solo un centro che toglie vita alla periferia, ma tutto ilcircolo vivente dove i raggi portano vita alla periferia. E tale era laChiesa primitiva vagheggiata da Manzoni e dagli altri della scuolalombarda. […] Spezzate un po’ questo circolo ed avete una chiesaastratta, destinata a morire, non la chiesa vivente”55.

Rappresentanti di tale “chiesa astratta, destinata a morire” erano,secondo De Sanctis, i gesuiti, visti come reazionari puri, esponenti delclericalismo, cioè di un cattolicesimo politico e dunque opposti allascuola liberale manzoniana56. Dei gesuiti egli scriveva: “Ebbene, ad essi 52 F. De Sanctis, La letteratura italiana nel secolo XIX, vol. II, La scuola liberale e la scuolademocratica, a cura di F. Catalano, Bari 1953, p. 247.53 Ibid., p. 208. Affermava inoltre: “Nel contenuto del Manzoni, trovate la Chiesacristiana nella purità delle sue origini, la Chiesa cattolica degenerata e il mondomoderno. Manzoni solleva ad alto ideale poetico la Chiesa cristiana con le sue qualitàfilosofiche e morali; della Chiesa degenerata non tocca, la considera come non avvenuta:pone il passato contro i vizi del presente. Accetta il mondo moderno, ma lo consideracome implicato nell’idea cristiana, conseguenza dello sviluppo di essa. Democrazia,libertà, eguaglianza, fratellanza – egli dice – tutto questo è nel Vangelo. Se considerate ilcattolicesimo, non come principio, immobile, ma come principio che cammina, là trovateil mondo moderno. A questo principio che egli crede compreso nell’idea cristiana,Manzoni dà spirito e forma moderna, e così si tiene in un certo equilibrio, sì che nonentra mai nel vivo del presente, nelle questioni religiose e politiche” (ibid., pp. 199-200).54 Ibid., p. 12.55 Ibid., p. 232.56 Ibid., pp. 201, 308-309.

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si rimprovera aver fatto della religione un’arma del potere temporale epolitico, volere sempre ingerenza negli affari pubblici e ne’ governi; –che, per meglio domare il laicato, presero abito e modi laicali, sì che tra imonaci son quelli che meno paiono monaci, – che pensaronoimpadronirsi della coltura e delle scuole per essere signori dell’opinione;– infine, che per accrescere il numero de’ loro aderenti, rilassarono lamorale introducendovi distinzioni casistiche, e ammisero certeindulgenze nella confessione delle colpe, eguale alla rigidità con cuisostengono i principii generali della loro dottrina”57.

Il secondo, rilevante aspetto dell’analisi desanctisiana stava nell’averindicato l’impegno educativo che animava la scuola liberale lombarda.Dopo aver detto dell’attività di Tommaseo e di Cantù per l’istruzione el’educazione del popolo, De Sanctis continuava: “Il che è d’accordo conlo spirito stesso del cristianesimo sul quale si fondava quella letteratura,che ha cercato sempre il suo appoggio e la sua leva nell’istruzione enell’educazione delle moltitudini. Fu utile quell’opera alla qualeconcorsero tanti uomini eminenti oltre que’ due, il Lambruschini,l’Aporti, il Thouar, il Parravicino? Certo, se guardate al fine ed airisultati non possiamo disconoscere che, volgendo a quel fine laletteratura, essi contribuirono alla civiltà italiana, perché fin d’allora eprima per opera loro si fe’ viva la persuasione che a rigenerare l’Italianon bastasse l’istruzione della borghesia e fosse necessaria quella ditutto il popolo. E furono cercati molti metodi ingegnosi per renderel’arte del leggere facile e piacevole, e furono cercati molti metodipedagogici perché l’istruzione non fosse solo raccolta di notiziegeografiche, naturali, fisiche, astronomiche, storiche, utili e necessarie alpopolo, ma fosse accompagnata anche dall’educazione cristiana. Oranon guardo nei particolari di quell’opera e sarebbe ingiustizia eparzialità non riconoscere il bene che ha prodotto”58. Anche il De Sanctisperaltro riteneva che la corrente liberale manzoniana si riallacciasse auna più antica tradizione, non solo sul piano della spiritualità, ma purenell’ambito dell’ispirazione educativa59.

57 Ibid., p. 202.58 Ibid., pp. 222-223.59 Osservava: “Quale è la base di quest’educazione? Fu un ritorno a ciò che costituival’indirizzo della scuola cristiana nel medio evo ed anche nei secoli posteriori, degenerata

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Questa ricerca cerca di studiare appunto le radici spirituali dellapedagogia cattolica non gesuitica del XIX secolo, individuando inRosmini la figura centrale. Nell’Ottocento confluirono due granditradizioni pedagogiche precedenti: quella gesuitica, che si potrebbe diredella Controriforma, e quella invece che si riallacciava alla Riformacattolica. La prima era la tradizione dei grandi Collegi, delleCongregazioni mariane, della pietà istituzionalizzata nelle molteplicidevozioni popolari. La seconda era la tradizione dell’oratorio filippino,dei piccoli Collegi dei barnabiti e dei somaschi, dell’istruzione popolaredegli scolopi, della pastoralità borromaica, della predicazione deicappuccini. Questa seconda tradizione giungeva dunque fin nel cuoredel Risorgimento italiano ricollegandosi a quella che De Sanctischiamava scuola liberale manzoniana. Si pensi all’apprezzamento diTommaseo per gli scolopi e di Cantù per i barnabiti. Si pensi alle figuredel cardinale Federigo Borromeo e del cappuccino fra Cristoforo neiPromessi Sposi. In Rosmini poi, come vedremo analiticamente, siriannodavano, per fare da fondamento spirituale a un robusto pensieropedagogico, la tradizione filippina, la tradizione borromaica, latradizione della predicazione apostolica dei cappuccini (su quest’ultimain particolare, essendo meno nota, occorrerà indugiare più a lungo perenuclearne gli aspetti che più potrebbero aver influenzato ilRoveretano).

Certo questa tradizione era distinta ma non necessariamente oppostaal gesuitismo. Così infatti giunse nell’età della Restaurazione e così siconservò fino agli anni ‘30. Fu a partire dalla Rivoluzione di Luglio –come ben aveva intuito De Sanctis60 – che cominciarono a porsi quelledifferenze che sarebbero poi sfociate nei contrasti tra “gesuitomani” e

allora e corrotta in un clero ineducato e poco istruito egli stesso. Essi dissero: ilcristianesimo fu un bene per la civiltà quando, trovandosi dirimpetto le forze barbare eviolente che invadevano l’impero romano, predicò l’umiltà, la pace, l’obbedienza, ladisciplina, il perdono. Fu in certo modo lo strumento per cui a poco a poco, in mezzo atanto disordine, si giunse ad una relativa mitezza di costumi. La civiltà, nel senso piùgeneroso della parola, è costumi sempre più miti, repressione delle forze violente. –Credettero quindi ricondurre la scuola a quel tipo, e che nel secolo XIX fosse utile ciòche avea prodotto tanto bene ne’ primi tempi del cristianesimo” (ibid., p. 223). DeSanctis non condivideva questo indirizzo, ma ne riconosceva con molta onestà i meriti.60 Ibid., p. 228.

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“gesuitofobi”. Sarà allora interessante vedere quelle esperienze (come lavicenda dei marchesi di Barolo) che si espressero significativamenteprima di quello storico spartiacque in forme affini alle posizioni di Balboe di Rosmini ma anche filogesuitiche e osservare come subiscano poiuna profonda modificazione, quanto meno nella percezione che neebbero i contemporanei.

Si vedrà infine come i molteplici fili considerati si riannodino nelgrande entusiasmo di libertà del 1848, l’anno dei portenti: sarà allorainfatti che la riflessione di Rosmini, in materia dei diritti di libertà(libertà di insegnamento, libertà di associazione) raggiungerà la suaespressione più lucida e compiuta, anche più dei successivi articoli sullalibertà d’insegnamento che certa storiografia ha molto enfatizzato, mache di fatto si collocano nel periodo di ripiegamento e di delusione di unRosmini ormai vicino alla morte.

Le due tradizioni pedagogiche cattoliche, quella che risaliva allaControriforma e quella che risaliva alla Riforma cattolica, avrebberodunque reagito in modo differente ai processi di modernizzazione e ailoro effetti sulla religione e sulla Chiesa cattolica. Tali effetti sono stati,come si è già visto, di due tipi: di laicizzazione e di secolarizzazione. LaChiesa e i cattolici sono stati dentro i processi di modernizzazione o percontrastarli o per adattarvisi. Si sono così avute azioni anti-laicizzazioneo di adattamento alla laicizzazione e azioni anti-secolarizzazione o diadattamento alla secolarizzazione. È da notare che l’adattamento su unpiano corrisponde a opposizione sull’altro piano e viceversa.

I gesuiti hanno compiuto l’opzione anti-laicizzatrice, opponendosialle istituzioni dello Stato laico liberale (ritenuto effetto della Riformaprotestante), attraverso l’adattamento cattolico alla secolarizzazione, conforme cattoliche di secolarizzazione o sacralizzazione della politica,come l’integralismo o come il confessionalismo. Sul piano pedagogicociò ha significato una pedagogia dell’autorità, del conformismo edell’obbedienza.

Rosmini e coloro che si ricollegavano alla Riforma cattolica hannoinvece compiuto un’opzione anti-secolarizzatrice, ritenendo rischiomaggiore per la Chiesa e per la fede cristiana il dispotismo statale, lasacralizzazione del potere politico, il neopaganesimo: hanno dunquecompiuto un adattamento cattolico alla laicizzazione – vista in fondo

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come un ultimo effetto della civilizzazione cristiana – attraversol’accettazione del costituzionalismo e la fondazione, su ideali cattolici,della laicità dello Stato. Sul piano pedagogico ciò ha significato unapedagogia di libertà, di autonomia interiore, di rafforzamento delcarattere.

Questa tipizzazione, qui sinteticamente richiamata, può apparire ineffetti schematica. L’intento di documentarne – con precisione filologicae con articolazione analitica – l’esito, nella sua seconda accezione, quellarosminiana, ha sorretto dunque il lavoro della ricerca che quipresentiamo.

Abbreviazioni:

ASIC – Archivio Storico dell’Istituto della Carità – Stresa

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CAPITOLO I

RELIGIOSI, MODERNIZZAZIONEED EDUCAZIONE NELL’OTTOCENTO ITALIANO

1. La modernizzazione delle strutture statali

Nel considerare “lo Stato e la modernizzazione delle sue strutture”1,pur tenendo conto che si tratta di studiare un processo non univoco nésempre lineare, è tuttavia evidente come un ruolo importante giochi inesso la laicizzazione istituzionale e dunque la questione del sistema dirapporti Stato-Chiesa. Ma, a questo proposito, ha giustamente osservatoGiuseppe Capograssi che, nell’età contemporanea, “l’atteggiamentodello Stato di fronte agli ordini religiosi è il punto cruciale del problemadelle relazioni tra Stato e Chiesa”2. E del resto, in questo stesso periodo,“la storia delle congregazioni religiose non si può più scindere da quelladell’insegnamento”3. Al cuore dunque del processo di laicizzazionedello Stato, inteso quale aspetto della modernizzazione delle suestrutture, stanno la “lotta” contro le congregazioni religiose e lalaicizzazione dell’insegnamento, come momenti paralleli e spessointerconnessi.

Ma, prima di vedere come questo processo di laicizzazione si realizzinell’Italia dell’Ottocento, è utile considerare come esso si sia svolto in 1 Cfr. N.Raponi (a cura di), Dagli stati preunitari d’antico regime all’unificazione, Bologna1981.2 G. Capograssi, Recensione a G. Ferroglio, la condizione giuridica degli ordini religiosi, in“Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto”, III (1931), p. 368, poi in Id., Opere, vol.VI, Milano 1959, p. 194.3 F. Ruffini, La lotta contro le Congregazioni religiose in Francia, in “Rivista d’Italia”, V(1902), X, p. 14 (dell’estratto).

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Francia: sia perché – per un certo periodo (quello napolconico) – essointeressò anche l’Italia e anzi vi pose importanti premesse per isuccessivi svolgimenti locali, sia soprattutto perché esso fucostantemente presente come ineludibile modello di riferimento pertutto il corso del secolo e ha poi influenzato la stessa storiografia che hasovente inquadrato le vicende italiane secondo moduli interpretativisostanzialmente desunti dall’esperienza francese.

Nella Francia settecentesca pre-rivoluzionaria, il malessere e lanecessità di una riforma della vita religiosa erano evidenti: si trattavaperaltro di un ambito in cui lo Stato rivendicava un diritto d’imperio.Così, in seguito ai voti espressi dall’Assemblea del clero francese del1765-66, il 31 luglio 1766 fu nominata una Commissione mista che, purnon mettendo capo ad un’organica riforma, suscitò una serie diprovvedimenti parziali (tra i quali l’Editto del 24 marzo 1768), in alcunicasi anche di soppressione, che provocarono una diminuzione delnumero dei religiosi. Ad ogni modo, prima della Rivoluzione, non siavvertiva in Francia un “pericolo congregazionista” (l’espulsione deigesuiti era stato un caso a sé) e furono pochi i cahiers in cui si invocava lasoppressione dei religiosi4. La Costituente, col Decreto 2-4 novembre1789, metteva i beni ecclesiastici a disposizione dello Stato e nelcontempo provvedeva ai ministri del culto, stipendiati come pubblicifunzionari: i religiosi, non essendo in quanto tali ministri di culto,restavano spogliati dei beni e senza stipendio.

Ma il Decreto veramente fondamentale per la storia della vitareligiosa in Francia fu quello del 13-19 febbraio 1790 che disponeva ilnon riconoscimento dei voti monastici solenni e dunque l’abolizione diordini e congregazioni in cui si professassero tali voti. Con questoDecreto si ha un primo modello di “laicizzazione della vita religiosa”:non riconoscimento della personalità giuridica agli ordini econgregazioni di voti solenni e libertà quasi piena (il Decreto 20 febbraioe 19-20 marzo 1790 poneva infatti limiti alla capacità giuridica diacquistare a titolo gratuito) di diritti civili per i religiosi, liberandolidunque dalla “morte civile” e sopprimendo la repressione attraverso il 4 Cfr. F. A. Aulard, La Révolution française et les Congrégations, Paris 1903; A. Dansette,Chiesa e società nella Francia contemporanea, vol. I: Dalla Rivoluzione alla Terza Repubblica.1789-1878, Firenze 1959.

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braccio secolare. Compimento di queste norme era il Decreto 8-14ottobre 1790 che tra l’altro – con l’art. 23 – aboliva l’abito religioso:abolizione (come fu precisato dal Decreto 11 marzo 1791) dell’obbligo divestire l’abito non della libera facoltà. In altri termini questo “modello”intende sopprimere gli ordini e le congregazioni come istituti legali manon abolirli di fatto.

Un altro “modello” fu invece quello stabilito dall’Assemblealegislativa con il Decreto del 18 agosto 1792 (preceduto da quello del 17che ordinava lo sgombero delle case): con esso le corporazioni religiosevenivano soppresse di diritto ed estinte di fatto. L’abito religioso, diconseguenza, era vietato. Si voleva così l’”annientamento” della vitareligiosa.

Un terzo “modello” si ebbe infine nel periodo napoleonico: ed èquello che – con alterne vicende e ritocchi – attraversa tutta la storiafrancese dell’Ottocento. Dopo il Concordato del 26 fruttidoro, anno IX(13 settembre 1801), che ristabiliva il culto cattolico, la Legge organicadel 18 germinale, anno X (8 aprile 1802), precisava che conl’autorizzazione del Governo si potevano stabilire capitoli cattedrali eseminari, ma tutti gli altri istituti ecclesiastici erano soppressi. Insostanza Napoleone concepiva una Chiesa di Stato nazionalizzata nellesue strutture centrali e periferiche in analogia e in parallelismo allanazionalizzazione delle strutture statali: in questa prospettiva gli ordinireligiosi apparivano dissonanti, non razionalizzabili e soprattutto nonnazionalizzabili (perché visti come strutturalmente dipendenti daRoma). Tuttavia Napoleone poteva riconoscere l’utilità sociale di unasorta di volontariato religioso, non però nella forma di ordine religioso(con voti solenni, come erano allora i regulares secondo il dirittocanonico).

Si ebbero dunque autorizzazioni ad alcune congregazioni,prevalentemente di carità. Con il Decreto del 3 messidoro, anno XII (22giugno 1804), si stabiliva così una normativa anch’essa fondamentaleper la storia della vita religiosa in Francia: si riconosceva la personalitàcivile alle congregazioni autorizzate (da un Decreto imperiale), mentresi prevedeva lo scioglimento, anche quali libere associazioni, per le non-autorizzate. Riconfermando le leggi anteriori che non riconoscevano ivoti perpetui, si stabiliva implicitamente che l’autorizzazione poteva

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essere ottenuta solo da congregazioni di voti temporanei. Questoprincipio rimarrà costante: ecco perché in tutte le polemiche francesiottocentesche e primo-novecentesche si parlerà sempre di“congregazioni” e mai di “ordini”. Tuttavia, in seguito a tale Decreto del1804, si ebbero numerose autorizzazioni (tra le quali quella acongregazioni ospitaliere femminili con il Decreto del 18 febbraio 1809)5.

L’applicazione di questi principi napoleonici all’Italia comportò – acominciare dal Piemonte – una serie di soppressioni parziali, di case e diordini religiosi6. Sulle vicende italiane influirono anche i rapporti diBonaparte con la S. Sede e con Pio VII, il quale non accettavaovviamente l’idea napoleonica dell’inutilità delle corporazioni religiosenei tempi moderni. Una nota del 1807 del Ministro degli Esteri francese,Champagny, al cardinale legato Caprara affermava che “non c’eranofrati nel tempo degli apostoli, né ce ne sono in Francia. L’Italia non ne habisogno”7. Si giunse così, il 3 maggio 1810, al Decreto che stabiliva lasoppressione generale degli ordini e che determinò un notevolesconvolgimento.

Ritornando alla Francia, osserviamo che il modello napoleonico fumantenuto anche nella Restaurazione e nelle alterne vicende politicheche scossero il Paese nel corso dell’Ottocento, sullo sfondo della lottatotale tra i “figli di Voltaire” e i “figli delle Crociate”. E in effetti unaspia del prevalere ora dei primi ora dei secondi è data dalleautorizzazioni concesse alle congregazioni religiose8. Si noti tuttavia un

5 Cfr. D. Schiappoli, Diritto ecclesiastico vigente in Francia, vol. II: Regolari: Ordini eCongregazioni religiose, Torino 1893.6 Cfr. C.A. Naselli, Italia, VIII: Le soppressioni napoleoniche (1800-14), in Dizionario degliIstituti di Perfezione, vol. V, Roma 1978, cc. 211-217.7 Il testo della nota è in I. Rinieri, Napoleone e Pio VII 1804-13, vol. II, Torino 1906, p. 345.Cfr. M. Roberti, La Legislazione ecclesiastica nel periodo napoleonico, in AA.VV., Chiesa eStato. Studi storici e giuridici per il decennale della Conciliazione tra la S. Sede e l’Italia, vol. I:Studi storici, Milano 1939, pp. 253-332.8 Dalla relazione presentata dal Brisson alla Camera il 27 dicembre 1880 risulta che 32congregazioni maschili (con 263 stabilimenti) erano state autorizzate; per 4 non si avevala data, per le altre: 4 nel Primo Impero; 15 nella Restaurazione; nessuna nellaMonarchia di Luglio e nella Seconda Repubblica; 5 nel Secondo Impero; 3 nella TerzaRepubblica; 1 nel Regime Sardo in Savoia e a Nizza. Erano state altresì autorizzate 640congregazioni femminili (1696 stabilimenti); 26 in data incerta, per le altre: 71 nel Primo

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interessante cambiamento di accenti: nel dibattito parlamentare allaCamera dei Pari, nel 1824, sulle comunità religiose femminili, siguardavano in generale con favore le religiose ‘utili’ per il loro servizionegli ospedali, ma anche le contemplative, mentre si volevanosottoposte a un più severo controllo statale quelle dedite all’istruzione.

Sul piano normativo si ebbe la Legge 24 maggio 1825, relativa allecongregazioni femminili, che richiedeva l’autorizzazione con ordinanzadel Re per le congregazioni che già esistevano a quella data e, per ilfuturo, stabiliva che l’autorizzazione doveva essere accordata con unalegge. Per ottenerla, gli statuti delle congregazioni dovevano essereapprovati dall’Ordinario diocesano e verificati e registrati al Consigliodi Stato e dovevano contenere la clausola della giurisdizione, nelle cosespirituali, del Vescovo. L’iter per l’autorizzazione fu poi snellito –sempre per le congregazioni femminili – dal Decreto 31 gennaio – 16febbraio 1852 che stabiliva l’autorizzazione per decreto invece chelegislativa, in alcuni casi specifici.

Anche la Terza Repubblica mantenne in sostanza, pur con un animusanticlericale (che si espresse nel 1880 con lo scioglimento dellaCompagnia di Gesù), lo stesso “modello di laicizzazione”, confermatosia nel 1880 sia nel 1901: potevano esistere legalmente (cioè conpersonalità giuridica) e di fatto solo le congregazioni autorizzate, lecongregazioni non-autorizzate potevano, in alcuni periodi, esseretollerate di fatto ma non avevano alcuna garanzia giuridica e potevanoperciò essere sciolte in qualsiasi momento.

All’interno di questo modello, dunque, si svolse nell’Ottocento, e finoalla prima guerra mondiale, la lotta attorno all’insegnamento e se i “figlidelle Crociate” ottennero una serie di successi fino alla grande vittoriadella Legge Falloux (15 marzo 1850) che riconosceva la libertà diinsegnamento, i “figli di Voltaire” cominciarono a riguadagnare terrenoa partire dal 1880: il 28 marzo 1882 una legge escluse le congregazioninon autorizzate dalle scuole pubbliche; il 30 ottobre 1886 furono escluseanche le autorizzate; la Legge del 1901 e soprattutto la Circolare del

Impero; 211 nella Restaurazione; 39 nella Monarchia di Luglio; nessuna nella SecondaRepubblica; 228 nel Secondo Impero; 46 nella Terza Repubblica; 8 nel Regime Sardo inSavoia e a Nizza. I dati arrivano al 1880 (cfr. Schiappoli, Diritto Ecclesiastico vigente inFrancia, cit., pp. 61 e 77-78).

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Ministro della Pubblica Istruzione (11 settembre 1901) stabilirono cheogni scuola in cui insegnasse anche un solo membro di unacongregazione doveva considerarsi come uno stabilimento dellacongregazione stessa, anche se la proprietà era di altri, e perciò farsiautorizzare; infine la Legge 7 luglio 1904 vietò a tutte le congregazionil’insegnamento di ogni ordine e grado. Commentava, con molto acume,Francesco Ruffini: “La Francia che pareva allora non ricevere altraparola d’ordine che dalle sacrestie, si direbbe adesso tutta quantaasservita alle loggie. Singolare paese davvero, che si è da un secoloincantato intorno ad un inconcludente e qualche volta perfino puerilegioco di altalena fra il partito clericale e quello avverso, senza saper maitrovare il punto di equilibrio e di riposo! […]. È vero che qui si tienetuttavia fermo il famoso concordato napoleonico del 1801; ma intorno aquesta corda tesa da un capo all’altro del secolo quanti strappi per l’unverso e per l’altro, che frenesia di scambietti in alto e in basso!”9.Andando al fondo della contrapposizione ideologica in Francia, Ruffiniconcludeva: “Due Francie stanno da un secolo in campo l’una control’altra, che non si potranno forse mai più riconciliare; due tradizioni vicozzano, che non si potranno forse mai ridurre e fondere in una sola:quella che rimonta all’ancien régime, e quella che discende dallaRivoluzione. L’una esalta i fasti delle Crociate e tiene, più che ad ognialtra cosa, a quel titolo di fíglia primogenita che la Chiesa le ha largito;l’altra si vanta del suo razionalismo e rammenta ancora concompiacenza i colpi portati cent’anni fa alla Chiesa, i più crudeli chequesta abbia patito mai”10.

Questo schema bipolare e antagonistico fu largamente assorbitodall’ideologia controrivoluzionaria italiana della Restaurazione, fuelevato a livello universale, meta-politico e semi- apocalittico, da Pio IX,fu parte integrante della mentalità intransigente (si pensi alla Storiad’Italia di don Bosco11) che lo applicava anche all’Italia post-unitaria, fu

9 Ruffini, La lotta contro le Congregazioni religiose in Francia, cit., pp. 3-4.10 Ibid., p. 5.11 Cfr. F. Traniello, Don Bosco e l’educazione giovanile: la «Storia d’Italia», in F. Traniello (acura di), Don Bosco nella storia della cultura popolare, Torino 1987, pp. 81-111, dove siafferma che in don Bosco vi era “un’inespressa convinzione che, sorta e consolidatasi laChiesa in Italia, si dia storia soltanto nei termini del conflitto tra religione e irreligione,

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assunto dalla storiografia gesuitica italiana (Pirri, Rinieri) e trapassòspecularmente nella storiografia liberale (Croce, Omodeo, Maturi,Chabod). Ancora recentemente Poulat ha ricompreso la situazionefrancese e italiana dell’Ottocento – pur con una serie di distinzioni e diarticolazioni – sotto questa cifra di netta divisione dei campi12, parlandoperò anche di un “cattolicesimo borghese” non riconosciuto dalla Chiesae sconosciuto da storici e sociologi.

Tenendo dunque conto di questo “modello francese”, cerchiamo dianalizzare il modello di laicizzazione realizzatosi in Italia, doveovviamente fino al 1870 ci troviamo di fronte a una pluralità di sistemidiversi di relazioni Stato-Chiesa. Individuando nel 1848 il momento disvolta, isoliamo i due modelli – cronologicamente successivi – dilaicizzazione che si hanno in Italia: il modello del Lombardo-Veneto e ilmodello piemontese-italiano.

Pur riprendendo in molti casi la politica regalistica settecentesca,quasi tutti gli stati italiani della Restaurazione ne limitarono fortementela portata. L’Austria (e dunque il Lombardo- Veneto) fu l’ultimo deglistati a stipulare un Concordato con la Santa Sede. Nel 1815 c’era statoinfatti il Concordato col Granducato di Toscana, nel 1817 col Regno diSardegna, nel 1818 col Regno delle Due Sicilie, nel 1827 col Ducato diLucca.

Fino al 1848 era dunque il Lombardo-Veneto che, anche in virtù diuna struttura amministrativa e legislativa più moderna13, presentava unmodello di “laicizzazione della vita religiosa”. Tale modello è statodefinito “neo-giuseppinista”, ma tale definizione appareinsoddisfacente anche se segnala un collegamento, che effettivamente cifu, con le forme di regalismo settecentesco. All’origine vi era stato ilriformismo, per così dire “muratoriano”, di Maria Teresa che avevaportato, tra l’altro alla soppressione dei “conventini”. Quella che inMaria Teresa era una prospettiva religiosa, di indirizzo verso una“regolata devozione”, si era coniugata poi in Giuseppe II con una

tra ortodossia ed eresia, tra fedeli e ribelli” (p. 105).12 E. Poulat, Don Bosco e la Chiesa nel mondo del loro tempo, in M. Midali (a cura di), DonBosco nella storia, Roma 1990, pp. 93-106.13 Cfr. G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. II: Dalla Restaurazione alla Rivoluzionenazionale 1815-1846, Milano 1958, 19779, p. 23.

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tendenza di razionalizzazione delle strutture statali che era giunta acomprendere anche le strutture ecclesiali con la riorganizzazione (e ilrafforzamento) delle parrocchie. Ma il “giuseppinismo” indica pure unpiù marcato e radicale riformismo religioso, come fu il caso dellasoppressione nel 1782 degli ordini religiosi contemplativi e “inutili”,cioè non dediti all’insegnamento, all’assistenza o allo studio. Il Governoaustriaco della Restaurazione non riprendeva questo radicalismogiuseppino, ma proseguiva la linea di razionalizzazione delle struttureecclesiali che, peraltro, nei domini italiani, aveva avuto una forteaccelerazione nel periodo napolconico, con la soppressione degli ordinireligiosi, dei giuspatronati familiari, del policentrismo devoto fondatosu confraternite, cappelle, santuari e altari.

Con la Restaurazione dunque lo Stato tornò a proteggere la Chiesa e,anzi, Stato e Chiesa “si supplirono e compirono a vicenda”14. Ma latendenza era quella di inserire vescovi e parroci nella struttura statale,quasi un ramo speciale della pubblica amministrazione: ai vescovi siriconosceva la supervisione di ogni istituto caritativo e di beneficenza e iparroci erano anche i direttori di tutte le scuole elementari. Lo Statoperaltro manteneva molte prerogative giurisdizionali (regio placet,exequatur, controllo sui seminari e altro ancora). La restaurazione degliordini religiosi non fu totale: nel 1818 si permise la ricostituzione degli“Ordini che sono destinati dalla Chiesa e dallo Stato all’istruzione edall’educazione della gioventù, al ricovero ed alla assistenza degli orfani,degli infermi e dei poveri ed anco gli Ordini mendicanti, in quanto sianonecessari per le cure delle anime, e per le confessioni”. I nuovi istitutireligiosi dovevano ottenere l’autorizzazione governativa che eraconcessa intervenendo nel merito della struttura dell’istítuto (comedimostra la vicenda delle Figlie della Carità della Canossa)15.

Nell’ambito di questo “modello”, che potremmo dire di“semigiurisdizionalismo filocattolico”, la vita religiosa non si sviluppòcerto in un senso retrivo e bigotto. Lo notava con acutezza il campionedella reazione cattolica italiana, il Principe di Canosa, che scriveva al

14 F. Nardi, Elementi di diritto ecclesiastico, vol. I, Venezia 1846, p. 42.15 Cfr. M. Vanzo, Maddalena di Canossa Fondatrice delle Figlie e dei Figli della Carità (1774-1835), Roma 1985; E. Bressan (a cura di), Maddalena di Canossa e la Chiesa di Milano,Milano 1990.

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Torelli nel 1824: “Sapete la tesi che si è sostenuta a Pavia? Che i Re e gliImperatori sono i delegati del Popolo. Si stampano alla macchia le operedi Voltaire, Rousseau, Diderot e si usa il massimo rigore contro le operedel conte De Maistre, atleta robustissimo della Religione e Monarchia.Spiegatemi questo e tanti altri enigmi con le vostre teorie circa i vostriprincipali. Ci vuol altro che carcere duro per paralizzare la rivoluzione,ci vogliono le monarchiche istituzioni e un governo religioso emonarchico”16.

A Milano si diffuse il rosminianesimo (simpatie per Rosmini siavevano tra i responsabili del Seminario e la rivista ufficiosa dellaDiocesi, l’Amico cattolico, di notevole apertura, diffondeva le idee delfilosofo roveretano) innestandosi sulla tradizione lombarda diCristianesimo illuminato muratoriano e facendo di Milano e dellaLombardia uno dei maggiori centri del “cattolicesimo conciliatorista”17.L’arcivescovo di Milano, Gaysruck, peraltro, limitò pellegrinaggi eprocessioni propri di una religiosità “esuberante”, si dimostrò ostile allagesuitica devozione al S. Cuore, e, soprattutto, non permise il rientro inDiocesi ai Gesuiti e agli Oblati dei Santi Ambrogio e Carlo mentreaccolse i Barnabiti e le Orsoline e le nuove fondazioni della Canossa edella Capitanio18. Dopo la sua morte, nel 1846, il necrologio ufficialeaffermava: «La buona educazione della gioventù era sempre in cimad’ogni suo pensiero; e perciò favoriva quegli Ordini religiosi che lacoltivavano. Ripristinò l’Ordine de’ Barnabiti e protesse di tali manierequell’Istituto, che ora conta tre collegi di belle lettere in Milano, in Lodi,in Monza, dove si insegna pure filosofia; ammise i Padri Somaschi nelCollegio di Gorla e all’educazione dei Discoli in Milano; accolse ilReligioso Istituto delle figlie della Carità fondate già in Verona dallaMarchesa Canossa, Istituto che ora conta quattro case in Milano e una inMonza per l’educazione morale delle figlie del popolo; chiamò e istituìin Milano le suore della Carità, e loro affidò l’ospedale femminile Ciceri,il ricovero Patellani, quello dell’Addolorata a San Barnaba, il ricovero e

16 Cit. in W. Maturi, Il Principe di Canosa, Firenze 1944, p. 223.17 Cfr. F. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista. Religione e cultura nella tradizionerosminiana lombardo-piemontese (1825-1870), Milano 1970.18 Cfr. C. Castiglioni, Gaysruck e Romilli arcivescovi di Milano, Milano 1938; M. Pippione,L’età di Gaysruck, Milano, 1984.

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l’ospedale di Treviglio, e di recente con tanto conforto delle inferme etanto vantaggio degli esposti le sale dell’Ospedale Maggiore e la Casa diSanta Caterina; ripristinò le Agostiniane al Sacro Monte sopra Varese,ed eresse lo stesso religioso Istituto con Pontificia autorità in Milano inSanta Prassede, al cui educandato, come prima a quello delle Salesiane,ottenne speciale privilegio; fondò per ultimo due case di Orsoline aSant’Ambrogio e a Sant’Eustorgio che attendono esse pure allafemminile educazione”19. Colpisce, in tanto fervore di apostolatoeducativo e di favore per le congregazioni insegnanti, la preminenza deiBarnabiti. Non si tratta di un fatto nuovo e sorprendente: in piena epocadi soppressioni napoleoniche, i Barnabiti conservarono il Collegio di S.Luigi a Bologna, per l’aperta protezione del prefetto Querini20. Talefavore, laico ed ecclesiastico, non derivava in realtà dall’educazione piùaperta dei collegi barnabitici, né tanto meno dalla successiva diffusionenella congregazione di idee liberali, quanto invece dal fatto che essicostituivano una valida alternativa ai Gesuiti ed, essendo unacongregazione meno numerosa e dunque più debole, potevano esserepiù facilmente controllati dall’autorità civile e dai vescovi.

Con i fatti del 1848 il “modello di laicizzazione”semigiurisdizionalista del Lombardo-Veneto andò in crisi. Mentre ilGoverno provvisorio, nell’aprile 1848, a Milano, con a capo GabrioCasati, si trasformava in Consulta Lombarda, il fondatore delleMarcelline, Luigi Biraghi, direttore spirituale dei Seminario teologico diMilano, insisteva presso l’arcivescovo Romilli (succeduto nel 1847 alGaysruck) affinché si iniziasse un’azione verso il nuovo Governo per“riguadagnare le libertà perdute, la nomina dei vescovi,l’amministrazione dei beni ecclesiastici, le cause matrimoniali ecc.”.Incaricato dall’Arcivescovo, si recò da Casati: “mi aprii con il presidente– scrisse poi a Marina Videmari – e gli esposi la missione mia ed i varibisogni della Chiesa; insistetti molto sulla nomina dei vescovi, sullalibera comunicazione con Roma, sulla libertà d’insegnamento e dieducazione, sulla libertà delle corporazioni religiose,sull’amministrazione dei beni ecclesiastici ecc.; e ne ebbi, grazie a Dio, 19 In “Milano Sacro”, 1847.20 Cfr. C. Mesini, La soppressione degli Ordini religiosi a Bologna durante la Repubblicacisalpina e il regno napoleonico, in “Culta Bononia”, V (1973), pp. 71-85 e 161-188.

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favorevole risultato”21. Questa “libertà della Chiesa” era anche quantochiedeva la rivista ecclesiastica l’Amico cattolico in una prospettivaconcordataria22.

La seconda restaurazione austriaca cercò dunque da un lato diaccordare una maggiore libertà di movimento alla Chiesa, mettendo daparte ogni residuo giurisdizionalismo, e dall’altro di favorire unamaggiore compenetrazione Chiesa-Stato e un indirizzo ecclesiastico piùconservatore. Era la via che avrebbe portato al Concordato nel 1855. Seda una parte, nel suo complesso, l’episcopato cercò di marcare una piùnetta autonomia dall’autorità politica, anche attraverso una più intensaattività sinodale23, ci fu pure – per esempio a Milano – una nettainvoluzione reazionaria. Furono reintrodotti i Gesuiti, che proprio alloraalzavano il tiro nella polemica contro Rosmini. Fu perseguita un’operadi repressione del clero di sentimenti liberal- nazionali. L’Amico cattolicoassunse una linea anti-rosminiana, mentre nel Seminario fu condottauna sorta di epurazione, escludendo i sacerdoti più aperti come Biraghie Luigi Speroni (fondatore della Congregazione delle Suore del BuonPastore), per affidare i seminari agli Oblati di S. Carlo, restaurati daRomilli24.

Il Concordato del 1855, peraltro, concedeva agli ordinari la più pienalibertà – senza vincoli da parte dello Stato – di fondare nuovi istitutireligiosi e a questi ultimi dava più autonomia.

Nel momento in cui finiva il “modello di laicizzazione” delLombardo-Veneto nasceva il “modello” del Piemonte costituzionale, chesarebbe stato poi quello del Regno d’Italia. Questo modello si definivasecondo due coordinate: da una parte il quadro normativo di partenza ecioè l’art. 1 dello Statuto, gli articoli del Codice Civile (nn. 1, 2, 3, 433 e

21 Lettera di L. Biraghi a madre Marina Videmari, datata 9 aprile 1848, riportata in M.Ferragatta, Monsignor Luigi Biraghi fondatore delle Marcelline, Brescia 1979, p. 55. Ma siveda anche più avanti, al cap. VII.22 Ancora una parola sui bisogni della Chiesa nostra, in “Amico cattolico”, VIII (1848), 7, pp.240-244.23 Cfr. A. Gambasin, La Chiesa Veneta nell’Ottocento, in AA.VV., Il vescovo GiovanniAntonio Farina e il suo Istituto nell’Ottocento veneto, Roma 1988, pp. 23-3 1; Id., Religione esocietà dalle riforme napoteoniche all’età liberale, Padova 1974. Cfr. A. Zanotti, Il concordatoaustriaco del 1855, Milano 1986.24 Cfr. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista..., cit.

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436) e, in misura minore, le norme concordatarie, che facevano – nel lorocomplesso – del Regno di Sardegna uno Stato confessionale, dall’altral’azione politica, legislativa e di governo di Massimo d’Azeglío e,soprattutto, di Cavour, per restringere al minimo tali elementi diconfessionalità ma nel rispetto della Chiesa Cattolica, della suaautonomia legittima, delle sue prerogative pastorali e spirituali25. Ipassaggi fondamentali in cui si definiva questo modello piemontese-italiano erano: il Decreto legislativo 25 agosto 1848 n. 777 soppressivodei Gesuiti; la Legge 29 maggio 1855 n. 878 che toglieva la personalitàgiuridica ad alcuni ordini religiosi; e, successivamente, la Legge 7 luglio1866 n. 3036 che toglieva tale personalità a tutti gli ordini e lecongregazioni e la Legge 19 giugno 1873 n. 1402 che estendeva, contalune modifiche, le leggi precedenti a Roma e provincia. Queste nonerano, ovviamente, tutte le leggi che portarono alla “laicizzazione” delloStato Sardo26 (e poi dello Stato Italiano), ma – poiché riguardano tutti gliordini e le congregazioni religiose – si prestano maggiormenteall’individuazione delle caratteristiche del “modello piemontese-italiano” e al confronto con quello francese, soprattutto se considerateinsieme alle leggi sulla pubblica istruzione (dalla Boncompagni allaCasati).

Nella prima sessione della prima legislatura del ParlamentoSubalpino, l’8 giugno 1848, il deputato Cesare Leopoldo Bixiopresentava lo schema di un disegno di legge per l’espulsione della

25 Cfr. A. C. Jemolo, Il «partito cattolico» piemontese nel 1855 e la legge Sarda soppressiva dellecomunità religiose, in “Il Risorgimento Italiano”, X-XII (1918-19), p. 3. Più in generale,sempre utili: C. Magni, I Subalpini e il concordato. Studio storico-giuridico sulla formazionedelle leggi Siccardi con un raffronto, Padova 1961; Id, Variazioni sui Subalpini, Padova 1962.26 Si considerino infatti: la Legge 19 giugno 1848 n. 735 che aveva assicurato agliacattolici il pieno godimento di tutti i diritti politici; le due leggi Siccardi 9 aprile 1850 n.1013, soppressiva del privilegio del foro ecclesiastico e 5 giugno 1850 n. 1037sull’obbligo del regio assenso per gli acquisti di tutti gli enti morali; la Legge 15 aprile1851 n. 1192 che aveva tolto le decime per il clero in Sardegna. Si aggiungano poi gestisimbolici come il rifiuto dell’annuo calice alla Santa Sede. Si veda anche il Processocronologico delle Proposte, Discussioni e Leggi contro i Religiosi, in I. M. Laracca, Il patrimoniodegli Ordini Religiosi in Italia. Soppressione e incameramento dei loro beni (1848-1873), Roma1936, pp. 163-169. Ma per il contesto storico generale cfr. sempre A. C. Jemolo, Chiesa estato in Italia negli ultimi cento anni, Torino 1949.

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Compagnia di Gesù: significativamente la proposta era motivata con ilfine di realizzare un tenace vincolo di affetto tra governanti e governatie adombrava quasi un’immagine dei gesuiti come una fortezza militare,sul piano spirituale, in funzione dell’ordine interno27 e perciò noncompatibile con i nuovi ordinamenti costituzionali e politici. Laproposta fu sviluppata in un progetto di legge da una commissione e il 7luglio il deputato Cornero fu relatore di tale disegno di legge. In realtàl’originaria proposta di Bixio era allargata in una prospettiva assaisimile al “modello francese” ed infatti all’art. 7 si prevedeva: “Non potràvenire ammessa nello Stato alcuna corporazione religiosa sottoqualsivoglia titolo o denominazione e non potrà aprirsi casa, collegio osimile per parte di qualsivoglia corporazione religiosa, salvo che perlegge”28.

Il disegno di legge, discusso dal 17 al 20 luglio, fu approvato dallaCamera il 21 e passò al Senato dove però non fu mai discusso. In virtùdei pieni poteri accordati dal Parlamento al Governo durante la guerra(con la Legge del 2 agosto 1848), fu promulgata con Decreto del principeEugenio, Luogotenente generale del Re, la Legge 25 agosto 1848 n. 777che riguardava soltanto la soppressione della Compagnia di Gesù:soppressione che è da intendersi come esclusione, scioglimento edivieto29. Stabilimenti e beni della Compagnia furono destinati (colDecreto del 3 ottobre 1848 n. 819) per l’istituzione di convitti nazionali.Nel clima rivoluzionario e radicale del 1848 la soppressione dei Gesuiti

27 Bixio aveva affermato: “Conducente al primo fine sarebbe dichiarare esclusa, conlegge formale, la Compagnia di Gesù da tutto lo stato, come quella, che non èconciliabilee con le attuali libere istituzioni, e togliere qualunque idea di diffidenza deipopoli verso il potere; con demolire le opere militari delle fortezze, che non hanno periscopo la difesa contro il nemico, convertendo tali parti in utili stabilimenti per le classipovere” (cit. in S. Tessitore, Il Conte di Cavour e le Corporazioni religiose, Torino 1911, p.70). L’accostamento delle due proposte – apparentemente così diverse – ne suggerivauna considerazione comune e parallela.28 Tessitore, Il Conte di Cavour e le Corporazionireligiose, cit., pp.73-74.29 L’art. 1 della Legge recita: “La Compagnia di Gesù è definitivamente esclusa da tuttolo Stato; le sue case, i suoi collegi sono sciolti, ed è vietata ogni sua adunanza in qualsiasinumero di persone” (cfr. il testo della Legge in Laracca, Il patrimonio degli OrdiniReligiosi..., cit., pp. 52-53). L’art. 7 prevedeva anche lo scioglimento (a eccezione dellaSavoia) delle Dame del Sacro Cuore.

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era vista soltanto come un primo passo: nel luglio dello stesso anno ideputati della Sardegna proposero l’incameramento dei beni di tutte lecorporazioni religiose della loro isola30 e, in novembre, Brofferio rilanciòla proposta estesa a tutto il Regno, per far fronte ai gravi bisogni dirisorse economiche a causa della guerra. Queste proposte non ebberoseguito. Peraltro nel dibattito parlamentare Brofferio aveva avuto mododi osservare “come non solo i gesuiti, ma tutti gli altri ordiniconventuali avessero finito l’età loro e come la cocolla da frate fosse unostrano anacronismo, fra le mille voci di indipendenza e di libertà chescuotevano la terra”. Cavour gli rispose senza entrare nel merito“morale” della proposta, ma respingendola con considerazioni d’ordinefinanziario e soprattutto perché turbava i convincimenti “e, se si vuole,anche i pregiudizi di una parte grandissima della popolazione”31.

Rispetto al clima radicale del 1848, le discussioni del 1855, sullaLegge relativa alla soppressione di alcuni ordini e congregazionireligiose appaiono più moderate, anche se non meno appassionate:l’origine non è “ideologica” ma finanziaria e cioè riguarda le speseecclesiastiche considerevoli che gravavano il bilancio dello Stato e chegià negli anni precedenti erano state oggetto di recriminazioni anti-clericali e di assicurazioni governative32. La Legge del 1855 si trovò

30 Sui deputati sardi cfr. M. Corrias Corona, Stato e Chiesa nelle valutazioni dei politici sardi(1848-1853), Milano 1972.31 Tessitore, Il Conte di Cavour e le Corporazioni religiose, cit., pp. 84-86.32 Ibid., pp. 99-121. Carlo Cadorna aveva illustrato – nel suo intervento alla Camera del 2febbraio 1855 – un raffronto comparativo tra Piemonte, Belgio e Francia che davainteressanti risultati: “Con una popolazione quasi eguale a quella del Belgio, la renditaecclesiastica nel Piemonte è quadrupla di quella del Belgio. Il Piemonte con unapopolazione che è circa l’ottavo di quella della Francia spende pel culto alquanto menodella metà di ciò che spende la Francia [...]. Nel Piemonte i vescovi godono una renditaquasi eguale a quella che la Francia spende per tutto il suo episcopato. L’episcopatopiemontese ha una rendita quasi decupla di quella che spende per lo stesso fine il Belgiocon una popolazione quasi eguale. Le rendite dei canonici in Piemonte superano di unterzo gli assegnamenti di tutti i canonici della Francia, la quale ha una popolazione ottovolte maggiore. Pei parrochi, in Piemonte, si consuma una rendita che supera quasidella metà quella del Belgio. E la Francia dovrebbe spendere circa 9 milioni di più diquello che spende se dovesse pagare, in proporzione della propria popolazione, unasomma corrispondente a quella del Piemonte. Ciò non per tanto la massima parte deinostri parrochi è assai male retribuita per effetto principalmente del cattivo ripartimento

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peraltro al centro di un intreccio di questioni di politica interna (ildecollo del “connubio”, le opposizioni da destra a Cavour) e di politicaestera (la guerra di Crimea) e fu dunque anche causa di una crisi digoverno e delle dimissioni, poi rientrate, di Cavour. E d’altra parte erastato proprio Cavour ad affermare alla Camera, l’8 maggio 1854, che letrattative con la S. Sede sulle materie ecclesiastiche “fanno parte deisistema politico del ministero cioè del complesso delle sue relazioni contutte le potenze d’Europa”33.

La Legge 29 maggio 1855 n. 878, che fu approvata dopo untravagliato iter34, era diversa anche in punti significativi dall’inizialeproposta presentata da Rattazzi e Cavour alla Camera il 28 novembre1854. Sulla base di una distinzione tra ordini e congregazioni religioseutili e ordini e congregazioni religiose inutili35 e sulla scorta del

delle rendite fra di essi” (Atti del Parlamento Subalpino. Sessione 1853-1855. V Legislatura(19 dicembre 1853-29 maggio 1855), vol. VI, Firenze 1866, pp. 2922-2923).33 Cit. in Tessitore, Il Conte di Cavour e le Corporazioni religiose, cit., p. 105. Sull’interavicenda della Legge, della crisi calabiana, del tentativo di Durando, del ritorno diCavour si veda: P. Pirri, Pio IX e Vittorio Emanuele II dal loro carteggio privato, vol. I: Lalaicizzazione dello Stato Sardo: 1848-1856, con prefazione di G. MArtina, Roma 1980; E.Borghese, La crisi Calabiana secondo nuovi documenti, in “Bollettino storico-bibliograficesubalpino”, LV (1957), pp. 425-481.34 Il 28 novembre 1854, fu proposta alla Camera da Cavour e da Rattazzi. Il 17 dicembre1854 Carlo Cadorna, deputato, svolse la relazione. Il 9-11 gennaio e 15 febbraio-2 marzo1855 il disegno di legge fu discusso alla Camera e approvato, passando al Senato il 9marzo. Il senatore Colla tenne la relazione al Senato il 7 aprile, il 18 maggio il senatoreDes Ambrois fece una seconda relazione proponendo modifiche di rilievo. Il disegno fudiscusso al Senato il 23-27 aprile, il 5-10 e il 21-22 maggio 1855 e fu approvato, con lemodifiche Des Ambrois-Collegno accettate anche dal Governo, ritornando dunque il 24maggio alla Camera. Cadorna tenne la relazione il 26 maggio. L’approvazione definitivasi ebbe il 28 maggio 1855 con 95 voti favorevoli contro 23.35 Nel suo discorso alla Camera del 17 febbraio 1855 Cavour aveva sostenuto l’inutilitàdi alcuni ordini religiosi (i Benedettini e gli ordini mendicanti) dal punto di vista delprogresso della società. “A mio avviso, – egli aveva affermato – tutti gli ordini religiosi,quantunque promossi da persone aventi per principale scopo la loro eterna salute, ilmaggior bene della religione, sono stati fondati altresì, sino ad un certo segno, persoddisfare ad alcuni bisogni sociali dell’epoca in cui venivano istituiti. Vado convintoche tutti gli ordini religiosi, i quali hanno avuto vita lunga e prospera, i quali si sonomoltiplicati e dilatati, tutti questi ordini religiosi nel loro nascere corrispondessero ad unreale bisogno della società. Voi vedete, signori, che io non mi pongo come un avversario

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principio che il “beneficio” è proporzionale al servizio reso36 e che spettaal potere civile concedere e revocare la personalità giuridica37, la legge

assoluto degli ordini religiosi, ma opino però che, mutate le condizioni dei tempi,mentre rimanevano immobili le istituzioni religiose, mentre rimanevano immutati iprincipii che informavano queste istituzioni, invece di corrispondere allo scopo dei lorofondatori, andarono e vanno contro a quello scopo medesimo, e che quindi, in luogo digiovare alla società come giovavano nei loro principii, le rechino un vero nocumento,siano un reale impedimento al sociale progresso [...]. Quindi, lo ripeto, gli stabilimentireligiosi, che nel loro nascere erano giovevoli al mondo intellettuale, ora sono o inutili odannosi” (Atti del Parlamento Subalpino. Sessione 1853-1855..., cit., p. 2864). Cavour sichiedeva poi quali fossero le condizioni per il regolare e continuo progresso della societàmoderna e affermava: “Le condizioni, almeno a mio parere, sono due: la prima che illavoro riesca più produttivo, e questa è una condizione assoluta del miglioramentogenerale, mentre è chiaro che, ove voi non giungiate a produrre più colle stesse forze,voi non potrete migliorare profondamente e durevolmente le condizioni dellageneralità; la seconda condizione è la massima diffusione possibile della soda e veraistruzione nella generalità. Queste sono le due grandi condizioni richieste perché ilprogresso continui quel moto che si manifesta nella società dal medio evo in poi. Ora, osignori, potete dire che gli ordini religiosi mendicanti, che tanto giovavano nel medioevo all’emancipazione civile delle classi più numerose, contribuiscano ora al progressodi queste classi medesime? Aggiungono forse alcun che a quei due soli mezzi chepossono far progredire la società? No certamente. Gli ordini mendicanti, avendo fattodivorzio col lavoro, non lo possono rendere più produttivo, e lo fanno invece menorispettabile, quindi vanno direttamente contro di uno dei più potenti mezzi delprogresso civile. Che gli ordini mendicanti giovino alla diffusione dell’istruzioneelementare è cosa che mi sembra nessuno possa sostenere. Io non voglio dichiararlidell’istruzione nemici, ma certamente non si potrà negare che la tenacità colla qualeconservano le antiche loro tradizioni e spargono certe dottrine che sostituiscono alle piùpure aspirazioni cristiane alcune leggende meno rispettabili, non produce effettofavorevole alla diffusione dell’istruzione, e perciò io mi stimo in diritto di dire che gliordini religiosi mendicanti, dopo avere reso segnalati, immensi servizi alla società, ed inispecie alle classi più numerose sono ora, non solo inutili, ma nocivi a quelle classimedesime” (ibid., p. 2865). È interessante notare come, successivamente, Carlo Cadornamotivasse l’inutilità di alcuni ordini religiosi con argomentazioni unicamente dicarattere economico (manomorta, improduttività di molte braccia, accattonaggiosistematico) e lasciasse invece cadere la questione della diffusione dell’istruzione (ibid,p. 2921).36 Il 17 febbraio 1855, alla Camera, Cavour affermava: “Le rendite dei benefizi sono, amio credere, veri compensi che la società, quella religiosa, se si vuole, concede adeterminati individui per servizi da essi prestati [...]. Se ciò è vero, io penso che il poterecivile abbia il diritto di meglio proporzionare la rendita del benefizio col servizio reso

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stabiliva che cessavano di esistere, quali enti morali riconosciuti dallalegge civile (ma non quali libere associazioni di fatto)38, le case degliordini religiosi che non attendevano alla predicazione, all’educazione oall’assistenza degli infermi39. I loro beni non erano incamerati dallo Statoma passavano ad una Cassa ecclesiastica che aveva esistenza distinta eindipendente dalle finanze dello Stato. Ai religiosi “soppressi”,nonostante le giuste osservazioni critiche dello Sclopis40 alle deboli

dal beneficiato, massime poi quando questa misura ha per iscopo di meglio retribuirealtri beneficiati che non riscuotono dalle rendite attribuite ai loro benefizi una sommabastevole per la loro sussistenza” (ibid. p. 2867). Il 25 aprile dello stesso anno aveva poiribadito in Senato: “Non è una vera proprietà; è un compenso a certi servigi resi allaChiesa e allo Stato. Io non posso considerare altrimenti un benefizio [...]. Considerandoquindi la rendita dei benefizi come un compenso per servizi resi dai ministri dei culto, iocredo che, secondo la mutata condizione dei tempi, secondo le esigenze del serviziostesso della Chiesa, si debba e si possa variare in certi limiti questa distribuzione” (Attidel Parlamento Subalpino. Sessione del 1853-54. V Legislatura – dal 19 dicembre 1853 al 29maggio 1855 –, vol. VIII, Firenze 1870, p. 659).37 Il 21maggio 1855 Rattazzi ribadiva in Senato come “spettasse al potere civile il dirittodi sopprimere gli enti morali, che sono la personalità civile conceduta alle corporazionireligiose” (ibid., p. 806).38 L’8 maggio 1855 Rattazzi spiegò in Senato che il termine “soppressione” impiegato nelprogetto di legge del Governo doveva intendersi come sottrazione della personalitàgiuridica. Ma il Senato – su proposta del Des Ambrois alla quale si associò il Governo –volle sostituire alla dizione “sono soppressi”, ritenuta ambigua, la dizione “cessano diesistere quali enti morali riconosciuti dalla legge”, per ribadire appunto la piena liceitàdell’esistenza delle corporazioni religiose e delle loro case quali libere associazioni.39 Gli ordini religiosi maschi che cessarono di esistere quali enti morali furono:Agostiniani Calzati, Agostiniani Scalzi, Canonici Lateranensi, Canonici Regolari di S.Egidio, Carmelitani Calzati, Carmelitani Scalzi, Certosini, Monaci Benedettini Cassinesi,Cistercensi, Olivetani, Minimi, Minori Conventuali, Minori Osservanti, MinoriRiformati, Minori Cappuccini, Oblati di S. Maria, Passionisti, Domenicani, Mercedari,Servi di Maria, Padri dell’Oratorio o Filippini. Gli ordini religiosi femminili “soppressi”furono: Agostiniane, Clarisse, Benedettine Cassinesi, Canonichesse Lateranensi,Cappuccine, Carmelitane Scalze, Carmelitane Calzate, Cistercensi, CrocifisseBenedettine, Domenicane, Terziarie Francescane, Francescane, Celestine o Turchine,Battistine.40 Lo Sclopis aveva acutamente osservato: “Signori, noi dobbiamo considerare in questacircostanza i religiosi non più come religiosi, ma come cittadini; noi mutiamo la loroposizione come religiosi, noi dobbiamo per conseguenza lasciar loro l’alternativa diappigliarsi alla condizione di cittadini [...]. Signori, faremo ora noi da fondatori di ordini

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argomentazioni dei Mameli41, non furono concessi i diritti civili. Sitrattava così di un “modello di laicizzazione” spurio, indubbiamentemoderato e non ideologicamente ostile alla Chiesa, non privo tuttavia dicontraddizioni, ma già chiaramente originale rispetto al modellofrancese e al modello del Lombardo-Veneto.

Nel passaggio dal Regno di Sardegna al Regno d’Italia, la legislazionepiemontese fu estesa progressivamente alle terre annesse ma in mododisorganico e differenziato42 così che, dopo il 1861, non si avevaun’uniformità completa a livello normativo per tutto lo Stato Italianounitario. La rielaborazione complessiva, che si era perciò resa necessaria, religiosi? Faremo ora noi da guardiani dei varii conventi? Abbandoniamo questa doppiaqualità; noi facciamo una legge civile, meramente civile; noi crediamo che questicittadini non possano più vivere, legalmente parlando, nel modo in cui dapprimavivevano; noi dobbiamo per conseguenza essere conseguenti verso di loro, e dobbiamodire: voi avete rinunciato ai vostri diritti civili in contemplazione dello stato che avetescelto, noi questo stato lo modifichiamo e vi restituiamo i diritti civili” (Atti delParlamento Subalpino, tornata del 22 maggio 1855, vol. VIII, cit., pp. 818-819).41 Mameli aveva giustificato tale non concessione dei diritti civili sulla base dellemodifiche apportate al progetto del Governo dalla proposta Des Ambrois-Collegno: “Ilprogetto del Ministero, inteso a sopprimere le comunità e gli stabilimenti d’ordinimonastici e corporazioni religiose esistenti nello Stato, era logico nelle sue conseguenze,emancipandone i membri, ed attribuendo loro l’esercizio dei diritti civili. Uguale era inquesto punto l’economia della legge del 1801 sotto la dominazione francese, perché iconventi vennero disciolti, ed i religiosi cessarono allora di essere tali agli occhi del civilelegislatore. Il nuovo progetto però, dichiarando soltanto che cessano di esistere qualienti morali riconosciuti dalla legge civile le case d’ordini religiosi, è inteso a rispettare leposizioni attuali degli individui, non a mutarne la condizione, quindi sarebbe illogico edincoerente il volerlo estendere alle conseguenze del contrario principio” (ibid., p. 816).Entrando nel merito della questione Mameli inoltre osservava: “Finché i religiosisapranno che, soggiacendo allo sfratto per incorreggibilità, non godranno dei vantaggiriservati ai legittimamente secolarizzati, potrà esservi qualche ritegno; ma se liemancipate fin d’adesso, non avranno alcun freno, né timore. Come volete che restinopacifici e subordinati nei chiostri dopo che la legge avrà proclamato la risoluzione ditutti i vincoli? E tutti i vincoli sarebbero veramente sciolti, e calpestata la religione deivoti monastici, massime di quello di povertà e di obbedienza, quando gli individui,reintegrati nei diritti civili, potessero acquistare, possedere e disporre liberamente,vivendo nei chiostri, come se fossero secolari” (ibid., p. 817).42 Cfr. G. Saredo, Codice ecclesiastico del Regno d’Italia, vol. II, Torino 1887, pp. 785-799; G.D’Amelio, Stato e Chiesa. La legislazione ecclesiastica fino al 1867, Milano 1961, pp. 131-203;Laracca, Il patrimonio degli Ordini Religiosi..., cit., pp. 96-114.

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fu in realtà l’occasione per un miglioramento della coerenza internadella legislazione, così che si può dire che con le leggi del 7 luglio 1866n. 3036 e del 19 giugno 1873 n. 1402 il “modello piemontese-italiano”giunse alla sua formulazione più compiuta.

I disegni di legge presentati prima dal ministro Pisanelli (18 gennaio1864) e poi dal ministro Vacca (12 novembre 1864), pur non avendoseguito, dimostravano la continuità ideale dei principi informatori delmodello e costituirono quasi il collegamento tra la Legge del 1855 equella del 1866 (promossa dal disegno di legge presentato dal ministroCortese alla Camera il 12 dicembre 1865). Una carattere diverso avevanoinvece le proposte di legge di Corsi (1865) e Borgatti-Scialoja (1867), cheerano ispirate dal riformismo religioso ‘ricasoliano’.

Con le norme decise nel 1866 si eliminava la distinzione tra ordini econgregazioni utili e ordini e congregazioni inutili: per tutte lecorporazioni religiose era previsto lo stesso trattamento e cioè lanegazione della personalità giuridica ma la libertà di fatto ed inoltre siriconoscevano a tutti i religiosi i diritti civili. Con la Legge del 1873 siestese la normativa precedente anche al Lazio (con alcune modificheriguardanti la città di Roma, in particolare per le case generalizie diordini stranieri, gesuiti esclusi)43. Dal punto di vista fiscale, il principiodell’incameramento dei beni dei religiosi da parte del pubblico demanio(principio attuato in Francia) non rientrava nel modello piemontese-italiano (con la parziale eccezione della tassa straordinaria del 30%,stabilita dalla Legge 15 agosto 1867 n. 3848) che invece prevedeva unarendita in favore del Fondo per il culto44. D’altra parte in Italia nongravava una tassa di manomorta sulle case degli ordini e congregazioni

43 Secondo il Friedberg furono in totale soppresse in Italia 4056 case religiose (2907 diuomini e 1149 di donne) che contavano, in totale, 57.492 membri (32.136 maschi, 25.356femmine), 72 case sfuggirono alla soppressione (più 15 case per stranieri): cit. in Laracca,Il patrimonio degli Ordini Religiosi..., cit., p. 162. Sul dibattito relativo alla soppressionedelle corporazioni religiose romane e sulla legge del 19 giugno 1873 cfr. A. Berselli, Ladestra storica dopo l’Unità, vol. I, L’idea liberale e la Chiesa cattolica, Bologna 1963, pp. 333-395. Ma sulla successiva situazione romana cfr. M. Casella, Ordini religiosi, scuole eassociazioni cattoliche a Roma in una inchiesta governativa del 1895, in “Ricerche per la storiareligiosa di Roma”, I (1977), pp. 257-300.44 Cfr. Schiappoli, Diritto ecclesiastico vigente in Francia, vol. II, cit., p. 45.

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religiose, mentre in Francia vi erano la tassa sulla rendita, il dirittod’accroissement e la tassa di manomorta45.

Le leggi del 1866 e del 1873 furono applicate con criteri di largatolleranza ed elasticità46. Si ebbe una sostanziale collaborazione deireligiosi e non si verificarono scene drammatiche di resistenza a oltranzae di uso della forza. L’episcopato – specialmente meridionale – nonintese la Legge come una catastrofe47. Alcuni ordini e congregazionipoterono giovarsi di una larga e benevola comprensione e diinterpretazioni della Legge mitigate e favorevoli48. Lentamente si ebbepure, in molti casi, una riacquisizione delle vecchie case e stabilimenti e,dagli ultimi anni del secolo, si può dire che la crisi sia statacompletamente riassorbita e superata, con un generale (anche sedifferenziato e disuguale) sviluppo degli istituti religiosi in termini divocazioni e di fondazioni.

45 Cfr. Id., Il diritto d’«accroissement» e le Congregazioni religiose in Francia, in “La RiformaSociale”, II (1895), IV, pp. 852-862.46 Cfr. P. Scoppola, Laicismo, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, cit., vol. V, cc. 399-417.Per l’evoluzione storica successiva, cfr. il lucido quadro d’insieme di G. Rocca,Riorganizzazione e sviluppo degli Istituti religiosi in Italia dalla soppressione del 1866 a Pio XII(1939-58), in Aa. Vv., Problemi di storia della Chiesa. Dal Vaticano I al Vaticano II, Roma1988, pp. 239-294. Ma, per aspetti particolari, cfr. anche: A. Scirocco, Il dibattito sullasoppressione delle corporazioni religiose nel 1864 e i “Misteri del chiostro napoletano” diEnrichetta Caracciolo, in “Clio”, (1992), n. 2, pp. 215-233; O. Manzo, La soppressione liberaledel 1866 e la Provincia Romana dei Barnabiti, in “Barnabiti Studi”, (1995), n. 12, pp. 87-164;M. Miele, I problemi delle Corporazioni religiose nella seconda metà dell’Ottocento. L’esempiodei domenicani del Mezzogiorno nel carteggio di Gaetano Capasso O. P. (1833-1907), in“Memorie Domenicane”, (1996), n. 27, pp. 5-210.47 Cfr. G. Martina, La situazione degli istituti religiosi in Italia intorno al 1870, in AA.VV.,Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878), vol. I, Milano 1973, pp. 194-335; Id.,Italia, IX: Gli istituti religiosi in Italia dalla Restaurazione alla fine dell’800, in Dizionario degliIstituti di Perfezione, vol. V., cit., cc. 217-233.48 Le monache di vita contemplativa poterono restare in molti casi nei loro monasteri. Lecongregazioni attive, le congregazioni insegnanti, i nuovi istituti di voti semplici siadattarono, in varie guise, alla nuova situazione. In molti casi le fondazioni (peresempio, i conservatori di educazione femminile diffusi soprattutto in Toscana, le variefamiglie di Maestre Pie del Lazio, le stesse Maestre di Santa Dorotea fondate da mons.Farina ecc.) furono riconosciute come opere pie a carattere laico e dunque escluse dallesoppressioni.

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Il modello piemontese-italiano non ammetteva l’esistenza dellecongregazioni e degli ordini religiosi in quanto tali, cioè come entimorali dotati di propria personalità giuridica, ma tuttavia non si puòdire che ne disconoscesse completamente l’esistenza, anche sul pianodella disciplina giuridica: si pensi al Regio decreto del 17 maggio 1883 n.1348 sul personale delle carceri dove erano citate le Suore di Carità49.

Un residuo in contrasto con lo spirito e la logica interna del modelloera costituito dalla Legge soppressiva dei gesuiti. Lo stesso Cavour nel1855 aveva riconosciuto che il provvedimento del ‘48 aveva un carattereilliberale affatto diverso dalla Legge che in quel momento si discuteva50.Formalmente le disposizioni del ‘48 furono estese a tutta l’Italia (conl’eccezione della Lombardia) nel 186151 ma, in virtù del loro spirito – incontrasto con le leggi del 1866 e del 1873 –, restarono di fattoinapplicate. Mancini tentò, nel 1873, di richiamare in vigore larepressione antigesuitica riproponendo quasi alla lettera l’art. 1 dellaLegge del 1848 e poi modificando la proposta nel senso di proibire aigesuiti la vita in comune. Le osservazioni contrarie del Presidente delConsiglio, Lanza, del Peruzzi, del guardasigilli De Falco mostrarono chela Legge del 1848 era in contrasto con la Legge del 1866 che, di fatto, la

49 Cfr. Schiappoli, Diritto ecclesiastico vigente in Francia, vol. II, cit., p. 235.50 Il 17 febbraio 1855 Cavour dichiarava alla Camera: “Faccio allusione alla cacciata deigesuiti e delle dame del Sacro Cuore che accadde nell’inverno del 1848. In allora si preseuna vera misura rivoluzionaria, perché fu applicata senza riguardo alle persone. Igesuiti e le dame del Sacro Cuore furono mandate via dai loro Chiostri, senzaché a lorosi provvedesse. Quella provvisione fu data non legalmente, ma di moto proprio sottol’impulso dei tumulti di piazza, e fu presa non da uomini che si fossero sempreproclamati favorevoli alle riforme religiose, ma sì da uomini moderatissimi che si eranosempre e giustamente considerati come favorevoli al mantenimento degli ordinimonastici. Onde vede la Camera qual differenza corra tra la misura del 1848 e quella orada noi proposta nell’attuale progetto di legge. La prima, come dissi, fu una vera misurarivoluzionaria; questa, invece, è assolutamente legale” (Atti del Parlamento Subalpino, cit.,vol. VI, p. 2868).51 Cfr. Laracca, Il patrimonio degli Ordini Religiosi..., cit., pp. 60-63. Per quanto riguarda laLombardia l’art. 1 dei Trattato di Zurigo garantiva il libero possesso dei loro beni aireligiosi. A Parma e in Toscana non fu necessario pubblicare la Legge di soppressione,perché la Compagnia di Gesù era già stata soppressa dai regimi precedenti: cfr. G.Ferroglio, La condizione giuridica degli Ordini religiosi. Storia, diritto comparato, dirittoitaliano, Torino 1931, pp. 330-332.

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rendeva obsoleta. Mancini ritirò la sua proposta, mentre l’ordine delgiorno presentato dal suo amico on. Carini, che auspicava un futuroprovvedimento soppressivo dei gesuiti, fu respinto dalla Camera. Nel1909 il guardasigilli Orlando chiariva definitivamente alla Camera che leleggi anti-gesuitiche, pur non essendo decadute, erano tuttaviainapplicabili52.

Indubbiamente il modello piemontese-italiano, così come venneprogressivamente a precisarsi dal 1855 al 1873, fu una “originaleconcezione giuridica, [...] che ha limitato l’opera legislativa allasoppressione della personalità giuridica dell’ente monastico, senza pernulla violare il monachismo nella sua attività religiosa e senza dare adesso l’ostracismo dal diritto comune sulle associazioni”53. Lo spirito diquesto modello emerge con ancora maggiore chiarezza quando siconsideri la legislazione relativa alla scuola, alla sanità e all’assistenza.

La legislazione scolastica dalla Legge Boncompagni (del 4 ottobre1848) alla Legge Lanza (del 22 giugno 1857) fino alla Legge Casati (del 52 Cfr. Ferroglio, La condizione giuridica degli Ordini religiosi..., cit., pp. 347-348; Martina,Gli Istituti religiosi in Italia intorno al 1870, cit., pp. 224-226. Si noti che, nel 1900, riferendodi un’interpellanza parlamentare dell’on. Fulci “sulle violazioni continue della legge cheabolisce le Corporazioni religiose e specialmente sul continuo accrescimento delpatrimonio dei Gesuiti”, “La Civiltà Cattolica” commentava: “la legge alla quale l’on.Fulci allude è quella del 7 luglio 1866 (n. 3096). Ora è falso che tale legge di soppressionesia stata mai violata; anzi è impossibile che fosse violata, mancando in forza della stessalegge il soggetto capace di violarla. Le Corporazioni religiose infatti, in forzadell’accennata legge, furono private dell’esistenza giuridica civile; esse dunque nonesistono più innanzi allo Stato come persone morali, nel senso giuridico della parola,quindi come tali non possono né osservare né violare la legge. Questo però non toglie,ed è stato più volte definito dalla Suprema Corte di Cassazione, che i membri dellesoppresse Congregazioni non possano al pari degli altri liberi cittadini italiani riunirsi evivere sotto un solo tetto, mettendo in comune, se loro così piace, i proprii beni sia perprocurarsi la sussistenza, sia per ottenere un qualsivoglia altro scopo, il quale in séstesso e ne’ mezzi atti a conseguirlo sia in tutto e per tutto legale. La stessa legge giàcitata nel suo secondo articolo, espressamente sancisce: I membri degli ordini, dellecorporazioni religiose, dei conservatorii e ritiri, godranno dal giorno della pubblicazione dellapresente legge (di soppressione) del pieno esercizio di tutti i diritti civili e politici. Ora trasiffatti diritti v’ha appunto quello, sanzionato nello Statuto fondamentale del Regno, diassociarsi con altri per fini leciti” (Cose italiane, in “La Civiltà Cattolica”, LI (1900), t. II,pp. 106-107).53 Tessitore, Il Conte di Cavour e le corporazioni religiose, cit., p. 9.

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13 novembre 1859) era infatti animata da uno stesso spirito chepotremmo definire “cavouriano”54. Essa stabiliva che l’organizzazionedella scuola attiene alle prerogative del potere civile, il quale governa epromuove l’insegnamento pubblico, lascia tuttavia libertàall’insegnamento privato, sul quale esercita una vigilanza nelle formestabilite dalla legge. L’insegnamento pubblico prevede l’educazionereligiosa cattolica e le corporazioni religiose sono invitate a cooperare aifini di una più efficace e generale opera educativa.

Così pure la Legge Rattazzi del 20 novembre 1859 (e poi la Legge del20 marzo 1865) avocava allo Stato la tutela della sanità pubblica edunque il governo della politica sanitaria e l’organizzazione dellestrutture sanitarie, ma con compiti limitati (benché progressivamenteallargati e rafforzati) e non esaustivi. Ancor più evidente è lalaicizzazione debole del settore dell’assistenza o pubblica beneficenza(dove si fuggivano sia il modello inglese della “carità legale” sia lalaicizzazione napoleonica che nazionalizzava e centralizzava, attraversoorgani pubblici, l’amministrazione dell’assistenza): dall’Editto di CarloAlberto del 24 dicembre 1836 alla Legge del l° marzo 1850 si definiva unmodello di beneficenza pubblica fondato su un apparato di opere pie,cioè singoli enti morali, che erano sottoposti al controllo dello Stato perquanto riguardava la correttezza della gestione amministrativa, ma checonservavano il carattere di istituzioni private ed erano dunqueautonome da direttive governative e libere anche da vincoli dicoordinamento55. E questo sistema durò fino alla Legge Crispi del 1890.

In sintesi si potrebbe dire che il modello piemontese-italiano avevaun carattere insieme liberale e cattolico. Esso differivasignificativamente dal modello semigiurisdizionalista e filocattolico delLombardo-Veneto, nel quale la Chiesa – per usare un’espressione un po’forzata ma non errata di Cesare Cantù – era tenuta in un

54 Cfr. B. Ferrari, La politica scolastica del Cavour. Dalle esperienze prequarantottesche alleresponsabilità di governo, Milano 1982.55 Cfr. F. Della Peruta, La politica sanitaria nell’Italia liberale, in AA.VV., L’opera di don LuigiGuanella. Le origini e gli sviluppi nell’area lombarda, Como 1988, pp. 93-106; M. PiccialutiCaprioli, Il «sistema della beneficienza pubblica» nel Piemonte preunitatio, in G. Politi, M.Rosa, F. Della Peruta (a cura di), Tìmore e carità. I poveri nell’Italia moderna, Cremona 1982,pp. 477-490.

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assoggettamento che le dava l’odiosità di dominante e i mali dioppressa. Si potrebbe quasi dire che nel modello piemontese-italiano laChiesa evitava i mali di dominante e guadagnava la simpatia dioppressa. Ancor più importante ed emblematica era poi la differenza dalmodello francese dell’Ottocento. “Partiti essi e noi – notava acutamenteRuffini – al principio di quel secolo da un medesimo punto, cioè da quelsistema concordatario napoleonico di relazioni tra Stato e Chiesa, che ladominazione francese ci aveva allora imposto (sistema di taglio un po’antiquato se si vuole, ma in complesso di contenuto piuttosto liberale,certo il più liberale per quei tempi), noi precipitammo con laRestaurazione proprio a piombo ad uno zero di libertà in fatto direligione. E a quel livello ci siamo mantenuti percorrendo una lungalinea orizzontale fino ai moti liberali del 1848, che ci trassero di un balzoin alto ad un punto, da cui siamo venuti ancora progressivamenteascendendo con le leggi di quel fecondo ventennio che va fino al 1870 econ l’equanime e prudente politica ecclesiastica che tuttoraproseguiamo. A cui si deve se ci troviamo molto più in su del nostrolivello di partenza, governati da un sistema d’impronta molto piùmoderna che non il concordatario, e fruenti di una libertà religiosa, che ègrande nelle leggi, ma più grande ancora nella pratica, e quindiveramente effettiva”56.

Giacomo Martina ha affermato che lo Stato liberale italiano haimpegnato una duplice battaglia contro la Chiesa cattolica: contro ilpotere temporale del Papa e contro gli istituti religiosi. Ha vinto laprima battaglia, perché sostanzialmente giusta, ha perso la seconda,perché sostanzialmente ingiusta57. In realtà la battaglia era contro ilpotere temporale, da una parte, e contro il confessionalismo dall’altra.Ne è risultato un modello giuridico che garantiva la libertà nel rispettodella religione cattolica. Tale risultato è stato anche il frutto del carattereintrinsecamente duplice di quella battaglia e ciò, ancora una volta, segnauna netta differenza dalla Francia. “Da noi – annotava ancora Ruffìni – ilconflitto è impostato ben diversamente, perché non abbiamo e nonebbimo mai nulla che anche lontanamente possa rispondere a quella,che i credenti fra i nostri vicini non nominano mai senza un fremito di 56 Ruffini, Le lotte contro le Congregazioni religiose in Francia, cit., pp. 3-4.57 Martina, Gli istituti religiosi in Italia intorno al 1870, cit., p. 277.

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riverenza e d’orgoglio: l’Eglise de France. Il nostro antagonista, la SantaSede, è più potente, ma meno temibile; poiché la minaccia ch’essa cimuove e che non è solamente d’imporci una forma di governo, ma diannientarci come Stato, è tanto immane che finisce per essereinverosimile. La fissazione temporalistica toglierà sempre ad essa dipoter fare una forte presa sul paese. Ad ogni modo il conflitto è più fuoridei nostri confini che non dentro. Tutto l’opposto accade invece inFrancia. Lungi dall’insidiare all’integrità della patria, il clero cattolico vifa, se così possiamo dire, addirittura un abuso di patriottismo e siappoggia ora principalmente a quel partito che pretende di averne ilmonopolio”58.

Certo il modello piemontese-italiano aveva un carattere anfibio, perusare un’espressione di Alfieri riferita ai piemontesi e ripresa da EttorePasserin d’Entrèves59, era un modello in cui si coniugava un principio dilibertà all’inglese con un accentramento e un primato dello Stato allafrancese60, più propriamente era un modello che si potrebbe definireliberale-cattolico. È significativo che nel tentativo conciliatoristacavouriano del 1860-61, sostenuto com’è noto da cattolici liberali erosminiani e poi fallito, il cuore ideale della proposta fosse proprio talemodello di laicizzazione della vita religiosa61.

In fondo l’aspirazione massima di tale modello liberale cattolico eraproprio che attraverso l’azione degli ordini religiosi, la loro autoriforma,la loro auto-modernizzazione, si potesse avere una società per certiaspetti cattolica e una Chiesa per certi aspetti civile: una libera Chiesa inun libero Stato cattolico, ma anche un libero Stato cattolico in una liberaChiesa.

58 Ruffini, Le lotte contro le Congregazioni religiose in Francia, cit., pp. 7-8.59 E. Passerin d’Entrèves, Intervento, in AA.VV., La Restaurazione in Italia. Strutture eideologie, Atti del XLVII Congresso di Storia del Risorgimento italiano, Roma 1976, p.412.60 Su questo concorrere di elementi inglesi e francesi cfr. S. Jacini, La riforma dello Stato e ilproblema regionale, a cura di F. Traniello, Brescia 1968; Raponi, Introduzione a Dagli statipreunitari d’antico regime all’unificazione, cit., pp. 49-65.61 Cfr. E. Passerin d’Entrèves, Appunti sull’impostazione delle ultime trattative del governocavouriano colla S. Sede, per una soluzione della questione romana (novembre 1860-marzo 1861),in AA.VV., Chiesa e Stato nell’Ottocento, Studi in onore di P. Pirri, vol. II, Padova 1962, pp.563-595; Traniello, Cattolicesimo conciliatorista, cit., pp. 239-253.

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2. La modernizzazione della cultura civile

Dalla modernizzazione delle strutture statali e dai modelli dilaicizzazione della vita religiosa è agevole passare alla considerazionedella modernizzazione della cultura civile all’interno del sistemapolitico per poi vedere come tale rinnovamento abbia influito, conmodulazioni diverse, anche sulla cultura civile del clero, secolare eregolare.

Ma prima di considerare tali processi, occorre chiedersi come mai sitratti prevalentemente, se non unicamente, di una “modernizzazionesettentrionale”, dalla quale cioè il Mezzogiorno d’Italia risulta escluso.Confrontando i maggiori centri dell’illuminismo italiano nel Settecentocon i centri del cattolicesimo liberale (cioè della corrente culturale inquel momento più moderna e vivace) nella prima metà dell’Ottocento, sinota la “sparizione” di Napoli e la “permanenza” invece di Milano e diFirenze. Di mezzo c’era stata la tragica storia della RepubblicaPartenopea del 1799. Il moto sanfedista e la durissima repressioneborbonica avevano lasciato un segno profondo e scavato un solcoincolmabile62. Lo storico di quella vicenda, Vincenzo Cuoco, può cosìessere considerato il rappresentante, quasi emblematico, di quel deboleceto civile meridionale, di quella borghesia dei galantuomini, ormaiindirizzata pressoché unicamente su prospettive laiciste e che pertantosentì sempre – da Cuoco e, ancor più, da Francesco Lomonaco fino aBenedetto Croce – il bisogno e il compito di “laicizzare” a posteriori uno

62 Cfr. R. Romeo, Momenti e problemi della restaurazione nel Regno delle Due Sicilie (1815-20),in Id., Mezzogiorno e Sicilia nel Risorgimento, Napoli 1963, pp. 51-114; A. Lepre, Storia delMezzogiorno nel Risorgimento, Roma 1969; G. Cingari, Mezzogiorno e Risorgimento. Larestaurazione a Napoli dal 1821 al 1830, Bari 1970; A. Scirocco, Il Mezzogiorno nell’età dellaRestaurazione, Napoli 1971; R. Feola, Dall’Illuminismo alla restaurazione: Donato Tommasi ela legislazione delle Sicilie, Napoli 1977; G. Aliberti, La modernizzazione istituzionale deldecennio francese, in Id., Potere e società locale nel Mezzogiorno dell’800, Bari 1987, pp. 3-45;Id., Per la storia delle élites nell’Italia contemporanea: cortigiani e patronage nel Mezzogiornodella restaurazione, in “Storia contemporanea”, XXIV (1993), pp. 221-241. Ma per gliaspetti sociali cfr. B. Salvemini, Economia politica e arretratezza meridionale nell’età delRisorgimento. L. d. S. Cagnazzi e la diffusione dello smithianesimo nel Regno di Napoli, Lecce1981; Id., Note sul concetto di Ottocento meridionale, in “Società e Storia”, (1984), n. 26, pp.917-945; A. Massafra (a cura di), Il Mezzogiorno preunitario. Economia, società, istituzioni,Bari 1988.

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dei suoi padri, Giambattista Vico. A fronte di questo ceto civile vi fu,nella prima metà dell’Ottocento, una Chiesa cattolica meridionale cheviveva un’età borbonica di depressione63. Il Concordato del 16 febbraio1818 aveva rappresentato, da parte dei Borboni, una rinuncia o almenouna forte attenuazione della tradizione anticurialista e, da parte dellaChiesa, una più stretta unione col potere civile che significavadipendenza dalla monarchia (i vescovi erano designati dal re e gligiuravano fedeltà)64. Ciò portava comunque a un predominio delregalismo borbonico sulla Chiesa, che veniva esercitato sia direttamente,come nell’annullamento di professioni religiose65 o come nelle vicendedei Redentoristi quando nel 1853 Ferdinando II impose la scissione delramo napoletano da quello transalpino66, sia indirettamente, profittandodella litigiosità intra-ecclesiale per elevare il potere laico a tribunalecensorio sulla disciplina della Chiesa, come lamentava nel 1855 il card.Cosenza, arcivescovo di Capua, in una lettera a Pio IX67. E proprio papaMastai Ferretti, scrivendo appunto al card. Cosenza, appena due anniprima, nel 1853, aveva fatto notare come nel Regno delle Due Sicilie “laChiesa lungi dal dominare nello Stato è stata invece dominata edepressa”, affermando “chiaramente che non la Chiesa sullo Stato, maquesto vuol dominare su questa”68.

63 Cfr. G. De Rosa, Storie di Santi, Roma-Bari 1990, p. 102.64 Cfr. W. Maturi, Il concordato del 1818 tra la Santa Sede e le Due Sicilie, Firenze 1929. Piùin generale cfr. A. Cestaro (a cura di), Territorio e società nella storia del Mezzogiorno,Napoli 1973; B. Pellegrino, Terra e clero nel Mezzogiorno, Lecce 1976; Id., Michele Caputi dallegittimismo borbonico al liberalismo unitario, Galatina 1984.65 Cfr. Martina, La situazione degli istituti religiosi in Italia intorno al 1870, cit., p. 210.66 Cfr. M. De Meulemeester, Histoire sommaire de la congrégation du T.S. Rédempteur,Louvain 1950.67 Nella lettera del 4 ottobre 1855, da Capua, il card. Cosenza, tra l’altro, scriveva: “Afomentare gli esposti sentimenti vi concorrono inavvedutamente i continui reclami ericorsi de’ Laici non meno che degli Ecclesiastici, secolari e regolari, non esclusi iVescovi, per tutte le vertenze delle rispettive Diocesi, che dovrebbero andar regolatesecondo la disciplina canonica; ed intanto si portano direttamente alla cognizione delSovrano, e indirettamente per mezzo del Ministero degli Affari Ecclesiastici, e quindiprofittandosi di tale circostanza si eleva il potere laico come Tribunale censorio sulladisciplina della Chiesa” (cit. in appendice a Martina, La situazione degli istituti religiosi inItalia, cit., p. 301).68 Ibid., p. 210.

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Tutto ciò spiega perché il romanticismo italiano, che non fu anti-illuminista e nel cui seno maturò il cattolicesimo liberale, rimase unmovimento settentrionale, pur ricollegandosi alla cultura meridionaledel Settecento. La corrente di studi vichiani, iniziata a Napoli alla finedel XVIII secolo, si era poi sviluppata a Milano per opera degli esulimeridionali. Un’edizione della Scienza Nuova fu pubblicata a Milano nel1801 (e ristampata nel 1816): da Vico, com’è noto, furono influenzatiFoscolo, Manzoni, il “Conciliatore”. In Lombardia si sviluppò, connotevole fortuna tra il clero e i cattolici, una scuola filosofica “spirituale-eclettica” (che recuperava, oltre Vico, anche Genovesi, Filangieri ePagano) sulla quale poi in qualche modo si innestò, superandone lecontraddizioni, il rosminianesimo, anch’esso debitore del Vico se nonaddirittura suo erede come sostenne Tommaseo69.

Nel Sud invece la contrapposizione religiosa, culturale, civile epolitica era anche fisicamente percepibile nell’odio reciproco tra l’eredesanfedistico-borbonico e l’erede giacobino, tra colui che dopo i moti dei1820-21 volle realizzare una repressione “totale” risalendo e colpendoanche tutti quelli che erano stati anti-borbonici dal 1799 in poi e coluiche nella sua Storia del Reame di Napoli ne stigmatizzò la condotta, traAntonio Capece Minutolo, principe di Canosa, e Pietro Colletta70. E nonè un caso che, ancora nel 1865, il vescovo di Mazara del Vallo, in unarelazione ad limina, si riferisse alla borghesia (che si era impadronita deibeni della Chiesa) denominandola “ceto degli empi”71. D’altra parte èsignificativo notare come nei primi tempi della Restaurazione e anchedopo i moti del 1820-21 non ci sia mai stata nei centri settentrionali dellareazione e del tradizionalismo una polemica esplicita contro

69 Cfr. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista, cit., pp. 79-81, 119, 219.70 Cfr. Maturi, Il Principe di Canosa, cit.; N. Cortese, Pietro Colletta e la sua «Storia del Regnodi Napoli», Aquila 1924; Id., Per la storia del Regno delle due Sicilie dal 1815 al 1820, in IlMezzogiorno ed il Risorgimento italiano, Napoli 1965; A. Lepre, La rivoluzione napoletana del1820-21, Roma 1967; A. Scirocco, Governo assoluto ed opinione pubblica a Napoli nei primianni della Restaurazione, in “Clio”, XXII (1986), n.2, pp. 203-224. Si vedano anche: P.Colletta, Storia del Reame di Napoli, a cura di C. Manfroni, Milano 1905; A. CapeceMinutolo Principe di Canosa, Epistola ovvero Riflessioni critiche sulla moderna Storia delreame di Napoli del generale P. Colletta, Capolago 1834.71 Cfr. G. De Rosa, Linguaggio canonico e mutamenti sociali in Sicilia dopo l’unificazionenazionale, in Id., Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno, Roma-Bari 1978, pp. 145-165.

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l’illuminismo italiano del Settecento72, se si eccettua la critica diSchedoni nei confronti di Filangieri (non a caso esponentedell’illuminismo meridionale)73. A Napoli al contrario Canosa inveivacontro Genovesi74, ma era soprattutto Ventura a mettere sotto accusatutto l’illuminismo napoletano, nel saggio che apriva quasiprogrammaticamente l’”Enciclopedia ecclesiastica”, vedendolo come unprodotto dell’influenza straniera, sostanzialmente estraneo alla storiadelle Due Sicilie e ai sentimenti cattolici della “massa della Nazione”75.

Il Mezzogiorno dunque restò fuori, nella prima metà dell’Ottocento,dal cattolicesimo liberale e la modernizzazione della cultura civile fupertanto una “modernizzazione settentrionale” nel duplice senso che sirealizzò al Nord e che si caratterizzò in riferimento ai modelli dilaicizzazione del Lombardo-Veneto e, poi, soprattutto, del Piemonte. E,in effetti, per individuare le differenti correnti che si distinsero nelprocesso di modernizzazione della cultura civile nel sistema politico,

72 Cfr. A. Foa, Gli intransigenti, la Riforma e la Rivoluzione francese. Un dibattito nellapubblicistica italiana dell’età della Restaurazione, Aquila 1975, p. 110.73 P. Schedoni, Sopra l’opera del cav. Gaetano Fillangieri «La Scienza della Legislazione», in“Le memorie di religione, di morale e di letteratura”, IX (1826), 25, pp. 83-104; Id.,Intorno all’opera del cav. Filagieri «La Scienza della Legisiazione» e intorno alla lettera dei sig.Visconte di Chateaubriand sopra la libertà di stampa, in “Le memorie di religione, di moralee di letteratura”, XI (1827), 32, pp. 267-278.74 Già nel 1808, in un Discorso sulla decadenza della Nobiltà Canosa inveiva contro le“moderne velenose massime” di Genovesi (cit. in Maturi, Il Principe di Canosa, cit., p. 38).Durante la Restaurazione, nell’opera rimasta inedita Perché il Sacerdozio dei nostri tempi ela moderna nobiltà dimostrati non siansi ugualmente generosi ed interessati come gli antichi perla causa della monarchia e dei re (scritta tra il 1817 e il 1820 e con ulteriori redazioni fino al1834), scriveva: “Non cade intanto, a nostro giudizio, dubbio di sorta alcuna, che ilGenovesi stato non sia per Napoli, e per una gran parte dell’Italia ciò che per la Franciafurono i (così malamente detti) Filosofi dello scorso secolo, e gli Illuminati per laGermania” (cit. in Maturi, Il Principe di Canosa, cit., p. 39), per la forza della religione inItalia che rendeva debole la diffusione dell’illuminismo, nonostante Genovesi siadoperasse “Se non con quell’entusiasmo, che si osservò fuori d’Italia con tutto quelloperò, che il tempo, le circostanze, ed il governo sotto cui viveva, gli permisero” (ibid.).75 G. Ventura, Colpo d’occhio sopra le cagioni della decadenza della Religione nel Regno delledue Sicilie, in “Enciclopedia ecelesiastica”, t. 1 (1821), p. 4. Sulla cultura meridionale, inparticolare cattolica, nella prima metà dell’Ottocento cfr.: F. Zarella, L’eclettismo francese ela cultura filosofica meridionale nella prima metà del sec. XIX, Roma 1952; R. Colapietra,Notizie sul clero meridionale durante la Restaurazione, Sapri 1963.

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cioè nel “paese legale”, è utile riferirsi, come a momento-chiaveparadigmatico, al dibattito che nel 1855 si ebbe nel Parlamentosubalpino a proposito della legge di soppressione di alcuni ordini econgregazioni religiose: potrà infatti, in tal modo, emergere piùchiaramente il nesso tra “modello di laicizzazione” e modernizzazionedella cultura civile. D’altra parte quel dibattito, così collocato al centrodel secolo e dello Stato che avrebbe “realizzato” l’Unità, consente diguardare più agevolmente sia, indietro, alle precedenti posizioni sia, inavanti, alle ulteriori, successive elaborazioni.

Ai due estremi dunque del dibattito del 1855 troviamo, da una parte,le posizioni confessionali e, dall’altra, le posizioni favorevoli a unseparatismo assoluto; ma entrambi i campi presentano pure interne,significative differenziazíoni.

Tra i sostenitori di uno Stato confessionale vi era ancora, ma moltodebole e talvolta confinata unicamente in talune intonazioni di articoligiornalistici (su L’Armonia o sul Campanone o su altri giornali “clericali”),l’eco di quel teocratismo reazionario, svolto sui moduli agostiniani dellacontrapposizione tra le due città, che aveva avuto l’interprete più fedelenel teatino Ventura, l’unico in Italia che fosse stato veramente eintimamente vicino al tradizionalismo francese76. Ventura avevavagheggiato un cristianesimo come civiltà alternativa integrale, nellaquale non ci sarebbero state costituzioni e non ci sarebbero però statineppure concordati77. Ecco perché egli aveva difeso l’opera degli ordinireligiosi78 e criticato invece la Restaurazione europea che impediva ilcompleto e pieno ritorno dei popoli al cattolicesimo79: aveva visto perciò

76 Cfr. A. M. Battista, Aspetti del tradizionalismo italiano nell’età della Restaurazione, inAA.VV., La Restaurazione in Italia. Strutture e ideologie, Roma 1976, pp. 223-249; S.Fontana, La controrivoluzione cattolica in Italia, Padova 1968.77 Ventura scriveva al Canosa da Napoli il 13 dicembre 1824: “Una costituzione misembra assolutamente un concordato che si domanda dal potere politico, ed ilconcordato è una costituzione che si strappa a forza dal potere religioso: e siccome unpopolo che chiede la costituzione al suo principe è un popolo in insurrezione, così iprincipi che chiedono un concordato alla Santa Sede sono principi cattolici in stato discisma” (cit. in Maturi, Il Principe di Canosa, cit., p. 207).78 G. Ventura, Considerazioni sopra i Regolari, Napoli 1822.79 In una recensione alla Soirées de St. Pétersbourg di De Maistre (pubblicata sul “Giornaleecclesiastico”, t. 11 (1825)) Ventura scriveva: “Si aggiunga a tutto ciò il movimento dei

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la società della Restaurazione come “sospesa in aria” in attesa di unacrisi fínale80. Erano in fondo i toni apocalittici del tradizionalismofrancese che Ventura aveva ripreso, esaltando il popolo e la sua sanitàmorale e religiosa, recependo le critiche lamennaisiane ai governi maanche le riflessioni maistriane sul primato francese. Questo filone dipensiero, che pur aveva avuto una sua influenza nella primaRestaurazione, ormai, a metà degli anni ‘50 dell’Ottocento, apparivaesaurito anche se forse ancora ‘carsicamente’ presente nelle posizioniultracattoliche piemontesi (spesso come residui maistriani più o menoconsapevoli).

Più forte era invece quella posizione legittimista reazionaria cattolica,che in passato era stata rappresentata dal marchese Cesare D’Azeglio –che vedeva nel re il padre e nella Chiesa la madre81 – e, fuori delPiemonte, dal principe di Canosa, ma che aveva ancora esponenti dispicco nel Parlamento subalpino, come Luigi Provana di Collegno, ilconte Cesare Trabucco di Castagneto, il marchese Antonio Brignole Salee, soprattutto, il conte Clemente Solaro della Margarita82. Rispetto allaprecedente, questa posizione non guardava al popolo ma alla nazione83

popoli, che basta guardare attorno per discernerlo, dei popoli dico che si spingono versola croce, e che l’avrebbero afferrata se la politica dell’oro non l’avesse impedito” (p. 238).80 Scriveva Ventura: “Non c’è bisogno di essere un illuminato, basta non essere cieco, peraccorgersi che la società europea è oggi sospesa in aria, poiché la base falsissima sullaquale si appoggia è come nulla; che per conseguenza è in una posizione violenta, e direiquasi contro natura; e che in questo stato non potendo assolutamente durare, e dall’altrocanto i mezzi ordinari umani essendo insufficienti per ritornarla nel naturale suo stato, ènecessaria una crisi; benché non sia cosa facile indovinare di qual natura essa sia peressere, se religiosa o politica, o l’una e l’altra cosa insieme” (ibid., p. 237). Si comprendegià da questi accenni la successiva evoluzione liberale del Ventura, in sintonia con quelladel Lamennais.81 Cfr. Maturi, Il Principe di Canosa, cit., p. 216.82 Cfr. Jemolo, Il «partito cattolico» piemontese nel 1855 e la legge Sarda soppressiva dellecomunità religiose, cit., pp. 16-19.83 Nel 1808, tracciando un parallelo tra la Spagna e Napoli, il Canosa scriveva alla reginaMaria Carolina: “In Ispagna è la Nazione, che si è mossa, tra noi sarà il popolo. Colàtutta la nobiltà onorata, gli ecclesiastici esemplari, i militari onorati si sono posti allatesta dei popolo, l’hanno aiutato, confortato, diretto. Tra noi la nobiltà ha preso moglieper condurla a Giuseppe onde formarne cacciatrici; i vescovi hanno in istampa e sopra ilpulpito bestemmiato il nome di Dio per adulare Buonaparte, ed i più vili di lui satelliti, i

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e, in passato, aveva visto il modello ideale nella Spagna dell’insorgenzaantinapoleonica e poi di Ferdinando VII (e non nella Francia di LuigiXVIII)84. In essa la religiosità pur sincera subiva una “contaminatiopolitica”85, poiché vi era in fondo l’idea di una strumentalizzazione dellareligione da parte del potere civile, come instrumentum regni86. In questaprospettiva ideologica Solaro della Margarita vedeva l’utilità civile degliordini religiosi87 e rifiutava la legge del 1855, da lui intesa come untradimento verso la religione cattolica che doveva essere la basefondamentale dello Statuto e dunque della società civile88.

Una terza posizione favorevole allo Stato confessionale era quelladella “potestà indiretta”, sostenuta dai gesuiti e fatta propria negli attiufficiali della gerarchia cattolica. Si distingueva dalle precedenti perchérifiutava come controproducente il teocraticismo esagerato89: “La CiviltàCattolica” opponeva il “discorso del senso comune” al fondamentogiuridico della legge del 185590 e d’altra parte invocava un’intimareciproca relazione tra Chiesa e Stato, una stretta alleanza tra trono ealtare, una forma di confessionalismo aggiornato91. Del resto tutti gli attiufficiali della gerarchia ecclesiastica contro la legge, i quali si

paglietti, i militari non ne parlo” (cit. in Maturi, Il Principe di Canosa, cit., p. 93).84 Ibid., pp. 113-114.85 Di “contaminatio politica”, a proposito del Canosa, parla Maturi (ibid., p. 2), il qualeperò vi vede anche una contaminatio cavalleresca che distinguerebbe il Capece Minutolodal Solaro della Margarita (ibid., p. 4).86 Significativa, per quanto riguarda il Canosa e la sua mentalità, è la lettera che egliscrisse alla regina Maria Carolina, il 5 giugno 1809, a proposito della progettataspedizione anglo-sicula nel golfo di Napoli: “Io mi auguro che il talento del generaleStuart profitterà della tanto calcolabile circostanza di far comparire il convojo nel golfodi Napoli nel giorno di Sant’Antonio. Io mi astengo di fare presente a V.M. tutte quellepolitiche vedute, le quali quadruplicherebbero l’utile dell’oggetto desiderato profittandodi una tale occasione” (ibid., p. 99). Per quanto riguarda Cesare D’Azeglio e l’”AmicoCattolico”, cfr. Battista, Aspetti del tradizionalismo italiano, cit., p. 239.87 C. Solaro Della Margarita, Memorandum storico-politico, Torino, 18522, p. 272.88 Si veda l’intervento del Solaro alla Camera, l’11 gennaio 1855.89 Si consideri la vecchia polemica dei gesuiti contro il tradizionalismo lamennaisiano el’ostilità, per esempio, del card. Lambruschini contro forme, diplomaticamenteinopportune, di estremismo teocratico (cfr. Maturi, Il Principe di Canosa, cit., pp. 213-218).90 Di una nuova filosofia del diritto, in “La Civiltà Cattolica”, VI (1855), s. II, 9, p. 379.91 La Chiesa nelle scuole dello Stato, in “La Civiltà Cattolica”, V (1854), s. II, 6, p. 8.

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muovevano in questa prospettiva, dimostravano una totale insensibilitàcostituzionale, abilmente sfruttata dagli avversari: così fu per lepetizioni dei vescovi (delle quali Cavour richiese l’immediata lettura inParlamento)92; così fu, soprattutto, per l’allocuzione pontificia ProbeMemineritis del 22 gennaio 1855 che la S. Sede pubblicò in volumecorredata da documenti sulle trattative con lo Stato Sardo93 e che Cavourfece ristampare e diffondere anche all’estero94 per l’evidente tonoilliberale e anti-costituzionale95. La stessa proposta Calabiana, fatta anome dell’episcopato, avuta facoltà dalla S. Sede, era di dubbiacostituzionalità: chiedeva il ritiro di una legge già approvata dallaCamera elettiva in cambio dell’”offerta del milione”, che però era

92 Cfr. Tessitore, Il Conte di Cavour e le Corporazioni religiose, cit., p. 133; D’Amelio, Stato eChiesa. La legislazione ecclesiastica fino al 1867, cit., pp. 71-77.93 Esposizione corredata di documenti sulle incessanti care della Santità di N.S. Pio IX a riparodei gravi mali di cui è afflitta la Chiesa Cattolica nel regno di Sardegna: pubblicata in volumesingolo dalla Tipografia Camerale (Roma), poi inserita nella collezione ufficiale degliActa Pii Papae IX, vol. II (parte I), pp. 5-435. Cfr. L’allocuzione del Sommo Pontefice nelConcistoro del 22 gennaio 1855, in “La Civiltà Cattolica”, VI (1855), s. II, 9, pp. 497-514.94 Cfr. Tessitore, Il Conte di Cavour, cit., p. 149.95 Nell’intervento alla Camera, nella tornata del 21 febbraio 1855, Carlo Cadorna avevaesaminato l’allocuzione e i documenti pontifici, mettendone in luce gli aspetti anti-costituzionali e illiberali (negazione della libertà di stampa, rivendicazione del dirittodella Chiesa di sorvegliare sulle Università e le scuole pubbliche e private, inseparabilitàdel contratto civile del matrimonio dal sacramento, non giurisdizione della potestà laicasui beni ecclesiastici in quanto cosa sacra, non tolleranza per i culti a-cattolici ecc.) ecitandone il principio informatore: “La Chiesa è d’ordine superiore alle civili società;qualunque siano le riforme che uno Stato abbia creduto di dare alla sua legislazionecivile, prevalgono però sempre alle medesime e devono ben rispettarsi in un regnocattolico le venerande le venerande leggi della Chiesa” (Atti del Parlamento Subalpino,vol. VI, cit., pp. 2913-2914). Il 25 aprile 1855, al Senato Cavour dichiarava: “il SovranoPontefice non si è ristretto a condannare l’attuale progetto di legge, ma nella circostanzain cui pronunziò il Monitorio, come in altre circostanze, condannò alcuni principi chefanno parte integrante ed intangibile dello Statuto fondamentale. Fu dalla Corte romanacondannata la libertà della stampa, eppure la libertà della stampa è nel Statutoproclamata e sancita; fu dal Sovrano Pontefice condannata ogni libertà d’istruzione,eppure nelle nostre leggi organiche vi è racchiuso in germe il principio di tale libertà”(Atti del Parlamento Subalpino, vol. VIII, cit., p. 658).

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condizionata al fatto che la ripartizione spettasse unicamente all’autoritàecclesiastica secondo il modo designato dalla S. Sede96.

Al polo opposto di queste tendenze confessionali, che affermavano ilpredominio della Chiesa sullo Stato, vi erano coloro che – in modidiversi – convergevano sull’idea di un predominio dello Stato sullaChiesa. Accanto alle posizioni giurisdizionaliste, in declino ma ancorasignificativamente presenti nell’università97, vi erano posizioni dilaicismo democratico, separatista e anti-clericale. Tipica in questo sensoera la figura del “prete ribelle” della Lomellina, il deputato GiuseppeRobecchi che il 22 febbraio presentò un emendamento che estendeva lasoppressione anche alle congregazioni religiose insegnanti98.L’emendamento fu avversato dal Rattazzi, sostenuto dal Valerio, ancorae con più forza contestato dal Cavour, con un ampio significativo

96 Nota Tessitore (Il Conte di Cavour, cit., pp. 173-174): “La proposta dei vescovi giàinaccettabile, poiché portava ad una ricognizione giuridica di una corporazionevescovile, rappresentativa di una chiesa nazionale inesistente, mentre i vescovi rispettoallo stato avevano una giurisdizione ristretta entro i limiti della diocesi erasostanzialmente incostituzionale riserbando alla Santa Sede la facoltà di ripartire suldemanio ecclesiastico la somma necessaria per le spese di culto, venendosi così asostituire al diritto dello Stato un diritto del papato a tassare beni di territorio nazionale,che portava con sé la violazione assurda di un principio di diritto pubblico e lamenomazione della sovranità civile, sola titolare del diritto di imporre tasse”.97 Cfr. P. Stella, Giurisdizionalismo e Giansenismo all’Università di Torino, Torino 1958; Id.,Crisi religiosa nel primo Ottocento piemontese, Torino 1959; E. Passerin d’Entrèves,Tradizioni regalistiche e tendenze alla separazione tra Stato e Chiesa nel Piemonte fra il 1850 e il1852, ora in Id., La formazione dello stato unitario, a cura di N. Raponi, Roma 1994, pp. 33-48..98 L’emendamento proposto dal Robecchi all’art. 1 della legge era il seguente: “Tutte lecomunità e gli stabilimenti di qualsivoglia genere degli ordini monastici e dellecorporazioni regolari e secolari esistenti nello Stato sono soppressi. Sono eccettuati gliistituti addetti all’assistenza degli infermi indipendenti dall’estero e non obbligati che davoti annuali” (Atti dei Parlamento Subalpino, cit., vol. VI, p. 2935). Nel sostenere la suaproposta egli aveva, tra l’altro, affermato: “Il maestro religioso è un uomo che, educatonel convento, istruito nel convento, cresciuto nel convento, non è da altri ben conosciutoche dal superiore; è un uomo che può essere un eccellente grammatico, ed un pessimocittadino; che può far fiorire sulle labbra dei vostri figli la frase, e intanto guastar loro ilcuore, e voi non avrete modo di seguirne le orme, di studiarlo appieno, di conoscerloappieno, perché il maestro religioso, uscito dalla scuola, rientra nel suo chiostro e sfuggea qualsivoglia vostra vigilanza” (ibid., p. 2942).

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discorso99, e infine respinto dalla Camera. In realtà lo spirito dellaproposta andava oltre la lettera. Ciò che in fondo si desiderava era unrigido separatismo tra Stato e Chiesa e una soppressione totale, di dirittoe di fatto, di tutte le corporazioni religiose: una sorta di estensione dellalegge del 1848 soppressiva dei Gesuiti. L’esistenza di alcunecongregazioni utili poteva essere accettata solo in via transitoria, come sievince chiaramente dalla proposta di modifica avanzata dal deputatoLuigi Botta nella tornata del 24 febbraio100. I giornali liberali edemocratici chiedevano la soppressione dei religiosi101, questo siaugurava Brofferio e questo continuarono anche dopo a chiedere irappresentanti di tale indirizzo di cultura civile, come Luigi Settembriniin un articolo del 1866102.

La discussione tra le due ali estreme, quella confessionale e quellalaicista, variamente articolate al loro interno, sembrerebbe configurareun modello culturale civile fortemente polarizzato e dunque in rapportodialettico e funzionale con un modello di laicizzazione analogo a quellofrancese. In realtà le ali estreme ebbero un peso minore, a prevalere

99 Cavour affermò che nelle condizioni del tempo e con l’ovvia difficoltà di creare inpochi mesi dal nulla un corpo insegnante, la soppressione delle case religiose dieducazione sarebbe stata un grave danno. Egli sostenne anche il principio generaledell’utilità di una concorrenza e di una emulazione tra collegi laici e collegi religiosi (cfr.Ferrari, La politica scolastica del Cavour, cit., pp. 196-200).100 Botta proponeva che, invece di dire: “Sono eccettuate dalla soppressione […]”, sidicesse: “Sono per ora mantenute […]”, e spiegava: “È la stessa locuzione usata nellalegge di espulsione dei gesuiti e delle dame dal Sacro Cuore che si è creduto dimantenere transitoriamente nella Savoia, e mi pare che sia più consono alledichiarazioni degli stessi Signori ministri e di quanti altri desiderano di sopprimerequeste corporazioni, ma non credono conveniente farlo in questo momento. Verrà tempoin cui saranno soppresse tutte” (Atti del Parlamento subalpino, cit., vol. VI, p. 2990).101 Si pensi a giornali come “La Maga”, “L’Opinione”, “La Voce della Libertà”. Ma, per ildibattito nella pubblicistica, occorre ricordare alcune opere importanti e significative chevidero la luce in quel torno di tempo: G. La Farina, La Nazione è unica e vera proprietariade’ beni ecclesiastici, Torino 1854 (di tendenze giurisdizionalistiche); M. Minghetti, Dellalibertà religiosa in Italia: lettere dodici, Torino 1855 (di tendenze separatistiche); P. C.Boggio, La Chiesa e lo Stato in Piemonte, Torino 1854 (vicino alle posizioni di Cavour).102 L. Settembrini, La questione grande, in “Lo stivale”, del 17 marzo 1866. Cfr. anche G.Marcarelli, Abolizione degli Ordini religiosi e costituzione delle Comunità parrocchiali ediocesane, Perugia 1865.

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furono le correnti “mediane” che, pur in modi e con accenti diversi,realizzarono la maggiore modernizzazione della cultura civile e furonoorganiche al modello piemontese-italiano di laicizzazione della vitareligiosa.

Vi è innanzi tutto, tra queste correnti mediane, l’opposizionecattolica, ma svolta su un piano limpidamente costituzionale, alla legge.I rappresentanti di questa corrente (Federico Sclopis, Gustavo Benso diCavour, Roberto Taparelli D’Azeglio, Ottavio Thaon di Revel)103 sirichiamavano – ognuno con accenti personali suoi propri – allo Statuto eai suoi princìpi.

Lo stesso Rosmini, vicino a Gustavo di Cavour e interessatodirettamente alla legge perché il primitivo progetto prevedeva lasoppressione del ramo femminile del suo istituto, anticipava lo spirito diquesta opposizione cattolico-costituzionale in una lettera del 2 dicembre1854 all’amico: “Si prometteva collo Statuto che le proprietà d’ogni sortasarebbero state inviolabili, che sarebbe stato libero per tutti il diritto diassociazione, che sarebbe stato inviolabile il domicilio ecc. Tutti questiprincipii liberali con questo progetto di legge sono sacrificati [...]. E nonsi calcola la discordia che semina oltreciò in tutto il paese, e le lotte chesi dovranno sostenere prima di eseguire una tale legge, e l’odio che siaccumulerà in tutte le anime oneste e sincere contro il Governo e controle nostre stesse istituzioni?”104.

Thaon di Revel, con l’autorità di chi aveva preso parte alla stesuradello Statuto, svolgeva la sua opposizione sul piano puramentegiuridico-formale, rivelando che la dizione dell’art. 29 della cartacostituzionale, relativo all’inviolabilità di tutte le proprietà senzaeccezione, aveva avuto per scopo precipuo di garantire la proprietà aglistabilimenti ecclesiastici; su questa stessa linea si tennero altri interventi(come quelli del De Maugny e dello Sclopis).

103 Cfr. Jemolo, Il «partito cattolico» piemontese nel 1855 e la legge Sarda soppressiva dellecomunità religiose, cit., p. 20; E. Passerin d’Entrèves, Parlamento e opinione pubblica nellaformazione dello Stato unitario italiano (1850-60), disp. univ., Milano 1962; Id., Gustavo diCavour e le idee separatiste nel dibattito politico-religioso del 1850-52 in Piemonte, ora in Id.,Religione e politica nell’Ottocento europeo, a cura di F. Traniello, Roma 1994, pp. 224-241.104 Lettera a Gustavo di Cavour, del 2 dicembre 1854, in A. Rosmini, Epistolario completo,Casale Monferrato, 1893, vol. XII, p. 530.

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Mentre Gustavo di Cavour paventava che con la legge si favorisse ilpartito clericale reazionario (come in parte fu, nelle successive elezionidel 1857), già in ascesa in molte parti d’Europa e ostile agli ordinamenticostituzionali e liberali, con identico spirito, il deputato LorenzoGhiglini affermava che la legge avrebbe reso avversi alla formacostituzionale-parlamentare tutti i cattolici d’Italia, così che tale forma digoverno non sarebbe potuta ritornare pacificamente negli altri Statiitaliani e perciò sarebbe venuta meno una condizione indispensabile perl’unione federale fra gli Stati italiani e per l’indipendenza d’Italia dalladominazione straniera; d’altra parte, il senatore Gaspare Coller indicavail rischio che la soppressione suscitasse un’impressione dolorosissimanell’opinione pubblica, accrescesse la discordia nel paese e indebolisse leancor giovani istituzioni liberali.

In una considerazione complessiva, si potrebbe dire che questeposizioni tendevano a difendere tutte le libertà105 e a concepire i rapportiStato-Chiesa nella formula: “Libera Chiesa e libero Stato”, nonovviamente nel senso della reciproca estraneità o della separazione, masecondo una sorta di ‘occasionalismo politico’, di armonia prestabilita.

Vicino a questa posizione era anche, come si è visto, il pensiero diRosmini: e tuttavia la sua complessiva riflessione appare più profonda earticolata e dunque non totalmente riducibile a questo ‘occasionalismopolitico’. Il suo “gran disegno”, la sua utopia, prevedeva unarestaurazione cristiana e un rinnovamento della società civile e delloStato attraverso la riforma della Chiesa: era cioè la renovatio Ecclesiae chepoteva portare anche a una rigenerazione e a uno sviluppo complessivi,quasi che società civile e Stato fossero in qualche modo ‘contenuti’ nella

105 Nel 1851 (tornata del 14 marzo), nella discussione sull’insegnamento nei seminari,Cesare Balbo aveva affermato: “Io penso adunque che noi dobbiamo aver di mira disvolgere tutte le libertà. Vi debbe essere la libertà commerciale, che presentementeancora non abbiamo, vi debbe essere la libertà d’agricoltura, che similmente presso dinoi non esiste completa, debb’essere la libertà comunale, la libertà provinciale, la libertàd’insegnarnento, vi debb’essere pure la libertà religiosa. Accordiamo dunque una talelibertà, accordiamola, o signori, anche agli esagerati, o ecclesiastici o secolari, i qualiscrivono o, per meglio dire, credono di scrivere nel senso della Chiesa; accordiamo lorola libertà medesima che si lascia a tutti gli esagerati” (Atti del Parlamento Subalpino,Sessione del 1851, Firenze 1866, vol. IV, II delle discussioni della Camera dei Deputati, p.1387).

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Chiesa, da essa traessero forma e animazione106. La formula rosminianapotrebbe forse essere espressa come: ‘Libero Stato in libera Chiesa’.

Distinta dalle correnti di opposizione cattolico-costituzionale, maanche dall’impostazione cavouriana, era la posizione, a sé stante, diCarlo Cadorna, relatore della legge107, che configurava una sorta diseparatismo confessionale. Egli, infatti, professandosi cattolico,affermava che sia il potere ecclesiastico sia il potere civile sono diorigine divina: da tale unica fonte deriva il loro rispettivo mandato, i cuilimiti fissati non possono essere oltrepassati pena la nullità. Princìpicostitutivi e direttivi del primo sono le leggi religiose rivelate, delsecondo il diritto naturale, scritto nel cuore di ogni uomo e attingibileper mezzo della ragione. La sovranità dei due poteri non può esserecumulativa su uno stesso oggetto. Differente è lo scopo di tali sovranità(la salvezza dell’anima da una parte, il benessere temporale dall’altra),differente è l’ambito sul quale si esercitano: sempre l’uomo, ma non lastessa parte dell’uomo. La società ecclesiastica agisce sull’anima e sullavolontà, la società civile sugli atti esteriori e sulle relazioni con le cosemateriali. In quest’ambito di attribuzioni della società civile, il poterecivile è dunque competente sulle persone anche ecclesiastiche, sulleassociazioni anche ecclesiastiche, sulle manimorte anche ecclesiastiche esui beni ecclesiastici. Cadorna non ammetteva l’esistenza di materiemiste e stigmatizzava gli abusi, resi possibili, da parte dei due poteri,attraverso un uso improprio dei mezzi per l’esercizio del potere108. A

106 Cfr. F. Traniello, Società religiosa e società civile in Rosmini, Bologna 1966.107 Su Cadorna, cfr. N. Raponi, Cadorna, Carlo, in Dizionario biografico degli italiani, Roma1973, vol. XVI, p. 97.108 Cadorna affermava. “Ora in due modi un potere può abusare dei mezzi e delle armi.Egli ne abusa allorquando si serva di un mezzo o di un’arma che naturalmente non glisia propria, ed allorquando adoperi un’arma che naturalmente gli sia propria, ma ne usiad un fine il quale appartenga ad un altro potere. E primo abuso si verificherebbe se lasocietà civile volesse usare dei mezzi spirituali al fine di giungere al proprio scopo.L’uso di quest’arma sarebbe nonché inetto, perfino ridicolo. La società ecclesiasticaabuserebbe del pari delle armi e dei mezzi quando, scambiando le armi spirituali colletemporali, si arrogasse il diritto di erigere carceri e patiboli, e di ritornare a certi tempidei quali bello è il tacere [...]. Il secondo caso si verifica, come dissi, allorquando unpotere adopera bensì un mezzo che gli sia proprio, ma lo adoperi a scopo non proprio.La podestà civile, la quale usasse della forza all’oggetto di agire sopra le credenze degli

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suo avviso, alla Chiesa sarebbe stata sufficiente la libertà civile. Ed eglicosì riassumeva il suo separatismo: “Dico pertanto che le due podestàsono assolutamente distinte, separate, indipendenti, sovrane per loscopo, pel soggetto e pei mezzi delle loro azioni; che vi ha nel loromandato stesso una linea di separazione, la quale non possono né l’unoné l’altra oltrepassare; oltrepassata la quale, manca loro l’autorità el’efficacia del comando e manca l’obbligazione di eseguirlo”109. Non sitrattava però di un separatismo assoluto. Anche se Cadorna sostenevache l’art. 1 dello Statuto non annullava il potere civile e non riduceva loStato ad una teocrazia110, rispondendo alle osservazioni del deputatoDella Motta affermava: “Egli diceva che nei Governi costituzionali la

uomini, commenterebbe precisamente questo abuso [...]. Sarebbe quindi manifestamentetirannica la società civile, la quale usasse dell’arma propria, cioè esteriore, ma larivolgesse a scopo spirituale. Del pari la podestà ecclesiastica subirebbe le stesseconseguenze [...]. Egli è evidente che un’arma spirituale, la quale fosse indirizzata aduno scopo politico, cioè ad un scopo assolutamente estraneo all’autorità del potereecclesiastico, costituirebbe di per sé un atto radicalmente nullo” (Atti del ParlamentoSubalpino, cit., vol. VI, pp. 2905-2906).109 Ibid., p. 2907.110 Cadorna così argomentava: “L’articolo 1 dello Statuto dichiara che la religionecattolica è la religione dello Stato. Qual è la naturale conseguenza di una taleprescrizione? che lo Stato in materia di religione dev’essere cattolico. In verità io noncomprendo come dalla prescrizione che lo Stato debba essere cattolico si possa inferireche nelle cose laiche egli non possa, come potere sovrano, provvedere, imperocché lareligione non ha nulla a che fare colle cose laiche. Ora, siccome lo Statuto stabilisceunicamente che lo Stato debba essere cattolico, e siccome la qualità di cattolico vieneunicamente da quegli elementi che costituiscono la religione cattolica, così è evidenteche da quest’articolo dello Statuto non si potrà mai trarre conseguenza alcuna per laquale si venga a togliere al potere civile quella naturale potestà che gli compete sullecose temporali delle quali quest’articolo non fa alcuna parola [...]. Inoltre lo Stato mostradi essere cattolico ed eseguire l’articolo 1 dello Statuto colla protezione che accorda (e,per quanto io penso, troppo largamente per l’interesse della religione stessa) allareligione cattolica; ma il pretendere che questa protezione vada sino al punto di togliereal Governo il potere naturale che ha di esercitarsi e di esplicarsi, come Governo civile,sulle cose che sono di competenza del medesimo è tale enormezza che ci pare persinoincredibile che essa sia affermata all’appoggio dello Statuto che consacra le nostrelibertà. Per tal modo si invocherebbe lo Statuto per ristabilire la teocrazia ed un nuovogenere di servitù che lo stesso nostro Governo civile, neppure sotto le forme assolute,non ha mai subito” (ibid., pp. 2915-2916).

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persona del cittadino è e deve riputarsi assolutamente separata dallapersona del credente; e che conseguentemente potendo essere nel paesediverse comunioni religiose non si può, senza violare i principi digiustizia e di libertà, stabilire il principio che lo Stato possa togliere ibeni ad una comunione religiosa, cioè ad una sola parte dellapopolazione, per applicarli all’erario nazionale, i cui valori sono godutinon dagli individui soltanto appartenenti a quella comunità religiosa acui quei beni sarebbero stati tolti, ma anche da individui appartenentiad altre comunità [...]. La teoria enunciata suppone che esista giàrealmente la vera e compiuta separazione della Chiesa dallo Stato,perché essa pone per base che nel Governo costituzionale la persona delcittadino sia assolutamente diversa dalla persona del credente. Ma, iodomando, questo principio di diritto pubblico è adesso attuato presso dinoi? Può esso attuarsi a petto dell’articolo primo dello Statuto e di altredisposizioni che riguardano questa materia?”111.

In un certo senso, quest’ampio intervento di Cadorna stabiliva quasi,come acutamente osservò “La Civiltà Cattolica”, “la filosofia del dirittodella legge”112 e d’altra parte era anche una sorta di rovesciamento tantodella posizione gesuitica quanto della posizione rosminiana. Se infatti igesuiti propugnavano la stretta relazione e alleanza tra Chiesa e Stato inuna cornice confessionale, nello stesso quadro confessionale Cadornainvocava invece la separazione, la distinzione, l’indipendenza. SeRosmini vedeva l’autonomia dello Stato cattolico all’interno dellasocietà ecclesiale113, Cadorna concepiva l’autonomia ecclesiale

111 Ibid., p. 2928.112 Di una nuova fìlosofia del diritto, cit., p. 370.113 Rosmini pubblicò sul giornale torinese “L’Armonia” un articolo (Breve confutazione de’sofismi e degli errori contenuti nella relazione presentata dal deputato Carlo Cadorna nella seduta27 dicembre 1854 alla Camera de’ Deputati sul progetto di legge per la soppressione di ComunitàReligiose, ecc.) del quale uscirono solo due puntate: “L’Armonia”, VIII (1855), n. 12, 17gennaio, p. 48; n. 14, 19 gennaio, pp. 56-57. Secondo il Roveretano Cadorna confondevala personalità civile degli enti morali coll’esistenza di fatto degli enti stessi e proponevaperciò un’erronea distinzione tra gli enti (cioè enti che hanno un essere naturale enaturali diritti ed enti che hanno la personalità civile dallo Stato). Tutti gli enti hanno,secondo Rosmini, la personalità civile dallo Stato: il problema sta nella natura degli enti.E aggiungeva: “Il signor Relatore suppone che il governo civile possa creare lepersonalità civili di enti, che esistono di fatto indipendentemente da lui, a sua libera

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all’interno dello Stato cattolico: una libera Chiesa in un libero Statocattolico.

Se la posizione di Cadorna era forse quella più importante per quantoriguardava gli aspetti della modernizzazione della cultura civile, sulpiano degli aspetti pratico-concreti la più rilevante era indubbiamentequella di Camillo Cavour e da più punti di vista. L’ideale cavouriano erasinceramente separatista114 ed egli non guardava certo con simpatia aforme di accentuato regalismo, anche riformatore, come nel caso delgiuseppinismo115. Tuttavia era cosciente, sul piano pratico, dei rischi cheil partito ultracattolico dei “retrivi” aveva rappresentato e ancorarappresentava in Europa116. Per questo motivo egli, da una parte, aveva

volontà. Egli non si propone neppure la questione: se il governo civile potesse forseessere obbligato a riconoscere l’esistenza di certi enti di fatto, e riconoscendola, a dareloro una personalità civile. Il concederla, o il negarla, è per il signor Relatore un puroatto d’arbitrio governativo. […] Anche inverso al governo assoluto alcuni enti per séesistenti, com’è la Chiesa Cattolica, avevano diritto d’essere riconosciuti come personecivili, ma nel nostro governo costituzionale tali diritti furono di più sanciti, e guarentitidallo Statuto. È dunque un errore mostruoso, e ributtante, in un governo costituzionale,il principio, che il civile governo possa negare con un atto di puro arbitrio la personalitàcivile ad enti, che esistono senza di lui; egli trovasi in questo sottoposto a obbligazionigiuridiche, che derivano dal diritto di ragione, e a un tempo dal diritto positivo, checostituisce il fondamento della sovranità costituzionale, da cui ora è retto il Piemonte, eche giace nello Statuto, come meglio diremo nei seguenti articoli”(ora in A. Rosmini,Opuscoli politici, a cura di G. Marconi, Roma 1978, pp. 277-278). Rosmini però non scrissealtri articoli: egli, com’è noto, morì nel 1855.114 Cfr. R. Romeo, Cavour e il suo tempo, vol. I: 1810-1842, Bari 1969; vol. II: 1842-1854,Bari 1977.115 Egli dunque affermava al Senato il 25 aprile 1855: “Con ciò non intendo neppure farl’apologia di tutte le misure di Giuseppe Il rispetto alla Chiesa, giacché non esito qui adichiarare altamente che non approvo tutta quella parte della legislazione giuseppina, laquale tende ad inceppare soverchiamente la libertà della Chiesa. Amico delle ideeliberali, voglio che queste siano pure alla Chiesa applicate” (Atti del Parlamento Subalpino,cit., vol. VIII, p. 662).116 Cavour affermava: “Ma quando ciò avvenisse, quando quest’agitazione avessedisgraziatamente ad andare fuori d’un certo limite, io ricorderò al Senato non esserequesta la prima volta che lotte fatali ebbero luogo fra il principio di libertà, di progressoed il principio retrivo vestito del manto della religione. Nel XVII secolo in Inghilterra ilpartito retrivo, capitanato dai Gesuiti, mosse guerra tremenda alle idee di libertà, diprogresso, e il risultato di questa lotta fu la tremenda catastrofe che trascinò in

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una strategia capace anche di usare leve giurisdizionaliste117 e, dall’altra,adottava una tattica moderata nell’espressione anche se coerente nellasostanza118. Ecco perché nella discussione sulla legge del 1855accentuava i toni moderati, ma era fermo nelle misure soppressive, irreparabile rovina l’antica e venerabile schiatta degli Stuardi. Nei tempi a noi più vicini,nel regno di Francia dopo la Ristorazione, un sovrano non meno illuminato cheprudente era riuscito a rannodare la catena dei tempi ed a ristabilire l’armonia e la pacefra gli ordini antichi e i nuovi; ma quando a questi successe un altro, il quale si diede inpreda solamente ad un partito, il quale, sotto il pretesto di favorire gi’interessi dellareligione, combattè ogni idea di progresso e di libertà; un’altra lotta ivi s’impegnò, equesta ebbe per risultato di rovesciare e di ridurre in frantumi il vecchio trono deiBorboni. Io spero che, fatti istrutti dalla lezione della storia, simili eventi non accadrannofra noi, né credo che il venerabile nostro clero voglia imitar gli esempi da me indicati. Iosono certo che ad ogni evento la sapienza dei grandi poteri dello Stato saprà evitare leindicate funeste conseguenze” (ibid., p. 663). Nei riferimenti ai re rovesciati e alledinastie cadute, Cavour esercitava evidentemente una pressione rispetto alle indecisionidel re: agli stessi esempi ricorse infatti Massimo D’Azeglio nella celebre lettera a VittorioEmanuele II, sollecitata peraltro dal Cavour.117 Nella famosa lettera del 22 agosto 1850 al marchese Birago di Vische, Cavour avevascritto: “Amico, quant’altri mai, della libertà religiosa la più estesa, io desideroardentemente di veder giungere il tempo in cui sarà possibile di praticarla da noi, qualeessa esiste in America, mercé l’assoluta separazione, che io reputo essere unaconseguenza inevitabile del progresso della civiltà e condizione indispensabile al buonandamento delle società, rette dal principio di libertà. Ma fintantoché gli spiriti non sonopreparati per questa grande riforma sociale, fintantoché l’educazione del clero non saràindirizzata a questo santo scopo, ed una parte notevole di esso conserveràreligiosamente le tradizioni dei tempi antichi e si dimostrerà apertamente animata dasentimenti ostili alle istituzioni libere, od alla causa nazionale, fintantoché vi sarà unareligione di stato, sarà forza sospendere l’applicazione di teorie, di cui conoscol’eccellenza e conservare delle antiche leggi, quel tanto, che è necessario per impedire:che un partito oltremodo tenace, se non potentissimo, sotto pretesto di conquistaremaggiori libertà, ci ritorni al vecchio assolutamente di cui ieri era ancora il più ardentefautore” (L. Chiala, Lettere edite e inedite del Conte Camillo di Cavour, Torino 18842, pp. 428ss.).118 Nel discorso del 9 aprile 1861 al Senato del Regno d’Italia, Cavour disse diLamennais: “non vedendo accolte favorevolmente le sue dottrine dalla Corte di Roma,invece di temperare l’espressione delle sue dottrine, continuando a mantenerle, ecercando di propagarle nel clero francese, abbandonò il cattolicesimo e portò l’appoggiodella sua eloquente parola ad un partito nemico non solo della Chiesa, ma direi, puredella civiltà” (C. Benso di Cavour, Discorsi parlamentari, a cura di A. Omodeo, L. Russo,A. Saitta, Firenze 1975, vol. XV, p. 540).

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citando abilmente l’esempio della Savoia dove le precedentisoppressioni di ordini religiosi sembrava avessero fatto aumentare e nondiminuire il rispetto per la religione119.

Ma non sono questi gli aspetti più interessanti della posizionecavouriana. Ciò che appare maggiormente significativo è infatti quelloche sembrerebbe quasi una sorta di ‘riformismo indiretto’. Cavourpensava cioè che, togliendo alla Chiesa ogni sostegno temporale e,dall’altra parte, modernizzando la società civile e rendendo liberale loStato, si sarebbero create le condizioni che avrebbero portatonecessariamente ad una autoriforma, ad una modernizzazione dellaChiesa, senza bisogno di interferire e di intervenire dall’esterno su diessa. La modernizzazione liberale della società avrebbe infatti ridottol’influenza dei retrivi e degli anti-moderni, non reprimendolidirettamente ma lasciando libertà a tutti: la libertà avrebbe mostrato laloro inconsistenza e avrebbe impedito che si potessero ergere a paladinicontro un monopolio statale120. In definitiva la modernizzazione della 119 Nel discorso alla Camera, nella tornata del 17 febbraio 1855, Cavour notava “che ipaesi ove la fede è più viva, ove è più rispettato il clero, ove la religione esercitamaggiore impero, sono quelli appunto in cui gli ordini religiosi dei secoli passati sitrovano in minor numero. Mi starò nel nostro medesimo paese e mi varrò di un esempioche si verifica sotto i nostri occhi. Ho notato poc’anzi qual fosse la provincia in cui vi eramaggior numero di frati, cioè la Sardegna. Chiederò ora qual sia quella in cui essi sonoin minor numero, e voi certo mi risponderete essere la Savoia. Ebbene io credo poterasserire (senza avere contraddicenti i deputati di codesta provincia) che la Savoia è forsela parte dello Stato ove il clero è più rispettato, ove esercita maggiore influenza, ove lareligione tiene il suo maggiore dominio [...]. Ora, come già dissi, è in essa dove avviminor numero di corporazioni religiose, almeno di quelle che col presente progettointendiamo sopprimere. Io sono quindi in diritto di dire che gli ordini religiosi, i qualinoi vogliamo soppressi, non giovano alla società religiosa, ma invece nuociono allalegittima influenza che il clero e la religione debbono esercitare” (Atti del ParlamentoSubalpino, cit., vol. VI, p. 2866).120 Nel 1851, polemizzando con il Valerio, Cavour aveva affermato: “Egli crede che lapotenza dei gesuiti in Francia sia dovuta alla libertà d’insegnamento, ed io sono invecepienamente convinto che, se i gesuiti sono risorti di nuovo sulla terra dei Voltaire e deiRousseau, è ciò dovuto all’eccessivo monopolio universitario. Come mai si potrebbeattribuire l’influenza dei gesuiti alla libertà d’insegnamento, quando questa libertàd’insegnamento non è applicata in Francia che da un anno o diciotto mesi al più? [...].Egli è, come io diceva, molto più logico, molto più razionale il dire, che i gesuiti sonofigli della reazione contro il monopolio universitario” (Cavour, Discorsi parlamentari, cit.,

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società, senza entrare in sterili dispute o transazioni di principio conl’autorità religiosa, avrebbe prodotto dei fatti compiuti, da cui la Chiesanon avrebbe più potuto prescindere121. “Quando – ricordava Cavour allaCamera – si discuteva la legge per l’abolizione del foro, si facevano lepitture le più sinistre degli effetti che essa avrebbe prodotti; pareva chesarebbe stato mestieri di mandar sempre i carabinieri a strascinare isacerdoti dinanzi ai tribunali, che avrebbe bisognato scalzare le portedelle chiese. Se ne faceva insomma un quadro spaventevole. Ebbene, osignori, [...] questa legge fu poi tanto dannosa alla religione ed ai suoiministri? Ben altrimenti; io credo che e questi e quella ci hannoguadagnato, perché dopo tale legge i ministri dell’altare godono dimaggior credito nelle transazioni civili ed hanno migliorata la lorocondizione. Lo stesso avverrà nel caso presente. Voi vedrete dopoquesta riforma più influente il clero, più rispettata la religione, e tutti gliuomini di buona fede finiranno per convenire, se non apertamente,almeno in segreto, che alla fin fine essa era una buona cosa”122.

Il pensiero di Cavour appare quasi l’esatto rovesciamento di quello diRosmini: la società religiosa è come contenuta ed informata dalla societàcivile, rinnovando quest’ultima si realizza implicitamente eindirettamente anche la renovatio Ecelesiae: “libera Chiesa in liberoStato”.

Le posizioni dell’opposizione cattolico-costituzionale, di Rosmini, diCadorna, di Cavour, rappresentavano dunque – pur con modulazionidistinte – quelle correnti mediane, prevalenti, di modernizzazione dellacultura civile, tutte in qualche modo connesse al modello dilaicizzazione piemontese-italiano123.

vol. IV, pp. 511-512).121 Nel discorso al Senato, del 21 maggio 1855, Cavour affermava: “Se voi voletenegoziare colla Corte di Roma sopra la questione dei principî, non giungerete mai adalcun risultato. Voi potrete arrivare a mettervi d’accordo sui fatti con quella Corte, masui principî che regolino i rapporti del potere civile col potere ecclesiastico giammai [...].L’Episcopato si mostrava disposto a transigere sui fatti, era inflessibile nella questionedei principî” (Atti del Parlamento Subalpino, cit., vol. VIII, p. 798).122 Atti del Parlamento Subalpino, cit., vol. VI, p. 1870.123 Volendo dunque ipotizzare una sintesi generale di tutte queste posizioni che siricollegano al modello liberale cattolico si dovrebbe usare una formula composta:‘Libera Chiesa in libero Stato cattolico e libero Stato in libera Chiesa cattolica’.

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3. La modernizzazione della cultura civile del clero

Distinta dalla modernizzazione della cultura civile nel sistemapolitico, nel “paese legale”, era la modernizzazione della cultura civiledel clero: distinzione che non era separazione perché in effetti la primaera tenuta presente in modi diversi dalla seconda e interagiva con essa.D’altra parte però le varie correnti che si definivano nel sistema politiconon si riflettevano automaticamente nel clero, nel quale invecesembrano due le tendenze prevalenti: a fronte di un clero “ingesuitato”o gesuitizzante vi è un clero che si può definire “guelfo”.

Parliamo qui del clero (settentrionale), regolare e secolare, ma èevidente che è più semplice rilevare le differenze dei regolari rispetto alclero secolare (per il quale si deve ricorrere a elementi indicativiindiretti: il tipo di formazione nei seminari e nei collegi ecclesiastici, imaestri avuti, i manuali sui quali ci si era formati, la trattatisticapastorale più diffusa ecc.). Le nuove congregazioni di voti semplicifondate nell’Ottocento costituiscono quasi un ambito intermedio: piùvicine, per molti aspetti, al clero secolare e ai suoi problemi pastorali, macon tutte le caratteristiche del clero regolare (e dunque con unapossibilità di più facile rilevamento delle “matrici” ideali e culturali).

Certamente i gesuiti ebbero una grande importanza nel promuoveree nel fondare nuove congregazioni religiose, ancorché in mododifferenziato124. Tuttavia occorre sfuggire all’impressione immediata diun quadro uniforme e unico. Accogliere la spiritualità di S. Ignazio nonsignificava sempre accettare la religiosità gesuitica ottocentesca. D’altraparte molta fortuna aveva il “modello” delle Costituzioni dellaCompagnia, anche perché sembrava che fosse la stessa Congregazionedei vescovi e regolari a proporlo: come nel caso della circolare NeminemLatet (del 19 marzo 1857) con cui si chiedeva a tutti gli istituti religiosil’introduzione dei voti semplici perpetui per tre anni prima dellaprofessione solenne125. Non bisogna tuttavia trascurare un certo“conformismo mimetico” adottato dai nuovi istituti per facilitare 124 Cfr. D. Gallio, Introduzione alla storia delle fondazioni religiose a Verona nel primoOttocento, in AA.VV., Chiesa e spiritualità nell’Ottocento italiano, Verona [1971], pp. 231-232.125 Cfr. Martina, Italia, cap. IX: Gli Istituti religiosi in Italia dalla Restaurazione alla finedell’800, cit., c. 223.

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l’approvazione delle proprie costituzioni126, ma che comunque nonsignificava un allineamento complessivo sulle posizioni gesuitiche.

Nel clero sostanzialmente vicino alla cultura civile gesuitica sipossono considerare i Servi di Maria e i Benedettini della primitivaosservanza, tra gli istituti antichi, e tra i nuovi, oltre a quelli sorti nelperiodo di soppressione della Compagnia e quasi come un “surrogato”alla stessa, c’erano le Dame del S. Cuore della Barat – le cosidette“gesuitesse”, presto diffusesi anche nel Regno di Sardegna –; le loro‘cugine’, Sorelle della Sacra Famiglia di Leopoldina Naudet; lacongregazione dei Missionari apostolici in aiuto dei vescovi, poichiamata delle Stimmate di N. S. Gesù Cristo, fondata da GaspareBertoni; gli Oblati di Maria Vergine di Brunone Lanteri; le Maestre di S.Dopotea di Venezia (e la Pia Opera di S. Dorotea) di don Luca Passi. Siconsideri poi che i diversi istituti di Suore di S. Giuseppe(congregazione fondata a Torino nel 1821, a Pinerolo nel 1825, a Novaranel 1826, ad Aosta nel 1831, a Cuneo nel 1831) derivano da un istitutoomonimo fondato in Francia dal gesuita Médaille. Inoltre molto spessosono di fondazione o di ispirazione gesuitica gli istituti che hanno nelnome il riferimento al S. Cuore, specialmente quelli della prima metà delsecolo (quando non si era ancora spenta l’eco delle polemichegiansenistiche e il solo parlare di S. Cuore era sentito come fortementeconnotativo): tra queste, si ricordino, almeno, le Figlie del Sacro Cuoredi Gesù, fondate da Giuseppe Benaglio e da Teresa Eustochio Verzeri.

Nell’opposto campo, del clero ‘guelfo’, possiamo ascrivere, oltre aiBarnabiti, agli Scolopi e ai Benedettini cassinesi, molte dellecongregazioni nuove che hanno nel nome il riferimento alla “Carità” (eperciò a una, più o meno mediata, matrice vincenziana)127: le Figlie di

126 Cfr. Gallio, Introduzione alla storia delle fondazioni, cit., p. 245.127 In risposta a don Carlo Marcionni, prevosto di S. Maria del Carmine a Milano, che gliscriveva il 28 marzo 1843 in merito a un progetto di fondazione legato a “Sorelle dellaCarità”, Rosmini osservava: “Vari sono gl’Istituti di Suore che hanno preso il nome dellaCarità. Nello Stato Austriaco Ella conosce quelle fondate dalla signora Marchesa diCanossa, che veramente si chiamano «Figlie» invece che «Suore», ma che viene dalmedesimo. Oltre di queste vi sono le «Suore della Carità» di Lovere, recentementeistituite, e già introdotte, per quanto io credo, anche in Milano. Di quelle poi nonintrodotte ancora, a mia saputa, nello Stato Austriaco, vi sono quelle di S. Vincenzo de’Paoli, che si dividono in due Congregazioni: le «nere» e le «bigie»: le prime hanno il

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Gesù di Pietro Leonardi, le Figlie e i Figli della Carità della Canossa, iRosminiani (cioè l’Istituto della Carità) e le Rosminiane, le Suore dellaCarità del Sacro Cuore di Gesù e la Pia società di don Nicola Mazza(insieme alla Pia Società Maestre Cooperatrici), le Suore della Caritàdella Sagramoso, le Suore della Carità della Capitanio e della Gerosa, leSuore Marcelline del Biraghi, la Compagnia di Maria per l’educazionedei sordomuti del Provolo, i Figli di Maria Immacolata del Pavoni, iSalesiani e le Salesiane di don Bosco. Con questo non si vuole dire chenon ci fossero differenze anche profonde tra tutte queste nuovefondazioni religiose, dal punto di vista del “carisma”, della spiritualità,del referente sociale. Vi è tuttavia anche un tratto comune e cioè di una‘cultura civile’ nettamente distinta da quella dei gesuiti e del clerogesuitizzante.

Se la modernizzazione della cultura civile appare più evidente, neimodi che vedremo, nel clero guelfo (variamente influenzato dallecorrenti mediane del sistema politico e soprattutto dalla opposizionecattolico-costituzionale), tuttavia in essa si inscrive anche il clerogesuitizzante che non rimane esterno ed estraneo rispetto a tale processoma vi partecipa, sia pure con un ruolo di freno, di resistenza, direazione. D’altra parte nel considerare le evoluzioni e gli sviluppi internidi queste due posizioni, occorrerebbe distinguere i differenti periodi(prima Restaurazione, seconda Restaurazione dopo il 1830, svolta del1848, “decennio di preparazione”, periodo post-unitario): tali distinzionisono imprescindibili se si considera la dialettica tra ambiente clericale esistema politico, ma se ne può – in prima approssimazione – fare a menose si mira ad individuare i ‘tipi ideali’ di cultura civile. Inoltre, se è veroche il clero guelfo è presente soprattutto nei centri urbani e al Nord, nonsi può tuttavia dire che il clero di campagna o quello del Mezzogiornosiano tout court clero gesuitizzante: più precisamente occorrerebbeindicare una relativa estraneità, in questi anni, di tali ambiti dalprocesso di modernizzazione della cultura civile e dunque unpermanere di forme precedenti che raramente entrano veramente in

centro in Parigi e dipendono dai Missionari di S. Vincenzo, le seconde hanno il centro inNapoli” (in G. Radice, Antonio Rosmini e il clero ambrosiano. Epistolario, vol. III, p. 151).

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contatto – sia pure per polemizzarvi – con le istanze dellamodernizzazione culturale128.

La cultura civile del clero gesuitizzante mirava in sostanza ad unaierocrazia che, traendo spunti apologetici dal Medioevo cristiano,poteva dirsi in qualche modo medievalismo moderno. Il cuore polemicodi questa cultura era rappresentato, infatti, dall’anti-protestantesimo,cioè da un problema moderno, che anzi era assunto quasi come la cifradell’intera storia moderna e a cui si poteva far fronte solo con lasoluzione moderna rappresentata dalla “confessionalizzazione”. Vi erapoi un ulteriore accento di modernizzazione laddove laconfessionalizzazione non mirava più – in prima istanza – allo Stato, alsistema politico, ma alla società civile: si trattava di un temporalismosociale, che si contrapponeva all’ateismo sociale e dunque anche alsistema politico in tanto in quanto esso permetteva e legalizzaval’ateismo stesso.

Se tradizionalmente l’attenzione era rivolta all’educazione dei cetielevati, in quanto più capaci di influire sulla società, una nuova forma dipenetrazione sociale era stata sperimentata con il modulo delle“Amicizie”: gruppi di carattere elitario ristretto e di sicura ortodossiaper influire su cerchie più ampie di persone e informare cristianamentel’opinione pubblica. Si riteneva che l’incredulità e l’ateismo sidiffondessero – con la pretesa dei “lumi” – attraverso i libri e si cercavaperciò di organizzare una contro-circolazione libraria129. Con laRestaurazione tale forma di ‘apostolato della buona stampa’ assumevaquasi i caratteri di un’opera di propaganda di ‘massa’ (naturalmenterivolta agli ambienti alfabetizzati), perché si privilegiavano volumetti,pamphlet e opuscoli rispetto a opere più ampie e impegnative: libri cioèdi “poco volume ma forti per ragionamento e unzione”130. Come scrissenel 1825 il Canosa in una lettera al Torelli: “Ora la guerra degli opuscoliè più profittevole assai di quella delle grandi opere che non si leggonoper lo più, e non s’intendono in questi tempi”131. Si trattava di una

128 Cfr. A. Gambasin, Il clero diocesano in Italia durante il pontiftcato di Pio IX (1846-1878),in AA.VV., Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878), cit., vol. I, pp. 147-193.129 Cfr. C. Bona, Le «Amicizie». Società segrete e rinascita religiosa (1770-1830), Torino 1962.130 Ibid, pp. 333 e 369-370.131 Cit. in Maturi, Il Principe di Canosa, cit., p. 279. A proposito del Canosa, è da notare

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modernizzazione reazionaria che mirava a un’egemonia ‘apologetica’sia pure superficiale e non profondamente fondata, tendente a generareun abito gregario e un po’ meccanico nelle cerchie più vaste:significativamente nella Società degli Amici, fondata dal giovaneRosmini quando ancora partecipava largamente della culturareazionaria e ultramontana, i membri erano chiamati “agenti” ed essidovevano imprimere movimento e vita a tutti gli altri, detti“macchine”132.

In questo senso il clero gesuitizzante non era un clero ignorante eretrivo, anzi cercava di mantenersi costantemente aggiornato. SecondoBrunone Lanteri, la lettura dei giornali era utilissima: “1° a prender lacarta morale del mondo; 2° ad assuefare l’ecclesiastico a non restringerele sue idee e il suo interessamento al solo suo paese, ma a riguardar tuttoil mondo per sua patria, tutti gli uomini del mondo per suoi fratelli, einteressarsi come veri figli e ministri della nostra Madre Santa ChiesaCattolica Romana per tutti i beni e mali morali del mondo che tanto davicino interessano il S. C. di Gesù; 3° per poter così più facilmenteintrodursi co’ secolari a parlar poi loro di Dio all’esempio de’ Santi”133.In questo senso l’ambito inteso come significativo era quello universalee, solo secondariamente, quello nazionale, nella misura in cui realizzavapiù o meno l’ideale universalmente valido. Il clero gesuitizzante avevaguardato in un primo momento, come a modello e mito-guida, allaFrancia della Restaurazione ma, successivamente, anche durante ilSecondo Impero, si cominciò a guardare all’Austria cattolica,specialmente dopo il Concordato del 1855 (nello stesso anno cioè in cuiil Piemonte cavouriano sopprimeva alcuni ordini e congregazionireligiose).

Si è già detto come non possa propriamente applicarsi tale schema di‘clero gesuitizzante’ alla realtà del Mezzogiorno d’Italia, dove nonesisteva fin quasi all’Unità un forte e numeroso ‘clero guelfo’, dove si

come la sua dimora a Modena fosse vista negativamente da qualcuno perché egli era“l’autore e direttore di un diluvio di scritti grossolani con vocaboli calabresi profusigiornalmente per irritare gli spiriti, e provocare i faziosi ad eccessi” (ibid., p. 286).132 Cfr. G. Pusineri, La «Società degli Amici». A. Rosmini precursore dell’Azione Cattolica, in“Charitas”, V (1931), p. 45.133 Cit. in Bona, Le «Amicizie», cit., p. 112.

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erano fondate pochissime nuove congregazioni religiose, dove iRedentoristi – come si è visto – subivano il regalismo borbonico e dovela stessa Compagnia di Gesù presentava una situazione atipica come sievince dal comportamento dei gesuiti in Sicilia durante la rivoluzionedei 1848134.

Il clero guelfo non guardava con simpatia al clero “ingesuitato”,secondo la sprezzante definizione di Gioberti135, ma questo non significache facesse dell’anti-gesuitismo militante; al contrario tale sentimento diestraneità si esprimeva più spesso con l’indifferenza e la freddezza(soprattutto verso le forme di religiosità gesuitica). A proposito deichierici italiani, infatti, Gioberti lamentava “la simpatia vera o putativadi alcuni di essi verso la setta gesuitica, e la debolezza degli altri nelripulsarla”136. In questo quadro poi i sentimenti si differenziavano: peralcuni, come Gioberti, i gesuiti erano poco moderni, oscurantisti; peraltri, come Rosmini, essi erano invece troppo arrendevoli verso aspettinon positivi della sensibilità moderna137. In altri termini, se Giobertistigmatizzava la loro anti- modernizzazione, Rosmini ne lamentavataluni caratteri di modernizzazione (reazionaria). Ma ciò che forse piùdisturbava nella Compagnia era una certa tendenza egemonica e l’auto-porsi come regola dell’ortodossia. Scriveva Gioberti, con evidenteforzatura polemica, ma esprimendo probabilmente un sentire diffusonel clero guelfo: “Chi non sa che [i gesuiti] sono sempre in gara, in lite,in battaglia con gli altri Ordini religiosi e coi chierici secolari, se non litrovano affatto ligi [...]? Chi non sa che al dì d’oggi non vi ha quasiuomo, che possa, verbigrazia, fondare un instituto religioso, un seggiodi sacri studi, un ospizio di beneficenza, senza mettersi a rischio diessere molestato, calunniato, perseguitato, se non consente diriconoscere l’alto dominio dei Padri e di rendersi loro vassallo?”138. 134 Cfr. G. De Rosa, I Gesuiti in Sicilia e la rivoluzione del ‘48, Roma 1963.135 Cfr. la lettera di Gioberti del 13 maggio 1834 a G. Baracco, in D. Berti, Di V. Giobertiriformatore politico ministro, Firenze 1881, p. 15. Cfr. anche V. Gioberti, Prolegomeni delPrimato morale e civile degli Italiani, [1845], a cura di G. Balsamo Crivelli, Torino 1926, vol.I, pp. 121-122.136 Gioberti, Prolegomeni, cit., p. 201.137 Cfr. Traniello, Società religiosa, cit., pp. 184-185; De Giorgi, La scienza del cuore, cit., pp.458-461.138 Gioberti, Prolegomeni, cit., p. 177.

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Ma se questo era un carattere che veniva ascritto alla Compagnia, unaspetto invece rimproverato anche al clero gesuitizzante eral’atteggiamento fazioso e la riduzione del cristianesimo a fazione.Rispetto a questa tendenza il clero guelfo ‘sentiva’ e si riconoscevamaggiormente nell’aspetto istituzionale della religione e della Chiesacattolica. Sempre Gioberti sottolineava “che il cattolicesimo non è unasetta, ma un’istituzione; giacché le sette, immedesimandosi cogli uominiche le costituiscono, non hanno un’entità indipendente da loro, e sonobuone o ree secondo le qualità dei lor componenti; dove che leinstituzioni, avendo una realtà ideale, non soggiacciono ai difetti dicoloro che le rappresentano”139.

È in questa prospettiva di sensibilità verso il profilo istituzionale (eanti-settario) del cattolicesimo che va intesa la grande considerazioneper il papato vissuta attraverso il mito del medioevo, ma appunto“guelfo” e non ierocratico. Nel sovrapporsi del mito del papa medievaleGregorio VII (Foscolo, De Maistre, Gioberti) sul mito del papa modernoPio VII (Alessandro Verri, Chateaubriand, Ventura, Rosmini, D’Azeglio)si intrecciavano strettamente le figure del papato come difensore dellalibertas Ecclesiae ma anche della libertà d’Italia, come tribunaleuniversale di suprema istanza e promotore del progresso dell’umanitàma anche come “veicolo” storico del primato italiano. Questo guelfismorimaneva comunque lontano da un ideale di ierocrazia papista, permotivi di ordine spirituale prima ancora che di cultura civile: la storiadella Chiesa era comunque, in fondo, soprattutto una storia di santi piùche di papi140.

Tale ‘modernità medievalista’ come cultura civile non si caratterizzaperciò per una proposta ierocratica ma per la stretta reciprocità stabilitatra incivilimento e cristianizzazione. La massima e più estrema voceassertrice di questo strettissimo legame era, ovviamente, il Gioberti, chenon era peraltro completamente condiviso141, ma che tuttavia esprimevaefficacemente il significato profondo di questa esigenza di medioevoguelfo nell’età moderna quando scriveva: “I papi dei medio evo, se non

139 Ibid., p. 197.140 Cfr. F. Molinari, La «Storia ecclesiastica» di Don Bosco, in P. Braido (a cura di), DonBosco nella Chiesa a servizio dell’umanità. Studi e testimonianze, Roma 1987, p. 215.141 Cfr. Traniello, Società religiosa, cit., pp. 182-183.

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tutti i maggiori, sentirono la medesimezza della civiltà e della religione.Perciò sovrastarono al loro secolo, in cui i più consideravano nelCristianesimo la religione sola. I papi moderni sequestrando la religionedalla civiltà sociale furono minori della propria sede”142.

La missione della Chiesa veniva allora intesa soprattutto in terminipedagogici e si sviluppava la teologia pastorale (e anche, per esempio, latrattatistica del «buon parroco»143) con una dimensione di scienzapedagogico-pastorale. Il compito appariva grave ma anche esaltante: ilcristianesimo era per molti versi assente dal cuore e dalla vita dell’uomomoderno144 e, mentre si percepivano i primi secoli dell’età cristianacome i più vicini all’età moderna145, si cominciava a intuire che le societàpotevano essere rifatte cristiane solo a partire da una formazione deisingoli146. “Si tratta ora – scriveva Gioberti – di rifare ciò che fecero gliApostoli, cioè di stabilire per la seconda volta il Cristianesimo in Europae di abbattere la gentilità risorta”147.

Vi era nella cultura civile del clero guelfo un più o meno fortesentimento nazionale, come indicava Giulini: “non dico la parte

142 V. Gioberti, I frammenti «Della riforma cattolica» e «Della libertà cattolica», a cura di G.Balsamo Crivelli, Firenze 1924, p. 10. Cfr. Id., Prolegomeni, cit., pp. 88-90.143 N. Abrate, Lo spirito del parroco esposto ad un giovane sacerdote chiamato alla cura delleanime, Roma 1838-41, 2 voll. Cfr., inoltre, F. Traniello, Conciliatorismo e «spirito borghese».La religione di Monsignor Luigi Martini, in “Rivista di storia e letteratura religiosa”, XV(1979), pp. 258-272; Raponi, Introduzione a Dagli stati preunitari d’antico regimeall’unificazione, cit., pp. 41-42.144 Carlo Maria Curci avrebbe più tardi osservato: “In somma tutto il malanno batte quiche Cristo si trova bensì negli elementi costitutivi della società moderna, ma non si trovavivo nel cuore e nella vita dell’uomo moderno” (C. M. Curci, Il Vaticano regio tarlosuperstite della Chiesa Cattolica. Studi dedicati al giovane clero ed al laicato credente, Firenze-Roma 1883, p. 261).145 Secondo Gioberti, “generalmente parlando, quando si cercano utili esempi, se netrovano assai più nei primi secoli della Chiesa come quelli che per molti versi hanno piùproporzione e corrispondenza coll’età moderna” (Gioberti, Prolegomeni, cit., p. 175).146 Più tardi Curci lo avrebbe esplicitamente affermato: “i ministri della Chiesa, purificatidalle salutari avversità, ripiglieranno la travagliosa opera di rifarle [le società] cristianenei singoli, perché ridiventino cristiane nel tutto” (Curci, Il Vaticano regio, cit., p. XVII).147 V. Gioberti, Epistolario, ed. nazionale a cura di G. Gentile e G. Balsamo Crivelli,Firenze 1927-37, vol. IV, p. 225 (lettera a G. Baracco del 24 maggio 1843). Cfr. anche, piùavanti, l’ultimo capitolo.

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gesuítica che quella è contraria e deve esserlo, intendo il nostro clerocomplessivo che è nazionale, che ama il paese, odia i tedeschi, non tienea privilegi e non simpatizza coi frati”148. Tuttavia occorre precisare chenon vi fu, se non in alcuni momenti o in alcuni esponenti, una fortepassione politica. Ciò che forse fu più specifico e più caratterizzante, fuuna certa tendenza all’adattamento pratico, pur senza cedimenti su unpiano ideologico che poteva essere di intransigenza anti-liberale, ancherigida. Questo significava sia una tendenza all’inserimento nel sistemasociale ed economico149 sia soprattutto un sentire anche nei confrontidello Stato quella sensibilità istituzionale che faceva automaticamentedistinguere la dimensione della legge da quella della politica. Il cleroguelfo cioè, per usare le parole del Curci, “per ciò, che riguarda le cosìdette libertà moderne, accetta con filiale commissione il giudizio che,come di principi, ne abbia recato o sia per recarne la Chiesa; ma quantoalla pratica, trovatele passate in leggi del suo paese, le ama come ilmeglio che, nelle presenti condizioni sociali, possa aversi; si studia difarle praticare con rettitudine, e dal canto suo si adopera di tenere tuttoil bene che può”150. È anche significativo che il primitivo nome dellacongregazione religiosa fondata da don Mazza fosse “Servi della Chiesae dello Stato”, evidentemente molto diversa dal nome tanto gesuitico emilitante “Missionari apostolici in aiuto dei vescovi” che GaspareBertoni aveva originariamente dato al suo istituto.

Se indubbiamente molto vi era di tradizionale ossequio versol’autorità, specialmente da parte di quei fondatori di nuovi istitutireligiosi che dovevano cercare l’autorizzazione del potere civile151 o chevolevano sfuggire alle soppressioni152, occorre tuttavia anche segnalare

148 Si tratta di una lettera al Massari del 1859, citata in N. Raponi, Politica eamministrazione in Lombardia agli esordi dell’unità. Il programma dei moderati, Milano 1965,p. 338.149 Cfr. M. Bendiscioli, Chiesa e Società nei secoli XIX e XX, in E. Rota (a cura di), Questionidi storia contemporanea, Milano 1952, p. 800.150 C. M. Curci, La nuova Italia ed i vecchi zelanti. Studii utili ancora all’ordinamento dei partitiparlamentari, Firenze 1881, p. 45.151 Cfr. P. Stella, Strutture educative e assistenziali in nord Italia nella prima metà dell’800, inAA.VV., Lodovico Pavoni e il suo tempo 1784-1849, Milano 1986, p. 67.152 Cfr. G. G. Sterbini, L’Istituto delle suore Maestre di S. Dorotea Figlie dei Sacri Cuori, dallafondazione alla morte del Farina (1836-1888), in A. I. Bassani (a cura di), Il vescovo Giovanni

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aspetti diversi negli atteggiamenti del clero guelfo. Si pensi a quello chesignificò il ‘48: all’impegno di Rosmini153, all’attenzione di Biraghi154, maanche a certo entusiasmo indirettamente percepibile in don Bosco155 o alcurioso carteggio tra una suora delle Dorotee della Frassinetti e iltriumviro della Repubblica Romana Giuseppe Mazzini156. Tale diversitàdi atteggiamento era anche intesa dal potere civile: il governoprovvisorio di Brescia, per esempio, nel 1848, aboliva i gesuiti madichiarava espressamente che non era una “figliazione” gesuitical’istituto “fondato dal benemerito cittadino già Canonico Pavoni”157.

Del resto è noto che molti dei fondatori di queste nuovecongregazioni religiose ebbero rapporti con ambienti ed esponentipolitici liberali, anche dopo l’Unità e nei momenti acri della polemicaintransigente: si pensi soltanto a don Bosco158 e, nel Sud, a Ludovico daCasoria e alle persone a lui vicine, da Alfonso Capecelatro a BartoloLongo.

Se poi, sul piano ideologico, potevano permanere gli stereotipipessimistici e quasi manichei, tipici del pontificato di Pio IX, declinati sumoduli medievalistici, invece sul piano pratico, della vita sociale e delrapporto diretto con gli uomini, il clero guelfo manifestava unatteggiamento aperto, simpatetico e chiaramente ottimistico, senzaalcuna nostalgia medievalistica. Significativamente, nella sua Storiad’Italia, scritta nel 1855, don Bosco apriva la parte relativa all’età

Antonio Farina e il suo Istituto nell’Ottocento veneto, Roma 1988, pp. 505-507.153 Cfr. Traniello, Società religiosa, cit. Ma si veda, più ampiamente, l’ultimo capitolo diquesto volume.154 Cfr. Ferragatta, Monsignor Luigi Biragbi fondatore delle Marcelline, cit.155 Nell’edizione del 1848 della Storia Ecclesiastica Don Bosco parla del “grande” Gioberti(cfr. Molinari, La «Storia ecclesiastica», cit., p. 235).156 Cfr. A. Capecelatro, Vita della serva di Dio Paola Frassinetti fondatrice delle Suore di SantaDorotea, Roma-Tournay 1900, pp. 154-158.157 R. Cantù, L’Istituto di S. Barnaba, fondato in Brescia nel 182l, dal venerabile LodovicoPavoni, in AA.VV., Lodovico Pavoni, cit., p. 168: si tratta di un decreto del 31 marzo 1848del governo provvisorio di Brescia.158 Cfr. P. Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, Zürich 1968-69, 2 voll.; Id.,Don Bosco nella storia economica e sociale (1815-1870), Roma, 1980. Cfr. anche F. Motto,L’azione mediatrice di Don Bosco nella questione delle sedi vescovizi vacanti in Italia dal 1858alla morte di Pio IX (1878), in Braido (a cura di), Don Bosco nella Chiesa, cit., pp. 251-328.

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moderna scrivendo: “La serie degli avvenimenti, che io intraprendo araccontarvi, dicesi Storia Moderna, sia perché abbraccia i tempi a noi piùvicini, sia perché i fatti che ad essi riferisconsi, non hanno piùquell’aspetto feroce e brutale siccome quelli del Medio Evo. Qui è quasitutto progresso, tutto scienza ed incivilimento”159. Don Bosco avrebbeaccentuato, col tempo, questo atteggiamento ottimistico e, si potrebbedire, ‘progressista’, mirante cioè a inserirsi nel moto moderno diprogresso, giungendo così ad affermare nel 1879: “I Salesiani si sonogettati nel mezzo ad una società in movimento, in progresso: ed essidevono dire con vivaci parole: Fratelli, anche noi corriamo con voi”160.

Occorre osservare che questo piano della cultura civile rimase sempreben distinto da quelle espressioni politiche che ad esso pure in qualchemodo si rifacevano. Il clero gesuitizzante non si confondeva, pursimpatizzando, con i reazionari cattolici, delle società segrete (calderarie sanfedisti) prima e dei politici anti-liberali (o legittimisti) poi, così pureil clero guelfo non può essere ricondotto senza una evidente forzatura almovimento neo-guelfo e al giobertismo, verso il quale anzi – dopo il1848-49 – si verificò un allontanamento più o meno marcato. Alcontrario, fu Gioberti che seppe cogliere talune caratteristiche profondedella cultura civile del clero guelfo (attaccamento al papa, diffidenza o

159 G. Bosco, Storia d’Italia, [ed.1873-74], in Id., Opere e scritti editi ed inediti, a cura di A.Caviglia, Torino 1935, vol. III, p. 290.160 A. Belasio, Non abbiamo paura! Abbiamo il miracolo dell’apostolato cattolico di XVlll secoli ele sue sempre nuove e più belle speranze, Torino 1879, p. 59, cit. in P. Bairati, Cultura salesianae società industriale, in F. Traniello (a cura di), Don Bosco nella storia della cultura popolare,Torino 1987, p. 336. Considerando in generale l’opera delle nuove fondazioni religiose,Nicola Raponi ha affermato: “queste nuove fondazioni, pur accogliendo le riserve ed iseveri giudizi della Chiesa sulle «libertà moderne», pur rimanendo legate ad unaconcezione intransigente, potremmo dire «papale» o «clericale», hanno realizzato in viapratica, nelle molteplici forme di intervento e di impegno nella società, una specie dimediazione, di superamento del conflitto apparentemente insanabile fra mondomoderno e cristianesimo, una conciliazione alla base fra società religiosa e società civile,che hanno reso meno duro lo scontro e le contrapposizioni di vertice fra Stato e Chiesa;hanno insomma saputo adattarsi al processo di modernizzazione della vita politica edella società” (N. Raponi, Il dibattito politico-religioso intorno alla legge sui frati (1855) ecorrenti culturali nel mondo cattolico, in AA. VV., Verso l’Unità. 1849-1861, Atti del LVIICongresso di storia del Risorgimento italiano (Bari, 26-29 ottobre 1994), Roma 1996, p.175).

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ostilità verso i gesuiti) e trasformarle in mito politico, con evidentiestremizzazioni che dopo il ‘48 furono ancora più nette e palesi. Non sipuò parlare dunque di “dilaceramento degli spiriti” provocato nel clerodalle vicende politiche e dalla modernizzazione della cultura civile161:ciò fu forse il caso solo per pochi di essi, ma la maggioranza – purappassionandosi – non fu internamente combattuta e non mise mai inquestione, sia nel clero gesuitizzante sia nel clero guelfo, l’obbedienza alpapa e la comunione ecclesiale.

La differenza tra gesuitizzanti e guelfi non era di natura politica, madi cultura civile. Per i primi la dialettica fondamentale nella societàcivile italiana dell’Ottocento era tra un paese reale sostanzialmentecattolico e un paese legale che invece poteva non esserlo. In questadialettica bipolare, il problema era dato dal paese legale, dal suo essere onon essere interprete degli interessi cattolici; il popolo o le masse eranovisti come in opposizione diffidente e ostile al paese legale proprioperché quest’ultimo non faceva gli interessi della Chiesa162. Le formestoriche di questo ‘problema del paese legale’ si evolvevano e simodernizzavano: se nei primi anni della Restaurazione esso era indicatonegli “uomini di Stato” ostili, personalmente, alla Chiesa e alla religionecattolica163, già nel 1854 si consideravano i meccanismi stessi dello Stato

161 Cfr. Gambasin, Il clero diocesano, cit.162 Interessante, in questo senso, fu il dibattito al Senato subalpino – nella tornata del 22maggio 1855 – tra Cavour e Della Torre: Cavour si meravigliava che Della Torre,rappresentante dell’opinione ultraconservatrice, facesse appello al potere delle masse,che non erano e non potevano essere legalmente rappresentate. Della Torre avevaaffermato che l’opinione popolare era contraria alla legge di soppressione degli ordinireligiosi che era appunto allora in discussione (cfr. Atti del Parlamento Subalpino. Sessionedei 1853-54, vol. VIII, cit., p. 830).163 Significativo era il confronto, tracciato dal Ventura, con il periodo della Rivoluzionefrancese: “Allora popoli ingannati e sedotti da funeste dottrine e da maligne illusioni,colla speranza del meglio, perpetuo nemico del bene, sollevaronsi contro l’autorità, edosarono chieder da lei ciò che essa, non tanto pel proprio quanto per l’altrui pubblicointeresse, non poteva e non doveva per nessuna guisa concedere. Da questa opposizionelegittima nacque l’urto, la lotta, e la catastrofe si compì. Ora al contrario se mai accadràalcun rovescio esso muoverà da tutt’altra sorgente. I fabri veraci ne sarebbero certeanime false che si dicono uomini di Stato, e che ne sarebbero il flagello se giungesser maia comandar nello Stato. Costoro non so se per interesse o per effetto di persuasione, sivedrebbero ostinati a volere naturalizzare nella società l’indifferenza religiosa e la

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moderno: “È sentenza di certi politici – scriveva “La Civiltà Cattolica” –,grande stromento di despotismo essere in mano di un Governo quellamacchina complicatissima, che appellar sogliamo con barbara voce laburocrazia. E se una tale sentenza mirasse soltanto al primo istitutore dital meccanismo, potrebbe forse dirsi veridica e ragionevole, essendodifficil cosa che alcuno degli ordigni, onde si compone la macchina,possa sottrarsi all’occhio e alla direzione dell’artefice che la fabbricò. Maquando, mancato il primo fabbricatore, tutto il congegno cade in manoinesperta, allora la macchina complicata, mal conosciuta e nei suoiingegni e nelle sostanze di cui è composta, non solo non corrisponde conugual perfezione di obbedienza al motore novello, ma riesce a luitalvolta piuttosto di ostacolo che di aiuto. [...]. Sarà, sì certamente, saràanche in questi casi spietato strumento di despotismo la burocrazia masapete in favor di chi? In favore del primo furbo che salito al portafogliovoglia governare in nome e a dispetto del Principe; in favore del primosettario che propagando le sue influenze negli uffici sappia arreticarvibuon numero di scribi. [...]. Dal che apparisce, qual grave torto siabbiano certuni, che a mal volere dei governanti attribuiscono il fallireche pur fanno talvolta nella esecuzione dei più nobili e beneficiintendimenti”164.

Questa dialettica bipolare appariva probabilmente riduttiva esemplificatrice al clero guelfo. Pavoni, per esempio, tra l’immagine delfedele e quella del suddito, inseriva anche quella del cittadino165. Si

rivolta politica, tenterebbero tutte le vie per istrascinare ne’ loro assurdi sistemi i popoli,i quali illuminati dalle passate esperienze su’ propri veraci vantaggi, non vorrebbero enon dovrebbero sottomettervisi, e da questa opposizione legittima anch’essa, nascerebbel’urto e lo scompiglio” (G. Ventura, La società e la politica, in “Giornale ecclesiastico”, III(1825), pp. 68-69).164 La Chiesa nelle scuole dello Stato, in “La Civiltà Cattolica”, V (1854), s. II, 6, pp. 5-7.165 Il Regolamento del Pio Istituto del Pavoni, stampato nel 1831, rivolgendosi aglieducatori affermava: “Sia gloria per voi il sacrificare talento e fatiche, per ridonare allaChiesa, alla Patria, allo Stato docili figli, sudditi fedeli ed utili cittadini” (Congregazionedei Figli di Maria Immacolata, Raccolta ufficiale di documenti e Memorie d’archivio, Brescia1947, p. 43). E la Costituzione della Congregazione, pubblicata nel 1847, esortava a“procurare che i giovani ricoverati siano ben istruiti e sodamente educati nella Religionee nella civiltà onde riescano ottimi cristiani, buoni padri di famiglia, sudditi fedeli”(ibid., p. 64).

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precisava progressivamente uno schema tripolare che tra il paese reale eil paese legale collocava il paese morale. Nel dibattito del 1855 alParlamento subalpino, Gustavo di Cavour aveva affermato: “In certi casiil paese legale non è in tutto e per tutto identico al paese reale ed a ciòche può chiamarsi specialmente il paese morale”166. Vi era dunque unaterza dimensione che cominciava a essere avvertita come quella propriadella Chiesa e del clero. Tra il paese reale, diviso in classi sociali, e ilpaese legale del confronto politico, vi era un paese morale che potevasvolgere un ruolo di mediazione per il bene comune (prima ancora cheper gli interessi cattolici): l’unità morale poteva infatti affratellare leclassi sociali e fungere da sostegno ad una auspicata unità civile epolitica. Gioberti aveva, ancora una volta, intuito l’importanza di“intrecciare un nodo di simpatia e di concordia fra il ceto medio da uncanto, la plebe e il chiericato dall’altro”167. La sua visione si collocava inquesta prospettiva, anche se con la solita, eccessiva, strumentalizzazionedella religione a fini politici: “L’unità civile e politica – egli scriveva –non può aver luogo se non è preceduta, prodotta, avvalorata dallamorale; e l’unica congiunzione possibile di questa sorta fra tutte le classidei cittadini risiede nel culto, come quello che solo è in effetto e solo puòessere l’elemento a tutti comune”168.

In realtà lo sforzo del clero guelfo fu proprio quello di adoperarsi suquesta terza dimensione, sfuggendo alle troppo immediate riduzionipolitiche e, comunque, sulla scorta di una modernizzazione dellacultura civile nelle forme che si è detto, con una attenzione vivissimaagli ambienti più umili e sofferenti, con un impegno per l’integrazionesociale e spesso anche con una sensibilità nazionale. Così GiuseppeMontanelli, scrivendo le memorie sull’Italia dal 1814 al 1850, dopo avernotato che “il clero italiano si divideva in due parti”, osservava che“questo sbocciare d’un sacerdozio degli oppressi accanto al sacerdoziodegli oppressori, questo progresso senza scisma della chiesa italiana,erano fatti dei quali apprezzerà la portata, chi consideri che, come solasintesi popolare in Italia, dopo la rovina di tutti gli altri ordini sociali,

166 Atti del Parlamento Subalpino. Sessione 1853-1855 (V Legislatura), cit., vol. VI, p. 2596: sitrattava della tornata del 9 gennaio 1855.167 Gioberti, Prolegomeni, cit., p. 201.168 Ibid.

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era rimasta la chiesa, e dal prete prendevano norma le moltitudini, nellequali il solo nome d’Italia non risvegliava alcun ricordo di collettivagrandezza; ondeché a travasare nelle plebi il sentimento nazionaleoccorreva che momentaneamente almeno i preti se ne facesseromediatori”169.

4. Lo scontro sull’educazione

Tutti i livelli e gli aspetti finora considerati (modelli di laicizzazione,modernizzazione della cultura civile nel sistema politico e nel clero) siintrecciavano e interagivano col problema dell’educazione. Si delineavacosì una differenziazione significativa che assumeva talvolta il caratteredi scontro o dava vita a modelli educativi alternativi.

A metà circa del periodo che va dall’inízio della Restaurazione aglianni immediatamente post-unitari, si registrano rilevanti mutamenti:quelle che in un primo momento erano state le posizioni più aperte, maancora molto moderate, vengono successivamente assunte dalla partepiù conservatrice e reazionaria, a fronte di sviluppi più decisamenteinnovatori e progressivi. In altri termini possiamo distinguere due fasi:la prima giunge fino agli anni ‘30 (i quali vennero dunque a costituireun momento cantrale e decisivo di svolta); la seconda parte dagli anni‘40 e si sviluppa fino all’Unità, con evoluzioni interne che non mutanotuttavia gli indirizzi di fondo.

Nella prima fase a una posizione ostile all’educazione del popolo siopponeva una concezione di “educazione proporzionale”,particolarmente sensibile ai bisogni dei poveri. La cultura illuministicasettecentesca aveva sviluppato i temi dell’istruzíone popolare e dellascuola statale unica per tutti. Proprio la “pedagogia dei lumi” eral’obiettivo polemico contro cui si scagliavano, nel primo periodo dellaRestaurazione, gli esponenti delle correnti più reazionarie, con tremotivazioni di fondo.

Innanzi tutto, e prevalentemente nel Centro-Sud, si ritenevanol’istruzione e la cultura laica come di per sé corrompitrici della sanità

169 G. Montanelli, Memorie sull’Italia e specialmente sulla Toscana dal 1814 al 1850, Torino1853, vol. I, p. 80.

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morale del popolo, il quale dunque non aveva bisogno di istruzionealcuna oltre il tradizionale insegnamento della dottrina cattolica: “Ciinsegna la storia – scriveva il principe di Canosa – che i popoli di tutte leregioni e di tutte le età hanno rispettato sempre ciò che non conoscevanoe che si presentava loro involto nei misteri, e che al contrario si sonofatte beffe delle stravaganze chiaramente conosciute. Siccome la lucenon osservata a traverso dei colorati cristalli nuoce all’ottalmico, così alvolgo nuoce ancora la verità che gli viene senza involucri presentata”170.

Una seconda argomentazione polemica puntava sulladestabilizzazione sociale che una scuola per tutti doveva fatalmentegenerare. Scriveva Pietro Schedoni sulle “Memorie” di Modena, inpolemica retrospettiva con Filangieri: “Ispirerà a’ plebei orgoglio ilvivere con quelli che hanno per la sublime schiatta alto carattere;infonderà a’ nobili avvilimento il vivere con quelli che traggono dallarazza origine di abjette idee”171. E per “L’Amico d’Italia”: “l’uomvolgare, che non sa leggere, ha un compenso bastante nella CattedraParrocchiale, onde riceve istruzione ed educazione. Abbia mezza tintadi lettere e cattivi libri: gl’intende, si disgusta dell’educazione delParroco; e neppure è ritenuto in qualche ritegno dalle convenienzesociali, che pure imbrigliano l’uomo delle classi superiori”. Dunque pergli uomini delle “classi minuali” doveva bastare “tal sapere, che alleproprie bisogne dia facilità; non ingerisca fastidio del proprio stato”172.

Un terzo atteggiamento, prevalente nell’Italia settentrionale(Lombardo-Veneto e Piemonte), era quello che nell’ambito di unpredominio dell’educazione religiosa, accettava anche – senza tuttaviapreoccuparsene come problema in sé – qualche istruzione elementareper il popolo, purché non prevedesse l’insegnamento del latino e nonambisse cioè a istruzione superiore173, e comunque sempre sotto ilcontrollo della Chiesa. In questo senso andava il Regolamento degli studi,

170 A. Capece Minutolo dei Principi di Canosa, I piffari di montagna, ossia cennoestemporaneo di un cittadino imparziale sulla congiura del principe di Canosa e sopra iCarbonari, Dublino 1820 (Parigi 18326), p. 115.171 P. Schedoni, Sopra l’opera del cav. Gaetano Filangieri, cit., p. 90.172 In “L’Amico d’Italia”, III (1824), 5, p. 438.173 Era la posizione, per esempio, di G. Carlo Brignole-Sale (cfr. G.Griseri, L’istruzioneprimaria in Piemonte (1831-1856), Torino 1973, pp. 14-15).

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redatto dal p. Luigi Taparelli D’Azeglio, relativo all’istruzione primariain Piemonte ed emanato il 23 luglio 1822174. Nel Lombardo-Veneto poi,com’è noto, l’istruzione elementare era demandata ai parroci.

A fronte di queste correnti, tutte sostanzialmente ostili all’educazionepopolare, stavano le posizioni più aperte che formulavano il concetto dieducazione “proporzionale”, rifiutavano i rischi presunti didestabilizzazione in relazione a un’istruzione più diffusa, mostravanoattenzione e sensibilità per i bisogni dei ceti più poveri. L’idea di unprincipio proporzionale nell’istruzione era già emerso nel 1809 in unrapporto indirizzato a Murat: “Non vi è occupazione utile se di classe inclasse non vi sieno i gradi d’istruzione, che additino la buona sceltadella fatica. Gli Agricoltori, i Negozianti, i Possidenti, i Militari, i Nobili,debbono essere istruiti, ma ciascuno in proporzione alla propriaclasse”175. Anni dopo, l’abate lombardo Giuseppe Bagutti osservava: «Aciascuna di queste tre categorie [agricoltori, artigiani e nobilità] vuoleessere compartita e generalizzata l’istruzione: ma vuole esseregiudiziosamente distribuita, di modo che gli individui cherispettivamente appartengono ad una di esse, abbiano quella porzione emisura che loro conviene. Nulla più, nulla meno di ciò che è necessarioed utile a ciascuno per abilitarsi ad adempiere ai doveri del propriostato. Distribuita con questa proporzione, l’istruzione è la causa deimaggiori beni agli individui ed alla società di cui fanno parte”176.

Si trattava dunque di un’idea molto moderata, condivisa anche dauomini come Carlo Cadorna177: non usciva in realtà dai limiti di unconservatorismo sociale illuminato. Ma se convergeva con le posizionipiù arretrare e reazionarie nel porre barriere verso l’alto (“nulla di più”)per prevenire uscite generalizzate “dal proprio stato”, tuttavia se nedistaccava nettamente nel rivendicare la necessità (“nulla di meno”), lapositività e l’utilità di una educazione nelle dovute proporzioni, perquanto minute potessero essere. Non era una differenza di poco conto.

174 Ibid., pp. 16-17.175 Cit. in G. Vigo, Istruzione e sviluppo economico in Italia nel secolo XIX, Torino 1971, p. 92.176 G. Bagutti, Sull’istruzione elementare alle diverse condizioni di persone, Milano s.d., p. 18.177 C. Cadorna, Della educazione ed istruzione per le classi povere delle civili società in genere,in “Repertorio d’agricoltura e di scienze economiche ed industriali del medico RoccoRagazzoni”, VII (1838), pp. 64-74, 150-160, 221-231, 300-320.

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Ancora nel 1853 su un giornale romano si scriveva: “se si diffondesse lacoltura a minute proporzioni, avverrebbe sempre che il popoloperderebbe la sua primitiva ingenuità e semplicità, si allontanerebbedalle tradizioni, non amerebbe più come prima la pressionedell’autorità; l’insegnare a leggere e a scrivere al popolo è cosa di pocautilità, e che può portare funesti effetti, la scuola del popolo deve esserprima di tutto scuola di religione, l’istruttore deve prima di tutto essereun apostolo del cattolicesimo”178.

Un altro aspetto significativo di questa posizione più aperta era lacontestazione del carattere di destabilizzazione sociale attribuito daireazionari, come si è visto, al diffondersi dell’educazione. Nel 1831Ilarione Petitti di Roreto scriveva: “Ma, se vuolsi però ragionare conanimo scevro da prevenzioni vedremo che i soli popoli trascorsi ineccessi furono quelli più ignoranti con maggiore facilità aggirati,avvegnacché gli stessi lavori del signor Dupin sullo stato dell’istruzionein Francia dimostrano ben maggiore colà il numero anche relativo degliignoranti, se paragonato agli instruiti, ed esistere il medesimo dipreferenza nelle province in cui più gravi e terribili seguirono itrambusti. Così nella nostra Italia le popolazioni meno colte furono lepiù facili a concitare e a incredulire, potendosi con varia proporzioneindicare Napoli, li Stati papali, i veneziani di terraferma, e alcunicontadini piemontesi e lombardi, quando i toscani più inciviliti erano,tranne gli aretini assai rozzi, tranquillissimi. Negli Stati. austriaci, in cuil’istruzione del popolo è generale, non si ebbe il minimo trambusto”179.Il ragionamento era dunque ribaltato: a essere destabilizzante eral’ignoranza del popolo.

A questo approccio si ricollegava, almeno in parte, l’attenzione aibisogni e alle difficoltà dei ceti più poveri e umili. L’idea preventiva, cheaveva radici illuministiche dal punto di vista dell’ordine pubblico(meglio prevenire i delitti che punirli180), si allargava al complessivo

178 Il vero amico del popolo, cit. in E. Formiggini Santamaria, L’istruzione popolare nello StatoPontificio, Bologna-Modena 1909, p. 115.179 C. I. Petitti di Roreto, Dell’attuale condizione governativa degli Stati di S.M. Ragionamentoagli ultimi di marzo 1831, in Opere scelte, a cura di G. M. Bravo, Torino 1969, vol. I, p. 135.180 Si consideri ovviamente Dei delitti e delle pene di Beccaria. Più in generale cfr. P.Braido, L’esperienza pedagogica preventiva nel sec. XIX. Don Bosco, in P. Braido (a cura di),

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orizzonte sociale. Con Morichini, con Petitti di Roreto, con la traduzionedell’opera di De Gérando181 si sviluppava la concezione che perprevenire la miseria, la mendicità, il malessere sociale si dovesse metterenel popolo lo spirito di previdenza e favorire l’istruzione elementare.L’educazione come prevenzione di mali sociali (azione preventiva dellasocietà “contro” i poveri) diventava però anche educazione comeprevenzione di mali individuali (azione preventiva del singolo contro lapovertà). L’impegno caritativo profuso in questo periodo perl’educazione dei ceti popolari si configurava dunque come carità ededucazione preventiva nei confronti dei figli dei poveri e come carità“soccorrevole” nei confronti delle famiglie. In questo impegno sidistinsero il clero182 e alcune congregazioni più antiche (Scolopi) o anchediffusesi in Italia nel secolo precedente, soprattutto dalla Francia(Fratelli delle Scuole Cristiane).

Ma è questo il campo di impegno di molte delle nuove congregazionireligiose “operative” fondate nell’Ottocento che, tra l’altro, si rivolseroin particolare a un settore totalmente trascurato: l’istruzione popolarefemminile. Si pensi, per esempio, che nel 1825 a Torino nessunafemmina frequentava le scuole primarie pubbliche183. Se l’educazionecomplessiva delle femmine, anche di “civile condizione”, erapercentualmente inferiore a quella dei maschi184, si deveragionevolmente supporre che la mancanza di istruzione fossepressoché totale nelle femmine dei ceti più poveri. Particolarmentesignificativa in questo ambito fu l’opera di Maddalena di Canossa, cheperaltro – come ella stessa notava – era ritenuta “nociva al benepubblico, perché prendendo noi le povere alle nostre scuole, lecivilizziamo, e per conseguenza non faranno più le lavandaie, non

Esperienze di pedagogia cristiana nella storia, vol. II: Secc. XVII-XIX, Roma 1981, pp. 271-402.181 C. L. Morichini, Degl’lstituti di pubblica carità e d’istruzione primaria in Roma. Saggiostorico e statistico, Roma 1835; C. I. Petitti di Roreto, Saggio sul buon governo della mendicità,degli istituti di beneficenza e delle carceri, Torino 1837, vol. I; G. De Gérando, Della pubblicabeneficenza, Firenze 1842-46; Id., Il visitatore del povero, Milano 1834; Id., Il democraticocristiano, Alessandria 1849.182 Cfr. Griseri, L’istruzione primaria, cit., pp. 18-19.183 Ibid., pp. 21 ss.184 Cfr. Vigo, Istruzione e sviluppo economico, cit., p. 10.

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iscoperanno più le strade, insomma non faranno più queste cose cosìordinarie”185.

Con gli anni ‘40 si aveva – come si è detto – un certo cambiamento. Isostenitori delle posizioni più retrive sembravano accettare il principiodell’educazione “proporzionale” e, per certi aspetti, anche l’ideapreventiva (ma in termini difensivi, “contro” i poveri) non tantodell’educazione in sé quanto dell’educazione come aspetto di quellacarità soccorrevole mirante ad alleviare le condizioni delle famigliepovere. Complessivamente, comunque, si confermava una propensioneverso l’immobilismo sociale186: educazione proporzionale comeeducazione del proprio stato sociale. E ovviamente il predominiodoveva sempre essere dato all’educazione religiosa (intesa comedottrina più morale che “dogmatica”, accompagnata spessoprevalentemente da una iniziazione alla pratica sacramentale e alla vitadi pietà). Come emblematica ed esemplare in questa prospettiva eravista da molti (in senso positivo da Solaro della Margarita e negativo daGioberti che la appellava “gesuitessa”) la marchesa Giulia Falletti diBarolo con la sua opera multiforme. Si trattava di una forzatura, come

185 Lettera del 12 gennaio 1816 in M.G. di Canossa, Epistolario, Isola del Liri 1976, vol. I.186 Nel 1855 “La Civiltà Cattolica” richiamava l’esperienza delle Cappelle serotine di S.Alfonso a Napoli e aggiungeva: “Alle Cappelle ed agli Oratori somigliano le Scuotenotturne, come sono in Roma ed in alcune altre città d’Italia, per le quali scuolenondimeno si vorrebbero avere sott’occhio dei riguardi speciali. L’una e l’altraistituzione pigliano il tempo della sera per lasciare ai fanciulli le ore diurne adapprendere da fattorini i varii mestieri nelle botteghe. La napolitana si restringe al soloinsegnamento del catechismo ed alle pratiche religiose; la romana a quello ed a questeaggiunge alcun’altra istruzione che le merita più il nome di scuola che di cappella. Noivediamo insigni vantaggi nell’una e nell’altra, e se la seconda è esposta a qualchepericolo di deviazione ci pare che un’accorta direzione può cessarlo senza che perquesto si debba riputare meno profíttevole. Ed i pericoli sono che alla istruzionereligiosa non si diano le prime e le precipue parti [...]. Ma, come fu detto, questimedesimi pericoli non fanno che la istituzione non sia ottima e salutare, aggiungendoalla medicina della verità cattolica che si vuol fare inghiottire, quel mele di temporalivantaggi senza il cui allettamento molti e parenti e giovani disdegnerebbero la sanità cheloro si presenta dallo zelante cattolico. [...] Né lasceremo di avvertire che somigliantiscuole notturne danno ai giovanetti popolani l’agio di apprendere qualche cosa senzaritirarli dalla condizione ove collocolli la Provvidenza” (Le scuole pel popolo, in “LaCiviltà Cattolica”, VI (1855), s. II, 9, pp. 631-632).

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vedremo meglio nel prossimo capitolo, tuttavia la marchesa, nel 1846,chiedendo l’approvazione pontificia del suo istituto, così presentava lasua idea complessiva e il suo progetto educativo: “1. Procacciare allaclasse indigente del popolo l’educazione delle fanciulle tanto dellaprivata infanzia che adulte nei villaggi e nei paesi poveri. 2.L’educandato o pensionato delle fanciulle della classe media, alle qualinon si dovranno mai insegnare quelle scienze ed arti proprie diun’educazione più elevata”187.

Ma era “La Civiltà Cattolica” che meglio e più compiutamenteesprimeva gli indirizzi, parzialmente mutati, dei settori piùconservatori. Nel 1855, parlando dell’istruzione del popolo (dove perpopolo intendeva gli operai e i salariati, non gli artigiani), scriveva: “Mavede ognuno che, atteso lo scarso tempo che ha fino dai primi anniquesta classe operaia, atteso il molto che dee darsene alla istruzionereligiosa, appena le si potrebbe insegnare altro, che il leggere, lo scriveree un po’ di conti; cioè le quattro operazioni aritmetiche, estese, se sivoglia, ai fratti ed ai decimali. Ci perdoneranno i severi mantenitori delpassato se in questo ci atteniamo piuttosto coi moderni, parendoci che illeggere, lo scrivere, il computare con cifre sia cosa innocente in sé, per séanzi buona, come è buona ogni conoscenza, e per giunta può esser utile,anche ad un popolano, negli usi quotidiani della vita”188. L’istruzionetuttavia non era un bene assoluto (come l’onestà, la virtù, la giustizia)ma un mezzo che doveva perciò “essere temperato e ammisurato allaproporzione che ha col fine nei diversi soggetti e nelle diversecircostanze”189. Orbene se il fine ultimo erano, ovviamente, la salvezzadell’anima e la vita eterna, il fine prossimo era la vita nella propriacondizione sociale. “Se la religione – scriveva la rivista dei gesuiti – colfarci chiaro l’ultimo fine dell’uomo ne scuopre la natura e porge conquesto la prima norma a cui dee formarsi per educazione, la condizioneestrinseca del convitto civile ci manifesta il fine prossimo di ciascunindividuo e una norma seconda che limita e definisce viepiù i doveri

187 Cit. in G. Rocca, Il nuovo modello di impegno religioso e sociale delle congregazioni religiosedell’Ottocento in area lombarda, in AA.VV., L’opera di don Luigi Guanella, cit., p. 54.188 Le scuole pel popolo, cit., p. 628.189 Le scuole letterarie per tutti, in “La Civiltà Cattolica”, VI (1855), s. II, 9, p. 398.

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dell’istitutore”190. E proprio in virtù di questa “norma seconda”, i gesuiti“ripugnano ad una forma comune ed universale di educazione per tuttigli ordini dei cittadini”191, un’educazione quest’ultima che si era volutaper “una moltitudine di fanciulli, cui e per sé e per altri sarebbe statoassai meglio lasciare ignoranti, piuttosto che metterli per una strada chesicuramente non era la loro”192.

Un’educazione proporzionale alla condizione sociale era dunque,secondo i gesuiti, la via maestra, sia perché “coll’adattare il genere dieducazione alla privata condizione degli allievi, si fa risparmio di tempoe di sforzi”193 sia perché educare ai doveri connessi al proprio stato e allapropria condizione sociale avrebbe consentito di non concentrarsi piùsulla repressione sociale, sul “sorvegliare e punire”, abituandol’individuo a un’auto-repressione preventiva. “La società – concludeva“La Civiltà Cattolica” – sarà contenta che l’uom popolano compia i suoidoveri esteriori, ed a condurvelo renitente o a punirlo ricalcitrante ha igendarmi, le prigioni, le galere ed occorrendo ancora il patibolo. Mavede ognuno che questo non è mezzo possibile ad applicarsi a tutti”194.Un mezzo migliore si ha quando tale individuo “se ne sente imposto unlegame nella coscienza, e per libera determinazione di volontà retta vuolcompierlo e lo compie”195. Ciò si può ottenere dandogli una “istruzioneintorno ai suoi doveri, che egli ne vegga coll’intelletto la ragionevolezza,ne sperimenti nella coscienza un dettame molto chiaro, e si determinicolla libera volontà a conformarvisi”196.

Nel campo opposto, quello degli ambienti più aperti e innovatori, sipassava negli stessi anni da una concezione di educazione“proporzionale” a una concezione di educazione “progressiva”: sia nelsenso di un allargamento progressivo del numero degli alfabetizzati(come auspicavano, ripetutamente, i congressi degli scienziati italiani), edunque di un più deciso impegno per l’educazione popolare, sia nel

190 Dell’educazione teorica, in “La Civiltà Cattolica”, V (1854), s. II, 6, p. 258.191 Ibid., p. 259.192 Le scuole letterarie per tutti, cit., p. 397.193 Dell’educazione teorica, cit., p. 259.194 Il catechismo scuola del popolo, in “La Civiltà Cattolica”, VI (1855), s. II, 10, p. 135.195 Ibid., p. 136.196 Ibid., p. 137.

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senso di una progressività d’età, dagli asili infantili (per i quali com’ènoto si aveva un grande fervore) all’istruzione superiore (alla qualealcuni, come don Mazza, cercavano di far accedere anche giovaniprovenienti dalle classi piú basse). Sono tutte questioni che trovavanoapprofondimento in riviste come “L’Educatore Primario” (dal 1845 al1846, poi, dal 1847 al 1848, “L’Educatore”) al quale collaboravano, tra glialtri, Aporti, Rosmini, Rayneri, Troya, Tommaseo. In quel periodo – enon senza qualche contatto proprio con “L’Educatore Primario” –prendeva avvio l’opera educatrice di don Bosco197.

Un secondo aspetto innovativo riguarda il concetto di prevenzione.Nel 1840 nella sua relazione a Carlo Alberto, Giacomo Giovannettiproponeva di passare dalla “carità soccorrevole” alla “carità abilitante”,attraverso l’istruzione del popolo198. E se il Valerio, da posizioni piùradicali, stigmatizzava il concetto di prevenzione fondato sulla paura esull’egoismo sociale199, alcune esperienze e realizzazioni concrete, adopera di ecclesiastici o di religiosi, si collocavano di fatto in questanuova prospettiva. Molto significativa in tal senso è la “Società di Caritàa pro giovani poveri ed abbandonati di Torino”, fondata nel 1850 dadon Giovanni Cocchi, dal teologo Roberto Murialdo, dal teologoGiacinto Tasca e dal teologo Antonio Bosio. Nella direzione superioredella Società furono eletti, la prima volta, Annibale di Saluzzo, Gustavodi Cavour, l’abate Amedeo Peyron e Felice Parato. Presidente fuAnnibale di Saluzzo, al quale successe prima il Peyron e poi il Rayneri.La Società fu accolta freddamente dall’arcivescovo di Torino, mons.Luigi Fransoni, che propendeva nettamente per le opinioni piùconservatrici200, ma essa promosse un collegio di Artigianelli dagliindirizzi significativi. La personalità più innovatrice era quella di donGiovanni Cocchi (che già aveva manifestato un’impostazionepedagogica degli oratori diversa da quella di don Bosco), il quale

197 Cfr. G. Chiosso, L’oratorio di Don Bosco e il rinnovamento educativo nel Piemontecarloalbertino, in Braido (a cura di), Don Bosco nella Chiesa, cit., pp. 83-116.198 Cfr. N. Rodolico, Carlo Alberto negli anni 1843-1849, Firenze 1943, pp. 182-185.199 Cfr. “Letture Popolari”, V (1841), 2 (13 marzo).200 Cfr. A. Marengo, Contributi per uno studio su Leonardo Murialdo educatore, Roma 1964,pp. 11-12.

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propose, senza peraltro essere compreso, la trasformazione dell’opera inuna vera e propria scuola professionale201.

Un ultimo, importante aspetto innovativo era quello piùsquisitamente pedagogico e cioè l’idea di educare e formare personalitàlibere. Gioberti affermava che “il Cristianesimo, non che sterpare ocomprimere le forze naturali, le educa, le migliora, le sublima,indirizzandole a uno scopo più eccellente. E siccome le varie potenzedell’uomo si riuniscono e pigliano essere di concretezza nel geniodell’individuo, le influenze cristiane aggrandiscono l’individualità, invece di scemarla, e l’abilitano a superar sé medesima nei miracolidell’ingegno e della vita estrinseca”202. Dunque per una autenticaeducazione del giovane “bisogna avvalorare la sua volontà, abituarlo aconfidare prima in Dio e poi in sé medesimo, a conoscere ed apprezzareconvenevolmente le proprie forze, ad antiporre il proprio parereragionevole ai capricci della moltitudine, a essere inflessibile nellerisoluzioni prese con matura considerazione, e sovratutto a non degnarel’arbitrio umano di quell’ossequio e di quella sudditanza che a Diosoltanto e alle sue leggi si debbono”203.

Ciò implicava anche attenzione ai metodi didattici nuovi e piùmoderni. In questo senso è significativo quello che Biraghi suggerivaalle sue Marcelline: “Siccome il fine di questo istituto è non solo lasantificazione vostra, ma anche il bene dei prossimo e soprattuttol’educazione della gioventù, perciò oltre le virtù religiose, doveteprocurarvi anche quelle virtù civili e sociali, che a ben educare sononecessarie. E in primo luogo vi è necessario l’avere voi buona e sodaistruzione”204. E concludeva: “Il mondo esige scienza, e voi, verginiprudenti, servitevi della scienza per vincere il mondo”205. In una sorta dibilancio, degli anni ‘60, Biraghi poteva scrivere: “Le suore Marcellinepresero a tenere scuole e convitti, unendo il meglio de’ metodi e dellescienze moderne sì che sono tutte maestre patentate, e la cultura cristiana

201 Ibid., pp. 17-18.202 Gioberti, Prolegomeni, cit., p. 141.203 Ibid., p. 150.204 Regole delle suore Orsoline di santa Marcellina nella diocesi milanese approvate da suaeccellenza l’arcivescovo di Milano conte Bartolomeo Carlo Romilli, Milano 1853, p. 46.205 Ibid., p. 47.

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secondo i principio e le pratiche cattoliche”206. E in una lettera del 1866aggiungeva: “È vero che il nostro istituto non è lodato dai fautori deisistemi antichi, né dai giornali religiosi troppo coloriti, ma come si fa ainostri tempi a conservare le forme antiche? L’essenziale alla fine è diseguire Gesù Cristo, e di essere in buoni rapporti col S. Padre capo dellachiesa cattolica e col vescovo della diocesi e di rispettare le leggi dellostato, e far il bene”207.

Questa innovazione pedagogica e l’accento sulla formazione dipersonalità libere facevano nascere il mito negativo dell’educazionegesuitica. Gino Capponi, Rosmini, lo stesso Camillo Benso di Cavour208

si erano trovati in posizioni critiche rispetto l’educazione impartita daigesuiti. Ma era soprattutto Gioberti che organava tutti i diversi spunti inun anti-modello. Egli anzitutto criticava l’iter formativo stesso delgesuita nella Compagnia, perché – a suo avviso – tendeva ad annullare elivellare le personalità individuali per inculcare l’ubbidienza cieca209. Daquesto passava poi all’opera educatrice gesuitica: “L’educazioneclaustrale dei Gesuiti è l’idea esemplare di quella che ne ricevonoproporzionatamente i fanciulli e gli adolescenti commessi alla lordisciplina, e in un certo modo tutti coloro che gli eleggono a maestri dispirito e a direttori delle proprie coscienze. [...]. Detestabile e funesta inprimo luogo è la loro usanza di scemar negli alunni gli affetti più dolci,legittimi e sacri; quali sono quelli che legano l’uomo ai concittadini, agliamici, ai congiunti, ai genitori, alla patria. [...]. Non meno abominevole eperversa, se non più, è la consuetudine dominante non solo nelladisciplina interna, ma eziandio nella esteriore e in tutti i rami dellapedagogia gesuitica, di obbligare gli allievi alla delazione secreta deglialtrui falli, mutando in dovere e recando a virtù un’azione vile in sémedesima, e atta a spegnere in que’ novelli animi l’ingenuità, laschiettezza, il candore, che sono le più care e preziose doti della etàtenera, avvezzandoli alle simulazioni, alle infinte, alle trame, allemacchinazioni, alle frodi, e rendendoli incapaci di gustare i sensi

206 Autografo di Biraghi cit. in Ferragatta, Monsignor Luigi Biraghi, cit., p. 161.207 Ibid., p. 185.208 Cfr. Traniello, Società religiosa, cit., p. 138; Ferrari, La politica scolastica del Cavour, cit.,pp. 64-65 e 67.209 Gioberti, Prolegomeni, cit., pp. 143-145.

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dell’amicizia, che è uno dei conforti più nobili e più soavi dell’animaumana”210. Le critiche di Gioberti si concentravano poi sull’educazionereligiosa impartita dai Gesuiti, giudicata prolissa, fastidiosa esuperficiale e soprattutto tale da non reggere all’urto con la miscredenzamoderna211.

A questo modello negativo, Gioberti opponeva un contro-modellopositivo che si fondava sul principio preventivo e cioè non sullaeducazione come prevenzione ma sulla prevenzione nell’educazione,non come metodo ma come fine: “La sola disciplina savia e profittevole– scriveva – è quella che educa a grande studio e coltiva tutte le facoltàdell’uomo, valendosi del bene per risecare il male, e medicando lanatura, secondo il dettato e l’uso ippocratico, colla natura medesima. Esiccome i pericoli del mondo e gli abusi dell’incivilimento sono molti,gravi, e oppongono altrettanti ostacoli alla durevolezza degli abitisalutari impressi dalla disciplina, l’opera di questa dee mirareprincipalmente a premunire i giovani contro tali rischi; e il migliorpreservativo consiste nell’acuire e fortificare le facoltà naturalidell’animo; cioè in prima la ragione e l’arbitrio, e poi subordinatamentea queste due facoltà prìncipi l’affetto e l’immaginativa”212. È interessantenotare come Gioberti calasse quest’ideale e lo vedesse realizzato inistituzioni esistenti: “altri Ordini religiosi e molti instituti laicalipareggiano per lo meno la Compagnia e sovente la superano”213. Egliaveva in mente gli Scolopi e, soprattutto, i Barnabiti214.

Molto contribuiva a rafforzare e alimentare il mito alternativo deiBarnabiti: il favore di quei settori del potere ecclesiastico o civile chediffidavano dei Gesuiti; i giudizi elogiativi che, nel secolo precedente,aveva dato Pietro Verri; il prestigio ancora vivissimo, specialmente inPiemonte, dell’opera filosofica (alternativa alla scolastica gesuitica) epedagogica (l’Anti-Emilio) del barnabita, card. Gerdil; nonché episodianche minori come, nel 1847, la soppressione in Piemonte del giornaledel Valerio “Letture di Famiglia”, perché aveva pubblicato una lettera in

210 Ibid., pp. 146-147.211 Ibid., pp. 148-149.212 Ibid., p. 149.213 Ibid., p. 182.214 Ibid., p. 146.

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cui venivano lodati i vercellesi per essere riusciti a ridare vita a uncollegio tenuto dai Barnabiti e avere così impedito che fosse assunto daiGesuiti215.

5. Dalle polemiche ai diversi modelli educativi

Queste due così profondamente diverse prospettive pedagogichecattoliche, questi due modi di concepire il problema educativo –l’indirizzo più conservatore e l’indirizzo più aperto – non sisvilupparono pacificamente e parallelamente, ignorandosi a vicenda.Più volte, al contrario, vi furono occasioni per veri e propri scontri. Sononote le vicende relative alle scuole di mutuo insegnamento, alle scuoledi metodo e soprattutto agli asili e in particolare agli asili aportiani: tutteiniziative ed esperienze avversate duramente dall’indirizzoconservatore, con qualche efficacia pratica ma con notevole debolezzasul piano teorico. Si ebbero pure significativi contrasti personali, comequello tra mons. Fransoni, arcivescovo di Torino, e mons. DionigiAndrea Pasio, vescovo di Alessandria, nominato presidente-capo delMagistrato della Riforma del Regno di Sardegna216.

Se la critica conservatrice e reazionaria era irrimediabilmente battutasul piano delle idee, dei profili teorici, della modernizzazione culturale,appariva lucida e particolarmente efficace quando segnalava ladebolezza delle realizzazioni concrete degli indirizzi innovatori. Nel1855 – in coincidenza dunque con i dibattiti al Parlamento subalpinosulla legge di soppressione dei religiosi “inutili” – “La Civiltà Cattolica”pubblicava una serie di articoli di valutazione sullo statodell’educazione in Italia e di critica delle correnti novatrici.

Si partiva dalla constatazione che nell’Italia moderna il sapere erascaduto, pur nel moltiplicarsi dei mezzi per imparare e si ascrivevaquesta apparente contraddizione non solo alle agitazioni politiche cheavevano travagliato la penisola, ma soprattutto all’”insegnamentosgagliardito d’ogni vigore, sparpagliatosi in troppi oggetti ed intorno a

215 Cfr. “Letture di Famiglia”, VI (1847), 20 (15 maggio).216 Cfr. Griseri, L’istruzione piimaria, cit., pp. 31-32 e 56-59; M. F. Mellano, Il caso Fransoni ela politica ecclesiastica piemontese (1848-1850), Roma 1964; Traniello, Cattolicesimoconciliatorista, cit., p. 38.

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troppi soggetti, incerto, confuso, titubante ad ogni passo nella scelta enell’uso dei metodi”217. Il fatto che mai come in quel momento si fossetanto parlato, filosofato, scritto attorno all’istruzione, testimoniavaindirettamente appunto lo scadimento dell’insegnamento. La ragione ditale decadenza era, secondo i gesuiti, “lo spirito eterodosso, o diciammeglio il principio fondamentale del protestantesimo, che, non accettatoesplicitamente dalla Italia, vi si è nondimeno traforato in cento guise, edè, senza per avventura che i più se ne avveggano, l’anima e la vita dellasocietà ammodernata”218. Questo spirito eterodosso era poi vistonell’affermazione dell’assoluta indipendenza dell’individuo, neldisprezzo degli antichi, nell’ugualitarismo estremo di chi voleva lascuola per tutti. Anzi “la istruzione moderna, cioè quale la vuole lasocietà ammodernata” si poteva compendiare nella massima: “Insegnatea tutti tutto, e tutto nuovo e tutto con nuovi metodi”219. Da qui lamoltiplicazione delle scuole e l’idea stessa che il progresso el’incivilimento di una nazione si potessero misurare dalle statistiche sulnumero delle scuole e dei frequentanti per abitanti.

Ma, osservava “La Civiltà Cattolica”, “se era facile moltiplicare lescuole o popolarle di putti a miriadi raccolti dalle città grandi e piccole eparte ancora dalle campagne, non fu altrettanto facile il sostituire deinuovi studii agli antichi screditati, l’impiantar nuovi metodi invecedegli usati in antico e gridati falsi, inutili e pregiudizievoli”220. Non chemancassero nuovi studi e nuovi metodi: ma, appunto, “Qui ci cascal’asino. Proposte, studii, discussioni, libri, memorie, dissertazioni,progetti sopra progetti, metodi sopra metodi; e frattanto? e frattanto dauna parte si seguita sul vecchio tutto screditato, mezzo condannato oper pura necessità di non potere o sapere fare altrimenti da ciò che sifaceva: dall’altra parte si aspetta con ansiosa sollecitudinel’organizzazione; e già sapete che in quasi tutti i paesi di Europa si stameditando e discutendo qualche nuovo piano di studii, come se appuntoieri od oggi fosse nato il bisogno e l’uso dell’insegnamento. Pessima

217 Dell’insegnamento siccome parte della pedagogia, in “La Civiltà Cattolica”, VI (1855), s. II,9, p. 22.218 Ibid., p. 25.219 Ibid., pp. 26-27.220 Ibid., p. 30.

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delle condizioni! Siccome quella che se non ha assolutamente rinunziatoal passato, ne ha perduto quella stima e quella fiducia che sonoindispensabili per usufruttuarlo”221.

L’allargamento quantitativo e “sociale” della frequenza scolasticaaveva prodotto, secondo i gesuiti, un inevitabile abbassamento dellivello e della qualità dell’insegnamento e dei libri scolastici, nonchél’aggiunta di materie futili. Ma il fenomeno socialmente più rilevanteera quello della dispersione scolastica, degli “arrenati” diceva “LaCiviltà Cattolica”, di cui innanzi tutto si sottolineava la portata: “nellescuole stipendiate il numero dei cosiffatti soverchia in Italia la metà,nelle gratuite si accosta ai due terzi del tutto; ed assicuratevi che citeniamo piuttosto al di qua che al di là del vero [...] ché quanto alle cittàminori e menome, ai paeselli, ai villaggi dove pure si trovano quellescuole, il numero degli arrenati per via dev’essere comparativamentemolto maggiore e per poco non agguagliare il tutto”222.

Questo fenomeno in sé non sarebbe stato grave, secondo i gesuiti, edanzi avrebbe evitato una più preoccupante disoccupazioneintellettuale223. Se ci fosse stato un reinserimento sociale di questi“arrenati” nella condizione civile di partenza, il danno sarebbe statosolo quello di una “superbiola civile”224. In realtà, però, “il supremodanno per questi giovani male arrivati e la verissima piaga socialedimora in questo, che essi per la più parte, giunti a strapazzare comeDio vel dica un po’ di Cornelio e di Fedro ed a scrivere un volgaremediocremente scorretto, o non hanno mezzi da tirarsi innanzi peilunghi e severi studii delle professioni liberali, o non hanno voglia, eforse neppure la possibilità, atteso le cangiate abitudini, di tornare allabottega, all’officina, all’aratro ed alla vanga: insomma all’umilecondizione di famiglia. A che? a cui volgersi intanto? Quinci quellospostamento di condizioni, quel rimescolamento di classi, quelformicolio di pretensioni ed ambizioni che nei mille restano corte edimpotenti, ma nei pochi, in cui trovano ardenti e distemperate nature, si

221 Ibid., p. 32.222 Le scuole letterarie per tutti, cit., p. 402.223 Ibid.224 Ibid., p. 406.

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fanno ruinose, soprattutto quando capitanando le prime, adduconosopra i popoli il turbine spaventoso delle rivoluzioni”225.

“La Civiltà Cattolica” riteneva infine falsa la relazione traanalfabetismo e delitti226: entrambi i fenomeni dipendevano dallapovertà227. Più giusta appariva la relazione tra scarso catechismo edelitti228. E qui allora si inseriva il tema dell’istruzione per il popolo (cioèper gli operai e per i braccianti, non per gli artigiani, le maestranze, gliimpiegati anche di infimo rango). L’istruzione per il popolo dovevariguardare i mestieri e i doveri. Per insegnare il mestiere bastaval’apprendistato e non ci voleva una scuola229: le cosiddette scuoleprofessionali riguardavano le maestranze e non gli operai230 e, d’altraparte, il vantaggio che ricavava chi frequentava le scuole di pochiartigianelli era differenziale, relativo cioè alla massa ignorante, maquesto vantaggio sarebbe cessato se tale istruzione fosse statauniversale231. Per insegnare i doveri bastava il catechismo, che era lavera cultura popolare232: meglio, “pel popolo o non vi è coltura, o essadimora nel catechismo bene imparato e capito dalla fanciullezza”233. Sedunque vi era poca cultura popolare nell’Italia moderna era perché sifaceva poco catechismo234. La proposta di “La Civiltà Cattolica” eraallora quella di restaurare una vera educazione catechistica e cioè:“trovar modo che in una città, in una Diocesi, in una Parrocchia, in unVillaggio, tutti, ma tutti davvero, i fanciulli dai sette ai tredici anni,esempigrazia, abbiano una istruzione catechetica costante, ordinata,graduata per guisa che si assicuri a ciascuno una cognizione esatta e

225 Ibid. Cfr. anche pp. 408-409.226 Per la discussione generale sul tema cfr. C. M. Cipolla, Istruzione e sviluppo, Torino1971; R. Houston, Alfabetismo e società in Occidente: 1500-1850, in A. Bartoli Langeli, X.Toscani (a cura di), Istruzione, alfabetismo, scrittura. Saggi di storia dell’alfabetizzazione inItalia (sec. XV-XIX), Milano 1991, pp. 13-60.227 Le scuole pel popolo, cit., pp. 629-630.228 Ibid., p. 630.229 Ibid., pp. 621-622.230 Ibid.231 Il Catechismo scuola del popolo, cit., pp. 133-135.232 Le scuole pel popolo, cit., pp. 624-625.233 Ibid., p. 627.234 Il Catecbismo scuola del popolo, cit., p. 399.

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compiuta in proporzione, s’intende, alla età ed alla condizione deidiscenti”235.

Non è tuttavia soltanto nelle polemiche e nei contrasti che ledifferenze tra le due prospettive educative emergono con chiarezza. Ilconfronto tra alcuni modelli educativi realizzati da congregazionireligiose può ancor meglio delineare i percorsi alternativi, soprattutto sudue grandi questioni: le differenze di classe e il ruolo della donna. Sulprimo problema il confronto può essere tra le Dame del S. Cuore diMaddalena Sofia Barat (e le Sorelle della S. Famiglia) e le Suore di Caritàdi Capitanio e Gerosa; sul secondo tra le Dorotee di Passi e le Figlie dellaCarità della Canossa.

Le Dame del S. Cuore, fondate in Francia nel 1800 e guidate dallaBarat, sorgevano come ramo femminile (le “Dilette”) della Società deiPadri della Fede e cioè di una congregazione di ex-gesuiti che cercava diriproporre lo spirito della soppressa Compagnia. Quando poi i Gesuitifurono restaurati, le Dame del S. Cuore continuarono il loro sviluppo efurono viste come «gesuitesse». Nel 1818 aprirono una casa nel Regno diSardegna e nel 1823 a Torino. La loro spiritualità era ignaziana, lareligiosità era tipicamente gesuitica (basti ricordare la devozione al S.Cuore), il programma di studi dei collegi era ispirato alla Ratio dellaCompagnia: quasi una trasposizione di questa al mondo femminile. Sel’attenzione principale era quella dell’educazione delle giovani delleclassi dirigenti, “chiamate a svolgere un ruolo importante nelmondo”236, la struttura scolastica – secondo un modello tradizionale –prevedeva sia un educandato sia una scuola gratuita per ragazzepovere. Le classi non erano mescolate, ma rigidamente distinte: ladivisione tra le classi scolastiche riproduceva esattamente la divisionetra le classi sociali. Ma solo le prime, le alunne dall’educandato, erano“interne”, cioè vivevano entro la clausura come le Dame stesse. In altritermini l’educandato era delle educande, la scuola gratuita era per lepovere. La struttura bipartita era funzionale sia per inculcare la rigidadivisione della società per ceti, sia per educare ciascun ceto ai doveri delproprio stato, sia infine come riproposizione pedagogico-scolastica del 235 Ibid., p. 401.236 Notice sur le Révérend Père Léonor-François de Tournély et son oeuvre, la Congrégation desPères du Sacré- Coeur, Vienne 1886, p. 107.

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principio che gli ordini superiori guidano gli ordini inferiori. Lareligione era per tutte il primo e fondamentale insegnamento, sia pureimpartito in modi diversi (introduzione in un ambiente religioso che poiavrebbero dovuto riproporre in famiglia e “pietà maschia”237 per leeducande; catechismo e pratiche religiose, per le fanciulle povere). Mapoi i programmi educativi si diversificavano: formazione umanistico-letteraría, impartita con ordine preciso, metodo e chiarezza, alleeducande, per farne donne colte, edotte su tutto “ciò che maggiormenteimporta sapere per la condotta della vita e il gradimento della buonasocietà”238; per le fanciulle povere, lavoro manuale, istruzioneelementare, metodo del silenzio e cioè “economia di parole”.

Un’organizzazione simile avevano le scuole delle Sorelle della SacraFamiglia – anch’esse, come le Dame, derivate dalle “Dilette” – diLeopoldina Naudet. Il piano di studi prevedeva come materie:calligrafia, aritmetica, introduzione alle arti e belle lettere, notiziegenerali delle arti, catechismo, lingua toscana, lingua francese, linguatedesca, lingua inglese, disegno, storia sacra, teoria e praticadell’economia domestica, princìpi di creanza. La Naudet si era pureposta il problema se inserire nell’educazione femminile l’insegnamentodel greco e del latino “egualmente che i maschi”, ma si era risoluta perescluderlo: “Siccome la lingua greca e latina aprono l’adito a tutte lescienze, e ne sono come la chiave, ecco la ragione per cui si fannoimparare a quei giovani, che si prevede dover essere un giorno collocatia quegli impieghi nei quali queste cognizioni sono necessarie”, le donneinvece “non sono destinate ad istruire i popoli, a governare gli stati, afar la guerra, a render giustizia, ad agitar cause, ad esercitar medicina. Illoro impiego è racchiuso nell’interiore della Casa”239.

Un modello totalmente diverso, rispetto a questo ‘per stati’, eraquello delle Sorelle della Carità di Bartolomea Capitanio e VincenzaGerosa. Dopo un ritiro spirituale, la Capitanio aveva espresso a Dio i

237 Così si esprimeva la Barat nel 1842 in una lettera a M. Emile Giraud, cit. in J. deCharry, Pedagogia e spiritualità originaria della Società del Sacro Cuore, in Braido (a cura di),Esperienze di pedagogia cristiana, cit., p. 175.238 Constitutions et Règles de la Société du Sacré-Coeur de Jésus, Lyon 1852, n. 187.239 Sulla Naudet e sulle Sorelle della Sacra Famiglia, cfr. N. Dalle Vedove, Dalla Corte alchiostro. Donna Leopoldina Naudet, fondatrice delle Sorelle della Sacra Famiglia, Verona 1954.

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suoi propositi e cioè di volersi “tutta dedicare alla carità del prossimo.Tutto quello che voi mi avete dato, cioè vita, occhi, lingua, mani, piedi,abilità ecc. tutto l’impiegherò tutto nel giovare a’ miei fratelli. Miricorderò in ispecie dei poveri peccatori, degl’infermi, dei poveri,degl’ignoranti, e della gioventù”240. E meditando sul voto di caritàaggiungeva: “Per gli ignoranti non risparmierò fatica. Quel poco che hoimparato, anch’io con carità e pazienza glielo insegnerò, e non misdegnerò di andare io stessa a ricercare tutte quelle persone che avesserobisogno di essere istruite, e verso queste userò le più caritatevoliattenzioni”241. Era già una risposta a quell’interrogativo retorico cheGioberti si sarebbe posto, nel Primato, parlando dei religiosi: “Chi si faràrozzo coi rozzi, povero coi poveri, fanciullo coi fanciulli, per educare,migliorare, ingentilire la spregiata ed infelice plebe?”242. L’ottica erarovesciata rispetto alle Dame del S. Cuore: il fine specifico non eral’educazione dei ceti dirigenti ma dei ceti subalterni; la carità partiva daipoveri ma si estendeva a tutti senza divisioni di classe; interne eranocoloro che avessero l’intenzione di dedicarsi, come maestre, a questoapostolato educativo. Nelle Carte di Fondazione, scritte dalla Capitanio, sidiceva: “l’Istituto abbia d’avere per iscopo principale l’Educazione delleFigliole povere, e senza genitori, tenendole ivi anche a tuttomantenimento finché siano allevate, ed istrutte in qualche mestiere, concui onestamente procacciarsi il vitto”243. Ma la visione della caritàrifuggiva da distinzioni di classe: “la Carità colle Figliole e povere, ebisognose, e ricche, e di qualunque genere che a tutte deveestendersi”244. E poi, oltre la scuola esterna, “l’Istituto tenga ancheEducazione interna per tutte quelle giovinette o del paese, od estere chebramassero essere ivi istrutte, massime se avessero intenzione di far laMaestra, o se fossero di buona indole, da cui si sperasse buonriuscimento anche per prestarsi alla carità del prossimo”245. I metodi

240 B. Capitanio, Scritti Spirituali, Modena 1904, vol. III, p. 235.241 Ibid., p. 697.242 Cit. in A. Capecelatro, Gli Ordini religiosi e I’Italia, Genova 18643, p. 60.243 Carte di Fondazione (1831), in appendice a M. Carraro, A. Mascotti, L’Istituto delle SanteBartolomea Capitanio e Vincenza Gerosa, Milano 1987, vol. I, n. 4.244 Ibid., n. 7245 Ibid., n. 4.

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pedagogici-didattici erano, per così dire, spontanei e semplici: sifavoriva il lavoro di gruppo e la corresponsabilità, si curava il rapportoumano e si cercava di assecondare le inclinazioni naturali. Scriveva laCapitanio, a proposito delle sue ragazze, che avrebbe coltivato la loroamicizia, cercando di vederle spesso, di trattenersi con loro, disecondarle dove fosse possibile. In pratica si estendevano anche allescuole e ai rapporti con le educande quei princìpi ispiratori che laCapitanio voleva guidassero i rapporti interni tra le sorelle dell’istituto:carità grandissima, comunità perfetta, uguaglianza totale246.

Il secondo ambito di differenziazione, che si vuol evidenziare, èquello della ‘questione femminile’, dell’immagine e del ruolo delladonna (già implicitamente emerso nelle considerazioni della Naudetsull’insegnamento del greco e del latino): qui si confrontano il modellodi don Luca Passi e quello della Canossa. Don Luca Passi, che era ancheentrato nel Collegio Apostolico di Bergamo (il quale si ricollegava allaspiritualità e agli indirizzi della Compagnia di Gesù), aveva iniziato nel1815 una Pia Opera per l’educazione cristiana della gioventù che chiamòPia Opera di S. Dorotea. Cercò poi – con alterne vicende – di fondare unistituto religioso che si facesse carico dell’opera: nel 1840 ottenne ildecreto di approvazione per l’istituto delle Suore Maestre di S. Doroteacon casa centrale a Venezia. “I filosofi libertini del secolo scorso –scriveva don Cesare Galvani a proposito delle Dorotee in Modena – contutti i loro insegnamenti profusi alle donne non erano riusciti ad altroche a farle egoiste e ridicole: i sansimoniani e i loro fratelli d’oggidì conla ipocrita loro compassione alla schiavitù delle donne, non ne fanno chedelle sfacciate. Solo la religione cattolica, chiamandole a parte della suacarità, fa sentire loro ove sia riposta la vera dignità della loromissione”247.

Si potrebbe dire che il ‘modello delle Dorotee’, in sintonia peraltrocon indirizzi gesuitici248, fosse quello di valorizzare le possibilitàapostolico-missionarie della donna, giungere anche a riconoscere una

246 Ibid., n. 12.247 Lettera del sacerdote C. Galvani a un sacerdote della Missione sulla Pia Opera di S.Dorotea in Modena, in Annali della Pia Opera di S. Dorotea per l’educazione cristiana dellegiovinette del popolo, Firenze 1844-45, vol. I, n. 2, p. 127.248 Cfr. Bona, Le «Amicizie», cit., pp. 84-85.

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sua ministerialità nella Chiesa, esaltando lo ‘specifico femminile’ manon accettando la parità tra i sessi. L’importanza missionaria delledonne stava anzi soprattutto nel loro essere un tramite per raggiungere,in modo dissimulato, gli uomini. “Voi altre donne – avrebbe detto nel1870 Pio IX alle Dorotee della Frassinetti a Roma – potete fare quel beneche non possiamo fare noi. Voi, Religiose, edu- cando a soda pietà lefanciulle alla vostra cura affidate; voi, giovanette, corrispondendo allabuona educazione impartitavi, potrete essere un giorno gli angelitutelari delle vostre famiglie. Credetelo: quello sposo, quel padre, quelfratello, quel figlio, che sfuggono il sacerdote, non rifuggono, no, dallasposa, dalla figlia, dalla sorella, dalla madre affettuosa e cristiana, che atempo e luogo sa fargli scendere al cuore la voce della fede, e la paroladel conforto che a quella s’ispira. La donna santa santifica l’uomo e,senza uscire dal santuario domestico, salva la società”249. La Pia Operamirava realmente al recupero di un ruolo ministeriale della donna nellaChiesa, richiamando l’esempio delle collaboratrici di S. Paolo250. Maquello che appare più significativo è il rimando a uno ‘specificofemminile’ e soprattutto a un senso di solidarietà tra donne, di ‘sororità’.Nella Pia Opera la “assistente”, cioè colei che era in immediato e direttocontatto con la ragazza assistita, doveva essere quasi della stessa età diquest’ultima e doveva scendere sul suo stesso piano, “formandosiquindi per la somiglianza tra loro una santa amicizia”251. Le assistentidovevano amare come sorelle le assistite ed essere perciò in grado “diaffezionarsi le fanciulle, le quali sono loro in particolare raccomandate,usando sempre con esso loro dolci modi ed allegri, e conservandosempre una certa discrezione nel condurle alla pietà, affinché non sianoaggravate di troppo, e non si stanchino. Cerchino di vederle spesso; evedendole, facciano loro conoscere coll’allegrezza del volto e collapiacevolezza del tatto l’interesse che di loro si prendono”252. In questomodo, “la Pia Opera di S. Dorotea non esercitandosi in azioni palesi alpubblico, ma impegnandosi in familiari colloqui, in segreti consigli, in

249 Cit. in Capecelatro, Vita della serva di Dio Paola Frassinetti, cit., pp. 340-341.250 [L. Passi], Pia Opera di S. Dorotea diretta a formare i costumi [1829], Bergamo 18727, pp.131-132.251 Ibid., p. 4.252 Ibid., p. 39.

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amorevoli inviti”253 costruiva un modello di inter-relazioni educativefondato sulla solidarietà femminile, sull’intimità fra donne, sulla‘sororità’, con tratti indubbiamente moderni. Tuttavia, poi, a capodell’organizzazione che era su base parrocchiale, come direttoredell’opera, era sempre il parroco, anche se l’opera era affidata alle suoreDorotee. In altri termini si ribadiva un “profilo gerarchico” clericale emaschile che non ammetteva la parità dei sessi.

Molto diverso e quasi opposto è il modello realizzato da Maddalenadi Canossa: scompariva infatti lo ‘specifico femminile’, ma si praticavala parità reale. La Canossa (come pure la Cerioli) fondò anche un ramomaschile del suo istituto. Per realizzare questo suo disegno cercò primala collaborazione del Rosmini, quindi del Provolo, ma entrambi preseropoi vie diverse. E tuttavia, nei contatti avuti con loro, la Canossa trattavada pari a pari, anzi con una certa quale autorità superiore di“fondatrice”: anche con una personalità così spiccata, profonda eautorevole come quella di Rosmini. Ad annullare lo ‘specificofemminile’ ma anche a rafforzare l’aspetto ‘paritario’ era la stessaconcezione spirituale ed apostolica della Canossa, sia riguardo al fine(non le ragazze povere, verso le quali si rivolgeva l’azione, ma Dio) siariguardo al modo (la imitatio Christi, nella forma generale alla quale èchiamato ogni cristiano). Il direttore spirituale della Canossa, don LuigiLibera, che ebbe su di lei un’influenza determinante, le scriveva, ancoranel 1792: “Dio è Carità, dice il Diletto discepolo, e chi vive e opera incarità e con carità vive in Dio e vive con Dio. L’assistenza alli infermi,consolarli ed alleggerire i loro fastidi è un’opera di carità: procuriamoancor in questo esercizio, che più prevalga l’amor verso Dio che l’affettodel sangue: intendiamo assistere a Gesù C[rist]o; giacché Egli nonisdegna di riconoscere fatto per Lui ciò che facciamo per amore di Lui,verso li poveri infermi”254. Successivamente la Canossa trasferì questaprospettiva teologico-spirituale nell’impegno educativo verso lefanciulle povere: impegno preso per amore di Dio e come eserciziodell’amore verso Dio, prima ancora che come amore verso le fanciulle,

253 Annali, cit., vol. I, n. 2, p. 99.254 Lettera del Libera alla Canossa, da Verona, del 19 novembre 1792, in L. Libera, Letteredi direzione spirituale alla marchesina Maddalena Gabriella di Canossa (1792-1799), a cura diA. Cattari, Milano 1982, pp. 39-40.

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ma proprio per questo veramente autentico e ‘promozionale’ per lefanciulle stesse. “I1 raccogliere ragazze – scriveva la Canossa nel 1801 –a me sembra una cosa piccola e che in molti paesi si pratica. Mal’educarle bene e il vederne buon esito in quelle sortite dagli orfanotrofiper renderle cristiane e madri di famiglia, qui non lo vediamo tantofrequentemente. A me pare che la colpa sia la mancanza di persone chesi dedichino all’educazione per amore di Dio e per vocazione”255.

In altri termini al centro dell’impegno educativo non c’era l’educatorecon le sue strategie educative e missionarie (fare delle donne le apostoleper convertire gli uomini) ma le ragazze stesse, con i loro bisogni, inquanto però immagine di Cristo povero. Questo significava un’azioneeducativa veramente promozionale e senza secondi fini, ma ciòannullava pure l’importanza dello ‘specifico femminile’: immagine diCristo povero potevano essere le fanciulle o gli infermi o altri bisognosie sofferenti, indipendentemente dal sesso. Anche riguardo al modo diquesto esercizio della carità si perdeva lo ‘specifico femminile’: l’accentonon era posto su una particolare ministerialità della donna ma sullavocazione generale di tutti i cristiani a vivere come Cristo. Nelle Regoledelle Figlie della Carità si leggeva: “non v’ha dubbio, essersi da tutti isanti istitutori prefisso, o la contemplazione assidua della vita epassione di Gesù Cristo, o una immitazione più perfetta della vita delmedesimo nelle loro sante istituzioni. Fuori di strada dunque noiandremmo se in questo Istituto, l’ultimo ed il minimo della Chiesa diDio, altro scopo che questo volessimo prefiggerci. È vero checonsiderando il nome nostro di sorelle della Carità, serve dei poveri,sembrerebbe come anche lo è, che lo scopo nostro principale fossel’adempimento dei due precetti della Carità: amar Iddio con tutto ilcuore e il prossimo come noi stessi per amor del medesimo Iddio”256.Ma, aggiungeva la Canossa, “l’adempimento di questi due precetti nonè tutto intero lo scopo di questo Istituto. Si tratta di più d’adempierli,

255 Cit. in T. Piccari, Sola con Dio solo. Memorie di Maddalena di Canossa, Milano 1966, p.222.256 Regole delle Sorelle della Carità Serve dei poveri sotto le quali vivono quelle della prima Casadi questa Istituzione in Venezia cominciata il primo agosto dell’anno 1812 sotto la protezione diMaria santissima Addolorata, in Regole e scritti spirituali di Maddalena di Canossa (1774-1835),ed. crit. a cura di E. Dossi, Roma 1984, vol. I, p. 23.

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ricopiando per quanto a noi miserabili è concesso, la via santissima delSignore Nostro Gesù Cristo, immitandolo nelle virtù interne ed esternedi cui Egli degnossi darci particolare esempio [...]. Si tratta innoltred’animare tutte le nostre azioni ed operazioni collo Spirito di GesùCristo”257. Questa impostazione, così vicina a quella di Rosmini sulpiano della spiritualità, era però molto diversa sul piano degli indirizziapostolici. La Canossa inquadrava, in questa prospettiva unitaria dellacarità come imitazione di Cristo, tutta la vita religiosa del suo istituto,senza ulteriori specificazioni, tanto per il ramo femminile quanto per ilramo maschile, su un piano assolutamente paritario. La prospettiva delRosmíni (il quale, in fine, non accettò di essere il promotore dei Figlidella Carità canossiani) era certamente più complessa, comprendendomolte articolazioni su livelli diversi, un organamento più vasto, unindirizzo più profondo, ma finiva anche per avere implicazioni nonpienamente paritarie. Sicuramente questo era un elemento secondario,ma non completamente trascurabile: l’opera dell’uomo-sacerdote nonpoteva essere per Rosmini sullo stesso piano di quella della donna, laquale non poteva mai essere sacerdote ancorché potesse pure esseresanta. A don Boselli, incerto se seguire la via canossiana o la viarosminiana, Rosmini scriveva: “La carità che esercitano le donne è menoestesa di quella che possono esercitare i sacerdoti”258. L’ideale dellaCanossa era più semplice ma, di fatto, più paritario: Dio è amore e chista nell’amore, uomo o donna che sia, sta in Dio259.

257 Ibid., pp. 23-24.258 Cit. in G. Radice, Annali di Antonio Rosmini Serbati, Milano, 1967-90, vol. III: 1823-1828, pp. 600-601.259 Cfr. De Giorgi, La scienza del cuore, cit.

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CAPITOLO II

IL RIFORMISMO ‘ALBERTINO’DEI MARCHESI DI BAROLO:

DA BALBO E ROSMINI AL GESUITISMO

1. L’immagine tradizionale dei Barolo e la sua revisione

L’opera pedagogica e le iniziative educative e sociali dei marchesi diBarolo assumono un significativo rilievo se considerati all’interno delproblema storico che è oggetto di questa ricerca: l’attività educativa deicattolici e, in particolare degli ordini e delle congregazioni religiose,all’interno dei processi di modernizzazione e tenendo contodell’atteggiamento verso il ‘gesuitismo’. Essi infatti furono fondatori dicongregazioni religiose, si occuparono di problemi educativi, operarononel Piemonte sabaudo prima e poi – almeno la marchesa – nell’Italiaunita. Conobbero e apprezzarono Rosmini, furono partecipi insieme alui delle tendenze riformatrici dei primi anni del Regno di CarloAlberto, ma poi seguirono un loro differente itinerario che, dopo lamorte del marchese, piegò verso il gesuitismo. Tuttavia una riflessionestorica complessiva che tenga conto, insieme, tanto della figura delmarchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo quanto di quella di suamoglie Giulia Colbert presenta non pochi problemi sul pianometodologico, anche se appare senz’altro pienamente giustificata, comesi vedrà.

Per evitare schematizzazioni semplificatrici fuorvianti, occorre alloraconsiderare attentamente, innanzi tutto, la periodizzazione storica cheappare più opportuna. Si tratta dunque di distinguere tre periodidiversi: il primo va dalla nascita del marchese Carlo Tancredi nel 1782 e

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di Giulia nel 1786 fino al loro matrimonio nel 1806 (è dunque un periododi ventiquattro anni per lui e di venti per lei); il secondo periodo va dalloro matrimonio nel 1806 alla morte di Tancredi nel 1838 (e copretrentadue anni); il terzo periodo va dal 1838 alla morte della marchesanel 1864 (e comprende ventisei anni). Si tratta dunque di tre periodisostanzialmente equivalenti sul piano della durata, ma non dellasignificatività storica: il centro significativo dell’esperienza dei Barolo,della loro vicenda umana, della loro fecondità spirituale e pedagogica,della loro originale creatività educativa e caritativa si colloca infatti nelsecondo periodo (tra il 1806 e il 1838) e a questo periodo va soprattuttoriportata.

Ma prima di poter entrare nell’esame di alcuni significativi aspettidell’opera dei Barolo, appare necessaria una riflessione di tipostoriografico sulla tradizione critica e interpretativa, successiva allamorte dei marchesi, e sull’immagine che essa ha tramandato di loro, perpoi vedere come tale immagine sia stata assunta dalla storiografia ecome più recentemente si sia posto il problema di una sua revisionecritica.

Complessivamente e prevalentemente l’immagine tradizionale deimarchesi di Barolo è stata caratterizzata come conservatorismo sociale sulpiano socio-politico e in generale degli orientamenti culturali e dellamentalità e come gesuitismo devozionistico sul piano del vissuto religioso,degli orientamenti educativi, della storia della spiritualità. Questaimmagine è andata formandosi negli anni successivi alla morte delmarchese e soprattutto con l’emergere delle correnti democratico-socialialla fine degli anni ‘40 dell’Ottocento. Un tipico esponente di questecorrenti, Angelo Brofferio, parlando degli indirizzi caritativi eironizzando sui balli di beneficenza, nel 1850, scriveva: “Ballare per fareelemosina era [...] la risoluzione di un grande problema a cui neppure ilcomunismo aveva pensato. Ballavano i principi, ballavano i ministri,ballavano i consiglieri di Stato”1. Questo tono sarcastico segnalava ungiudizio di insufficienza per la tradizionale carità aristocratica, a frontedelle trasformazioni sociali e della nuova coscienza politica.

1 A. Brofferio, Storia del Piemonte dal 1814 ai giorni nostri, parte III, vol. I, Torino 1850, p.138.

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Vi era poi, sul piano religioso-spirituale, la critica contro i gesuiti chenel 1845 Gioberti avviò, come già si è visto, con i Prolegomeni al Primato epoi con il Gesuita moderno. Silvio Pellico, che era il bibliotecario di casaBarolo e al quale Gioberti aveva dedicato il Primato, gli scrissestigmatizzando le nuove posizioni che il focoso alfiere del neoguelfismoaveva assunto2. E il gesuita Francesco Pellico, fratello di Silvio, avviò lapolemica di parte gesuitica contro Gioberti. Si aggiungevano inoltre itimori, infondati ma ricorrenti, per una segreta rifondazionedell’”Amicizia Cattolica”: timori che non erano solo di Gioberti, maanche di Gualtiero, di Boggio e forse pure di Carlo Alberto e di Cavour3.Si unì, successivamente, negli anni ‘50, l’irritazione per il Memorandumdi Solaro della Margarita (apprezzato invece dalla Barolo). Tutto questospiega l’ostilità verso la marchesa a partire dal 1848 quando l’agitazionepopolare portò, come si è visto, alla soppressione dei gesuiti e la Barolone ospitò due – tra i quali Francesco Pellico – per una notte nel suopalazzo. La protesta anti-gesuitica dei democratici portò pure, com’ènoto, alla cacciata delle Dame del S. Cuore, le cosiddette “gesuitesse”,che erano state introdotte nello Stato Sardo proprio tramite lamediazione della Barolo, ai tempi di Carlo Felice. “La Marchesa diBarolo ed i suoi benefici istituti non potevano andar risparmiati”scriveva Pellico nelle sue note Memorie e aggiungeva: “Non v’èindegnità che di loro non siasi detta e scritta, sino ad accusare quellaegregia donna di rapire le figliuole ai genitori e di tenerle chiuse perforza nei suoi stabilimenti. Le infami denunzie furono portate a’tribunali, furono fatti i dovuti esami dai magistrati, risultò chiara lafalsità delle accuse, e non però i calunniatori vennero compressi. Intantol’amica dei poveri era colma di ingiurie e minacciata di morte dafrequenti lettere, le une anonime, le altre firmate, e uomini e donneandavano ad insultare i suoi caritatevoli ospizi, gridando che volevanoassalire le mura, incendiarle, strappare le vittime ivi rinchiuse.Inenarrabili sono le inquietudini a lei date dai perversi”4.

2 Cfr. I. Rinieri, Della Vita e delle Opere di Silvio Pellico, vol. II, Torino 1899, pp. 278 – 289.3 Cfr. C. Bona, Le “Amicizie”. Società segrete e rinascita religiosa (1770-1830), Torino 1962, p.462.4 S. Pellico, La marchesa Giulia Falletti di Barolo nata Colbert. Memorie, Torino 19142, pp. 109– 110.

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Naturalmente il significato storico e direi anche simbolico del 1848nel Risorgimento italiano fece sì che le vicende relative alla Barolo nonfossero chiuse e dimenticate in quell’anno ma si proiettassero ormaisullo sviluppo successivo della vita pubblica. Esse peraltro siintrecciavano con il giudizio critico che, in certi ambienti, andavaformulandosi verso l’ultimo Pellico e il suo fervente cattolicesimo. Nel1860, cioè quando ancora era viva la marchesa, Atto Vannucci, ex-pretee poi senatore del Regno, scriveva: “Gli Austriaci circondarono SilvioPellico di gesuiti e gesuitanti, i quali gli fecero scrivere sciocchezze. Mal’inganno non riuscì. Tutti sanno che l’antico Silvio non era più, e che ilnuovo a cui posero il suo nome era una manipolazione di una gesuitessae di più gesuiti”5. E nel 1878, Vittorio Bersezio, rievocando l’ambiente dicasa Barolo, aggiungeva: “In quella casa [...], spirava il più puro, il piùacceso, il più zelante spirito gesuitico, e in tale ambiente la debole animadel Pellico subì quanto bastava dell’influsso loiolesco per confondereinsieme e fare una cosa sola della religione e del partito politicoteocratico”6.

Questa interpretazione ha, ovviamente, influenzato la storiografia,anche perché si è intrecciata con la polemica carloalbertina, cioè con ladiscussione sull’interpretazione da dare al regno di Carlo Alberto, cheha visto storici filoalbertini contrapporsi a storici critici del re sabaudo.

L’attenzione storiografica verso i marchesi di Barolo, peraltro, si èespressa maggiormente proprio quando, durante il fascismo, vi è statauna rivalutazione di Carlo Alberto da parte della storiografia sabaudista(si pensi ai lavori di Rodolico), unita a una ripresa delle posizioniteocratiche o antiliberali (come nella biografia di Solaro della Margarita,dovuta alla penna di Lovera e di Rinieri e apparsa nel 1931). È in questoclima culturale e ideologico che si collocarono le ricerche più importantie ancor oggi utilizzate sui Barolo: lo studio della Borsarelli su Giulia equello di Massé su Carlo Tancredi7, in cui addirittura il marchese venivapresentato come un precursore del fascismo nel campo

5 A. Vannucci, I Martiri, Firenze 1860, p. 277.6 V. Bersezio, Il Regno di Vittorio Emanuele II, Torino 1878, pp. 177 – 178.7 R. M. Borsarelli, La marchesa Giulia di Barolo e le opere assistenziali in Piemonte nelRisorgimento, Torino 1933; D. Massé, Un precursore nel campo pedagogico. Il marchese diBarolo, Alba 1941.

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dell’orientamento professionale. Ed è significativo che per undocumento così importante come la lettera di Giulia a un gentiluomoinglese nel 1838, non avendo l’originale, ci si debba affidare al testo (chea mio avviso suscita qualche perplessità) reso noto in una conferenzadel 6 novembre 1926 dal titolo: Le benemerenze del Fascio di Torino nellalotta contro l’accattonaggio.

Negli anni tra le due guerre mondiali, dunque, si rafforzavaquell’immagine tradizionale venuta fuori, come si è visto, dallepolemiche risorgimentali.

Nel dopoguerra la storiografia generale si è generalmente pocointeressata dei Barolo. Solo sul piano della storia della pedagogia vi erauna certa attenzione: ma qui essi costituivano un’impostazione inqualche modo contrapposta a quella più aperta e moderna di Aporti8. Inquesta luce anche i contrasti tra i Barolo e Rosmini (per la presenza delleSuore della Provvidenza) potevano essere visti sullo sfondo delcontrasto tra una tendenza cattolico-conservatrice e una cattolico-liberale. Così pure il distacco tra la Barolo e don Bosco si stagliavaemblematicamente come distacco tra un modello cattolico vecchio earcaico e un nuovo e dinamico cattolicesimo sociale.

Peraltro la nuova storiografia sociale sulla realtà del Piemonteottocentesco portava a riprendere, per quanto riguarda i Barolo, igiudizi dei democratici del 1848, come Brofferio. Così Gian Mario Bravo,in un suo importante studio sulla Torino operaia nell’età di CarloAlberto, parlava di “quel movimento abbastanza vasto, per quanto conpochi tentativi di concettualizzazione e di sintesi, che può venir definitoquale conservatorismo sociale e che ha i massimi rappresentanti neipratici della carità e della beneficienza, i marchesi di Barolo e, con essi, einterprete del loro pensiero anche se movente da posizioni autonome,Silvio Pellico”. Bravo osservava che la marchesa di Barolo “dispensaval’assistenza ai miseri con distacco aristocratico e senza un esameobiettivo della realtà”. E aggiungeva ancora: “In una lettera privata a ungentiluomo inglese del 1838 [...], la marchesa parlava insistentementedei “pezzenti”, dei “miserabili”, dei “rifiuti umani” che doveva curare edi fronte ai quali doveva vincere il “ribrezzo” e il “disgusto” [...]. Sono 8 Per le discussioni più recenti cfr. L. Ambrosoli, Ferrante Aporti negli studi dell’ultimotrentennio, in “Il Risorgimento”, (1993), n. 3, pp. 493 – 506.

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quindi comprensibili le manifestazioni popolari di protesta (nel 1848)contro la marchesa di Barolo, definite “oltraggiose” dalla stampamoderata”9.

Solo in tempi più recenti, gli sviluppi degli studi storici consentonoun approfondimento e, direi, una vera e propria revisione dellainterpretazione tradizionale. Le ricerche Nada sul regno di CarloAlberto10, con una visione più equilibrata ed equanime, gli studisull’Italia giacobina e napoleonica11 e su alcune figure-chiave dell’élitepiemontese come Prospero Balbo12, un’attenzione finalmente scientificae non solo apologetico-agiografica per le nuove Congregazioni religiosefondate nel XIX secolo e in particolare per la loro opera educativa13 e per

9 G. M. Bravo, Torino operaia. Mondo del lavoro e idee sociali nell’età di Carlo Alberto, Torino1968, pp. 121, 139 – 140, 246.10 Cfr. N. Nada, Dallo Stato assoluto allo Stato costituzionale. Storia del Regno di Carlo Albertodal 1831 al 1848, Torino 1980; U. Levra, L’altro volto di Torino risorgimentale 1814-1848,Torino 1988; P. Notario – N. Nada, Il Piemonte sabaudo. Dal periodo napoleonico alRisorgimento, Torino 1993.11 Cfr. P. Notario, La vendita dei beni nazionali in Piemonte nel periodo napoleonico (1800 –1814), Milano 1980; R. Davico, “Peuple” et notables (1750 – 1816). Essais sur l’ancien régimeet la révolution en Piémont, Paris 1981; AA.VV., I primi due secoli dell’Accademia delle Scienzedi Torino, Torino 1985; J. Tulard, Napoléon et la noblesse d’Empire, Paris 19862; G. Bracco (acura di), Ville de Turin, 2 voll., Torino 1990; AA.VV., Dal trono all’albero della libertà.Trasformazioni e continuità istituzionali nei territori del Regno di Sardegna dall’antico regimeall’età rivoluzionaria, 2 voll., Roma 1991; AA.VV., All’ombra dell’aquila imperiale.Trasformazioni e continuità istituzionali nei territori sabaudi in età napoleonica (1802 – 1814), 2voll., Roma 1994; M. Violardo, Il notabilato piemontese da Napoleone a Carlo Alberto, Torino1995; D. Gallingani (a cura di), Napoleone e gli intellettuali. Dotti e “hommes de lettres”nell’Europa napoleonica, Bologna 1997.12 Cfr. G. P. Romagnani, Prospero Balbo intellettuale e uomo di Stato (1762 – 1837), 2 voll.,Torino 1990; Id., I gruppi dirigenti piemontesi tra monarchia sabauda e impero napoleonico(1780 – 1814), in C. Vernizzi (a cura di), La Rivoluzione francese e il Risorgimento italiano,Torino 1992, pp. 1 – 20; Id., “La ragione risvegliata”. I marchesi di Barolo fra “idéologie” e“Sturm und Drang”, in AA.VV., Studi di storia per Luigi Ambrosoli, Verona 1993, pp. 141 –158.13 Cfr. G. Rocca, Istituti religiosi in Italia tra Otto e Novecento, in M. Rosa (a cura di), Clero esocietà nell’Italia contemporanea, Roma – Bari 1992, pp. 207 – 256; L. Pazzaglia (a cura di),Chiesa e prospettive educative in Italia tra Restaurazione e Unificazione, Brescia 1994; G.Chiosso, Il marchese Tancredi Falletti di Barolo e l’educazione del popolo nel primo Ottocentosubalpino, in R. Finazzi Sartor (a cura di), Educazione e ricerca storica. Saggi in onore di

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il ruolo in esse avuto dalle donne14; tutto ciò unito alla raccolta dimateriale documentario e alla pubblicazione di testi da parte dellaCongregazione delle Figlie di Gesù Buon Pastore e dell’Opera Barolo15,consente oggi di aprire una fase nuova e di penetrare con una sensibilitàstoriografica diversa nella vicenda dei marchesi di Barolo.

Riemergono allora, con tutta la loro intelligenza critica, leosservazioni che nel 1864, subito dopo la morte della marchesa,svolgeva Tancredi Canonico, il quale la aveva conosciutapersonalmente. Il Canonico era un cattolico aperto, conciliatorista e nel1904 sarebbe stato pure Presidente del Senato. Egli dunque affermava:“Io so che corre sulla Marchesa di Barolo un’opinione molto diffusa.Tutti la stimavano per una donna benefica; molti la tenevano (diciamolopure francamente) per alquanto pinzochera e retriva”. E aggiungeva:“Signori, se si trattasse soltanto di una donna ricca che ha fatto larghelimosine, io non verrei qui certamente a parlarvi di lei [...]. Molto menomi vedreste voi qui, se la Marchesa di Barolo fosse stata una pinzochera,perché poche cose io detesto quanto la bacchettoneria; piaga funesta, laquale invece di elevare l’uomo, di dilatarne l’animo, l’amore e la vita, loimmiserisce e lo addormenta, ne spegne i più nobili aneliti, ne fa unoschiavo sempre pauroso e tremante”. Ma, diceva il Canonico, “chi hapotuto, com’io potei in parte, conoscere lo spirito che animava le sueopere” ha potuto apprezzare “il concetto largo ed elevato ch’ella avevadella vita” e si è potuto convincere che “la carità della Marchesa non era(come ad alcuno pareva) né esclusiva, né parziale”. Canonico lamentavaperciò che “un medesimo tacito ostracismo colpì ben presto la Marchesadi Barolo ed il suo bibliotecario”, il Pellico. Certo egli non negava chenella marchesa vi fosse “una segreta e forse inavvertita prevenzione

Francesco De Vivo, Padova 1995, pp. 233 – 258.14 Cfr. G. Rocca, Le nuove fondazioni religiose femminili in Italia dal 1800 al 1860, in AA.VV.,Problemi di storia della Chiesa. Dalla Restaurazione all’unità d’Italia, Napoli 1985, pp. 107 –192; Id., Donne religiose. Contributo a una storia della condizione femminile in Italia nei secoliXIX – XX, Roma 1992; L. Scaraffia – G. Zarri (a cura di), Donne e fede. Santità e vitareligiosa in Italia, Roma – Bari 1994.15 Cfr. Aa. Vv., I marchesi di Barolo e il loro tempo, Torino 1996; [A. Tago], Giulia ColbertMarchesa di Barolo, Milano 1989; G. Colbert Falletti di Barolo, Lettere alle Sorelle Penitentidi S. Maria Maddalena, 2 voll., Roma 1986 – 1987; Ead., Scritti spirituali, Milano 1994; Ead.,Viaggio per l’Italia. Lettere d’amicizia a Silvio Pellico (1833 – 1834), Casale Monferrato 1994.

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contro gli ordini nuovi” e osservava acutamente quanto “dovesseriuscirle difficile il capire la società attuale, come questa non capiva leinel reale suo essere”16. Ma proprio questa incomprensione, chiaramenteindividuata dal Canonico, si è poi cristallizzata nell’immaginetradizionale della Barolo reazionaria e gesuitizzante.

Per sfuggire a tale fraintendimento e tentare di capire vicende epersone – per dirla col Canonico – nel “reale loro essere”, occorre alloranotare che l’immagine tradizionale nasce da una sorta di doppioriduzionismo interpretativo: prima, si è totalmente appiattita la figuradel marchese su quella della moglie e, poi, si è interpretata quest’ultimasulla base di quelli che ho indicato come il primo e il terzo periodo. Lavandeana di fine settecento si è saldata con l’anti-liberale post-quarantottesca.

La prospettiva interpretativa, che vorrei invece seguire, si basa sulpresupposto che il periodo significativo per penetrare la personalità deiBarolo è, come ho già detto, quello compreso tra il 1806 e il 1838, nelquale vi è un’interazione profonda, un equilibrio complementare, unarricchimento ideale, culturale e spirituale reciproco e nel quale, non acaso, si realizza un’interessante creatività pedagogica ed educativa. Taleperiodo peraltro va compreso nella sua realtà concreta e non solo dalpunto di vista del periodo successivo: è stato giustamente notato, infatti,come anche l’interpretazione del periodo albertino nel suo complessosia stata, per questo motivo, fraintesa e sottostimata sul pianodell’innovazione e dello sviluppo storico.

2. Nella società subalpina tra impegno civile e sociale

Il primo periodo, dagli ultimi decenni del Settecento ai primi annidell’Ottocento, è quello che comprende la fine dell’antico regime, larivoluzione francese e l’Impero napoleonico. Fu un periodo traumaticoper Giulietta Colbert. Discendente della famiglia del ministro di LuigiXIV, Giulia era nata a Maulévrier, nella regione dell’Anjou, chesuccessivamente – insieme al Poitou, alla Bassa-Loira e lla Vandea –

16 T. Canonico, Sulla vita intima e sopra alcuni scritti inediti della marchesa Giulia Falletti diBarolo-Colbert, Torino 18932, pp. 4 e 22 -25.

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avrebbe costituito la “Vandea militare” delimitata a nord dalla Loira eaffacciantesi sull’Atlantico, a sud della penisola della Bretagna. Nelcorso del Settecento e del diffondersi dell’influenza della culturailluminista in tutta la Francia, la Vandea seguì un percorso storico suoproprio: da una parte si dimostrò un ambiente culturalmente piùconservativo e chiuso alle correnti novatrici, quasi geloso di una suaspecifica identità favorita da un particolare regime fiscale e da una certaautonomia giuridica (ma anche, almeno in alcune zone come il BassoPoitou, teatro di frequenti sommosse contadine e di disordiniantifiscali), dall’altra in essa si dispiegò profondamente l’opera di S.Luigi Maria Grignion de Montfort e dei religiosi monfortani, da luifondati nel 1712 a Saint-Laurent-sur-Sévre (appunto in Vandea) perl’evangelizzazione dei poveri. Tuttavia, in seguito alla rivoluzione, lapiccola Giulia Colbert, di appena quattro anni, lasciò la Francia insiemealla famiglia, come molti nobili che presero la via dell’emigrazione. Fuin Olanda, dove nel 1793 le morì la madre, e in Germania. Nel 1794,intanto, a Parigi fu ghigliottinata la nonna paterna. Solo nel 1802, conl’avvento di Napoleone, poté ritornare in patria e successivamentecominciò a frequentare la corte imperiale.

Altrettanto travagliata, ma molto meno drammatica fu la vicendadella famiglia Falletti di Barolo. In Piemonte non vi fu una rivoluzione,non vi fu il terrore giacobino. La gran parte del ceto dirigente nobiliare,per motivazioni anche diverse, accettò il “nuovo ordine” delquindicennio francese e approdò sostanzialmente indenne allaRestaurazione. I Falletti di Barolo erano certo tra i membri più in vistadell’élite piemontese d’antico regime. Il nonno di Carlo Tancredi, CarloGerolamo era stato un amico di Metastasio e di Baretti. Il salotto di casaBarolo e la stessa accademia “Sampaolina” che ivi si riunìrappresentarono uno dei luoghi più rilevanti della sociabilità culturalenobiliare del tempo. La Sampaolina era in realtà una liberaconversazione che si tenne, a partire dal 1776, prima nel palazzo delconte Gaetano Emanuele Bava di San Paolo e poi in quello dell’ancoragiovane marchese Ottavio Falletti di Barolo, figlio di Carlo Gerolamo efuturo padre di Carlo Tancredi. A essa partecipavano personaggi delcalibro di Tommaso Valperga di Caluso, di Denina, di Alfieri. E ilmarchese Ottavio che era allora di spiriti alfieriani e anti-tirannici, nel

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1798, quando Carlo Emanuele IV rinunziò ai suoi possessi, aderì allarepubblica, come vi aderirono il principe Carlo Emanuele di Carignano,padre di Carlo Alberto, Tommaso Valperga di Caluso e molti altripatrizi piemontesi.

Nel 1799 il governo provvisorio impose ai cittadini più ricchil’acquisto dei beni nazionali, confiscati agli ecclesiastici. L’elenco deicittadini, quotati dal decreto 18 ventoso anno VII, era la graduatoria deiricchi piemontesi: il primo era il marchese di Barolo con 161.000 lirepiemontesi, molti avevano redditi sulle 20 o 30 mila lire e moltissimisotto le 10 mila (ciò spiega pure, peraltro, l’adesione al regimenapoleonico, quando Buonaparte minacciò la confisca delle proprietà).Nel 1799 Ottavio fu nominato tra i diciotto Municipalisti incaricati diamministrare Torino e, in questa veste, cercò di moderare e mitigare glispiriti anti-religiosi.

Nel 1801, l’anno della definitiva annessione del Piemonte allaFrancia, egli divenne membro dell’Accademia delle Scienze di Torino,trasformata in Accademia nazionale e fu pure, per dieci anni, direttoredella nuova Classe di Lettere e di Filosofia. In questa veste incontròNapoleone nel 1805. Fu anche Presidente del Collegio elettorale delDipartimento del Po e nel 1806 Senatore dell’Impero.

Alla fine del 1806 egli era segnalato come membro del “Club deisessanta”, un circolo ostile all’Austria e favorevole a un riavvicinamentofranco-britannico, del quale facevano parte pure, tra gli altri, MicheleBenso di Cavour e Prospero Balbo. Intanto suo figlio, Carlo Tancredi,era paggio alla corte napoleonica dove incontrò Giulietta ViturniaColbert e la sposò nel 1806.

Si apre dunque il secondo periodo: dal 1806 al 1838. È significativoricordare – per meglio comprendere sensibilità personali e mentalità inquesto secondo, decisivo, momento – quanto ebbe a scrivere CarloTancredi nel 1828. Egli sperava che le sue vicende fossero ricordateinsieme a “quelle d’un padre, d’una madre, d’una moglie, che mai nonandarono, né andranno mai da me disgiunte”17. Si tratta, peraltro, di uncriterio che si può validamente assumere anche sul piano dellaricostruzione storica.

17 Cit. in Massé, Un precursore nel campo pedagogico..., cit., p. 14.

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Occorre allora cercare di ricostruire il clima ideale, l’atmosferaculturale e spirituale di casa Barolo, negli anni successivi al matrimoniodi Carlo Tancredi e nel concorso delle personalità del marchese Ottavio,della marchesa madre e della giovane Giulietta.

Ottavio era allora una delle figure più rilevanti non solo delPiemonte, ma dell’Impero. Nel 1807 fu nominato ufficiale della Legiond’Onore e nel 1810 ebbe il brevetto di commendatore dell’Ordine dellaCorona di Baviera. Ma gli strumenti con cui Napoleone cercò diintegrare i ceti dirigenti subalpini nel nuovo Impero furono, dapprima,la costituzione di una nobiltà imperiale e poi, specificatamente, l’Ordinedella Riunione. Così nel 1808 Ottavio fu conte dell’Impero e nel 1810 lodivenne Carlo Tancredi: conti dell’Impero furono pure, tra gli altri,Carlo Alberto di Savoia-Carignano, Giuseppe Luigi Lagrange, GaetanoGalli della Loggia. Nel 1812, poi, sia Ottavio Falletti di Barolo siaProspero Balbo ricevettero l’onorificenza dell’Ordine imperiale dellaRiunione.

È stato notato che nel quindicennio napoleonico si formò gran partedella classe dirigente risorgimentale, che annoverò figli delle personalitàpiù illustri del periodo. E accanto a Prospero e Cesare Balbo, Cesare eMassimo d’Azeglio, Michele e Camillo Benso di Cavour, vi furono pureOttavio e Carlo Tancredi Falletti di Barolo.

Venendo in Italia, dopo il matrimonio, sia pure ancora nonstabilmente, Giulia Colbert cominciò a conoscere il nuovo ambienteintellettuale e culturale piemontese, del quale il suocero Ottavio eravivace esponente. Proprio in quegli anni, e precisamente nel 1809,infatti, egli scriveva il Pedanteofilo, che era una storia satirica dellapedanteria, mentre esprimeva una critica al troppo toscaneggiante emisogallo Alfieri, che pure aveva tanto ammirato in gioventù, nelleQuattro lettere al signor Prospero Balbo rettore dell’Accademia di Torinointorno ad alcune opere postume di Vittorio Alfieri ultimamente stampate.Entrambe le opere, al di là di una certa mordacità alla moda, rivelavanoun animo già disincantato rispetto alle audaci speranze giovanili e cheandava richiudendosi in un conservatorismo illuminato. Questetendenze si accentuarono con la Restaurazione e con il nuovo climapolitico e culturale.

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Col ritorno dei Savoia, se il marchese Ottavio dovette rinunciare acariche politiche, suo figlio Carlo Tancredi fu nominato Decurione dellaCivica Amministrazione di Torino. In realtà, come è noto, VittorioEmanuele I dovette servirsi di quel ceto dirigente che si era maturato oformato nel periodo napoleonico.

Il marchese Ottavio si dedicò totalmente agli studi filosofici eletterari. Tra il 1816 e il 1817 scrisse alcuni volumi di filosofia in cui, conqualche venatura affine a quelle di Tommaso Valperga di Caluso,tentava una via media tra l’analiticità empirica del sensismo francese e ilsintetismo idealistico tedesco. Il problema sarebbe stato poi affrontato,con ben altra forza speculativa, da Antonio Rosmini, ma non sidimentichi che l’abate roveretano conosceva ed apprezzava TommasoValperga di Caluso. Ottavio di Barolo, che era comunque uno spiritoricettivo e attento alle novità culturali e alle mode letterarie, entrò anchenella discussione sul romanticismo con un’opera, Della Romanticomachia,in cui criticava sia i classicisti per il feticistico attaccamento allatradizione sia i romantici per la loro eccessiva esterofilia. L’operaspiacque ai romantici, che non dimenticavano peraltro le sue critiche adAlfieri, e il milanese “Conciliatore”, il giornale di Pellico, tra il 1818 e il1819 polemizzò con il marchese, soprattutto per la penna di Berchet(anche se al Di Breme non era dispiaciuta la sua opera filosofica).Certamente, dunque, l’ambiente di casa Barolo non rientrava in quellatendenza culturale piemontese che è stata chiamata degli “alfieriani-foscoliani”.

Problematici sono pure i rapporti col cattolicesimo delle “Amicizie”.Se si devono escludere legami di Ottavio e di Carlo Tancredi, piùcomplesso è il caso delle figure femminili. La marchesa madre,savoiarda e religiosissima, era infatti guidata spiritualmente da BrunoneLanteri, anche se il suo nome non compare tra quelli delle “amichecattoliche”. Così pure si deve dire per Giulia, anche se forse a lei sirivolse il Lanteri per questioni attinenti ai legami parigini dell’AmiciziaCattolica. L’influenza di Lanteri e di Guala sulla giovane patriziafrancese certo ci fu, ma non nel senso di una sua organica inserzione neiranghi dell’”Amicizia”. Non fu peraltro l’unica influenza e forseneppure quella decisiva. L’aspetto del cattolicesimo delle “Amicizie”,che più influenzò Giulietta, fu il ruolo attivo che si assegnava al laicato e

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soprattutto alla donna. Com’è noto, una delle originalità più innovativedelle “Amicizie” – peraltro tipica del gesuitismo della diaspora – era illoro carattere misto e il ruolo delicato e indispensabile che vi svolgevanole donne, chiamate a un protagonismo di apostolato18.

Questo tipo di spiritualità, dunque, sorresse l’ardito impulso dellagiovane aristocratica – che si manifestò proprio a partire dal 1814 – a faropera di apostolato nelle carceri e tra le donne colpite dal vizio, dalmalaffare, dalla prostituzione. È significativa, a questo proposito, latestimonianza di Pellico, che nelle Memorie della marchesa, rievocandoquegli anni, scriveva: “Nacque in Lei perciò il desiderio di fondareun’opera di rifugio per le donne pentite; ma le difficoltà eranoparecchie. In qual maniera vincerle? Conveniva non urtare contro lecritiche sociali, e sovratutto non attirarsi il biasimo di personerispettabili a cui ciò potesse sembrare zelo indiscreto, non affliggere ilmarito ed i suoceri, avvezzi bensì a far molte carità ma in altri modi:conveniva essere da loro pienamente approvata. Io conobbi unsacerdote venerando, il Teologo Guala, che fu per molti anni suoconfessore; egli mi narrò più d’una volta come questa grande amicadegl’infelici ardesse di stabilire quel Rifugio, e quanti ostacoli avesseavuto in principio a superare per ragioni di convenienze”19. In quellostesso periodo, il salotto di casa Barolo diveniva uno dei più significativiluoghi d’incontro dei giovani esponenti del patriziato piemontese e taledoveva rimanere per tutta la vita del marchese Carlo Tancredi. Erainfatti frequentato, tra gli altri, da Cesare Balbo, da Santorre di Santarosae da suo cugino Pietro, da Cesare Alfieri di Sostegno, da Cesare Saluzzo,da Federico Sclopis. Più tardi intervenne anche Camillo Benso diCavour che, da bambino, aveva guadagnato la simpatia della giovanemarchesa (da allora i rapporti di amicizia tra i due rimasero saldi, siraffreddarono ma non si incrinarono neppure dopo il 1848). Amico deiBarolo – di Ottavio ma pure di Carlo Tancredi e di Giulia – era anche ilPrincipe di Carignano.

Durante i moti del 1821 la posizione di Carlo Tancredi fuprobabilmente molto simile, negli ideali, a quella aperta ma cauta eprudente di Cesare Balbo, interprete di un costituzionalismo liberale 18 Bona, Le “Amicizie”..., cit., pp. 84 – 89.19 Pellico, La marchesa Giulia Falletti di Barolo..., cit., p. 48.

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monarchico e non ostile al cattolicesimo20. Il Baolo fu, comunque, vicinoa Carlo Alberto: firmò, in qualità di Decurione della città e con altriventidue sottoscrittori, una dichiarazione che, in sostegno delle sceltedel Reggente, affermava la necessità di concedere la Costituzione. Ilmarchese di Barolo fu anche nominato da Carlo Alberto membro dellaConsulta di governo.

La stessa Giulia, pur così timorosa di eventuali eccessi rivoluzionari elontana dalle lotte politiche, non mancò – nel 1822 – di visitare, perquattro volte, in carcere, Santorre di Santarosa, che era stato, com’è noto,uno dei più importanti capi dei moti piemontesi.

Per questi motivi durante il regno di Carlo Felice, il marchese CarloTancredi forse non fu, inizialmente, ben visto dal re, mentre era semprestimato (insieme alla moglie) da Carlo Alberto nel suo forzato soggiornofiorentino. Egli si dedicò alle opere letterarie, all’impegno caritativo eall’amministrazione cittadina. Nel frattempo proseguiva nelle carceril’opera della moglie, che era apprezzata sia dalla regina sia dallaprincipessa di Carignano. Tra il 1822 e il 1824 Tancredi scrisse tre operedi letteratura, a sfondo storico e con un evidente influenza delromanticismo: Elsa, novella del secolo XIII; I Sabbioni di Trufarello; LaPittrice e il forestiero. Racconto tratto dalle memorie inedite d’un viaggiatore inItalia.

Nel 1825, poi, egli aprì nel suo palazzo una “sala d’asilo” per bambinidi famiglie povere. Il suo impegno a favore dei ceti più disagiati e inparticolare per l’istruzione si manifestò ancora quando, nel biennio1826-27, fu Sindaco della Città di Torino.

Intanto, nel 1828, lo scioglimento dell’”Amicizia cattolica” da partedel pur reazionario Carlo Felice era segno che forse qualcosa andavamaturando. Nel 1830 la rivoluzione di luglio in Francia riaccese lesperanze dei liberali. Cesare Alfieri scriveva a Federico Sclopis: “Allarivoluzione sono da contrapporre riforme ed ampie riforme...

20 Cfr. A. Mango (a cura di), L’età della Restaurazione e i moti del 1821, Savigliano 1992; G.Marsengo – G. Parlato (a cura di), Dizionario dei Piemontesi compromessi nei moti del 1821,2 voll., Torino 1982-1986; G. De Rosa – F. Traniello (a cura di), Cesare Balbo alle origini delcattolicesimo liberale, Roma-Bari 1996. Più in generale cfr. A. Gambaro, Sulle orme diLamennais in Italia. I. Il lamennesismo a Torino, Torino 1962; E. Passerin d’Entrèves,Religione e politica nell’Ottocento europeo, Roma 1993.

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L’ostinazione, con cui taluni combattono le savie e moderate riforme,arreca immenso danno alla Nazione” e ancora: “L’arbitrio nel governo eil privilegio nell’aristocrazia sono del tutto da bandire”21. Questisentimenti avevano probabilmente eco nelle discussioni in casa Barolo eil riformismo, che esprimevano e a cui anelavano, trovò una risposta colregno di Carlo Alberto che ebbe inizio nel 1831.

Questi primi anni del regno albertino segnano pure il momento piùalto, più felicemente fecondo, più maturo dell’esperienza dei Barolo.Proprio nel dare avvio alle sue riforme istituzionali, Carlo Alberto chieseanche, tra gli altri, il parere del marchese Carlo Tancredi sullacostituzione del Consiglio di Stato e lo nominò pure, nel 1831, membrodi tale Consiglio, carica alla quale ben presto, tuttavia, il marcheserinunciò. Nel 1832 il Barolo era pure chiamato a rivestire la carica diSegretario della Deputazione del Consiglio generale per l’Istruzionepubblica e, nello stesso anno, pubblicava una delle sue opere piùsignificative: Sull’educazione della prima infanzia nella classe indigente. Brevicenni dedicati alle persone caritatevoli, sulla quale occorrerà ritornare.Sempre nel 1832, Pellico entrò in dimestichezza con casa Barolo.

Cominciava intanto a crescere, nell’opinione pubblica piemontese, tragli intellettuali e nella classe dirigente, l’attenzione verso il problema delpauperismo e della carità legale. Su questi temi, molto probabilmente, laposizione del marchese di Barolo non era diversa da quella, ostile alsistema inglese della carità legale, di Cesare Balbo.

Nel 1834 il marchese pubblicava dei Pensieri sopra la pubblica e privatafelicità: un titolo che ricordava espressioni dell’illuminismosettecentesco. Ma certo, sul piano pratico, molto più importante fu lafondazione in quegli anni di due Congregazioni religiose: nel 1833 leSorelle Penitenti di S.Maria Maddalena e nel 1834 le Suore di S. Anna. Èdifficile stabilire quanta parte spetti, in queste fondazioni, al marchese equanta alla marchesa, la quale peraltro – dopo la morte del marito – siimpegnò per entrambe, soprattutto per ottenerne l’approvazionepontificia. Credo che sia più giusto, almeno sul piano degli ideali e degliindirizzi spirituali, considerare fondatori tutti e due i coniugi. Essiinfatti, sia pure in modi diversi e con sensibilità differenti, si

21 Cit. in N. Rodolico, Carlo Alberto negli anni di Regno 1831 – 1843, Firenze 1936, p. 35.

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sorreggevano a vicenda in un impegno caritativo che era ormai, comescrisse il marchese nel suo testamento, “da lungo tempo scopo dei nostricomuni ed incessanti desideri”.

Un esempio di quest’opera insieme comune e diversa, ci viene dallaloro attività in occasione del colera del 1835: il marchese con l’impegnoamministrativo, in quanto Decurione della città; la marchesa conun’assistenza diretta a malati e moribondi, che le valse un pubblicoriconoscimento ma che tenne anche in grave apprensione il marito, ilquale peraltro non la ostacolò. La salute di entrambi fu molto provata e,nel caso del marchese, fu irrimediabilmente minata.

Certo durante l’epidemia colerica si diffusero pure, in ambientipopolari, voci che affermavano che il morbo fosse quasi agevolato dalleclassi ricche per far morire i poveri. E si faceva, a tal proposito, il nomedel re e del marchese di Barolo. Queste mormorazioni, dove lasuperstizione si intrecciava al disagio sociale, ci sono riferite dai ricordidi Costanza D’Azeglio. È impossibile stabilire quanto fossero, in realtà,diffuse e accettate, in che misura cioè fossero realmente rappresentativedella mentalità popolare prevalente. Certo è che, esattamente un meseprima della morte del marchese, il 4 agosto 1838, le Istruzioni segrete alnuovo ministro austriaco accreditato a Torino, Principe diSchwarzenberg, a proposito dei Barolo osservavano: “nome questo che aTorino non si pronunzia se non con grande venerazione”22.

L’improvvisa e drammatica morte del marchese, da lui forsepresagita (nell’anno della sua scomparsa egli aveva pubblicato un’operaascetica dal titolo: Morte e Giudizio ossia il Pellegrino alla Valle di Giosafat)si pone come cifra emblematica della conclusione di quello che hoindicato come secondo periodo.

3. Politica, cultura, spiritualità

Sul piano politico, la posizione del marchese di Barolo potrebbedefinirsi, in qualche modo, intermedia tra quella di Michele Benso diCavour e quella di Cesare Balbo. Vicino al Cavour, anch’egli Decurionedi Torino, sul piano pratico e amministrativo, Tancredi di Barolo era

22 Ibid., p. 352.

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invece in maggiore sintonia con Balbo sul piano delle idee politiche. Èsignificativo che la sua, già citata, opera Sull’educazione, apparsaanonima, sia stata per lungo tempo ritenuta un’opera di Balbo (equalche dubbio, in realtà, permane tuttora). Era una posizione che sipotrebbe definire di moderato riformismo, aliena da ogni estremismo,da ogni esagerazione, da ogni enfasi retorico-passionale astratta e calatainvece nella pratica concreta dell’azione amministrativa pubblica e dellacarità privata. Sul piano ideale si giungeva a un liberalismo inteso comerifiuto della tirannide e dell’arbitrio assolutistico, ideale che era espresso– per esempio – nella tragedia di Pellico Gismonda. Sul piano dell’azionepolitica tali prospettive ideali si vedevano concretizzate nel riformismocarloalbertino. Ma è anche significativo che i coniugi Barolo fossero inamichevole relazione con un ministro di Luigi Filippo, il Duca di Boglie.

La marchesa era meno interessata alla politica, ma partecipava anchelei alle discussioni del salotto di casa Barolo e con ogni probabilità i suoiconvincimenti non dovevano essere in contrasto con quelli del marito.Da fonti ‘solariane’ sappiamo che la contessa della Margarita era deditaalle opere di carità in unione alla marchesa di Barolo e che quest’ultimaera intimissima di casa Solaro23. Non si può dire tuttavia che Solarodella Margarita fosse intimissimo di casa Barolo, anche se – nel 1820 –quando era a Napoli, i coniugi Barolo, in viaggio nella capitalepartenopea, non mancarono d’incontrarlo24. Nelle Memorie dellamarchesa, peraltro, non si citava espressamente mai il nome dellacontessa della Margarita, tra le signore che le erano vicine nel suoimpegno caritativo. Veniva ricordata invece una signora Villamarina,della quale non si sa altro, ma che potrebbe essere in relazione conEmanuele Pes di Villamarina, uno dei ministri di Carlo Alberto piùconvintamente innovatori (e perciò inviso ai conservatori come Solarodella Margarita).

Sul piano degli indirizzi culturali, la posizione dei Barolo può esserecaratterizzata come unione dell’apprezzamento dell’arte classica conuna vibrazione interiore che è romantica. Era un gusto artistico che

23 C. Lovera – I. Rinieri, Clemente Solaro della Margarita, vol. II, Torino 1931, p. 188.24 Occorre tuttavia notare che Solaro in quegli anni non dimostrava ancora unaparticolare propensione verso il confessionalismo gesuitante: cfr. W. Maturi, Il Principedi Canosa, Firenze 1944, pp. 182 – 183.

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appare singolarmente simile a quello del giovane Rosmini25. Come ilroveretano, la marchesa apprezzava Raffaello e Canova e mostrava divoler penetrare lo spirito profondo delle opere dell’arte classica, anchese il suo ideale – come per Rosmini – era quello di un’armonica unionetra arte e cristianesimo. Se l’antichità romana era, per lei, soprattuttotirannia, delitto e paganesimo, in sintonia con tanto romanticismocattolico, ella notava pure che “sta bene che stendasi la signoria dellaChiesa [...] per tutto dove resta qualche traccia dell’antica magnificenzaromana. La provvidenza di Dio ha destinata la signoria della Chiesa, chetutta si fonda e si spiega nella dolcezza, nell’umiltà e nel perdono, adessere l’erede degli orgogliosi e feroci Romani”26. Un valoreemblematico assumevano allora, per lei, come già per Chateaubriand, iprimi martiri, anzi le prime martiri della fede cristiana: lì si consumavail contrasto e insieme il superamento della civiltà romana nelcristianesimo. Scriveva infatti: “Ma com’è possibile che le figlie tenere,che le spose delicate de’ Romani reggessero a tanto scempio? Elle siacconciavano, si profumavano, cercavano di riuscire altrui piacenti,quando scorreva il sangue a rivi sotto i loro occhi, quando, giovani ebelle a par loro, le donne cristiane spasimavano nei tormenti, ed eranostraziate e divorate dalle belve?”27. La decadenza del paganesimo èemblematizzata in questa sconfitta dell’animo femminile, nelle donneromane, mentre la vittoria della fede di Cristo pare brillare nellabellezza muliebre delle giovani martiri.

Si entra qui in una vera vibrazione romantica, che non ha solo fontifrancesi, ma anche inglesi (Byron) e italiane (Pellico e non solo lui).Peraltro sembra esservi pure un intento indirettamente apologetico, nelmodulare che accenti su registri opposti a quelli di certo razionalismo dimatrice illuministica se non massonica. Si pensi, per esempio, a unapagina della Barolo – tra le tante che si potrebbero ricordare – in cui sirivive la notte. Pare quasi una risposta – certo incomparabile sul pianoartistico – a quei versi della Ginestra in cui Leopardi, meditando sul cielostellato, affermava la piccolezza e la nullità della specie umana. Giulia diBarolo scriveva: “Quante stelle! Ai nostri occhi esse non sembrano più 25 Cfr. De Giorgi, La scienza del cuore. Spiritualità e cultura religiosa in Antonio Rosmini, cit.26 G. di Barolo, Viaggio per l’Italia..., cit., p. 86.27 Ibid., pp. 124 – 125.

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che un punto luminoso: eppure sono come altrettanti soli, i qualiriempiono della loro luce un’infinità di mondi, come il nostro. Nulla noisappiamo di quei mondi: ma dicendoci la fede che siamo fatti adimmagine di Dio, e degnandosi Egli di voler essere da noi amato, si puòcredere che siamo una cosa da poco e senza un’alta destinazione? Ah,che quando l’amore e il desiderio si slanciano verso di Voi, mio Dio,quando il mio cuore s’accende al pensiero della grandezza che siete, ealla vista delle opere da Voi fatte, ben sento che deve venire un giorno,in cui conoscerò che sono una grande cosa!”28. Si intravede incontroluce, in questa pagina, la tramatura dei Salmi, ma appare purel’intento apologetico, non solo verso il laico pessimismo leopardiano maforse anche verso posizioni massoniche probabilmente non lontanedagli ambienti da lei frequentati. Nel suo atto di fede, Franklin, nel XVIIIsecolo, aveva affermato: “Così la mia immaginazione s’innalza di là dalnostro sistema di pianeti, di là dalle stesse stelle fisse, fino a quellospazio che in ogni modo è infinito e mi sembra pieno di soli come ilnostro, ciascuno circondato dal suo coro di mondi che gli sta girandoeternamente intorno; e questa piccola palla sulla quale ci agitiamo misembra, anche al lume della mia debole immaginazione, quasi un nulla,e io appaio a me stesso come men niente e senza alcuna importanza”29.Del resto nel Settecento fu Gran Priore d’Italia nella Stretta Osservanzatorinese Carlo Giuseppe Falletti di Barolo30.

Ma la Barolo non si fermava qui, il suo spirito romantico nonconcludeva in un’emozione contemplatrice della natura, bensì sispingeva dall’esterno all’intimo, alla memoria, con un’inflessioneinsieme simbolistica ed introspettiva. Scriveva: “I rami del pioppo, chemi è vicino, mossi dal vento ora coprono, ora mi lasciano vedere unastella. Come splende dolcemente, e come la sua luce trapassa per la

28 G. di Barolo, La notte. (Dalla villa sui colli di Torino), in Ead., Memorie appunti e pensieri,tradotti e pubblicati da G. Lanza, Torino 1887, p. 66.29 B. Franklin, Atto di fede e atto di religione, [20 novembre 1728], cit. in B. Fay, Lamassoneria e la rivoluzione intellettuale del secolo XVIII, Torino 1939, pp. 168-169.30 Cfr. P. Maruzzi, Notizie e documenti sui liberi muratori a Torino nel secolo XVIII, in“Bollettino storico-bibliografico subalpino”, XXX (1928), 1-2 e 3-4; XXXII (1930), 1-2 e 3-4;C. Francovich, Storia della massoneria in Italia dalle origini alla Rivoluzione francese, Firenze1974, pp. 180-182, 252-255, 284-290, 348.

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volta azzurra del cielo senza turbarla punto, od esserne turbata!Sembrami un’occhiata d’amore... Che non esistano cotesti pretesi soli, eche il sorridere di tale stella sia quello d’una delle persone dilette, cui laProvvidenza ha chiamato alla vita prima di noi? Forse quello di miamadre? Non ho avuto la consolazione di conoscerla, eppure l’horimpianta sempre, dacché il cuor mio si è schiuso all’amore. Mia madre,sei tu forse che mi guardi di là? Muovesi la stella... vien giù dal cielo, ècaduta sulla terra. Sarà una benedizione, una lacrima di compassione,che alcuno dei figli benedetti da Dio ha lasciato cadere su questo nostroluogo d’esiglio”31.

La conclusione ritornava poi sul registro che potrebbe definirsi uncontrappunto leopardiano: il pessimismo si superava nella risposta auna chiamata divina, una chiamata di condivisione radicale e disofferenza. La stella cadente, infatti, poteva essere una benedizioneceleste, ma, allora, aggiungeva la Barolo: “Se è un bene, che sia ripartitofra tutti, e non sia io sola a goderlo! Ma pur troppo la mia preghiera èstata esaudita: nulla a me toccò di quel bene: io sono nell’amarezza. Siafatta la volontà di Dio: e se Egli non mi volle felice, devo essere almenoforte e coraggiosa a portare la croce addossatami”32.

Queste ultime notazioni introducono all’ambito della spiritualità.Tuttavia prima di indagare le caratteristiche e le possibili fonti dellaspiritualità dei Barolo, occorre indicare con chiarezza il suo luogospecifico e fondante. È all’interno di questo contesto, di questa strutturafondamentale della loro esperienza umana e religiosa, che vannoinserite tutte le successive considerazioni. Tale luogo è l’amoreconiugale o, meglio, familiare. Si comprende allora come le prime,essenziali fonti della spiritualità dei Barolo siano, per così dire, lorostessi: cioè Carlo Tancredi fu fonte e testimonianza per la spiritualità diGiulia come ella lo fu per lui. Sul piano della spiritualità unaconsiderazione isolata dell’uno e dell’altra, anche se legittima, può peròessere fuorviante, nella misura in cui prescinde dal luogo specifico efondante costituito dal loro reciproco legame.

È significativo, a questo proposito, il ricordo, da parte del Pellico, diciò che gli diceva il marchese: “Ei raccontavami come avesse ognor 31 G. di Barolo, La notte, cit., pp. 66 – 67.32 Ibid., p. 67.

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veduto in Giulietta la più costante aspirazione a perfezionarsi nellavirtù; e ciò ch’egli maggiormente lodava si era che Ella fosse, questierano i suoi termini, la creatura più semplice, più incapace di superbia edi finzione. Mi disse che sebbene dal principio della lor conoscenza eil’avesse amata molto, ora ei l’amava più ancora. Io ascoltava conrispetto e con gioia simili parole d’un uomo tanto nemico delleesagerazioni”33. Questo sentimento di amore coniugale, nellatestimonianza reciproca dei due coniugi, era vissuto come se fossesussunto nell’amore divino, anch’esso avvertito con una connotazionefamiliare. Scriveva Giulia nel 1834: “Io non posso non compiangerecoloro che vivono freddi ed insensibili alle finezze di amore che la bontàdi Dio usa ogni giorno verso ciascuno di noi. Egli ci accarezza a quelmodo che una madre l’unico suo figlio bambino”34.

Su questa base si decantava un’esperienza di fede solida, aliena daesagerazioni devote e da morbosità misticheggianti, pur tanto frequentinel Piemonte della Restaurazione e, in generale, nell’Ottocento religiosoitaliano (basti solo ricordare il caso, di cui allora si occupò la CuriaArcivescovile di Torino, di Carlotta Bongiovanni vedova Cervino, chepretendeva di aver avuto “una visione dello Spirito Santo in forma dicolomba a cui avrebbe strappato la coda e le penne del petto”35).

È significativo un episodio dell’apostolato carcerario di Giulia.Quando una reclusa di nome Isabella, ostile alla fede, sembrò convertirsiin conseguenza di incubi notturni, la Barolo non la assecondò, tanto cheIsabella alla fine si riallontanò. Tale atteggiamento della marchesa sispiegava, come essa stessa scrisse nelle sue Memorie, “volendo [laBarolo], mettere la religione invece della superstizione nel suo cuore”36.Molti anni più tardi, nel 1849, la marchesa biasimava una Maddaleninaper “certe bizzarrie nelle sue divozioni, le quali potrebbero essereinconvenienti per la vita di Comunità. Qualche volta non vuol mangiareminestra, altre volte non vuol mangiare pane per ispirito di penitenza;non c’è verso di farla rinunziare a questi capricci”37. Non meno

33 Pellico, La marchesa Giulia Falletti di Barolo..., cit., p. 72.34 G. di Barolo, Viaggio per l’Italia..., cit., p. 74.35 Cit. in Lovera – Rinieri, Clemente Solaro..., cit., vol.II, pp. 202 – 204.36 G. di Barolo, Memorie..., cit., p. 13.37 Ead., Lettere alle Sorelle Penitenti..., cit., vol. I, p. 37.

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significativo era il fatto che nel 1828, a suffragio dell’anima del padremorto, il marchese non avesse pensato a svariate opere di culto e dielemosina, ma alla sistemazione del Cimitero cittadino e cioè a un’operache, secondo le sue stesse parole, era utile “del pari [al]la salubritàpubblica e [al]la religiosa riverenza dovuta alle ceneri degli estinti”38.

Quest’unione di aspetti civili e religiosi è sintomatica della “regolatadevozione” dei Barolo. Del resto proprio negli anni in cui piùfrequentava il marchese e la marchesa, cioè nel 1837-38, Silvio Pellicoera in contatto con Rosmini e ne leggeva le opere, mostrandoapprezzamento e consenso39.

Su questa base si fondava l’azione caritativa dei Barolo chedimostrava una concezione della carità non pietistica, paternalistica,aristocraticamente distaccata. Non esprimeva cioè l’opera buona delricco verso il povero, implicitamente sottintendendone ladisuguaglianza. Al contrario manifestava, pur con gli ovvi limiti e leforme culturali dell’Ottocento sabaudo, un’esigenza di condivisione,fondata sul riconoscimento della essenziale uguaglianza degli esseriumani. Rievocando il suo primo incontro con le recluse nelle carceritorinesi, la Barolo scriveva: “Tanta loro abbiezione mi fece una pena,una vergogna, che non so rimembrare senza sentirla anche al presente.Dunque quelle infelici ed io eravamo membri d’una stessa famiglia,figlie dello stesso padre, piante per lo stesso celeste giardino? Esseavevano avuto pure un’età d’innocenza! Erano chiamate pure all’ereditàdegli eletti! Come dunque... buon Dio!”40. E più avanti ricordava che ella“non aveva altra mira a venire là se non quella di condividere le loropene, e di recar ad esse tutto il conforto e la consolazione che avessipotuto”41.

Non era però solo condivisione e opera di evangelizzazione e dieducazione (o, meglio, di catechesi): era anche un’educazione chemirava alla promozione personale, con il chiaro fine dell’auto-promozione cioè del recupero della fiducia in sé stessi. Diceva la Barolo:“La prigioniera è una reietta della società, punita dalla giustizia, tradita

38 Cit. in Massé, Un precursore..., cit., p. 14.39 Cfr. M. Fittoni, L’evoluzione spirituale del Pellico, Roma 1957, pp. 138 – 139.40 G. di Barolo, Memorie..., cit., pp. 4 – 5.41 Ibid., p. 9.

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dalle sue complici, bene spesso odiata dalle sue compagne di sventura.Se tu le vai incontro col cuore di un’amica, essa vedendo che vi sonoancora anime buone che l’amano, riprende fiducia in sé, e nel bene”42.Questo indirizzo ideale e il lungo e continuo impegno della Barolonell’ambiente carcerario prepararono, per così dire il terreno,sensibilizzando le élites subalpine, alle riforme del periodo albertino.Carlo Alberto fu infatti il primo dei sovrani italiani che decise diapprofondire seriamente il problema delle carceri: istituì, nel gennaio1833, una commissione incaricata di studiare il sistema carcerariopiemontese e i suoi problemi e di avanzare proposte per un suomiglioramento. La commissione prese in esame le legislazioni degli altripaesi e i diversi sistemi carcerari in Europa e in America. Si giunse cosìalle Regie Patenti del 9 febbraio 1839, che posero il Piemonteall’avanguardia rispetto agli altri stati italiani: si accettò infatti ilprincipio che la prigione dovesse mirare anche alla rieducazione civile eal recupero morale dei detenuti43.

Questo spirito, informato da una vivissima sensibilità per la dignitàdella persona umana, era anche nel marchese il quale, per esempio,osservava che il maggior pregio del nuovo Cimitero di Torino –sistemato, come si è visto, per suo merito – era che ogni persona diqualsiasi ceto, avesse il suo “tumulo distinto e registrato”.

Su questa vita di fede e su questa concezione della carità si radicòl’opera di fondatori di Congregazioni religiose che i marchesi di Barolovennero ad assumere: opera singolare – se ci si fa caso – perché si trattadi due laici, due coniugi, che fondano – acquisendo dunque e

42 Ibid., p. 28.43 Cfr. G. Nalbone, Carcere e società in Piemonte 1770-1857, Santena 1988; V. ComoliMandracci – G. M. Lupo, Il carcere per la società del Sette-Ottocento. Il carcere giudiziario diTorino detto “Le Nuove”, Torino 1974; A. Capelli, La buona compagnia. Utopia e realtàcarceraria nell’Italia del Risorgimento, Milano 1988; U. Levra (a cura di), La scienza e la colpa.Crimini, criminali, criminologi: un volto dell’Ottocento, Milano 1985. Cfr. anche V. Fannini,Il contributo di Giovenale Vegezzi-Ruscalla alla riforma carceraria in Piemonte (1835-1857), in“Rassegna storica del Risorgimento”, LXXV (1989), pp. 21-36; P. Casana Testore, Lariforma carceraria nel Piemonte albertino, in “Studi Piemontesi”, XI (1982), pp. 354-372; C.Bonfanti, La pena di morte nel Piemonte carlo-albertino, in “Annali della FondazioneEinaudi”, XIV (1980), pp. 281-329.

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mantenendo sempre il loro ‘carisma di fondatori’ – istituti di perfezione,dei quali non fanno parte essi stessi.

Tale loro opera va vista nell’ambito di un certo riformismo religiosoche animava gli ambienti cattolici più aperti. È significativo che, qualchetempo dopo la fondazione dell’asilo, i Barolo si rivolgano alle Suoredella Provvidenza di Rosmini44. Al di là del successivo contrasto pratico,che fu occasionato dall’esuberanza entusiastica ma superficiale delLoewenbruck, il prete lorenese confratello del roveretano, occorresottolineare invece proprio questo indirizzarsi dei Barolo verso unIstituto nuovo, anzi nuovissimo e peraltro fondato da quel Rosmini, chein quegli stessi anni scriveva le Cinque Piaghe. Forse a far conoscerel’esperienza rosminiana, apprezzata anche da Carlo Alberto, era stato ilvescovo di Novara, il card. Morozzo, nella cui diocesi risiedeva la CasaMadre dei Rosminiani. Il Morozzo, che stimava molto Rosmini, era pureun frequentatore anzi un intimo di casa Barolo.

D’altra parte, proprio in quegli anni, dal 1832 al 1837, il Morozzopresiedette quella Commissione vescovile che, su insistenza di CarloAlberto, fu creata con breve pontificio per predisporre le riforme delclero regolare negli Stati Sardi. Nonostante l’impegno del Morozzo laCommissione non approdò a nulla, anche per le numerose opposizioniai suoi lavori. Essa tuttavia nasceva in conseguenza del Memoriale, che,nel 1831, Carlo Alberto aveva rivolto al papa, proponendo la drasticasoppressione degli Ordini religiosi contemplativi e affermando: “Adeccezione di un ordine di Solitari per servire di rifugio a grandipeccatori, a uomini che avessero provato grandi afflizioni, comesarebbero i Trappisti, non si dovrebbero conservare per il bene stessodella Chiesa, se il Papa lo approva, che gli Ordini di una utilitàsegnalata: quelli che predicano le missioni, che aiutano i curati nelle loromansioni parrocchiali, quelli che curano i malati negli ospedali, quelliche educano la gioventù. I beni degli Ordini soppressi dovrebberoessere ripartiti fra quelli che sarebbero conservati o che venisserofondati”45. È interessante quest’ultimo accenno a nuove fondazioni: in

44 Cfr. A. Valle, Rosmini e i fondatori religiosi, in F. Esposito – U. Muratore (a cura di),Antonio Rosmini e il Piemonte, Stresa 1994, pp. 197 – 211; G. Chiosso, Rosmini e i rosminianinel dibattito pedagogico e scolastico in Piemonte (1832 – 1855), ibid., pp. 79 – 128.45 Cit. in Nada, Dallo Stato assoluto allo Stato costituzionale..., cit., p. 108; Rodolico, Carlo

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effetti le due Congregazioni religiose ‘baroliane’ nacquero nel 1833 e nel1834, proprio durante i lavori della Commissione presieduta daMorozzo. Esse si inserivano in questo moto di riformismo religiosoalbertino: erano infatti dedite a educare la gioventù. Se eranocontemplative, lo erano in quanto “rifugio di grandi peccatori”.

Dal punto di vista delle modulazioni peculiari e delle fonti dellaspiritualità dei Barolo si può osservare che essa presentava caratteri‘misti’: era, in qualche modo, al di qua della discriminante gesuitismo-antigesuitismo, che più tardi, si sarebbe posta, soprattutto – ma non solo– ad opera di Gioberti.

Indubbiamente nel mondo spirituale baroliano, in particolareattraverso la marchesa, filtrava un’eredità della tradizione spirituale diLanteri e, soprattutto, di Guala: non tanto però nelle sue movenze piùchiaramente ignaziane e gesuitiche, quanto piuttosto nel riferimento a S.Francesco di Sales e alla spiritualità salesiana, peraltro fortementepresente in Piemonte. Ma accanto a questa matrice, una seconda apparealtrettanto significativa ed è quella oratoriana: la spiritualità, cioè, diS.Filippo Neri (ben conosciuto e citato dalla marchesa) e del B.Sebastiano Valfrè. Parlando della chiesa di S. Filippo, che egli riteneva“la più bella di Torino”, il marchese Tancredi scriveva: “Nuovo lustro leha accresciuto di recente la Beatificazione del Venerabile P. Valfrè dellaCongregazione dei Sacerdoti regolari Filippini, da’ quali viene ufficiataquella Chiesa e Parrocchia, nostro compaesano anzi quasi coetaneo, edesempio impareggiabile di carità evangelica”46. Molto più tardi, nel1858, scrivendo a Suor Maddalena Alfonsa, superiora delle Penitenti delBuon Pastore, Giulia di Barolo le chiedeva di pregare S. Francesco diSales e il B. Sebastiano Valfrè: “pregate per me questi due Santi cosìdistinti per dolcezza, umiltà di cuore e carità verso il prossimo. Se

Alberto negli anni di Regno 1831 – 1843, cit., pp. 263 – 267. Ho approfondito questi aspettiin due studi di prossima pubblicazione: Il problema della riforma del clero e l’origine delle“Cinque Piaghe” (nel volume degli atti del Convegno, tenutosi a Milano nel novembre1997, su “Le Cinque Piaghe della Santa Chiesa” di Antonio Rosmini); Giuseppe Morozzodi Brianzé. Personalità, indirizzi pastorali e riformatori, rapporti con Rosmini (in un volumededicato alla storia della diocesi di Novara).46 T. Falletti di Barolo, Le Letture Geografiche, in Massé, Un precursore..., cit., p. 85.

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potessero ottenerci da Dio quelle virtù da loro praticate, quanto sarebbefelice la nostra sorte in questo mondo e nell’altro”47.

Non bisogna dimenticare, poi, che – subito dopo la morte delmarchese – fu cappellano di casa Barolo Andrea Ighina, alloragiovanissimo48. Se non conosciamo i suoi orientamenti spirituali deltempo, tuttavia dalle sue, più tarde, Istituzioni di Ascetica e Mistica sipossono trarre due indicazioni che paiono significative: l’esaltazionedell’opera del card. Bona De divina Psalmodia (e ciò ben si accordava conla predilezione della marchesa per i Salmi); la sottolineatura dellachiamata alla perfezione e alla santità per tutti i fedeli, religiosi e laici,operata ricorrendo ampiamente all’opera Sulla perfezione cristiana delValfrè49.

4. Idee pedagogiche e iniziative educative

L’importanza dei Barolo, in particolare del marchese Carlo Tancredi,nel campo pedagogico ed educativo, è soprattutto legata, com’è bennoto, all’istituzione degli asili infantili. Non mi pare rilevante la vecchiadiscussione sulla primazia cronologica tra il Barolo e l’Aporti nellafondazione del primo asilo in Italia. Più significativa, invece, è laquestione relativa alla differenza d’impostazione tra le due iniziative. Sedunque nell’Aporti prevaleva l’attenzione agli aspetti educativi pergiungere poi alle implicazioni sociali e civili, nel Barolo sembravaprevalere l’interesse per i problemi sociali dai quali partire per ricavarel’indicazione sulle iniziative scolastiche necessarie e sugli opportuniindirizzi educativi50. Tuttavia occorre fuggire da troppo schematiche

47 G. di Barolo, Lettere alle Sorelle Penitenti..., cit., vol. II, p. 49.48 Pellico, La marchesa Giulia Falletti di Barolo..., cit., p. 94.49 Cfr. I. Colosio, Le “Istituzioni di teologia ascetica e mistica” di A. Ighina (1815-1906) e laspiritualità nell’Italia dell’Ottocento, in AA.VV., Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861– 1878). Comunicazioni, vol. II, Milano 1973, pp. 51 – 103.50 Secondo Massé: “L’Aporti, I. R. Direttore della Scuola Elementare Maggiore diCremona, è un tecnico della Scuola e un burocrate, tutto infervorato della recenteconquista della istruzione popolare, che pensa solo ad essa e alla sua regolamentazione;il Marchese di Barolo è un solitario uomo di cuore e di studio; ossia egli è il gentiluomosenza figli che ha dedicato l’opera sua e il suo vasto patrimonio ai figli della poveragente, e il sociologo che vuole andare incontro a un nuovo e più sentito bisogno sociale

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contrapposizioni: l’attenzione ai problemi sociali non era solo, per ilBarolo, il momento iniziale e, insieme, la ragione dell’impegno, era piùesattamente la dimensione co-essenziale alla riflessione pedagogica, laquale non poteva svolgersi in maniera dottrinaria ed astrattaprescindendo dalle precise e particolari condizioni dell’ambiente nelquale si operava. Vi era, dunque, uno stretto e continuo rapportodialettico, tra le idee pedagogiche – che, certo, avevano una loroautonoma fondazione razionale – e la situazione storico-sociale diriferimento, secondo una metodologia non dogmatica ma regolatasull’esperienza.

Del resto le difficili condizioni di vita dei ceti più poveri,specialmente urbani, nell’età della Restaurazione si aggravaronomaggiormente a causa della forte crescita demografica: in Italia, com’ènoto, il saggio medio d’incremento fu del 3,7 per mille nel periodo 1770-1820 e del 6 per mille nei decenni successivi. Gli Stati Sardi di terrafermacontavano, nel 1838, circa 4.125.000 abitanti (con l’incremento del 10,8per mille negli ultimi dieci anni). La mortalità infantile si mantennealtissima e, nel primo quarantennio dell’Ottocento, il numero deibambini abbandonati e ricoverati in brefotrofi (nei quali molti peraltromorivano per lo stato in cui versavano) era quadruplicato51.

Le condizioni di vita nelle campagne erano malsane: il granocoltivato era riservato ai padroni, il mais per gli agricoltori e per ilbestiame. La pellagra era dunque molto diffusa52. Ma le abitudinialimentari dei contadini e dei poveri di città erano in generale essenziali

[…]. Per l’Aporti la formula indicante la gerarchia dei fini era: istrire-educare-ricoverare;quella del Marchese è capovolta: ricoverare-educare-istruire; per l’uno è la Scuola chefinisce per diventare Ricovero, per l’altro è il Ricovero che si trasforma in Scuola”(Massé, Un precursore…, cit., p. 40).51 Cfr. G. Da Molin, L’infanzia abbandonata in Italia nell’età moderna. Aspetti demografici diun problema sociale, Bari 1981; F. Della Peruta, Infanzia e famiglia nella prima metàdell’ottocento, in “Studi Storici”, 20 (1979), pp. 473-491; M. Gorni – L. Pellegrini, Unproblema di storia sociale. L’infanzia abbandonata in Italia nel secolo XIX, Firenze 1974. Cfr.anche G. Muttini Conti, La popolazione del Piemonte nel secolo XIX, Torino 1962; G.Mellano, La popolazione di Torino e del Piemonte nel secolo XIX, Torino 1962.52 Cfr. A. De Bernardi, Il mal della rosa. Denutrizione e pellagra nelle campagne italiane fra‘800 e ‘900, Milano 1984; G. Coppola, Il mais nell’economia agricola lombarda (dal secolo XVIIall’unità), Bologna 1979.

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e quasi primitive e furono aggravate da fame ed epidemie. Ilpauperismo si diffondeva: dopo il 1816-17 la grande crescitadell’accattonaggio ripropose il tema di case di alloggio e lavoro per lamendicità. A Torino e a Milano si eressero “Pie case di ricovero eindustria”. Ma nel complesso i ceti subalterni e perfino gli artigiani e lapiccola borghesia erano guardati con sospetto dalle classi dirigenti chene temevano azioni eversive dell’ordine pubblico e del sistemapolitico53.

Il crollo delle istituzioni del periodo napoleonico aveva distruttoanche i timidi tentativi di intervento assistenziale pubblico (ovviamentegestito centralisticamente dall’alto in funzione di controllo e didisciplinamento sociale)54. L’opera di aiuto ai poveri e di sollievo alledifficili condizioni dei tanti marginali (accattoni, prostitute, esposti, ecc.)fu lasciato interamente a carico della beneficenza privata: cioè o dellafilantropia laica o, più spesso, della carità cristiana. Fiorirono leiniziative cattoliche e sorsero pure numerose congregazioni religiosenuove con specifici scopi di apostolato sociale: il Piemonte fu uno deicentri più importanti di questo moto di carità sociale che avrebbeportato, più tardi, alle iniziative di Cafasso, Cottolengo, Bosco55. Lenuove congregazioni si dedicavano, prevalentemente, all’aiuto deipoveri e anche quando il loro impegno si esplicava soprattutto in ambitoeducativo, aveva tuttavia sempre alla base l’impulso a sorreggere i ceti

53 Cfr. R. Audisio, La “Generala” di Torino. Esposte, discoli, minori corrigendi (1785-1850),Santena 1987; Aa. Vv., Timore e carità. I poveri nell’Italia moderna, Cremona 1982; R.Roccia, Il Ricovero di Mendicità di Torino dal 1840 al 1846, in “Studi Piemontesi”, X (1981),pp. 72-91; P. Stella, Don Bosco nella storia economica e sociale 1815-1870, Roma 1980; M. G.Bravo – A. Agosti (a cura di), Storia del movimento operaio, del socialismo e delle lotte socialiin Piemonte, I. Dall’età preindustriale alla fine dell’Ottocento, Bari 1979; G. Ponzo, Stato epauperismo in Italia: l’”Albergo di virtù” di Torino 1580-1836, Roma 1974.54 Cfr. Aa. Vv., Povertà e beneficenza tra Rivoluzione e Restaurazione, Napoli 1990; D.Maldini, Malati e malattie in Piemonte nel periodo napoleonico, in “Sanità, Scienza e Storia”, I(1984); Id., La legislazione napoleonica e il pauperismo in Piemonte, in “Storia urbana”, n. 13,(1980); Id., Pauperismo e mendicità a Torino nel periodo napoleonico, in “Studi piemontesi”,VIII (1979).55 Cfr. L. Piano, L’opera assistenziale e sociale degli istituti religiosi in Piemonte nell’800, in F.N. Appendino (a cura di), Chiesa e società nella II metà del XIX in Piemonte, CasaleMonferrato 1982, pp. 306-327.

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subalterni e a sottrarli, per quanto possibile, alla miseria. Solo dagli anni‘30 si aprì un dibattito sulla “carità legale”, ma per giungere ad efficaciinterventi pubblici in ambito sociale e assistenziale ci sarebbe volutoancora del tempo. In generale l’opera dei governi si limitò agli ospedalie agli interventi nel campo della sanità e dell’igiene (con una certaattenzione ai problemi delle sepolture, delle reti fognarie, degli impiantidi acqua potabile), soprattutto a causa delle disastrose epidemie: nel1817 l’area padana fu infestata dal tifo petecchiale, mentre nel 1835-37 enel 1854-57 si ebbero in tutto il nord d’Italia due grandi ondateepidemiche di colera. Anche il vaiolo faceva ancora paura: nel 1828-29 aTorino forse solo il 60% dei bambini era vaccinato (i non vaccinati eranosoprattutto, ovviamente, i figli dei poveri)56.

In questo contesto dunque si inseriva l’opera del marchese di Barolo(e si è già visto il suo impegno in occasione delle epidemie coleriche,come pure la sua attenzione al problema delle sepolture). Tra il 1825 e il1829 i Barolo cominciarono ad accogliere nel loro palazzo alcunibambini, seguendo l’esempio delle sale d’asilo aperte a Parigi, fin dal1820, per opera della loro amica la marchesa di Pastoret. Nel 1829,secondo la testimonianza del Pellico, le sale di ricovero in casa Baroloerano due, per circa duecento bambini: tra il 1832 e il 1834 furonoaffidate alle rosminiane Suore della Provvidenza, ma in seguito aidissidi – ai quali si è già fatto cenno – il marchese nel 1834 avviò lafondazione delle Suore di Sant’Anna (affidate alla direzione spiritualedel p. Francesco Pellico). Successivamente anche la contessa EufrasiaValperga di Masino seguì l’esempio dei Barolo. Nel 1838 poi CarloAlberto aprì due sale nella parte della residenza reale vicina allescuderie, chiamandovi come maestre appunto le Suore di Sant’Anna.Nello stesso anno si fondava a Torino – e riceveva l’autorizzazione regia– la “Società delle scuole infantili” di indirizzo aportiano (il primo asilo

56 Cfr. C. Manganelli – B. Mantelli, Colera e consenso. Autorità, borghesia, popolo nelleepidemie del 1835-37 e del 1854-56 ad Alessandria, in Aa. Vv., La cultura delle classi subalternefra tradizione e innovazione, Alessandria 1988, pp. 191-225; M. Preto, Epidemia, paura epolitica nell’Italia moderna, Roma-Bari 1987; G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanitàin Italia, Torino 1984; G. Pastore, L’organizzazione ospedaliera del Comune di Torino per ilcolera del 1835 e l’opera di Roberto d’Azeglio, in Atti del II Congresso di storia ospedaliera,Torino 1961.

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aportiano in Piemonte fu aperto a Rivarolo Canavese nel 1837),promossa, tra gli altri, da Carlo Boncompagni, Camillo Cavour, CarloCadorna57.

Le idee pedagogiche sottese all’opera dei Barolo furono esplicitatenell’opera, apparsa anonima a Torino nel 1832, Sull’educazione della primainfanzia nella classe indigente. Brevi cenni dedicati alle persone caritatevoli.Non ci sono prove assolutamente sicure sulla paternità dell’opera, daalcuni – come il Ricotti – attribuita al Balbo e da altri – come il Massé –rivendicata al Barolo. È probabile che le idee espressevi fossero maturatenel sodalizio intellettuale ed etico-politico tra il Barolo e il Balbo. Èsicuro, comunque, che esse corrispondessero ai disegni e aiconvincimenti del marchese, come risulta dal confronto con altri, piùtardi, suoi interventi.

Lo scritto mostra, fin dal titolo, come l’opera degli asili avesse per ilBarolo una valenza essenzialmente educativa e non prioritariamente di“carità soccorrevole”. Egli avanzava dunque una visionedell’educazione che – fondandosi sull’unità psicosomatica di mente ecorpo58 – partiva dalla fisiologia per affermare la preminenzadell’educazione “fisica” sull’educazione “morale” nella prima infanzia,età alla quale, peraltro, egli attribuiva un’importanza fondamentale sulpiano educativo:

Comunque vogliasi giudicare la questione cotanto dibattuta, se più la natura ol’educazione influisca sul carattere dell’uomo e sopra ogni suo portamento, nonv’ha dubbio che dalle prime impressioni sì fisiche che morali ricevutenell’infanzia dipenda in moltissimi casi il tenore dell’intera vita. Perciocché,

57 Cfr. R. Bettica, Storia della società delle scuole infantili di Torino dal prerisorgimento ad oggi,in “I Problemi della Pedagogia”, (1978), 6, pp. 811-840 e (1979), 1, pp. 37-54; W. Ballerini,Le scuole infantili in Piemonte nel Risorgimento, in “Levana”, (1925), 6, pp. 448-469.58 Scriveva: “Infatti è cosa certa che quella porzione dell’indole umana che si vuoleattribuire alla sola natura dee ragionevolmente considerarsi come effetto di unadeterminata struttura, o piuttosto di una combinata disposizione degli organi sensitivied intellettuali; e che questa venendo variata, mentre è ancora recente e flessibile, per viad’impressioni esterne sì fortuite che procurate, ha pure da mutare a seconda di essaquell’indole che suole chiamarsi naturale” (Sull’educazione della prima infanzia nella classeindigente. Brevi cenni dedicati alle persone caritatevoli, Torino 1832, ripubblicatointegralmente in Massé, Un precursore…, cit., p. 49).

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mentre l’istruzione dell’anima innegabilmente vi giova per una parte, le curedirette alla sanità del corpo ed allo sviluppamento delle sue facoltà riescono perl’altra parte a migliorare, correggere e quasi rimpastare ne’ primi anni dellafanciullezza l’indole fisica avuta dalla natura. Onde si può dire con verità chenella della doppia educazione dell’età più tenera trovansi accoppiate ambe leinfluenze sulla preponderanza delle quali si disputa da lungo tempo.[…] Inoltre la fisiologia c’insegna e l’esperienza dimostra che, nello sviluppodell’umana organizzazione rapidissimo sul primo albore della vita, i giornivalgono quanto i mesi, ed i mesi quanto gli anni dell’età matura. Ogni vagito,ogni maluzzo, il latte che si succhia, l’aria che si respira, una infasciaturaincomoda, od una moderata libertà di moti snelli e vivaci, sono tutte cose che inbreve tempo producono effetti durevoli, e talvolta per sempre. Si badi ancora chein quella età appunto in cui le impressioni fisiche sono per sé più profonde, equasi indelebili, esse non incontrano opposizione in quelle altre che l’animo ècapace d’accogliere solamente più tardi, molto meno nella formidabile possanzadell’abitudine chiamata, a buon diritto una seconda natura; cosicché esse soleregnano sopra tutte le facoltà, e le predispongono efficacemente ad ogniimpressione ulteriore.Si deve dunque conchiudere che, se l’educazione morale è la più utile per lagioventù, la fisica è la più opportuna per l’infanzia59.

L’educazione fisica aveva poi, secondo il Barolo, una ancoramaggiore importanza per la “classe indigente”: la robustezza del corpo –che avrebbe pure diminuito gli eventuali effetti di malattie ereditarie econgenite – era necessaria per i lavori manuali con i quali i ceti più bassipotevano procurarsi il vitto, fuggendo l’ozio forzato e la conseguentemendicità (inevitabile e perciò giustificata in presenza di condizionifisiche precarie) con indubbi vantaggi per la “pubblica prosperità”. Viera allora una ricaduta sociale rilevante, nel senso di un utilitarismo checomprendeva tutti i ceti: “Non si può dunque negare, che nell’interesseuguale del ricco e del povero, del pubblico e dei privati, ogni cura presadella prima educazione fisica della classe indigente sia per produrre unbene incalcolabile”60.

L’attenzione del Barolo non era perciò rivolta all’istruzioneelementare, per la quale peraltro esistevano opere private e pubbliche

59 Ibid.60 Ibid., p. 50.

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per quanto forse non soddisfacenti61, ma alla “prima educazione dellaclasse indigente”, per la quale in quel momento non esisteva nulla:

Molteplici istituzioni di governo o di religiosa beneficenza provvedono bensìall’insegnamento gratuito dell’età giovanile tosto ch’essa si suppone capace diriceverlo; e dove poi una cristiana disciplina forma il complemento di siffattaistruzione che talvolta, quantunque elementare, si troverebbe ancor troppoanticipata per essere di molto frutto, nulla da tal canto vi rimane a desiderare. Maquesta età supposta capace vien fissata per lo più ai cinque o sei anni; e intantoche s’ha da fare dei fanciulli dappoiché cominciano a reggersi in piedi sicchéarrivino a quella età? […] Si risponderà che vi sono ospedali e ricoveri di variespecie, nei quali si ricevono gli esposti, i ragazzi abbandonati, e quelli de’ quali ilsostentamento è dimostrato impossibile nelle proprie famiglie. Ciò è verissimo,ed un gran bene fanno queste Opere pie. Ma son rare, e necessariamente limitate;e di più si richiedono molte condizioni perché i fanciulli vi siano ammessi. […]Inutile poi riesce il parlare di certe donne, le quali mercé una modica retribuzionesi spacciano per maestre e guardiane dell’infanzia. Oltreché la più tenue spesasupera le forze di una famiglia miserabile, si sa quanto valgano le cure interessatedi queste persone. Tuttodì se ne scorgono le funeste conseguenze; niuno vi bada;cosicché abbandonati alla durezza e alla trascuranza di tali pretese educatrici ifanciulli soffrono tante volte assai più di quel che soffrirebbero in casa62.

Il marchese di Barolo non guardava dunque ad un’operaessenzialmente di assistenza, ma ad una vera istituzione di educazione:tuttavia inseriva questo suo disegno nel reale contesto storico-sociale,che descriveva con indubbia efficacia. Parlava allora degli infantiaffidati ai fratelli maggiori, delle madri che si portavano i figli sul posto

61 Cfr. Aa. Vv., Scuole professori e studenti a Torino. Momenti di storia dell’istruzione, Torino1985; G. Chiosso, Educare e istruire il popolo a Torino nel primo Ottocento, in Aa. Vv., Chiesae prospettive educative tra Restaurazione e Unificazione, cit., pp. 201-251; Id., La gioventù“povera e abbandonata” a Torino nell’Ottocento. Il caso degli allievi-artigiani della MendicitàIstruita (1818-1861), in J. M. Prellezo (a cura di), L’impegno di educare. Studi in onore diPietro Braido, Roma 1991, pp. 375-402; M. Roggero, L’alfabeto e le orazioni. L’istruzione dibase in Piemonte nel primo Ottocento, in “Rivista Storica Italiana”, CIII (1991), n. 3, pp. 739-787; R. Berardi, Scuola e politica nel Risorgimento. L’istruzione del popolo dalle riformecarloalbertine alla legge Casati (1840-1859), Torino 1982; E. De Fort, Problemi dell’istruzioneprimaria in Piemonte dalla Restaurazione alla formazione dello Stato unitario, in “Bollettinostorico-bibliografico subalpino”, LXXV (1975), pp. 685-703; G. Griseri, L’istruzioneprimaria in Piemonte (1831-1856), Torino 197362 Sull’educazione della prima infanzia…, cit., p. 50.

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di lavoro, dei bambini lasciati soli in casa63: mostrava lacune, difetti,rischi e pericoli di queste soluzioni di ripiego. Una buona soluzionepoteva essere la beneficenza privata verso il ricorso a vedove di buonacoscienza o verso le vicine delle famiglie che si volevano beneficare. Ma,osservava il marchese, “simili carità parziali rimangono insufficienti e dipochissimo frutto per la massa generale”. Sulla base di una buonaconoscenza delle nuove esperienze in campo europeo, la soluzione eradunque un’altra. Egli la descriveva con parole che indicavano unindirizzo modernamente aperto a un riformismo illuminato:

Vi sarebbe certamente da meravigliarsi, e da far prendere il cuore umano inpeggior concetto di quanto merita, se in un secolo d’universale filantropia, edanche la Dio mercé, di soda ed illuminata beneficenza non si fosse pensato, o pervera carità, o per saggia politica ad accrescere i beneficj in qualche proporzionecolle cresciute miserie, a ragguagliare i maggiori mezzi alla maggiorpopolazione, ed a provvedere con buoni ammaestramenti al progresso deibisogni intellettuali che la forza dell’incivilimento spinge nelle classi ancheinferiori ad onta di qualunque ostacolo.Perciò appunto fra varie idee di simil genere venne, non ha guari, alla mente dialcune persone caritatevoli il pensiero di raccogliere in un sito sicuro il maggiornumero possibile di ragazzi maschi e femmine incapaci ancora di frequentare lescuole ordinarie, e quivi di custodirli durante il giorno, onde porre in libertà ilresto della famiglia, impiegando tale spazio di tempo in tutte le cured’educazione fisica e morale più adatte alla tenera età.Un sì felice divisamento dovea essere premiato da un felice successo. Questoinfatti corrispose per ogni punto all’aspettazione; tal che nel corso di pochi annivarii stabilimenti di tal sorta furono creati in Inghilterra, in Francia, e nellaSvizzera co’ varii nomi di scuole a maestre (dame schools), scuole di bambini(infant schools), o stanze di ricovero (salles d’asyle), e sempre in ogni luogo consommo vantaggio dell’indigenza. Il loro accrescimento rapido, le virtù di chi lipromosse, lo stato prospero in cui si trovano bastano a dimostrare l’eccellenzadel sistema generale che servì loro di base64.

Il Barolo valutava dunque positivamente tutte le esperienze: siaquelle inglesi, istituite da Owen e da Buchanan e sviluppate poi daWilderspin, sia quelle francesi aperte a Parigi dalla marchesa diPastoret, dalla signora Millet e da Denys-Cochin. Tutte, a suo parere,

63 Ibid., pp. 50-51.64 Ibid., p. 52.

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rispondevano a reali e urgenti bisogni sociali e, pur nella diversità,erano informate a buoni principi. Non c’era una preferenza per le‘cattoliche’ scuole francesi, ma neppure un riferimento privilegiato(com’era invece per Aporti, per cui fu osteggiato da esponenti dellagerarchia cattolica) alle ‘protestanti’ scuole inglesi.

Il marchese indicava poi i punti educativi essenziali, dandosignificativamente la preminenza ai bisogni fisici (cibo nutriente, ariabuona, temperatura adeguata, pulizia, ma anche “libertà di motosalutare, tenor di vita allegro e regolato”) rispetto ai bisogni morali,inclusa l’istruzione religiosa, peraltro prevista: “Men numerose sipossono dire le cure necessarie alla sua educazione morale, sia perchél’intelligenza ancora limitatissima non vuole essere stancata, sia perchéqueste cure che riuscirebbero per lo più inutili si trovano indirettamentecompensate da quelle altre date alla parte fisica”65.

Nello scritto si parlava poi dell’adeguatezza dei locali. Dovevanoessere a pian terreno, ariosi e giustamente ventilati, luminosi, riscaldaticon una stufa d’inverno. Non sarebbe bastata una sola stanza maalmeno due, precedute da un andito chiuso, con in più “un ricettoattiguo” per le latrine “da dividersi in varii compartimenti, e daadattarsi all’uso di quelle piccole creature”. Era poi necessario ungiardino o almeno un cortile, così che i bambini potessero senza pericolo“godere aria libera, abbandonarsi ad ogni gioco, a ogni esercizio,rotolarsi sull’erba molle, correre e scherzare a loro piacimento”. L’asilodoveva possibilmente situarsi in una zona vicina alle abitazioni popolario ai luoghi di lavoro dei genitori. Vi era poi la descrizione dellesuppellettili necessarie e delle loro giuste caratteristiche percorrispondere all’uso particolare dell’asilo.

A proposito dei criteri di ammissione, si indicava l’età, l’indigenzadella famiglia (che “non è sempre l’indigenza assoluta, ma molte voltequella che può dirsi relativa”) e poi si sviluppava un’interessante esignificativa riflessione – ancora una volta indice di mentalità nonangustamente chiusa o paternalistica e di una sensibilità educativaprima ancora che caritativa – sulla moralità dei genitori:

65 Ibid., pp. 52-53.

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E qui nascerà forse nelle persone caritatevoli il dubbio se si abbiano da preferire ifanciulli di que’ genitori la cui buona condotta risulta dalle prese informazioni, ei quali perciò sembrano più meritevoli d’ogni riguardo benefico. Altre anzicrederanno che di simil cosa non si possa nemmeno dubitare; e, a dir vero, unatale preferenza sarebbe giustissima quando si trattasse di un semplice sussidio,d’una limosina, d’una carità ordinaria. Ma qui s’ha da prendere di mira ilvantaggio presente e futuro dei fanciulli, ossia la loro educazione fisica e moralecon tutto quell’avvenire importantissimo che ne sarà la conseguenza. Dunqueappunto l’oggetto capitale dell’istituzione richiede che si accettino talvolta primadegli altri i figliuoli di persone viziose e biasimevoli onde toglierli dai pericoli, edallontanarli dal cattivo esempio. Conviene in tal caso rassegnarsi a questapreferenza, e superare il ribrezzo che si potrebbe provare pensando al verospirito di carità oculata ed imparziale, che deve sempre dirigere e contrassegnarequesto genere di beneficenza66.

Ad ogni modo occorreva, secondo il marchese, raccomandare aigenitori ed esigere in ogni maniera l’osservanza delle indispensabilinorme “di pulizia e di buoni trattamenti verso la loro prole”, penaaddirittura l’esclusione dalla scuola. Motivo d’esclusione dovevanoessere pure le malattie contagiose, non però altre malattie, problemi omalformazioni fisiche:

Tutte le altre infermità dell’infanzia non devono mai essere ostacoloall’ammissione, anzi talvolta motivo di preferenza, poiché chi conosce l’internodelle famiglie povere sa quanto vi si trovino infelici i fanciulli contraffatti oindisposti, spesse volte trattati con un’asprezza quasi barbara e tale dasorprendere chiunque non rifletta al pregio esclusivo in che il basso popolo tienele facoltà corporali, siccome quelle di cui egli prova giornalmente l’importanza67.

Descrivendo poi una giornata scolastica ideale, il Barolo parlava dellarefezione ed esprimeva un parere favorevole a che i pasti (con unaminestra calda, specialmente d’inverno) fossero provvisti dalla scuolastessa, anche se non era questo l’indirizzo seguito nelle esperienzeeuropee alle quali si era precedentemente riferito68. Trattava poi

66 Ibid., p. 55.67 Ibid., p. 56.68 Scriveva: “La verità è che quel cibo che il più de’ fanciulli portano seco è scarso pertutto un giorno. […] Altronde questo cibo, oltre l’essere sempre freddo, il che nellastagione invernale poco giova alla salute, si può dire anche piuttosto insalubre

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dell’istruzione, della ricreazione e degli esercizi fisici, sempre conl’avvertenza di concedere frequentemente libertà per il gioco. Aproposito dell’istruzione notava:

Il tempo che trascorre fra le tre refezioni s’impiega in varie pratiche tutte brevi etutte frammezzate, onde adattarsi all’indole dell’età più tenera. Lezioni dicatechismo, ammaestramento ora nel leggere l’alfabeto ed al più nel primosillabare, ora nel far calze od altri lavoretti, preghiere, racconti di storia sacra,canto di lodi, passeggiate regolari, salti e giochi possono succedersi ed alternarsicon regolare avvicendamento.L’imparare le lettere e le sillabe sul quadro elementare […], o con piccolicartoncini che si usano per l’infanzia, richiede un’applicazione materiale che nonpuò essere lunga, ma che avvezza i parvoli a fissare qualche poco la loroattenzione, e che poi ripetuta sovente gli abilita a passare col tempo nelle scuolepubbliche superiori. L’insegnamento del catechismo, da replicarsi più d’ognialtro, si può dire eziandio alquanto materiale in una età in cui l’intelligenza nonarriva a capir tanto. Tuttavia l’inculcarne almeno le parole di continuo giunge adimprimerle nella memoria, ove rimangono pronte per la successiva età che saràpoi capace di concepirne il senso, e d’intenderne le spiegazioni69.

componendosi, a riserva di un po’ di pane o di qualche patata, per lo più di cacio ed altrilatteruoli, di castagne, di noci, o di frutta immatura. Pesati tuttavia tali riflessi, non si ècreduto nel maggior numero degli stabilimenti fatti sinora di dover sopperire a verunadelle refezioni dei fanciulli; e, a dir vero, se si ha riguardo soltanto ad un risparmio percui si possono agevolare le altre spese, ed allo scopo principale dell’istituzione, questosistema non si può biasimare. Basti qui l’avvertire che la spesa d’un sistema diversoregolata con prudente economia non è poi ragguardevole quanto si potrebbe credere,trattandosi solamente di provvedere verso la metà del giorno una minestra ben caldafatta ora con riso, ora con paste, ed ora con farina di meliga o patate, sempre cotta alpunto che si riduca in una certa consistenza, e condita poi con sale e pochissimo burroad esclusione di olio, lardo, erbe, legumi e cose simili. La distribuzione di tali minestrepuò limitarsi al tempo freddo, o continuarsi sino all’estate, o surrogarsi allora conqualche altro cibo salubre di poco costo. Comunque si faccia, si recherà sempre unvantaggio reale alla salute dei fanciulli; e chi vorrà riflettere quanto sia tenue questaspesa (vale a dire di quattro centesimi incirca per ogni minestrina), e quindi osservarecome dopo alcuni mesi di simile nutrimento quelle piccole creature mutino aspetto,umore, e quasi complessione, non esiterà certamente ad allargare la mano in unbeneficio di tanta conseguenza per la robustezza e lo sviluppo fisico dell’infanziaindigente” (ibid., pp. 56-57).69 Ibid., p. 57.

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Ma interessanti erano anche le indicazioni sulle ricreazioni e sugliesercizi fisici:

Il canto di piccole lodi composte per la fanciullezza li diverte senza stancarli; anzigiova a sfogare per la parte della voce quel bisogno di spendere e sviluppare leneonate facoltà del corpo, che nel frequente schiamazzo e nel moto continuodell’infanzia manifestasi apertamente. Per tale riflesso appunto si devonointerrompere con ricreazioni d’esercizio corporale non solo gl’insegnamenti, maanche le altre ricreazioni nelle quali i fanciulli non si muovono, come sarebbero icanti, la spiegazione delle immagini, ed i racconti di Storia sacra da farsi loro adesclusione d’altri men buoni, e tanto più delle solite scempiaggini e fole popolari.[…]Ciò posto gli esercizi corporali s’hanno da permettere, e da promuovere non solodopo il desinare, ma dopo tutte le applicazioni di mente un po’ continuate,comeché possano parer brevi alle persone mature. Il lasciar saltare i fanciulli,correre e scherzare a piacimento è cosa assolutamente necessaria, purché non siperdano mai di vista. Anzi è pur necessario che le maestre scherzino con essi, es’adattino con bontà ai loro divertimenti. Per impedire poi la soverchiaconfusione che nascerebbe in breve, sono utilissimi alcuni esercizi condotti dallemaestre, come certe camminate a guisa d’evoluzioni in cui si va mutando esconvolgendo l’ordine delle file, od anche per i ragazzini più piccoli asomiglianza di processioni che li divertono moltissimo70.

Si nota in queste riflessioni la sottostante influenza della spiritualità edell’esperienza filippine, le quali, come si è visto, segnarono in modosignificativo la personalità del marchese di Barolo: si presentava dunqueun quadro educativo declinato sulla spontaneità e l’allegria, sullagaiezza e quasi si direbbe su un certo lieto disordine. Tipico del metodofilippino era pure l’uso didattico dei canti e della musica. E infatti ilBarolo suggeriva: “Finalmente il sonare di quando in quando unorganino, o qualche altro istromento volgare giova non poco a frenarequell’interminabile strepito per cui si sfoga dapprima il fanciullo,quindi, prolungandolo di troppo, rimane spossato di forze esbalordito”71. Così pure, nel metodo educativo baroliano non avevanogrande importanza punizioni e premi. Se mai occorreva avere in

70 Ibid.71 Ibid.

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quest’ambito, da parte degli educatori, molta discrezione e delicatezza72.Nel premio si doveva osservare “misura, equanimità e giustizia”,nell’encomio delle virtù si doveva evitare ogni allusione a eventuali vizidei genitori, i castighi dovevano essere miti e non si dovevaassolutamente mai far ricorso a castighi corporali73: “Conviene pertantoriprenderli con molta dolcezza, insistere con molta pazienza e castigarecon molta sobrietà”. Metodi più efficaci erano il buon esempio e lasincerità schietta, senza incoraggiare la delazione:

Per ottenere la veracità nei parvoli importa prima d’ogni cosa il dar loro il buonesempio, non ingannandoli mai, nemmeno pel vantaggio di essi. Ed a ciò badinoseriamente le maestre, e le persone da cui sono dirette, essendo errore comune,principalmente fra il popolo, il deludere i fanciulli per qualche buon fine, otalvolta per intimorirli, cosa da proibirsi rigorosamente. Non si esiga la veritàinutilmente; non si ponga, per quanto si può, il fanciullo nel caso di dover direuna bugia per isfuggire un castigo, ma si mostri sempre una indulgenza sommaverso chi confessa il vero; si procuri anche di non incoraggiare la delazione, e sipuniscano severamente le false accuse74.

Notevole era pure, in questo contesto del metodo pedagogico, unriferimento cautamente positivo al mutuo insegnamento delle scuolelancasteriane. Com’è noto, l’insegnamento reciproco aveva avuto, dal1818, una significativa diffusione nel Regno di Sardegna75, si era poi 72 Scriveva: “Le punizioni e le ricompense nell’equilibrio delle quali si fa volgarmenteconsistere l’arte di educare i fanciulli, e di governare gli uomini, sono da studiarsi conriflessione, e da pesarsi scrupolosamente. Esse formano come una leva morale cheappena toccata dalla robusta mano dell’età matura può gravitare immensamente sull’etàpiù tenera” (ibid., p. 58).73 Osservava pertanto: “In qualunque caso i castighi corporali devonsi proscrivere tuttisenza eccezione. Ogni benché minima battitura, ogni atto collerico, i pugni, i calci, iceffoni, lo scuotere le braccia, il pigliar pegli orecchi, e pe’ capelli si proibiscanoassolutamente come cose dannosissime a que’ corpiccioli, e fatte per indurire ed avvilirei cuori. Né si tollerino nelle maestre veruno dei cattivi trattamenti che si vannorimproverando ai genitori” (ibid.).74 Ibid.75 Cfr. G. Vidari, L’Educazione in Italia dall’Umanesimo al Risorgimento, Roma 1930;Gambaro, Sulle orme di Lamennais in Italia, I, cit., pp. 37-40. Più in generale cfr. L.Pazzaglia, Chiesa, società civile ed educazione nell’Italia post-napoleonica, in Aa. Vv., Chiesa eprospettive educative tra Restaurazione e Unificazione, cit., pp. 35-65; G. Calò, Insegnamento

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aggiunto uno sviluppo in Lombardia, sostenuto dagli intellettualiraccolti attorno a “Il Conciliatore” e, in particolare a FedericoConfalonieri76 (il quale, più tardi, avrebbe pure conosciuto la marchesadi Barolo, attraverso la mediazione del Pellico, rimanendonefavorevolmente impressionato77). Scuole lancasteriane sorsero in altreparti d’Italia. Tuttavia, con la repressione che seguì ai moti del 1821, ilmovimento cominciò un inarrestabile declino in tutta l’Italiasettentrionale. Esso era osteggiato, in particolare dagli ambienti cattolicipiù retrivi e nello stesso Stato pontificio, con Leone XII, se ne proibì ladiffusione. Il Barolo nella sua operetta del 1832 richiamava, dunque, la“maniera d’insegnamento simultaneo, che nelle scuole di parecchiistituti religiosi, come nelle Lancastriane, giova a risparmiar tempo,spesa e fatica”78. Il richiamo, per quanto si è detto, era effettivamentesignificativo, anche se appariva dettato non tanto da dottrinarismopedagogico o da motivi ideali extra-scolastici quanto da una sorta dirilettura filippina del mutuo insegnamento (del quale peraltro siriconosceva, in modo neutro e distaccato, l’esistenza di critiche). Così,sottolineando l’importanza della “amorevolezza reciproca” e della“scambievole affezione” tra i bambini dell’asilo, aggiungeva: “Siosservano spesse volte fanciulli più avanzati o di miglior cuore cheprendono a proteggere uno o parecchi dei loro compagni: è facile allorail prevalersi di simili disposizioni per agevolare l’andamento delle cosefacendo che da que’ tali siano assistiti ed ajutati gli altri in varieoccorrenze. Né si tema d’incorrere nei vizi dell’insegnamento mutuo,pe’ quali il metodo Lancastriano viene da molti rimproverato. Non sitratta qui d’ammaestramento ripetuto o di superiorità che possa destarela superbia in quei petti giovanissimi, o fare ostacolo a quella

mutuo, in Id., Pedagogia del Risorgimento, Firenze 1965, pp. 59-67; Aa. Vv., Problemiscolastici ed educativi nella Lombardia del primo Ottocento, Milano 1977, vol. I.76 Cfr. F. Della Peruta, Confalonieri e la modernizzazione, in G. Rumi (a cura di), FedericoConfalonieri aristocratico e progressista, (n. 14 dei Quaderni della “rivista Milanese diEconomia”), Roma-Bari 1987, pp. 80-105.77 Cfr. G. Gallavresi, (a cura di), Carteggio del conte Federico Confalonieri ed altri documentispettanti alla sua biografia, Milano 1911.78 Sull’educazione della prima infanzia.., cit., p. 57.

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ubbidienza cui hanno da piegare per tempo colla massimaperseveranza”79.

Per quanto riguardava “la scelta de’ soggetti che hanno da custodire,servire ed ammaestrare i parvolini”, il patrizio subalpino era convintoche dovessero essere donne, sia perché naturalmente portate alla curaamorevole dei piccoli sia perché “più sovente disoccupate, più facili adessere dirette, e di più tenue salario”. Aggiungeva poi le caratteristicherichieste nelle educatrici:

Prima di tutto però si ha da esigere una moralità religiosa e specchiata, cuidebbono venir dietro la carità, dolcezza, pazienza grande, amore dell’ordine edella pulizia. Giovani ben conosciute per tali qualità, e che abbiano vissuto inqualche ritiro sotto un’austera disciplina, sono ottime per quest’ufficio inmancanza di vedove di buona età rimaste senza famiglia, e che si sappiano pureben fornite di tutte le sovra citate virtù. Queste hanno di più pregio di conosceregià l’indole, i bisogni, e per dir così il linguaggio dell’infanzia. In tutte poi sirichiede una buona complessione onde reggere ad una fatica lieve sì, ma non maiinterrotta, il saper leggere e scrivere, il conoscere bene il catechismo ed un pocodi storia sacra, oltre quei piccoli lavori che si possono insegnare alla prima età.Due maestre bastano a cento e più ragazzi80.

Il marchese di Barolo concludeva dunque la sua trattazioneribadendo la sua fiducia nelle istituzioni educative per la prima infanziaindigente, ma anche non nascondendo il suo timore “che certeparticolarità di esse, meno conformi alle idee e alle abitudini di alcunepersone, possano forse allontanare da cotesta istituzione, anzi chemuovere a suo favore, il genio nazionale già poco propenso per lenovità”81. E tuttavia, alludendo all’esperienza direttamente fattanell’asilo da lui istituito nel suo palazzo, assicurava che talianticonformistiche particolarità erano saldamente fondate “nella scienzaben cognita dell’educazione umana”.

79 Ibid., p. 58.80 Ibid., p. 54.81 Ibid., p. 59.

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5. Dopo la morte del marchese: verso il gesuitismo

Una notevole modificazione di prospettive e di accenti si ebbe dopola morte di Tancredi e fino alla scomparsa della marchesa, cioè nelperiodo che va dal 1838 al 1864. Sul piano generale si può dire chel’esperienza della marchesa si espandesse e si essenzializzasse ad untempo. Si espandeva sul piano pratico, con l’opera educativa eassistenziale ma anche con molti impegni di tipo giuridico canonico,giuridico civile, amministrativo e organizzativo. Si essenzializzavaperché si perdeva quell’ampio orizzonte di interessi culturali e ideali, didibattiti, di incontri e di viaggi. Si perdeva totalmente la riflessionepedagogica e lo spessore teorico che accompagnava la prassi educativa.Si perdeva soprattutto il quotidiano confronto della marchesa col marito– decisivo, come si è visto, nell’ambito della valutazione complessivadegli eventi storici e dell’atteggiamento verso i processi dimodernizzazione, che proprio in quel periodo, peraltro, conoscevanouna decisa accelerazione – e ciò in qualche modo provocava unachiusura e un ripiegamento della nobildonna e ben poco poteva lavicinanza del Pellico.

Le presenze spirituali più significative attorno alla Barolo furonoallora quella di Isnardi, che riportava alla tradizione di Lanteri e delle“Amicizie”, ma anche quella del vincenziano Durando82, che avvicinavaalla spiritualità caritativa francese, e poi quelle di Cafasso, di Borel e diBosco e cioè della tradizione spirituale ‘sociale’ piemontese. Ella siinteressò, insieme a Solaro della Margarita, dell’introduzione delleSacramentine in Piemonte e nella sua spiritualità comparvero elementitipicamente gesuitici come la devozione al S. Cuore.

Del resto se ella protestava, spesso e in varie forme, di non occuparsidi politica, tuttavia si avverte un distacco ostile rispetto all’evoluzionepolitica interna del Piemonte liberale, alle istanze laicizzatrici emodernizzatrici come pure al processo di unificazione nazionale: questieventi non rientravano più, nemmeno indirettamente, come invecesuccedeva quando ancora era vivo il marito, nel suo orizzonte di

82 Sul Durando cfr. L. Chierotti, Il P. Marcantonio Durando, Sarzana 1971; N. Ghidetti,Marcantonio Durando (1801 – 1880), in Appendino (a cura di), Chiesa e società nella II metàdel XIX secolo in Piemonte, cit., pp. 394 – 396.

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attenzione e di interesse. La “sua atmosfera”, come disse Canonico, eraun’altra. Sempre per usare le parole di Canonico, la sua atmosfera eraquella “delle beneficenze più minute e di ogni momento: di fanciulliabbandonati ed esposti che ritirò e fece educare [...]: di 200 minestre chedistribuiva ai poveri ogni giorno dell’anno, coll’aggiunta di carne ebrodo nei dì festivi: dei pranzi che dava ogni lunedì a 12 poveri da leistessa serviti e confortati d’amiche parole: delle larghe distribuzioni dilegna per parecchie migliaia che faceva nei mesi più rigidi: dellesovvenzioni particolari, a questo per fondare un negozio, a quello perdotare una figlia, a quell’altro per riscattare i pegni, o prevenire unfallimento”, la sua atmosfera, ancora, era quella “del modestissimovestire, del prelievo ch’ella faceva sui pasti d’ogni giorno, già frugali persé, a favore dei poveri convalescenti: dell’ordine mirabile che teneva inogni cosa, e specialmente nella distribuzione del tempo, per cui pur unistante non cadeva perduto”83.

La sua esperienza si essenzializzava e così la sua spiritualità, la cuinota più vera e profonda – al di là dell’assunzione di altri elementi,anche gesuitici – non era quella ignaziana e, appunto, gesuitica, maquella francescana e, anzi, cappuccina. Si ricordi che lo stesso CarloAlberto tanto spesso accusato di gesuitismo, si era scelto comeconfessore un cappuccino, Fulgenzio da Carmagnola84, allontanandodalla corte il gesuita Grassi, che aveva avuto invece molta influenza aitempi di Carlo Felice. La marchesa, nel 1845, a Roma, forse anche per icontatti con il cappuccino Giusto da Recanati, si affiliò ai Minori di S.Francesco e ai Cappuccini. Dispose che, dopo morta, il suo corpo fossecomposto nella bara col vestito dei Terziari francescani e che, ai suoifunerali, fossero i Cappuccini del Monte di Torino ad accompagnare ilferetro. Quest’intonazione spirituale si esprimeva nella predilezione perdevozioni tipicamente francescane come quella della Via Crucis (ellastessa compose delle meditazioni per questa pia pratica85) enell’insistenza sulla virtù della semplicità.

83 Canonico, Sulla vita intima..., cit., pp. 17 – 18.84 Cfr. P. Savio, Padre Fulgenzio da Carmagnola, in “Italia francescana”, 1937 e successivi(saggio pubblicato in varie puntate).85 G. di Barolo, Scritti spirituali, cit., pp. 4 – 29.

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Il suo concentrarsi sull’essenziale portava anche a una proiezioneescatologica, a un guardare – pur stando nel secolo – oltre l’orizzonteterreno, a quella realtà soprannaturale nella quale, come le insegnava lafede, il marito l’aveva preceduta. Nel 1837, nel Piccolo Diario che avevadedicato alla marchesa, Silvio Pellico (che nel 1852, peraltro, si sarebbefatto anch’egli Terziario francescano) aveva scritto: “Come amo le paroledi Gesù dopo il mistero della Trasfigurazione! Surgite et nolite timere.Egli vuole che noi ci alziamo, che non abbiamo paura, né pusillanimità,ma il coraggio e la fiducia dell’amore. Egli vuole che noi lo guardiamonon nella sua gloria, il cui splendore è insostenibile alla nostra debolevista, ma nella sua umanità infelice e sofferente, simile alla nostra, neisuoi giorni di oscurità e di sacrificio, di agonia e di morte. GuardiamoGesù umiliato, perseguitato, crocifisso, amiamolo, seguiamolo senzatemere nulla! Sappiamo che egli può e vuole trasfigurarsi quando saràtempo, manifestarsi in tutta la sua potenza e in tutta la sua bellezzadivina. Sappiamo che nel giorno così prossimo della nostra morte, sequesta morte sarà cristiana, lo vedremo così trasfigurato, potente, felicee la sua felicità sarà la nostra”86.

Oltre dieci anni dopo, nel 1849, nel pieno della tempesta politica e alprofilarsi della ripresa della guerra, Giulia di Barolo spiegava, in unalettera, il sigillo che si era scelto e che recitava: Sursum Corda. E talespiegazione esprimeva il suo stato d’animo e la sua spiritualitàprofonda, negli anni successivi alla morte del marito. Ella scriveva:“Sursum Corda vuol dire su i cuori! Su in Cielo i pensieri, su in Cielo leaffezioni, su in Cielo i desideri, la mente, le brame, gli occhi, ecc. BenchéDio sia dappertutto, finché siamo nel nostro inviluppo materiale, c’èsempre un po’ di materiale nei nostri paragoni ed espressioni. È cosaconvenuta di mettere sempre in Cielo, Iddio, in alto. Dunque il miosigillo è una predica ed una giaculatoria. Lo trovo adatto ai tempipresenti; quel che si passa sopra la terra non è molto bello. Hannoscacciato il Papa da Roma, l’Arcivescovo da Torino, ecc. ecc. Però noninquietatevi, la Madonna ci protegge visibilmente. Siate senza pauradegli Austriaci, la pace si fa. Coraggio! Sursum Corda!”87.

86 S. Pellico, Piccolo Diario, in G. di Barolo, Viaggio per l’Italia..., cit., p. 203.87 G. di Barolo, Lettere alle Sorelle Penitenti..., cit., vol. I, p. 32.

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Anche nelle suoi ultimi sviluppi, dunque, l’esperienza autentica dellaBarolo rimaneva non completamente assimilabile al gesuitismo. Ellarestava fedele alle posizioni che aveva condiviso col marito fino aglianni ‘30, a quella stagione culturale e spirituale che poteva ancoracongiungere l’apprezzamento per i gesuiti con il riformismo albertino,con il liberalismo di Cesare Balbo, con l’interesse per Rosmini. Ma itempi erano ormai mutati e quella sintesi, decisamente superata, nonpoteva più neppure essere compresa nella sua giusta luce. La marchesaappariva espressione del gesuitismo anche agli occhi dei maggiori e piùtipici esponenti del gesuitismo stesso. E forse, nell’Ebreo di Verona, ilnotissimo romanzo antirisorgimentale del p. Bresciani, il personaggiodell’”eroica donzella brettona Stilita contessa di Kersabiech, la qualeseguì la varia fortuna della duchessa di Berry nella guerra dellaVandea”88 e che il gesuita presentava all’opera per un apostolato nellecarceri femminili, costituiva una sorta di romanzata controfigura dellamarchesa Giulia di Barolo.

88 A. Bresciani, L’Ebreo di Verona. Racconto storico-romanzato che tocca i tempi dal 1848 adoggidì, vol. II, Bologna 1851, p. 301. Su quest’opera che ebbe una vastissima diffusionepopolare cfr. almeno F. De Sanctis, “L’Ebreo di Verona” del Padre Bresciani, in Id., Saggicritici, a cura di L. Russo, vol. I, Bari 1952, pp. 44-70.

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CAPITOLO III

ROSMINI E L’EREDITÀ FILIPPINA: EDUCAZIONEDEL CUORE

1. Formazione, indirizzi culturali, spiritualità

Nel periodo che va dalla fine del ‘700 – e più precisamente dallasoppressione della Compagnia di Gesù (1773) e dall’ultima condannadel giansenismo con l’Auctorem fidei (1794) – ai primi decenni dell’800 lacultura cattolica italiana attraversò un periodo di raccoglimento, che fucerto di difficoltà a causa delle vicende storico-politiche più generali, mafu anche di maggiore unità interna e di serio lavoro intellettuale. Nellaprima metà del XVIII secolo – e in particolare durante il pontificato diBenedetto XIV – vi erano state accese polemiche che avevano portato gliagostinisti ortodossi (Noris, Bellelli, Berti) a convergere con i tomisti percreare un fronte rigorista, antigesuitico (e perciò antimolinista eantiprobabilista), fautore di una “regolata devozione” nello spiritomuratoriano. Al contrario, negli ultimi anni del secolo e poi durante ilpontificato di Pio VII, anche per gli esiti filorivoluzionari di moltiesponenti del giansenismo ribelle e soprattutto per la furiascristianizzatrice del biennio giacobino e per il successivocesaropapismo napoleonico, si realizzò una convergenza tra agostinistied ex-gesuiti, non solo per motivi di opportunità difensiva e dunque suregistri culturali estrinseci, ma anche per un maggiore approfondimentointellettuale che il sopirsi delle polemiche interne aveva favorito. Questoperiodo di serenità ad intra e di lavoro culturale ebbe termine negli anni‘30 del XIX secolo, quando il rinnovamento etico-politico europeo apertodalla rivoluzione di luglio, da una parte, e l’avvento alla guida dellarinata Compagnia di Gesù del p. Roothaan (ma anche di altri suoi

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collaboratori come il p. Bresciani) di duri e rigidi sentimenti antiliberalie antimoderni, dall’altra, posero le premesse per un riaccendersi dellepolemiche tra le nascenti espressioni del cattolicesimo liberale o, meglio,conciliatorista e l’intransigentismo gesuitico.

Nel 1841-42 Antonio Rosmini stese, com’è noto, l’operetta Ilrazionalismo teologico, per difendersi dagli attacchi che gli avevavoindirizzato, con notevole e ingiustificata virulenza, alcuni padri gesuiti,con opuscoli di velenosa polemica. In tale saggio, rimasto inedito epubblicato postumo (ma con notevoli mutilazioni, tra le quali una partesignificativa del brano che ora citeremo), riferendosi appunto agli anni‘30, egli scriveva:

Erano già trascorsi più di sessant’anni senza che apparissero nella Chiesa diquelle accuse apertamente false e calunniose, che avevano sì contristati i duesecoli precedenti. La qual dolce tranquillità delle cattoliche scuole doveasi <allasoppressione della Compagnia di Gesù, nella quale era entrata sgraziatamentel’infezione della dottrina razionalistica, e per la sua indole aggressiva,guerreggiava con ogni maniera d’armi i teologi cattolici che dissentisser da lei,soppressione decretata dalla santa Sede Apostolica col breve 21 luglio 1773.Doveasi ancora> alla sapientissima bolla, con cui la santa Sede avea repressi ifunesti attentati di Pistoja. Poiché determinando quella Bolla, sempre maimemorabile, in che precisamente consistesse l’errore, avea tagliate dalla radice ledispute che fossero potute insorgere tra cattolici; né poteanvi essere più che duesole parti, quella de’ figliuoli docili alla Chiesa, e quella de’ manifesti refrattarialla sua parola. Che se l’incredulità del secolo, e le gelose sue pretensioni nonavessero dato mano a’ ribelli, questi si sarebbero spersi come la polvere al vento.Tutti i cattolici <in fatti> di buona fede stavano uniti tra sé, e certi di quello chedovean fare; ed incontro al corpo de’ fedeli e de’ pastori, così ammaestrati econcordi, niun errore, che sempre è di pochi a principio, può mantenersi. Laondele antiche discordie e calunnie cadevano in obblivione. Né io avrei avutonecessità di rammentarle, non avrei avuto occasione di farci sopra così doloroseriflessioni, se improvvisamente non si fossero veduti girare nel pubblico quegliopuscoli troppo oggimai conosciuti, ne’ quali si mostrò di nuovo, teologicamenteacconciato, lo spirito di razionalismo, insidiante, se non erro, alle più importantiverità di nostra fede, sotto coperta di difender la fede. E si mostrò coll’antico suocarattere dell’aggressione e della calunnia1.

1 A. Rosmini, Il razionalismo teologico, a cura di G. Lorizio, Roma 1992, pp. 60-61.Sull’opera rosminiana si veda l’ottima introduzione del Lorizio (pp. 11-31) e, più ingenerale: G. Lorizio, Antonio Rosmini Serbati. 1797-1855. Un profilo storico-teologico, Roma

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Nel periodo di serenità e unità interna, a cavaliere tra i due secoli, sivenne dunque articolando e svolgendo una stagione culturale cattolicache ebbe tre caratteristiche fondamentali: una tensione ‘enciclopedica’intessuta della tradizione di erudizione settecentesca che si rifaceva allalezione muratoriana, l’attenzione alle tematiche educative, la sensibilitàper il problema missionario.

La personalità per molti versi più emblematica di questo periodo eraquella del cardinale barnabita Giacinto Sigismondo Gerdil, al quale eraparticolarmente legato l’ambiente piemontese e savoiardo, ma altre sene possono ricordare: Cancellieri, Mai, De Rossi, l’Accademia diReligione Cattolica e il circolo che si riuniva attorno a Cappellari aRoma, Morcelli, Labus, Brunati e gli ambienti della BibliotecaAmbrosiana in Lombardia, Cesari tra il Veneto e il Trentino, Andres eScotti a Napoli. Per non dire di Anton Maria Grandi, GiuseppeMezzofanti, Gabrio Piola e dei più giovani – allora alle prime prove –Gioacchino Ventura, Raffaello Lambruschini, Ferrante Aporti, fino aManzoni e allo stesso Rosmini.

Nel 1824, in un suo discorso sui Meriti di Pio VII e del clero verso laletteratura, Angelo Mai tracciava un quadro storico della culturacattolica, soprattutto nell’epoca moderna e più recente, che appareparticolarmente interessante per il carattere per così dire ‘irenico’ che locontraddistingueva. Mai infatti metteva insieme ecclesiastici che eranostati esponenti di posizioni culturali e spirituali un tempo fieramentecontrapposte, rivendicandoli tutti a merito e decoro della religionecattolica. Ricordava dunque gli studiosi di teologia ed eresiologia:“Bossuet, Noris, Nonnotte, Berger, Guenée, Gotti, Valsecchi, Noghera,Spedalieri, Tassoni: e tra’ viventi di un Marchetti vescovo, Cappellari, ede-la-Mennais”2. E aggiungeva ancora: “dal Baronio insino a noi quantigrandi corpi di storia ecclesiastica abbiamo dai preti, dal Fleury, dal du-Mesnil, dal Tillemont, dal Rinaldi, da Natale Alessandro, dall’Orsi, dalBercastel, dal Saccarelli? […]. Trattarono […] Mamacchi e Zola le originicristiane […]; gli annali italici il massimo Muratori. […] E sacerdoti 1997.2 A. M. [A. Mai], I vicendevoli uffici della religione e delle arti. Meriti di Pio VII e del clero versola letteratura. Discorsi due, Bergamo 1825, p.45.

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filosofi più presso a noi sono Erasmo, Gassendo, Uezio, Pascal, Stellini,Muratori, Condillac, Genovesi, Soave, Spedalieri, Gerdil, e cento altri,che per comune consenso son maestri del vero. […] E il principato degliArcadi in Roma fu quasi sempre tenuto da preti. E nella pura linguadell’Arno quanti ecclesiastici maestri siano dal B. Jacopone e da S.Caterina sanese insino al vivente Cesari, è ci vuole un volume intiero ariceverne i nomi”3. Appare veramente sorprendente l’accostamento, perlimitarsi a pochi nomi, di Pascal e Zola a Marchetti e Cappellari. Maancor più significativo è il fatto che Mai facesse culminare la tradizionedi studi storici filologico-eruditi in Muratori, gli studi filosofici inGerdil, gli studi letterari in Cesari. Erano appunto Muratori, Gerdil eCesari i grandi Lumi di questa sorta di enciclopedismo cattolico.

Mai era egli stesso, com’è ben noto, un filologo e uno storico erudito.Ma in lui si possono ritrovare anche gli altri aspetti caratteristici cheabbiamo già indicato come propri di questa stagione culturale. Egliinfatti fu segretario della Congregazione di Propaganda Fide e si occupòdel problema delle missioni. Ebbe pure una particolare attenzione perl’educazione. Il 21 agosto 1816, rispondendo a una richiesta di RaffaelloLambruschini, gli scriveva:

A Lei saranno notissimi i piani di studi del La Harpe, del Condillac, e del Gaietti.Anche dal Rollin si possono trarre buone cognizioni e da altri simili trattatistifrancesi. Il piccolo libro de ratione studendi del Tuverney non è pregevole. Essa sache anche il Card. Gerdil tratta questa materia, e altri innumerabili. Pare che labase di un piano di studi sia lo stabilire generosi stipendi a’ Professori, e far lorosperare anche gli onori. Honos alit artes omnesque trahuntur ad studia gloria. Finché icomodi della vita ed anche umane considerazioni non si fanno sperare al merito,questo non nascerà. Giova moltissimo agli studi il favorire la stampa, ilcommercio facile de’ libri, il carteggio co’ letterati esteri, e mettersi in grado disapere ciò che si stampa ed opera nel mondo letterario. Perciò associarsi aiGiornali scientifici di varie nazioni, comperare gli Atti di Lipsia, di Gottinga, diParigi, di Londra, etc. etc. e procurarseli sollecitamente per le poste a spese de’pubblici stabilimenti. Vorrebbe eliminarsi quasi da ogni scuola la barbarie deldettare scritti, introdurre la vera ed utile critica, bandire le questioni vane emassimamente i partiti. I pubblici saggi vorrebbero essere veramente dotti egrandiosi con ampie ricompense. Levare in alta riputazione la savia ed utileteologia, unirvi la sacra storia, la cronologia, l’ermeneutica, e diffondere l’uso

3 Ibid., pp. 48, 61, 64.

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della lingua greca ed ebraica, ma più della greca. Mettere cattedre di altematematiche, di numismatica e di ogni archeologia, e favorire assai l’arte deldisegno, che tanto ingentilisce gli spiriti4.

Anche qui si può notare un certo irenismo o eclettismo del Mai, cheuniva indicazioni nel senso della tradizione pedagogica gesuitica – e ciònon sorprende considerando la sua stessa formazione – con altre esternea tale tradizione. Egli faceva riferimento, come si è visto, ai volumi di LeLicée ou Cours de Littérature ancienne et moderne, pubblicati a Parigi nel1799 da Jean-François La Harpe, al Piano ragionato di educazione diCondillac (tradotto in italiano da Giuseppe Muratori e stampato aMilano nel 1773), a Il giovane istruito di Geminiano Gaietti (uscito aVenezia nel 1759 e che ebbe una notevole fortuna), nonché – almeno perqualche aspetto – a De la manière d’enseigner et d’étudier les belles-lettres,par rapport à l’esprit et au coeur (4 volumi pubblicati a Parigi nel 1726-28)di Charles Rollin. Ma sembrerebbe che, anche nel campo educativo, ilriferimento conclusivo principale sia sempre Gerdil, che in effetti avevasvolto un’opera notevole tanto nella riflessione pedagogica quanto nellamodernizzazione dei piani degli studi5.

A questa temperie culturale, a questa ‘stagione gerdiliana’ dellacultura cattolica italiana vanno indubbiamente riportati tanto laformazione di Antonio Rosmini6 quanto anche il decantarsi delle lineeportanti dei suoi indirizzi culturali e della sua visione pedagogica7. Egli

4 A. Mai, Epistolario, a cura di G. Gervasoni, vol. I (1799-1819), Firenze 1954, pp. 147-148.Mai stese poi, nel 1821, una lettera-relazione sulla riforma universitaria e dei seminari.5 Cfr. A. Bianchi, Istruzione e modernizzazione dei “curricula” scolastici in Italia alla metà delSettecento: i piani degli studi di G. S. Gerdil, in “Annali di storia dell’educazione e delleistituzioni scolastiche”, 2 (1995), pp. 117-162; Id., Scuola e lumi in Italia nell’età delle riforme(1750-1780). La modernizzazione dei piani degli studi nei collegi degli ordini religiosi, Brescia1996.6 Cfr. A. Valle (a cura di), La formazione di Rosmini nella cultura del suo tempo, Brescia 1988.Ma è sempre fondamentale F. Traniello, Società religiosa e società civile in Rosmini, Bologna1966. Più in generale cfr. P. Zovatto (a cura di), Introduzione a Rosmini, Stresa-Trieste1992.7 Sulla pedagogia di Rosmini si veda soprattutto: L. Prenna, Dall’essere all’uomo.Antropologia dell’educazione nel pensiero rosminiano, Roma 1979; L. Lanfranchi, Genesi degliscritti pedagogici di Antonio Rosmini, Roma 1979. Cfr. anche D. Morando, La pedagogia diAntonio Rosmini, Brescia 1948; A. Gambaro, Antonio Rosmini nella pedagogia del

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fu amico di Labus e di Brunati, di Piola e di Manzoni, conobbe a RomaCancellieri, Mai, De Rossi, fu aggregato all’Accademia di ReligioneCattolica e fu in strettissimo ed intimo rapporto col Cappellari. Nellasua prima giovanile formazione roveretana fu decisiva l’influenza dellatradizione muratoriana storico-erudita che a Rovereto aveva avuto, nelXVIII secolo, un grande rappresentante in Girolamo Tartarotti-Serbati:Rosmini lesse le maggiori opere del Muratori e ne fu fortementeimpressionato. Nel successivo periodo universitario a Padova, ad operadel suo maestro Baldinotti, egli fu introdotto alle problematichekantiane ma soprattutto al pensiero di Gerdil. Tanto nel periodoroveretano quanto in quello padovano, Rosmini ambiva a concepire ungrande e unitario disegno intellettuale e culturale: una sorta dienciclopedia informata dallo spirito della religione cattolica. Questatensione enciclopedica – che era come si è visto in sintonia con uno deicaratteri più tipici della cultura cattolica nella ‘stagione gerdiliana’ –rimase poi sempre presente in Rosmini8, anche se andòprogressivamente evolvendosi, articolandosi e modificandosi.

Muratori e Gerdil, dunque, ma anche il terzo dei tre grandi Lumi che,come si è visto, Angelo Mai aveva evocato nel 1824: Antonio Cesari,filippino dell’Oratorio di Verona. L’ambiente culturale di Rovereto ebbe– tra il Settecento e l’Ottocento – numerosi e stretti contatti conl’Oratorio di Verona e, in particolare, proprio con il p. Cesari, celebreletterato e intimo amico degli intellettuali roveretani come ClementinoVannetti (del quale scrisse pure una biografia). Il Cesari visitava spessoRovereto, frequentando Beltrami, Pederzani, Lorenzi: in questisoggiorni gli accadde pure, tra l’altro, di essere ospite di casa Rosmini.Appunto al Cesari, com’è noto, si rivolsero nel 1814 i genitori delgiovane Antonio quando questi manifestò l’intenzione di farsisacerdote: essi speravano che il filippino lo avesse potuto dissuadere9.

Risorgimento, in “Rivista Rosminiana”, 56 (1962), n. 2-3, pp. 196-233; G. Calò, Attualitàdella pedagogia di Rosmini, in Id., Pedagogia del Risorgimento, Firenze 1965, pp. 671-696; G.Bonafede, La pedagogia di Antonio Rosmini, Palermo 1972; A. Bernard, Pédagogie, théorie etpratique de l’éducation chez Antonio Rosmini, Manosque 1980.8 Cfr. K.-H. Menke, Ragione e rivelazione in Rosmini. Il progetto apologetico di un’enciclopediacristiana, tr. it. Brescia 1997.9 Cfr. G.B.Pagani-G.Rossi, Vita di Antonio Rosmini, Rovereto 1959, vol.I, pp. 83-84. Cfr.

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Ma in realtà Cesari si accorse della genuinità della vocazione e strinseanzi col giovane un’amicizia, insieme, intellettuale e spirituale che, senon può forse dirsi un intenso sodalizio, fu però certo gravida diconseguenze per l’influenza cesariana sul Rosmini. Del resto, giustoqualche anno prima, nel 1812, il filippino veronese aveva scritto aproposito dell’autorità dei genitori e dei doveri dei figli verso di essi:“Egli è ristretta peraltro la paterna giurisdizione in quelle cose, che sonocontrarie alla legge di Dio, a’ consigli di Gesù Cristo, ed alla libertà che ilfigliuolo, giunto alla legittima età dee avere circa la scelta del propriostato, nella qual materia alcune cose son da osservare. […] È ristretta lapaterna autorità altresì nelle cose che offendono i consigli evangelici. Laprofession religiosa consigliata da Gesù Cristo è opera sopra natura, acui Dio, senza aspettar la deliberazione de’ padri chiama chi vuole; eperò a’ padri altrettanto è proibito costringere a prendere quello stato ifigliuoli, come il ritrarneli se Dio li chiama. Prudente consiglio è bene ilvoler prendere una ragionevole e certa prova di loro prima diconsentire, e la vocazion loro far bene esaminare a persone dotte ediscrete e intendenti delle cose di Dio, per certificarsi se leggerezza,pueril desiderio, o altro fine terreno muova i figliuoli ad eleggere quellostato: ma avutane quella maggior moral certezza, che se ne può, sono dalasciare nella lor libertà al piacere di Dio”10. Ma sulle idee educative delp. Cesari occorrerà ritornare.

I rapporti con Cesari rafforzarono in Rosmini una certa, particolare,propensione verso S. Filippo Neri e verso la spiritualità filippina che egligià conosceva. Nella biblioteca della famiglia Rosmini vi erano infattinumerose opere – prevalentemente in edizione settecentesca -, scritte dareligiosi dell’Oratorio e che riguardavano la spiritualità filippina11 o la

anche: A. Vecchi, La prima formazione spirituale di Antonio Rosmini, in AA. VV., Rosmini e ilrosminianesimo nel Veneto, Verona 1970, pp. 9-35.10 A. Cesari, Istruzione sopra i doveri dei figliuoli verso i loro genitori, [1812], in Id., DellaEducazione Cristiana. Istruzioni morali, inedite o sparse, a cura di G. Guidetti, Reggio Emilia1925, pp. 342-344. Sulle note caratteristiche della spiritualità del Cesari cfr. A. Vecchi, Ladottrina spirituale di Antonio Cesari, in AA. VV., Chiesa e spiritualità nell’Ottocento italiano,Verona 1971, pp. 147-225.11 Come, per esempio: Parabole dell’Evangelo dizifrate a pro di chi brama Dio. Opera d’unsacerdote di San Filippo Neri, Bassano 1701; Idea degli esercizi dell’Oratorio istituiti da S.Filippo Neri data in luce da un Prete della Congregazione dell’Oratorio di Venezia, Venezia

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vita di S. Filippo Neri (come la famosa biografia del Bacci)12. È moltoprobabile che gli stessi familiari di Rosmini avessero letto e meditatoalmeno alcuni di questi libri. Del resto il giovane Antonio aveva lettoautori filippini, quali Cacciaguerra e Bevilacqua, oltre agli AnnaliEcclesiastici di Cesare Baronio. Inoltre, prima ancora di conoscerepersonalmente Cesari e di stabilire un significativo rapporto con lui,Antonio Rosmini ricevette la sua prima istruzione e formazioneculturale da parte di educatori che erano, a loro volta, fortementesegnati dal rapporto col Cesari stesso e dunque con l’esperienzafilippina.

Compiuti quindici anni, nell’autunno 1812, Rosmini iniziò la “scuoladi umanità” nel Ginnasio roveretano, sotto la guida di don G. BattistaLocatelli. L’anno seguente entrò poi nella “scuola di retorica” ed ebbecome maestro Carlo Tranquillini. Proprio al principio dell’annoscolastico 1812-13, si radunò in casa di Rosmini, per impulso dato daiprofessori, una accademia giovanile studentesca. Di essa Antonio fu ilcapo e suo fratello Giuseppe il segretario. Come protettore fu scelto (o fuproposto dagli insegnanti) S. Filippo Neri. In questi momenti di vitascolastica (o scolastico-familiare) si realizzava pertanto il primo incontro– ancora in realtà un po’ generico – di Antonio Rosmini con l’esperienzafilippina.

Se dunque il primo contatto del giovane Rosmini con l’esperienzafilippina fu mediato dall’ambiente culturale roveretano, tuttavia eglientrò, per così dire, in dimestichezza con S. Filippo e con la spiritualitàfilippina quando si rinsaldò il suo personale e diretto rapporto colCesari prima e con i filippini di Verona poi. A testimonianza di questaaffettuosa relazione resta la corrispondenza epistolare13. Rosmini stimòaltamente il Cesari come letterato e uomo di cultura; come oratore sacro;come autore spirituale. Fin dal 1814 affermava di godere di potergliparlare, andava a visitarlo, riceveva le sue visite.

1748.12 P. G. Bacci, Vita di S. Filippo Neri institutore della Congregazione dell’Oratorio, t.III,Venezia 1794. Ma anche, per esempio: Apologia di Gaetano Volpi per la vita di S. FilippoNeri scritta da Antonio Gallonio e Perjacopo Bacci, Padova 1740.13 Cfr. G. Grasselli, Le relazioni e carteggio tra Antonio Cesari e Antonio Rosmini, ReggioEmilia 1936.

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L’amicizia dunque col filippino di Verona introdusse Rosminiall’amore per S. Filippo Neri che egli dovette avvertire subito comecongeniale alla sua stessa indole spirituale. In particolare, la prospettivafilippina costituì per così dire il tessuto connettivo tramite il qualeRosmini collegò la lezione del Muratori, quella del Gerdil e quella,appunto, del Cesari: da qui la sua fondamentale importanza tanto nellosvilupparsi della spiritualità rosminiana14 quanto nel costituire la basespirituale della pedagogia del Roveretano15.

Come si è già accennato, Rosmini lesse – tra il 1811 e il 1812 – conattenzione il trattato di Muratori sulla carità cristiana, dal quale estrassepure una serie di sentenze e citazioni che annotò in un suo libro diappunti. Ma in quell’opera si ricordava e si lodava, in più luoghi (peresempio nelle riflessioni sull’elemosina16), S. Filippo Neri. Così pure sicitavano con favore i filippini (insieme ai cappuccini)17. Ma anche

14 Cfr. F. De Giorgi, La scienza del cuore. Spiritualità e cultura religiosa in Antonio Rosmini,Bologna 1995, pp. 55-96.15 Id., Rosmini e S. Filippo: la pedagogia di Antonio Rosmini e le sue basi spirituali,introduzione a A. Rosmini, Lo Spirito di S. Filippo Neri, Brescia 1996, pp. VII-CIII.Rimando a questo mio lavoro per un ulteriore approfondimento delle tematicheaffrontate in questo capitolo e per più numerosi riferimenti alle fonti rosminiane.16 Scriveva Muratori: “Non istia adunque a dire quel Religioso: Per me, che ho Voto dipovertà, non è intimato il Precetto di far Limosina ai Poveri. Primieramente se non puòegli dispensare al Prossimo bisognoso la Limosina materiale: forse potrà e dovràdispensarla per lui la sua Casa, il suo Convento, o Monistero, se all’onesto e frugalemantenimento de’ religiosi ivi abitanti sopravanza qualche ritaglio di Limosine, od’entrate. Son Beni di Chiesa quei della sua Comunità: tanto basta per sapere, che ilSuperfluo non s’ha da consumare in lautezza di mensa, in Lusso, in Ornamenti, oFabbriche voluttuose, ma c’è obbligazione di darlo ai Poverelli. Così appunto facevanogli antichi monaci, allorché arricchivano di tanti Santi la Chiesa di Dio, durando anche a’dì nostri in alcuni Monisterj questo santo costume; e così fanno tuttavia, per tacer d’altri,i poverissimi Conventi de’ Padri Cappuccini; e così ebbe in uso anche il sopralodato S.Filippo Neri” (L. A. Muratori, Della carità cristiana in quanto essa è amore del prossimo.Trattato morale, cito dall’edizione Bassano 1768, p. 176). Muratori inseriva poi unasignificativa citazione dalla Vita di S. Filippo del Bacci (pp. 176-177).17 Dell’opera muratoriana sulla carità cristiana (la cui prima edizione era del 1723),Alberto Vecchi ha sottolineato la “ammirazione per quegli ordini o congregazioni chemantengono intatto lo spirito delle loro origini, tuttora vivo, per esempio, nella povertàevangelica dei cappuccini e nella duttilità apostolica degli oratoriani” (A. Vecchi,L’itinerario spirituale del Muratori, in AA. VV., L. A. Muratori e la cultura contemporanea,

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l’attenzione al pensiero di Gerdil si ricollegava in Rosmini ai caratterifilippini, sia pure non in modo diretto ma mediato dalla concezionedella “bellezza”. Per Cesari poi il riferimento a S. Filippo era,ovviamente, immediato: giova tuttavia analizzare la particolarecurvatura pedagogica che l’oratoriano veronese dava alla sua esperienzadi religioso filippino.

2. Gli ideali educativi di Antonio Cesari

In una Istruzione sopra la cristiana educazione de’ figliuoli, del 1812,Cesari svolgeva una ragionata esposizione dei suoi ideali educativi,partendo dalla convinzione che i principi dell’educazione (intesa come“educazione non filosofica, ma Cristiana”) non fossero ben conosciuti eanaliticamente approfonditi in modo adeguato. Egli, in realtà, guardavaall’educazione familiare e si rivolgeva ai genitori, i quali, a suo parere,sottovalutavano con superficialità i loro doveri educativi.

Il fine dell’educazione cristiana era dunque, per Cesari, il “far buoni ifigliuoli e timorati di Dio”. Vi erano due vie per ottenere questo:allontanare i figli dalla colpa e invogliarli alla virtù. Il metodo generale efondamentale era poi quello del buon esempio. Tale metodo, in realtà,non derivava da una visione moralistico-prescrittiva, ma si fondavasull’implicita convinzione che il primo apprendimento avvenissenell’ambito di un rapporto empatico, secondo la morfologia delparticolare ‘mondo vitale’ nel quale l’individuo si trovava inserito findalla nascita e con i caratteri di uno sviluppo mimetico:

Ora venendo a’ modi più acconci ad aver questo fine; e prima tenendomi sullegenerali, dico; che efficacissimo dee essere il buon esempio. La prima cosa;siccome è proprio di tutti, che leggermente si appicchi all’uomo la forma e laqualità di quelle cose che ha continuo alla mano, e vede ed ode, e quasi toccaogni dì; e per conseguente i costumi di quelli, co’ quali tratta ed usa continuo;così troppo più ne’ figliuoli, che essendo ancor teneri e molli siccome cera, assaifacilmente ricevono le impressioni delle idee che continuamente feriscono i lorosensi. E però vivendo essi ad ogni ora col padre e colla madre, e dovendo dinecessità vedere ogni loro atto per molti anni, ed udir le parole, ed esseretestimonj delle maniere e modi del loro vivere; non può non avvenire, che assai

Firenze 1975, p. 184).

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tosto e profondamente non ne ricevano le forme nell’anima; e che, come da loroimparano il patrio linguaggio così non si avezzino a prendere le maniere delpensare e del giudicare, e del parlar loro, ed a far in tutto ritratto da’ costumi de’genitori18.

Su questa base si innestava poi la considerazione morale, intesa cometrasmissione degli abiti virtuosi attraverso l’esempio personale direttodei genitori:

E però qualora i figliuoli veggano sempre ne’ padri uno specchio di Cristianavirtù; castità e moderazion nel parlare, mansuetudine, giustizia e carità co’ loroprossimi, perdonare generosamente le offese, di Dio e della religione e dellaChiesa sentir e parlare umilmente e colla debita riverenza; onestà e decenza negliabiti, e ne’ reggimenti; fuggir i giuochi, gli amori stranieri, le taverne i ridotti. Ilfigliuolo che ha tutto dì l’occhio al padre e alla madre, cui riverisce ed amanaturalmente, riceve ad un tratto nell’animo la stima e l’amore della virtù, quasiprima che la conosca19.

Ma perché l’esempio dei genitori potesse essere realmente incisivo edefficace doveva essere proposto, come si è detto, all’interno di unacomunanza di vita, di una consuetudine di rapporti reciproci e diabitudini condivise, di una relazionalità empatica. Era perciò necessario,secondo Cesari, che i figli stessero volentieri con i genitori, amassero laloro casa e non coltivassero desideri di evasione dal loro ambiente.Occorreva pertanto che i genitori si facessero amare dai figli e che questipotessero trovare nella loro casa quelle cose che i bambini cercano edamano. Si trattava insomma di una pedagogia familiare fondatasull’amorevolezza, sulla tenerezza, sull’attenzione ai bisogni e ciò, se, dauna parte, ben manifestava lo spirito filippino, dall’altra non era poi cosìovvio nelle famiglie italiane del primo Ottocento: si pensi, solo per fareun esempio, ai ricordi di Massimo d’Azeglio, con la testimonianza dellaseverità e rigidità educativa del padre, il marchese Cesare, notoesponente dell’Amicizia Cattolica e vicino alla spiritualità dei gesuiti, diGuala e di Lanteri.

18 A. Cesari, Istruzione sopra la cristiana educazione de’ figliuoli, [1812], Id., Della EducazioneCristiana, cit., pp. 315-316.19 Ibid., p. 316.

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Cesari dunque consigliava:

una certa spontanea piacevolezza, non tenera e molle, ma schietta e virile nelpadre massimamente; il mostrar che siete di loro contenti; qualche temperatalode e carezza, ed alcun regaluzzo, è un dolce richiamo dell’amor de’ figliuoli,che ben s’accorgono d’esser cari a chi gli ha generati. Il perché io non approveròper lo meglio quel far loro il viso burbero, e star sul grave, per tenere suo gradoed autorità: questo contegno è da riserbare al tempo che meriteranno lacorrezione. Il figliuolo non dee temervi; che è cosa da schiavi. La riverenzatemperata da certo libero amore ve li terrà saldamente soggetti. Però i figliuolilatinamente diconsi liberi per contrapposto da’ servi. Non parlo del tenerliprovveduti del necessario e del convenevole all’età e allo stato loro, e in questo(almeno per nome di premio) largheggiar qualche volta. Anche a quell’età sivogliono concedere molte coserelle, e spesso far vista di non avere veduto esentito, e d’altre passarsene leggermente: che nulla è più dannoso allaragionevole educazione, che il volere ed esiger da loro tutte le cose per appunto,e quasi volerli perfetti, o (come dicea quel giovane di Terenzio) che i figliuolinascano vecchi; ed essere lor sempre addosso, e sgridarli continuo, e correggerli:che par loro sempre essere col pedagogo o maestro: le quali persone i fanciullinon amano troppo20.

Certo Cesari parlava anche dei doveri dei figli e dell’autorità deigenitori (che non era comunque illimitata, ma aveva i suoi confini)21.Tuttavia l’accento era posto sulla necessità di avere un clima domesticocaldo e accogliente. I genitori pertanto dovevano porsi il problema dei“piaceri” dei figli, secondo un criterio di sana ed equilibrataragionevolezza:

A questo primieramente debbono por mente i padri, che l’età de’ loro figliuoli ènaturalmente avida del piacere; e questa vaghezza non può togliersi da queglianni, senza rovesciar la natura. Aggiugnete, che la ragione in loro non è cosìferma, né il senno così maturo, che possano rinunziarvi per altri beni migliori.Adunque o essi trovano di che contentar in casa questo loro appetito, o eglino sene troveranno fuori di casa da se medesimi. E però l’accorgimento de’ padridimora qui, che (non potendo i figliuoli star senza sollazzi) li abbiano sani elegittimi in casa, sì che non sieno tentati di procacciarsene fuori di illegittimi evelenosi. Giuochi onesti, compagnia de’ loro simili costumati e dabbene,ricreazioni, trastulli, merenduzze, e cose simili al possibile non manchino loro

20 Ibid., pp. 318-319.21 Cesari, Istruzione sopra i doveri de’ figliuoli, cit., p.341.

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mai; e vedrete se trovandovisi così bene, ameranno la casa paterna. Non dico già,che dobbiate allevarli al piacere, molli e teneri, e compiacergli di tutto che lorcade in animo di bramare. Il sollazzo dee anzi renderli più pronti allo studio edagli esercizi del dover loro, de’ quali dee esser premio22.

Cesari, che aveva sottolineato, fin da una sua Istruzione del 1804,l’importanza dei divertimenti – correttamente intesi – nella vita di ogniindividuo23, giungeva perfino a suggerire ai genitori di risparmiare e difare sacrifici pur di procurare i “sollazzi” così necessari all’educazionedei figli. E per dare maggior forza e significatività a questa suaaffermazione ricorreva all’esempio dello stesso S. Filippo:

Ma questo importa, che i genitori s’acconcino a tollerar molte noie, e spese nonpoche, e, a un bisogno, privar se medesimi di molte cose gradite e care per amorde’ figliuoli. Se per mantener a’ figliuoli i detti sollazzi bisognasse risparmiar inaltro, o nel lusso, o nella delizia del trattamento; al tutto è da farlo: menopietanze, meno cavalli e servi, meno abbigliamenti alla moglie, e che so io?Perché i figliuoli abbiano copia di quelle ricreazioni che ve li tengono in casa. […]Ma se c’è il cristiano amor de’ figliuoli, tutto si porterà volentieri, senza questo,non è da sperare. Che non facea S. Filippo Neri per tener presso di sé i fanciulli,de’ quali tutti era più che padre per soprannatural carità! quanti sollazzi, etrastulli, e giuochi d’ogni maniera, da lui trovati per trattenerli con lor diletto; a’

22 Id., Istruzione sopra la cristiana educazione, cit., pp. 320-321. E continuava: “Dovete anziavvezzarli a vincere se medesimi nelle cose superflue e di puro capriccio; rompere adora ad ora le loro torte vogliette, i puntigli, le bizzarie; o non comandar loro, ma certo inquello che lor comandate, farvi obbedire, e non darla mai loro vinta in quelle cose, che siincaponiscono di volere a vostro dispetto. Trovandovi condiscendenti nelle coseragionevoli, li avrete docili e maneggevoli ed ubbidienti” (ibid., p. 321).23 Scriveva: “Fra le occupazioni, in cui consumare il tempo della vita laudabilmente,sono i divertimenti. &c. Eglino presi legittimamente, e secondo il valore della parola, soncose buone. Divertimento vien da divertere, cioè piegar dalla strada a qualche albergo perprendervi un po’ di riposo. &c. Il soffermarsi tra via, non è già cosa buona per sé; masolo in quanto si ordina al fine, e serve a questo ottenere. […] Così è de’ divertimenti. Iltener sempre uno stato, né mai allentar negli ufficj più gravi, è impossibile per la umanafragilità, che abbisogna di questi soccorsi. E però è bene un po’ divertirsi, ed appartienead una virtù che chiamasi Eutrapelia. Badate dunque che la ricreazione perché sia lecitae buona, dee essere una virtù come l’altre, cioè un operar secondo ragione. Ella è fattaper chi fatica; onde poter proseguir meglio. […] In somma bisogna divertirci per farmeglio il viaggio e speditamente; non far il viaggio per divertirsi” (Id., Istruzione sopra idivertimenti, ibid., pp. 35-37).

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quali volea trovarsi presente egli stesso! quante noje a loro cagion tollerate,facendo essi allato alla sua camera un fracasso che mai il maggiore: di chedolendosi gli altri che non aveano la virtù di Filippo, egli scusavali, dicendo a chisi dolea; Lasciategli giuocare, e far questo è peggio: che, sapete; perché nonpeccassero, io mi lascerei tagliar da loro le legne addosso: Questo è modo dicristiana educazione24.

Certo Cesari ricordava pure i doveri specificamente religiosidell’educazione cristiana, anche se non mancava di sottolineare lanecessaria libertà, senza controlli da parte dei genitori, per quantoriguardava alcuni aspetti particolarmente delicati ed intimi (come laconfessione dei peccati) della vita di fede25. Ma in questo campo i suoiideali formativi risultavano più chiaramente evidenti quando parlava diS. Filippo. Egli dunque indicava i caratteri dell’esperienza filippina “neltotale distaccamento da ciò che è terreno, nella perfettissima unione conDio per altissima carità, nella travagliosa sollecitudine per lo ben de’fratelli”26. Erano tre caratteristiche fondamentali della vita cristiana,

24 Id., Istruzione sopra la cristiana educazione, cit., pp. 321-323.25 Affermava dunque: “Metter in capo a’ figliuoli un vivo sentimento di Dio, di suabontà, della giustizia, della fedeltà nel rimunerare ciascuno secondo suo merito. Far lorointendere che Dio solo come loro principio ed ultimo fine debbono onorare ed amare,per essere di lui felici: che non c’è altro vero bene che la virtù, né altro male che ilpeccato, e in loro destare orrore […]. Avvezzarli a stimar le cose per quello che sono;spesso affogar in essi il fumo della superbia, che leva la natura ghiotta del grandeggiare:e le altre verità della sapienza del Vangelo venir loro a tempo ed a luogo magnificando elodando, come insegnate dalla eterna Verità Gesù Cristo. Ingenerar in loro altissimariverenza alla Chiesa, a’ precetti di lei, ed a quanto propone da credere, per rivelato daDio. […] Trovato loro un confessore, dotto, discreto, né troppo occupato, rimetterli a lui,contentandovi che ci vadano; diligentemente guardandovi dallo intrammettervi nel fattodella Confessione, cercando, informandovi; e per poco facendola voi per li figliuoli.Questi modi in ogni altro fatto sono utilissimi; nella confessione de’ figliuoli sonopericolosi, e possono loro metterla in odio. Volendo aver troppo più non mostrate divoler sapere, d’aver saputo mai nulla: lasciate la cosa alle mani del confessore: sappia ilfigliuolo che in questo nessuno dee fargli le ragioni addosso, ed operi liberamente senzasospetto” (ibid., pp. 330-331).26 Id., Panegirico di S. Filippo Neri, in Id., Maria, i Santi e benefattori insigni. Sermoni inediti osparsi, a cura di G. Guidetti, Reggio Emilia 1930, p. 97. Di qualche interesse appare latestimonianza del Tommaseo sul Cesari: “Il Cesari nelle prediche sa trovare di meglio,poiché l’altezza del soggetto, sentita da lui buono, gli mette soggezione. E dal pulpito io

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individuale ma anche ecclesiale, comunitaria. Per il primo aspetto, ildistacco dai beni terreni, Cesari indicava pure, come modello esemplare,l’esperienza della Chiesa primitiva, con una visione storica di un certointeresse:

Nella Chiesa primitiva, finché l’esser Cristiani fu un delitto capitale, e quei giustiviveano con la morte davanti ad ogn’ora &c. tanto disamore li avea presi de’ benidella terra, tal dispregio e nausea di quanto è il mondo; che volentieri silasciavano rubar beni, roba, sostanze &c. e davano la vita fra quegli spasimi comealtri perderebbe un capello &c. Cessò la persecuzione; tornò la pace e la calma: iCristiani tornarono al posesso de’ loro beni &c. usarono i comodi della vita,riposarono, attesero ad adagiarsi… e senza avvedersene s’attaccarono alla vita,un sottile amor di se stessi e delle cose loro si cacciò fortemente nel cuore &c.Tanto che sopravvenuta una nuova persecuzione, trovando gli animi legati aquesti beni, più deboli, con men sapore e gusto del cielo, oh Dio! Era una pietà avedere quanti rinnegarono Cristo per non perder que’ beni che aveano preso adamare27.

Per quanto riguardava gli altri due aspetti fondamentali, amore diDio e amore del prossimo, Cesari ricordava certo le manifestazionianche fisiche del misticismo di S. Filippo28, ma poi insisteva soprattuttosulla carità come “forma universale” di tutte le azioni del cristiano edunque anche come forma privilegiata dell’azione educativa. La vita diS. Filippo ne era chiaro esempio:

la carità era la universal quasi forma di ciascuna azion sua: però in ogni suo attoinfondeva una cotale virtù che a tutti facea profitto; e impertanto or solamentecon uno sguardo rallegrava gli afflitti, or col toccamento della sua manodissipava le tentazioni: quando con dolci parole, quando con ischerzevoli,quando con risentite, talora recandosegli al petto, ora percotendoli d’unaguanciata, facea ravvedere, mutava i cuori, dirigeva, stimolava, applicando conarte ammirabile i rimedj acconci al bisogno di ciascheduno. Né ciò solamente neltribunale di penitenza; ogni luogo era opportuno alla sua carità […]. […] tanta

lo udii non declamare e neppur recitare, ma sì parlare come si parla, e però con accentoefficace, come se stesse a sentirlo il suo Filippo Neri, popolare di scienza e di fama” (N.Tommaseo, La Nazione educatrice di sé. Testamento morale, letterario e politico, a cura di G.Guidetti, Reggio Emilia 1922, p. 132).27 A. Cesari, Le tribolazioni medicina dell’uomo, in Id., Della Educazione Cristiana, cit., p. 241.28 Id., Panegirico di S. Filippo Neri, cit., pp. 111-112, 117-118.

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era la copia che egli facea di sé a tutti, o sano fosse od infermo, che,innamorandoli prima di sé, faceagli poi per bel modo innamorare della virtù29.

Se la carità era la forma universale che sorreggeva l’azione educativa,l’atteggiamento specifico in cui questa si realizzava era la dolcezza, lavirtù che Cesari più ammirava in S. Filippo e che riconosceva comeessenziale per chi fosse chiamato all’ufficio di maestro “che non ilsopraciglio severo, non le maniere aspre e ritrose, non il sembiantegrave e imperioso, guadagnano dei cuori umani le chiavi, e a lor talentole movono, ma bensì il viso composto alla urbanità, il parlare modesto egentile, ed un portamento dalla umanità, e dalla dolcezza regolato econdotto”30. In questo modo il Neri fu veramente, secondo Cesari, un“riformatore” di Roma31.

Ma come poteva l’uomo acquistare la forma universale costituitadalla carità, come poteva l’uomo giungere all’amore, soprattuttoall’amore di Dio? Cesari si poneva il problema e, sulla base dello spiritofilippino, proponeva una prospettiva incentrata sulla bellezza e nellaquale il cuore umano era deputato a svolgere una funzionedeterminante. Era proprio questa particolare declinazione dello spiritofilippino che avrebbe influenzato Rosmini, congiungendosi con altresuggestioni e influenze (in particolare, come si è visto, la lezionemuratoriana e quella gerdiliana). Il religioso dell’Oratorio di Veronaaffermava:

Ma venuto Iddio a crear l’uomo, eccellentissima fattura sua, padron delle bestie edel mondo, un più alto e nobil fine ed oggetto assegnò a lui del suo altissimoamore. Che fa di cercarne? Sé medesimo pose per termine dell’amor suo. Dio soloera il bene che l’uomo dovesse amare; di Dio solo, della sua bellezza e bontà eperfezione infinita doveva poter essere perfettamente felice. […] Ora, per doveresser egli, Iddio, quel bene che l’uomo amasse, la prima cosa, gli diede di sé unaassai chiara notizia, e della infinita bontà e bellezza gli impresse nell’anima i piùvivi tratti, e le più care forme: anzi improntò in essa le sue medesime fattezze dilei facendo il suo proprio ritratto; acciocché contemplando ella se stessa, il chefatto avea così spesso, dovesse necessariamente ad ogni ora scontrarsi nellaimmagine del suo creatore; e quasi con l’atto medesimo del naturale amor di se

29 Ibid., pp. 124 e 127.30 Id., Sermoncino in lode di San Filippo Neri, [1785], ibid., p. 81.31 Id., Panegirico di S. Filippo Neri, cit., p. 95.

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stessa, amasse quel Dio, la cui immagine sì vivamente rappresentava. Non glibastò. In tutte quelle bellissime opere della sua mano, sparse Iddio e seminòquasi un cotal sprazzo o lume della propria bellezza, che tutte le facea buone ebellissime; e l’uomo per lo lume di sua ragione, veggendo continuo queste bellefatture, vedea in esse un raggio della bontà e di volto del suo Creatore, il quale datutte queste sembianze riflettea come un riso di benignità e di dolceamorevolezza verso dell’uomo: riso e quasi lusinga, che solamente l’uomconosceva; e per questo come con un perpetuo richiamo, e un dolce continuosaettamento, lo allettava e provocava potentemente ad amarlo. Appresso aquesto; acciocché egli non dovesse sentir a ciò malagevolezza o fatica, pose percotal modo tutto suo studio in formargli tal cuore, e di sì molle tempera e sìgentile, che fosse fatto per sempre amare, e senza amare star non potesse: equello che è più, infondendogli l’abito della soprannatural carità, lo abilitò peruna fortissima impressione di sua virtù, a questo mobilissimo atto d’amore: edacciocché non dovesse poter amare altri che lui, questo cuore gliel diede sìgrande, e di così ampia tenuta, che quasi avesse dell’infinito, da non poterglibastare nissun altro bene che Iddio32.

Si arrivava così molto vicini alle riflessioni rosminiane e all’ideale –per dirla con Tommaseo – della “bellezza educatrice”.

3. Lo spirito filippino

Negli anni universitari a Padova, dal 1816 al 1819, Rosmini, com’ènoto, strinse importanti amicizie con giovani colleghi come PierAlessandro Paravia, Sebastiano De Apollonia e Niccolò Tommaseo. Nel1818 egli conobbe pure Innocenzo Turrini, ex filippino (laCongregazione dell’Oratorio non era ancora ufficialmente ristabilita).Nello stesso anno suggeriva al Paravia di tradurre il De LaetitiaChristiana del Valier, opera d’intonazione e spirito filippini che era statada poco riscoperta proprio negli ambienti oratoriani veronesi, e loinformava: “Che essa non solo v’è a stampa separata e sola, ma v’èanche tradotta e dal Bettinelli, e stampata in Mantova (senza suo nomeperò) l’anno... non mi arricordo”33.

32 Id., L’amor di Dio facile e dilettevole, in Id., Della Educazione Cristiana, cit., pp. 356-358.33 A. Rosmini Serbati, Epistolario completo, vol. I, Casale Monferrato 1887, p. 306: lettera alParavia (a Venezia), datata: Padova, 18 novembre 1818. A proposito dell’operettavaleriana è stato osservato: “L’originale del Dialogo giacque inedito e sconosciuto fino

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Sempre nel 1818, probabilmente il 26 maggio, festa di S. Filippo Neri,egli lesse all’Accademia friulana di Padova il panegirico del santo, nelquale si manifestava “l’ardente amor” verso il Neri, un affetto “vero epieno ed eccessivo”34. Tale elogio di S. Filippo fu apprezzato dagli amicidi Rosmini. Paravia (che aveva assistito alla lettura nell’AccademiaPatavina), Valerio Fontana e Antonio Papadopoli gli consigliarono dipubblicarlo. L’opera di correzione, revisione e integrazione durò due an-ni, fu impegnativa ma non priva di interne consolazioni35.

Il panegirico apparve dunque a stampa nel 1821, pubblicato dalBattaggia a Venezia. Ma Rosmini vi ritornò sopra con ulterioricorrezioni e ritocchi per l’edizione nel volume Prose di A. Rosmini(Lugano, Veladini, 1834) e per quella nel volume Predicazione. Discorsivarj (Milano, Boniardi – Pogliani, 1843) che è l’ultima e definitiva36. Perla stesura del panegirico, egli si avvalse della Vita di S. Filippo Neriscritta da Pietro Giacomo Bacci, del De Laetitia Christiana del card. Valier(nel 1820 il p. Bertolini dei filippini di Verona gli fece dono di unatraduzione italiana di quest’opera37) e, probabilmente, dei consigli diCesari.

alla fine del secolo XVIII quando, verso il 1795, il filippino romano Pietro Machiavelli,sollecitato dal preposito della congregazione di Verona, cercò e trovò, allegato alle cartedel Processo di canonizzazione, il testo del Dialogo, dal quale i veronesi trassero copia.Una prima traduzione fu eseguita sull’apografo veronese dal celebre abate SaverioBettinelli, riparato a Verona durante le drammatiche vicende dell’occupazionenapoleonica. L’operetta vide la luce nel 1800 per gli eredi Moroni in Verona, ed ebbe unaristampa nel 1817 in Roma per Carlo Mordacchini. Nel frattempo l’insigne oratorianoveronese padre Antonio Cesari aveva condotto una sua traduzione sullo stesso apografoche esisteva in casa, ma non la pubblicò, essendo apparsa allora quella del Bettinelli” (A.Cistellini, Introduzione a A. Valier, Il dialogo della gioia cristiana, Brescia 1975, pp. LXXIX-LXXX). Sul Valier cfr. G. Santinello, Politica e filosofia alla scuola di Rialto: Agostino Valier(1531-1606), Venezia 1983.34 Rosmini, Lo Spirito di S. Filippo Neri, cit., p. 5.35 Il 28 febbraio 1819, per esempio, da Padova, Rosmini scriveva a Luigi Sonn: “Parmich’io m’empia ogni dì più. L’avere a questi dì rifuso il mio Panegirico di S. Filippo migiovò assai” (A. Rosmini Serbati, Epistolario completo, vol. XIII, Casale Monferrato 1894,p. 46).36 Cfr. Pagani-Rossi, Vita, I, cit., p. 139.37 Cfr. Grasselli, Le relazioni e carteggio, cit., p. 65.

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Nell’anno di pubblicazione delle Lodi Rosmini entrò in collegamentocon “L’Amicizia Cattolica”, proprio tramite lo stampatore Battaggia, ead essa donò tutte le copie dell’elogio. In quel periodo, peraltro, egli eraimpegnato nella costituzione della “Società degli Amici” che, com’ènoto, ebbe uno dei suoi nuclei principali in Friuli, per il tramite del DeApollonia. Tale nucleo fu costituito nel settembre 1820, in occasione delviaggio di Rosmini a Udine: Andrea Tonchia ne fu l’amministratore eSebastiano De Apollonia il segretario. Tuttavia come presidente fu elettoil filippino Carlo Filaferro e, in generale, la “Società degli Amici” operòin stretto collegamento con i filippini di Udine, come il Bearzi e ilBenedetti e come Vincenzo Colavizza, al quale fu dedicato il primo librostampato dalla Società38. Si deve notare, peraltro, che l’intero progettodella “Società degli Amici” va inscritto in un contesto filippino. Rosminicercò di realizzarlo appoggiandosi a membri della soppressaCongregazione dell’Oratorio: non solo a Udine, ma anche a Verona e aPadova (dove prese contatti con Bartolomeo Cornet).

Tra il 1818 e il 1821, dunque, si sviluppava un molteplice impegnorosminiano che aveva due caratteristiche: si muoveva nel solcodell’indirizzo filippino, a stretto contatto con membri dellaCongregazione dell’Oratorio (proprio nel momento in cui, peraltro, essaotteneva il consenso imperiale alla ricostituzione ufficiale); cercavamomenti comunitari, collegiali, associativi per un’opera di co-educazione, in uno spirito di letizia cristiana. Rosmini assumeva dunquela lezione oratoriana: l’esperienza rosminiana si maturava all’internodell’esperienza filippina. Lo ‘spirito’ di Rosmini si modellava sullospirito di S. Filippo Neri.

Ecco allora porsi la questione dello “spirito filippino”. Ma comeintendeva il Roveretano lo spirito di S. Filippo? Per chiarire questoaspetto giova riferirsi proprio al panegirico che Rosmini pubblicò, nel1821, col titolo Delle lodi di S. Filippo Neri e poi ripubblicò – come si èvisto – nel 1843 appunto col titolo Lo Spirito di S. Filippo Neri.

La ‘rinascita’ filippina che egli promuoveva si inscriveva infatti in undisegno consapevolmente perseguito e si fondava sulla convinzione chela spiritualità filippina fosse la base più idonea, più adeguata ai tempi, 38 Cfr. U. Pellegrino, Sebastiano De Apollonia e Antonio Rosmini. Ricerche sul rosminianesimodel Friuli, vol. I, Milano 1973, pp. 13, 18-23, 72-75, 79.

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per una rinnovata azione educativa, catechetica e pastorale. Nellacultura del primo Ottocento, post-illuministica e pre-romantica (o,meglio, delle discussioni tra classicismo e romanticismo), in quella cheera ancora la ‘stagione gerdiliana’, vi era la possibilità di articolare unnuovo pensiero pedagogico – una pedagogia della mente e del cuore – chesi ricollegasse, in modo creativo, alla tradizione pedagogica cristiana.Tale pedagogia avrebbe avuto, pertanto, le più opportune basi spiritualinell’esperienza filippina. Nel suo scritto sul Neri, il Roveretano dunqueesordiva affermando:

io non vi farò la narrazione ignuda delle chiare opere di Filippo, ma segno delmio favellare sarà lo spirito stesso dell’uom santissimo, che ci si renderàmanifesto in quella bellezza tranquilla, che da tutte le azioni sue contemplate inuno, ridonda e quasi s’accozza e si crea. Perciocché belli furono i suoi andamentie le sue strade pacifiche: viae ejus pulchrae, et semitae ejus pacificae.E però la bellezza morale che si riflette dalle virtuose operazioni di Filippo in chi lecontempla darà lieta materia alla prima parte del mio ragionamento: collaseconda poi vi chiamerò a considerare quella pace, che forma il carattere, per cosìdire, di quella bellezza onde tutta è ornata la vita del vostro amabilissimoprotettore39.

Rosmini, seguendo Bacci (ma si pensi anche all’insistenza del Cesarisul “distacco dai beni terreni”), sottolineava innanzi tutto l’austerità divita del Neri, il suo “combattimento spirituale”, il suo essere quasi unmonaco e un anacoreta, ma non nel deserto, bensì “nel cuore delsecolo”40. Questo duro cammino di perfezione, di ascesi volontaristica,dunque, “avvenne non in oscuro angolo, o in chiuso convento, ma in

39 Rosmini, Lo Spirito di S. Filippo Neri, cit., pp. 5-6.40 Ibid., p. 10. Queste indicazioni, del resto, vanno nel senso che la critica storica recenteha ben sottolineato: “L’indirizzo spirituale del Neri affonda le sue radici nel terrenoaustero dell’ascetica cristiana che esige di combattere il peccato e di acquisire la virtù,onde l’anima possa accogliere, senza frapporre ostacoli, l’irruzione della Grazia. Unindirizzo, dunque, di tipo ascetico-volontaristico, poggiante sull’esercizio metodico dellavolontà che disciplina le passioni disordinate e lotta contro l’amor proprio, il cuisradicamento è condizione essenziale per raggiungere la perfezione.[...]. “Spirituale” èparola chiave negli scritti del Neri. Orbene, “spirituale” è l’uomo illuminato e accesodallo Spirito a cui si contrappone l’uomo “sensuale terreno”, “carnale e mondano”” (M.Marcocchi, Prefazione, in San Filippo Neri, Gli Scritti e le Massime, Brescia 1994, pp.7 e 11).

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mezzo alla luce e alla moltitudine di una Roma”, appunto di quellaRoma di cui egli divenne apostolo, conquistandola con l’amore, “sebbencittà tanto occhiuta, come sapete, alla censura sì pronta, alla maravigliasì tarda”41.

Rosmini delineava la vita spirituale del Neri, in cui si fondevanocontemplazione e azione: “di giorno carità degli altri lo stanca, di notteamor di Dio lo scioglie [...]. E di giorno, e di notte ardegli in cuore lapreghiera”42. In questa prospettiva, le virtù che venivano sottolineate –sempre in piena sintonia con la Vita del Bacci – erano soprattutto lacarità e l’umiltà, ma anche, con un accenno significativo, la povertà43. Inparticolare, dunque, riluceva in S. Filippo la “sua larghissima carità”44,dal carattere soprannaturale, secondo il modello paolino (citato pure daBacci e che ricordava la “forma universale” del Cesari): “trasformandoamore nell’amato l’amante, siccome Filippo non vivea più egli, ma inFilippo Cristo, e con Cristo era fatto una cosa; così per somigliante guisavivea Filippo negli altri uomini, e una cosa era reso con essi, perchéamore in essi pure lo trasformava, e tutto a tutti il faceva, grande co’grandi, parvolo co’ parvoli, reo co’ rei, giusto co’ giusti”45. Carità che si

41 Rosmini, Lo Spirito di S. Filippo, cit., p. 20.42 Ibid., p. 10.43 È interessante un’osservazione che Rosmini pone in nota: “L’amore alla povertàvirtuosa è di mirabil vantaggio anche alla vita presente, non che alla futura, e una sanaragion naturale lo loda, e l’ammira. Tito Livio nel prologo della sua storia tocca le causedell’ingrandimento della romana repubblica, e segnatamente le pone nella ricca povertàde’ primi tempi.[...]. La qual lode innamora, a dir vero, di que’ tempi e di sì ben attem-perata repubblica. Ma se quella si fu così, qual sarebbe una repubblica di veri cristiani,presso i quali è in sì alto pregio la frugalità della vita, la parcità, il distacco totale e ‘lbuon uso insieme delle ricchezze” (ibid., p. 17). Forse in questa esaltazione della povertàcome virtù civica voleva Rosmini adombrare l’ammirazione di S. Filippo perSavonarola: un tema che sarebbe stato ripreso da Guasti e dalla tradizione neo-piagnonatoscana, peraltro ammiratrice di Rosmini (cfr. G. Gentile, Gino Capponi e la cultura toscananel secolo decimonono, Firenze 19733, I rist.).44 Rosmini, Lo Spirito di S. Filippo, cit., p. 17.45 Ibid., p. 35-36. E continuava: “Oh portentosa carità di Dio! Non rende già questaFilippo raggruppato ed avvolto in sé stesso, ma ponendo il suo sublime conversare ne’cieli, gli fa stender le braccia instancabili, e maneggiarle sapientissimamente sopra laterra. Non era forse ella sola che le azioni di lui sì benefiche, le fatiche di lui sìvantaggiose al mondo tutte disponeva ed accordava, o a meglio dire, tutte ingenerava?

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accompagnava alla più profonda umiltà, essendo il Neri persuaso“doversi non solo “spregiare il mondo, altrui non ispregiare, spregiaresé stesso, ma dispregiare anche l’avere a spregio sé stesso””46.

A questa spiritualità della carità e dell’umiltà ricollegava lapiacevolezza di S. Filippo, che “non era solo una delle sue predilettevirtù; ma più tosto ell’era quella virtù universale che dava a tutte l’altreuna cotal fronte amabile e naturale, e rendevale proprie sol di Filippo”47.Questo “Santo amenissimo”, con “piacevoli e faceti motti”48 e col“sorriso e lo scherzo che sempre dimorano sulle sue labbra”49, rendeva“il suo spirito per facilità alla mano di tutti” e otteneva grandi risultatisul piano educativo e pastorale “con dolcissimo adescamento”:

Deh qual uomo v’avea sì perduto, che parlato a Filippo, e sì dolce, umano,accorto, efficace trovatolo quant’egli era, non concepisse speranza di suasalvezza, non tentasse alzarsi; poi non l’invogliasse grado maggior di virtù;quindi non si ristesse oggi mai più dal muovere i passi su per la bella erta dellaperfezione senza quasi avvedersene? Ché il Neri guadagnava il cuore de’ suoipenitenti e glielo immutava in petto colla dolcezza50.

Su questo aspetto, così importante e cruciale sul piano pedagogico,occorrerà ritornare. Intanto si deve notare che la spiritualità filippina eravalorizzata da Rosmini per la sua efficacia sul piano dell’azioneeducativa e dell’apostolato. La piacevolezza era via alla conversione delcuore e per questo fine S. Filippo utilizzava (e Rosmini lo lodava) anchela musica e la poesia51.

Nell’ultima parte dell’Elogio rosminiano, si sviluppava un tema moltosignificativo, non più con riferimento al Bacci ma a un’altra fonte,sempre però d’intonazione filippina: il dialogo Philippus, sive de

Anzi non erano tutte altra cosa che la medesima carità in diverse apparenze trasformatae partita” (ibid.).46 Ibid., p. 21.47 Ibid., pp. 38.48 Ibid., p. 14.49 Ibid., p. 38.50 Ibid.51 Ibid., pp. 39-40.

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Christiana Laetitia di Agostino Valier. In esso, com’è noto, il Neri erapresentato quale “Socrate dei nostri tempi” e si osservava:

davvero [Filippo Neri] deve essere chiamato il Socrate cristiano lui che disprezzatutte le vanità esteriori, è acerrimo nemico di tutti i vizi, cultore assiduo dellevirtù, maestro di sincerità, propagatore d’una vera disciplina, è sempre sollecitod’insegnare l’umiltà non soltanto a parole ma con l’esempio, a tutti apre il suocuore con intima carità, sopportando le debolezze di molti, alcuni istruendo, adaltri giovando con salutari richiami; conservava sempre in tali pratiche devoteuna continua allegrezza. [...] come [...] Socrate ha introdotto nelle dimore privatela filosofia discesa dal cielo, così [...] questo Socrate del nostro tempo ha portato[...] la filosofia cristiana, ha discacciato, con mirabili discorsi, le sollecitudinidell’animo, si è rivelato maestro di gioia cristiana52.

E, interrogato proprio su tale gioia, cioè sulla “vera allegrezza”, lostesso Filippo, nel dialogo valieriano, affermava: “La gioia vera e intimaè un dono di Dio, effetto della buona coscienza, del disprezzo dellevanità esteriori, della contemplazione delle altissime verità [...]; siconserva con l’assidua vigilanza su di sé e sugli altri, si accrescerivolgendo quotidiane preghiere a Dio [...]. La materia di questa gioia ètutto quanto cade sotto i nostri occhi, la paterna Provvidenza con cuil’altissimo Signore Iddio regola il cielo e la terra [...]. Il fine di questagioia è l’accrescimento di essa fino che diventerà eterna, anzi gaudiosenza fine nella patria celeste, perpetua dimora di tranquillità e di pace.[...] Si conserva poi questo preziosissimo dono di Dio, la gioia, conl’ambrosia del cielo, il santissimo sacramento dell’Eucarestia, con lalettura e l’ascolto della parola di Dio [...]. Si perde [...] col maneggio dellecose mondane”53.

Rosmini, nel suo Elogio, richiamava – in un modo originale – ilparallelo tra il Neri e Socrate. Ma soprattutto ritrovava in S. Filippo la“cristiana filosofia” edificata sulla “soprannatural carità”54. Era unafilosofia mentis et cordis:

52 Valier, Il dialogo della gioia cristiana, cit., p. 9.53 Ibid., pp. 103-105.54 Rosmini, Lo Spirito di S. Filippo Neri, cit., p. 41.

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Il nostro Filippo del potentissimo ardore, e, se passione si voglia detta, dellaeccedente passione, onde il suo cuore era capace e vampeggiante, sempre tennela sola ragione placidissima a capitana. [...] Laonde già qui il nodo veggiamo, oves’amicano soavissimamente fra loro il cuore e la mente, che i falsi filosofi civogliono far credere inconciliabili nemici, e la cieca e impetuosa sensitivitàvogliono all’intellettiva anteporre, recando a pretesto, che quella sola rapiscal’uomo all’ingrandimento; ma veramente, perché in sé la sentono sbrigliata, chedi potervi metter freno ed ordine disperano, anzi temono di potere. Adunquefilosofia celeste, e sapienza verace fu questa virtù o vita armonica di Filippo,perché dalle regole della mente nata e discesa55.

Questa “filosofia celeste” che Rosmini ritrovava il S. Filippo era, sipotrebbe dire, una filosofia intrinsecamente pedagogica. Era un pensieroattivo e attuoso, che modificava realmente e profondamente la persona,il suo modo di agire, la sua coscienza. Era una “sapienza verace” cheinsegnava alla mente e al cuore, che implicava la teoria e la pratica.Emergeva così la tramatura profonda che informava il pensieropedagogico rosminiano.

Infatti la “filosofia celeste” che poneva nel giusto ordine reciproco lamente e il cuore non era altro che bellezza. Rosmini infatti osservava:“Che la bellezza consista nell’ordine è cosa oggimai fermissima. Tra’libri che mettono più in chiaro la cosa, sta la dissertazione del sensomorale fatta dal cardinale G. I. [sic] Gerdil, dell’opere del quale non maibastevolmente la lettura si raccomanda”56. Pertanto la “filosofia celeste”era appunto “bellezza, che in quanto è imperata dalle regoledell’incommutabile vero, agli occhi nostri presentasi in abito di filosofia,di sapienza e di verità”57. Era, si potrebbe dire, bellezza educatrice.

Lo stesso Filippo Neri, infatti, contemplando tale nuda bellezza era, asua volta, modello esemplare per i suoi allievi:

Erano, noi abbiam detto, le facoltà tutte di Filippo nel debito ordine collocate, eriunendole in due sole, da altissimo luogo signoreggiava la ragione, e dabassissimo il senso ubbidiva. Ora bellezza è riposta nell’ordine consentaneo allanatura delle cose. Dunque quale bellezza singolarissima ravvisar non si deenell’anima di Filippo? Veramente se dato ci fosse di contemplare ignuda la beltà

55 Ibid., p. 46-47.56 Ibid., pp. 28-29.57 Ibid., p. 47.

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non descrivibile a parole d’un’anima giusta e ordinata, di tal forza nerimarremmo scossi e compresi che tutto il bello delle arti imitatrici sì vigoroso su’nostri cuori, altro nol crederemmo noi che assai languida immagine e sparuta diquella. Cotanta bellezza non isdegnò di nudarsi più fiate innanzi all’intellettospiritual di Filippo, che estatico contemplandola, inesprimibile la chiamava,prova altresì della inesprimibil beltà dell’anima di lui stesso; perciocché néintelletto comprende ciò che gli è superiore, né sentimento cape in sé sensazionea cui sia minore, come specchio che all’immagine che riflette dar non puòlucidezza maggiore di quella ch’egli s’abbia58.

Ecco perché Rosmini così concludeva il panegirico del santo:“V’invita adunque l’amabile Neri, che a protettor vi sceglieste, v’invita,o studiosi giovani, a calcare dietro le poste sue piante la via fiorita diveri fiori, che sì alto scorge, insino a Colui, che in sé l’infinita virtù, ebontà, e bellezza, e sapienza colla semplicità dell’essere congiunge inuno”59.

4. L’educazione cristiana

Rosmini dunque apprezzava l’opera educativa di S. Filippo e nel suopanegirico sottolineava con accenti molto positivi lo ‘spirito filippino’nei rapporti con i giovani: “Ah miriamolo là quel buon vecchioattorniato sempre da florida corona di candidissima gioventù. Tuttil’amoreggiano siccome padre, e pendon da quell’ilare bocca; indi orraccogliendo giocosi racconti che insinuano irresistibil virtù, e su que’volti da trista passione non tocchi muovono risi innocenti; or ricevendonell’anime aperte e docili quella vena di melliflua facondia che sìspontanea discorre dagli amorosi suoi labbri in preziosi e faciliinsegnamenti, ed ora in seria attenzione cogli occhi immobili neldolcemente animato volto del Santo, già cominciando a riconoscere ne’proprj cuori i piccioli inganni, gli inavvertiti soprapprendimenti diqualche passioncella che già si desta, e che il prudente vecchio gli vadiscoprendo”60.

58 Ibid., pp. 28-29.59 Ibid., p. 47.60 Ibid., p. 44.

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Dell’esperienza filippina, dunque, Rosmini aveva ben presente lavalenza educativa, proprio mentre meditava sull’urgenza di unprofondo ripensamento pedagogico. Fin dal 1815, scrivendo all’amicoLuigi Sonn, che era a Trento e vagheggiava di stendere un’operasull’educazione, il Roveretano esortava a impegnarsi seriamente intornoa “quell’argumento che io veggo tanto utile anzi necessario,quell’argumento che tanto mi piace per mille versi, e che mai non futrattato compiutamente da italiano veruno. Se guardiamo ai tedeschi,quante pedagogie non abbiamo, e come di eccellenti!”61. Sonosignificativi, a questo proposito, i suggerimenti di lettura e le indicazionibibliografiche che Rosmini forniva al Sonn nelle sue lettere di quelperiodo. Se ne ricava che il giovane roveretano conosceva bene gliscaffali delle opere pedagogiche (e delle novità) nelle librerie anche diTrento e che si manteneva aggiornato attraverso le recensioni suigiornali di cultura francese62. Insieme all’opera sulla Probità naturale delgesuita Roberti egli ricordava pure Filangieri63, autore non certo amatonegli ambienti intellettuali cattolici della Restaurazione. Da Padova, nel1819, avrebbe richiamato, in una lettera al Sonn, Helvétius e Locke64.Ma, ancora nel 1816, da Rovereto, egli suggeriva all’amico di leggere, tra

61 Lettera di Rosmini a Sonn, datata: Rovereto, 29 agosto 1815, in Rosmini, Epistolariocompleto, I, cit., p. 67.62 Ibid., pp. 63-64, 67.63 Nella sua lettera del 29 agosto 1815, Rosmini scriveva: “Osservate ancora il passo delRoberti nella Probità naturale c. II, p. 2, e alcuni della Scienza della legislazione del Cav.Gaetano Filangieri di Napoli, dal qual libro fu tratto il ragionamento sopra l’Educazionedelle donne, e inserito ne’ Saggi di prose e poesie de’ più celebri scrittori d’ogni secolo (Londraper Cooper e Graham, t. I, Sec. XVIII); i compilatori della qual’opera sono L. Nardini e S.Buonaiuti professori di lingua e letteratura italiana (1796)” (ibid., p. 67).64 Rosmini scriveva al Sonn: “Note per l’educazione: 1°. V. il sistema dell’Elvezio, chetutta la diversità degl’ingegni all’educazione riferisce (differente dal Montesquieu ecc.che dà somma forza al clima); 2°. Come anche vide M. Pavo nelle ricerche filosofichesugli americani, cose che ho trovate citate dal Soave nelle note all’art. II della Guidadell’Intelletto, opera postuma del Locke da lui tradotta e stampata appresso al Saggiosull’intelletto umano; 3°. Leggete pure questo art. II e il IV, il XXV colla nota del Soave.Certamente il fanale della parte che distrugge nella nostra educazione dovrebbe essere,pare a me, la Storia filosofica dei pregiudizi, su cui la Guida, sovracitata, dell’Intelletto; 4°.Spettacolo della natura, T. X; 5°. Istruzioni cristiane per servire all’educazione della gioventù,12, Roma 1786” (Id., Epistolario completo, XIII, cit., p. 62).

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l’altro, le omelie del vescovo di Verona Giovanni Morosini (stampate nel1781)65: è da ricordare, peraltro, che Morosini, benedettino cassinese,aveva rivolto ai suoi diocesani tirolesi un’omelia che sembrerebbe filo-giuseppinista66.

Proprio negli anni, tra il 1819 e il 1820, in cui si dispiegava ilmultiforme disegno ‘filippino’ di Rosmini, del quale si è già parlato, ilRoveretano attese alla stesura di un libretto che volle dedicare allasorella Gioseffa Margarita in occasione dell’apertura di una scuola perorfanelle, diretta appunto dalla sorella. È noto che proprio per questomotivo Margherita, accompagnata dal fratello, si recò a Verona perconoscere Maddalena di Canossa e i suoi metodi educativi. Fu questal’occasione del primo incontro di Antonio Rosmini con la marchesa diCanossa: un incontro così importante per il successivo impegno delRoveretano come fondatore di un Istituto religioso e dunque anchecome formatore di religiosi. Ma fu anche l’occasione che fece maturarein Margherita la decisione di farsi canossiana, come in effetti fu.

L’operetta Della educazione cristiana. Libri tre, che Rosmini scrisseappunto tra il 1819 e il 1820 e che pubblicò nel 1821 (lo stesso anno dellapubblicazione delle Lodi di S. Filippo), era dunque dedicata a GioseffaMargarita: “Allorché avete preso la cura e il governo, o Sorella mia, dialcune povere orfane, mi cadde in pensiero di farvi un dono a mostradel piacer ch’io sentivo in veggendovi occupare di sì santo uffizio. Néparvemi, che cosa alcuna potessi trovare per voi piacevole, quanto unlibricciolo di sante massime, che qualche lume vi desse nella novellaimpresa. Al che feci meco ragione di scerre io stesso e unire alcunesentenze dagli ottimi scrittori, acciocché egli sembrasse che del miofosse il dono, o meglio almeno apparisse il buon volere, mentre conqualche mia fatica vel procacciava”67. In realtà l’operetta rosminiana eramolto di più di “un libricciolo di sante massime”, anche se ovviamenteil Roveretano faceva riferimento a un corposo e solido retroterra di

65 Id., Epistolario completo, I, cit., p. 196).66 Cfr. N. Dalle Vedove, La giovinezza del ven. Gaspare Bertoni e l’ambiente veronesedell’ultimo ‘700, vol. I, Roma 1971, pp. 147-148.67 A. Rosmini, Della educazione cristiana. Libri tre, in Id., Della educazione cristiana.Sull’unità dell’educazione, a cura di L. Prenna, Roma 1994, pp. 36-37.

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autori patristici (in particolare S. Agostino) e moderni68. In ogni caso intutto lo scritto circolava uno spirito filippino69 ed esso veniva, a suavolta, a inserirsi in un contesto filippino70.

68 A questo proposito, è significativo notare le particolari e specifiche indicazioni dilettura che Rosmini forniva nel secondo capitolo del libro: “Le divine Scritture, ilCatechismo romano, alcune opere de’ Padri, tutti i libri che si adoprano nella Chiesa, e lepiù sicure memorie de’ Santi, specialmente de’ primi tempi, come sarebbero gli Attisinceri de’ Martiri, e i Costumi de’ primitivi Cristiani. E se volete avere un bel corso di Vitede’ Santi, non saprei suggerirvi opera scritta con maggior saggezza di quella del signorAlbano Butler, che dal francese del signor Godescard si rende pur ora italiana.Appartiene però ancora a ciascun cristiano in particolare la storia ecclesiastica della suadiocesi, perché sappia chi ci abbia recato il lume dell’evangelio, per mezzo di quai Santisi sia diffuso, e successivamente mantenuto o aumentato. A direzione poi particolaredello spirito le opere di san Francesco di Sales, il Combattimento Spirituale del P. Scupoli,e il libro Dell’imitazione sono i primi. Se pochi altri ne vorrete, nella elezione, di quelricordo scherzevole vi sovvenga che dava un vero saggio, cioè che gli autori miglioriincominciano da S, volendo dire che sono i Santi” (ibid., pp. 42-43). Rosmini chiariva –in nota – che il “vero saggio” era S. Filippo Neri (e la fonte del “ricordo scherzevole” era,ancora una volta, la biografia di Bacci).69 Cfr. Vecchi, La prima formazione spirituale di Antonio Rosmini, cit., p. 33; M. Petrocchi,Storia della spiritualità italiana, III. Il Settecento, l’Ottocento e il Novecento, Roma 1979, p. 63.70 La migliore testimonianza, in questo senso, è una lettera di Rosmini al Paravia, senzadata ma – secondo gli editori dell’Epistolario completo – della fine di novembre 1819.Scriveva, dunque, Rosmini all’amico che si trovava a Venezia: “L’andata a Padova nonposso oggimai farla sì presto; sono in sullo stampare il mio Opuscolo Delle Laudi di S.Filippo, che vi manderò alla prima occasione. Appresso manderò fuori alcune altrecosette che vedrete. Oltrecciò mi trattiene una funzione a cui voglio esser presente. Voisaprete forse che mia sorella, come nulla più desidera che di servire a Dio e giovarealtrui, così ha proposto e per evidentissima opera della Provvidenza ha già ritto in piedee al tutto ordinato un nuovo Istituto, in cui dessa intenderà all’educare povere orfanellequi in Rovereto. A ciò non manca quasi nulla, fuori la festa del primo giorno, nel qualequeste giovani s’introducono, ch’io penso di dover far pure solenne e più decorosa che sipossa. Questa cadrà per avventura nel mese prossimo di febbraio o in quel torno”. Inrealtà in “quel torno” i due fratelli Rosmini – come si è detto – si sarebbero recati aVerona. L’inaugurazione della nuova istituzione scolastica si sarebbe avuta solo nelsettembre. Rosmini, dunque, continuava: “Or io mi vo’ trattener qui per vedere appuntoche ogni cosa passi bene. Anzi a questa occasione penso di stampare un libricciuolo, ealtri amici faranno lo stesso, festeggiando la giornata con versi e prose. E ciò nonv’accenno pure a caso; ma perché, s’io osassi, voi pure vorrei punzecchiare acciocchédoveste a quella occasione far vedere al pubblico cosa vostra, che il giorno onorasse evoi, e (quello che è più) desse altrui incoraggiamento di simili opere. Vennemi in capo

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Nel saggio, Rosmini ricordava S. Filippo a proposito dell’utilità delricorso a brevi orazioni giaculatorie71, citava quanto il santo diceva aigiovinetti: “Mi basta che voi non facciate peccati”72, richiamava sia ilNeri sia Bonsignore Cacciaguerra quando trattava della comunionefrequente: “sentirete tutti i Santi a incoraggiarvi allo spesso comunicare.San Filippo col rinfiammare in Roma l’amore alla frequente comunione,e secondo l’esempio suo, altri piissimi uomini migliorarono in molteparti i costumi; e per cooperare a detta frequenza, BuonsignoreCaccaguerra, compagno di san Filippo, scrisse in quel tempo il suodivoto libro della Comunione”73.

Del resto, quando parlava della virtù come “bellezza interioredell’anima”74, Rosmini faceva riecheggiare la tematica dell’Elogio di S.Filippo. Così pure, quando discuteva della carità, sceglieva lacaratterizzazione paolina che già – sulla scorta, come si è detto, del Bacci– aveva visto incarnata dal Neri:

Non parlerò pertanto della carità del prossimo distesamente: troppi ne sono efrequenti i trattati. [...] Io vi farò considerare per tanto una sola cosa, cioè quellodi Paolo stesso: che la carità si fa tutta a tutti: ch’ella non si spande solo in eroicheazioni e grand’atti; ma ella si gode e s’intertiene ancora in cose più minute etriviali, nelle più inosservate e neglette, ivi talora giace più grande dove menoapparisce, ivi più sicura ove più nascosta. Ella è saggia, e non opera a caso, ella èsinceramente generosa, e non cerca né i suoi capricci, né i suoi piaceri. Voivedete, che con questa magnanima virtù a lato io vi conduco fuori da quellostesso stanzino, dove nel capo anteriore all’orazione condotta v’avea, e vi facciouscire in mezzo agli uomini, in mezzo alla società. Sì; se la donzella cristiana amail ritiro, sa però scegliere quello che meno ama a persuasione della carità75.

che il vostro prediletto libricciuolo De laetitia Christiana opportunissimo tornerebbe. Fated’averlo, e rendetene lieti della vostra traduzione, che io spero e più sana e più saporosa,quanto alla lingua, di quella del Bettinelli, sebben in lettere gran barbassoro, com’altri iltiene” (Rosmini, Epistolario completo, I, cit., pp. 344-345). L’insieme dei riferimentirosminiani specifica, dunque, il ‘contesto filippino’ di gestazione dell’operasull’educazione cristiana.71 Rosmini, Della educazione cristiana, cit., p. 53.72 Ibid., p. 124.73 Ibid., p. 152.74 Ibid., p. 184.75 Ibid., p. 180.

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Ed era ancora, questo, ciò che egli aveva sottolineato all’inizio

dell’Elogio: il Neri duro asceta, ma nel mezzo del secolo, contemplativo emistico ma nel fervore di apostolato per la vie della tumultuosa città diRoma. In Della educazione cristiana tale indicazione diveniva precisoindirizzo ideale, sulla base dell’insegnamento patristico (Rosmini citavaTertulliano, Clemente Alessandrino e Origene) e dell’esperienza storicadel cristianesimo primitivo (come già lo era stato per Cesari): “Chi tienepoi, che il cristiano raccoglimento sia avverso alla necessità della vitasociale, e per sì fatta ragione da lui si ritenga, questi sommamente dalvero è disgiunto. Protestavano que’ primi Cristiani, da cui si trae ogniimagine di cristiana vita, nelle loro apologie a’ gentili, che essi nonabbandonavano già l’arti loro, né si segregavano dagli uffizj della vita;ma nelle loro diverse professioni lavoravano lodando e festeggiandoogni giorno il nome di quel Dio che tutto sa e tutto sente”76.

La particolare curvatura filippina dell’operetta rosminiana Dellaeducazione cristiana emerge limpidamente nel confronto con la lezione diSilvio Antoniano. L’Antoniano, com’è noto, era un figlio spirituale diFilippo Neri77, con un suo personale timbro teorico, dovuto anche ad unoriginale ripensamento dell’agostinismo78. Vicino pure al Valier, egliappare come personaggio nel dialogo De Laetitia Christiana, nel qualeanzi gioca un ruolo centrale come ‘anello di congiunzione’ tra i duecenacoli che vengono presentati: quello romano attorno al Neri e quelloattorno al Valier. Antoniano scrisse i Tre libri dell’educazione christiana deifigliuoli, opera della quale si è giustamente messa in rilievo la genuinaintonazione oratoriana79. Nella Biblioteca della famiglia Rosmini, a

76 Ibid., p. 37.77 Cfr. P. Prodi, voce Antoniano Silvio, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. III, Roma1961, pp. 511-516.78 Cfr. V. Frajese, Il popolo fanciullo. Silvio Antoniano e il sistema disciplinare dellacontroriforma, Milano 1987, p. 47.79 Scrive Cistellini: “Forse uno studio più attento potrebbe cogliere in quest’opera unasicura vena di ispirazione filippina, oltre che le note caratterizzanti lo spirito dellapedagogia controriformista generalmente in esso ravvisata. Una costantepreoccupazione di formare il cristiano integrale mediante le tradizionali lineedell’ascetica e della pratica cristiana si accompagna con una certa vena di sfiducia nellecapacità naturali del giovane (“fuoco di paglia” chiamerà Filippo il fervore giovanile);

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Rovereto, si conserva una copia del libro80. E il giovane Antonio dovetteconoscerlo abbastanza presto81.

Il volume dell’Antoniano, dunque, si divideva in tre libri: il primoparlava degli educatori (genitori, in particolare, ma anche padrini enutrici); il secondo riguardava l’oggetto dell’educazione cristiana e cioèla dottrina (il Simbolo Apostolico, i sacramenti, il Decalogo, l’orazione);il terzo infine si diffondeva sulle virtù da inculcare (ma estendeva anchela trattazione ad aspetti didattici e alla considerazione degli studi). Laparte più essenziale e più importante dell’educazione dei figli era,secondo Antoniano, l’educazione cristiana, cioè alla “bontà cristiana”82.Non si trattava di un’educazione specifica per monaci o religiosi, ma alcontrario di un’educazione a una forma di vita comune a tutti: “l’amareIddio e il prossimo, sono cose comunissime e necessarie a tutti”83.Pertanto la cura principale dei genitori doveva essere “che il fanciullos’innamori di Dio e della gloria del paradiso, e della bellezza dellavirtù”84. Innamorare il bambino della bellezza della virtù significavaintrodurre “i buoni abiti delle virtù cristiane nel petto del fanciullo, edimparar lui l’arte di servire Iddio, e di saper raffrenare i cavalli indomiti

ma il metodo didattico graduale e certe geniali prospettive, insieme con una veraapertura alla iniziazione per tutti al sapere almeno elementare, ne scoprono laconsonanza con lo schietto spirito filippino” (Cistellini, Introduzione, cit., p. XLI). Cfr.anche E. Carbonera, Silvio Antoniano. Un pedagogista della Riforma cattolica, Sondrio 1902.80 S. Antoniano, Tre libri dell’educazione christiana dei figlioli, Verona 1584.81 Il 15 marzo 1814, egli scriveva al Sonn: “Il catechismo romano poi, che è opera d’unFoscarario e d’un Ferrerio e altri cotali, a chi non piacerà egli? E riguardando al latino, acui non piaceranno gli scritti di Silvio Antoniani [sic], di Pier Galesini, di Muzio Calini edel Poggiano?” (Rosmini, Epistolario completo, I, cit., p. 14). E in una successiva lettera del28 gennaio 1815, sempre al Sonn, faceva pure esplicito riferimento all’opera pedagogica:“Della Educazione (non so se io fatichi al vento, il che forte mi noierebbe) mettovi inmente l’opera del Cardinal Silvio Antoniano, Della educazione de’ figliuoli, libri III, uscitala prima volta per le cure del P. Alessio Filiucci, spinto dal Vescovo di Verona AgostinoValerio, sotto gli auspicj di S. Carlo Borromeo, per cui sprone fu scritta” (ibid., p.52).82 Cito da un’edizione contemporanea: S. Antoniano, Dell’educazione cristiana e politica deifiglioli. Libri tre, a cura di L. Pogliani, Torino-Milano-Firenze-Roma-Napoli-Palermo1926, p. 58.83 Ibid., p. 298.84 Ibid., p. 235.

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di questi nostri appetiti”85. La concupiscenza carnale, cioè l’inclinazioneal male, poteva essere vinta con l’aiuto della grazia divina, ma eranonecessari la libera decisione e l’impegno dell’uomo: un impegno vigile epermanente, un combattimento spirituale, un’ascetica che richiedevaesercizio continuo.

Appare significativo il richiamo alla bellezza: è questo infatti unaspetto che abbiamo visto ripreso da Cesari e che in Rosmini divenivaancora più importante. L’Antoniano ne indicava il valore all’interno diuna prospettiva ecclesiologica e cioè nel rapporto tra Cristo Sposo e laChiesa Sposa (con un interessante riferimento al Salmo 44): “Davideprofeta, ripieno di Spirito Santo, nel salmo quarantesimo quarto cidescrive le nozze dello Sposo celeste, Cristo Gesù, con la sua dilettaSposa la santa Chiesa. E dopo aver cantato altamente della bellezza,della fortezza e del regno del celeste Sposo, si volge a narrare le lodidella novella Sposa, la quale rappresenta a foggia di una nobilissimaregina, assisa alla destra del caro suo consorte, ornata di ricchissimiabbigliamenti, coperta di una veste d’oro e circondata di un mantoricamato di varj fregi, con sommo artificio tessuto a diversi colori di setae di oro”86.

L’operetta di Rosmini Della educazione cristiana. Libri tre richiama, findal titolo, il lavoro dell’Antoniano. Anch’essa si divide in tre “libri”,secondo il medesimo criterio di distinzione: il primo libro è dedicato aglieducatori (nel caso di Rosmini la sorella); il secondo riguarda le veritàcristiane da insegnare; il terzo le virtù da infondere. Il “fine di tuttol’insegnamento” era, per Rosmini, la pratica della virtù della duplicecarità, verso Dio e verso il prossimo, carità che era “fine e pienezza ditutte le Scritture”87 e rendeva “operativa la scienza a gloria d’Iddio e avantaggio dell’uomo”88. L’abito virtuoso della duplice carità eraostacolato, affermava Rosmini, dalla “guerra perpetua che fa il mondo aCristo”, cioè dalla “infermità di nostra natura”, per cui “dobbiamotuttavia affaticarci per conseguirlo”: ecco allora – come aveva già fattoAntoniano – l’indicazione della necessità del combattimento spirituale.

85 Ibid., p. 58.86 Ibid., p. 27.87 Rosmini, Della educazione cristiana, cit., p. 76.88 Ibid., p. 82.

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Ma soprattutto va ancora ricordata la prospettiva della bellezza (cheanche in Rosmini si coniugava ad un’ecclesiologia vicina a quelladell’Antoniano). Tale prospettiva risulta evidente da un esamecongiunto di tre opere rosminiane pressoché coeve, anche se pubblicatein tempi diversi: lo Spirito di S. Filippo Neri, Della Educazione Cristiana eStoria dell’amore cavata dalle Divine Scritture (che il Roveretano scrissecontemporaneamente a Della educazione cristiana, ma che pubblicò solonel 1834). Nello scritto pedagogico dedicato alla sorella, il Roveretano aproposito della “beltà” della Chiesa affermava “che il pregio e la beltàsua non istà tanto nel numero de’ suoi membri, quanto nella eccellenzache trae origine da Cristo: e come, sia ella o non sia numerosa, Cristotuttavia sposo di lei amorosissimo dispone in suo bene, e per suo amoretutte l’altre cose di questo mondo”89. Ma l’ecclesiologia sponsale erasviluppata con ampiezza nella Storia dell’amore. Nel libro II diquest’opera – che utilizzava, sul piano metodologico, un figurismoprobabilmente derivato dall’oratoriano francese Duguet – Rosminipresentava alcune figure post-mosaiche: Giobbe, Davide, Salomone. InGiobbe sottolineava la santità, in Davide il cantore della bellezza, inSalomone la sapienza: santità, bellezza e sapienza erano poi ricompresenella carità. Parlando dunque di Davide, autore del Salterio, e con unsignificativo riferimento al Salmo 44 (già richiamato – come si è visto –dall’Antoniano), egli scriveva:

E quanto poi a questo Davidde, “di pelo rosso, e di bello aspetto, e di visoavvenente, forte insieme e guerriero, sonante dell’arpa, al cui dolce tastol’immalinconito Saule si rallegra ed alleggia della sua tristezza, lasciando ilmalvagio spirito” (I. Reg. XVI, 12, 18, 25), quanto non assomiglia all’amabilissimoMaestro Divino, che mosse gli uomini con fortissima soavità di accenti al mondo,secondo la nuova celeste armonia della sua legge di amore? Poiché l’amore, quasiun dolce tintinno d’arpa temprata in soave nota, penetra vigorosissimo il cuoreumano, e lo conquista: portandovi e lasciandovi dentro Cristo, e indi scacciato ildemonio.Cristo veracemente tutto il mondo conquistò colla grazia, la quale è pure unmedesimo colla carità. Ed essendo essa carità un godimento ineffabile di divinabellezza svelata a’ cuori nostri dal santo Spirito, invita egli stesso il reale Salmista

89 Ibid., p. 86. Cfr. anche G. Ferrarese, La Chiesa nella teologia giovanile di Rosmini, in AA.VV., Rosmini e il rosminianesimo nel Veneto, cit., pp. 37-70.

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lo sposo bellissimo della Chiesa “ad avanzarsi e combattere, e regnare colla suaindicibil beltà” (Ps. XLIV, 4). Sicché la bellezza, e la carità fruizione di essabellezza, fu il farmaco con cui Cristo guarì il mondo ammorbato, fu l’arme concui conquistollo perduto, e la cetera con cui rallegrollo cupamente intristito90.

Lo stesso concetto era espresso, peraltro, nell’Elogio di S. Filippo Neri

(ancora con la citazione del Salmo 44): Questo Profeta è il Dio disceso e fatto uomo, e mansuetissimo uomo, cui di sìamabili tinte fu colorito già fin dai profeti. Nel Salmo XLIV se gli dice: “Tu vinciin beltà i figliuoli degli uomini: la grazia è diffusa sulle tue labbra”. E la sposa nelcantico de’ cantici (c. I): “Quanto tu sei bello, amato mio! Che grazie e attrattivehai tu mai!” [...] Clemente poi Alessandrino con acconcissima immagine raffrontaCristo con que’ vati antichi, di cui le favole raccontavano aver essi co’ loro cantifatte cose portentose, come di Anfione, aver cinto le mura Tebe; d’Arione inescatoun pesce; d’Orfeo, tirato ad ascoltare gli alberi e le fiere; e d’Eunomo, fatta venirea cantargli sulla lira la cicala pitica. E mostra che come queste son tutte cosefavolose, così favoloso non è quanto operò il nuovo canto di Gesù Cristosoavissimo, e potentissimo citarizzatore: che veracemente eresse col canto suoGerusalemme; e le belve più feroci e crude trasse a udire, e rese ragionevoli emansuete (Esortaz. Ai Gentili c. I). Quindi assai bene il salmo XLIV esorta Cristo“a cingersi la spada a’ fianchi, tender l’arco, avanzarsi e regnare felicemente collasua speciosità e bellezza”. Cristo dunque colla bellezza vinse, né altro fece cheilluminare colla grazia sua gli occhi dell’anima, acciocché potessero vedere quellaforma e faccia dell’onesto, la quale, dicea Platone, se vedere da noi si potesse,mirabili amori ecciterebbe della sapienza (Cic. De off. l. I)91.

La ‘pedagogia divina’, nella prospettiva rosminiana, era dunque

caratterizzata dalla bellezza: si potrebbe quasi parlare di una esteticapedagogica o di “callologia” soprannaturale pedagogica. Al cuore diquesta estetica pedagogica divina vi sarebbe la dinamica deiforme etriniforme della grazia, studiata da Rosmini nell’Antropologiasoprannaturale. Ma anche la pedagogia umana, ritrovando – come sivedrà più avanti – il suo ‘archetipo’ nella pedagogia divina, aveva una

90 A. Rosmini, Storia dell’Amore cavata dalle Divine Scritture, in Id., Ascetica, Milano 1840,p. 456-457. Per una più piena intelligenza critica di quest’opera rosminiana, nel contestodella riflessione teologica del Roveretano cfr. G. Lorizio, Eschaton e storia nel pensiero diAntonio Rosmini, Roma-Brescia 1988.91 Rosmini, Lo Spirito di S. Filippo Neri, cit., pp. 33-34.

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valenza estetica. Nell’Elogio, S. Filippo era presentato in relazione almodello di Cristo, secondo la caratterizzazione del Salmo 44. Il Neri,scriveva Rosmini, “di questo divino musico [Cristo] imitò il ritmosublime ed i numeri possenti”92. Anche i particolari aspetti ‘didattici’dell’esperienza filippina, come l’uso della poesia e della musica,assumevano allora una luce diversa e una più profonda significativitànella prospettiva di un’estetica pedagogica:

[S. Filippo] cercò i ritratti, e le copie della sublime bellezza della virtù in tuttecose del mondo; le quali copie più imperfette e languide eran certo del vero, maperciò stesso pareano d’una bellezza più accessibile a tutti, e anco agli occhi menforti gradita; e così gli allettava, e poco a poco l’anima loro puliva ed ingentiliva agodere di quella bella ombra l’infinitamente più bello esemplare. Ed egli adavvivare ed incarnare questi ritratti chiamò le arti belle, e sopra tutte giudicòefficacissime la musica e la poesia. L’una e l’altra delle quali artilusinghevolissime movitrici de’ cuori, chiamate da Filippo alla loro prima sacraistituzione, fecele servire al vero e al bene, alla religione e alla pietà. Così leintrodusse ne’ suoi oratori e ne’ suoi templi. Ed egli stesso dolcemente cantavatalor anco da subitaneo entusiasmo commosso, o la gloria del suo Dio, o losplendore della virtù, o, come è da credere, la bellezza dell’amicizia. Da dentroadunque nella natura loro gravissimi erano tutti gli atti di Filippo perché da altamente prodotti, e ad assomigliare ordinati il bello infinito; di fuori nel lorosembiante esteriore tutti leggiadri, tutti graziosi, perché accomodati a innamoraredi sé i cuori umani, e farli copia del medesimo eterno esemplare93.

Nell’ambito, dunque, di questa estetica pedagogica, fondata sulla

spiritualità filippina, due ulteriori aspetti vanno segnati, perchéavrebbero poi avuto in Rosmini un originale, successivo sviluppo,nell’incontro con altri modelli spirituali (quello borromaico e quellocappuccino), come si vedrà meglio nei prossimi capitoli. Il primo èquello dell’importanza dell’istruzione per l’ammestramentodell’intelligenza. Secondo Rosmini, infatti: “La intelligenza è quel donomagnifico di Dio, che distacca infinitamente l’uomo disopra deglianimali tutti, e per cui è fatto ad immagine e similitudine della divinità.[…] Mirate dunque la nobiltà umana! vedete l’altissimo fonte di leiascendendo in sull’orme di questo gran Dottore [S. Agostino] nella

92 Ibid., p. 33.93 Ibid., pp. 39-40

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somiglianza con Dio formata dalla intelligenza da lui a noi comunicata,sopra la quale non v’ha nulla fuori che Dio, e sotto alla quale pure nulla,fuori che cosa infinitamente da lei distante. Quanto dunque è per noi daeducare questa illustre facoltà, e la cultura di lei con ogni amorestudiare!”94.

Il secondo aspetto riguarda la dimensione ecclesiale a Rosminicontemporanea e l’indicazione della necessità di una riforma peravvicinarsi al modello presentato dalle Scritture. Nello Spirito di S.Filippo Neri, il Roveretano aveva scritto: “La Scrittura è quella che nechiama ad ammirare i giusti anche da parte della bellezza. Ella cidescrive le virtù come bei vestimenti ed ornati dell’uomo. Così in Isaiaparla la Chiesa di Gesù Cristo (c. LXI): “Grandemente mi rallegrerò iodel Signore, e l’anima mia esulterà nel mio Dio, perché egli mi harivestita della veste di salute, e del manto di giustizia mi ha addobbata,come sposo adorno della corona, e come sposa abbellita delle sue gioje”.Altrove (Isaia XXXV) s’attribuisce alla Chiesa “la bellezza del Carmelo”:e peculiarmente questa bellezza è celebrata nell’inarrivabile Epitalamiodella Cantica”95. Questa bellezza delle virtù dei giusti era vista, inDell’Educazione Cristiana, come bellezza educatrice anzi co-educatricedei cristiani tra loro: “Varie sono le cose, che altrui possono dar piacere;ora egli è bello ed onesto, se apportiamo piacere colla virtù. Così ciinsegnò anche Cristo a vivere cari agli altri: “Splenda la luce vostra infaccia agli uomini, sì che essi la veggano, e ne glorifichino il Padreceleste” (Matt. V, 16). La virtù ha veramente una così amabile vista, chetutti, purché la veggano, non possono se non amarla grandemente eammirarla. Egli è questo quel bello Amore figliuolo di Sapienza, di cuiparlano le Scritture, più grazioso assai e leggiadro di quello delmondo”96. Ma ecco allora che, guardando al modello della Chiesaprimitiva, appariva, a Rosmini, carente e insoddisfacente la vita dellaChiesa contemporanea, soprattutto nell’amore a Gesù Cristo che ladoveva animare e che doveva essere il fondamento di quella bellezza co-educatrice (per la quale ritornava pure un modello muratoriano di“regolata devozione”). Scriveva infatti Rosmini: 94 Id., Dell’Educazione Cristiana, cit., p. 63.95 Id., Lo Spirito di S. Filippo Neri, cit., p. 29.96 Id., Dell’Educazione Cristiana, cit., p. 183.

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Aveano i Cristiani de’ secoli primi le recenti imagini di Gesù Cristo ancora vivein sugli occhi. […] Lo stato miserabile del mondo a que’ tempi ingolfato in ciechesozzure di paganesimo faceva risplendere più la bellezza, la luce, la perfezionedel nuovo istruttore celeste […]. Oh famigliarità che aveano col nostro Signore!Oh santissima dimestichezza, vera fratellanza con questo amabile Dio, in cui ilmaestro, il padre, l’amico, tutto trovavano; e fuori di cui cosa alcuna nonvolevano ritrovare!Adesso Gesù Cristo al più de’ Cristiani è lontano […]. Non si discorre di lui conquella frequenza, non con quell’ardore nelle unioni nostre: si ha quasi ribrezzoad aprirci con ingenuità vicendevolmente, e dire i sensi amorosi, che pur da moltisi nutrono di dentro per lui […].Comunemente i Cristiani nostri hanno, è vero, divozioni particolari, pratiche a’Santi, formole in onore di qualche particolare oggetto religioso. Commendabilisono queste, se dalla Chiesa approvate; ma chi può negare che non per difetto diesse, ma talvolta per imperfezione di chi le usa, molti non sieno trattenuti inqueste pie usanze, e quasi tenuti indietro e indugiati dall’adito alla fonte delladivozione, alla cognizione e al vagheggiamento immediato di Gesù, a cui onorepur quelle per se medesime si riferiscono? […]Ah sì! illanguidita è presso a molti la divozione di Gesù! Io vorrei che ogni cosa sifacesse per ristorarla e raccenderla dai Cristiani97.

5. Una pedagogia del cuore

Contemporaneamente a Della Educazione Cristiana, Rosmini scrisseanche la Lettera sopra il Cristiano Insegnamento, indirizzata – il 15 ottobre1821 – all’amico don Giovanni Stefani di Val Vestina98 e tradusse il DeCatechizandis rudibus di S. Agostino, pubblicandolo nel 1821, pressol’editore Battaggia, con titolo Del modo di catechizzare gli idioti99. Da tale 97 Ibid., pp. 127-128.98 Id., Epistolario completo, I, cit., pp. 480-488.99 Francesco Paoli nella sua biografia di Rosmini, dopo aver parlato di Lo Spirito di S.Filippo Neri, aggiunge: “Essendo allo studio di Padova nel 1817 prese a volgarizzarel’opuscolo di S. Agostino del Modo di catechizzare gli Idioti, che pubblicò per la primavolta a Rovereto nel 1821 [...] fu lo zelo del buon metodo d’istruire il popolo cristianoche fin d’allora lo mosse a tradurlo”. E, subito dopo, ricorda “la bella Lettera sul cristianoinsegnamento, che nel 1821 diresse all’amico suo D. Giovanni di Val Vestino, che nel 1823stampò il Marchesani a Rovereto, e fu riprodotta nel 1826 a Firenze, nel 1832 a Lugano,nel 1838 a Milano, e finalmente a Napoli nella collezione del Batelli” (F. Paoli, Della vitadi Antonio Rosmini-Serbati. Memorie, Torino 1880, vol. I, pp. 568-569).

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intensa riflessione teologica e catechetica si sarebbe poi decantato unfilone di approfondimento pedagogico che avrebbe condotto, nel 1825,all’opera – richiestagli dallo Stefani – Saggio sull’Unità dell’Educazione100.

Nella Lettera Rosmini considerava “la cristiana istruzione de’catechismi” come “l’effige e quasi la faccia stessa della perfettaistruzione”, anche perché il modello perfetto di Educatore era GesùCristo: “è certo – scriveva – che il maestro cristiano altro esemplare avernon debbe diverso da quello che ha catechizzato tutta la terra, GesùCristo, mandato, come egli stesso annunzia, ad evangelizzare i poverelli,cioè ad istruire i poveri di scienza, e a consolare i poveri di beni veri coldono degli eterni”101. Nel Saggio sull’Unità si chiariva che “l’educazionedivina” era l’archetipo di ogni educazione umana102. Era unaprospettiva di ascendenza agostiniana: in questo senso si può osservareche, essendo il filosofare rosminiano un filosofare razionaleagostinianamente interno all’orizzonte della religione, esso era pureinterno all’orizzonte educativo (cioè dell’educazione divina). La filosofiarosminiana doveva dunque essere, anche, in un senso alto e nobile, unapedagogia.

Nella Lettera Rosmini distingueva tre metodi legittimi ed efficaci perl’insegnamento cristiano: la catechesi di tipo catecumenale (o paolina)con una struttura di istruzione morale e dogmatica; la catechesi liturgica(o benedettina) modulata secondo i momenti dell’anno liturgico (comeegli stesso aveva fatto vedere in Della Educazione Cristiana); la catechesistorica (o agostiniana) legata alla storia sacra, che prendeva le forma diuna lectio divina e che Rosmini – in sintonia con alcune correntiinnovatrici103 – inclinava a preferire.

100 Si veda la recente edizione: A. Rosmini, Sull’unità dell’educazione, in Id., Dellaeducazione cristiana. Sull’unità dell’educazione, cit., con ottima introduzione di Prenna (pp.199-215).101 Id., Epistolario completo, I, cit., p. 480.102 Scriveva: “la educazione che dà Iddio alla Umanità, certamente ella presta il primo,unico e sommo esempio di ogni altra vera educazione: cioè qualunque educazione in cuiqualche precettore o genitore allevi la gioventù sua, non vuole essere, secondo i cristianiprincipii, che imitazione del modo col quale Dio alleva gli uomini per la pietà, ovverouna applicazione, o (mi si conceda) una particolare attuazione di quella comune e divinaeducazione” (Id., Sull’unità dell’educazione, cit., p. 229).103 Per l’influenza della catechesi storica di Fleury su Rosmini e per il dibattito su una

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Nessuno di questi tre metodi si può dire tipicamente filippino.L’esperienza oratoriana con la sua robusta tradizione educativa nonsuggeriva, in altri termini, a Rosmini una metodica particolare especifica, ma veniva invece ad informare i principi pedagogici di fondo,quale che fosse poi il metodo che si volesse adottare. Questa strutturapedagogica che innervava ogni azione educativa può essere sintetizzatain tre principi fondamentali: l’educatore deve aprire il suo cuore allalegge divina; deve parlare al cuore dei suoi discepoli; deve calare il suoinsegnamento nelle situazioni concrete e specifiche dei discepoli quasiponendo il proprio cuore nel loro.

Innanzi tutto, dunque, il maestro cristiano deve modellare il suocuore sulla legge divina, attraverso la “familiarità con la parola di Dio”,come diceva Bacci nella sua Vita di S. Filippo, e cioè meditando, anzi“ruminando” la Parola. Nella Lettera sopra il Cristiano InsegnamentoRosmini scriveva: “una cosa bensì fa sicuramente bisogno [all’operaeducatrice del maestro], senza la quale non solo è ardua, ma impossibileal tutto. Sapete quale? Un petto cristiano, un animo pieno di carità forte,persuaso intimamente delle verità evangeliche, formato nell’assiduitàdell’orazione e della meditazione, alla intelligenza delle cose divine. [...]E invero, oh Dio mio, come l’uomo si ritruova diverso da sé medesimoin simile opera, quando alla pietà dedicato suol masticare la divinalegge, e nella propria mente quasi in suo proprio stomacoapparecchiarla, secondo l’espressione di un antico [S. GiovanniCrisostomo], per nodrire opportunamente i fedeli quali propriemembra, mediante quel calore di amor divino, che suscita il piomeditare!”104. Era questo uno spunto significativo, che si ritrova anche inDella educazione cristiana105.

rinnovata impostazione “storica” della catechesi, suscitato da varie scuole, a cominciareda quella di Tubinga, cfr. P. Braido, Catechesi e Catechismi tra ripetizione, fedeltà einnovazione in Italia dal 1815 al 1870, in AA. VV., Problemi di storia della Chiesa dallaRestaurazione all’unità d’Italia, Napoli 1985, pp. 13-78. Ma, più in generale, cfr. anche C.Pancera, L’originalità del pensiero educativo di Claude Fleury (1640-1723), in “Annali distoria dell’educazione e delle istituzioni scolastiche”, 3 (1996), pp. 149-182.104 Rosmini, Epistolario completo, I, cit., p. 481.105 Rosmini diceva che i cristiani della Chiesa primitiva erano “insaziabili” della Paroladi Dio e considerava mirabile “l’ardore che avevano d’intenderla a propria e altruiedificazione” (Id., Della educazione cristiana, cit., p. 44). E più avanti, considerando la

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Il secondo prinicipio era quello di saper parlare al cuore deldiscepolo, non solo alla sua intelligenza. In questo veramente FilippoNeri, come sottolineava Bacci, aveva dato un incomparabile esempio,con la sua affabilità e dolcezza, col suo paziente adattarsi ai tempi stessidell’educando, con rigore ma senza rigorismo, ancorché questo fossestato contestato da alcuni. Anche Rosmini – in Della Educazione Cristiana– aveva raccomandato la dolcezza (senza declinare alla necessariafermezza)106. E nella Lettera aveva osservato: “Ben sovente mi avviene diritrovare persone semplicissime, senza grande ingegno naturale, négrande studio, che (non offendendomi d’una ruvida corteccia delleespressioni) mi parlano delle verità divine da angeli, con una soavitàche m’innamora, con una precisione che mi illumina, con una eloquenzache mi trascina. Certi Curati di villa, rozzissimi in tutto il resto, sono piùche Demosteni quando prendono ad inculcare qualche verità eterna:tanta è l’evidenza, l’efficacia e la forza di cui la presentano fornita, e concui da tutti i lati assaliscono il cuore. Io mi confondo, e conosco alloraquanto valga la persuasione viva delle verità, la grazia di Dio, il zelodella sua santa parola, sopra il nudo studio, l’erudizione, e ‘l parlaredipinto. Queste cose sono fredde come ghiaccio, né verun cuore possonoinfiammare di carità; quelle ferventi mettono ogni cosa in incendio. Conquelle il mondo fu convertito; con queste fu lusingato, adulato, divertito,come sembrano fare, e perché tacerlo? tanti predicatori de’ nostrigiorni”107. Del resto questo motivo diveniva pure, per Rosmini, criteriodi giudizio, quando – in seguito al suo ufficio di parroco di Rovereto –dovette assolvere al compito di ispettore scolastico108.

necessità di prepararsi a portare bene il grave incarico di educatore cristiano, facevaancora riferimento alla Sacra Scrittura: “Questo è il volume della legge. Iddio l’ha datoanche a voi, e vi comanda mangiarlo. Se ubbidirete, ve ne farà sentir la dolcezza. Ma senol mangiate, non potrete avere né adempiere missione alcuna non solo determinata epeculiare, ma né pure ordinaria e generale, di cui qui si parla. D’ora innanzi meditateadunque più addentro nella santa legge” (ibid., p. 50).106 Ibid., p. 58.107 Id., Epistolario completo, cit., pp. 481-482.108 Cfr. M. V. Nodari, Rosmini ispettore scolastico decanale a Rovereto, in AA. VV., Rosmini eil rosminianesimo nel Veneto, cit., pp. 71-84. Cfr. anche A. Valle, Rosmini e Rovereto: 1834-1835 arciprete decano di San Marco, Rovereto 1985; M. P. Biagini Transerici, AntonioRosmini e la Scuola Elementare (con un’appendice di inediti), in “Rivista Rosminiana”, 67

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Il terzo principio era quello di un’opera educatrice, si potrebbe dire,‘in situazione’: attenta cioè al vissuto specifico del singolo discepolo, allasua condizione esistenziale e ai suoi bisogni, agli eventi della storiagenerale e locale e delle vicende comunitarie e personali. Si trattava di‘inculturazione’ rispetto alla comunità e di ‘adattamento’ rispetto allapersona. Anche in questo vi era stato l’esempio di S. Filippo. Rosminipoi – in Della Educazione Cristiana – per conseguire una “istruzionespontanea e fervente” consigliava di adeguarsi alla “misura” delleeducande109 e nella Lettera invitava all’elasticità anche nell’uso delmetodo: un uso che non doveva essere rigido e che si doveva saperaccantonare per calarsi, appunto, nel vissuto reale, quando ciò fosseopportuno110.

Questi tre principi pedagogici fondamentali configuravano quellache si potrebbe definire una ‘pedagogia del cuore’, che avrebbe poiavuto un approfondimento ed una sistematizzazione, sul piano dellateoria pedagogica, nel Saggio sull’Unità dell’Educazione111. Rosminiaffermava che il “fine di tutta l’educazione” doveva essere “la

(1973), 1, pp. 11-26, 68 (1974, 1, pp. 28-58.109 Rosmini, Della educazione cristiana, cit., p. 56.110 Affermava infatti: “Ciò non di meno, per quanto il metodo sia bello, lucido,vantaggioso, non converrà mai che il catechizzatore, specialmente se è parroco, cioè seha la cura generale di quell’anime a cui favella, metta a sé stesso de’ ceppi e dei legamitali, per cui non sappia trascorrere la sua lingua a quanto è più vantaggioso al tempo.Non v’ha difetto sì grande d’un parroco, quanto il percuotere colle sue parole l’aria,dicendo solo cose generali, né entrare coll’animo nel bisogno presente del suo gregge, nébattere là dove sono i difetti. Il catechizzatore parroco starà attento a tutto, e parlerà congran fidanza sopra i bisogni del dì, sempre con modo generale e prudente, declamandocontro que’ mali che germinano quotidiani. Per questo fine egli farà succederedigressioni ed episodii nel metodo preso, si permetterà delle scorse, e anche lointerromperà a dirittura se occorra: non essendovi quanto un parlare a proposito e atempo che sia utile. Allora si ritengono le verità, e le massime, quando si riconosconoimportanti alle circostanze presenti, quando sono dette al caso; ed è allora che vengonofuori altresì di persuasione, e con palmare ragione” (Id., Epistolario completo, I, cit., p.487).111 Cfr. L. Prenna, l’educazione del cuore nel pensiero pedagogico di Rosmini, in G. Beschin (acura di), Antonio Rosmini, filosofo del cuore? Philosophia e theologia cordis nella culturaoccidentale, Brescia 1995, pp. 427-437.

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formazione del cuore umano”112. E osservava: “Di poi non si creda cosìlegger cosa possedere le chiavi del cuore umano, il quale èprecipuamente da allevare nella gioventù, ed al quale tutti gl’ingegnidell’educazione sono da volgere: poiché quantunque ne’ fanciulli questocuore sia tenero e semplice, è tuttavia cuore umano, e tiene i germi ditutte le umane inclinazioni, ed ha le sue moltiplici pieghe e sinuosità, edaditi riposti, e viste vastissime: e dentro alle regioni di simil cuore nonpuò mettersi sicuramente se non quell’uomo, il quale sappia di moltofilosofare, ed abbia di molto osservato sopra se stesso ed altrui, e collaperspicacità della mente rilevate le molle delle nostre operazioni”113.

Sempre nel Saggio, Rosmini dava una sorta di Ratio di questaeducazione del cuore, sviluppando una precedente intuizione (fissata inuno schematico appunto). Divideva la formazione dell’uomo in quattromomenti: la “Coltura del cuore dell’uomo principalmente per laMemoria” (nelle scuole di grammatica, cioè elementari e ginnasio); la“Coltura del cuore dell’uomo principalmente per la Immaginazione”(nelle scuole di retorica); la “Coltura del cuore dell’uomoprincipalmente per l’Intelletto” (nelle scuole di filosofia); la “Colturadell’uomo alla società o sia uso dell’uomo già formato”(all’università)114.

112 Id., Sull’unità dell’educazione, cit., p. 290.113 Ibid., p. 271.114 Id., Coltura dell’uomo a sé o sia formazione dell’uomo, in Id., Della educazione cristiana.Sull’unità dell’educazione, cit., pp. 323-325. Per ciascuno di questi momenti era previstaun’istruzione religiosa, una umanistica e una scientifica. Per quanto riguardava, inparticolare, l’istruzione religiosa, si parlava di sei parti (poiché il primo e l’ultimo deiquattro momenti suddetti si articolavano, ciascuno, in due parti). Rosmini voleva che“Nella prima vi si considerasse la Religione come rivelata, cioè fosse un raccolto semplicedelle rivelate verità, o un Catechismo da essere usato nelle Scuole Elementari. Laseconda parte continuandosi alla prima risguardasse la Religione come giusta, o purecome il fonte della giustizia, scaturendo questo fonte dalla stessa dottrina della fedesposta nella prima parte, e quindi deducendo la morale generale, ed un trattatelloproprio pe’ giovanetti. Nella terza parte poi la nostra religione apparisse come bella, eservisse all’uso della Rettorica; e queste bellezze della Religione fosser tratte sì dallaprofondità de’ dogmi, che dalla santità de’ morali precetti. Per la Filosofia fosse la partequarta, e trattasse della Religione come sapiente, e ne sviluppasse il vasto e maravigliososistema fondato in soli due uomini Adamo e Gesù Cristo, e rivolto per un mezzo divinoa riparare alla corruzione della primitiva natura umana [...]. Nella Università poi si

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Ma l’aspetto forse più interessante del Saggio era nella robusta ecompatta costruzione teorica che dunque riconduceva ad unità leriflessioni precedenti e, senza smarrirne gli originali e freschi spunti(spesso di matrice filippina), organava un innovativo pensieropedagogico. Le novità più rilevanti erano, da una parte, un’antropologiatripartita (Intelletto-Cuore-Vita) ma unitaria e, dall’altra, l’unione travisione antropologica e metodo pedagogico. Rosmini voleva fuggireseparatezze e dicotomie nell’antropologia (secondo un indirizzo cheavrebbe sviluppato nelle opere successive, quali la Psicologia) e proporreal contempo un ideale di armonia. Scriveva: “Adunque lo spirito dellanostra Religione vuole che consideriamo l’uomo tutto insieme: vuoleche tutto in esso armoniosamente proceda. Debbono armoneggiare lescienze, debbono armoneggiare le facoltà. L’armonia delle scienze è lasomma legge nel trattato degli oggetti della educazione: l’armonia dellefacoltà è la somma legge nel metodo”115. L’armonia significava‘unitotalità’, cioè unità di tutti gli aspetti, tanto sul piano dell’istruzionequanto su quello del metodo116. A quest’ultimo fine era necessaria

dovesse far uso della quinta e della sesta parte di quest’opera, cioè i primi due anni dellaquinta che contemplasse la Religion come vera, presentandola col corredo delle suepruove, [...] e i due ultimi anni della sesta che ammira la Religion come utile non soloall’altra vita, ma pur agli usi della presente” (Id., Sull’unità dell’educazione, cit., pp. 287-288). Rosmini dava anche l’indicazione degli autori e dei testi più indicati per ciascunadelle sei parti: “Potrebbesi usare in luogo della prima parte il nostro Catechismo; efoggiar la seconda sulle Istruzioni per la gioventù del sig. Gobinet; la terza sul Genio delCristianesimo del sig. Chateaubriand; la quarta su’ Pensieri di Pascal; la quintasull’Apologia di M. Tassoni; la sesta sugli scritti di que’ due lumi del nostro secolo, ilconte De Maistre, ed il sig. Bonald” (ibid., p. 289). In particolare è da notare ilriferimento al Genio del Cristianesimo di Chateaubriand per la religione considerata comebella e ai Pensieri di Pascal per la religione considerata come sapiente. Ma il Roveretanoprevedeva pure, per ciascun momento, l’approfondimento di alcuni libri della Bibbia:“Nelle Scuole Elementari poni gli storici: nelle prime quattro scuole del Ginnasiodispiega i morali dell’Antico Testamento: alla Retorica dischiudi le poetiche amenità de’Profeti e de’ Salmi: apponi alla Filosofia il Vangelo, e nella Università fa studio leApostoliche Lettere e gli Atti” (ibid., p. 286).115 Ibid., p. 314.116 Scriveva Rosmini: “L’interezza dell’istruzione vedemmo consistere nella concorrenzade’ varii oggetti ben avvincolati fra loro ad un solo termine; l’interezza del metodo nellaconcorrenza di tutte le umane facoltà in ciascun oggetto, sicché quella cosa che

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l’unità dinamica di tutte le parti dell’uomo: l’Intelletto doveva trovareuna risposta nel Cuore e dal Cuore doveva procedere la virtù perrendere bella la Vita. Se l’Intelletto aveva sempre la preminenza, ilCuore acquisiva un’indubbia centralità metodologica.

Descrivendo tale dialettica del metodo educativo, Rosmini, aproposito, innanzi tutto, dell’Intelletto, affermava:

E a far ricevere all’intelletto le cognizioni, principale qualità del precettore èd’avere l’idea maturata e chiara, e le parole agevoli, nette, espressive. Né tantovale la chiarezza stessa, quanto la perfezione e interezza dell’idea, se pure puòavervi idea non perfetta, degna d’essere chiara appellata. E ciò nonostante avviuna certa affettazion di chiarezza, che io più tosto direi superficialità, della qualechi ne volesse esempio potrebbe trovarlo negli scritti di Locke, e vie più in quellidi Condillac, come pure di tutta la loro scuola, la quale tiene un linguaggio chepare chiarissimo, e che promette di render dotti con lieve fatica, ma che nonlascia finalmente nell’animo che una povertà estrema d’idee, con una immensaprosunzion di sapere, e con una pure immensa temerità di pronunciare. E adiscansare questa apparenza di chiarezza assai più nocevole della stessa oscurità,non bisogna sorvolare troppo lievemente in sulle idee principali, ma rivolgerle datutte le bande, fissarle, e precisarle co’ loro caratteri, sicché non si possanoscambiare con altre: e avere attenzione, che la parola in progresso di unragionamento non venga insensibilmente a pigliar due sensi, e a generare inquesto modo le fallacie. Questa diligenza nell’aggiustare e perfezionare le idee,forma la solidità del pensare e la logica pratica117.

Sul piano didattico, Rosmini aggiungeva il consiglio di nonesaminare molti autori superficialmente, leggendo di ciascuno qualcheestratto, ma analizzare opere complete, adeguate al curricolo degli studi.

Più articolata era poi la riflessione rosminiana sul Cuore. Egli notava:“Ma perché le cose buone insegnate piglino stanza nel cuore delgiovanetto, due quasi strumenti si vogliono porre in uso; la qualità dellostile nell’insegnare, e quell’arte di renderle care che assai procede dalladiscrezione delle indoli”118. Per muovere in modo peculiare gli animidegli allievi, occorreva al maestro conoscere le loro indoli, ma poi glierano necessarie “quattro corde” per svegliare e coinvolgere il loro

l’intelletto apprende anche il cuore senta, e l’opera manifesti” (ibid., p. 306).117 Ibid., pp. 306-307.118 Ibid., p. 308.

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sentimento con una soave armonia. Tali “corde” erano: abbondanza,amenità, tranquillità, tristezza. Rosmini si diffondeva con una certaampiezza su queste quattro virtù relative alla qualità dello stilenell’insegnamento:

Coll’Abbondanza si vestono le cose di molti colori, si presentano in molti aspetti,e s’infonde dirò così il modo o l’arte di maneggiare l’idea come più piace, equindi di andare fino al fondo delle cose. […]L’Amenità poi dello stile reca una cotale freschezza nelle menti, e aiutando lesolleva dalla fatica dell’applicare. In questa Amenità studiavano desiderosamentegli antichi; perciocché conoscevano che se il loro discorso avessero preso dolce eaggradevole, avrebbero già preparato e guadagnato l’altrui animo al ricevimentodelle dottrine. […] Ed è lontano di ciò il secolo stesso tutto frettoloso e impazientee accidioso, perché crede perdere il tempo se non accresce tesoro alla mente, enon sa ch’è in noi ancora un nobile senso interno da coltivare, e che le solecognizioni della mente non ci rendono più felici né migliori senza che questosenso del vero pratico sia bene educato e ben conformato, poiché quelle sono ciòche è molto peso d’oro all’avaro, a cui non è cuore, né senno d’usarlo. […]Né si può dire quanto questa Amenità di favellare congiunta a certa semplicità,faccia pacato e tranquillo l’animo: terzo ufficio dello stile del precettore, il qualecon ciò acquista la terza lode che in esso desideriamo, e che abbiamo denominataTranquillità. Colla quale benigna disposizione che lo stile trasfonde nell’animoquesto si rende tutto acconcio a investigare posatamente la verità, e riceverlaspassionatamente, e vagheggiarla con suo grande agio e diletto. Laddove lo stilerapido e focoso per l’incalzamento e quasi contrasto delle idee porta nell’animouna faticante ansietà, un’inquietudine, ed ancora un cotale offuscamento dellamente, che la rende inetta o ad assicurarsi del vero, o a disaminarne le parti, o agustarne la beltà119.

Ma accanto ad Abbondanza, Amenità e Tranquillità, cheesprimevano ancora uno spirito filippino sempre vivo ed attuoso,Rosmini aggiungeva la Tristezza, cioè, si direbbe, un sorriso amaro diconsapevolezza di limiti e miserie umane, che esprimeva sia una piùcompleta maturità della personalità stessa del Roveretano, con unamaggiore e non libresca conoscenza del cuore degli uomini, sia l’intimaesigenza, spirituale e culturale, di nuovi sviluppi, che lo preparava adincontrare con animo aperto e recettivo gli altri ambienti intellettuali –

119 Ibid., pp. 308-311.

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in particolare quello milanese – ai quali si sarebbe di lì a poco accostato.Sulla Tristezza, Rosmini annotava:

Né meno io stimo una certa non so qual Tristezza cui renda lo stile, ma nonqualunque Tristezza. Perciocché ve n’ha una perniciosa e nera che porta dolore einquietudine; ma ve n’ha una altresì spontanea e pura, la quale nasce dalla veritàdel nostro stato umano, ed è tutta ad esso conforme e decente. Essa toglie quellelusinghevoli promesse che l’Amenità stessa dello stile presenta all’animogiovanile, tanto credulo alle lusinghe d’una sensibile felicità, che in queste cosemortali gliela fanno aspettare vanamente costante; e nel tempo medesimo cheattrista alquanto la natura corporea, solleva immensamente la natura spirituale amigliori e più dignitose speranze: e questa tinta di mestizia accompagnadovechesia il linguaggio della verissima Religione e ne segna quasi il lemboestremo, di cui pur tutto il rimanente aspetto si volge lieto e lucente120.

Ma dal Cuore si doveva passare alla Vita. L’insegnamento infattidoveva tradursi in comportamenti conseguenti. Anzi si poteva dire,secondo Rosmini, che la cosa principale a cui mirare, nel processoeducativo, era appunto la perfetta concordia della vita con gliinsegnamenti ricevuti. Ma proprio questo era il punto deboledell’educazione e degli educatori contemporanei. Per giungere ad unavera armonizzazione di cultura e vita reale era necessaria, secondoRosmini, una profonda e visibile coerenza dell’educatore, non solo nelsenso del buon esempio, ma soprattutto nella forma di ordine e unità nelcomportamento. Era cioè l’ideale di una coerenza non estrinseca, nonesogena, non giustapposta dall’esterno, ma di una coerenzacostantemente presente nel processo educativo, all’interno stesso dellesue dinamiche e nella logica progressiva dell’insegnamento, tale dunqueda modificare sempre e continuamente l’educatore insiemeall’educando, così che l’educatore “educhi se stesso insieme colgiovane”121.

120 Ibid., pp. 311-312.121 Ibid., p. 313.

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CAPITOLO IV

ROSMINI E L’EREDITÀ BORROMAICA:EDUCAZIONE E CARITÀ INTELLETTUALE

1. Rosmini a Milano: le “luminose tracce” di S. Carlo Borromeo

Rosmini fu a Milano una prima volta, per pochi giorni, dal 13 luglioal 21 luglio 1824. Visitò la città, i suoi monumenti, le sue biblioteche.Incontrò, a casa di Francesco Orefici, i roveretani che risiedevano nelcapoluogo lombardo. Conobbe alcuni illustri milanesi come il marcheseGiangiacomo Trivulzio, il dottore dell’Ambrosiana Pietro Mazzucchelli,l’archeologo Giovanni Labus1.

Dopo questo primo incontro, che non entusiasmò molto Rosmini dalpunto di vista delle “belle arti”, il giovane intellettuale roveretano fu aMilano per due più significativi soggiorni, dal 4 marzo al 14 settembre1826 e dal 4 novembre dello stesso anno al luglio del 1827 quando sirecò al Calvario di Domodossola col Loewenbruck. Fu poi ancora nellacittà lombarda dal 6 novembre 1827 al 18 febbraio 1828.

Rosmini andò a Milano sia per motivi culturali e di studio sia persottrarsi alle innumerevoli incombenze che a Rovereto lo distraevano egli impedivano di concentrarsi. All’amico Valerio Giason Fontana, il 22marzo 1826 egli scriveva: “Quando io lascerò Milano non posso dire; finqui mi ci trovo bene, e pare che la città confaccia a’ miei studi. Desideroattendere a questi, e se Iddio me lo concede (che non so e sono al suocenno) di finire alcune ardue e faticose scritture da molto tempo

1 Cfr. G. Radice, Annali di Antonio Rosmini Serbati, vol. III (1823-1828), Milano 1970, pp.192-198.

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cominciate, per riposarmi in più tranquillo loco”2. Qualche mese dopo, il18 giugno, scriveva al conte Clemente di Brandis: “Da qualche tempo mitrovo a Milano, dove mi sono recato principalmente per attendere conun po’ di quiete maggiore ai miei diletti studi: poiché a casa Ella saquanto è facile che intervengano frequenti disturbi. Qui sono lontano datutte le cure, si può dire, e parmi di fare maggiormente la volontà delSignore, che finora sembra che egli voglia, che io mi occupi piuttosto diquesto che di altre opere”3.

Egli stava lavorando alla Filosofia della Politica4, ma il soggiornomilanese portò pure alla pubblicazione degli Opuscoli filosofici, nei qualiraccolse vari saggi che dimostravano un notevole vigore speculativo euna vivace originalità. Inoltre approfondì, come si vedrà più avanti, lelinee portanti della sua spiritualità e del suo disegno fondativo di unnuovo istituto religioso, l’Istituto della Carità5. Trovava pure il modo dicoltivare ricerche erudite: “ne’ ritagli di tempo – scriveva a donGiovanni Pietro Beltrami – lavoriamo a collazionare codici peristampare, se ci fosse possibile, in tutto o in parte un testo in lingua checontiene un antico volgarizzamento della Bibbia. L’Ab. [Michelangelo]Vannucci entra anch’egli a parte dell’opera, di cui anzi fu promotore, equello che ci fornisce dei codici delle antiche edizioni necessari”6.Frequentava per questo le più importanti biblioteche milanesi:l’Ambrosiana, Brera, la biblioteca di casa Trivulzio, della quale erabibliotecario suo cugino, lo storico di Milano Carlo Rosmini, peraltro

2 A. Rosmini, Epistolario Completo, [d’ora in poi EC], vol. II, Casale Monferrato, pp. 55-56.3 Ibid., p. 121.4 Il 12 agosto 1826, da Milano, Rosmini scriveva a mons. Ladislao Pirker, Patriarca diVenezia: “Io mi trovo a Milano da sei mesi, dove mi sono recato per dare compimentoad un lavoro già da molti anni intrapreso, e di cui sono ancora lontano dal fine” (EC, II,p. 147). Il 23 gennaio successivo scriveva poi a don Paolo Orsi: “Più di dugento paginecredo d’avere scritto dopo che sono tornato a Milano; e più di centocinquantagrandissime dell’opera che lavoro” (ibid., p. 194).5 L’11 agosto 1826 il roveretano scriveva a Leonardo Rosmini: “Finalmente mi chiedidegli studi a cui mi dedico. A quegli stessi, a cui mi sono sempre dedicato,principalmente poi a quelli della mia vocazione; di questi ho riputato quasi inutilescriverti di più, mentre vedi già gli opuscoli che di mano in mano vo stampando” (EC,II, p. 146).6 Ibid., pp. 73-74.

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molto più avanti negli anni. In tanto fervore di studi – filosofici,spirituali, eruditi – il giovane Antonio lasciava da parte gli scritti poeticie letterari7, nei quali in realtà non era molto versato, pur seguendoperaltro i dibattiti culturali, leggendo le riviste e conoscendo le opereche venivano pubblicate. Per i suoi lavori si fece spedire da Roveretolibri e manoscritti8 e fece perciò di Milano la sede principale, ancorchénon definitiva, della sua attività. Il soggiorno milanese, dunque, nel suocomplesso, segna una cesura significativa nella vita di Rosmini: fino adallora, nonostante gli anni universitari a Padova, il centro del suomondo intellettuale e spirituale era Rovereto; dopo il periodoambrosiano, tale centro si spostò al Calvario di Domodossola e poi aStresa.

A Milano Rosmini alloggiò alla locanda della “Croce di Malta” inPiazza S. Sepolcro. Era una posizione privilegiata, come egli chiarivanella lettera al Beltrami: “io mi vivo qui vicino alla chiesa di S. Carlo,appo la quale egli collocò la sede dei suoi Oblati; e per conseguentevicino altresì alla Biblioteca Ambrosiana; vicino poi ancora ai Barnabitidi S. Alessandro, che finalmente hanno col loro ritorno satisfatto ildesiderio comune di questa città, e vicino finalmente alla rarissimaraccolta Trivulziana, e alla persona erudita e gentile del suo possessore,e però ancora di Carlino nostro che gli sta in casa. Ella di questo può

7 Il 30 dicembre 1827, da Milano, Rosmini scriveva a Ferdinando Arrivabene: “Elladebbe sapere che sono già più anni che la necessità degli studii scientifici mi ha quasitolto del tutto all’amenità degli studii letterarii. Io non potrò adunque che mandarlelavori severi e duri, e, ciò che più mi duole, privi di quelle grazie di cui pur potrebberoessere rammorbiditi, se il suo autore avesse avuto tempo di studiarne l’adornamento”(EC, II, p. 370).8 Il 2 aprile 1826 Rosmini aveva scritto a don Paolo Orsi: “Mille grazie dei libri che sonocapitati sani e salvi, senza alcuno intoppo. Mancano però diversi tomi a varie opere; iprincipali sono di Voltaire i tomi XIV, XVIII, XXII fino al XXXIX, e XLI, L, LI, LXIX, LXX;di Rousseau i tomi XIII, XXV, XXVIII, XXXII; di Macchiavelli i tomi V, VII e seg.; diMontesquieu i tomi I e II; del conte De Maistre il tomo II delle Serate di Pietroburgo;dell’Elvezio il tomo I dello Spirito. Oltre a queste mi fanno bisogno: 1. Il libromanoscritto co’ cartoni turchini indicato al Salvadori; 2. Due libretti latini che sono nelloscaffale del camerino a destra della finestra, intitolato l’uno S. Ignatii Exercitia; e l’altroDirectorium ecc. e saranno tutti due uniti; 3. I manoscritti da me lasciati nell’armadio avoi noto della stanza masggiore, cioè nell’armadio da’ libri più prossimo al camerino”(EC, II, PP. 59-60).

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vedere che ho buoni vicini; ciò che non è piccolo bene a forestiero comeio mi sono”9.

In Piazza S. Sepolcro Rosmini faceva vita comunitaria insieme aMaurizio Moschini, giovane di Brentonico di buona cultura, che dal1824 era suo segretario e insieme a Nicolò Tommaseo, il quale infineperò lo avrebbe lasciato con qualche burrascosa precipitazione. Il 2aprile 1826, dopo circa un mese di soggiorno milanese, Rosmini avevascritto a don Paolo Orsi. “De’ lavori miei, non posso dire ancora molto.Il Panegirico [di Pio VII] qui non si stampa, poiché la censura èdilicatissima in cose papali. Io sono contento a tutto. Qualche altroopuscolo ho impreso di stampare e lo manderò. Nell’opera maggiore [laFilosofia della Politica] non ho ancor molto affaticato: ho bensì ripreso loscrivere, ma ciò fu una sola mattina e nulla più; spero, se a Dio piaccia,che la cosa piglierà il suo corso. Il Moschini fece una buona letturacontro un conte Asquini di Verona, che trapassando i termini dellaProvincia Veronese invadeva eruditamente il nostro territorio; e credo sistamperà. Il Tommaseo lavora pure in cose buone: noi viviamoconcordemente, ed al tutto fratellevolmente”10.

La piccola comunità di Piazza S. Sepolcro viveva dunque immersanegli studi, in un intenso ed entusiastico clima di ricerca scientifica e dicreazione intellettuale: “la vita che noi meniamo – scriveva Rosmini alBeltrami – Ella può ben pensare: qui non è da pensare altro che aglistudi; a’ quali si attende circa otto ore la giornata, e in otto orespecialmente quasi tutte continue, perché dalle otto la mattina (allaquale ora ho già celebrato e fatto colezione) fino alle quattro la seracorrono otto felicissime ore. Si fa più così, che interrompendo la giornatacol pranzo. Di questo costume io sono appagatissimo. Maurizio purelavora assai”11. Il profilo insieme intellettuale e spirituale di questa vita

9 Ibid, p. 73. In un’altra lettera Rosmini scriveva: “Qui nella locanda appo Santo Sepolcronon si sta male: è quieta, in buon luogo, perché vicino alla libreria Ambrosiana, agliOblati che stanno a S. Sepolcro, casa loro formata da S. Carlo, ai Barnabiti che di pocoqui sono restituiti, e a casa Trivulzio dove si sta Carlino. Questo centro ci è moltocomodo; anche le stanze però sono carissime; ma che farci? Non si può aver tutto” (ibid.,p. 72). Carlino era Carlo Rosmini.10 Ibid., pp. 60-61.11 Ibid., p. 73.

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quasi monastica, veniva sottolineato – con una nota di autoironia – dallostesso Rosmini nella sua lettera del 6 maggio a Leonardo Rosmini, nellaquale descriveva meticolosamente la sua giornata:

Sappi adunque che io mi levo dal letto di buon mattino, e, rassettato e pulito unpo’ che io mi sia, mando subito ad avvertire i compagni che si acconcinoanch’essi, se vogliono venire meco nella Chiesa. Intanto poi che essi, osbadigliano alcun poco, o forse anco dispiegando le membra per la lungagiacitura state alquanto inerti e contratte, indugiano un pocolino a saltare giùdelle morbide piume; io tutto intendo a mattinare il Signore, perché ci aiutipropizio nella giornata di questa vita. Quando poi ho assoluto le divine laudi, mireco immantinenti nella vicina Chiesa consecrata al Santo Sepolcro del nostroSignore. Chiesa che tutta spira pietà, non solo per la rappresentazione con istatuedi naturale grandezza, e disposte sopra gli altari, di tutti i principali fatti delladivina passione, ma ben ancora per la memoria di S. Carlo che ivi fu spesso, e chenella contigua casa, celebre già prima per essere stata abitazione di santisacerdoti, anche ne’ tempi in cui era decaduta la disciplina del clero, raccolse isuoi cari Oblati. Celebrato così il divino Sacrificio, e pasciuta l’anima del ciboceleste, anche il corpo esige il suo refocillamento, e non gli si niega; anzitostamente si appaga l’onesto suo desiderio con discreta colezione. Così vienel’ora dedicata agli studi, i quali tengono veramente la principale parte dellagiornata; conciossiaché questi proseguono a tenerci occupati fino che il sole siapervenuto a meriggio. Poscia col frammezzo d’un nuovo riposo dato alle forzecorporee indebolite dal digiuno, e con un po’ di ricreamento dato allo spirito invisitandoci scambievolmente; (poiché tutti e tre stiamo in istanze separatenell’ora dell’applicazione, non altrimenti che placidi fraticelli) ci tengono ancoraoccupati fino che suona l’ora quarta fra il dì, la quale ci porta seco il segnaleperché chiudiamo i libri, e mettiamo d’un canto gli scartafacci dovendo lostudiolo fare luogo al desco, i libri poi cedere ai piattelli, e alla forchetta la penna.E siamo in questo fatto d’una così mirabile docilità al sereno precetto dell’oriuolo,che non che avvenga che alcun di noi aspettar faccia i compagni nel refettorio,anzi è pare che gareggiamo a chi si mostri in tal opera più diligente12.

12 Ibid., pp. 77-78. Altre descrizioni della giornata milanese di Rosmini e dei suoi amici sihanno in due lettere dell’aprile 1826. Nella prima il roveretano scriveva: “Mi alzo diletto alle sei; e detto l’officio vengono le sette, alla qual’ora dico la messa, checoll’aggiunta della colazione ci conduce alle otto, nella qual ora comincio lo studio: e senon interviene qualche accidente, studio fino alle dodici. Qui prendo nuovo rinforzo allostomaco per proseguir poi lo studio fino alle tre: alla qual’ora proseguo l’officio, e conqualche altra coserella, e con un brano della vita di S. Ignazio che leggiamo insieme, ciapparecchiamo al pranzo che è alle quattro. Dopo il pranzo non si fa nulla fino alle setteo alle otto: queste sono quelle ore che dedichiamo alle visite o al veder gli amici, o al

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I primi amici con i quali Antonio Rosmini entrò in dimestichezza aMilano furono, innanzi tutto, il cugino Carlo, col quale si legò di intimae fraterna amicizia, nonostante la differenza d’età13, in un sodalizio chefu però presto interrotto dalla morte dello storico di Milano14. Altrimilanesi frequentati spesso dal roveretano e dai suoi due compagnifurono il conte Giacomo Mellerio, il matematico Gabrio Piola,l’archeologo Giovanni Labus15, Alessandro Manzoni. ProgressivamenteRosmini allargava la cerchia delle sue amicizie anche ad esponenti delclero ambrosiano e l’11 agosto poteva scrivere a Leonardo Rosmini:“conosco un gran numero di Sacerdoti, co’ quali mi avvengo la festanegli Oratorii e nelle Ricreazioni. Delle famiglie ti puoi immaginarequelle che io conosca, quelle di Carlino; cioè Mellerio, Somaglia,Castelbarco, Trivulzi, ed altre simiglianti, dove vado a pranzo talora etalora a passar qualche ora dopo il pranzo”16. I legami con i pretimilanesi testimoniano di come Rosmini non dimenticasse i suoi doverisacerdotali. Ma anche le sue amicizie con laici, intellettuali e studiosi,assumevano un’intonazione marcatamente religiosa, quasi da cenacolospirituale (con un implicito, anche se discreto e indiretto, ruolopedagogico e di guida spirituale da parte del roveretano). A uno diquesti amici laici, Giulio Padulli, Rosmini scriveva il 1 marzo 1828, dal

passeggio, o a qualunque ozio più piaccia” (ibid., p. 60). E nell’altra lettera aggiungeva:“pranziamo alle quattro: e dopo non prendiamo più niente: mentre a Rovereto con lacena in bocca si andava a letto. Oltracciò vado a riposo sempre alle dieci in punto; làdove costà mi coricava assai più tardi. In luogo della cena poi prendo a mezzodì uncioccolatte, per non indebolire soverchiamente il mio stomaco, sempre sconvolto; e temoche non si disavvezzerà più da sì mal costume. […] Quando pranziamo in casa siamoassai parchi; ma costa però molto il vitto; paghiamo quasi sei lire delle nostre a testa persoli tre piatti; minestra, carne, fritto e arrosto. Questo caro del vitto è ottimo specifico perla virtù della temperanza” (ibid., p. 72).13 Ibid., p. 344.14 Ibid., p. 247.15 Ibid., pp. 60, 62, 72. Il 15 ottobre 1826, Rosmini scriveva, da Rovereto, a Gabrio Piola:“Nel mio prossimo soggiorno a Milano non mancherò certo di stancare ancora la suapazienza; tanto più che Le vengo sì vicino d’abitazione. Io stesso sento compassione diLei; ma la sua bontà vince tutto” (ibid., p. 161).16 Ibid., p. 146. Cfr. anche G. F. Radice, Antonio Rosmini e il Clero Ambrosiano, 3 voll.,Milano 1962-1964.

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Sacro Monte di Domodossola, dicendogli di apprezzare concommozione “quel desiderio che anche voi, maritato, nutrite diquell’unica perfezione, a cui tutti noi aspiriamo, e a cui aspirare puredovrebbero tutti i cristiani”. Osservava ancora: “L’amicizia cheesperimento in voi altri (intendo quel piccolo drappello, di cui sipotrebbe dire ciò che gli Atti Apostolici dicono dei primi Cristiani, chesiete cor unum et anima una), mi tocca certamente il cuore che fu sempresensibile all’amicizia”. E aggiungeva, ponendo quasi sul “piccolodrappello” il sigillo della sua spiritualità: “«Beati quelli che hanno famee sete della giustizia, perché saranno satollati». Vi par egli che pococonforto ci debbano dare queste parole? O non più tosto incoraggiarci amigliorare noi stessi con una perseveranza instancabile, giacché unoracolo infallibile ci promette certo il frutto a suo tempo, checché a noine paia, checché senta il cuore nostro di debolezza, e come che lentoandar sembri il corso della nostra spirituale emendazione? Ah! Per mecredo una massima sicura e piena di certa speranza quella di desiderarela giustizia, e di instaurare infaticabilmente un tale desiderio, una talevolontà, anche allorquando sembriamo a noi stessi mancare allamedesima, e mancare senza sentire forze di sorgere, irrigiditi nellacarità, oppressi dalla prepotenza della creta nostra paterna”17.

Soggiornando a Milano, prestando attenzione agli avvenimenti –anche curiosi18 – della vita cittadina, Rosmini non mancava di osservareil carattere dei milanesi e, soprattutto, la loro gentilezza19, non esteriorema sostanziale e solida. Nel maggio 1826 scriveva a don Locatelli: “Ingenerale i Milanesi hanno un carattere eccellente, mancano di quellaesterna gentilezza che infiora il volto, i modi, i costumi e il dialetto de’Veneziani; ma nella serietà Lombarda c’è una forza di tempera che dàsolidità alla stessa cortesia ed alla affabilità. Mi piace anche questasemplicità. Le case nobili si trattano con gran decenza, e forse con

17 EC, II, pp. 418-419.18 Il 18 giugno 1826, per esempio, Rosmini scriveva a Francesco De’ Salvadori: “Qui aMilano sono in questi giorni corsi diversi accidenti di gente impazzita; ed uno fra glialtri che parea sanissimo, d’un tratto corse in istrada, coltellò uni che passava; poi ascesein istanza, e gittossi d’un balcone restando egli stesso morto” (EC, II, p. 120).19 Nella lettera del 18 aprile 1826 al Beltrami, Rosmini affermava di trovare i milanesi“assai più che io non mi credeva, pieni di ogni gentilezza e bontà” (EC, II, p. 73).

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maggiore splendore che le Venete, ma insieme usano una certa libertà efamigliarità che non mette in imbarazzo alcun forestiero, e specialmentequelli di grossa pasta come mi sono io”20.

Rosmini era soprattutto un acuto osservatore della religiositàmilanese, riusciva a penetrarne la fenomenologia profonda: dalle suelettere, infatti, emerge uno spaccato chiaro e lucido della cristianitàambrosiana alla metà del terzo decennio del XIX secolo. Sulla vitareligiosa e in particolare sul Giubileo, che allora si celebrava, annotava il18 aprile 1826, scrivendo al Beltrami: “Il Giubileo qui non produce granmovimento. Ben le dico che mi edifica altamente la pietà de’ Milanesi. Ilclero specialmente m’innamora. Veggo assai chiaro, dove che io mivolga, l’imagine ancor viva e lo spirito di S. Carlo. Faccia il cielo chequesto duri”21. Circa un mese dopo, approfondiva l’analisi sullacelebrazione del Giubileo e la allargava a una considerazione comples-siva della Chiesa ambrosiana – dei laici, dei chierici, dei religiosi –; a donLocatelli, infatti, scriveva:

Il soggiorno di Milano non mi spiace; ci trovo una incredibile religione; e nonpenso che ci sia città simile a questa. Le famiglie principali sono di santi. Inquest’occasione del Giubileo, è cosa che intenerisce vedere per tutte le vie andarela gente d’ogni ordine visitando le Chiese, recitando preghiere ad alta voce, efacendo atti di pietà e penitenza. La carità e liberalità de’ Signori è immensa. Quisi fa tosto a edificare Chiese, Spedali, Luoghi pii, ed ogni ottima cosa, purché sivoglia: basta parlare e i denari vengono dondechesia. Il clero non parmisommamente dotto, ma solido, d’una pietà vera, e d’una disciplina che tiraall’austero, anziché al rilassato. L’ho trovato sommamente prudente e ritenuto;non si impaccia che negli affari del suo ministero, e in questi non sente rispetti.Ordini religiosi non ce ne sono, fuorché i Barnabiti, restituiti, è poco tempo,dall’Arcivescovo: però sono ancora scarsi di soggetti formati, ma hanno de’giovani. Gli Oblati di S. Carlo sono raccolti a Rho, e a S. Sepolcro; ma non siriconoscono dai Superiori. Belli e utili mi son paruti gli Oratori della gioventù chetraggono origine specialmente dal B. Federigo22.

Infine il 18 giugno, analizzando la religiosità dei milanesi, Rosminidava un rapido sguardo di ‘sociologia pastorale’, nella lettera al conte di

20 Ibid., p. 84.21 Ibid., p. 74.22 Ibid., pp. 83-84.

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Brandis: “Della religione de’ Milanesi io sono molto contento, e Leassicuro che ci trovo delle anime al tutto singolari; e queste non solo nelclero, ma nelle principali famiglie ancora della città. Di tutte le città dovemi sono fermato qualche tempo sufficiente per portarne giudizio, nonmi è mai avvenuto di trovare tanta virtù e soda religione sì come inquesta. I due estremi della società sono eccellenti; e se c’è del male(perché Ella sa che dovunque pur troppo alligna quest’erba) sta nellaclasse mezzana”23.

Questo giudizio positivo e spesso encomiastico della pietà e della vitacristiana a Milano, faceva crescere in Rosmini l’ammirazione e l’amoreper S. Carlo Borromeo. Appena un mese dopo il suo arrivo in terraambrosiana, il 2 aprile 1826, egli scriveva a don Paolo Orsi: “Mi consolala molta religione che trovo in questo paese: da per tutto veggo chiaretraccie e luminose lasciate da quel portentoso e divino uomo di S.Carlo”24. Il 23 agosto, al Card. Mauro Cappellari, il futuro ponteficeGregorio XVI, scriveva che Milano era “città che conserva ancora da pertutto le traccie dell’immortale S. Carlo, e che perciò mi è carissima”25.Infine nella lettera del 13 settembre a don Giovanni Stefani annotava:“Da sei mesi sono a Milano. Quanto mi lega il cuore la memoria delgran S. Carlo! Quanto mi muovono i monumenti di lui che da per tuttos’incontrano, le moli materiali e quelle erette nei cuori de’ cittadini, evenute a’ posteriori per eredità! Malagevole cosa parmi di trovare altracittà più di questa pietosa”26. Si noti che Rosmini conosceva beneVerona, destinata a diventare quasi un mito nell’Ottocento cattolicoitaliano. Si noti pure che, a differenza di Verona, non vi era in queglianni a Milano la presenza della Compagnia di Gesù non si realizzavapertanto l’egemonia della spiritualità gesuitica. Certo non privi dimovenze ignaziane, ma ancor più, ovviamente, di un carattereborromaico, erano gli Oblati di Rho, presso i quali Rosmini si recò pure

23 Ibid., p. 121.24 Ibid., p. 60. Il 18 giugno 1826, poi, Rosmini scriveva al Di Brandis: “D’altra partequesta bontà vera io non posso attribuirla che agli ottimi semi posti in questa terra fertileda San Carlo; di cui per tutto si veggono non solamente le grandi opere di cui ha ornatola città, ma ben ancora il vivo spirito” (ibid., p. 121).25 Ibid., p. 148.26 Ibd., p. 154.

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per un ritiro spirituale. Il 2 luglio 1826 egli scriveva al fratello Giuseppe:“Oggi vommi in campagna in un luogo che chiamasi Rho; dove gliOblati (bellissima istituzione di S. Carlo) danno gli esercizi al clero, de’quali io pure approfitterò. Prega assai, acciocché io non approfitti solocoll’udirli mediante gli orecchi, ma sì ancora mediante il cuore”27.

A Milano, dunque, Rosmini assumeva la lezione borromaica, ancheper quel che riguardava gli aspetti educativi: gli si prospettava quasi, inquegli anni, un interessante e vitale “modello borromaico”.

2. Il modello borromaico

Nella metropoli lombarda Rosmini avrebbe potuto leggere, in queglianni, la Istoria delle Scuole della dottrina cristiana fondate in Milano e daMilano nell’Italia ed altrove propagate di G. B. Castiglioni, stampataappunto a Milano nel 1800. Inoltre nel 1815 e, ancora, nel 1823 eranostate ripubblicate dalla tipografia milanese Sonzogno le Regole per leScuole della dottrina cristiana della Città, Diocesi, e Provincia di Milano fatteda San Carlo Cardinale di Santa Prassede ed Arcivescovo in esecuzione delterzo Concilio Provinciale con molti nuovi ordini aggiunti dall’Eminentissimoe Reverendissimo Sig. Cardinale ed Arcivescovo Federico Borromeo e di nuovoristampate per ordine dell’Eminentissimo e Reverendissimo Sig. Cardinale edArcivescovo Giuseppe Pozzobonelli. Da Carlo a Federico Borromeo aPozzobonelli, questa edizione delle Regole delineava una tradizione chedal Cinquecento al Seicento al Settecento giungeva fino all’Ottocentomilanese, segnando un’esperienza educativa di lungo periodo chepoteva ben caratterizzare il “modello borromaico”, come chiariva lostesso Avviso al lettore: “Questo Libro servirà a tener sempre viva lamemoria di questa importantissima Istituzione, che fu il più carooggetto delle pastorali sollecitudini del nostro glorioso Arcivescovo S.

27 Ibid., p. 134. Inoltre lo stesso giorno, Rosmini scriveva alla sorella Margherita: “Sono insul partire per Rho, dove penso di fare gli esercizi spirituali presso que’ Padri, i quali diquesti d^ li danno al clero. […] Gli ottimi Conti Passi sono qui a S. Ambrogio a dar gliesercizii; gli ho veduti ier l’altro. Il Conte Marco era alquanto costipato; l’ho trovato inletto, ma parea legger cosa. Non li vedrò più che Domenica vegnente, perché solo allorasarò di ritorno dagli esercizi di Rho” (ibid., pp. 132-133). Si noti che Rosmini preferivagli esercizi predicati dagli Oblati di S. Carlo a quelli guidati dai Passi.

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Carlo Borromeo, e di tutti gli Arcivescovi suoi successori, e insiemeservirà di stimolo agli Operarj, ed alle Operarie della Dottrina Cristianadi ben adempire ai loro rispettivi Ufficj, e a tutti i fedeli Cristiani di benapprofittarsene”28.

Nel primo capitolo di tali Regole, si affermava che l’insegnare ladottrina cristiana era “cosa divinissima […] per non esser altro, che uncooperare con Dio a ridurre le Anime al suo primo principio ed ultimofine, che è Dio stesso”29 e che pertanto si richiedevano persone“qualificate e virtuose”. Si stabiliva poi un interessante e significativodecalogo delle principali condizioni e virtù necessarie agli operatori chesi dedicavano a tale insegnamento. Le prime cinque condizioni siricollegavano tutte, in modi diversi, alla carità:

La prima condizione dunque, che aver devono tutti i Fratelli e Sorelle di questeScuole, è che dovrebbono esser in un certo modo luce del Mondo, […] comecooperatori e cooperatrici di Dio, devono esser nello stato e grado loro, ancor essiin qualche modo, come luce, per illuminare gl’ignoranti con la Dottrina, che loroinsegneranno, e con il buon esempio di vita, ed edificazione dei buoni e santicostumi, che a tutti daranno.Secondo, perché senza amor verso Dio Signor nostro, siccome operare non si puòcosa, che a lui sia grata, così né si può cominciare ad operar bene in questaimpresa senza carità, né manco perseverare in essa; per questo devono tutti quelliche sono di queste Scuole, in questo amore verso Dio esser molto segnalati, e diesso tutti accesi ed infiammati […].Terzo, è necessario ch’abbiano gran zelo della salute delle Anime ricomperate colprezioso Sangue del Salvator nostro Gesù Cristo. […]Quarto, bisogna che abbiano sviscerata carità verso tutti i prossimi, la qualemostreranno coll’affaticarsi, ed adoperarsi in tutte quelle cose, nelle qualigiustificheranno poterli ajutare, e col rallegrarsi del bene di ciascuno, come delsuo proprio, e dolendosi d’ogni male e travaglio, nel quale si ritrovassero, comese essi medesimi fossero nello stesso travaglio.Quinto, con l’istessa carità, con la quale ricevono ed insegnano a quelli, che nelleloro Scuole vengono per imparare, cerchino, e si sforzino di tirar alle Scuolequelli che non ci vengono30.

28 Regole per le Scuole della dottrina cristiana della Città, Diocesi, e Provincia di Milano fatte daSan Carlo…, Milano 1815, p. 4.29 Ibid., p. 9.30 Ibid., pp. 10-11.

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Le altre cinque indicazioni riguardavano invece le virtù necessarieall’insegnamento e cioè la preparazione, la pazienza, il prudenteadattamento ai discepoli, la sollecitudine e l’umiltà:

Sesto, […] devono i Fratelli molto bene intendere e sapere quelle cose, che aglialtri procurano d’insegnare: oltre che non può alcuno ben prestamente, efruttuosamente una cosa insegnar, se esso non la possiede, ed intende benissimo[…].Settimo, è molto necessaria loro la pazienza, parte per sopportare le molte fatiche,che nelle Scuole si provano, ed i difetti di quelli, che vengono per essere da loroinsegnati, come l’importunità de’ piccioli, ed immodestia, ed arroganza de’grandi, parte ancora per tollerare, anzi far poco conto dei disprezzi, de’ quali allevolte saranno fatti degni, anzi doveriano con l’esempio de’ Santi Apostoli, e ditanti altri Martiri andar allegri d’esser fatti degni di patir oltraggio per amor delnome del Signore.Ottavo, devono avere molta prudenza per sapersi molte volte accomodare allacapacità d’ogn’uno, facendosi, secondo il consiglio dell’Apostolo, piccioli conpiccioli, infermi con gl’infermi, e per dirlo in una parola col suddetto Apostolo,devono farsi tutte le cose con tutti per poter tutti guadagnare a Cristo.Nono, bisogna che usino gran cura e sollecitudine in cercar di mantenere, e diaccrescere ogni giorno un’opera di tanta importanza, quanto è questa: il chefaranno, se con diligenza e prontezza procurerà ciascun di far bene l’ufficio suo[…].Decimo, sopra ogni cosa abbiano grande umiltà, senza la quale vane, e senzafrutto sariano tutte le loro fatiche: Guardandosi adunque da ogni vanagloria,indirizzeranno ogni opera e fatica a pura gloria di Dio, aspettando da lui solo lamercede31.

Al fine di ottenere queste virtù le Regole suggerivano di ricorrere allapreghiera per domandare a Dio il dono della sapienza32 e indicavano poialcuni mezzi fondamentali ed essenziali: la confessione abituale e lafrequenza dell’eucarestia33. E proprio sul piano dell’orazione e dellapratica sacramentale si insisteva sulla dimensione comunitaria: “almenoogni seconda Domenica del mese dopo la Santissima Comunione sicongreghino nell’Oratorio di S. Sepolcro a sentir l’esortazione, ed a far

31 Ibid., pp. 11-13.32 Ibid., p. 13.33 Ibid., pp. 14-19.

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l’Orazione mentale e vocale, che si fa in tal occasione”34. Peraltro, anchepiù in generale, le Scuole della dottrina cristiana apparivano frutto diuna vocazione comunitaria, nel multiforme esercizio degli uffici diversi:“E tutto questo, che s’è detto di quelli, che insegnano nelle Scuole sideve intendere di tutti quelli, che intervengono alle Scuole dellaDottrina Cristiana, poiché gli uni, e gli altri fanno, è al medesimo fineindirizzato, ch’è d’incamminar l’anime al Paradiso, il che si fa con varjmodi, ed esercizj, che in questi luoghi si mettono in opera. Onde se ben iDiscepoli di Cristo non furono tutti Appostoli o tutti Evangelisti,nondimeno, perché tutti per un medesimo fine di tirar l’anime alla fededi Cristo, ed all’osservanza delle cose necessarie per salvarsis’affaticavano; per questo tutti furono esempio, e specchio di vitaCristiana. Così convien dire ai Fratelli e Sorelle di questa Scuola, chesebbene non tutti con voce e parole insegnano, nondimeno tutti sidevono così diportare nei loro esercizj, che quella Dottrina, che conparole non insegnano, l’insegnino con vivi esempj di virtù, e con buoneopere Cristiane, e con la buona edificazione”35. In effetti tutte leindicazioni si riassumevano in questa del buon esempio, cioè di vivererealmente ciò che si insegnava a parole:

Ultimo mezzo è questo, che ora abbiamo toccato, e nel quale tutti gli altri sirinchiudono, cioè, che i Fratelli e Sorelle di qieste Scuole, devono con ognipossibile diligenza sforzarsi d’essere a tutti specchio di quella vita, la quale, o lecui Regole, e Precetti professano d’insegnare, ricordandosi, che sebbene conparole e viva voce è necessario sia insegnata; nondimeno più con esempios’insegna, come dice S. Giovanni Grisostomo, che con parole e voci. Mettansi amente quello, che tante volte Cristo alli Scribi e Farisei rimproverava, perchéinsegnavano la legge di Dio, ed essi nulla facevano […]. Pongansi spessol’esempio di Cristo nostro Signore, che fu primo Maestro di questa Dottrina, evedranno, che non cominciò ad insegnare, se non dopo, che trent’anni aveva coneffetto senza parlare, e con buon esempio messo in opera tutto quello, che dovevainsegnare, acciocché con verità a’ suoi Discepoli dir potesse, vi ho dato esempio,fate come ho fatto io36.

34 Ibid., p. 21.35 Ibid., pp. 28-29.36 Ibid., pp. 27-28.

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Nelle Scuole della dottrina cristiana si esprimeva forse nel modo piùemblematico37 il grande sforzo educativo di S. Carlo Borromeo, che –sullo sfondo dei processi di confessionalizzazione e di disciplinamento38

nonché dello slancio spirituale della Riforma cattolica39 – andava dalsostegno alla cultura e agli studi40 alla formazione del clero41, dalle

37 Cfr. E. Chinea, Le scuole della dottrina cristiana nella diocesi di Milano (1536-1796), in“Rivista pedagogica”, 27 (1934), pp. 565-583; 28 (1935), pp. 65-91; A. Tamborini, LaCompagnia e le scuole della dottrina cristiana, Milano 1939; X. Toscani, Le Scuole dellaDottrina cristiana come fattore di alfabetizzazione, in “Società e storia”, 7 (1984), pp. 757-781;A. Giuliani, La catechesi a Milano nel secolo di San Carlo, in “La scuola cattolica” 112 (1984),pp. 580-615; P. Grendler, Borromeo and the School of Christian Doctrine, in J. M. Headley – J.B. Tomaro (edd), San Carlo Borromeo. Catholic Reform and ecclesiastical politics in the socondhalf of the Sixteenth Century, Washington 1988, pp. 158-171. Più in generale cfr. G. Achilli,Castellino da Castello e le scuole della dottrina cristiana (nel IV centenario della fondazione), in“La scuola cattolica”, 64 (1936), pp. 35-40; M. Turrini, “Riformare il mondo a vera vitachristiana”. Le scuole di catechismo nell’Italia del Cinquecento, in “Annali dell’Istituto storicoitalo-germanico in Trento”, 8 (1982), pp. 407-409. P. Grendler, The schools of ChristianDoctrine in XVIth century Italy, in “Church History”, 53 (1984), pp. 319-331; A. et L.Châtellier, Les premiers catéchistes des temps modernes. Confrères et consoeurs de la Doctrinechrétienne aux XVIe – XVIIIe siècles, in J. Delumeau (ed.), La religion de ma mère. Les femmeset la trasmission de la foi, Paris 1992, pp. 287-300.38 Cfr. P. Prodi, Riforma interiore e disciplinamento sociale in san Carlo Borromeo, in“Intersezioni”, 5 (1985), pp. 273-285. Ma cfr. anche W. Reinhard, Confessionalizzazioneforzata? Prolegomeni ad una storia dell’età confessionale, in “Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento”, 8 (1982), pp. 13-37; P. Prodi (a cura di), Disciplina dell’anima,disciplina del corpo e disciplina della società tra medioevo ed età moderna, Bologna 1994; P.Schiera, Legittimità, disciplina, istituzioni: tre presupposti per la nascita dello Stato moderno, inG. Chittolini – A. Molho – P. Schiera (a cura di), Origini dello Stato. Processi di formazionestatale in Italia fra medioevo ed età moderna, Bologna 1994, pp. 17-48; E.-W. Böckenförde, Ilrapporto tra Chiesa e Mondo Moderno. I contorni di un problema, in R. Koselleck (a cura di),Gli inizi del mondo moderno, tr. it. Milano 1997, pp. 199-229.39 Cfr. A. Bellù (a cura di), Aspetti della Riforma cattolica e del Concilio di Trento a Milano,Milano 1967; W. Goralski, I primi Sinodi di San Carlo Borromeo. La riforma tridentina nellaprovincia ecclesiastica milanese, Milano 1989. Ma sempre fondamentale M. Marcocchi, LaRiforma cattolica. Documenti e testimonianze. Figure ed istituzioni dal secolo XV alla metà delsecolo XVII, Brescia 1967.40 Cfr. F. Barbieri, Alcuni caratteri della Controriforma in Lombardia. Il rinnovamento deglistudi ecclesiastici e la riforma della letteratura profana, in “Giornale storico della letteraturaitaliana”, 37 (1926), pp. 240-281; M. Bendiscioli, Vita sociale e culturale, in Aa. Vv., Storia diMilano, vol. X: L’età della Riforma cattolica, Milano 1957, pp. 351-495; M. Scaduto, Scuola e

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iniziative per l’istruzione primaria42 alla fondazione di collegi comequello di Pavia43, nel quale, com’è noto, studiò pure Federico Borromeo.E proprio del card. Federico le Regole riportavano in apertura una letteraai membri della Compagnia della dottrina cristiana, del 29 luglio 1610,nella quale si affermava:

Importante cosa fu sempre stimata da’ Pastori zelanti della salute delle anime lasollecitudine, che si deve prendere d’ammaestrare i Popoli nella DottrinaCristiana, per esser questa principale mezzo per conseguire il santo timore edamore di Dio, e la perfezione d’ogni altra Cristiana virtù. […] abbiamo giudicatospediente, anzi necessario far ristampare le Regole e Costituzioni fatte già aquesto effetto da S. Carlo Cardinale di santa Prassede nostro Predecessore, edaggiungervi diversi Ordini conforme a’ bisogni presenti; provandosi perisperienza, la varietà de’ tempi e de’ costumi richiedere varie leggi ancora44.

Il “modello borromaico” aveva, dunque, i suoi riferimenti non solo inS. Carlo, ma anche nel card. Federico Borromeo. Del resto Rosminiconosceva bene e apprezzava il fine elogio che del cardinale aveva fattoAlessandro Manzoni nelle celeberrime pagine del capitolo XXII dei

cultura a Milano nell’età borromaica, in Aa. Vv., San Carlo e il suo tempo, vol. II, Roma 1986,pp. 963-994; E. Cattaneo, La cultura di San Carlo. San Carlo e la cultura, in N. Raponi – A.Turchini (a cura di), Stampa libri letture a Milano nel tardo Cinquecento, Milano 1992, pp. 5-37; A. Bianchi, Congregazioni religiose e impegno educativo nello Stato di Milano tra ‘500 e‘600, in P. Pissavino – G. Signorotto (a cura di), Lombardia borromaica, Lombardia spagnola.1554-1659, vol. II, Roma 1995, pp. 765-810.41 Cfr. A. Bernareggi, Il Seminario e gli Oblati, in “Humilitas. Miscellanea storica deiseminari milanesi”, n. 21-22, (1930-1931), pp. 681-722, 786-806; E. Brambilla, Societàecclesiastica e società civile: aspetti della formazione del clero dal Cinquecento alla Restaurazione,in “Società e Storia”, 4 (1981), pp. 299-366; A. Prosperi, Educare gli educatori: il prete comeprofessione intellettuale nell’Italia tridentina, in Aa. Vv., Problemès d’histoire de l’éducation,Rome 1988, pp. 123-14042 Cfr. il fondamentale lavoro A. Turchini, Sotto l’occhio del padre. Società confessionale eistruzione primaria nello Stato di Milano, Bologna 1996. Per gli aspetti di lungo periodo: X.Toscani, Scuole e alfabetismo nello Stato di Milano da Carlo Borromeo alla Rivoluzione, Brescia1993.43 Cfr. M. Marcocchi, Il Collegio Borromeo nel quadro della riforma di S. Carlo, in Aa. Vv., Iquattro secoli del Collegio Borromeo di Pavia. Studi di storia e d’arte pubblicati nel IV centenariodella fondazione, 1561-1961, Milano 1961.44 Regole per le Scuole della dottrina critiana, cit., pp. 5-6.

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Promessi Sposi. Giova in effetti richiamare il profilo manzoniano, sia perl’amicizia e la sintonia spirituale tra Rosmini e Manzoni sia per i trattipeculiari che venivano messi in luce e che costituivano altrettantecaratteristiche fondamentali del “modello borromaico”.

In effetti il grande scrittore lombardo, nel suo ritratto, sottolineava,discretamente ma con chiarezza, l’impegno educativo del Borromeo:“Nel 1580, manifestò la risoluzione di dedicarsi al ministeroecclesiastico, e ne prese l’abito dalle mani di quel suo cugino Carlo, cheuna fama, già fin d’allora antica e universale, predicava santo. Entròpoco dopo nel collegio fondato da questo a Pavia, e che porta ancora ilnome del loro casato; e lì, applicandosi assiduamente alle occupazioniche trovò prescritte, due altre ne assunse di sua volontà; e furonod’insegnare la dottrina cristiana ai più rozzi e derelitti del popolo, e divisitare, servire, consolare e soccorrere gl’infermi”45. E ancora Manzoniricordava che, divenuto arcivescovo, “nella visita d’un paese alpestre esalvatico, Federigo istruiva certi poveri fanciulli e, tra l’interrogare el’insegnare, gli andava amorevolmente accarezzando”46.

Manzoni, certo, ricordava l’attenzione esemplare del Borromeo per“l’elemosina propriamente detta”, ma presentava il cardinale anchecome intellettuale e uomo di studio47. Di particolare interesse era poil’ampia riflessione che veniva dedicata a una delle più importantiistituzioni culturali milanesi, fondate dal presule: la BibliotecaAmbrosiana. Dopo aver parlato di alcune cure minute di carità del card.Federigo, Manzoni infatti continuava:

45 A. Manzoni, I Promessi Sposi, a cura di P. Petrocchi [Firenze 1893-1902], nuovaristampa con presentazione di G. Nencioni, Firenze 1992, p. 534.46 Ibid., p. 544.47 Scriveva infatti Manzoni: “Però non ometteremo di notare un’altra singolarità diquella bella vita: che piena come fu d’attività, di governo, di funzioni, d’insegnamento,d’udienze, di visite diocesane, di viaggi, di contrasti, non solo lo studio c’ebbe una parte,ma ce n’ebbe tanta, che per un letterato di professione sarebbe bastato. E infatti, contant’altri e diversi titoli di lode, Federigo ebbe anche, presso i suoi contemporanei,quello d’uom dotto. […] Circa cento son l’opere che rimangon di lui, tra grandi e piccole,tra latine e italiane, tra stampate e manoscritte, che si serbano nella biblioteca da luifondata: trattati di morale, orazioni, dissertazioni di storia, d’antichità sacra e profana,di letteratura, d’arti e d’altro” (ibid., pp. 547 e 549).

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Cure, che potrebbero forse indur concetto d’una virtù gretta, misera, angustiosa,d’una mente impaniata nelle minuzie, e incapace di disegni elevati; se non fossein piedi questa biblioteca ambrosiana, che Federigo ideò con sì animosa lautezza,ed eresse, con tanto dispendio, da’ fondamenti; per fornir la quale di libri e dimanoscritti, oltre il dono de’ già raccolti con grande studio e spesa da lui, spedìotto uomini, de’ più colti ed esperti che poté avere, a farne incetta, per l’Italia, perla Francia, per la Spagna, per la Germania, per le Fiandre, nella Grecia, al Libano,a Gerusalemme. Così riuscì a radunarvi circa trentamila volumi stampati, equattordicimila manoscritti. Alla biblioteca unì un collegio di dottori (furononove, e pensionati da lui fin che [egli] visse, dopo, non bastando a quella spesal’entrate ordinarie, furon ristretti a due); e il loro uffizio era di coltivare varistudi, teologia, storia, lettere, antichità ecclesiastiche, lingue orientali, conl’obbligo ad ognuno di pubblicar qualche lavoro sulla materia assegnatagli; v’unìun collegio da lui detto trilingue, per lo studio delle lingue greca, latina e italiana;un collegio d’alunni, che venissero istruiti in quelle facoltà e lingue, perinsegnarle un giorno; v’unì una stamperia di lingue orientali, dell’ebraica, cioè,della caldea, dell’arabica, della persiana, dell’armena; una galleria di quadri, unadi statue, e una scuola delle tre principali arti del disegno.

Parlando di queste scuole e dell’attività promossavi dal Borromeo,Manzoni svolgeva significative considerazioni sulla cultura del tempo:

Per queste, [egli] poté trovar professori già formati; per il rimanente, abbiamvisto che da fare gli avesse dato la raccolta de’ libri e de’ manoscritti; certo piùdifficili a trovarsi dovevano essere i tipi di quelle lingue, allora molto mencoltivate in Europa, che [non] al presente; più ancora de’ tipi, gli uomini. Basteràil dire che, di nove dottori, otto ne prese tra i giovani alunni del seminario; e daquesto si può argomentare che giudizio [egli] facesse degli studi consumati edelle riputazioni fatte di quel tempo; giudizio conforme a quello che par chen’abbia portato la posterità, col mettere gli uni e le altre in dimenticanza.

Lo scrittore lombardo mostrava poi tutta la sua ammirazione per ilregolamento che il card. Federigo aveva dato all’Ambrosiana:

Nelle regole che stabilì per l’uso e per il governo della biblioteca, si vede unintento d’utilità perpetua, non solamente bello in sé, ma in molte parti sapiente egentile molto al di là dell’idee e dell’abitudini comuni di quel tempo. Prescrisse albibliotecario che mantenesse commercio con gli uomini più dotti d’Europa, peraver da loro notizie dello stato delle scienze, e avviso de’ libri migliori chevenissero fuori in ogni genere, e farne acquisto; gli prescrisse d’indicare aglistudiosi i libri che non conoscessero, e potesser loro esser utili; ordinò che a tutti,

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fossero cittadini o forestieri, si desse comodità e tempo di servirsene, secondo ilbisogno. Una tale intenzione deve ora parere ad ognuno troppo naturale, eimmedesimata con la fondazione d’una biblioteca: [in] allora non era così. E inuna storia dell’ambrosiana, scritta (col costrutto e con l’eleganze comuni delsecolo9 da un Pierpaolo Bosca, che vi fu bibliotecario dopo la morte di Federigo,vien notato espressamente, come cosa singolare, che in questa libreria, eretta daun privato, quasi tutta a sue spese, i libri fossero esposti alla vista del pubblico,dati a chiunque li chiedesse, e datogli anche da sedere, e carta, penne e calamaio,per prender gli appunti che gli potessero bisognare; mentre in qualche altrainsigne biblioteca pubblica d’Italia, i libri non eran nemmen visibili, ma chiusi inarmadi, donde non si levavanose non per gentilezza de’ bibliotecari, quando sisentivano di farli vedere un momento; di dare ai concorrenti il comodo distudiare, non se n’aveva neppur l’idea. Dimodoché arricchir tali biblioteche eraun sottrar libri all’uso comune: una di quelle coltivazioni, come ce n’era e ce n’ètuttavia molte, che isteriliscono il campo.

L’ammirazione per la fondazione dell’Ambrosiana portava dunqueManzoni a considerare con toni encomiastici la figura del card.Borromeo: “Ma pensate che generoso, che giudizioso, che benevolo, cheperseverante amatore del miglioramento umano, dovess’essere colui chevolle una tal cosa, la volle in quella maniera, e l’eseguì, in mezzo aquell’ignorantaggine, a quell’inerzia, a quell’antipatia generale per ogniapplicazione studiosa”48. Rosmini, frequentatore – come si è visto – dellabiblioteca Ambrosiana, doveva sicuramente condividere il giudiziodell’amico scrittore.

3. Ascetica e spirito d’intelligenza

A Milano Rosmini fu la guida spirituale di un ‘cenacolo’ canossiano:un embrione di un possibile ramo maschile dell’Istituto fondato daMaddalena di Canossa e del quale facevano parte Giovanni Boselli,Francesco Bonetti, Giuseppe Carzara49. Ad esso Rosmini impresse, come

48 Ibid., pp. 539-542. Cfr. G. Galbiati, Federico Borromeo studioso, umanista e mecenate, in Attidella XX riunione della Società Italiana per il progresso delle Scienze, vol. I, Milano 1931;Costituzioni del Collegio e della Biblioteca Ambrosiana, tradotte dal dottore F. Bentivoglio giàPrefetto della medesima, Milano 1933. Cfr. anche P. M. Jones, Federico Borromeo el’Ambrosiana. Arte e Riforma cattolica nel XVII secolo a Milano, tr. it. Milano 1997.49 Cfr. A. Majo, La Canossa, Rosmini e Milano, in E. Bressan (a cura di), Maddalena di

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si è già visto, una più marcata devozione filippina e con esso avviò uncammino di ascesi e di preghiera, testimoniato dal Directorium Spiritus,un manoscritto di tre volumi che raccoglieva annotazioni ascetico-spirituali e appunti su regole di vita consacrata50. Il primo volume, che siintitolava Monita Pietatis seu Fundamenta Constitutionum, recava la data:Mediolani. Kal. Augusti A.D. MDCCCXXVI51. I materiali raccolti nelDirectorium Spiritus servirono tra l’atro a Rosmini per stendere, nel 1826,l’Idea del Figliuolo della Carità, o sia, Trasunto delle Massime principali chedebbe prefiggersi da osservare colui che desidera di seguire la perfezionecristiana come figliuolo adottivo dell’Istituto della Carità. Negli annimilanesi, Rosmini sviluppava e rielaborava questi scritti, stendendo leMassime di Perfezione Cristiana, che – già finite nel 1829 – furonopubblicate nel 1830: si tratta del testo più importante dell’asceticarosminiana, la quale peraltro era pure il fondamento profondo dellapedagogia e di tutta l’azione educativa di Rosmini. Usando dunquequest’operetta come libro-guida per la meditazione e per la crescitaspirituale, il piccolo cenacolo canossiano milanese diveniva, per cosìdire, ‘canossiano-rosminiano’.

In apertura delle Massime, Rosmini annotava:

In quanto al fine, il cristiano dee proporsi e continuamente meditare tre massimefondamentali; e tre massime pure dee proporsi e meditare in quanto ai mezzi: intutto sei massime, le quali sono le seguenti:

I. Desiderare unicamente e infinitamente di piacere a Dio, cioè di esseregiusto.

II. Rivolgere tutti i propri pensieri ed azioni all’incremento e alla gloria dellaChiesa di Gesù Cristo.

III. Rimanersi in perfetta tranquillità circa tutto ciò che avviene per divinadisposizione riguardo alla Chiesa di Gesù Cristo, operando a pro’ di essadietro la divina chiamata.

IV. Abbandonare se stesso nella divina Provvidenza.V. Riconoscere intimamente il proprio nulla.

Canossa e la Chiesa di Milano, Milano 1990, pp. 71-81.50 ASIC, A. 2, 65/ B 1-3.51 L’originale manoscritto sembrerebbe smarrito, tuttavia nella Biblioteca Rosminiana diStresa se ne conserva una fotocopia.

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VI. Disporre tutte le occupazioni della propria vita con uno spiritod’intelligenza52.

L’aspetto più originale e caratteristico dell’ascetica rosminiana eraespresso nel modo più compiuto dalla VI massima, l’ultima, relativa allo“spirito d’intelligenza”: in essa infatti si ricapitolava la “regola dellapassività”53 e la si rendeva atta a ricollegarsi con la complessivariflessione del roveretano e con la sua multiforme opera di educatore.

Considerando il cristiano intento a disporre tutte le occupazioni dellapropria vita, Rosmini scriveva: “Lo spirito d’intelligenza lo ritrarrà maisempre a pensare assai prima all’emendazione di sé, che a quella delprossimo”54. E continuava:

Sebbene il cristiano non cerchi da se stesso di operar nulla di grande, perché sitrova sinceramente incapace di tutto; sebbene egli sia attaccato e contentoall’esecuzione de’ soli doveri del suo stato; sebbene egli si elegga una vita ritiratae quanto mai sia possibile solitaria, silenziosa ed occulta; tuttavia egli non è giàinsensibile ai beni od ai mali de’ suoi fratelli: egli prega per loro: egli arde delloro bene: egli è sempre pronto a spendere e sacrificare anche tutto se stesso perla loro spirituale salute, quando sia fondato a credere che ciò che fa per essi nonsia fatto di propria volontà e temerariamente, ma bensì che Iddio sia quegli cheda lui ciò vuole. […] In tal modo succede, che l’umile e fervoroso cristiano, ilquale da parte sua non sa eleggersi se non una vita nascosta, ritirata da’ pericoli edagli uomini, una vita tutta occupata in una perpetua contemplazione, divisa frala prolissa orazione, e lo studio o l’esercizio di qualche professione od artemeccanica, la necessità della vita, e alcuni istanti di riposo; venga bel bello dalleforze della carità tratto fuori dal suo nascondiglio, amato da lui non per inerzia,ma per sincera umiltà, e condotto ad una vita attiva; immerso anche, se Dio lovuole, in un infinito pelago di cure, brighe, faccende e negozi grandi e piccoli,illustri ed abbietti, per bene del prossimo suo, secondo che la volontà di Dio hadisposto che a lui questi o quelli i primi si rappresentino55.

Se il fulcro della vita cristiana è fare la volontà di Dio, lo “spiritod’intelligenza”, secondo Rosmini, è necessario per riuscire a discernere

52 A. Rosmini, Massime di Perfezione Cristiana adattate ad ogni condizione di persone, in Id.,Prose ecclesiastiche. Ascetica, a cura di A. Valle, vol. I, Roma 1976, p. 35.53 Sulla “regola di passività” cfr. ibid., pp. 23-27.54 Ibid., p. 5955 Ibid., pp. 61-63.

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tale volontà e i modi per corrisponderle e attuarla, disponendo – allaluce della volontà divina – le occupazioni della vita. Peraltro lo “spiritod’intelligenza” appariva al roveretano non come un semplice sforzoumano di umana intelligenza, ma – innanzi tutto – come un dono divinoo, meglio, come la sintesi di quattro dei sette doni dello Spirito Santo.Scriveva infatti: “Il cristiano non dee giammai camminare nelle tenebre,ma sempre nella luce. Dee a tal fine chiedere mediante continui preghidallo Spirito Santo il dono dell’intelletto, col quale egli possa penetrare ecapire le sublimi verità della fede; il dono della sapienza, col quale possarettamente giudicare delle cose divine; il dono della scienza col qualepossa rettamente giudicare delle cose umane; finalmente il dono delconsiglio, col quale possa diriger se stesso, applicando le veritàconosciute alle opere particolari della sua vita”56. In questa dialetticapneumatica, dunque, la spiritualità e l’ascetica di Rosmini siarticolavano come una scientia mentis et cordis57, illuminata e riscaldatadallo Spirito Santo.

Lo “spirito d’intelligenza” suggeriva così, innanzi tutto, secondoRosmini, un ordine e una gerarchia di priorità nelle occupazioni dellavita del cristiano:

La prima cosa che la volontà di Dio gli prescrive, si è quella di esercitare confedeltà, con esattezza e con alacrità tutti i doveri del proprio stato: dicorrispondere a tutte le relazioni nelle quali egli si trova legato cogli altri uomini:di usare ad essi tutte le amorevolezze e i riguardi che risultano naturalmente daqueste relazioni: di usare insomma con essi tal carità, che debbano restare di luisoddisfatti: e che la sua conversazione colle persone colle quali egli dee trattare(giacché per amor del ritiro egli eviterà di trattare con quelle, colle quali non neha obbligo alcuno), sia piena di dolcezza, di santa amabilità, e di solidaedificazione. […]. Dopo i doveri del proprio stato (fra i quali s’intendonocomprese le pratiche della religione), il tempo che gli sopravvanzerà, l’occuperà ildiscepolo di Gesù Cristo: 1°. nelle pie letture, sì per istruirsi bene nella dottrinadella religione, come per meditare le grandezze divine, la bontà infinita, laonnipotenza, la sapienza; 2°. nella preghiera di sopraerogazione, la quale

56 Ibid., p. 59.57 Cfr. F. De Giorgi, La scienza del cuore. Spiritualità e cultura religiosa in Antonio Rosmini,Bologna 1995.

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praticherà egli quanto mai più gli sia possibile, anche fra gli esercizi dell’arte dalui professata58.

Oltre all’ordine della vita, lo “spirito d’intelligenza” indicava pure alcristiano, secondo Rosmini, il modo migliore per viverlo e realizzarlo,secondo la volontà di Dio. Osservava infatti il roveretano: “Lo stessoprincipio di corrispondere allo stato da Dio ricevuto, e di occupar benetutto il suo tempo, renderà il cristiano amante della fatica, eparticolarmente di quell’arte od occupazione che professa, ed in quellasarà assiduo: se gli riuscirà di fare in essa de’ progressi, riguarderà ciòcome un merito presso Dio, essendo questa la volontà di Dio, che eglicorrisponda bene a quello stato dove l’ha posto. Se il cristiano saràdedicato agli studi, attenderà a questi, non per amor loro, ma per amordi Dio, a cui serve: se avrà in mano un’arte meccanica, attenderà ad essaper lo stesso fine: il cristiano in tal modo non riguarderà giammai unufficio come più nobile dell’altro, o come dell’altro più abbietto, mentrecon tutti serve ugualmente allo stesso Dio”59.

Rosmini affermava infine che lo “spirito d’intelligenza” guidava ilcristiano nell’esercizio della carità verso il prossimo. Egli, infatti,scriveva: “Lo spirito d’intelligenza dee dirigerlo anche in ciò, perconoscere la volontà di Dio intorno a’ servigi ch’egli dee prestare a’ suoifratelli. Questo spirito d’intelligenza, gli dice, che anche per rispetto allacarità da esercitarsi da lui verso i suoi fratelli la volontà di Dio suoleprimieramente ed ordinariamente manifestarsi mediante le esternecircostanze. […] Con un tale spirito d’intelligenza il cristiano pieno dicarità diventa, nelle circostanze, maggiore di se stesso, abbraccia cosegrandissime, faticosissime, pericolosissime, tutto insomma, purchéIddio gli faccia sentire internamente di averne la capacità, purché i suoisuperiori non glielo vietino, ed egli sia a queste cose fare richiestoespressamente o tacitamente dal suo prossimo, nel quale vede sempre ilsuo divino Signore”60. Inoltre “acciocché possa egli eseguir bene l’opera

58 Rosmini, Massime di Perfezione, cit., pp. 59-60.59 Ibid., p. 60.60 Ibid., pp. 61-63. Rosmini inoltre osservava: “Queste circostanze, dalle quali egli puòfondatamente conoscere quali atti particolari di carità egli sia chiamato ad esercitareverso il suo prossimo, sono leseguenti: I.- il venirgli sotto agli occhi i bisogni del

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della carità che gli è richiesta dee prestarla animosamente ed ilaremente,se pur vuole corrispondere alla vocazione di una vita perfetta nellacarità”61.

In conclusione, Rosmini osservava: “La regola poi infallibile egenerale per provare la divina volontà, manifestata tanto pei segni dellecircostanze esterne come per quelli delle interne ispirazioni, dee esser lapace e il tranquillo gusto che il cristiano prova delle cose nel profondodi sua coscienza. Dee concentrarsi in se stesso ed ascoltare attentamentese sente qualche inquietudine. Se ci bada attentamente, troverà in ciò ilsegno della sua condizione. […] E se i cristiani, secondo gl’insegnamentidel loro divino Maestro, praticassero tutte queste cose, formerebberoinsieme una società pacifica e beata, non solo nella futura, ma ben anconella presente vita”62.

Le Massime di Perfezione furono poi approfondite in “conferenzespirituali” che Rosmini tenne insieme alla prima comunità religiosadell’Istituto della Carità, al Sacro Monte Calvario di Domodossola nel

prossimo; dicendogli S. Giovanni chiaramente: «Chi avrà della sostanza di questomondo, e vedrà il suo fratello patire necessità, e chiuderà a lui le sue viscere; come lacarità di Dio si rimane in lui?» (I Jo. III, 17); II.- l’essere richiesto di qualche serviziocaritatevole dal prossimo suo; poiché il divin Maestro, che in un luogo dice: «Siateperfetti come è perfetto il vostro Padre celeste» (Matth. V, 48), in altra parte dice, che ilnostro Padre celeste ci dà tutto quello che noi in nome suo gli domandiamo. Anche ilcristiano adunque dia tutto quello che può dare, quando il prossimo glielo addimanda,se vuole esser perfetto come è perfetto il Padre celeste” (ibid., p. 62).61 Ibid., p. 62. Dunque, secondo Rosmini: “Il cristiano amatore della perfezione, assumequeste opere di carità senza avere una volontaria predilezione più tosto per l’una, cheper l’altra. […] Egli conserva perciò le tre regole seguenti: I. – abbraccia le prime opere dicarità, di cui venga richiesto dal suo prossimo; né per aspettarne di future incerte,giammai le ricusa, qualunque sieno, piccole o grandi, dilettevoli o moleste, atte ad essereoperate da qualunque uomo, ovvero proprie di lui solo; II. – se gli vengono dimandatepiù opere di carità contemporaneamente, le quali egli non possa tutte ad un tempoabbracciare, procede a farne la scelta secondo l’ordine della carità, avvertendo peròsempre di non assumere che di quelle che sono alle sue forze proporzionate; III. –finalmente di nessuna opera di carità si stanca o prende fastidio, tutte, se può, leconduce a fine; e se queste contengono una occupazione continua, egli persevera, népassa ad assumere delle altre oltre a ciò che ha già intrapreso, permanendo nelle opereassunte come in propria vocazione” (ibid., p. 63).62 Ibid., p. 64.

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1830-31. Nelle ultime due conferenze, svoltesi il 10 e il 14 febbraio 1831,si discusse della VI massima e dello spirito d’intelligenza. Il 10 febbraio,“Flecchia, Alvazzi, Molinari con Boscetti dissero semplicemente che ilcristiano come figlio di Cristo vera luce e sole ha mai a camminare nelletenebre, le quali corsero i pagani. A questo s’aggiunse che si devonopregare da Dio i doni dello Spirito Santo, co’ quali s’ottiene la veraintelligenza, per cui la mente viene irradiata supernamente da una luce,che ci rimuove dalle tenebre. Gimellini ha detto che ogni cristiano devecercar di conoscer i veri principî, per operare, poi accomodar le opere aiprincipî, e quindi osservare se nelle opere splende quella luce che èpropria de’ principî”63.

Molto ampio e articolato fu l’intervento di Rosmini. Il roveretanofaceva vedere come la riflessione sullo “spirito d’intelligenza”consentisse di collegare la sua spiritualità e la sua ascetica alla suagenerale visione antropologica e filosofica. Egli infatti esordivaosservando: “Vi sono nell’uomo due principî uno che animale si chiama,ed intellettuale l’altro. Sonosi questi due principî per lo peccatod’Adamo rotta implacabile guerra, e senza riposo si trovano in fieralotta. L’animale modo non lascia intentato onde vincere, e debellare lointellettuale, e farselo schiavo, esso veglia di continuo onde rimanersisuperiore, e trionfare della ragione. In questa battaglia a chi si debbadarla vinta? Sarebbe cosa degna d’obbrobrio che l’animal principio sisoggiacesse la ragione; imperocché questa è la parte dell’uomo piùnobile parte che della stessa angelica non che divina natura partecipa,quindi la ragion mai ha da cedere, ma dee dominare su quel principio,che tenta ad ogni istante di abbatterla”64. Da qui il passaggio allaprospettiva teologico-spirituale:

Convien dunque che la ragione la vinca, se l’uomo immemore di sua dignità nonvuole abbassarsi ed avvilirsi. Ma come menar vittoria sulle passioni, che il cuoretiranneggiano dell’uomo, e che però il rendono incapace a seguire attentamentequel lume che solo ha da scortarlo, e tracciargli la strada della verità? Chesebbene l’uomo da sé non possa tanto, colla grazia di Gesù Cristo egli è d’ognigrand’opera capace, nella grazia di Cristo ei rinviene le armi potentissime, concui sconfiggere il principio animale, e elevar in trionfo la ragione. Ne’ quaranta

63 Ibid., p. 218.64 Ibid.

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secoli che calavano prima che spuntasse il sole di giustizia Gesù, brancolandoandava il mondo tra le tenebre, e la ragione rimanea soffocata dalle passioni, e sepure uno spirito d’essa vivea egli era turbato da una numerosa turba di errori.Ora che la luce stessa comparve tra noi le tenebre furono diradate, e ad ognunopurché il voglia è aperto il calle in cui può camminar senza tema di metter il suopiede in fallo. Gesù illumina tutti, da Lui fu a tutti portata la luce; la qualeseguesi da chi è sicuro di guidar rettamente la ragione65.

Ecco allora il fondamento dello “spirito d’intelligenza”. Rosminiinfatti si chiedeva: “Ma è dove mai quella luce, per cui la ragionediventa vincitrice dell’animalità?”. E rispondeva: “Cristo ci lasciò la sualegge, e donò all’uomo grazie per adempirla; e quindi essendo la leggedi Cristo la stessa legge di Dio, e Dio non potendo ordinare che cose allaragione conformi viene legitima conseguenza che l’uomo, il quale seguela legge di Cristo compie il più bel trionfo ala sua propria ragione”66.Legge e grazia: cioè beatitudini evangeliche e azione dello Spirito Santonell’uomo. Sono temi che Rosmini avrebbe sviluppato nell’Antropologiasoprannaturale, ma intanto, discutendo nella piccola comunità religiosariunita al Calvario di Domodossola, egli affermava.

Questa legge poi Cristo ama che si osservi colla maggior perfezione e quindidicono i santi Padri che a questo fine Egli dettò le otto beatitudini; ama poi ancheCristo che si eseguisca la sua legge con facilità e quindi i doni ci lasciò che sidicono dello Spirito Santo, co’ quali doni quasi per divino impulso l’uomo vienespinto a tener dietro alla divina legge. Col dono che dicesi dell’intelletto siconoscono si penetrano le sublimi verità della fede, le quali sono la forma per cuila ragione sebbene vegga su molte cose tirato un denso velo resta tuttavia paga,giacché conosce che Dio vi tirò quel velo, ed è Dio che le proibisce di portar più inlà i suoi sguardi. Dal dono dell’intelletto poi gli altri doni, come rami d’un fiumesi distendono; imperocché conosciuta l’elevatezza la sublimità della verità dellafede non a capriccio la ragion giudica su d’essa, ma con rettitudine ed istimaporta i suoi giudizî sulle cose divine, ed ecco il dono della Sapienza: coll’intellettoilluminato dalle verità della fede si conosce che riguardo si convien aver alle coseumane: grande se alla gloria sono dirette di Dio, nissuno se a questa non ciconducono; ed ecco il dono della scienza. Conoscendo le verità della fede l’uomo

65 Ibid., pp. 218-219.66 Ibid., p. 219.

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apprende come regolar se stesso, conosce che è necessario a quelle conformar lasua vita, e l’altro dono da qui scaturisce che s’appella consiglio67.

Se l’intelletto appariva dunque, a Rosmini, quasi la fonte degli altridoni dello Spirito Santo, così pure egli affermava che “l’intelligenza sipuò dire il germe di tutte le virtù evangeliche”68. Si apriva così lapossibilità di una considerazione dello “spirito d’intelligenza”69 dalpunto di vista delle virtù evangeliche e, in particolare, della carità.

4. La carità intellettuale e l’educazione

Negli anni milanesi Rosmini sviluppò il suo disegno fondativo di unnuovo Istituto religioso. Concepito inizialmente come possibile ramomaschile dell’Istituto fondato da Maddalena di Canossa, esso andò viavia assumendo una forma originale e autonoma fino a mettere capoall’Istituto della Carità. A Milano Rosmini approfondì la sua ricerca –con il materiale raccolto nel Directorium Spiritus – e la sua riflessione,come testimoniano le lettere a Gaspare Bertoni70 e al Cappellari71 oltre,

67 Ibid.68 Ibid., p. 221.69 Molto significativa, in riferimento allo “spirito d’intelligenza”, è la riflessionesviluppata da Rosmini nella sua lettera alle Suore della Provvidenza in Inghilterra,scritta il 24 settembre 1850 (A. Rosmini, Epistolario Ascetico, vol. III, Roma 1912, pp. 634-646). In essa tra l’altro si affermava: “quantunque niuna virtù possa giammai riuscireveramente opposta ad un’altra virtù, come una verità ad un’altra verità, tuttavia l’arte diunire tra loro in amichevole società quelle virtù che presiedono a facoltà e passioniaventi una tendenza contraria, e che vanno sempre abbinate e possedute solo dall’uomoperfetto, è quella appunto a cui si deve applicare chi allo studio della perfezione si èconsacrato. Nel che avviene come nella musica, che quantunque la voce del contralto,poniamo, paia oppostissima a quella del baritono e del basso, tuttavia il peritocompositore di musica, trovati i loro accordi, ne fa uscire un’unica ed aggradevolearmonia. […] la semplice e cieca ubbidienza si può ben congiungere e compenetrarecoll’esercizio dello spirito d’intelligenza, e ciò in diverse maniere. […] ché, operare conispirito d’intelligenza non vuol dir altro se non operare con ragione, senza lasciarsi maimuovere o perturbare da passione alcuna” (ibid., pp. 635-636). Cfr. anche M. F. Sciacca,L’oscuramento dell’intelligenza, Milano 1970, pp. 19-58; R. Bessero Belti, Lo spiritod’intelligenza, in “Rivista Rosminiana”, (1982), 1, pp. 1-14.70 EC, II, pp. 40-53.

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ovviamente, al carteggio con la Canossa. Conobbe poi il Loewenbruck e,tramite Mellerio, entrò in contatto con l’ambiente di Domodossola. Nel1828, al Calvario di Domodossola, scrisse le Constitutiones Societatis aCharitate nuncupatae, che avrebbe poi lungamente ritoccato eperfezionato. Le Costituzioni rappresentano il testo fondamentale dellaspiritualità, dell’ascetica, degli indirizzi educativi e della stessa visioneteologica di Rosmini: esse inoltre, organando un nuovo Istituto diperfezione e strutturandone i percorsi formativi, aprivano unaprospettiva solida e reale di incarnazione storica della visionerosminiana e ne garantivano dunque una permanenza nel tempo.

L’Istituto rosminiano aveva come fondamento la “carità cristianacolla quale si ama Cristo nel prossimo e in Cristo il Padre, in cui di moltidiventiamo come una cosa sola”72. Pertanto Rosmini scriveva:

La perfezione che noi intendiamo è l’unione strettissima dell’uomo con Dio cheotteniamo coll’amare sommamente Gesù Cristo, secondo la sua parola:«Come ilPadre ha amato me, anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Giov. 15,9). Mal’amore di Cristo dev’essere operativo e non consistere in sole parole o in unosterile affetto del cuore. Quindi, il Maestro soggiunge: «Se osserverete i mieicomandamenti, rimarrete nel mio amore; come io pure ho osservato i comandamenti delPadre mio e rimango nel suo amore» (Giov. 15, 10). E il comandamento di Cristo nonè altro che l’amore del prossimo, come Egli subito spiega soggiungendo: «Questoè il mio comandamento che vi amiate a vicenda, come io ho amato voi» (Giov.15, 12). Equindi, perché il cristiano giunga alla perfezione, bisogna che si perfezioniriguardo all’amore del prossimo. Perciò questo Istituto prende il nome dallaCarità73.

Ma per esercitare l’amore del prossimo in conformità alla volontàdivina, la carità – secondo Rosmini – doveva essere unita con lasapienza. Ritornava dunque, anche nelle Costituzioni, il tema dello“spirito d’intelligenza”, cioè della ricerca di comprensione della volontàdi Dio per conseguire “l’ordine nella carità”: “L’ordine sommo poi dellacarità, che è la somma sapienza, Dio solo lo conosce, perché consiste nelmaggior bene di tutto l’universo. Perciò di nulla dobbiamo essere più 71 Ibid., pp. 216-223.72 A. Rosmini, Costituzioni dell’Istituto della Carità, a cura di A. Valle, Trento 1974 [d’orain poi Cost], n. 183 (p. 175).73 Ibid.

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solleciti che di indagare e conoscere la volontà di Dio, e conosciutala,adempirla come sapientissima ed ottima, con infiammata carità”74.

La carità, come atto col quale la volontà si porta al bene, è pura eperfetta, secondo Rosmini, quando non si porta che al bene. Chi nonama Dio che è il massimo bene, non ama veramente. Ma anche chi nonama il bene che può esserci nell’uomo per qualità e partecipazione, nonama veramente. La vera carità, dunque, è di sua natura universale,perché si estende ad ogni bene: ama Dio e l’uomo.

La carità costituiva il fine e la natura dell’Istituto fondato da Rosminie perciò ogni membro di tale sodalizio doveva volere, senza restrizione,tutti i beni e in tanto volerli in quanto beni: pertanto nessun limite – sulpiano astratto e in linea di principio – poteva porsi nell’esercizio dellacarità e ogni specie di carità poteva essere abbracciata. Naturalmente,sul piano pratico, occorreva individuare i limiti umani per il proprioimpegno. Ma l’universalità della carità, nel carisma dell’Istitutorosminiano, richiedeva ai sodali un’indifferenza verso la specifica operadi carità alla quale si era chiamati75.

Secondo il criterio dello “spirito d’intelligenza”, Rosmini forniva ilmetodo per rintracciare “l’ordine della carità”. Scriveva: “Benché ilSignore ci abbia dato il comandamento dell’amore vicendevole, tuttavianon ci ha obbligati (finché rimaniamo nello stato privato) a cercare lenecessità del prossimo; ma a soccorrerle, per quanto possiamo, quandoci si manifestano da se stesse. Il Signore stesso, che guariva le infermitàdi tutti, non si legge però che le abbia cercate; ma ovunque gli sipresentavano, e il prossimo gli chiedeva qualche cosa, ivi effondeva lasua divina e incomparabile carità. Conviene adunque che anche i nostrifratelli osservino lo stesso ordine, in modo che non cerchino essi leoccasioni di esercitare la carità, ma colgano quelle che si presentano aloro spontaneamente e per prime, e soddisfino le richieste del prossimocon ogni effusione, secondo il dono di Dio che hanno”76. In questo modoRosmini estendeva, per così dire, il “principio di passività”, da suaprivata regola di comportamento ad architrave dell’Istituto religioso dalui fondato. 74 Cost n. 183 (p. 177).75 Cost nn. 549-553 (pp. 453-457).76 Cost n. 554 (p. 459).

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Il cristiano – nella visione rosminiana – deve riposare nellaProvvidenza, sia per ciò che riguarda sé sia per ciò che riguarda ilprossimo. Non può cercare – di sua autonoma iniziativa e secondo le suepersonali idee – di mettere in opera iniziative caritative per gli altri:“Poiché l’uomo non può sapere, quando agisce spontaneamente, se ciòche fa, benché in sé sembri cosa buona, contribuisca al bene universale,perché questo lo calcola e dispone soltanto Iddio Padre onnipotente e ilsuo divin Figlio. Ma quando si presenta da sé l’occasione di esercitare lacarità, allora noi la dobbiamo prendere come offertaci dalla Provvidenzae non cercata da noi”77.

L’escludere la ricerca, da parte del religioso, delle necessità delprossimo significava pure far crescere in lui il sentimento di umiltà edinoltre, osservava Rosmini, “eviteremo maggiormente il pericolo diintrometterci nei fatti altrui per cagione o col pretesto (talmente siamodifettosi) della nostra carità”78. Il roveretano voleva combattere lo zeloindiscreto, la carità ipocrita, la superbia morale dissimulata, marichiedeva pure una finezza di intuito umano tale da saper coglierel’appello del prossimo: “vi è infatti una richiesta tacita, cioè il desideriodel prossimo da noi conosciuto con certezza. Tale fu la richiesta diZaccheo, di cui il Signore, come dice S. Ambrogio (Libr. VIII in Luc.),«sebbene non avesse udita parola d’invito, aveva già visto l’affetto»”79.

77 Cost n. 555 (p. 461).78 Cost n. 557 (p. 463).79 Cost n. 563 (p. 465). Inoltre il roveretano notava: “si dovranno soccorrere quellenecessità del prossimo che conosciamo solo dalle informazioni altrui; prima disoccorrere tali necessità, riflettiamo se il nostro soccorso possa essere gradito al prossimoche ha la necessità, e non abbia ad irritare gli altri” (Cost n. 564: p. 467). E aggiungeva:“Se la necessità sarà temporale o corporale, il soccorso sarà quasi sempre gradito; maquando sarà spirituale, vi può essere dubbio. In tal caso, ordinariamente si deve lasciarel’opera a colui a cui tocca per giustizia, purché, date le circostanze delle cose, altro nonsuggerisca l’unzione dello Spirito Santo. Coi poveri, coi piccoli e i semplici si può,nell’aiutarli, procedere con maggior libertà che coi ricchi e con quelli dotati dellaprudenza di questo mondo; poiché la missione del Signore fu di «evangelizzare i poveri»(Luca IV, 18), e noi non possiamo averne un’altra” (ibid.).

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Naturalmente questa concezione rosminiana non escludeva, ma anziesigeva, che durante il Noviziato ci si preparasse, con sodi studi, agliuffici diversi del ministero della carità80.

Dove la riflessione del roveretano giungeva a una sua caratteristicaoriginalità e profondità era nel configurare “una triplice carità:temporale, intellettuale, spirituale”81. Scriveva Rosmini:

Gli uffici di carità, rispetto al bene del prossimo a cui tendono direttamente, sonodi tre specie. La prima specie comprende gli uffici, che tendono immediatamentea giovare al prossimo riguardo a ciò che spetta alla vita temporale; e questa sipuò chiamare carità temporale. La seconda specie comprende gli uffici che tendonoimmediatamente a giovare al prossimo riguardo a ciò che spetta alla formazionedel suo intelletto e a sviluppare le facoltà intellettive; e questa si può chiamarecarità intellettuale. La terza specie comprende gli uffici di carità che tendono agiovare al prossimo riguardo a ciò che spetta alla salvezza delle anime; e questasi può chiamare carità morale e spirituale. Chiamiamo morale quella carità chedispone l’uomo a compiere i doveri morali. Spirituale chiamiamo la stessa caritàelevata all’ordine soprannaturale, per cui l’uomo aderisce a Dio; al che tendono imezzi religiosi coi quali l’uomo, ottenuta la divina grazia, può adempiere agliobblighi morali82.

80 Rosmini affermava: “Infatti, la carità di Dio che hanno acquistato durante il Noviziatosi deve trasfondere in carità del prossimo, così che nelle opere della vita attiva arda lastessa carità che si accese nella quiete della contemplazione. Perché, se, quando deveincendiare e infiammare ogni cosa esterna, il fuoco della carità si estinguesse,sembrerebbe che non fosse mai stato concepito nell’anima. Lo stesso si deve dire deglistudi; poiché gli studi valgono massimamente per i ministeri di carità; bisogna provarese colui che sa, sappia valersi di ciò che sa; o, se non sa, dovrà imparare come possasalutarmente valersene. Chi invece nel predetto tempo o adoperò o imparò ad adoperareprudentemente e fortemente e lo zelo e la scienza negli uffici di carità, di qualsiasispecie, che gli sono stati affidati, sarà ritenuto veramente bruciato dal fuoco e condito colsale e degno perciò di essere ascritto tra i Coadiutori dell’Istituto” (Cost n. 414: p. 329).81 Cost n. 117 (p. 121).82 Cost nn. 593-595 (pp. 491-493). Rosmini affermava inoltre: “La carità spirituale intendedare al prossimo ciò che è bene di per sé e solo bene, la vita eterna. Invece, la caritàtemporale e la intellettuale porgono agli uomini soltanto beni relativi e parziali, che sidevono dire beni solo in quanto vengono ordinati coll’intenzione al bene assoluto dellacarità spirituale e a questo in qualche modo dispongono. Perciò, strettamente parlando,le tre predette specie di carità appartengono ad una sola carità, come s’è detto sopra(Parte VI, cap. 4); e quindi, la carità temporale e intellettuale non si devono esercitare danoi per altro fine che per salvare le anime e per onorare negli uomini il nostro Dio e

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Inoltre Rosmini osservava: “La principale e suprema specie di carità èla terza che tende a un bene più grande e più vero; poi eccelle la secondaspecie, perché la formazione dell’intelletto è cosa più importante chequalsiasi altra temporale, e serve più prossimamente a quella speciesuprema; la prima invece, è la minima specie di carità”83.

Attraverso questa triplice distinzione, il Roveretano stabiliva l’ordinedella carità per tutti i fedeli (e dunque anche per i religiosi dell’Istitutoprima di assumere l’ufficio pastorale) e, poi, l’ordine della carità deipastori. Per quanto riguardava la carità comune a tutti i cristiani, sidoveva partire dalla carità temporale e, sostanzialmente, radicarsi inessa, perché più direttamente accessibile a tutti. Per i pastori l’ordine erainverso: prima la carità spirituale, veramente propria del ministeropastorale, poi la carità intellettuale e infine la carità temporale84.Spiegava Rosmini:

Il fedele cristiano, nella sua semplicità, deve primieramente assecondare i buonisentimenti ed istinti della natura, cioè della compassione che si destaspecialmente alla vista dei mali della vita temporale del prossimo; e santificaretali sentimenti coll’amore di Cristo. Infatti, poiché sono sentimenti della buonanatura, provengono da Dio come autore della natura, ed in essi c’è la volontàdivina, e sono esenti dal pericolo della superbia e dell’alterigia, perché in essisiamo come passivi, ed hanno inizio non tanto dall’intelletto quanto dallo stessobuon temperamento del corpo. Perciò il Signore ci diede parecchi esempi diopere di misericordia corporale, a cui si dedicò, nelle necessità che gli sioffrivano.

E aggiungeva:

Quando adunque, guidati da quest’intenzione di obbedire alla volontà di Dio e dipiacere a Gesù Cristo, non resistiamo alla compassione naturale, anzi

Signor Gesù, che volle assumere le necessità di tutti noi” (Cost n. 596: p. 493).83 Cost n. 597 (pp. 493-495).84 Cost n. 602 (p. 499). E Rosmini continuava: “Perciò come la carità corporale è comune atutti i cristiani, i quali, nel moto naturale della compassione, che nasce al vedere il doloredel prossimo, possono ragionevolmente udire la voce della divina Provvidenza; così lacarità delle anime è propria dei pastori, e si richiede un’occasione più evidente, perchésia esercitata dai comuni fedeli” (Cost n. 603: p. 501).

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l’assecondiamo e la eccitiamo saggiamente in noi, allora edifichiamo la veracarità, che comincia dagli impulsi della compassione, come la cognizioneintellettiva dalle sensazioni; e perciò, lo stesso Gesù Cristo sembra che a questo,come a suo principio, abbia richiamato tutto il suo precetto della scambievoledilezione, quando insegnò che nel giudizio finale ricompenserà i giusti econdannerà gli iniqui solo riguardo a questa carità corporale, di cui lacompassione è l’inizio. Quindi per noi si richiede meno per assumere la caritàcorporale che non per intraprendere le altre specie di carità, benché di loro naturamaggiori85.

Tra le opere di carità temporale si dovevano preferire, secondoRosmini, “quelle enumerate da Cristo: «1° Ebbi fame e mi deste damangiare; 2° ebbi sete e mi deste da bere; 3° ero ospite e mi accoglieste;4° ero nudo e mi copriste; 5° infermo e mi visitaste; 6° carcerato e venistea me» (Matt. 25, 35-36)”86. Tuttavia la massima specie di carità temporaleera, soprattutto per i sacerdoti, la composizione delle discordie e delleliti. Del resto, per Rosmini, la massima specie di carità intellettuale eral’educazione della gioventù87 e la massima specie di carità spiritualel’ufficio pastorale88.

L’originalità della concezione rosminiana stava nell’idea di caritàintellettuale89, che il roveretano sviluppava con fini riflessioni di grandedelicatezza umana e di evidente profondità spirituale. La novità di

85 Cost n. 6000 (pp. 495-497).86 Ibid.87 Nel Piano dell’Istituto della Carità, che Rosmini inviò a Gaspare Bertoni il 15 marzo1826, da Milano, si affermava: “Ama poi in particolare la Congregazione, fra i poveri, laclasse dei giovanetti, raccomandata specialmente dal Signore, con quelle parole: Lasciateche i pargoletti vengano a me, e dà un luogo distinto fra le opere caritative a quella diattendere alla costoro educazione” (A. Rosmini, Epistolario Ascetico, vol. I, Roma 1911, p.113).88 Cost n. 820 (p. 695). Sulla “carità spirituale” cfr. G. Cristaldi, La Carità spirituale, in Id.,Temi rosminiani, Stesa 1996, pp. 101-112. È da notare che Rosmini parlava,indifferentemente, di carità spirituale o di carità soprannaturale. Nel discorso sulla caritàdel 10 ottobre 1851 affermava: “Vi ha una carità temporale ed un’altra carità intellettuale;ma né l’una né l’altra sarebbero Carità se non fosse ordinata alla carità morale esoprannaturale” (A. Rosmini, Discorsi sulla carità, Pescara 1963, p. 173).89 Cfr. N. Galli, La “carità intellettuale” come educazione dell’intelligenza, in “Pedagogia evita”, s. 55, (1997), n. 6, pp. 46-75; P. Zovatto, La “Charitas” intellettuale rosminiana, in “LaScuola Cattolica”, 118 (1990), pp. 553-583.

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concezione e di accenti, che in tal modo veniva espressa, assumeva – nelcontesto dell’Ottocento cattolico – un’importanza ancor maggiore inquanto nucleo di una scuola di spiritualità e dell’ascetica di un nuovoIstituto religioso. Rosmini, infatti, affermava: “Poiché la carità è la viadella verità, e pienezza della verità, l’Istituto, che si chiama della Carità,deve essere preclaro custode, contemplatore e indagatore della verità, edottimo e indefesso promotore tra gli uomini della cognizione dellaverità; di qui, quel genere di carità, che abbiamo chiamato intellettuale,il quale tende immediatamente a illuminare ed arricchire l’umanointelletto di cognizioni delle cose”90.

Ciò che, innanzi tutto, interessava Rosmini – dal punto di vista dellacarità intellettuale, del suo esercizio e della sua direzione – era l’ordine“assoluto” delle verità, che è universale e conduce tutte le veritàall’unità della ragione teoretica e pratica, fino a giungere alla sapienzache è “scientia practica Dei”. Osservava: “vi è, infatti l’ordine assolutodelle verità, per cui diventano una sola tutte le scienze, ammirabile a chila contempla, e per l’unica essenza in cui si vedono tante cognizioni, laquale essenza è l’oggetto dell’umana beatitudine, cioè Dio; e per l’unicoe profondissimo principio, ossia, Dio, da cui escono tutte le cose; efinalmente per l’unico, ottimo fine, che è pur Dio, a cui esse ritornano. Equando si pensano tutte le cose unificate nella loro essenza, principio efine, in tutte si onora e si conosce il principio e il fine di tutte […].Quando, adunque, attendiamo alle scienze coll’unica intenzione diconoscere Iddio, di obbedirgli e di aderire a Lui con tutte le forze, lostudio di esse tutte diventa la scienza pratica di Dio, la sapienza; perchéallora in ogni cosa meditiamo la sua legge e la sua volontà edesaminiamo i suoi precetti”91.

Dopo l’ordine delle verità, Rosmini indicava il problema del loronumero e dispiegava la sua antica e mai smessa tensione verso unenciclopedismo cattolico, non presuntuoso o polemico né soloapologetico, ma che anzi perseguisse il “perfezionamento del genereumano” e che per tale ideale progressivo si incontrasse con la ricercadegli intellettuali e dialogasse con la comunità scientifica: “Quanto allamoltitudine delle cognizioni, i Superiori, non rigettando alcun genere di 90 Cost n. 799 (pp. 677-679).91 Cost n. 801 (p. 679).

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scienze o di verità, indaghino e sperimentino l’utilità di tutte per la verae buona cultura degli uomini, e sappiano come tali doni di Dio sianoordinati in sussidio e decoro della religione e ad aumento del trionfo chela potenza del Signore Gesù tra gli uomini riportò e riporta di giorno ingiorno sino alla fine dei secoli. E così usini cautela perché presso di noila «scienza non gonfi» (I Cor. 8, 1), favorendone il culto per la pura veritàe carità; e diffondano la luce della schietta verità per il perfezionamentodel genere umano, in modo che anche tutti i dotti desiderinointrattenersi con loro, e si apra più ampio l’adito a promuovere lapietà”92. Assai acutamente Rosmini prescriveva che la scienza “nongonfi”: non si trattava solo di un individuale ideale d’umiltà per isingoli studiosi – peraltro anch’esso indicato93 – ma di una più generaleattenzione a che la carità intellettuale non debordasse nel falso zelo diun’apologetica tanto astiosa e supponente quanto criticamente pocoavvertita se non culturalmente mediocre.

Dopo l’ordine e il numero delle verità, vi era il problema della lorocertezza, cioè della faticosa ricerca di cognizioni, vagliate e discusse,purificate – per quanto possibile – da errori e dunque scientificamente esperimentalmente accertate. In questo campo la carità intellettualedoveva condurre, da una parte, a evitare giudizi temerari, nonsufficientemente ponderati e sottoposti a vaglio critico, dall’altra adialogare con rispetto amorevole con eventuali oppositori e avversari.Osservava dunque Rosmini: “Di grande aiuto pertanto all’aumentodella verità, sia per giovare alle cose umane, sia anche per il solidoprofitto delle virtù, sarà l’escludere ogni temerità nel giudicare; sicchénessuna delle cose che vengono proposte sia condannata, prima che siaprovato doversi condannare, né leggermente si ammetta, prima cheparimenti sia provato doversi ammettere. Se i Superiori procederanno inogni cosa con questa forza della logica, come si addice a quelli che «sono

92 Cost n. 803 (pp. 681-683).93 Rosmini infatti aggiungeva: “Affinché in essi non soffra danno l’umiltà, i Superioricon ogni carità aiutino coloro che debbono intrattenersi coi dotti e attendere alle scienze,specie secolari; massimamente da principio, quando sono ancora giovinetti ingenui, eforniscano loro tutti i mezzi per la custodia dell’umiltà. Tra questi, uno sarà di esercitaretali persone dotte in alcune pubbliche dimostrazioni di umiltà e di pietà” (Cost n. 803: p.683).

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figli della luce» (I Tess. 5, 5), né rigetteranno le utili novità, néaccoglieranno in alcun modo le nocive”94. E aggiungeva: “Quando poi siopporranno agli errori e alle false opinioni degli uomini, lo facciamo congrande considerazione e peso di ragioni, e non provochino gli avversari;anzi, se li guadagnino con delicata cortesia e rispettoso parlare;confondano e vincano anche i malvagi col bene, con carità non finta espirito di mitezza, annunziando e predicando liberi la verità con ognipazienza, lasciando da parte le questioni inutile e le inezie, facendoinsomma ogni cosa non per la vittoria, ma per l’edificazione del Corpodel nostro Signore Gesù. E qualora le opinioni degli altri non sianoevidentemente contrarie alla verità religiosa, le tollerino, affinché siconservi la carità; e così anche, dai sentimenti e considerazioni di molti,venga maggiormente in luce la verità”95. Le discussioni culturali, nellospirito della carità intellettuale, non dovevano dunque avere – secondoRosmini – come fine una trionfalistica vittoria della Chiesa, bensì unasua più umile ma anche più solida edificazione: dunque unatteggiamento costruttivo più che distruttivo, non battaglie e tonibellicosi ma dialogo e mitezza evangelica, apertura ad accogliere evalorizzare il positivo più che chiusura e condanna del negativo.Insomma: carità non finta e delicata cortesia.

Stabiliti questi caratteri fondamentali della ricerca, Rosmini indicavapoi gli aspetti didattici o, meglio, educativi, nei quali maggiormentedoveva esprimersi e risaltare la carità intellettuale. Scriveva: “Dei modiparticolari in cui si esercita la carità intellettuale, si deve generalmenteparlando, stimare principale fra tutti l’educazione della gioventù; el’Istituto, osservate le condizioni richieste dalle Costituzioni, l’assumeràcon particolare impegno, e, coltiverà con ogni diligenza; e nell’istruire lagioventù procurerà di osservare ciò che abbiamo detto, dell’ordine, delnumero e della certezza delle cognizioni”. Il roveretano stabiliva inoltreun’interessante gerarchia di importanza (dal punto di vista del carismadell’Istituto e di un maggiore impatto nella società) in campo educativo:“Di grande importanza è l’educazione dei chierici, e si accorda collanatura dell’Istituto. In secondo luogo, in ragione di un bene piùuniversale, viene l’educazione della classe media. In terzo luogo, 94 Cost n. 804 (p. 683).95 Cost n. 805 (p. 685).

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l’educazione dei poveri. In quarto luogo, l’educazione dei nobili e deiricchi. In quinto luogo, l’educazione dell’infima classe, dei contadini,degli operai, ecc.”96. L’importanza attribuita all’educazione della classemedia, collocata al secondo posto, dopo l’educazione dei chierici,derivava oltre che dall’osservazione della sua crescente importanzasociale, forse anche dal fatto che – come si è visto – a Milano Rosminiaveva incontrato un ceto medio poco religioso o comunque più lontanodalla fede rispetto alle altre classi sociali, superiori o inferiori. Questaintuizione rosminiana non dovette rimanere senza effetti in terraambrosiana: non è un caso che un sacerdote influenzato dalla lezionerosminiana, Luigi Biraghi97, abbia fondato le Marcelline con il precisointento dell’educazione delle giovani di “civile condizione”, cioè delceto medio.

Rosmini voleva inoltre che coloro che si sarebbero dovuti occuparedell’educazione dei giovani fossero, a loro volta, ben istruiti nellaMetodica e nella Pedagogia e mostrava – in questo campo – una sinceraapertura alle sperimentazioni didattiche per giungere a più sicure ecomplete valutazioni sui diversi metodi. Scriveva: “Quanto ai metodi,poi, di educare la gioventù, ciò dipende soprattutto dall’esperienza, e sideve andare cauti sia nell’ammettere sia nel rigettare nuovi sistemi:«Provate ogni cosa; tenete quello che è buono» (I Tess. 5, 21). E per ricavarequalche frutto da tutti i buoni sistemi, da qualunque luogo vengano,evitando il danno dell’imprudenza, sarà bene che, ove sia possibile, sistabilisca qualche grande Collegio, in cui si facciano accuratissimeesperienze dei metodi che teoricamente sarebbero buoni, e, preso unconveniente spazio di tempo, prudentemente si giudichi della relativabontà dei metodi”98.

96 Cost n. 806 (pp. 685-687).97 Sul Biraghi cfr. M. Marcocchi, Luigi Biraghi e la congregazione delle suore Marcelline: leradici spirituali, in N. Raponi (a cura di), Ottocento romantico e civile, Milano 1993, pp. 229-244; F. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista. Religione e cultura nella tradizione rosminianalombardo-piemontese (1825-1870), Milano 1970.98 Cost n. 807 (p. 687). Inoltre Rosmini stabiliva: “alla plebe stessa si tengano alcunelezioni popolari di ciascuna scienza nei grandi Collegi, ovunque sia possibile” (Cost n.808: p. 687).

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Un aspetto particolare dell’attività sia di insegnamento sia di ricercaera la scrittura di opere di scienza: il roveretano era particolarmenteesigente rispetto a tali eventuali impegni dei religiosi dell’Istituto dellaCarità. Prescriveva: “Se i fratelli hanno tempo e forze per cose maggiori,veda se alcuno sia in grado di scrivere libri utili al bene della Chiesa edegli uomini, massime contro gli errori correnti, ma non si devepermettere che si pubblichi in questo genere alcunché di pococoncludente; poiché gli argomenti deboli non guadagnano, ma irritanol’avversario e nuocciono alla causa della verità. E così, nelle altrematerie, non si pubblichino libri, se non tali che possano esser utili allaverità ed al prossimo”99. Anche in questo caso emergeva la prospettivadella carità intellettuale, particolarmente evidente nel caso di libriscolastici. Per questo Rosmini aggiungeva: “E affinché ognuno possacomodamente essere istruito non in cose superflue, ma nelle necessarie,l’Istituto secondo le opportunità, spenda la sua fatica nello scrivere nonlibri volgari, di cui il mondo è pieno, ma sapienti, che servono aqualsiasi specie, condizione, professione, età e vita, e così si promuoveordinatamente l’educazione del popolo, non separando l’istruzione dellelettere e delle arti dal timore di Dio e dall’amore della virtù, perchériesca in bene e non in male”100.

Tutto questo aveva un riflesso non secondario sulla struttura stessadell’Istituto della Carità. Per esempio i Coadiutori, sia interni sia esterni,erano da Rosmini suddivisi in spirituali – cioè i sacerdoti che servivanoall’Istituto specialmente in opere di carità spirituale – e temporali, cioèlaici che dovevano coadiuvare specialmente negli uffici della caritàtemporale101. Inoltre, fra i compiti personali e specifici del PrepositoGenerale, oltre alla suprema guida e moderazione dei vari uffici della

99 Cost n. 775 (p. 663).100 Cost n. 802 (p. 681).101 Cost n. 11 (pp. 37-39). Inoltre Rosmini aggiungeva: “e poiché molteplici sono le operedi carità verso il prossimo e spesso richiedono anche esimie doti d’ingegno e variecognizioni delle cose e delle scienze, sembra assai conveniente all’intento di questoIstituto, il quale non pone a se stesso vincolo né limite alcuno nell’esercizio della carità,che, tra i suoi Coadiutori temporali, alcuni, forniti di bell’ingegno e di grande umiltà, siesercitino nelle arti liberali e si arricchiscano di ogni sorta di cognizioni, congiungendolecon una somma pietà, come si addice a un tale Istituto che professa di sapere in ognicosa solo Cristo e Cristo Crocifisso” (Cost n. 12: p. 39).

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carità, vi era: “Insegnare e diffondere principi veri e fecondi in fatto direligione, filosofia, e morale; e conoscere e scegliere i migliori metodi dieducazione e di governo. E finalmente insegnare saggiamente, giudicarecon giustizia e ordinare santamente, e opporsi ai mali anche piccoli concontinua vigilanza e fortezza”102. Ma l’istituzione più caratteristica eraquella di tre Vicari: “poiché abbiamo detto che tutta la carità è contenutain tre generi, cioè carità spirituale, intellettuale e temporale, perciò ilPreposito avrà anche tre Ministri che lo aiuteranno più da vicino neisingoli generi, e che si possono chiamare, il primo, Vicario della caritàspirituale, il secondo, Vicario della carità intellettuale, il terzo, Vicariodella carità temporale, i quali tutti però sono tenuti a prestare aiuto alGenerale non solo nei loro generi, ma in tutto, secondo checonosceranno che egli voglia”103.

Un esempio concreto e contemporaneo della triplice carità era, perRosmini, l’esperienza dell’Istituto religioso fondato da Maddalena diCanossa. Nel 1826, da Milano, scriveva a don Giulio Todeschi: “Loscopo generale che voi desiderate sapere delle Sorelle della Carità, èquello d’avere cura speciale della classe più negletta e spregiata nellasocietà, e per conseguente della più bisognosa; della classe peròcarissima al nostro divin Maestro, cioè quella de’ poverelli. Assistere ledonne inferme nello spedale; istruirle nella dottrina cristianaparrocchiale, se il parroco lo desidera, e sotto la direzione del parroco,tenere anche una scuola alle poverelle di tutto quello che a poveredonne può essere bisognevole, leggere, scrivere, lavori donneschi, ecc.Estendono le loro cure altresì al miglioramento della educazione nelleville, col ricevere nel convento per sette mesi dell’anno delle probegiovani contadine d’ingegno, al fine di educarle per siffatto modo, chepossano essere poi nelle scuole del contado buone maestre, morigerate epie”. Dunque le suore canossiane erano un esempio vivente di caritàtemporale e di carità intellettuale. Ma l’esperienza milanese suggeriva aRosmini ulteriori testimonianze che giungevano fino alla caritàspirituale. Scriveva infatti: “Dopo la cura delle povere, le Figliuole dellaCarità, se avanza loro tempo e lena, esercitano gli atti di carità verso lericche: e nelle città maggiori, come qui in Milano, fanno un gran bene 102 Cost n. 900 (p. 765).103 Cost n. 895 (p. 757).

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col raccogliere nel loro Convento, a un certo tempo dell’anno, le piedame della città, e dare loro comodo di fare gli Esercizi spirituali: ciò chequeste Milanesi hanno fatto con molta edificazione testé. La vitaadunque di queste ottime Suore, come accenna il nome che portano, ètutta di carità”104.

Nonostante tale luminoso esempio della triplice carità, proprio inquegli anni Rosmini si staccava definitivamente dal modello canossianoe dall’idea di porsi alla testa di un eventuale ramo maschile dell’Istitutodella Canossa. Il punto fondamentale di differenziazione – come emergenitidamente nel carteggio tra Rosmini e Maddalena di Canossa – stavain quello che il roveretano considerava il massimo ufficio della caritàspirituale, la cura pastorale, che la Canossa escludeva esplicitamente.

Rosmini si avviò così verso la fondazione di un autonomo e nuovoIstituto religioso che, come si è visto, assumesse la carità nella suauniversalità e senza limitazioni. Un altro modello emergeva allora comeparadigma della triplice carità: il modello borromaico. Nelle Costituzionidell’Istituto della Carità, a conclusione del capitolo dedicato alla caritàtemporale, Rosmini osservava: “Nelle pubbliche calamità,massimamente conviene soccorrere il prossimo con ogni mezzo; neltempo della peste, conviene che i nostri si offrano tutti”105. Forse inquesto passaggio c’era pure un’eco borromaica, se non altro mediata dalromanzo di Manzoni. Più esplicito è il riferimento a proposito dellacarità intellettuale: si è visto come il roveretano apprezzasse gli oratorifondati da Federico Borromeo e dediti all’educazione della gioventù.Nelle Costituzioni inoltre osservava: “Come si deve perseverare nelleopere cominciate da noi, così pure si deve perseverare in quellecominciate da altri. Bisogna dunque considerare che cosa sia stato fattonei singoli luoghi da uomini santi, come, a Milano dai Santi Ambrogio eCarlo, in Sicilia da S. Gregorio, in Toscana da S. Benedetto e S.Romualdo ecc., e seguire le loro orme. Occorre infatti sempre compirequella educazione a cui il popolo, precedentemente coltivato da lodevoliuomini, si è già avviato. Perciò va studiata la storia ecclesiastica del

104 EC, II, p. 85.105 Cost n. 820 (p. 697).

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luogo, sia per mostrare alle popolazioni esempi di virtù, sia finalmenteper compire quello che tra esse fu già cominciato”106.

Ma dove la sintonia col modello borromaico appare più evidente ènell’idea della carità pastorale. Rosmini affermava: “la carità spirituale èpiù importante, come abbiamo detto, che la temporale, e perciò, quandoci sia stata fatta una sufficiente manifestazione della volontà di Dio,anteporremo a tutti gli altri gli uffici di essa e principalmente quello checontiene l’idea perfetta e piena della carità spirituale, cioè la curapastorale delle anime. Che anzi, poiché tale cura delle anime è il piùgrande di tutti gli uffici di carità o piuttosto il complesso e l’esercizio ditutta la carità, essa si deve anche ritenere come la completa perfezione epienezza di questo Istituto”107. Inoltre, nella parte relativa alla direzionedella carità spirituale, osservava: “Tutte le opere di carità cheriguardano la pietà verso Dio e la salvezza delle anime debbono esseredirette con cura loro propria dai Prepositi dell’Istituto; tanto più, poi, daquei Prepositi che avessero assunto la cura pastorale. Questi, appunto,siano molto vigilanti per imitare Cristo, il quale trattava in mododiverso col popolo, con i suoi Apostoli, e coi Discepoli; e pasceva gli unie gli altri: affinché si faccia quella mirabile congiunzione della vitapastorale e della vita religiosa, che, ad esempio del nostro Signore, edella Chiesa primitiva, tanti Padri e tanti Concilii della Chiesa tantevolte sì ardentemente si sforzarono di attuare o, decaduta, restaurare,specialmente dopo S. Eusebio, s. Agostino e S. Gregorio Magno e che,

106 Cost n. 746 (p. 639).107 Cost n. 605 (p. 505). Rosmini inoltre stabiliva: “Appena uno dell’Istituto è entratonella cura parrocchiale, visiti per ordine i singoli parrocchiani e cerchi di conoscerlianche personalmente, poiché in ciascuna delle sue pecorelle un gran tesoro fu senzadubbio affidato alla sua fedeltà da Gesù, principe dei pastori. E già in questa primavisita può gettare quei semi che poi coltiverà più diligentemente nelle sue pecorelle,secondo i bisogni di ciascuna, con pastorale libertà, s’intende, e con quella immensa etraboccante carità di Cristo, facendosi tutto a tutti” (Cost n. 792: p. 673). E ancora: “Devestimarsi ed essere vero amico di tutti, e aiutare di cuore ciascuno. Visiterà più e più voltead una ad una le sue pecorelle, non mai oziosamente o per cerimonia o per mondanoonore, ma per le necessità spirituali o temporali, senza preferenze; affinché nessunapecorella gli riesca nuova, mentre è vecchia, né egli riesca nuovo e sconosciuto, quantoad amore e benefici, alla sua pecorella” (Cost n. 793: p. 673).

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nei suoi intenti desidera ardentemente rinnovare tutto questoIstituto”108.

Tale “mirabile congiunzione della vita pastorale e della vitareligiosa” rappresentava uno dei tratti fondamentali e più caratteristicidel disegno fondativo di Rosmini. E tuttavia era pure ciò che loallontanava dalla Canossa. In una lettera del 24 gennaio 1826 allamarchesa, il roveretano osservava: “La prego oltracciò d’avvertire chenon tutti gli uomini santi hanno riputato la Religione incompatibile colpastoral ministero: anzi a congiungerli insieme mirò S. Agostino, S.Eusebio, e nel cinquecento S. Carlo coi suoi Oblati: e all’opera di questitre santi e loro imitatori è dovuta la riforma in varii tempi avvenuta delclero, che è quanto dire della chiesa di Dio”109. L’esempio di S. Carlo,dunque, era esplicitamente citato: il modello borromaico si inserivapienamente tra le principali fonti di ispirazione del Rosmini fondatorereligioso.

5. Una lezione non dimenticata

La lezione rosminiana, col suo richiamo allo spirito d’intelligenza econ la sua accentuazione della carità intellettuale, non rimase inascoltatanell’ambiente milanese. Due nomi si possono ricordare, l’unocontemporaneo e amico del roveretano, l’altro nato trent’anni dopo lasua morte: Gabrio Piola e Tommaso Gallarati Scotti.

Gabrio Piola, maggiore di Rosmini di tre anni (era nato a Milano nel1794) fu uno dei più intimi del roveretano al tempo del suo soggiornomilanese. Era matematico ed astronomo: si interessava di analisi e difisica matematica, ma pure di filosofia della matematica110. Autore dinumerose pubblicazioni, Piola fu direttore dell’Osservatorio di Brera etenne lezioni, in forma privata, ad un cenacolo di studiosi del quale

108 Cost n. 790 (p. 673).109 EC, II, pp. 127-128.110 Di Gabrio Piola si vedano almeno: Lettere di Evasio ad Uranio intorno alle scienzematematiche, Modena 1825; Elogio di Bonaventura Cavalieri, recitato …alla occasione del SestoCongresso Scientifico Italiano, Milano 1844. Cfr. A. Masotti, In memoria di Gabrio Piola. Nelcentenario della morte, Milano 1950 (estr. da “Rendiconti – Classe di Scienze” dell’IstitutoLombardo di Scienze e Lettere).

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facevano parte pure Francesco Brioschi e Paolo Belgioioso. Rosmini ebbecon lui discussioni di argomento filosofico e anche, talvolta, matematico.

Piola assorbì la lezione rosminiana e fu influenzato dalla spiritualità edall’ascetica del roveretano. Fu così un testimone della caritàintellettuale in senso rosminiano: per trent’anni educò cristianamente,nell’oratorio della parrocchia di S. Vittore, ragazzi di estrazionepopolare.

Tommaso Gallarati Scotti, una delle più importanti figure della vitaculturale e civile del Novecento milanese, rappresentò quasi, com’ènoto, un collegamento ideale tra il cattolicesimo liberale ottocentesco e ilmovimento di rinnovamento spirituale della stagione modernistica:probabilmente proprio l’eredità intellettuale cattolico liberale costituìper lui un freno nello spingersi verso le posizioni più estreme e radicalidel modernismo. Nel 1906, quando già si abbattevano sui modernisti leprime censure ecclesiastiche, in una famosa lettera aperta a don RomoloMurri, Gallarati Scotti indicava “un veleno sottile che si infiltra oggi nelcattolicesimo sotto la specie del più rigido ossequio dogmatico e che sirisolve in una incosciente ipocrisia di cui i primi a essere ingannati sonoprecisamente le autorità ecclesiastiche”. Tale indirizzo negativo, a suoavviso, praticamente “viene ad affermare che il clero è una casta divisaaffatto dalla società contemporanea, che la religione è un mondo chiusoin una sua sfera lontana dall’azione pratica, che la teologia è una scienzaocculta, che nessuna assimilazione è possibile tra il pensiero scientifico eil pensiero metafisico”. Si trattava insomma di una apologetica astratta eimmobile, distaccata dalla storia, lontana dagli uomini reali, chiusa inun impenetrabile autoritarismo. E osservava: “Presso altri popoli ognieccesso di autorità provoca una reazione visibile. Da noi no; genera unallontanamento dal cristianesimo interiore: l’indifferenza,accompagnata da un abbassamento del livello intellettuale dei cattolicipraticanti che li mette in una posizione di inferiorità rispetto agli spiritiliberi e prepara poi un urto violento e inevitabile tra il mondo civile cheprogredisce senza un attimo di requie e il mondo religioso che si arrestadi un tratto”111.

111 T. Gallarati Scotti, La nostra crisi. Lettera aperta a D. Romolo Murri, in “Cultura sociale”,fasc. 6 luglio 1906.

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A fronte di questa situazione, secondo Gallarati Scotti, la via dapercorrere non doveva essere quella della ribellione o di un’opposizionecollettiva alla gerarchia ecclesiastica. Egli invece indicava a Murri la via,silenziosa e raccolta, di una preparazione interiore e della caritàintellettuale, in attesa di un futuro più favorevole alle loro istanze dirinnovamento. Scriveva: “Prepariamo le anime. Domani di fronteall’inevitabile attacco di tutte le forze anti-cristiane, ai primi assaltipoderosi di una irreligiosità non più retorica e piazzaiola, ma cosciente,sistematica e forse anche serena, avranno bisogno di noi perché solo ilpericolo fa dileguare le prevenzioni ingiuste e dà una precisavalutazione degli uomini e delle loro intenzioni. Ci chiameranno comeinterpreti tra la coscienza religiosa e le aspirazioni incomprese di tuttiquelli che non capiscono più il linguaggio teologico; riconosceranno chesiamo anche noi dei cattolici e forse giungeranno fino ad ammettere chese si vuole essere capiti e far capire una verità bisogna pur rassegnarsi aparlare una lingua viva come la parlava Gesù e non una lingua mortacome la parla la maggior parte dei suoi seguaci. Intanto lavoriamodentro di noi”112.

Ritornava allora la lezione rosminiana sulla carità intellettuale:tematica presente anche in Semeria ma che acquistava una sua centralitàsoprattutto in cenacoli milanesi – attivi tra Otto e Novecento – comequello dei barnabiti di S. Alessandro, animato dal p. Gazzola, o comequello degli amici del Fogazzaro113. Legato ad entrambi, Gallarati Scottiosservava: “E lavoriamo intorno a noi. Perché nessun pontefice potrebbeimpedirci di continuare nell’opera di carità intellettuale che la nostracoscienza ci impone. Noi, accusati di intellettualismo e di modernismo,possiamo meglio assai dei nostri giudici avvicinare con serenità, daanima a anima quelle forme del dolore umano alle quali più siamo 112 Ibid.113 Cfr. N. Raponi, Appunti sulla cultura cattolico-liberale milanese tra Ottocento e Novecento,in “Quaderni milanesi. Studi e fonti di storia lombarda”, a. I, n. 2, pp. 5-18; Id., FrancescoVan Ortroy e la cultura cattolica italiana fra Ottocento e Novecento, Brescia 1965; id., TommasoGallarati Scotti. Appunti per una biografia, in Aa. Vv., Tre cattolici liberali, a cura di A.Pellegrini, Milano 1972, pp. 61-120; C. Marcora, Documenti su padre Gazzola, Bologna1970; E. Passerin d’Entrèves, Appunti sul riformismo religioso e culturale di p. GiovanniSemeria, in Aa. Vv., Modernismo, fascismo, comunismo. Aspetti e figure della cultura e dellapolitica dei cattolici nel ‘900, a cura di G. Rossini, Bologna 1972, pp. 153-172.

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vicini per nostre penose esperienze e che meno sono capite da chi fueducato in una troppo rigida distinzione astratta tra la verità e l’errore.Coloro che considerano il mondo del pensiero come una costruzionearchitettonica compiuta perfettamente e immobile, nella quale la veritàfilosofica e il bene morale devono coincidere, non potranno maistendere la mano con simpatia a tutta quella turba, non nel cuore manell’intelletto nemica, nella quale passano tuttavia a dispetto dei teologi– come passa il vento in una selva – brividi di Spirito Santo”114.

L’eredità rosminiana, serena ed armonicamente equilibrata, andavacosì svolgendosi, sotto l’influenza di autori come Laberthonnière, vonHügel, Tyrrel, Semeria e lo stesso Fogazzaro115, in una prospettiva piùmossa e drammatica e necessariamente meno equilibrata: dalla caritàintellettuale l’accento si spostava sul dolore intellettuale, quasi sipotrebbe dire sulle cinque piaghe del pensiero moderno. Gallarati Scottiinfatti concludeva:

Molti preti e molte pie donne cureranno le piaghe dei corpi. Io ne conosco che sichinerebbero sui lebbrosi con sereno sacrificio della loro vita. Ma so anche peresperienza che ad alcune anime smarrite nel dubbio e in lotta col loro pensieroquesti stessi eroi della carità non saprebbero dire che credete quando il credere èappunto per esse il martirio e a chi anela a una fede comanderebbero in nomedella ragione di entrare nella Chiesa quando è la ragione che ne le allontana.Quelli stessi che si commuovono sopra un corpo che sanguina sono duri perun’anima che soffre. Perché la carità è in senso elevatissimo una simpatia, esimpatia non ci può essere senza l’esperienza di uno stesso dolore. Ora il doloreintellettuale è poco sentito nella Chiesa, anzi è disprezzato se non conduce subitoalla conversione, perché manca nella maggior parte degli ecclesiastici e dei laicipiii, un po’ di quella crocifissione del pensiero, come la chiama un mio grandeamico di oltre alpe, che rende l’anima più comprensiva e più delicatanell’amare116.

114 Gallarati Scotti, La nostra crisi, cit.115 Ibid. Cfr. anche Id., La vita di Antonio Fogazzaro, Milano 1982, pp. 291-92, 295, 405. SuGallarati Scotti cfr. almeno: N. Raponi, Tommaso Gallarati Scotti tra politica e cultura,Milano 1971; Aa. Vv., Rinnovamento religioso e impegno civile in Tommaso Gallarati Scotti, acura di F. De Giorgi e N. Raponi, Milano 1994.116 Gallarati Scotti, La nostra crisi, cit.

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Si giungeva dunque a una pagina nuova e diversa della storiaculturale milanese e, si potrebbe aggiungere, della storia della carità. Matuttavia la lezione rosminiana sulla carità intellettuale e l’ereditàprofonda della spiritualità del roveretano non erano smarrite e disperse.Innestate a nuove correnti di pensiero, immesse in alvei nuovi di vita difede, rifluidificate in ideali diversi di rinnovamento spirituale edecclesiale, quella lezione e quell’eredità venivano riplasmate,trasformate, forse rese irriconoscibili a un’analisi superficiale e rapida,ma tuttavia non tradite e comunque sempre amate.

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CAPITOLO V

ROSMINI E L’EREDITÀ CAPPUCCINA:EDUCAZIONE E AUTORIFORMA DELLA CHIESA

1. I mali della Chiesa come “piaghe” della Chiesa

Nel preambolo introduttivo all’operetta Delle Cinque Piaghe della SantaChiesa, scritta tra il 1832 e il 1833 ma pubblicata nel 1848, AntonioRosmini affrontava la questione della liceità di una riflessione sui maliecclesiali svolta da un battezzato che non fosse investito del ministeropastorale. Scriveva dunque:

A questa questione io mi rispondevo, che il meditare sui mali della Chiesa, anchea un laico non potea essere riprovevole, ove a ciò fare sia mosso dal vivo zelo delbene di essa, e della gloria di Dio; parevami, esaminando me stesso, per quantouomo si può assicurare di sé, che non d’altro fonte procedessero tutte le miemeditazioni. Rispondevami ancora, che se nulla v’avea di buono in essemeditazioni, non era cagion di celarlo; e se qualche cosa v’avea di non buono, ciòsarebbe stato rigettato dai Pastori della Chiesa: che io non pronunciavo conintenzione di decidere cosa alcuna, ma che intendevo anzi esponendo i mieipensieri, di sottometterli ai Pastori stessi, e principalmente al Sommo Pontefice, icui venerati oracoli mi saranno sempre norma diritta e sicura, alla qualeragguagliare e correggere ogni mia opinione: che i Pastori della Chiesa, da moltinegozi occupati e aggravati, non hanno sempre tutto il comodo di dedicarsi atranquille meditazioni; e che essi stessi sogliono desiderare, che altri venga loroproponendo e suggerendo quelle riflessioni, che potessero giovar loro nelgoverno delle loro Chiese particolari e della universale: e finalmente mi sipresentavano innanzi agli occhi gli esempi di tanti santi uomini che in ognisecolo fiorirono nella Chiesa, i quali, senza esser Vescovi, come un san Girolamo,un san Bernardo, una santa Caterina ed altri, parlarono però e scrissero conmirabile libertà e schiettezza dei mali che affliggevano la Chiesa nei loro tempi, edella necessità e del modo di ristorarnela. Non già che io mi paragonassi pur da

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lontano a quei grandi, ma io pensai, che il loro esempio dimostrava non esser persé riprovevole l’investigare, e il chiamar l’attenzione dei Superiori della Chiesasopra ciò che travaglia ed affatica la Sposa di Gesù Cristo.

Più avanti Rosmini osservava ancora:

Per altra parte, pareami che non mi dovesse trattenere dallo scrivere, la noia cheio potessi recare a persone piuttosto di buone intenzioni, che di ampie vedute,avendo ragion ferma di credere che non fosse per dispiacere il mio scritto allaSanta Sede, al cui giudizio intendo sempre di sottomettere ogni cosa mia; giacchéil pensare della Santa Sede io l’ho sempre conosciuto per nobile, dignitoso, esommamente consentaneo alla verità ed alla giustizia, <e le sue decisionidogmatiche inerrabili>. Ora io non chiamavo un abuso se non ciò che i sommiPontefici hanno riconosciuto per tale, e come tale corretto <, abuso però che fuesagerato dagli eretici e dai maligni, onde io stesso ho in parte giustificate quelleriserve (v. n. 71)>. Ricorrevami alla mente, fra l’altre cose, quella insigneCongregazione di Cardinali, Vescovi e Religiosi, a cui Paolo III, l’anno 1538,commise, sotto giuramento, di dover cercare, e manifestare liberamente a SuaSantità tutti gli abusi e le deviazioni dalla retta via, introdottisi nella stessa corteromana. Non potevano darsi persone più rispettabili di quelle che lacomponevano: perocché entravano in essa quattro dei più insigni Cardinali, cioèil Contarini, il Caraffa, il Sadoleto e il Polo; tre dei più dotti Vescovi, cioè FedericoFregoso di Salerno, Girolamo Alessandro di Brindisi, Giovammatteo Giberti diVerona; con questi si accompagnavano il Cortesi abate di S. Giorgio di Venezia, eil Badia maestro del sacro Palazzo, che furono poscia ambedue Cardinali. Oraquesti uomini sommi, per dottrina, per prudenza e per integrità, i cui nomivalgono più di qualsivoglia elogio, adempirono fedelmente la commissione dalPontefice ricevuta, e non omisero punto di segnalare al santo Padre in fra isommi abusi quello delle grazie espettative e delle riserve, e tutto ciò che ci cadeadi difettoso nella collazione dei benefizi1.

Rosmini dunque, ben consapevole dei precedenti storici ‘positivi’(ma anche di quelli ‘negativi’2), sviluppava il suo discorso svolgendolo

1 A. Rosmini, Delle cinque Piaghe della Santa Chiesa, a cura di A. Valle, Roma 1981, pp. 15-18.2 Scriveva infatti: “Consideravo che tutti quelli i quali hanno scritto di somigliantimaterie nei tempi nostri, e che si sono proposto e hanno dichiarato di voler tenere unastrada media fra i due estremi, in luogo di piacere alle due potestà, della Chiesa e delloStato, sono dispiaciuti egualmente all’una ed all’altra: il che mi provava la sommadifficoltà che hanno tali materie ad essere trattate con soddisfazione universale; e quindi

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secondo un particolare registro espressivo, con una evidente passioneecclesiale e con un forte richiamo ascetico-spirituale. Tutto siricapitolava nel modulo simbolico, cristologico-ecclesiologico, delle“cinque piaghe”: non semplice metafora devota o estrinseca figuraretorica, ma luogo-tipo sia di una specifica linea spirituale sia di unaprecisa tradizione di predicazione sacra. L’opera rosminiana sirivolgeva, in prima istanza, al papa e ai vescovi e dunque dovevaguardare – se non unicamente certo prioritariamente – ai modelli dellapredicazione al papa e ai vescovi: le prediche dette nel PalazzoApostolico, i quaresimali predicati al papa, ai cardinali, ai prelatiromani. Rosmini evidentemente non citava i predicatori ma, come ipredicatori, analizzava con coraggiosa libertà evangelica i mali dellaChiesa, come i predicatori apostolici citava la Scrittura e i Padri, nonchél’esempio e l’insegnamento di molti papi e di molti vescovi, come ipredicatori richiamava S. Bernardo. Inoltre, ipotizzando il vicinoavvento di una nuova “epoca di marcia” per la Chiesa, Rosminiguardava soprattutto alla riforma gregoriana e alla riforma tridentina e,in riferimento alla seconda, non gli sfuggiva il lungo processo diapplicazione. Egli peraltro conosceva bene, per la assiduafrequentazione giovanile delle opere di Muratori, la cosiddetta “ripresatridentina”3 che animò i pontificati di Innocenzo XI e di Innocenzo XII.Parlando di tali pontificati, Muratori, nei suoi Annali d’Italia, apprezzaval’opera dei cappuccini. Ma anche Rosmini, sia per l’intenso e

predicevo a me stesso, che, in luogo di giovare, non avrei forse, in iscrivendo le dettemie meditazioni, se non urtato ed offeso contro a tutte e due le potestà” (ibid., p. 16).3 Sulla cosiddetta “ripresa” tridentina si vedano almeno le interessanti osservazioni (egli ulteriori rimandi bibliografici) in A. Turchini, Tradizione borromaica, istituzioniecclesiastiche, indirizzi pastorali nel Settecento milanese, in A. Acerbi – M. Marcocchi (a curadi), Ricerche sulla Chiesa di Milano nel Settecento, Milano 1988, pp. 9-15 (dell’estratto). Cfr.inoltre B. Neveu, Episcopus et Princeps Urbis: Innocent XI. Réformateur de Rome d’après desdocuments inédits (1676-89), in E. Gatz (a cura di), Römische Kurie, Kirchliche Finanzen,Vatikanisches Archiv. Studien zu Ehren von Hermann Hoberg, Roma 1979, vol. II; B. Neveu,Culture religieuse et aspiration réformistes à la Cour d’Innocent XI, in Accademie e cultura.Aspetti storici tra Sei e Settecento, Firenze 1979, pp. 1-38; B. Pellegrino (a cura di), Riforme,religione e politica durante il pontificato di Innocenzo XII (1691-1700), Galatina 1994; M.Piccialuti, La carità come metodo di governo. Istituzioni caritative a Roma dal pontificato diInnocenzo XII a quello di Benedetto XIV, Torino 1994.

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significativo rapporto con i cappuccini di Rovereto sia per l’amicizia conManzoni (che conosceva bene le vicende storiche dell’Ordine e forsecomunicò al Roveretano indicazioni di fonti presenti negli archivi enelle biblioteche milanesi4), era portato a riconsiderare l’esperienzacappuccina e a valorizzarne la spiritualità, peraltro molto vicina allasua5.

Orbene i due grandi Predicatori Apostolici cappuccini del periododella “ripresa tridentina” furono Bonaventura Massari da Recanati eFrancesco Maria Casini da Arezzo, poi cardinale. Bonaventura daRecanati tenne al papa una predica sulle piaghe della Chiesa, collegandoproprio – come avrebbe fatto Rosmini – a ciascuna piaga del Corpomistico un problema ecclesiale (anche se considerava insieme sia lepiaghe delle mani sia quelle dei piedi: ma la piaga del costato, cioè ladivisione dei vescovi, è la stessa in Bonaventura e in Rosmini). Benché iltema delle piaghe della Chiesa sia abbastanza diffuso tra Sei eSettecento, tuttavia in questo periodo la predica di Bonaventura daRecanati è l’unico caso – di mia conoscenza – che stabilisca unparallelismo tra le cinque piaghe del corpo di Cristo crocifisso e alcunimali della Chiesa.

Le prediche di Bonaventura da Recanati furono edite dal suodiscepolo Francesco Maria Casini, il quale dovette peraltro intervenirepesantemente su note sparse e appunti disordinati. Casini fu anch’egliPredicatore Apostolico e in quasi tutte le sue prediche del martedì santo(sulla Passione del Signore) riprese il tema delle piaghe di Cristo e dellaChiesa, con una forza di denuncia più radicale di Bonaventura daRecanati: la Chiesa ricrocifiggeva Gesù e gli infliggeva nuove piaghe.Casini non utilizzò però, per quanto mi consta, lo schemabonaventuriano – che si direbbe più moderato – delle cinque piaghedella Chiesa. Forse non lo convinceva più l’uso della metafora sacra che

4 Si pensi in particolare ai Brani di Annali ed Indici e alla Selva Historiale delle cose piùmirabili ed insigni della Religione cappuccina in Archivio di Stato di Milano, Fondo diReligione, Parte antica, Conventi Cappuccini, Atti storici, Provincie, Milano, cartella6487. Tali documenti erano, con molta probabilità, conosciuti da Manzoni: cfr. G.Santarelli, I Cappuccini nel romanzo manzoniano, Milano 1970, pp. 21-22.5 Di questo aspetto, a mio avviso rilevante, mi sono occupato in F. De Giorgi, La scienzadel cuore. Spiritualità e cultura religiosa in Antonio Rosmini, Bologna 1995.

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era tipico dell’oratoria barocca, dalla quale Casini si voleva ormaiallontanare decisamente.

Anche le prediche di Casini furono pubblicate ed ebbero largafortuna: le citò pure a sua discolpa Pietro Giannone. Muratori in Dellacarità cristiana, un’opera lungamente studiata e chiosata dal giovaneRosmini, aveva lodato Clemente XI per aver disposto “che si desseroalla luce le nobilissime Prediche del celebre Card. Casini, già Predicatoredel Sacro Palazzo, ove con libertà tutta Apostolica nulla si dissimula diquel Vero, che serve, a correggere i non buoni, e a rendere i buonimigliori”6. Tuttavia nel primo Ottocento la fama del Casini era statacompromessa, almeno negli ambienti curiali e filopapali, dall’elogio chenel 1810 ne aveva fatto il card. Maury, il prelato ‘scandalosamente’prono a Napoleone. Maury aveva addirittura visto nelle prediche delCasini una insistita satira dei prelati di Roma.

Rosmini non citava mai nelle Cinque Piaghe né Bonaventura daRecanati né Francesco Maria Casini. Nella Risposta ad Agostino Theinerindicava come fonti dell’immagine delle cinque piaghe della Chiesa duepapi medievali, Gregorio VII e Innocenzo IV. Ma il 9 febbraio 1853, nellalettera a d. Pietro Bertetti che è forse la sua ultima parola sulle CinquePiaghe, dopo aver ricordato Innocenzo IV e Gregorio VII, aggiungeva – oforse si lasciava sfuggire – l’esempio “del celebre Predicatore ApostolicoCard. Casini, che davanti al Papa e Cardinali parlò della Chiesa piagatacome Cristo sulla croce”7. Quest’ultima testimonianza rosminiana,ancorché tarda, legittima un’attenzione ravvicinata all’opera di Casini(e, prima ancora, a quella di Bonaventura da Recanati), vista come fonte,se non certo privilegiata, tuttavia in qualche modo ‘strategica’, delleCinque Piaghe del Roveretano.

2. Bonaventura Massari da Recanati Predicatore Apostolico

Il primo cappuccino che divenne Predicatore Apostolico fu AnselmoMarzati da Monopoli nel 1594: in una predica del martedì della secondadomenica di quaresima egli ebbe a sottolineare come il rapporto tra 6 L. A. Muratori, Della carità cristiana in quanto essa è amore del prossimo, Bassano 1768, p.XXV. Ma cfr. anche Id., Dei pregi dell’eloquenza popolare, Napoli 1757, p. 11.7 A. Rosmini Serbati, Epistolario Completo, vol. XII, Casale Monferrato 1894, p. 17.

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prelati e sudditi potesse essere causa non solo di ordine ma anchetalvolta di disordine8. Introduceva cioè un esame critico sulla vitainterna della Chiesa moderna e sulle concrete modalità di esercizio dellaprelatura, non tacendone ciò che gli appariva un abuso.

Nella tradizione ascetica e spirituale cappuccina, peraltro, nonmancavano gli autori che, come Mattia da Salò, insistevano sui dolori diCristo o che, come Tommaso da Olera, si immergevano misticamentenelle piaghe di Cristo. Sia in Mattia da Salò sia in Tommaso da Olera,del resto, era centrale la meditazione sulla Passione e ricorrevafrequentemente l’immagine della Chiesa come Corpo mistico di Cristo9.Tuttavia chi coniugò per primo i mali della Chiesa (e della prelatura inparticolare) con l’immagine delle piaghe della Chiesa fu Bonaventura daRecanati, una figura di grande rilievo nella storia religiosa relativa aipontificati di Clemente X e di Innocenzo XI10.

Il padre Bonaventura, al secolo Carlo Tommaso Massari, era nato aRecanati, il 14 luglio 1614, da Battista e da Elena Ragazzuoli. Studiòpresso i gesuiti, fu allievo del p. Girolamo Santi e fu educato secondol’indirizzo formativo e spirituale della Compagnia di Gesù. Il suo amicoe biografo, il gesuita recanatese Diego Calcagni, scrive: “Nel tempo, chegiovanetto studiò Grammatica, e Humanità unì insieme sommaapplicazione alle lettere, ed alla divotione, sì con l’assistenza continuaalla Congregatione, come con la frequenza de’ Sacramenti dellaConfessione, e della Comunione”11.

8 Cfr. in generale Mauro da Leonessa, Il predicatore apostolico. Note storiche, Isola del Liri1929.9 Cfr. Metodio da Nembro, Quattrocento scrittori spirituali, Milano 1972; Giammaria daSpirano, Fra Tommaso da Olera, Bergamo 1958; Fernando da Riese, Fra Tommaso da Oleranel IV Centenario della nascita, Venezia-Mestre 1963.10 Cfr. L. von Pastor, Storia dei Papi dalla fine del Medioevo, vol. XIV, t. II, Roma 1932, pp.17 e 302. Ma si vedano ora anche C. Donati, La Chiesa di Roma tra antico regime e riformesettecentesche (1675-1760), in G. Chittolini – G. Miccoli (a cura di), Storia d’Italia, Annali 9,La Chiesa e il potere politico dal medioevo all’età contemporanea, Torino 1986, pp. 719-766; B.Neveu, Érudition et religion au XVIIe et XVIIIe siècles, Paris 1994, pp. 235-276.11 D. Calcagni, Vita del molto reverendo Padre F. Bonaventura da Recanati Definitore, Vicario,e Procuratore Generale dell’Ordine de’ Padri Cappuccini, Qualificatore del Sant’Offitio, ePredicatore de’ Sommi Pontefici Clemente X, e Innocenzo XI, Messina 1702, p. 2.

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La sorella, Maria Battista, era religiosa cappuccina. Probabilmenteper la sua influenza, il quindicenne Carlo Tommaso prese l’abito deicappuccini, il 24 marzo 1629, nel convento di Cingoli, assumendo ilnome di Bonaventura. Terminò il noviziato a Camerino, dove ebbemodo di farsi conoscere e apprezzare dal vescovo, Emilio Altieri, ilfuturo Clemente X. Fu ammesso alla professione solenne il 24 marzo1630 e fu destinato dai superiori allo studio della filosofia e dellateologia. Nel 1639 fu ordinato sacerdote e l’anno successivo, dichiaratoLettore di Filosofia e Teologia, cominciò un periodo di insegnamento aireligiosi del suo Ordine.

Per diciotto anni insegnò negli studi di Ascoli, Fano, Corinaldo,Fabriano, Fermo e Jesi: “Nella Filosofia seguì l’orme d’Aristotele, e diquelli Autori, che nel suo Ordine lo commentarono. […] Nella Teologiaunì sempre il sicuro della Fede col forte della ragione, e procurò diformare scolari, che gustassero più del sodo della Sacra Scrittura, de’Concilii, de’ Santi Padri, che dell’apparenza di nuove, e pellegrinespeculationi”. Il suo magistero riscosse subito un notevole successo: “Lesue dottrine, e negli scritti, e nelle spiegazioni, sembravano un fiumereale, che placidamente corre chiaro al pari, e profondo. Quindiavveniva, che i giovani studenti facevano a gara di rendersi scolari di sìraro maestro. Dal primo suo corso due de’ suoi scolari divenneroProvinciali, e due Definitori. Dal secondo n’uscì un Provinciale. Il terzonon poté compire, adoprato da’ suoi Superiori in cariche di maggiorrilievo. Non solo gli huomini più insigni del suo Ordine, che ‘lconobbero, e l’udirono dalla cattedra, l’hebbero in conto di gran Maestronelle facoltà speculative; ma ancor huomini riguardevoli d’altri Istitutihebbero alto concetto del suo sapere”12.

Intanto, nel 1640, Bonaventura aveva iniziato pure l’attività dipredicatore, per la quale mostrava una particolare inclinazione: “fudotato da Dio d’una felice memoria, d’un talento singolare nel dire;d’una voce argentina, e sonora; d’un gesto pieno di decoro, e d’un voltospirante maestà, e divotione”13. Nell’arco di trentatré anni viaggiò e

12 Ibid., pp. 10-11.13 Ibid., pp. 12-13. Calcagni così descriveva il cappuccino di Recanati: “Fu il PadreBonaventura di giusta statura, di faccia bianca, grave, ed allegra; di capello nero, chenella vecchiaia imbianchì, d’occhi vivaci, di naso alquanto aquilino, e di labbra decenti”

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predicò in molte contrade d’Italia (tra l’altro fu anche in Trentino, aRiva). In una nota di un suo collaboratore furono annotati i tempi e iluoghi della sua predicazione14:

1640. Muccia (diocesi di Camerino)1641. Monte Granaro (Marche)1642. Montalto (Marche: patria di Sisto V)1643. Monte dell’Olmo (Marche)1644. L’Avvento a Corinaldo; la Quaresima a Montecchio; la

Pentecoste a Cingoli (Marche)1645. La Quaresima a Roma (Madonna dei Monti)1646. Rocca Contrada (Marche)1647. Recanati1648. L’Avvento a Camerino e la Quaresima a Venezia (Chiesa

degli Incurabili)1649. L’Avvento a Rovigo e la Quaresima a Riva di Trento1650. L’Avvento ad Ancona e la Quaresima nella Cattedrale di

Brescia1651. L’Avvento a Fermo e la Quaresima nella Cattedrale di

Vicenza1652. L’Avvento a Orvieto e la Quaresima a Mantova1653. L’Avvento a Mantova e la Quaresima a Roma (Chiesa

nuova)1654. L’Avvento a Fano e la Quaresima nel Duomo di Milano1655. L’Avvento e la Pentecoste a Jesi; la Quaresima nella

Cattedrale di Pesaro1656. La Quaresima a Faenza e la Pentecoste a Tivoli1657. La Quaresima a Ferrara e la Pentecoste a Jesi1658. L’Avvento a Foligno e la Quaresima a Firenze (S. Lorenzo)1659. L’Avvento a Modena e la Quaresima a Roma (Chiesa nuova)1660. La Quaresima a Venezia (Chiesa di S. Marcola, detta S.

Marcuòla) e la Pentecoste a Viterbo1661. L’Avvento a Urbino e la Quaresima nella Cattedrale di

Ravenna1662. L’Avvento a Forlì e la Quaresima a Roma (Chiesa nuova)

(ibid., p. 36).14 Ibid., pp. 13-15.

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1663. La Quaresima nella Cattedrale di Lucca1664. La Quaresima a Roma (S. Maria Maggiore)1665. L’Avvento a Tivoli e la Quaresima a Roma (Chiesa nuova)1666. La Quaresima a Roma (S. Pietro)1667. La Quaresima a Roma (S. Maria Maggiore)1668. La Quaresima nella Cattedrale di Napoli1669. La Quaresima a Roma (Monasteri delle Barberine e di S.

Susanna)1670. La Quaresima a Roma (S. Maria Maggiore)1671. Non predicò perché impedito dal Capitolo Generale1672. La Quaresima nella Cattedrale di Siena1673. Diede inizio alle Prediche nel Palazzo Apostolico.Nel 1661 si recò a Roma al Capitolo generale del suo Ordine, come

Custode della Provincia delle Marche, e fu nominato da Alessandro VIIQualificatore del Sant’Officio. Da allora divenne una presenza di unacerta autorevole influenza nell’ambiente romano15, fu particolarmentevicino al card. Sforza Pallavicino, il noto autore della storia delTridentino, ammirato anche dal papa, e, tramite la mediazione deifilippini della Chiesa nuova, al generale della Compagnia di Gesù, il p.Giovanni Paolo Oliva. Nel 1673, su proposta del card. Paluzzo Altieri esu nomina di Clemente X, successe all’Oliva come Predicatorepontificio: ufficio che esercitò per sedici anni, fino al 1688. Nel 1676 fuconfessore del Conclave che elesse Innocenzo XI e vi predicò alla vigiliadella festa dell’Assunzione16.

15 Scriveva Calcagni: “In Roma, e dai Principi, e dai Cardinali, e da quanti SommiPontefici governarono in suo tempo la Chiesa Cattolica fu chiamato spesso a consulte dimaterie gravissime, ed i suoi pareri furono di molta stima, per la sincerità con la qualegli proponeva, e per le ragioni dottrinali, con le quali gli sosteneva” (ibid., p. 12)16 Calcagni riferiva: “Non lasciò otioso il suo talento nel dire, mentre era chiuso inConclave, conciosiache nella vigilia dell’Assuntione della Beata Vergine, fattaglieneistanza da molti di quei Porporati, fece una predica a tutto il sacro Collegio, sì adattata altempo, al luogo, alle circostanze presenti, e con sì gagliarda energia sulla presta elettionedel Pontefice da crearsi, che mossi quelli Elettori, nel giorno seguente, sarebbono venutiall’elettione, se vi fossero stati presenti quei Cardinali, de’ quali vi era avviso, che prestosarebbono giunti, ed entrati in Conclave. Fu sì celebre quella predica, che ancor oggi nerimane viva memoria. Non fu poca sua lode, né poca sua consolatione, che da quelConclave, ove egli era stato, e in cui tanto s’era impiegato a promuovere la gloria di Dio,

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Nel suo Ordine rivestì numerosi ed alti uffici. Fu Provinciale delleMarche (nel 1660) e Primo Custode delle Marche per l’elezione delGenerale (nel 1661). Fu poi Definitore Generale (nel 1661), per tre volteProcuratore Generale (nel 1667, nel 1671 e nel 1685) e per due VicarioGenerale (nel 1669 e nel 1684).

Nel 1688, affaticato e stanco, si ritirava nella quiete della meditazionee della preghiera: “Spendeva tutto il giorno in orare, e leggere libri santi,singolarmente l’opere di S. Agostino”17. L’8 dicembre 1689 fu peròcolpito da apoplessia e da allora la sua salute rimase minata, pur tra altie bassi. Munito dei conforti religiosi spirò il 7 marzo 1691.

Bonaventura da Recanati operò dunque in una Roma dove, daAlessandro VII ad Innocenzo XI, erano molto vivi gli indirizziantilassisti18, che egli certamente condivise (fin dal 1662 peraltro ilCapitolo generale dei cappuccini aveva condannato lassismo eprobabilismo). Non si dimentichi che anche Rosmini fu un avversariodel lassismo e, in alcuni suoi scritti, si rifece proprio alle condanne diAlessandro VII e di Innocenzo XI19. Dal carteggio diplomaticodell’agente fiorentino a Roma con la sua corte di Firenze, sappiamo,dunque, che “Lunedì mattina [1 dicembre 1682] il p. Recanati fece unabella predica sopra le doppiezze e simulazioni della corte di Roma, dovedisse bellissime cose, e fra l’altre che qua sempre vi sono due cuori, chenel medio tempo, che l’uno è con la bocca tutto affetto, l’altro machina leruine a quello con cui parla”20.

e gl’interessi della sua Chiesa, ne uscisse Sommo Pontefice il Cardinal BenedettoOdescalchi, la di cui memoria sarà sempre gloriosa ne’ Fasti Ecclesiastici. Era solito direa’ suoi amici, che in quel Conclave non mai hebbe altra mira se non di promuoverel’onor Divino, né d’altro godé, che di vedere riconosciuto il merito grande di sì virtuosoCardinale” (ibid., pp. 22-23).17 Ibid., p. 30.18 Cfr. M. Petrocchi, Il problema del lassismo nel secolo XVII, Roma 1953.19 Cfr. A. Rosmini, Il razionalismo teologico, a cura di G. Lorizio, Roma 1992, pp. 67-74.20 Cit. in P. Carlini, Francesco Maria Casini (1648-1719). Un restauratore dell’oratoria italiana,Roma 1969, p. 59. Cfr. anche A. C. P. Valery, Correspondance inédite de Mabillon et deMountfaucon avec l’Italie suivie des lettres inédites du P. Quesnel à Magliabechi, I, Paris 1846,p. 191; M. D’Angelo, Il cardinale Girolamo Casanate (1620-1700). Con appendice di lettereinedite, Roma 1923, p. 129.

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D’altra parte, quando scoppiò in Roma la ‘crisi quietista’, dopol’inchiesta del 1682 dell’oratoriano Francesco Marchese, p. Bonaventurafu nominato membro della Commissione chiamata ad esaminare ilcontenuto dottrinale del quietismo21. Egli doveva avere una posizionenon dissimile da quella dell’amico Giovanni Paolo Oliva, totalmenteestranea alla spiritualità quietista ma lontana dai furori epurativiantiquietisti che invece finirono per prevalere.

Amico ed estimatore di Bonaventura da Recanati fu pure TirsoGonzález de Santalla22, dal 1687 generale della Compagnia di Gesù, ilquale ricevette l’aperta opposizione del p. Segneri perché ne osteggiaval’indirizzo filoprobabilista (e Rosmini non avrebbe mancato di ricordaretale polemica quando avanzò le sue critiche al probabilismo e allo stessoSegneri). Peraltro González avrebbe mostrato pure un atteggiamentofavorevole verso Fénelon23.

Lo stile oratorio del cappuccino di Recanati sembrerebbe inserirsinegli indirizzi di reazione antibarocca dell’oratoria sacra. FrancescoFulvio Frugoni O.M., per esempio, affermava che il p. Bonaventuraannunziava “con entusiasmo prodigioso il Vangelo senza ciuffole, oinfrascature” e, allargando lo sguardo a tutto il suo Ordine, osservava:“I Buoni Cappuccini chiudean’entro un sacco bigio, e rattoppato ilfrumento vangelico […] pascean perciò i famelici di cibo sostanzioso,non di fogliame vano”24. Ma il problema critico è in realtà più

21 Cfr. P. Dudon, Le quiétisme espagnol. Michel Molinos (1628-1696), Paris 1921, pp. 156-158, 176. Cfr. M. Petrocchi, Il quietismo italiano nel Seicento, Roma 1948; R. Guarnieri, Ilquietismo in otto mss. chigiani. (Polemiche e condanne tra il 1681 e il 1703), in “Rivista distoria della Chiesa in Italia”, 5 (1951), pp. 381-412.22 Nella lettera del 29 settembre 1692, diretta al generale dei cappuccini p. Bernardino daArezzo, Tirso González, approvando la pubblicazione della biografia scritta da Calcagni,diceva che Bonaventura da Recanati era “un Huomo da me sommamente stimato, evenerato” (Calcagni, Vita, cit., prime pagine non numerate)23 Cfr. I. Vázquez, Tirso González, S.J., y Francisco Diaz de S. Buenaventura, O.F.M., frente aljansenismo belga a finales del siglo XVII, in “Augustiniana”, 13 (1963), pp. 307-341; G. DeLuca, Frammenti di una corrispondenza tra Fénelon e González (1698-1699), in “Rivista distoria della Chiesa in Italia”, 3 (1949), pp. 415-429.24 [F. F. Frugoni], Del cane di Diogene, opera Massima del p. F.F. Frugoni Minimo, Venezia1687-1689, vol. V, p. 601.

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complesso: lo stesso Frugoni, del resto, è stato considerato piuttosto “unvirtuoso del barocco”25.

Il cappuccino di Recanati si dovette formare su quelle norme oratorie,tipicamente secentiste, che furono successivamente sistematizzate dalsuo confratello Felice Brandimarte da Castelvetrano nella Sapientiaetubae scientia26 e che erano sostanzialmente ricavate dal concettismodelle Dicerie sacre del Marino27 e dalla tradizione di eleganza fiorita delgrande predicatore francescano Francesco Panigarola, al quale siricollegano “le iniziative linguistiche e stilistiche che formeranno lacaratteristica della prosa oratoria sacra del Seicento”28. Tali canonioratori erano vicini a quelli formulati nel 1654 dall’ex-gesuita EmanueleTesauro nel suo celebre Cannocchiale aristotelico29.

Nel primo Seicento metafore profane, riferimenti mitologici,artificiosità stilistiche e infiorettamenti erano largamente penetratinell’oratoria sacra: un esempio emblematico, giustamente divenutoclassico, era quello del cappuccino Emanuele Orchi da Como30. Ma nellaseconda metà del secolo si produsse, a partire da Roma, una reazione,più antisecentista che antibarocca. Vi influì probabilmente l’apertura aintellettuali e letterati, nel 1656, della biblioteca di Maria Cristina diSvezia. Ma determinante fu soprattutto l’azione del gesuita Giovanni

25 Si vedano le ormai classiche pagine di B. Croce, Storia dell’età barocca in Italia. Pensiero –poesia e letteratura – vita morale, Bari 19675, pp. 434-440.26 Felice Brandimarte da Castelvetrano, Sapientiae tubae scientia, idest Tractatus scholasticusde arte sacra concionandi, in quo ex distinctionibus omnia comprenduntur, quae sacris necessariaconcionatoribus dicendis, simul et componendis, Panormi 1667.27 G. B. Marino, Dicerie sacre, Torino 1614.28 G. Pozzi, Intorno alla predicazione del Panigarola, in Aa. Vv., Problemi di vita religiosa inItalia nel Cinquecento, Padova 1960, p. 319. Più in generale cfr. E. Raimondi, Letteraturabarocca. Studi sul Seicento italiano, Firenze 1961; E. Santini, L’eloquenza italiana dal ConcilioTridentino ai nostri giorni. Gli oratori sacri, Milano 1923; Id., Precisazioni e aggiunte sullasacra predicazione nel secolo XVII, Firenze 1961; A. Vecchi, Motivi seicenteschi di una teologiadella predicazione, in “Rivista Rosminiana”, 61 (1967), pp. 104-116.29 E. Tesauro, Il cannocchiale aristotelico o sia Idea dell’arguta et ingeniosa elocutione, che servea tutta l’arte oratoria, lapidaria et simbolica, esaminata coi principi del divino Aristotile, Torino1654.30 [E. Orchi], Prediche quaresimali del padre f. Emmanuele Orchi da Como predicatorecappuccino, Venezia 1650. Cfr. Giovanni [Pozzi] da Locarno, Saggio sullo stile dell’oratoriasacra nel Seicento esemplificata sul p. Emanuele Orchi, Roma 1954.

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Paolo Oliva, che, divenuto Predicatore Apostolico nel 1651, iniziò uninsistente martellamento contro gli abusi dei sacri oratori che miravanounicamente al successo, adulando il pubblico con svenevolezze profane,ambiguità vergognose e istrionismi ridicoli31. Nel 1658 la S.Congregazione dell’Indice colpì per la prima volta opere oratoriesecentiste (le prediche del francescano Salvatore Cadana).

Nel 1673, come si è visto, Bonaventura da Recanati succedetteall’amico Oliva nell’ufficio di Predicatore Apostolico. Il suo stile eradiverso ma anch’esso antisecentista, così da convincere gli stessi antichiammiratori dell’Oliva32. Guardava alla sostanza, avendo per norma laSacra Scrittura e i Padri, rifuggendo da mollezze esteriori, concettismi edefflorescenze verbali, con un marcato indirizzo rigoristico. Evitava ilpesante e ricorrente uso della metafora ‘profana’, ma non sfuggiva deltutto a un certo gusto, ancora barocco, per la metafora ‘sacra’33.

Nel 1678, peraltro, furono posti all’Indice i Panegirici sacri di p. FeliceBrandimarte, apparsi l’anno prima: fu certamente un duro colpo per icappuccini e dovette sicuramente avere una vasta eco nell’Ordine, per lagrande fama di predicatore e per l’autorità di cui il Brandimarte godeva.Ciò produsse o rafforzò un indirizzo di riforma all’interno dell’Ordine:dopo d’allora, infatti, “non troviamo più opere oratorie concettizzantidovute a Cappuccini”34.

31 Cfr. G. P. Oliva, Prediche dette nel palazzo apostolico, dedicate ad Alessandro VII, Roma1664.32 Scriveva il Calcagni: “Ne’ sedici anni, che continuò le prediche in Palazzo trattò conpari libertà, e zelo quelli argomenti, che stimò profittevoli, e proprii a sì nobile, e graveUditorio; perciò l’ascoltarono tutti, e ne’ suoi primi anni, e negli ultimi con ugualeammiratione, e plauso. La Regina Christina di Svezia, quella Fenice degl’ingegni, nelterminar i suoi discorsi il P. Oliva, parea volesse astenersi da quel luogo, che nella Sala,in cui ragiona il Predicatore, le haveano conceduto i Sommi Pontefici, ma udite le primeprediche piene di dottrina, d’eloquenza, di zelo, e di talento, tanto s’invaghì d’esse, chenon solo frequentemente v’assistè, ma le commendò con termini di singolareestimatione: né contenta di lodar a piena bocca i discorsi, il fece chiamar più volte al suoPalazzo, e vi trattò con lui con molta confidenza” (Calcagni, Vita…, cit., pp. 21-22).33 Non era del resto il solo, tra i cappuccini. Cfr. [Lorenzo Vannini da Lucca], Metaforesacre. Quaresimale del p. Lorenzo Vannini di Lucca… dedicato all’E.mo e Rev.mo Sig. Card.Principe Cybo, Firenze 1676.34 Giovanni da Locarno, Saggio sullo stile…, cit., p.16.

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Il 6 luglio 1680 Innocenzo XI emetteva l’ammonizione A pluribus checondannava le aberrazioni, le adulterazioni e i vani paradossi deipredicatori secentisti. Forse fu proprio per questo ormai chiaro e nettoindirizzo pontificio, che Bonaventura da Recanati volle vicino a sé comecollaboratore il più giovane confratello Francesco Maria Casini, il qualeproveniva dalla Toscana, una terra che, com’è noto, era rimasta immunedal secentismo spagnoleggiante. Il Casini aveva in realtà seguitoinizialmente le norme oratorie prevalenti, anche nel suo Ordine, earieggianti al secentismo: ma aveva poi decisamente mutato prospettivacosì da essere quasi un modello per la predicazione sacra secondo gliindirizzi della A pluribus.

Al Casini, che dal 1681 rimase accanto a Bonaventura fino alla finedell’ufficio di Predicatore Apostolico nel 1688, fu affidata la redazionescritta delle prediche bonaventuriane ai fini della pubblicazione.Bonaventura consegnò allora a Francesco Maria le sue disordinate carte:“L’humile religioso le consegnò subito con tale staccamento, come nonfossero suo parto. Interrogato dal Padre Revisore, se volesse egli porvi lamano per aggiustarle, con sublime humiltà rispose: A voi di quest’operaè stata data la cura, a voi rassegno ogni mio arbitrio”35. Casini si trovò adover lavorare su brogliacci, note, appunti sparsi, con molte lacune daintegrare per ricostruire un testo discorsivo. Secondo Calcagni, egliconosceva bene lo stile personale del Padre e perciò “nel togliere,nell’aggiungere e nel mutar” rimase strettamente fedele alla formapersonale originaria di Bonaventura. Tuttavia è indubbio chel’intervento di Casini dovette in realtà essere molto marcato36. SempreCalcagni racconta che, quando il lavoro di revisione era già in statoavanzato, Bonaventura da Recanati ebbe bisogno di rivedere una suapredica: “Confusissimo rimase il Padre Revisore a quella richiesta, non

35 Calcagni, Vita…, cit., p. 75.36 Scrive infatti Carlini: “Ma un esperto dello stile casiniano, leggendo le prediche del p.Massari, non potrà non riconoscere in esse la sua inconfondibile presenza. Il lororivestimento stilistico, anche se in misura sobria, è del Casini: il ritmo sostenuto el’andamento rapido del periodo, l’arricchimento espressivo, l’uso abbondante dei verbiforti e del superlativo, le sintesi storico-descrittive poggianti su participi assoluti sonoinconfutabili caratteristiche letterarie dell’oratore aretino” (Carlini, Francesco MariaCasini…, cit., p. 212).

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soffrendogli il cuore di riporre sotto l’occhio dell’autore quelle prediche,da lui ritoccate, ma pur convenne riportagliele”. Tuttavia i timori diCasini erano eccessivi, Bonaventura infatti doveva accettare lasistemazione che si stava dando ai testi, egli infatti “riandò molti fogli,v’avvertì le mutazioni, le correzioni, ed ogni altra cosa, e senza aprirbocca, le restituì”37.

Le prediche di p. Massari videro la luce, postume, nel 169338: edebbero una seconda edizione nel 1709 (da cui fu ricavata una traduzionelatina apparsa a Augsbourg nel 1736)39: il testo definitivo deve molto alCasini, ma conserva l’impronta originaria tanto nei contenuti quanto inalcuni aspetti formali come l’uso delle ‘metafore sacre’. Il Casini siadoperò pure perché il gesuita Calcagni, conterraneo e amico diBonaventura da Recanati, ne scrivesse la biografia, che infatti apparvenel 170240. Evidentemente Casini, ormai celebre, doveva ritenere l’operadi p. Bonaventura adeguata e ben confacente al clima spirituale edecclesiale dei primi anni del pontificato di Clemente XI.

3. L’ascetica di p. Bonaventura e l’immagine delle cinque piaghe dellaChiesa

L’intonazione spirituale delle prediche di Bonaventura da Recanati siesprime in un severo indirizzo ascetico, di grande concentrazionecontemplativa ma disponibile all’azione: una modulazione di

37 Calcagni, Vita…, cit., p. 76.38 Bonaventura di Recanati, Prediche dette nel Palazzo Apostolico, Venetia 1693 (due tomilegati in volume unico).39 Cfr. A. Teetaert, voce Bonaventure de Recanati, in Dictionnaire d’histoire et de géographieecclésiastiques, vol. IX, Paris 1937.40 Calcagni, nelle pagine introduttive della sua biografia (datate Messina, 3 giugno 1701),scriveva: “Fin da quando egli [Bonaventura da Recanati] lasciò di vivere, io diediprincipio a raccoglier le memorie delle sue Virtù, de’ suoi talenti, e de’ suoi governi. Midiede grand’impulso per proseguir quest’Opera il Reverendissimo Padre Generale ilPadre Fr. Bernardino d’Arezzo dalla Spagna, ove si trovava in visita di quelle Provincie,ed hora megl’ha replicati il Padre Fr. Francesco Maria d’Arezzo, degnissimo Successoredel nostro Padre Fr. Bonaventura nella Carica di Predicatore del Palazzo Apostolico adInnocenzo XII ed hora al Santissimo Pontefice Clemente XI, cui fu carissimo, mentrevisse il Padre Fr. Bonaventura” (Calcagni, Vita…, pagine introduttive non numerate).

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‘indifferenza’ e di abbandono che corrisponde perfettamente ai dueprincipi della rosminiana “regola di passività”. Rosmini aveva scritto:

Essendomi prefisso io indegnissimo sacerdote Antonio Rosmini-Serbati diseguire una regola di condotta consistente in due principii che sono i seguenti: 1.Di pensare seriamente ad emendare me stesso da’ miei enormissimi vizii e apurificare l’anima mia dall’iniquità di cui è aggravata sino dal nascere senzaandare in cerca d’altre occupazioni o imprendimenti a favore del prossimo,trovandomi nell’assoluta impotenza di fare da me stesso cosa alcuna in suovantaggio; 2. Di non rifiutare gli uffizi di carità verso il prossimo quando ladivina Provvidenza me li offerisse e presentasse, essendo Iddio potente diservirsi di chicchessia ed eziandio di me per le opere sue, e in tal caso diconservare una perfetta indifferenza a tutte le opere di carità facendo quella chemi è proposta con egual fervore come qualunque altra in quanto alla mia liberavolontà41.

Bonaventura da Recanati, da parte sua, aveva invitato ad unacondotta di vita che si restringeva

in due condizioni, ammirate oggi nella Maddalena, benché da pochi praticate.La prima: Sedere quieto, e consolato nel suo posto: Maria autem domi

sedebat.La seconda: Non muoversi punto, né pure col desiderio, se non invitato

dalla superna vocazione: Magister adest, et vocat te42.

Con lo spirito proprio della “ripresa tridentina”, il PredicatoreApostolico ammoniva, richiamando i lamenti di S. Bernardo, a una vitadi vera virtù, dunque ad una sincera adesione alla riforma introdotta dalConcilio di Trento, senza ipocrisie ed esteriorità farisaiche:

Più amaramente si querulava della mancanza della virtù Apostolica ne’ Cristianidel suo tempo San Bernardo. […]Ma noi che diremo? Che sia ritornata l’ora felice al secolo presente, dopo la santae general riforma introdotta dal Sacrosanto Concilio Tridentino […]? […] Un solotimore mi crucia, cioè, che il latte, che vediamo così bello nel di fuori, dentro nonsia buono, e sano, ma putrido, e pestilente. Quando ciò fosse, che Iddio nonvoglia, la Chiesa non sarebbe migliorata, ma più tosto al doppio peggiorata […]

41 A. Rosmini, Scritti autobiografici inediti, a cura di E. Castelli, Roma 1934, p. 297.42 Bonaventura di Recanati, Prediche…, cit., t. I, p. 164 [Predica XXVI].

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Chi sa, che la maggior parte dei concorrenti siano tratti a queste dimostrazioni dipietà esteriore dall’interna pietà, o pure dalla curiosità, e vanità, o dalla usanza?43

Già il riferimento al latte, mostra il gusto per la metafora: si trattatuttavia quasi sempre di metafore sacre, cioè di immagini scritturaliapplicate analogicamente – e per fini di ammonimento morale – alla vitadella Chiesa e, in particolare, della prelatura.

Se la Chiesa è un corpo mistico, i prelati, da una parte, necostituiscono le membra principali e segnatamente il volto e, dall’altra,devono essere i primi a provare i dolori inflitti a tale corpo. Affermava ilpredicatore cappuccino:

Con che ragione potrebbe chiamarsi o santa, o immacolata la Chiesa, quando lemembra principali di essa fussero infette di lebbra, o in altra guisa bruttamentemacchiate? […] S. Gregorio Nazianzeno, cognominato il Teologo, sostiene, chericeve la denominazione gloriosa di santa, e immacolata, singolarmente dallafaccia visibile […]. Qual’è la faccia visibile della Chiesa? La PrelaturaEcclesiastica, asserisce il Nazianzeno44.

E aggiungeva:

A tutti parla il Principe degli Apostoli: Vobis, ma singolarmente a’Prelati dellasua Chiesa, i quali come Cristi del Signore, debbon esser i primi a provare lepunture delle spine, le trafitture de’ chiodi, e l’apertura della lancia, adimitazione del Salvatore […].

Primo. Vi trapungono il capo con le spine; diffamando l’opere cattive.Secondo. Vi trafiggono in Croce co i chiodi; calunniando le buone.Terzo. E vi trapassano finalmente il costato con la lancia;

interpretando in sinistra parte le indifferenti45.

L’unione gerarchica tra tutti i prelati era invece simboleggiata dalle“ossa mistiche” di Cristo: le ossa che si rianimano della visione delprofeta Ezechiele divenivano dunque, quasi si potrebbe dire, loscheletro del corpo mistico, cioè della Chiesa. Affermava p.Bonaventura:

43 Ibid., t. II, pp. 238-239 [Predica XCIII].44 Ibid., t. I, p. 63 [Predica X].45 Ibid., t. I, p. 176 [Predica XXVIII. Nel Martedì della Settimana Santa].

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L’unione raccomandata, e comandata delle ossa mistiche di Cristo, dico de’Prelati della sua Chiesa, […], consiste nella mutua caritativa corrispondenza de’Prelati minori, che sono le ossa delle membra, co’ Prelati maggiori, che sono leossa del capo, e scambievolmente di questi con quelli.46

E osservava:

La carne, il Clero, e il popolo, quantunque offesa, e impiagata, se le ossa dellemembra insieme concatenate si mantengono intere, e unite alle ossa del capo, dacui ricevono il senso, e il moto; può con facilità curarsi, e tornar sana. Ma se sirompono, e si dividono le ossa, è disperato ogni rimedio47.

Il tema delle piaghe era ripreso in chiave apologetica, nell’analogiacon l’episodio di S. Tommaso che aveva smesso di essere increduloperché aveva visto e toccato le piaghe del corpo di Cristo risorto.Similmente, secondo Bonaventura da Recanati, eretici e infedeli sisarebbero convertiti se avessero visto e toccato le piaghe del corpomistico di Cristo, cioè della Chiesa:

Un’altra simile, ma più orrenda voce risuona da’ più riposti seni del Settentrionegelato nell’infedeltà contro il corpo mistico del Redentore Crocifisso, ch’è laChiesa Cattolica Apostolica Romana, Nisi videro, et tetigero; se non vedo, e nontocco i contrasegni evidenti delle operazioni conformi alla fede, che professa, nonla riconoscerò mai per vero, e vivo corpo di Cristo: Non credam. Che abbiamo a farnoi a tal richiesta? Trascurarla come importuna? O dispregiarla come empia?Siamo tenuti a rispondere, per conversione degli Eretici, e confermatione de’Cattolici, coll’esibitione ad esempio di Cristo […]I. Prima delle mani: Vide manus meas.II. E poi del costato, cioè delle opere: Affer manum tuam, et mitte in latus meum. Chetanto è dire, e delle opere sante, e della vera carità, che santifica le opere. […]San Gio[vanni] Grisostomo rifonde tutta la cagione degli errori, che ingombranole altre sette miserabili, nelle male operationi de’ Cristiani singolarmente de’Prelati, che deturpano la bellezza della Chiesa Cattolica […]

46 Ibid., t. I, p. 247 [Predica XXXIX. Nel Martedì della Settimana Maggiore].47 Ibid., p. 250.

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Oggi i Tommasi non riconoscono, e non confessano la Chiesa Romana per verocorpo mistico di Cristo; perché vedono le mani dorate, e non piagate, e il costatoaperto all’emulatione, ma chiuso alla dilettione48.

L’immagine delle piaghe di Cristo come piaghe del corpo misticoveniva ampiamente utilizzata da Bonaventura da Recanati nella PredicaXVIII. Nel Martedì della Settimana Santa. De Passione Domini. Si ha qui unvero, significativo antecedente delle Cinque Piaghe di Rosmini: non soloperché le piaghe del corpo mistico sono, come quelle del Crocifisso,appunto cinque (delle mani, dei piedi e del costato), ma anche perché ilPredicatore Apostolico collegava alle piaghe un problema ecclesiale esoprattutto perché la piaga del costato (la disunione dei pastori) è lastessa in Bonaventura e in Rosmini.

Il cappuccino esordiva, indicando preliminarmente, come suo solito,il tema e lo schema complessivo della predica, riassunto in tre punti:

[…] m’ingegnerò di mostrarvi l’atrocità delle piaghe più principali, non potendodi tutte per l’angustia del tempo, che [Cristo] riceve ogni giorno, in corpore suo,quod est Ecclesia, secondo il detto dell’Apostolo a’ Colossensi, cioè

Primo. Delle Mani.Secondo. De’ Piedi, eTerzo. Del Costato49.

Bonaventura cominciava dunque con le due piaghe delle mani:

Quali sono queste mani forti, e nervose? I Grandi, e i Potenti del secolo,risponderebbe l’istesso [S. Agostino], ordinati alla difesa, e protettione di tutto ‘lcorpo della Chiesa […]. All’ora s’inchiodano, quando restano immobili, peroperare a favor di quella: bruttamente s’insanguinano, quando in vece diproteggerla, e difenderla, la maltrattano, e feriscono50.

Sembrerebbe che il problema del potere temporale fosse visto comeinterno alla Chiesa, in quanto i Principi fanno parte del corpo mistico ene costituiscono le mani: la piaga consisterebbe nell’inoperosità dei

48 Ibid., t. II, pp. 67 e 72 [Predica LXVII. Nella Festa di S. Tommaso Apostolo].49 Ibid., t. I, p. 111 [Predica XVIII. Nel Martedì della Settimana Santa. De PassioneDomini].50 Ibid., pp. 111-112.

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Principi rispetto al bene della Chiesa (peccato, dunque, di omissione).Ma, dopo aver citato Baronio e Gregorio Magno, il cappuccino avanzavauna denuncia aperta e forte:

Che confusione è la nostra o sacri Pastori? Cristo in sù gli occhi nostri,barbaramente squarciato ne’ Principi, e da’ Principi: ne’ Principi, perché essimedesimi (così allora accadeva) gli autori de gli squarci, che in Cristodeploriamo, con le tiranniche violenze, che usano alla sua Chiesa; e noi nonsolamente non procuriamo il rimedio almeno con la voce sgridando i malfattori;ma con la nostra connivenza, e talvolta ciò, che cagiona orrore a solamenteridirlo, con una detestabilissima adulatione, per non perder la gratia, e il favorloro, o di più lodandoli, come Cavalieri generosi, e incapaci di timore, glianimiamo a rinovar ogni dì più gli squarci […]51.

Ecco allora che il peccato dei Principi diveniva peccato di violenzetiranniche sulla Chiesa (peccato, si direbbe, di regalismo) che tuttavia sirovesciava nel peccato dei Prelati supinamente proni al potere secolare.

Dopo le piaghe delle mani Bonaventura passava a considerare lepiaghe dei piedi:

Quali sono i piedi trafitti del Redentore? Se non le persone infime della plebe:Pauperes sunt pedes (dice S. Ambrogio) in quibus ambulat Christus. Si conficcanospietatamente in Croce, quando dalla Potenza mondana si affliggono, eopprimono, in modo, che non possono muoversi dalla miseria in che vivono.

Dopo aver ricordato la parabola del Buon Samaritano, Bonaventuracontinuava:

Tanto, e molto più accade ora (chi ‘l crederebbe, se la cotidiana isperienza non lodimostrasse) nella Chiesa Cattolica. I Sacerdoti, e i Leviti, vedendo, se purehanno lume di fede, l’Unigenito dell’Eterno Padre, assassinato ne’ suoi poveri daladroni famosi del secolo, spogliato nella roba, straciato ne’ Tribunali, marcitonelle carceri, ulcerato nella vita, e nell’onore, semivivo, agonizzante, spasimante;come se a loro non appartenesse, alzano il capo quasi dicendo: A me non tocca52.

51 Ibid., p. 113.52 Ibid., pp. 114-115.

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Dunque anche le piaghe dei piedi erano peccati dei Prelati, anche serelativi all’omissione di soccorso rispetto ai soprusi sul popoloperpetrati “dalla Potenza mondana”.

Infine Bonaventura da Recanati affrontava, con passione e vigore, lapiaga del costato:

La piaga del costato aperto dalla lancia del Longino, di cui mi resta di ragionare,benché più profonda, e patente delle altre; non cagionò però dolore al patienteGiesù, essendo già privo di vita, e conseguentemente di senso. Ma quella, chericeve nel suo corpo mistico, tanto è più dolorosa, quanto il membro ferito, cioè ilcuore è più nobile, delicato e sensitivo. Qual è il cuore mistico di Cristo? L’ordineLevitico, risponde S. Cirillo Alessandrino sopra quelle parole d’Isaia: Omne cormoerens, formato nella Chiesa, come cuore, per influire spiriti di vitasopranaturale in tutte le membra […]. Questo Divino cuore non può esserpenetrato, e diviso, se non dalla ria lancia della discordia, qualora trionfando delClero, il dividesse in diversi pareri, e voleri, distratti da diversi fini, e interessiprivati […].Intestina, et insanabilis est plaga Ecclesiae (così S. Bernardo) […]. Ben dice il S.Abbate, insanabilis est plaga Ecclesiae; peroche non è nelle mani, e ne’ piedisolamente, ma nel cuore, che non ha rimedio […]. Scissura di cuore, e morte ditutto il corpo, vanno sempre insieme. Quando il cuore della Chiesa è unito;quando i Prelati di quella vanno ben ristretti in vinculo pacis, et sunt cor unum, etanima una, con la dovuta subordinazione de’ minori a’ maggiori, e di questi alSupremo, tutti rivolti ad un solo fine della gloria di Dio, formano quellosquadrone ben ordinato della Cantica, terribile alle potestà della terra, edell’inferno […]. Ma quando il cuore fosse diviso: quando i Prelati si dividesseroin varie fattioni, intento ciascheduno a’ suoi oggetti particolari,rappresenterebbono una moltitudine confusa, e dissipata, esposta alle stragi degli avversari53.

Il volume che raccoglie le prediche dette da Bonaventura nel PalazzoApostolico non indica le date e dunque mancano i riferimenticronologici che permetterebbero una più precisa contestualizzazionestorica. Non possiamo neppure assumere del resto che la sistemazionefinale dei testi, dovuta come si è detto a Francesco Maria Casini,ricostruisca una successione precisa tale da restituire un sicuro ordinecronologico. La Predica XVIII, che compare tra le prime, potrebbe allora

53 Ibid., pp. 116-117.

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essere stata pronunciata tra le ultime. Ciò che è certo è che le predichenel Palazzo Apostolico si tennero negli anni 1673-1688.

La sensibilità del cappuccino sembrerebbe molto vicina a quella delgruppo di cardinali che si formò agli inizi del pontificato di AlessandroVII e che fu detto – per la sua neutralità politica – lo “squadronevolante” dall’ambasciatore di Spagna: significativa in questo senso èl’espressione “squadrone ben ordinato” che, come si è visto,Bonaventura riferiva alla comunione gerarchica di tutti i pastori dellaChiesa, sotto la guida suprema del papa. Tale gruppo di cardinali – iquali nel XVIII secolo avrebbero assunto la denominazione di zelanti –aveva di mira unicamente gli interessi della fede e della Chiesa econsiderava funesta ogni ingerenza del potere secolare nelle materiereligiose ed ecclesiali.

Gli anni della predicazione apostolica di p. Massari coincisero, delresto, con il cosiddetto conflitto della regalia54 che vide di fronte LuigiXIV e Innocenzo XI. Sicuramente la Predica XVIII va vista in quelcontesto storico e in riferimento ai sottesi problemi ecclesiali. Si puòaddirittura supporre che essa sia stata pronunciata subito dopo lavotazione dei “quattro articoli”, da parte dell’assemblea straordinariadel clero francese, convocata da Luigi XIV. Tale votazione era avvenutail 19 marzo 1682 e la redazione della formula era stata di Bossuet55. Lostesso Bossuet, che aveva com’è noto una posizione moderata tendente asostenere il re ma evitando rotture con la Santa Sede, aveva apertoquell’assemblea del clero, il 1 novembre 1681, con il celebre Sermon surl’unité de l’Eglise. In quel sermone Bossuet aveva sostenuto che sisarebbe fatto un mostro del corpo umano e, per analogia, del corpo della

54 Cfr. L. Mention, Documents relatifs aux rapports du clergé avec la royauté de 1682 à 1705, 2voll., Paris 1893-1903; P. Blet, Innocent XI et l’Assemblée du clergé de France de 1682. Larédaction du bref “Paternae Charitati”, in “Archivum Historiae Pontificiae”, 7 (1969), pp.329-377; Id., Les Assemblées du Clergé et Louis XIV de 1670 à 1693, Roma 1972. Anche utili:J. Orcibal, Louis XIV contre Innocent XI: les appels au futur concile de 1688 et l’opinionfrançaise, Paris 1949; P. Blet, Le clergé de France et la monarchie. Étude sur les assemblées duclergé de 1615 à 1666, Roma 1959; B. Neveu, Sébastien-Joseph du Cambout de Pontchâteau(1634-1690) et ses missions à Rome d’après sa correspondance et des documents inédits, Paris1969.55 Cfr. A.-G. Martimort, Le gallicanisme de Bossuet, Paris 1953; B. Plongeron, Consciencereligieuse en révolution, Paris 1969.

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Chiesa se tutte le membra, cioè i fedeli, fossero state immediatamenteattaccate alla testa, cioè al papa. Con la metafora del corpo mistico dellaChiesa e delle sue cinque piaghe, Bonaventura avrebbe quindi risposto aBossuet: se il francese citava, a tal proposito, il De consideratione di S.Bernardo, il recanatese replicava con il sermone 33 sulla Cantica delmedesimo S. Bernardo.

Bonaventura da Recanati era comunque, a sua volta, un moderato,anche se fermamente ostile a ogni ingerenza regalistica (senza moltodistinguere tra regalia temporale e regalia spirituale, ma riferendosievidentemente soprattutto alla seconda). Egli conservava i toni non irosibensì conciliativi di Clemente IX e Clemente X. Tuttavia nel merito lasua posizione filopapale non doveva essere molto diversa da quella che,nel 1683, avrebbe espresso Tirso González nella Defensio cathedrae SanctiPetri56.

4. Francesco Maria Casini da Arezzo Predicatore Apostolico

Rispetto a quella di Bonaventura Massari da Recanati la figura delcappuccino, Predicatore Apostolico e cardinale, Francesco Maria Casinida Arezzo è molto più nota e studiata57. Solitamente lo si ricordainsieme al gesuita Segneri come rinnovatore dell’oratoria sacra in sensoantisecentista. Si è discusso in passato sulla dipendenza dell’unorispetto all’altro, ma si può ormai sostenere che si sia trattato di duepercorsi originali ed autonomi, seppur paralleli. Più precisamente seSegneri sviluppava e portava ad eccellenza la prospettiva dell’Oliva,Casini, per parte sua, conduceva a maturazione, in un sensoantibarocco, la linea oratoria di Bonaventura da Recanati.

Francesco Casini era nato, da nobili aretini, l’11 novembre 1648. Fuscolaro del sacerdote umanista Federico Nomi di Anghiari. Nel 1663vestì l’abito dei cappuccini, aggiungendo al nome di battesimo quello diMaria e iniziando il noviziato. Tra il 1665 e il 1671 studiò filosofia e

56 Tirso González avrebbe successivamente, come già si è detto, visto con favore leposizioni di Fénelon, il grande avversario di Bossuet nella questione del puro amore edella spiritualità di abbandono.57 Fondamentale è lo studio: Carlini, Francesco Maria Casini, cit. al quale si rimanda perulteriori indicazioni bibliografiche.

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teologia e fu allievo del p. Bernardino Catastini da Arezzo, nellostudentato di Lucca.

Nel 1672 fu ordinato sacerdote e nominato predicatore. Cominciò apredicare (nelle Marche) ma fu pure chiamato a insegnare filosofia aLucca. La sua predicazione si spostò in Toscana e, progressivamente, simodificò nello stile: gli elementi secentisti, accolti dai modelli prevalentidel tempo, furono espunti per una oratoria ‘toscanamente’ più sobria epiù solidamente fondata sulla Bibbia e sui Padri. Proprio per questo,quando il card. Innigo Caracciolo, vescovo di Napoli, volendo riformarel’oratoria sacra nella sua città infestata dal barocco, si rivolse aicappuccini della Toscana (terra letterariamente immune dal secentismo)per un predicatore quaresimale, i superiori inviarono Casini, nel 1678.

Passando da Roma, p. Francesco conobbe Bonaventura da Recanati efu un incontro decisivo. Il Predicatore Apostolico infatti apprezzò ilgiovane confratello: nel 1680 gli affidò la predicazione nella Chiesanuova e nel 1681 lo volle, come già si è visto, accanto a sé. Casini sistabilì dunque a Roma presso la curia generalizia e nel 1685 partecipò,come custode per la provincia toscana, al Capitolo generale che elesseBernardino Catastini definitore dell’Ordine.

Ma il card. Acciaioli, protettore dei cappuccini, era ostile allapresenza di toscani in Roma. Quando nel 1688 Bonaventura Massaririnunciò all’ufficio di procuratore generale, il papa lo sostituì con p.Francesco Oddi, legatissimo all’Acciaioli. Il Casini fu presto allontanatoe tornò in Toscana, dove fu guardiano del convento di Firenze e poisuperiore di quello di Siena. Nel 1691 tuttavia partecipò, come custodedella provincia toscana, al Capitolo generale. Il card. Acciaioli eraoccupato con il conclave e il Capitolo elesse generale Catastini58, il qualesubito nominò Casini suo consultore.

Negli anni che seguirono, dunque, p. Francesco Maria accompagnò ilPadre generale nella sua visita ai conventi cappuccini d’Europa59.

58 Cfr. Angelo Maria da Anghiari, Padre Bernardino Catastini d’Arezzo, Patrizio aretino,Grande di Spagna, Generale dei FF. MM. Cappuccini, Consultore delle SS. Congregazioni deiRiti e dell’Indice, morto in concetto di santo (1636-1718), Firenze 1935.59 Cfr. Philippus a Firenze, Itinera ministri generalis Bernardini ab Arezzo (1691-1698), I: PerHispaniam; II: Per Galliam; III: Per Flandriam et Germaniam; IV: Per Italiam, in lucem ediditMarianus D’Alatri, Romae 1973, 1968, 1970, 1971.

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Particolarmente delicata e difficile fu la visita alle Fiandre, per leagitazioni prodotte dalla polemica giansenista. Catastini, dopo essersicertamente consultato con Casini, adunò il capitolo della provinciafiandrica e, di sua autorità, nominò il ministro provinciale e duedefinitori. Inviò poi pure il p. Giovenale Ruffini da Nonsberg comecommissario generale per due anni (1695-1697). Il p. Giovenale,originario della Val di Non e appartenente alla provincia del Tirolo, eragià noto come scrittore spirituale, teologo e filosofo. Aveva sistemato ededito (con suoi interventi) il Fuoco d’amore, l’opera mistica di fraTommaso da Olera. Nel 1686 aveva poi pubblicato la sua operamaggiore, che conobbe diverse edizioni: Solis intelligentiae, cui nonsuccedit nox, lumen indeficiens ac inextinguibile, illuminans omnem hominemvenientem in hunc mundum: seu immediatum Christi crucifixi internummagisterium, quo veritas immutabilis omnes intus docet sine strepituverborum, per sanam doctrinam, a Veritate auditum non avertentem. Questolavoro sarebbe stato conosciuto e citato da Antonio Rosmini, il qualeavrebbe visto nelle dottrine del p. Giovenale dell’Anaunia quasiun’anticipazione delle proprie idee60.

Nel Capitolo generale del 1698 Casini non poté diventare generaledell’Ordine per le manovre a lui ostili ordite dal card. Acciaioli. TuttaviaCatastini e Casini riuscirono ad aggirare le ingerenze esterne facendoeleggere il milanese Giovan Pietro da Busto Arsizio. P. Francesco Mariadivenne procuratore generale.

Sempre nel 1698 il gesuita Pietro Valle rinunciò all’ufficio diPredicatore Apostolico: ufficialmente per motivi di salute, maprobabilmente perché le sue dure e focose invettive avevano suscitatoqualche malumore. Innocenzo XII chiamò dunque al suo postoFrancesco Maria Casini, l’antico discepolo del p. Bonaventura daRecanati e l’editore delle sue prediche dette nel Palazzo Apostolico. Ilcappuccino d’Arezzo, forse influenzato dalla recente censura alpredecessore gesuita, impostò le sue prime prediche su registriformativi di indicazione in positivo, lodando la virtù più checorreggendo il vizio. Intanto, l’anno seguente, egli rinunciò all’ufficio,divenuto troppo gravoso, di procuratore generale del suo Ordine. Dal 60 Cfr. R. Borzaga, Un precursore del Rosmini: Giovenale Ruffini, in “Rivista Rosminiana”,44 (1950), pp. 116-122; 45 (1951), pp. 113-124; 46 (1952), pp. 132-138, 169-178.

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novembre del 1699 egli inoltre assistette alla malattia del papa e gli fuvicino fino alla morte.

Il nuovo pontefice Clemente XI, riconfermando tutti gli uffici dellacorte papale, volle ancora il Casini come Predicatore Apostolico.Tuttavia si ebbe un significativo cambiamento: fin dalla prima predicadel primo Avvento del pontificato, il papa rimproverò Casini per averlodato il suo comportamento. Non dolcezze e gratificazioni si aspettavaClemente XI, ma franche denunce dei cattivi costumi e severiammonimenti. Casini modificò il tono della sua predicazione e assunseil timbro più consono alla tradizione rigoristica cappuccina, che divennedunque la caratteristica più tipica della sua oratoria, in sintonia con gliindirizzi pastorali papali. In qualche caso addirittura sfioròl’imprudenza: come nella quaresima del 1705 quando tuonò contro leambizioni personali dei prelati, in un momento in cui le vicine nuovenomine cardinalizie agitavano gli animi e muovevano a dissimulatimaneggi.

In quegli anni egli accostò persone di grande santità come il fratellolaico Crispino Fioretti da Viterbo o come il card. Giuseppe M. Tommasi.Fu partecipe dello sforzo di Clemente XI di riformare la vita religiosareprimendone gli abusi, in continuità con la linea di Innocenzo XII: p.Francesco Maria, infatti, partecipò alle riunioni, che si tenneronell’agosto 1702 nel convento dei cappuccini, dei consultori regolaridella Congregazione della Disciplina.

Nel 1712 Clemente XI elevò il Casini alla porpora cardinalizia sotto iltitolo della chiesa di S. Prisca. Fu ascritto alla Congregazione del S.Uffizio e si occupò, tra l’altro, dell’esame degli scritti di Maria d’Agreda.Nel pulpito del S. Palazzo gli successe Pellegrino da Negri, dellaCongregazione della Missione. Ma Casini predicò comunque, sudispensa papale, l’Avvento 1712: per la prima volta un cardinalepredicava al papa e al sacro Collegio. Alla fine di quest’ultimo ciclooratorio, il papa lo nominò Predicatore Apostolico Perpetuo. L’annoseguente furono pubblicate le sue 134 Prediche apostoliche, a cura diGiovanni Maria Crescimbeni, arciprete di S. Maria in Cosmedin ecustode generale dell’Arcadia.

Francesco Maria Casini visse gli ultimi anni assolvendo con scrupoloagli impegni derivanti dalla dignità cardinalizia, vivendo in grande

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povertà, spesso tormentato dalle malattie. Si spense il 14 febbraio 1719.La sua fama di oratore sacro fu ampia e duratura, specialmente nel suoOrdine: tra i cappuccini divenne quasi un ‘classico’ ammirato e imitato,eclissando il ricordo di altri grandi predicatori, fra i quali lo stesso suomaestro Bonaventura da Recanati. Al modello casiniano si ispiraronodunque molti degli oratori sacri cappuccini: basti ricordare AdeodatoTurchi61.

Nella sua predicazione, dunque, Francesco Maria Casini perseguì unideale di equilibrio che fuggiva gli eccessi, ma che era comunqueespressione di radicalità evangelica: tale ideale sembrerebbe analogo aquello che, più tardi, sarebbe stato di Antonio Rosmini.

Casini, dunque, era contrario al lassismo e al probabilismo, ma nonaccettava l’antigesuitismo, cioè l’ostilità preconcetta verso tutta laCompagnia di Gesù. Predicava esplicitamente contro il giansenismo ma,da cardinale, quando si trovò di fronte alla polemica relativaall’Unigenitus, consigliò al papa, continuamente, atteggiamenti dimoderazione e di longanime pazienza, prudentemente conciliativi, pernon esacerbare le divisioni: fu molto fermo in questo indirizzopacificatore, anche a costo di sospetti sul suo conto, peraltroevidentemente infondati. Egli era comunque vicino agli ‘zelanti’ ma inmodo indipendente, con sentimenti di mansuetudine e di mitezza.

La sua predicazione rifletteva pertanto questa conciliazione di rigoree di mansuetudine, di giustizia e di misericordia, di fortezza e di carità.Casini era comunque fermissimo nel perseguire la riforma della Chiesa,nello spirito del Tridentino, e nel correggere, in particolare, i vizi dellaprelatura con un indirizzo di austero rigore62. Le sue fonti sacre erano laBibbia e i Padri (in particolare S. Ambrogio, S. Agostino, S. Girolamo e S.Giovanni Crisostomo), ma sono soprattutto da sottolineare S. Bernardo eS. Pier Damiani, per la loro opera riformatrice63.

61 Cfr. Stanislao da Campagnola, Adeodato Turchi. Uomo, oratore, vescovo (1724-1803),Roma 1961.62 Cfr. Lorenzo da Fara, La spiritualità della prelatura ecclesiastica nelle opere del card.Francesco Casini (1648-1719), Padova 1960; Paolino da Cortona, La predica di un cappuccinosulla povertà degli ecclesiastici, in “L’Italia Francescana”, 41 (1966), pp. 8-16. Cfr. anche R.Bizzarri, Il cardinale Casini oratore, in “L’Italia Francescana”, 2 (1927), pp. 218-231.63 Scrive giustamente il Carlini: “Per la conoscenza del mondo ecclesiastico e religioso in

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Interessanti sono anche le sue fonti ‘profane’: risentendoprobabilmente della polemica antibarocca dell’Arcadia, Casini ebbe ingrande considerazione la cultura classica. Ma mentre, tra Sei eSettecento, nell’ambito dell’assolutismo europeo si diffuse il tacitismo ementre, sul piano dell’oratoria sacra, Segneri valorizzava lo stileciceroniano, Casini preferì il ricorso ai temi e allo stile di Seneca64, del

genere, per l’individuazione dei difetti, che possono impoverire, e delle virtù chedevono arricchire la vita dei componenti la gerarchia della Chiesa, per una analisipsicologicamente precisa e profonda del giuoco delle passioni in essi, gli scritti di s.Bernardo assunsero per il nostro oratore un’importanza preminente. Le sue lettere aivescovi, il libro De Consideratione sono creditori alla predicazione casiniana di uncontenuto spirituale vivissimo, che all’oratore permise di scandagliare e penetrare,spesso con spietata magia oratoria, nell’intimità dei sacri infulati e sconvolgere unaquiete spirituale e pastorale fraudolentemente ed egoisticamente giustificata. […] Con s.Bernardo (1090-1153), tra i teologi e riformatori, predilige s. Pier Damiani (1007-1072). Isuoi sermoni, le sue lettere e gli altri scritti, frutto del suo zelo per la riforma nel secoloXI, s’intonavano allo zelo e al carattere del cappuccino. Li sfrutta con abilità, e con icolori dell’ambiente di Gregorio VII, definisce le condizioni politiche e religiose-moralidel proprio tempo. L’oratoria riformatrice del monaco camaldolese ritorna tagliente inquella del frate francescano” (Carlini, Francesco Mara Casini, cit., pp. 207-208).64 Secondo Carlini: “Se Tacito, nel Seicento, fu il prediletto dei politicanti, Seneca lo fudei moralisti e della corrente antibarocca degli scrittori e dei predicatori. Abbiamo giàaccennato, come il Casini divenisse un vero cultore delle opere del filosofo romano, e noipossiamo, senza peccare di esagerazione ascriverlo in quel movimento di pensiero più omeno vasto, che va dalla fine del secolo XVI a dopo la metà del seguente, e che ebbe inSeneca il suo punto di convergenza. È vero che un movimento senechiano non si ebbeche fuori Italia, in Francia e nei Paesi Bassi, ma crediamo di non errare, se facciamo delCasini un discepolo diretto di esso. Tra i cappuccini francesi, infatti, troviamo i cultorisenechiani più appassionati e profondi, tra cui la figura di p. Yves de Paris (1588-16789 èla più eminente e nota. Venuto in contatto con esso nel 1679, con il ritorno da Parigi delproprio confratello, p. Giuseppe Gaburri da Firenze (1638-1714), che dové portare con ségli scritti del cappuccino francese, subì il fascino degli scritti di Seneca […]. Il Casini,infatti, si muove nella linea dell’interpretazione cappuccina francese, che, senzabattezzare né Seneca né tutto lo stoicismo, neppure lo condanna in blocco, ma accetta ciòche di buono fu detto sulla povertà, pazienza, clemenza, brevità della vita, ed in generesulla condotta morale degli uomini. Dalla corrente del senechismo italiano, invece, cisembra che egli abbia derivato l’aspetto letterario e la forma stilistica, senza estraniarsi,tuttavia, da quei rapporti più intimi che la cultura cattolica della controriformamanifestò nei riguardi dello stoicismo. La pretesa, infatti, di un precristianesimo diSeneca, rese il filosofo particolarmente accetto a scrittori ecclesiastici ed oratori sacri. La

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quale frequentò le Epistulae morales ad Lucilium e i trattati De beneficiis,De clementia, De brevitatae vitae, De tranquillitate animi, De vita beata, Deira, De providentia. Mette conto ricordare che anche Antonio Rosmini, findalla prima giovinezza, lesse queste stesse opere di Seneca e ne fusignificativamente influenzato.

Nelle prediche di Casini non ricorre in modo pieno e articolato –come in Bonaventura da Recanati – l’immagine delle piaghe dellaChiesa. Tuttavia non solo il tema delle piaghe di Cristo è presente (purein senso figurato), ma anche la linea riformatrice è più chiara, piùesplicita e più fortemente indicata che in p. Massari. Anche le predichedi Casini, dunque, possono essere viste come precorrimento, in sensogenerale, e come fonte, in senso stretto, delle Cinque Piaghe di Rosmini, ilquale peraltro – come già si è visto – indicava tra i suoi riferimentiCasini e non Bonaventura da Recanati.

Per il cappuccino di Arezzo la Chiesa più è martirizzata, più trionfa esi espande: “alla Chiesa perseguitata, incatenata, straziata, in mezzo allesue stragi si arrendevano i barbari, i manigoldi, i tiranni, e udivano isuoi oracoli, e professavano il suo Evangelo”65. È lo stesso Cristo chechiede alla sua Chiesa di imitarlo sulla via della croce. Casini fa parlarele piaghe del Crocifisso:

Ma quelle cicatrici, quelle forature, e quegli squarciamenti di membra, chemostra, sono bocce faconde, che dicono con eloquenza terribile: Ecco quanto micostano le battaglie, che ho sostenute per Voi; ed altrettanto dovranno costare aVoi le battaglie, che pretendo che intraprendiate per me. […] quelle bocche divinedelle beate Piaghe di Cristo null’altro dicono66.

Del resto, se il Cuore di Cristo, era, per Casini (che tuttavia era parcodi accenni al S. Cuore), un incendio di amore, il Predicatore Apostolicosottolineava come tale Cuore fosse ancora ferito dagli uomini e perfinodai cristiani:

corrente oratoria antibarocca ne fece il proprio modello nel proposito perseguito disostituire alla svolazzante magniloquenza secentista un’oratoria raccolta e concentrata”(ibid., p. 221).65 F. M. Casini, Prediche dette nel Palazzo Apostolico, Venezia 17462, t. I, p. 483 [PredicaXXXVI. Nel giorno dell’Apostolo San Tommaso].66 Ibid., p. 477.

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Però chiediamo con riverenza umilissima: quid sunt plagae istae [Zach. 13,6]?Figliuolo, risponde Cristo: se penetrassi al mio cuore, intenderesti i caratteri dellemie piaghe. Ho qua dentro un incendio tanto vasto, e sì vorace, che tollerarlo, evivere non è possibile. Però l’amore mi ha ferito per carità […]Divino Redentore: a me pare di poter dire; consummatum est. […] sono finite levostre passioni. No, dice Cristo, no: vi è chi torna di nuovo a crocifiggerminell’anima, e nello spirito con istrumenti più duri e più penosi, che le spine, chemi forarono le tempie, che i chiodi, che mi penetrarono le mani, che la lancia chemi squarciò il costato, che la Croce, che fu il più terribile de’ miei tormenti. […]Anche tra’ miei più cari, tra’ miei favoriti, tra’ i più ingranditi da me, vi è chiconcorse a rinnovar gli strazj di mia passione67.

Se dunque, da una parte, Cristo chiedeva la conformazione allaCroce, dall’altra vi erano cristiani che tornavano a ferirlo. Tutto ciòvaleva, a maggior ragione, per i più grandi gerarchi della Chiesa. Casini,considerando i caratteri della sequela di Cristo e guardando all’esempioapostolico di S. Pietro e di S. Andrea, affermava:

Servirà l’eroico esempio di questi due Fratelli apostolici per un muto rimprovero:Primieramente a taluni, che, chiamati alla Prelatura da Cristo, non si mossero aseguitarlo, se non a patti di tener dietro a lui sotto gli stendardi gloriosi de’ suoitrionfi, col privilegio in mano di ritirarsi in sicuro, qualora mireranno spiegarsi lebandiere insanguinate della sua croce: E in secondo luogo a certi altri, che, invecedi seguir Cristo ove sono da esso chiamati a promuovere il divino servizio,volessero strascinar Cristo ove sono essi rapiti da’ loro interessati ed ambiziosidisegni; e di seguaci fattisi condottieri, osassero dire al Signore: Veni post nos. […]Ora questa sarebbe una Prelatura non istituita da Dio, e non immaginata daCristo; ma ideata ne’ nostri cuori dalle ambiziose loro pretendenze. Perché sebene il Divin Redentore ha voluti i suoi Discepoli Principi, non però gli ha volutiPrincipi della terra: ma ha sollevato il Principato loro sopra tutta la terra68.

Secondo Casini, Cristo ai successori degli Apostoli non chiede sololacrime, ma vuole che abbraccino la croce:

67 Ibid., t. II, pp. 296 e 304 [Predica LXVII. Della Passione. Nel martedì della settimanamaggiore].68 Ibid., t. I, pp. 2-3 [Predica I. Nel giorno di S. Andrea Apostolo].

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Ed è ciò così vero, che il Figliuolo di Dio; dopo aver accettato il decreto di suapassione, senza frapporre un momento, lo pubblicò, e lo propose a’ Prelati dellasua Chiesa come giustissimo; affinché chiamati alla prelatura o non accettasserola mitra, o insieme con essa accettassero la corona di spine69.

5. Giurisdizionalismo, piaghe della Chiesa, educazione

La prospettiva di Casini si distendeva e si articolava soprattutto indue prediche De Passione, dette il martedì della settimana santa (ma nonsappiamo in quali anni, perché anche l’edizione delle prediche casinianenon reca indicazioni cronologiche).

Nella prima Casini sviluppava un parallelo con il tradimento degliApostoli, per sostenere che a Cristo causavano più sofferenze i sacerdotiche i laici. Esordiva dunque:

Ciò che vince l’aspettazione, che oltrepassa l’intendimento, e che inasprisce lepiaghe e la passione di Cristo è, che le Colombe di sua natura innocenticangiassero a terrore di Cristo i loro gemiti in urli; e gli Agnelli di loro geniomansuetissimi, in vece di belamenti, mandassero contra Cristo ruggiti; […]. Fuordi allegoria: Che nella Passione di Cristo mostrassero maggior livore i Sacerdoti,che i Laici70.

Il parallelo tra gli Apostoli e i moderni prelati si sviluppava persuccessivi passaggi. Una prima analogia era stabilita a proposito delsonno degli Apostoli durante l’agonia di Gesù nell’orto del Getsemani:

Giunto all’Orto santificato da’ suoi fervori, dopo le riverenti preghiere all’Eternosuo Padre, visitati i Discepoli, a’ quali aveva raccomandato che vegliassero eorassero in compagnia di Lui, non poté sofferire senza grave risentimento quellasonnolenza importuna […] Ah! Dice Cristo: Io che oro, veggo ciò che nonveggono gli Apostoli addormentati. […] Il sonno de’ miei Discepoli mi trafigge lospirito, e fino mi schianta due e tre volte dagli abboccamenti col Padre perrisvegliarli; perché preveggo quanto più orrendo strappazzo potrà fare del corpomistico della Chiesa il dormir degli Apostoli, che l’incrudelire de’ Carnefici.

69 Ibid., t. II, p. 440 [Predica LXXXVIII. Della Passione. Nel martedì della settimanamaggiore].70 Ibid., t. I, pp. 131-132 [Predica XI. Della Passione. Nel martedì della settimanamaggiore].

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Veggo che per la sonnolenza de’ Sacerdoti tante volte sarò di nuovo assalito, emaltrattato, quante i Successori de’ miei Discepoli gl’imiteranno più nel sonno,che nel coraggio. […] Si vedranno nelle campagne dell’Evangelio seminate collamia divina parola nascere velenosi germogli di perniciose zizzanie, […] mancarela disciplina nel Clero, la riverenza alle Chiese, la frequenza agli Altari, lavenerazione a’ Sagramenti, la fede a’ talami, e tutte andar sottosopra confuseinsieme le cose sacre e profane: E tutto ciò perché gli Apostoli dormono edormiranno71.

Casini ricordava poi il rinnegamento di Pietro. Successivamente meditava:

Ora chi potesse penetrare al benedetto cuore di Gesù, e vedere quantosensibilmente lo pungano, lo trafiggano, e lo tormentino quegli Ecclesiastici, chesi accordano co’ Laici a trattar maneggi politici in pregiudizio della causa dellasua Chiesa72.

Il Predicatore Apostolico si riferiva infine al tradimento di Giuda eaffermava:

Ma rivolgendo [Gesù] il guardo della divina mente a taluni, che nutriti da lui allamensa de’ Sacri Altari, ammessi alla confidenza de’ suoi misterj, e promossi alledignità più riguardevoli del suo Apostolato, vendendo sé, e vendendo Lui a’Potentati del secolo per poter vivere e sostenersi appoggiati a’ loro scettri, benchéincatenati a’ loro troni, direbbero con urli avvelenati: Quid vultis mihi dare, et egoeum vobis tradam? Esclamava tra le agonie più dello spirito, che della carne: OPadre, o Padre Eterno! Io muojo di puro affanno; perché nel tempo stesso, che iLadri si compingono e che mi adorano, i Discepoli si ribellano, e mi tradiscono73.

In conclusione, nell’implicito parallelo tra il corpo di Cristo nellaPassione e il corpo mistico di Cristo nelle difficoltà della storia presente,Casini indicava i dolori che, da parte soprattutto della gerarchiaecclesiastica, erano ancora inflitti a Cristo: parlava addirittura di unaricrocifissione. Dunque, si potrebbe dire, nuove piaghe del corpomistico, cioè della Chiesa, anche se in chiusura Casini recuperava piùcauti registri di prudente ottimismo:

71 Ibid., pp. 132-133.72 Ibid., p. 135.73 Ibid., pp. 139-140.

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E se in ciò fossero difettuosi non solo i gran Signori del Secolo, ma al pari di loro ivenerabili Personaggi del Santuario; e se così parlassero non solamente iProfessori della Politica, ma gl’Interpreti delle divine Scritture, i Custodi de’ sacriCanoni, e gl’intendenti delle verità Evangeliche e delle tradizioni Ecclesiastiche,che sarebbe di Cristo? Dite, dite, o Signori, che sarebbe di Cristo? Come sarebberoesaminate, come dibattute, e come decise le sue cause? Sarebbe ogni giorno econdannato ne’ consigli, e tradito da’ Giudei, e legato dalle coorti, e dileggiatodagli Erodi, e sentenziato da Pilati, e flagellato; e lacerato, e crocefisso da’Manigoldi, e ricrocifisso da tutti; e in questa funestissima tragedia di suapassione entrerebbero a rappresentare le loro parti, non solo i Personaggi delPrincipato, ma i Principi del Sacerdozio; e Cristo per le sale, pe’ cortili, per lepiazze, pe’ tribunali sarebbe, anche tra’ suoi, da chi tradito, da chi venduto, dachi negato, e da tutti abbandonato. Il che come oggi non siegue e per la religiosaintegrità di chi domanda pareri, e per evangelica libertà di chi risponde a’ quesiti;così mi giova sperare, che mai non seguirà in chiunque succeduto nella Chiesa a’Primati della Sinagoga, abborrirà altamente i perniciosi esempj di questisacerdoti74.

Nella seconda predica, Casini sviluppava un paragone tra ilcomportamento della Sinagoga e il comportamento della Chiesa neiconfronti di Cristo, prendendo spunto da un passo del Cantico deiCantici e da un versetto di Isaia. Tale valutazione risultava più negativaper i cristiani. Affermava infatti il Predicatore cappuccino:

Qui mi sovvengono due tenere, ma però amare doglianze fatte da’ Profeticispiriti, ove vollero esprimer questi affanni del Redentore: una fu di quell’Animagrande de’ sacri Cantici, che, trasformata per violenza di amore nel suo Diletto,chiamava sue proprie le ferite del suo Sposo. Filii matris meae pugnaverunt contrame [Can 1.5]. L’altra fu d’Isaia, il quale, ove parlò di Cristo, parlò anzi daEvangelista, che da Profeta. Filios enutrivi, et exaltavi: ipse autem spreverunt me [Is1.2]. La prima andava a ferire la Sinagoga, che, per onore non meritato da lei,chiamava sua madre, e dolevasi, che i suoi figliuoli, de’ quali egli si era fattofratello, armati contro di lui, gli avessero voltate le aste al petto, e squarciate lemembra, e lacerato il cuore. […] E pure tutto ciò non si esprime dal Redentoreperseguitato, con termini di vilipendio, ma più tosto di guerra e di battagliaonorata […]. La seconda era una folgore avventata contro la Chiesa fondata dalui, arricchita da lui, ingrandita da lui, glorificata da lui, e da lui dichiaratalegittima erede di tutte quelle glorie, e grandezze, delle quali la Sinagoga erastata solamente depositaria. E degli eredi di questa gloria e grandezza egli non si

74 Ibid., p. 144.

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è chiamato solamente fratello: chiamasi padre. Filios enutrivi, et exaltavi. E purechi ciò credesse? Da questi suoi figliuoli tanto da lui arricchiti, ingranditi, eglorificati sopra tutte le glorie, e le grandezze del mondo, chiamasi tanto peggiotrattato, quanto ad un animo nobile riesce più intollerabile un ignominiosodisprezzo, che una dichiarata battaglia: ipsi autem spreverunt me. […] [Dice Cristo:]E non par dunque a voi, che a paragone de’ figliuoli della Sinagoga, i figliuolidella Chiesa mi strapazzino con oltraggi?75

In particolare, a proposito dei cristiani, Casini riprendeva ancora unavolta l’esempio del tradimento degli Apostoli, di Giuda, di Pietro, percensurare comportamenti della Chiesa del suo tempo e soprattutto lasubordinazione al potere politico che causava a Cristo un rinnovarsidelle ferite della Passione. Casini faceva parlare lo stesso Cristo e glimetteva in bocca un duro ed amaro rimprovero:

Ma voi in tanto dissimulate l’enormi disorbitanze di taluno, che nella discussionedelle cause della mia Chiesa, (che sono mie cause) preso di mira l’interessepolitico, come unico o principale scopo de’ suoi disegni, si caccia sotto a’ piedi lagiustizia, la Religione, e tutto il mio divino Evangelio, purché arrivi a ciò chepretende, e nelle sue deliberazioni non ha, per regola che lo guidi, altro canone,che il maledetto assioma dell’expedit. Voi vi adirate contro Giuda […]. E intantonon piagnete in udire con quanta poca decenza taluno de’ Sacerdoti si accosti alsacro altare, non a baciarmi solo, ma a lacerarmi le carni, in sapere, che ne’congressi, che si fanno da’ politici contra le mie divine ragioni, non occupil’ultimo luogo taluno de’ miei Discepoli, e che per vile interesse o di roba, o dionoranze sospirate, e sperate, mi consegni alle potestà secolari, dicendo loro: quidvultis mihi dare, et ego vobis eum tradam? [Mat 26.15] Voi vi adirate e contra Pietro[…] e contra gli altri Discepoli […]. E pure non furono soli. Quante volte, ove siabbiano a sostenere le mie parti in concorrenza delle pretensioni de’ laici, talunide’ miei Apostolj, per non mostrarsi contrarj a chi non possono esser favorevolisenza tradire e la coscienza e l’onore, si ritirano dall’assemblea, e giurano di nonesser ben informati della causa che si propone, et negat cum juramento? [Mat 26.72]Voi vi adirate contra quegli empi ministri che mi legarono […] Ma e quanti sono,che vedendo usar contra me quelle medesime violenze col restrignere lagiurisdizione de’ Prelati, e l’immunità delle Chiese, in vece di usare il coltelloApostolico per troncare con generoso colpo queste mie ignominiose ritorte, sitrattengono in conferenze artificiose co’ ministri infarinati di ateismo senzaconcepire una scintilla di ardore ne pure tra quelle fiamme, che minacciano

75 Ibid., t. II, pp. 142-144 [Predica LV. Della Passione. Nel martedì della settimanamaggiore].

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incenerire il Santuario di Dio? Mi vedete flagellato con dure verghe, e sospirate;[…] traforato da chiodi, conficcato al patibolo […], e dopo morte ancoraoltraggiato da lancia, che mi penetra al cuore, e me lo squarcia; e spasimate. Maintanto non vi accorgete, che sotto gli occhi vostri i popoli a voi commessirinnovano sopra a me impassibile tutta questa dolorosa passione!76

Ritornava, dunque, sia pure in modo indiretto e non esplicito (comein Bonaventura da Recanati), il tema delle piaghe attuali di Cristo,inflittegli dagli uomini, spesso dai cristiani, quasi sempre dal poteresecolare, con il connivente assenso della gerarchia ecclesiastica.

Casini insisteva poi, con un più esplicito rimando alle legature dellemembra e alle piaghe delle mani, su un ruolo attivo richiesto da GesùCristo ai successori degli Apostoli. Era sempre Cristo che parlava:

A me non bastano in voi lacrime e compassione. Voglio risoluzioni generose, e daGrandi. Sono legato e incatenato in moltissime delle mie membra da coloro, chepretendono restrignere la libertà della mia Chiesa; voi, generosi Sansoni,strappate questi vincoli indegni, e rendetemi all’antica mia libertà. Ho le maniinchiodate, sicché in molti miei Vescovi non posso liberamente esercitarel’autorità del mio grado, voi nobili Nicodemi, liberatemi da questi chiodi, sicchépossa stender la mano e il braccio contra quante potestà ribellanti micontraddicono, e pretendono d’impedirmi l’uso di mie sacre giurisdizioni. Nonsono più dileggiato solamente ne’ cortili de’ palazzi profani: vengonogl’irriverenti a strapazzarmi anche nelle Chiese, e tra gli altari: voi, zelantissimiMaccabei, rendete colle vampe del vostro zelo a’ Santuarj profanati la dovutavenerazione. Questo è essere successori de’ miei Apostoli, e Principi della miaChiesa77.

Se le piaghe, in particolare delle mani, erano dovute al regalismogiurisdizionalista e ai suoi effetti, ritenuti nefasti, sulla vita della Chiesa,la piaga del cuore era inferta a Cristo dalla sua stessa Sposa, la Chiesa, econsisteva soprattutto nelle divisioni intestine. Antigiurisdizionalismo eunità ecclesiale erano chiaramente i tasti su cui più fortemente batteval’oratoria casiniana, in sintonia con gli indirizzi spirituali, pastorali eculturali degli “Zelanti”. A proposito, dunque, della piaga del costato,Casini affermava:

76 Ibid., pp. 143-144.77 Ibid., pp. 144-145.

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Questi però non sono gli affronti, che riuscirono più sensibili al cuor di Cristo.Quelli, che gli fo io sono più dolorosi. E fossi almeno io solo a maltrattarlo! Uditeuna misteriosa querela fatta con tenerissimo affetto alla sua Sposa da lui.Vulnerasti cor meum, soror mea sponsa: vulnerasti cor meum. […] Il mio stupore è, chela medesima Sposa, che è la Chiesa, sposata da lui col sangue, e unita a’ suoiamplessi nel talamo della croce, gli abbia ferito il cuore due volte: vulnerasti cormeum, soror mea sponsa: vulnerasti cor meum. Ed oh! Quanto sono diverse questeferite! È accaduto a Cristo, riguardo alla sua Chiesa, ciò che frequentemente suoleaccadere tra gli Sposi. I primi anni sono fervidissimi: ma il tempo gl’intiepidisce,e giugne frequentemente a raffreddarli. I primi amori sono aste d’oro, cheferiscono il seno con piaghe, che maggiormente innamorano. Raffreddate lefiamme de’ primi amori succedono dispettose maniere, che trafiggono i cuori conlaceramenti feroci. Eccovi, dice Cristo, eccovi la ragione delle querele, che sonocostretto a fare della mia Sposa. Ne’ primi giorni de’ miei sponsali colla Chiesaera ella così fervente in amarmi, che pativa nelle mie pene, agonizzava nelle mieagonie, sospirava di essere inchiodata dall’altra parte della mia croce, e ove siponeva a meditar la mia morte, ricusava di vivere. […] A poco a poco que’ primiardori di Sposa si raffreddarono, e gli strali d’amore si son cangiati in asteavvelenate, che mi squarciarono il seno con ispasimo inesplicabile. E questoacerbo dolore non è cagionato dalle sole ferite, ma da quelle ferite, con cui mistrazia una Sposa. […] La ferita, che mi lacera tutto lo spirito, è il prevedere, che[…] le fazioni tra’ miei Discepoli faranno in pezzi la carità, la quale senza unioneresta distrutta: questa è ferita di Sposa, non ne’ primi fervori dell’amor suo, madopo che alle sue vampe sono succeduti i raffreddamenti78.

Casini, in effetti, continuando e accentuando la prospettiva cheabbiamo già visto in Bonaventura da Recanati, si opponeva fermamenteal vecchio regalismo seicentesco che stava ormai evolvendo nel nuovogiurisdizionalismo anticurialista del XVIII secolo79. Clemente XIspostava il fronte polemico dalla Francia all’Impero: superato infatti, inqualche modo, il conflitto della regalia con Luigi XIV, papa Albanidoveva affrontare il cesaropapismo di Giuseppe I, divenuto imperatorenel 1705.

Del resto nel 1700 era stato pubblicato lo Jus ecclesiasticum universumdel canonista Zeger Bernard van Espen80, destinato a divenire il testo di

78 Ibid., pp. 145-146.79 Cfr. V. Ciaurri, Il Casini oratore, in “La scuola cattolica”, 76 (1948), pp. 320-326.80 Cfr. G. Leclerc, Zeger-Bernard van Espen (1646-1728) et l’autorité ecclésiastique.

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riferimento dell’episcopalismo, dal quale avrebbe poi preso le mosse ilfebronianesimo per sfociare infine nel giuseppinismo. A questi sviluppisi opposero fermamente il Papato e gli Zelanti: Clemente XI conun’azione più ‘politica’, i suoi immediati successori e, in particolare,Benedetto XIII con un’accentuazione più religiosa (per questoapprezzata da Muratori nei suoi Annali81). Proprio Benedetto XIII, nel1728, estese l’ufficio di san Gregorio VII alla chiesa universale: era lachiara indicazione di un ‘modello’ che avrebbe avuto una lunga duratae, tra fine Settecento e inizio Ottocento, sarebbe diventato un ‘mito’,proiettandosi sulla lotta di Pio VII contro il cesarismo dell’ImperatoreNapoleone Bonaparte. Di tale mito, com’è noto, fu partecipe lo stessoRosmini (anche se con scarsi e poco rilevanti riferimenti a Gregorio VII).Ma è ancor più significativo il senso sintetico complessivo che, nellalettera del 1853 al Bertetti, il Roveretano assegnava alla sua operettaDelle Cinque Piaghe della Santa Chiesa: “quello delle Piaghe – scrivevaRosmini – non è che un trattato contro le leggi Giuseppine”82.

Si confermava dunque, come caratteristica decisiva o comunquequalificante, l’antigiurisdizionalismo, cioè uno degli aspetti più tipici,come si è visto, delle prediche dette nel Palazzo Apostolico dai duecappuccini, Bonaventura Massari da Recanati e Francesco Maria Casinida Arezzo, negli anni della “ripresa tridentina” e del suo riformismoreligioso.

A spegnere la libertà della Chiesa era stato, secondo Rosmini, ilfeudalesimo introdotto con le invasioni barbariche: da esso in realtàderivavano tutte e cinque le “piaghe” della Chiesa. Scriveva infattiRosmini:

Sì, il feudalesimo fu l’unica, o certo la principalissima fonte di tutti i mali;perocché essendo egli un sistema misto di signoria profana e barbara, e insiemedi servitù e vassallaggio a principi temporali: in quant’è signoria, egli divise il

Contribution à l’histoire des théories gallicanes et du jansénisme, Zürich 1964; Estanislao deCampagnola, En torno al influjo de Zeger-Bernard van Espen, in “Lauretianum”, 7 (1966),pp. 129-136.81 Cfr. M. Rosa, Rileggendo Muratori tra politica e storia, in M. Bona Castellotti, E. Bressan,P. Vismara (a cura di), Politica, vita religiosa, carità. Milano nel primo Settecento, Milano1997, pp. 23-41.82 Rosmini Serbati, Epistolario Completo, XII, cit., p. 16.

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Clero dal popolo (Piaga I), e spezzò in due parti <il Clero stesso>, chechiamaronsi ingiuriosamente alto e basso clero, sostituendo alla relazione dipadre e figlio, che l’annodava, quella di signore e suddito che lo disnoda: onde lanegletta educazione del Chiericato (Piaga II), e quindi ancora entrata la divisionenell’alto Clero, cioè ne’ Vescovi fra di loro, dimentichi della fraternità, memoridella gelosia signorile sì per proprio conto che pel conto del principe, al cuivassallaggio appartenevano, rimanendo così ciascun Vescovo e separato dalpopolo, e sequestrato dall’intero episcopato (Piaga III): in quant’è poi servitù ilfeudalismo, assoggettati i Vescovi personalmente al Signor temporale come fedelie uomini suoi, incatenò ignominiosamente la Chiesa con tutte le cose sue al carrodel laicale potere che la trascinò per tutte quelle balze e precipizj, nelle quali esso,in suo corso irregolare e fallace, va sovente rompendosi ed inabissandosi, e dopomille avvilimenti e mille sciagure, spoglia a man salva de’ ricevuti dominii, ellatrovasi così sfinita di forze da non saper pure conservare e difendere a se stessa ladominazione de’ proprii pastori (Piaga IV). E dico che il feudalismo asservò laChiesa <con> tutte le cose sue, perché i barbari regnatori, avvezzi a nonriconoscere che vassalli, con questo loro istinto tutte le cose ecclesiasticheriguardarono […]. Per tal guisa il feudalismo assorbì ogni cosa: non lasciò piùlibere né le persone, né le cose delle Chiese [Piaga V]83.

Questa analisi portava Rosmini, nella sua considerazione positivadell’incivilimento moderno (o, si potrebbe dire, dei principali processi dimodernizzazione), a non indulgere a idealizzazioni del medioevo inchiave ideologica e anti-moderna. Anzi ciò che ancora rimaneva, nel XIXsecolo, del giurisdizionalismo era visto come residuo medievale,peraltro ancora storicamente attuoso (così da realizzare un invisibile mareale scisma84):

83 Id., Delle Cinque Piaghe, cit., p. 182.84 Scriveva Rosmini: “Una infaticabile potenza lavora oggidì e da molto tempo in ogniangolo della terra, per diffondere i semi più velenosi di scisma nella Chiesa di Dio. Si èfabbricato pur troppo un sistema scismatico; ma lo scisma non si vede ancor punto,perocché non si vede mai fino a che non è scoppiato; e intanto i fautori (molti de’ qualisono in buona fede) di questo sistema, parlano delle parole le più seduttrici ed insidiosenegli orecchi di tutti i principi dell’Europa, e fanno loro sventuratamente credere, chequel sistema sia un baluardo necessario della loro autorità e potenza, ed enunciano ilsistema contrario, che è il cattolicismo, colle accuse le più ingiuriose, spacciandolosiccome una pura umana invenzione, un maligno trovato dell’ambizione del capo dellaChiesa. E come non resteranno sedotti i monarchi?” (ibid., p. 171).

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Il feudalismo in gran parte è caduto, e va via più dileguandosi in presenzadell’incivilimento delle nazioni, come le ombre si fuggono a’ raggi della luce: laChiesa non ha più feudi. Ma al feudalismo sopravvivono i suoi principj legali, lesue abitudini, il suo spirito: la politica de’ governi s’ispira ad esso, i codicimoderni hanno ereditato dal medio evo una sì infausta eredità. Noi segnaliamola cagione, perché se ne considerino gli effetti85.

Tra gli effetti di lungo periodo vi era, dunque, come si è giàaccennato, la cattiva educazione del clero. Rosmini ne trattavaampiamente distinguendo quattro ambiti problematici principali: ilivelli di partenza, la personalità degli educatori, i libri di testo, ilmetodo educativo. In ciascuno di questi ambiti egli ravvisava i disastristoricamente intercorsi, a partire dal VI secolo, per l’intromissione delfeudalesimo nella vita della Chiesa.

La “dottrina preparatoria” che i candidati al sacerdozio acquisivanopreviamente nella loro partecipazione alla vita liturgica e alla catechesidella comunità ecclesiale86 si era progressivamente ridotta fino a ridursia “una nullità”, così che “la povertà e la miseria d’idee e di sentimenti

85 Ibid., p. 183. E proseguiva: “La Chiesa primitiva era povera, ma libera: la persecuzionenon le toglieva la libertà del suo reggimento: né pure lo spoglio violento de’ suoi beni,pregiudicava punto alla sua vera libertà. Ella non aveva vassallaggio, non protezione,meno ancora tutela, o avvocazia: sotto queste infide e traditrici denominazionis’introdusse la servitù de’ beni ecclesiastici”.86 Molto importante e significativa appare in questo senso l’analisi svolta da Rosmini inapertura del Capitolo II: “La predicazione e la liturgia erano ne’ più bei tempi dellaChiesa le due grandi scuole del popolo cristiano. La prima ammaestrava i fedeli colleparole; la seconda colle parole insieme e co’ riti; e fra questi, principalmente con quelli acui il loro divino Institutore aggiunse particolari effetti soprannaturali, cioè a dire ilSacrificio ed i Sacramenti. Sì l’uno che l’altro di questi ammaestramenti era pieno: non sivolgeva solo ad una parte dell’uomo, ma a tutto l’uomo, e il penetrava, come dicemmo,lo conquistava. Non erano delle voci che si facessero intendere alla sola mente, o de’simboli che non avessero altra potenza che sui sensi; ma sia per la via della mente, siaper quella de’ sensi, le une e gli altri ungevano il cuore, e infondevano nel cristiano unsentimento alto su tutto il creato, misterioso e divino; il qual sentimento era operativo,onnipossente come la grazia che lo costituiva […]. Da tali fedeli si cavavano i Sacerdoti;essi portavano alla Chiesa, che gli eleggeva all’alto onore di suoi ministri, una dottrinapreparatoria, grande come la loro fede, che avevano attinta insieme col comune de’fedeli, coll’atto stesso della preghiera, nello stesso tempo della visitazione divina, cioèdella grazia” (ibid., p. 37).

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che forma l’apparecchio ed il seme della ecclesiastica istituzionemoderna, non frutta che Sacerdoti ignari di ciò che è laicato cristiano, edi ciò che è cristiano sacerdozio, e del vincolo sacro di questo con quello.Tali ministri di petto angustiato, di mente ingrettita, sono poi quelli che,fatti adulti, Sacerdoti e capi alle chiese, educano altri Sacerdoti cheriescono anco più fiacchi e più meschini di essi: e questi si fanno padri eistitutori ad altri decrescenti necessariamente di età in età”87.

Per quanto riguardava la personalità degli educatori, questi – neiprimi secoli – erano i “maggiori uomini che la Chiesa si avesse”,solitamente gli stessi vescovi: infatti l’educazione dei chierici avvenivanella casa del vescovo e facendo vita comune con lui88. Ma, dopo il VIsecolo, a causa dei tanti impegni secolari di cui ormai i prelati eranogravati, l’educazione del clero fu trascurata o abbandonata e decadde.Più tardi si cercò di rimediare istituendo i seminari89, nei quali noninsegnava il vescovo ma preti, tuttavia la differenza nel livello deglieducatori appariva, secondo Rosmini, drammaticamente netta: “Nonsolo ogni diocesi ha il suo seminario, e in ogni seminario molti maestri;

87 Ibid., p. 39.88 Rosmini scriveva: “Ne’ primi secoli, la casa del Vescovo era il Seminario dei Preti e de’Diaconi; la presenza e la santa conversazione del loro Prelato era un’infocata lezione,continua, sublime, ove la teoria nelle dotte parole di lui, la pratica alle assidue suepastorali occupazioni congiuntamente apprendevansi. E in tal modo a canto degliAlessandri si vedevano allora crescere bellamente i giovani Atanasj; a canto de’ Sisti iLorenzi. Quasi ogni gran Vescovo preparava nella sua famiglia a se medesimo un degnodi essergli successore, un erede de’ suoi meriti, del suo zelo, della sua sapienza; e aquesta maniera di istituzione si debbono tutti que’ sommi Pastori che resero cosìammirabili, così felici i primi sei secoli della Chiesa […]. E questa unicità di scienza,questa comunicazione di santità, questa consuetudine di vita, questa scambievolezza diamore, per la quale il Vescovo antico trasfondeva nel suo giovane Clero e rinnovava sestesso maestro, pastore, padre, non è a dire che ordine armonioso, ammirabilecagionasse nel governo della Chiesa, qual dignità aggiungesse al sacerdozio, a questocorpo così uno e compatto, e qual forza salutare sopra i popoli. Scelto ed educato così,anche un Clero scarso suppliva ampiamente a’ bisogni delle chiese” (ibid., pp. 39-41).89 Secondo Rosmini: “Furono inventati i Seminarj per provvedere alla nulla educazionedel Clero, come furono inventati i catechismi per provvedere alla nulla istruzione delpopolo. Non si ebbe il coraggio (e non era sperabile che lo si avesse) di ritornare allostile antico, che il Vescovo personalmente formasse il suo popolo ed il Clero: si ritenne lamassima di lasciare questi travagli al clero inferiore” (ibid., p. 49).

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ma per la somma abbondanza, in che ne sono i tempi nostri, per lasomma facilità, che ha oggidì il Vescovo di trovare de’ preti che possanoessere istitutori del suo giovane Clero, si rimutano i maestri dopo pochianni d’insegnamento, promovendoli a un qualche meno magrobenefizio, e sostituendovene degli altri tutti nuovi, i quali sebbene nonabbiano ancora acquistata alcuna sperienza delle cose umane, né finitod’imparare dalla sociale consuetudine i principj del senso comune;tuttavia hanno pur ora assolto il gran corso delle scuole seminariali,questo non plus ultra del moderno sapere ecclesiastico; dopo il quale iteneri ministri dell’altare sono senza indugio applicati agli impieghi, ecosì dallo studio onoratamente dispensati”90.

Ancora, l’insufficiente educazione del clero era causata, secondoRosmini, dai libri di testo: nessuna meraviglia se “piccoli uomini […]adoperino a testo di loro lezioni de’ piccoli libri”. Ma non fu sempre cosìnella storia della Chiesa: in principio l’unico libro tanto per l’istruzionepopolare quanto per quella del clero era la Bibbia91. Quando educatorierano i grandi vescovi, Padri della Chiesa, utilizzavano pure i loro scrittie trattati, veri monumenti della letteratura cristiana antica. Ma quandol’educazione decadde e passò nelle mani del clero – cioè nell’era dellateologia scolastica – fiorirono i compendi, di livello progressivamentepeggiore, fino a giungere ai manuali dei ‘teologi’:

Ma la cristiana dottrina non si abbreviò solo in que’ compendj per dirvi una voltaciò che in tanti monumenti trovavasi infinite volte ripetuto, cosa commendabile,ma la si abbreviò ancora in un’altra maniera, cioè abbandonando interamentetutto ciò che spettava al cuore e alle altre facoltà umane, curandosi di soddisfaresolo la mente. Quindi questi nuovi libri non parlarono più oggimai all’uomocome gli antichi; parlarono ad una parte dell’uomo, ad una facoltà sola, che non è

90 Ibid., p. 50.91 Molto importante era quanto osservava Rosmini: “Ne’ principî della Chiesa, la divinaScrittura era l’unico testo dell’istruzione popolare ed ecclesiastica. Questa Scrittura, che èveramente il libro del genere umano, il libro (∃β∃8⊄∀), la scrittura per antonomasia. Inun tal codice l’umanità è dipinta dal principio sino alla fine; comincia coll’origine delmondo, e termina colla futura sua distruzione; l’uomo si sente se stesso in tutte lemodificazioni di cui è suscettivo, vi trova una risposta precisa, sicura e fino evidente, atutte le grandi interrogazioni che ha sempre a fare a se stesso; e la mente di lui vi restaappagata colla scienza e col misterio, come il suo cuore vi resta pure appagato collalegge e colla grazia” (ibid., p. 52).

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mai l’uomo: <la scienza teologica ne guadagnò ma ne scemò la sapienza> e lescuole acquistarono così quel carattere angustioso e ristretto che formò degliscolari una classe separata dal restante degli uomini, a cui quelli abbandonaronoil senso comune per attenersi a de’ sottili ragionamenti. […]Gli Scolastici avevano abbreviata la cristiana sapienza collo spogliarla di tutto ciòche apparteneva al sentimento, e che la rendeva efficace; i discepoli (e i discepoli,di nuovo sel dica, non sono più che i maestri) continuarono ad abbreviarla,troncando da lei tutto ciò che vi avea di più profondo, di più intimo, di piùsostanziale, ed evitando di parlare de’ suoi grandi principj col pretesto difacilitarne lo studio, ma veracemente perché non gl’intendevano punto essi stessi.Così la ridussero miseramente a formole materiali, a conseguenze isolate, anotizie pratiche, delle quali la gerarchia non può far senza, se vuol agli occhi de’popoli condurre le cose della Religione in quel modo esteriore che furon condottein addietro. Questa pertanto è la quarta ed ultima epoca nella storia de’ libri usatinelle scuole cristiane: l’epoca de’ teologi succeduti agli scolastici.92

Sulla questione dei libri di testo, Rosmini, dunque, concludeva conamara ironia:

E per questi gradi, della Scrittura, de’ Padri, degli scolastici e de’ teologi, siamopervenuti finalmente ad avere questi testi così maravigliosi, che ne’ nostriseminarj noi adoperiamo; i quali pur c’infondono tanta presunzione di sapere,tanto disprezzo pe’ nostri maggiori: questi libri che ne’ secoli avvenire, ne’ qualistanno le speranze della Chiesa che non può perire giammai, saranno, a miocredere, giudicati tutto ciò che di più meschino e di più svenevole fu scritto ne’diciotto secoli che conta la Chiesa: libri, per riassumere tutto in una parola, senzaspirito, senza principj, senza eloquenza e senza metodo93.

E proprio la questione del metodo era l’ultimo problema affrontatoda Rosmini nella sua analisi dell’insufficiente educazione del clero. Inquella decadenza, prima indicata, che aveva portato a scindere laformazione del cuore da quella della mente trovava origine unpeggioramento dei costumi dei sacerdoti. Rosmini riconosceva che neimigliori seminari del suo tempo “s’è introdotta la bontà, o almeno laregolarità de’ costumi”. Ma, a suo avviso, ciò non bastava perché nonrimuoveva la radice del male e cioè la separazione tra teoria e pratica,tra educazione profana e educazione religiosa. Non così era stato

92 Ibid., pp. 54-55, 57.93 Ibid., p. 57.

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nell’età più antica94, quando l’educazione abbracciava unitariamentetutto l’uomo e, in particolare, tutta la religione: “la parola di Cristoamavasi e cercavasi sola, e perciò volevasi penetrare tutto ciò che inquella parola indagar si potesse: e perché in quella parola si cercava lavita nascosta, amministravasi mescolata colle preghiere, colle santelagrime, colla liturgia, onde derivavasi la grazia che in un modosoprannaturale pasceva di luce divina le menti insaziabili di giustizia”95.

Per curare le piaghe della Chiesa – tra le quali, come si è visto, un ruolograve era svolto dall’insufficiente educazione del clero – occorreva, secondoRosmini, un’ardita autoriforma ecclesiale, avente come condizione efondamento la libertà della Chiesa. Tale libertà, affermava il Roveretano conaccenti tocquevilliani e manzoniani, doveva recidere i legami col poteretemporale, con i feudatari ed i nobili, con le ricchezze terrene96 (legami cheavevano causato tanti danni alla Chiesa anche in tempi recenti, durante larivoluzione francese97) per far respirare liberamente il cattolicesimo comeallora avveniva forse soltanto in paesi acattolici quali gli Stati Unitid’America98. Certo tale autoriforma poteva non essere indolore: “D’altrolato, – osservava Rosmini – quando mai si operò una grande riforma sullaterra, senza grandi scompigli? Quando si distrussero degli abusiuniversalmente invalsi ed inveterati, senza ostacoli e contraddizioni? Unpopolo ha egli mai racquistato la perduta dignità senza sacrifizj? S’è mai

94 Scriveva Rosmini: “Il principio di «dover comunicare nell’istruzione ecclesiastica laparola viva di Cristo, e non la parola umana e una parola morta», produceva ancoraun’altra conseguenza. Tutte le scienze venivano spontaneamente a subordinardi a lei, ea ricever da lei l’unità, prestando ella servigio ed omaggio a Cristo, e disponendo glianimi e le menti a meglio sentire la bellezza e la preziosità della sapienza evangelica.Non si davano adunque due educazioni, l’una pagana e l’altra cristiana, l’una dellescienze profane e collo spirito profano, e l’altra delle scienze ecclesiastiche, l’unaopposta e inimica dell’altra; […] ma un fine solo, come una dottrina sola, quella diCristo; ella dominava sempre tutto: anche gli studj profani servivano così a rinforzare laloro fede” (ibid., p. 62).95 Ibid., p.62. Cfr. P. Zovatto, La seconda piaga della Chiesa: l’insufficiente educazione del cleronel pensiero di A. Rosmini, in “Studia Patavina”, 45 (1998), 2, pp. 425-450; A. Monticone,La formazione del clero e il “sensus ecclesiae” in Antonio Rosmini, in “Pedagogia e vita”, s. 55,(1997), n. 6, pp. 94-102.96 Rosmini, Delle Cinque Piaghe, cit., pp. 90-91.97 Ibid., pp. 166-167.98 Ibid., p. 86.

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resa felice una nazione, se non in passando per grandi sventure?Sostenendo le prove più dure? E la cattolica Chiesa, questa comunanza dipopoli, avvilita, schiava, si pretenderà che potesse farsi risorgere dalprofondo dell’abbiezione, e ridivenire libera, senza una grande scossa, unagrande sociale agitazione?”99. Possiamo immaginare i sentimenti che talerosminiano ‘Risorgimento ecclesiale’ suscitava in coloro che leggevanoqueste pagine durante la “grande sociale agitazione” del 1848, quandoappunto le Cinque Piaghe videro la luce.

99 Ibid., pp. 145-146.

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CAPITOLO VI

NELL’ANNO DEI PORTENTI: RIFORMISMORELIGIOSO, EDUCAZIONE E LIBERTÀ

1. Risorgimento e nuove esigenze di evangelizzazione

Antonio Fogazzaro, in un suo noto intervento, ebbe a presentareRosmini come “il propugnatore dell’unità italiana, delle istituzioniliberali e d’una riforma ecclesiastica; il contraddittore formidabile dicerti teologi e moralisti e soprattutto il patrono, per così dire, di unaspecie di opposizione costituzionale cattolica, che osa disapprovarel’azione del partito preponderante nella Chiesa”1. Il momento centrale,in cui tutti questi aspetti, indicati da Fogazzaro, emersero con nettezza esi intrecciarono robustamente fra loro, fu certamente il 1848-49. Fu allorainfatti che fece le sue prove decisive quella che Francesco De Sanctis hachiamato la scuola “lombardo-piemontese” del cattolicesimo liberale2 eche, più recentemente, Francesco Traniello – in uno studio ancor oggifondamentale – ha indicato come “cattolicesimo conciliatorista”3. Lostesso Traniello, in un altro suo lavoro, ha messo in luce come le istanze

1 A. Fogazzaro, Per Antonio Rosmini, in Id., Discorsi, Milano 1941, pp. 361-362.Commentando questo brano fogazzariano, Francesco Traniello ha tracciato un rapidobilancio “della tradizione riformistica del neocattolicesimo italiano del Risorgimento”:cfr. F. Traniello, La spiritualità rosminiana nella storia religiosa dell’Italia moderna, inAA.VV., Spiritualità e azione del laicato cattolico italiano, Padova 1969, pp. 105-139, ora in F.Traniello, Cultura cattolica e vita religiosa tra ‘800 e ‘900, Brescia 1991, pp. 201-230.2 F. De Sanctis, La scuola cattolico-liberale e il romanticismo a Napoli, a cura di C. Muscetta eG. Candeloro, Torino 1953.3 F. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista. Religione e cultura nella tradizione rosminianalombardo-piemontese (1825-1870), Milano 1970.

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di riforma della Chiesa, espresse da Rosmini nelle Cinque Piaghe (operascritta nel 1832-33, ma pubblicata appunto nel 1848), fossero lanecessaria premessa del costituzionalismo quarantottesco delRoveretano4. Tali istanze agivano carsicamente peraltro in tutta latradizione rosminiana lombardo-piemontese ed erano anche al cuore deldisegno fondativo religioso di Rosmini, cioè di quell’Istituto della Caritàche ebbe la sua culla, come si è visto, nelle terre di confine tra ilPiemonte e la Lombardia. Appare allora significativo considerareRosmini e i Rosminiani anche dal punto di vista della loro posizioneverso la questione degli Ordini religiosi e del diritto di associazione: unproblema che venne sempre più appassionatamente discusso nel corsodegli eventi politici della Rivoluzione nazionale5.

Visto attraverso questa prospettiva di analisi, non sembracompletamente convincente il netto giudizio di De Sanctis, secondo ilquale “ciò che preoccupa di più Rosmini è la riforma religiosa, ciò chepreoccupa di più Gioberti è l’indipendenza italiana”6. In realtà riformadella Chiesa e Rivoluzione nazionale erano due aspetti entrambipresenti, sia pure con modulazioni essenzialmente diverse, tanto inGioberti quanto in Rosmini. Il fulcro delle riflessioni in questo sensodivenne, ben presto, il giudizio sui gesuiti (e dunque anche sugli Ordinireligiosi in generale). Dopo gli apprezzamenti che aveva tributato allaCompagnia di Gesù nel Primato (1843), Gioberti avviò, come si è giàaccennato, con i Prolegomeni al Primato (1845) e con il Gesuita moderno(1846-1847) una dura polemica con i gesuiti, con Taparelli d’Azeglio econ Curci7. I gesuiti, per parte loro, risposero subito: la loro posizione si

4 Id., Società religiosa e società civile in Rosmini, Bologna 1966, pp. 247-335.5 Per un quadro complessivo degli avvenimenti italiani del periodo cfr. G. Candeloro,Storia dell’Italia moderna. III. La rivoluzione nazionale 1846-1849, Milano 19777. Per quantoriguarda in particolare Milano cfr. A. Monti, Il 1848 e le Cinque giornate di Milano. Dallememorie inedite dei combattenti sulle barricate, Milano 1948; L. Marchetti, Il 1848. Fontibibliografiche e documentarie esistenti presso le Raccolte storiche del Comune di Milano, Milano1948.6 De Sanctis, La scuola cattolico-liberale..., cit., p.293.7 Oltre ai classici studi su Gioberti, cfr. F. Traniello, La polemica Gioberti-Taparelli sull’ideadi nazione e sul rapporto tra religione e nazionalità, in Id., Da Gioberti a Moro. Percorsi di unacultura politica, Milano 1990, pp. 43-62; Id., Religione, nazione e sovranità nel Risorgimentoitaliano, in “Rivista di storia e letteratura religiosa”, (1992), pp. 319-368; A. Giovagnoli,

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ricollegava a quell’opinione religiosa conservatrice dell’età dellaRestaurazione8, ma essa veniva “ammodernata” e preludeva alcattolicesimo intransigente della “Civiltà Cattolica”, che di lì a pocoavrebbe iniziato le sue pubblicazioni9.

L’antigesuitismo di Gioberti era, in realtà, d’antica data10 e non puòessere unicamente ricondotto ad opportunità politiche. Vi era invece, alfondo di esso, una chiara, prepotente e impetuosa esigenza religiosa (oecclesiale-pastorale), che nei suoi ultimi esiti avrebbe condotto a quellasingolare teologia politica espressa nei frammenti – pubblicati postumi –della Riforma cattolica, ma che intanto portava Gioberti a giudicareperfino il pensiero rosminiano come anacronistico e insufficienterispetto alle necessità religiose dell’Europa moderna. A proposito diun’opera di Lorenzo Gastaldi, rosminiano e futuro arcivescovo diTorino, Gioberti scriveva all’amico Baracco il 24 maggio 1843:

Fa i miei complimenti al T. Gastaldi per l’ingegno, la dottrina, la moderazione delsuo scritto. Ma se egli permette a un uomo sincerissimo di dir tutto il suo parere,aggiungerò che non mi va molto a sangue di vedere i giovani teologi occupare illoro ingegno in controversie di sì poca importanza, ma non conosce gli uomini,né i tempi, né i bisogni correnti dell’Italia, della Chiesa, della religione. IlRosmini, che con tutti i suoi difettucci è buona persona nella sostanza, ebbe iltorto di suscitare un vespaio per sapere se la macchia originale sia un peccato ouna colpa. Il secolo decimonono non sa che fare di queste controversie del secolo

Nazionalità e universalità. Un dibattito fra cattolici alle origini dello Stato unitario, in “Annalidi storia moderna e contemporanea”, I (1995), 1, pp. 9-28.8 Cfr. A. Manno, L’opinione religiosa e conservatrice in Italia dal 1830 al 1850 ricercata nellecorrispondenze di Mons. Corboli Bussi, Torino 1910; G. Verucci, Per una storia delcattolicesimo intransigente in Italia dal 1815 al 1848, in “Rassegna storica toscana”, IV(1958), pp.251-285.9 Cfr. A. Dioscoridi, La rivoluzione italiana e “La Civiltà Cattolica”, in “Rassegna Storica delRisorgimento”, XLII (1955), pp. 258-266; G. Spadolini, L’intransigentismo cattolico: dalla“Civiltà Cattolica” al “Sillabo”, in “Rassegna storica toscana”, IV (1958), pp. 309-332; P:Droulers, Question social, état, église dans la “Civiltà Cattolica” à ses débuts, in Aa. Vv., Statoe Chiesa nell’800. Miscellanea in onore di P. Pirri, Padova 1962, vol.II, pp.123-147.10 Il 13 maggio 1834, Gioberti aveva scritto a G. Baracco: “Comparai i Giansenisti agliSpartani perché mi parve che il vigore e il nerbo di questi non si trovi più fra i cattolici,se non in quelli, soli in tanta mollezza e corruttella, imitatori della semplicità e puritàantica, soli intrepidi e costanti. Tutto il rimanente della Chiesa, si può dire è ingesuitato”(in D. Berti, Di V. Gioberti riformatore politico e ministro, Firenze 1881, p.15).

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decimosettimo; le quali possono piuttosto aumentare il numero degl’increduli,che migliorare i credenti. Si tratta ora di rifare ciò che fecero gli Apostoli, cioè distabilire per la seconda volta il Cristianesimo in Europa, e di abbattere la gentilitàrisorta, non di disputare di Baio e di altre simili baie11.

Al cuore della problematica giobertiana vi era dunque l’esigenza diuna nuova evangelizzazione.

Ma tale esigenza era anche alla base delle posizioni di Rosmini chenon possono certo ridursi alle polemiche – da lui non volute escatenategli contro da alcuni gesuiti in forme oggettivamentepretestuose – su questioni di teologia morale. Il Roveretano tuttaviaponeva tali esigenze in modo diverso da Gioberti (e da Tommaseo) e informe simili a quelle di Manzoni. Non si trattava cioè di rilanciare ungrande ruolo sociale della Chiesa, né come realizzazione di un regimeconfessionale di ‘civiltà cattolica’ (secondo un indirizzo che era quellodei gesuiti), né come guida dell’incivilimento umano e come autoritàmorale nel processo politico di unificazione nazionale (secondol’indirizzo giobertiano).

Le esigenze nuove di evangelizzazione non portavano, nella visionerosminiana, a una prioritaria azione storico-sociale né a un primatodell’impegno morale e civile. Si trattava invece di recuperare la grandemissione educativa della Chiesa, come era stato nell’età apostolica, maattraverso tre passaggi storicamente necessari: l’autoriforma ecclesialeper eliminare i mali e gli abusi anti-evangelici, la testimonianza di unaChiesa povera (il contrario di una Chiesa ricca di trionfi sociali epolitici), la prioritaria e vitale affermazione della libertà della Chiesacome parte e come garanzia della più vasta libertà dei popoli.

Il 1848 e la pubblicazione delle Cinque Piaghe offrivano a Rosmini,come già in parte si è visto, l’occasione per chiarire il suo pensiero e perpresentarlo come sviluppo della tradizione di Riforma cattolica.

Sulla questione dei mali e degli abusi e della necessità di combatterli,Manzoni aveva affermato:

Uno dei più gravi sintomi di degenerazione tanto in un uomo come in unasocietà è l’esser contenti del suo stato morale, il non trovar nulla da togliere, nulla

11 Ibid., pp. 138-139.

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da perfezionare. Gli abusi che si giustificano con un pretesto religioso, ma che inrealtà si sostengono per fini temporali, io non intendo in nulla difenderli,protesto anzi di bramare ardentemente che sieno sempre più conosciuti, econdannati da quegli stessi a cui potessero sembrare utili […]. Ma pur troppoalcuni di quelli che in monte confessano l’esistenza degli abusi, non sanno poitrovarne un solo, quando si venga a specificarli: difendono tutto ciò che esiste, ese si domandasse loro di citare un solo abuso non lo saprebbero forse rinvenire.Io so che questa riservatezza si chiama per lo più prudenza cristiana, so che lo ètalvolta, so che molti risparmiano gli abusi, che dico, gli difendono, non peramore di essi, ma per rispetto alla religione. Ma il primo carattere della prudenzacristiana è di non andar mai contra la verità, ma la sua norma non è altro chel’applicazione della legge di Dio e dello spirito del Vangelo a tutti i casi possibili.Ma siamo in tempi in cui sarebbe somma follia il credere che gli abusi possanopassare inosservati, e correggersi senza scandalo, esser tolti senza che il mondo sisia accorto che abbiano esistito. Non si può più sperare che il mondo, imitando lacarità dei due figli benedetti di Noè, getti il pallio sui mali della Chiesa. Egli neride e ne trionfa, egli scopre gli abusi, i libri ne sono pieni da un secolo, egli gliesaggera, gli inventa, non vede altro nella Chiesa […]. Egli rinfaccia gli abusicome una prova decisiva contra la religione, e pare che supponga che la fede deicattolici non regga che per la loro ignoranza degli abusi stessi.

Manzoni continuava poi osservando:

Ma se i cattolici fossero i primi ad abbandonargli per quello da cui dipende, etutti gli altri a deplorarli, se dicessero questi altamente: noi sappiamo questi mali,ma la nostra credenza è fondata sopra ragioni troppo superiori, perché la vista diquesti mali possa farla vacillare, io credo che il mondo sabbe costretto ad esserepiù riservato, io credo che molti, veggendo come si può conoscere gli abusi edessere cristiani, avrebbero una falsa scusa di meno. Osservazione importante.Quelli che hanno autorità nella Chiesa possono impedire talvolta e in qualcheluogo che si parli contro gli abusi: ma non possono impedire che gli uomini se nescandalizzino e rinuncino alla religione. Ora questo è il vero male da evitarsi12.

Ma anche Rosmini, nelle Cinque Piaghe, che costituivano appunto laserena ma franca denuncia dei ‘mali’ della Chiesa, scriveva:

Ora ov’è, in circostanze così fatali per la Chiesa cattolica, chi non se ne dorma unsonno tranquillo! Tutto va bene, a giudizio de’ prudenti di questo secolo. A

12 A. Manzoni, Sulla Morale Cattolica. Seconda parte, [1819-1820], in Id., Scritti filosofici, acura di R. Quadrelli, Milano 1976, pp. 263-264.

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giudizio d’altri ancor più prudenti, è necessario che i cattolici non abbiano latemerità di parlare: conviene osservare perfetto silenzio per non eccitareinquietudini e rumori disgustosi: e tutto quello che può recar turbazione, non èche imprudenza e temerità. Tale specie di prudenza è l’arma più terribile di que’che minano la Chiesa; essi la minano sordamente: e chi denunzia la loro mina, chirivela il tradimento, sono i turbolenti, sono i perturbatori della società. Intanto laChiesa geme, e con troppa ragione può dire le parole del Profeta «che nella pacela sua amarezza s’è fatta amarissima». Indi è, che se qualche voce, interrompendoil silenzio di morte, s’innalza a parlare de’ mezzi di salute che restano alla Chiesa,mirate onde viene: essa esce da qualche semplice fedele. Tutto al più sarà qualchepovero sacerdote che ha tanto di coraggio13.

Le nuove esigenze dell’evangelizzazione, che riportavano in qualchemodo ai tempi apostolici, richiedevano, secondo Rosmini, unatestimonianza povera, cioè un “impoverire la Chiesa” per poter“risuscitare la fede”: “Forse che in certe nazioni si sarebbe salvato ilCattolicesimo dal suo naufragio, sgravandolo a tempo delle ricchezzemal usate, che il facevano pericolare; […] il Clero povero di quellenazioni le avrebbe salvate salvando se stesso, ed avrebbe risuscitata lafede con que’ mezzi appunto co’ quali gli Apostoli l’aveano piantata!Ma in che parte troveremo un Clero immensamente ricco, che abbia ilcoraggio di farsi povero? O che pur solo abbia il lume dell’intelletto nonappannato a vedere che è scoccata l’ora in cui l’impoverire la Chiesa èun salvarla?”14. Del resto Manzoni aveva osservato: “M’ingannerò, macredo che quando la religione fu spogliata in Francia dello splendoreesterno, quando non ebbe altra forza che quella di Gesù Cristo, potéparlar più alto, e fu più ascoltata”15.

Una grande occasione storica – quasi, si potrebbe dire, una ‘pienezzadei tempi’ – veniva, secondo Rosmini, dai grandi rivolgimenti storici deipopoli europei per la libertà. Tali rivolgimenti infatti avevano un oscuroe nascosto movente religioso profondo, ignoto spesso agli stessiprotagonisti, ma che costituiva la verità e la necessità ‘provvidenziale’ ditali rivolgimenti pur nei dolori e nelle sofferenze che essi potevanocausare. Questo movente religioso profondo era la libertas Ecclesiae. La

13 Rosmini, Delle Cinque Piaghe della Santa Chiesa, cit., pp. 173-174.14 Ibid., pp. 90-91.15 Manzoni, Sulla Morale Cattolica, cit., p. 284.

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nomina dei vescovi, rivendicata ed esercitata dai sovrani temporali, eravista come emblema tipico del giurisdizionalismo contemporaneo equest’ultimo, a sua volta, era inteso come forma di un regime tirannico eingiusto che trasferiva al potere umano caratteristiche e prerogativesacre per asservire i sudditi: tale ‘secolarizzazione’ sorreggeva, infatti,una struttura illiberale contro la quale si rivolgevano i motirivoluzionari, che erano dunque strumento della Provvidenza (inquesto, e solo in questo, si può ravvisare una lontana ecolamennaisiana). Scriveva Rosmini:

La tremenda sanzione della Divina Providenza non è più nelle tenebre, non si faindovinare. Ella è incominciata, e sonante in varj punti d’Europa e dell’universo.L’Inghilterra e l’Irlanda, gli Stati uniti, il Belgio hanno libertà di eleggere iVescovi: a nessun prezzo la Providenza si rimarrà dal redimere alla Chiesa unatale libertà in tutte le nazioni della terra: ne stieno certi i monarchi. I popoli, sì ipopoli sono la verga di cui ella si serve. Le ribellioni sono esecrabili: e chi più leesecra della Chiesa? Chi più le condanna? Ma quello che non fa la Chiesa, quelloche non fanno i buoni; quello appunto il fa la potenza di Gesù Cristo che èSignore de’ regi e de’ popoli, che piega al suo volere le cose tutte, e che suolcavare sempre i beni da’ mali. Egli userà anche il braccio de’ malvagi al suointendimento.Sì, lo scompiglio di tutta l’Europa, oso dire che è irreparabile, perché nonv’avrebbe che un solo mezzo di fuggirlo, quello di rimettere la Chiesa di Dionella sua piena libertà, e nell’usare verso di essa tutta la sommissione e lagiustizia. Ma questo mezzo è anche il solo che non si vede, è il solo chesciaguratamente si rifiuta. […] Manca forse l’intelligenza? no, manca la fede:manca un sufficiente amore alla giustizia. Non si crede che la Providenza abbiaun consiglio fisso nel governo degli eventi; non si crede che la Chiesa abbia unamissione che vuol esser ad ogni costo adempiuta: l’uomo si persuade di poterfare senza di lei; così l’incredulità toglie poi anche l’intelligenza, cioè rendeinintellegibile il sacro universal grido de’ popoli cristiani, quello di libertà: i qualipopoli dicono di ribellarsi per una cagione non vera; mentendo a se stessi; poichédella vera cagione, per la quale si sollevano, essi hanno una profonda coscienza,e ne manca loro l’espressione. Deh! s’impari, che i cristiani, <essendo>essenzialmente liberi, non possono servire all’uomo, in cui non veggano Iddio16.

Anche gli esponenti del rosminianesimo lombardo-piemontese eranoconsapevoli delle nuove e inedite sfide che stavano di fronte al

16 Rosmini, Delle Cinque Piaghe della Santa Chiesa, cit., pp. 179-180.

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cattolicesimo contemporaneo e non guardavano con eccessivientusiasmi all’opera della rinata Compagnia di Gesù: così i piemontesiGiuseppe Andrea Sciolla17, Giovanni Michele Tarditi, Gustavo diCavour18, così i lombardi Alessandro Pestalozza, Nazaro e AmbrogioVitali, Luigi Biraghi, il fondatore delle Marcelline19. Del resto i gesuitinon erano presenti in Lombardia e l’arcivescovo di Milano Gaysrucknon aveva permesso – come si è già visto – neppure la ricostituzioneufficiale, dopo la soppressione napoleonica del 1810, degli Oblati di S.Carlo20.

Gli eventi del 1848 funsero, dunque, da catalizzatore rispetto aprocessi di maturazione intellettuale già presenti e operanti e rispetto aistanze ancora disperse e frammentate di riforma ecclesiale, che tuttaviaerano già manifeste, per esempio in personaggi come Ambrogio Vitali,

17 Lo Sciolla era censore ecclesiastico della nota Enciclopedia popolare, edita dal Pomba.Una vicenda, relativa a questo suo incarico e riferita da Francesco Predari, appareparticolarmente significativa: “L’articolo Gesuiti della Enciclopedia da lui [Sciolla]approvato per la stampa essendo stato non abbastanza reticente nel parlar dei loro errorie non abbastanza largo di lodi, destò malumore nei padri, e poi chiasso tra gli affigliati,e poi vive querele che giunsero sino all’arcivescovo Franzoni. Questi chiamato a sé ilcensore Sciolla, dopo una intemerata, secondo suo stile, aspra e villana, e fatta balenarela sospensione a divinis volle obbligarlo a riconoscere pubblicamente gli errori lasciaticorrere nell’articolo incriminato. -Vostra Eminenza, rispose freddamente mafermamente lo Sciolla, è mia autorità, è giudice delle opere mie, ma non signore dellamia coscienza, la quale non può avere che un solo signore; io, almeno in questioniopinabili, non riconoscerò per errore ciò che questa coscienza stima verità; VostraEminenza può togliermi la messa ma non il mio libero arbitrio, che ogni serafervorosamente raccomando alla custodia dello Spirito Santo” (F. Predari, I primi vagitidella libertà in Piemonte, Milano 1861, pp.23-25).18 Traniello, Cattolicesimo conciliatorista..., cit., pp. 31-70.19 Cfr. C. Castiglioni, Rosminianesimo nel clero milanese, in “Memorie storiche della diocesidi Milano”, II (1955), pp. 148-165; G. Radice, Antonio Rosmini e il clero ambrosiano.Epistolario, 3 voll., Milano 1962-1964. Sul Biraghi si veda ora M. Marcocchi, Luigi Biraghi ela congregazione delle suore Marcelline: le radici spirituali, in N. Raponi (a cura di), Ottocentoromantico e civile. Studi in memoria di E. Passerin d’Entrèves, Milano 1993, pp. 229-244.Più in generale cfr. E. Passerin d’Entrèves, La fortuna del pensiero di Rosmini nella culturadel Risorgimento, in “Rivista Rosminiana”, (1962), pp. 97-110.20 Sull’episcopato di Gaysruck e del suo successore Romilli cfr. C. Castiglioni, Gaysruck eRomilli, arcivescovi di Milano, Milano 1938; M. Pippione, L’età di Gaisruck, Milano 1984.

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vice-cancelliere di curia a Milano e rappresentante dell’”autonomismo”ambrosiano21 e del “principio della riforma diocesana”22.

L’insurrezione milanese delle Cinque giornate portò alla formazionedi un governo provvisorio cittadino – presieduto da Gabrio Casati – cheil 22 marzo lanciò un proclama al popolo, incitandolo alla lotta. Il 23marzo il Consiglio dei ministri del Regno di Sardegna decise didichiarare la guerra all’Austria. Il giorno successivo fu dunque CarloAlberto a rivolgersi con un proclama ai “Popoli della Lombardia e dellaVenezia”: “Seconderemo – diceva – i vostri giusti desideri fidandonell’aiuto di quel Dio, che è visibilmente con Noi, di quel Dio che hadato all’Italia Pio IX, di quel Dio che con sì maravigliosi impulsi posel’Italia in grado di fare da sé”. Il 25 marzo le truppe sarde passarono ilTicino. Intanto, dopo il successo della rivoluzione antiaustriaca anchenelle altre città della Lombardia, l’8 aprile la compagine governativamilanese fu allargata a rappresentanti di altre province e divenne unGoverno provvisorio lombardo23. Una lettera del giorno succesivo,scritta dal già ricordato sacerdote Luigi Biraghi, offre una significativatestimonianza sulle conseguenze che tali eventi provocarono nell’ambitodella Chiesa ambrosiana e soprattutto del clero influenzato da Rosmini:

21 Il Vitali si era infatti distinto “per uno sforzo non esagerato ma costante di rendere, inquello che era possibile ed utile, indipendente la Curia di Milano dalla Curia romana,liberandola da tutti quegli impacci e tirannie interne, di cui Roma, per amored’influenza e di lucro, ha saputo imbavagliare tutte le curie del mondo, rendendole dacorpi indipendenti, sezioni inferiori de’ propri ufficii” ([L. Vitali], Le piaghe della Chiesamilanese, Milano 1863, p.77).22 Ibid., p. 39. Cfr. anche Traniello, Cattolicesimo conciliatorista..., cit., pp.146-147.23 Cfr. A. Monti, Carteggio del Governo Provvisorio di Lombardia con i suoi rappresentanti alQuartier Generale di Carlo Alberto: 22 marzo – 26 luglio 1848, Milano 1923; T. Buttini – M.Avetta (a cura di), I rapporti fra Governo Sardo e Governo Provvisorio di Lombardia durante laguerra del 1848 secondo nuovi documenti del R. Archivio di Stato di Torino, Roma 1932; L.Marchetti, 1848. Il Governo Provvisorio della Lombardia attraverso i processi verbali dellesedute del Consiglio, Milano 1948; L. Marchetti – F. Curato (a cura di), Il Carteggiodiplomatico del Governo Provvisorio della Lombardia, Milano 1955. Dopo la nomina, da partedel Governo piemontese, dei Regi Commissari per la Lombardia, il 1 agosto 1848, ilGoverno provvisorio lombardo si trasformò in Consulta straordinaria per la Lombardia:cfr. F. Curato, 1848-49. La Consulta straordinaria di Lombardia, 2 agosto 1848 – 28 maggio1849, Milano 1950.

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Ieri mattina – scriveva dunque Biraghi – capitato dall’arcivescovo [BartolomeoRomilli, succeduto al Gaysruck nel 1847] gli feci intendere con bei modi che,mentre il governo provvisorio riordina con tanta energia la cosa pubblica in ogniramo, la chiesa, ossia l’arcivescovo, non doveva starsene inoperoso. La qual cosadispiaceva ai buoni: doversi riguardagnare le libertà perdute, la nomina deivescovi, l’amministrazione dei beni ecclesiastici, le cause matrimoniali, ecc. Eglimi sentì con piacere e mi pregò di andare io stesso dal presidente Casati adomandargli un abboccamento e a preparargli la strada all’uopo.

E Biraghi continuava:

Io mi portai ieri [da Casati] e fui ricevuto mentre desinava e vi stetti tutto iltempo del pranzo e prendemmo insieme il caffè; poi mi aprii con il presidente egli esposi la missione mia ed i vari bisogni della chiesa; insistetti molto sullanomina dei vescovi, sulla libera comunicazione con Roma, sulla libertàd’insegnamento e di educazione, sulla libertà delle corporazioni religiose,sull’amministrazione dei beni ecclesiastici, ecc.; e ne ebbi, grazie a Dio, favorevolerisultato. Il presidente oggi si porterà dall’arcivescovo privatamente e, fatte leiniziative fra di loro, si procederà alle buone intelligenze legali.

Concludeva dunque il Biraghi: “L’arcivescovo, sentito l’esito dellamia missione, mi ringraziò assai e mi pregò di fermarmi a Milano, percooperare a stender le cose da chiedere formalmente. Io poi dissiall’arcivescovo che doveva mettersi in relazione con i vescovisuffraganei e pubblicare avvisi e indirizzi e non restare indietro inniente; e mi ringraziò molto. Stasera vi ritorno, ma spinte le cose inmoto, io intendo ritirarmi nel mio nulla”24.

Fu probabilmente in seguito a questi contatti e a queste sollecitazioniche Romilli costituì una “Commissione per gli affari della Chiesa”,

24 La lettera è pubblicata in A. Portaluppi, Mons. L. Biraghi fondatore delle Marcelline epatriota, in “La Martinella di Milano”, 8 (1954), pp.849-850. Cfr. anche M. Ferragatta,Monsignor Luigi Biraghi fondatore delle Marcelline, Brescia 1979, pp. 55-56. Più in generalecfr. A. Marazza, Il clero lombardo nella rivoluzione del ‘48, Milano 1948; E. Passerind’Entrèves, Il clero lombardo dal 1848 al 1870, in AA. VV., Il movimento unitario nelle regionid’Italia, Bari 1962, pp. 44-61; G. P. Bognetti, Religione e vicende ecclesiastiche negli ultimi duesecoli, in Storia di Milano, vol. XVI, Milano 1962; N. Raponi, Chiesa locale e società nell’etàcontemporanea, in A. Caprioli – A. Rimoldi – L. Vaccaro (a cura di), Chiesa e società.Appunti per una storia delle diocesi lombarde, Brescia 1986, pp. 179-200.

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incaricata di regolare ogni questione che potesse insorgere con ilGoverno provvisorio.

2. Rosmini a Milano nel ‘48: riformismo religioso

L’eco delle Cinque Giornate e della liberazione di Milano suscitò unaforte impressione anche su Antonio Rosmini. Egli chiamò subito ireligiosi del suo Istituto a tenere un triduo di preghiere affinché Diocontinuasse a benedire l’Italia e dispose che si celebrassero solenniesequie in suffragio di coloro che erano caduti in combattimento25.

Il 3 aprile si recò a Milano e vi rimase fino ai primi giorni di maggio:rivide gli amici, ebbe rapporti sia con Romilli sia con Casati, si adoperòa favore dell’unione della Lombardia col Piemonte albertino. A Milanopresso Redaelli pubblicò La Costituzione secondo la giustizia sociale, a cuiaggiunse un’Appendice sull’unità d’Italia. L’operetta fu poi ripubblicata,sempre nel 1848, a Firenze, a Napoli, a San Vito al Tagliamento e ancoraa Milano, a puntate, sul giornale “Pio IX”. Il progetto costituzionalerosminiano non si apriva, come invece lo Statuto albertino – promulgatoil 25 marzo –, affermando che la religione cattolica era la religione delloStato. Nel Titolo I (Principii fondamentali dello Stato), dopo l’art. 2 chesanciva che “I diritti di natura e di ragione sono inviolabili per ogniuomo”, l’art. 3 affermava: “È guarentita la libertà d’azione alla ChiesaCattolica. La comunicazione diretta colla Santa Sede in materieecclesiastiche non può essere impedita: i concilii sono un diritto dellaChiesa: le elezioni de’ Vescovi si faranno a clero e popolo secondol’antica disciplina, riservata la conferma al Sommo Pontefice”26. Rosminichiariva così il significato di questo articolo:

È conosciuto da tutti i legislatori, la Religione essere il primo fondamento degliStati.Le Costituzioni adottate fin qui in Italia dichiarano Religione dello Stato, laCattolica. Ma questa frase «Religione dello Stato» non esprime un concetto

25 [G. B. Pagani] – G. Rossi, Vita di Antonio Rosmini, vol.II, Rovereto 1959, p. 163.26 A. Rosmini, La Costituzione secondo la giustizia sociale, in Id., Scritti politici, a cura di U.Muratore, Stresa 1997, p. 53.

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preciso: il gruppo de’ diritti politici che fu attribuito con essa ai cittadini cattoliciandò variando secondo i tempi. […]La legge fondamentale vuole esser priva di equivoci e di espressioni vaghe edimproprie.Giova dunque lasciare al potere legislativo il determinare in appresso lacondizione civile e politica degli altri culti secondo le condizioni e le circostanzedei tempi, anziché stabilire nella Costituzione stessa, che vuol essere stabile eperpetua una massima indeterminata, o, se determinata, una massima che sidovesse in progresso modificare con iscapito dell’autorità e fermezza della stessalegge fondamentale.Pure, se non pare conveniente dichiarare nello Statuto che la Cattolica è lareligione dello Stato, egli è nondimeno mestieri, riconoscere con esso l’Italia peruna nazione cattolica, giacché gli acattolici vi si trovano come un’eccezione, comeuna frazione minima. Ora una nazione cattolica, coerente alla sua fede, è uopoche la munisca di guarentigie e ne mantenga inviolata la libertà come il piùprezioso dei beni.La Religione cattolica non ha bisogno di protezione dinastiche, ma di libertà: habisogno che sia protetta la sua libertà e non altro. Il più grande degli assurdi si èche in un popolo libero sia schiava la religione ch’egli professa. […]L’Italia, la religiosa Italia, chiamata ora da Dio alla libertà, ha la missione altresìdi divenire la liberatrice del cattolicismo dalla infame servitù, nella quale gemetteoppresso finora27.

Rosmini, dunque, prefigurava un sistema costituzionale nonconfessionale ma che riconosceva espressamente la libertà della Chiesacattolica: senza ‘religioni di Stato’ si rendeva altresì più semplicel’esercizio pieno della libertà di coscienza28. Egli sottolineava inoltrel’importanza dei concili, anche dal punto di vista della libertà ecclesiale:

27 Ibid., pp. 70-71.28 Rosmini portava un esempio chiarificatore: “Lo Statuto toscano ammette gli acattolicia tutti gl’impieghi civili e militari e però appena s’intende più che cosa voglia dire ladichiarazione che la religione cattolica è la sola Religione dello Stato. In un tale Statutoad ogni modo sarebbe stato conveniente aggiungere, che nelle feste religiose che celebrala nazione, essa non potrà essere rappresentata da impiegati acattolici. Che un impiegatoebreo a cagion d’esempio intervenga ad una messa ad un Te Deum non è solamentesconveniente e immorale, ma è una derisione delle religiose credenze, una prostituzionedelle coscienze autorizzata, comandata dalla legge” (ibid., p. 70). Negli appuntipredisposti per la seconda edizione dell’opera (che non pubblicò per la sopraggiuntamessa all’Indice), Rosmini continuava: “meno male sarebbe che la nazione si facesserappresentare da delle statue. La libertà della coscienza deve essere inviolabile: non si

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La Chiesa non è libera, se i Vescovi non possono unirsi, secondo ch’essi locredono opportuno, in concilii […]. L’episcopato è uno, partecipato da moltiVescovi, de’ quali è primo il Romano Pontefice, successore di san Pietro. LaChiesa dee essere governata da essi in unione: la discussione de’ Vescovi fra lorocirca tutto ciò che può interessare il buon governo della Chiesa, e sempred’accordo col Sommo Pontefice, è necessaria: l’uniformità deve essere il caratteredel governo ecclesiastico. Fino dai primi tempi la Chiesa si governò a questomodo: ella fiorì fino a tanto che il dispotismo non frappose ostacolo ai concilii[…]. È già tempo che anche questi ferri della tirannia cadano spezzati dalle manie dai piedi dei Pastori della Chiesa. Senza ciò non vi ha libertà vera per l’Italia,per le nazioni29.

Ritornavano i temi delle Cinque Piaghe, quali la necessità dell’unionedell’episcopato e l’accento sulla collegialità e la sinodalità. Ma ancor piùevidente era il rimando all’altra operetta rosminiana nell’accennoall’elezione dei vescovi a clero e popolo. Ma nella Costituzione secondo lagiustizia sociale questo aspetto era significativamente collegato allapossibilità di “una nazionale educazione”. Rosmini infatti affermava:

Solo i Vescovi eletti dal clero e dal popolo possono dirsi Vescovi nazionali: soloessi possono sentire la necessità di dare al loro clero e al loro popolo unanazionale educazione: uniti col clero da cui sono eletti, uniti col popolo da cuisono usciti e a cui hanno dato, da cui hanno ricevuto pegni di confidenza e distima, essi costituiscono i più forti vincoli che legano insieme la nazione e chestringono in nodo di religioso affetto il popolo col suo governo; a questo non

deve dunque far violenza alla coscienza d’un impiegato ebreo, il quale, se è vero ebreo,dee sentire un’assoluta ripugnanza ad associarsi agli atti del culto cattolico.Medesimamente non si dee far violenza alla coscienza de’ culti cattolici, i quali nonpossono senza peccato ammettere agli atti del loro culto gli acattolici. Non si dà libertàdi coscienza, se non si permette a tutti di esercitare le leggi della propria religione intutta la loro estensione. L’obbligarli ad infrangerle colla forza, colle leggi, con atti delgoverno è intolleranza, è persecuzione, è dispotismo” (ibid., purtroppo l’edizione piùrecente, curata da Muratore e dalla quale citiamo, non distingue tra il testo originario ele aggiunte predisposte successivamente, per avere tale indicazione occorre rifarsiancora alla vecchia edizione, a cura di Carlo Gray, in: A. Rosmini, Progetti di costituzione.Saggi editi e inediti sullo Stato, Milano 1952).29 Ibid., [ediz. Muratore], p. 73.

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sono schiavi, perché da lui nulla hanno ricevuto, non sono avversi perché ilgoverno nulla ha usurpato30.

Nel Titolo III (Diritto dei cittadini) del progetto costituzionalerosminiano, si riconoscevano, tra l’altro, la libertà personale el’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini, la libertà di associazione31, lalibertà di stampa e all’art. 39 si affermava: “La libertà dell’insegnamentoè guarentita. Vi saranno leggi che la regolino e che ne reprimano gliabusi”. Rosmini così lo commentava:

È un diritto prezioso della natura umana che chi sa possa altrui insegnare senzaincontrare proibizioni, intoppi, moleste formalità dalla parte del Governo,giacché gli impiegati del Governo in punto di verità e di scienza non hanno alcuntitolo che li privilegi sopra gli altri cittadini, e l’autorità civile è incompetente intali materie, dove altro non vale che la pura ragione, e per le cose divine ilmagistero della Chiesa.

30 Ibid., p. 77.31 L’articolo recitava: “Tutti i cittadini possono formare fra loro associazioni, purché nonsecrete: ma dietro sentenza del Tribunale politico, che dichiari la società immorale, oirreligiosa, o contraria al presente Statuto, ovvero dichiari, dopo regolare processo,l’abuso che di essa fanno i suoi membri a fine immorale, irreligioso, o per violare le leggidello Stato, ella è disciolta” (ibid., p. 55). Nelle note esplicative predisposte per la sendaedizione, Rosmini – tra molti rimandi alla sua Filosofia del Diritto – affermava: “Unasocietà che ha un fine irreligioso, per ciò stesso ha un fine immorale. Ora qui non èquestione delle opinioni o credenze individuali: queste sono libere dinanzi alla leggecivile, e non costituiscono l’oggetto di una società. Se si avesse un cittadino che noncredesse alla esistenza dell’essere supremo, e quindi non professasse alcuna religione,questi non potrebbe esser punito a questo titolo dalla società civile. Ma se si formasseuna società per propagare l’ateismo, e quindi per distruggere la Religione professatadagli altri cittadini: questa società dovrebbe essere soppressa dal Governo, come quellache insidierebbe al più prezioso diritto degli altri cittadini, qual è quello della suaReligione” (ibid., p. 151). In altri termini Rosmini negava il diritto di esistenza alleassociazioni che avessero per fine la negazione dei diritti riconosciuti dalla Costituzione.Vi era tuttavia una certa ambiguità nella formulazione (in un testo che però, come si èdetto, Rosmini non pubblicò e che forse avrebbe voluto ancora rivedere): non si vedeinfatti perché la negazione dell’ateismo ‘di Stato’ (negatore, a sua volta, della libertà dicoscienza) dovesse comportare la negazione di associazioni ‘private’ propagatricidell’ateismo.

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Oltre di che è cosa confermata da indubitabile esperienza, che il Governo colpretesto di dirigere l’istruzione, se ne riserba il monopolio e fa dell’istruzionestessa usurpatasi un mezzo di sottilissimo dispotismo.La concorrenza, e in conseguenza di essa l’opinione pubblica cioè la ragionecollettiva, che è la vera regina degli Stati costituzionali, fa giustizia sufficiente almerito degli insegnatori.È nondimeno necessaria una vigilante e forte legge repressiva che puniscal’abuso di sì prezioso diritto32.

Sempre in quel periodo, Rosmini stese pure – forse anche tenendoconto delle osservazioni che gli venivano da Manzoni, Pestalozza,Padulli e dagli altri amici milanesi – un programma di politicaecclesiastica, in otto punti, da sottoporre al Governo provvisorio. Ilconcetto fondamentale era che “la gratitudine dell’Italia a Dio che la fecerisorgere all’indipendenza e alla libertà esige che l’Italia risortarestituisca la sua inalienabile libertà alla Chiesa cattolica oppressa eviolata in tutti i suoi diritti”. Il programma stabiliva dunque larestaurazione delle elezioni canoniche dei vescovi a clero e popolo –tema che, come si è visto, era presente sia nel suo progetto costituzionalesia nelle Cinque Piaghe ma che sarebbe stato presto argomento dipolemica – come pure il diritto di associazione per fini ecclesiastici,religiosi o caritativi. E concludeva: “Proclamando questi principii ilGoverno provvisorio fa un atto di giustizia e di religione, e insiemecementa l’unità d’Italia. La Chiesa degli Ambrogi e dei Carli Borromeirisplenderà di una gloria immortale, se i figliuoli magnanimi di leisaranno i primi a innalzare il vessillo delle ecclesiastiche libertà”33.

Al Romilli o alla “Commissione per gli affari della Chiesa”, Rosminiindirizzava invece un ampio scritto in cui si delineava una ‘riforma dellaChiesa diocesana’, con una serie di indicazioni che andavano nel senso,si potrebbe dire, di una modernizzazione ecclesiale34. Questo testo valetto parallelamente ad un altro appunto rosminiano, probabilmente

32 Ibid., p. 161.33 [Pagani]- Rossi, Vita di Antonio Rosmini, II, cit., pp.163-164; Traniello, Società religiosa esocietà civile..., cit., pp. 293-294.34 Questo testo è utilizzato in [Pagani] – Rossi, Vita..., cit., vol.II, p.163. È stato poistudiato da Traniello che ne cita alcuni passi significativi (Traniello, Società religiosa esocietà civile..., cit., pp. 294-296). In appendice ne pubblichiamo il testo integrale.

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coevo, intitolato “Riforme ecclesiastiche” e riferito alla Chiesauniversale35. Rosmini partiva dal “principio, che il governo della Chiesa,quale lo esigono i nostri tempi e le nuove forme dello Stato correlative,debba essere collegiale piuttosto che individuale”. Per questo eglisuggeriva, a livello diocesano, una sorta di ‘sistema bicamerale’: da unaparte “il Capitolo della Cattedrale [che] è il Senato indivisibiledell’Arcivescovo”; dall’altra una Consulta di ventiquattro membri conlo scopo di “discutere e fissare le massime del governo ecclesiastico, etutte quelle viste generali, che si rendono tanto necessarie ne’ tempimoderni per difendere i diritti della Chiesa, mantenere la dignità el’attività dell’ecclesiastico ministero, riformare gli abusi, conservare ledebite relazioni col Governo e col popolo, e illuminare l’uno e l’altrocolla sapienza evangelica”. Analogamente, sul piano della Chiesauniversale, egli proponeva, da una parte, un rafforzamento delCardinalato (raddoppio del numero, migliore selezione dei candidatialla porpora, reale internazionalizzazione del Collegio cardinalizio),dall’altra una ripresa dei Concilii provinciali.

Rosmini insisteva poi sulla necessità di riformare ogni abuso,riformare gli studi ecclesiastici, promuovere l’unione del clero colpopolo e del clero “fra di sé”, restaurare le antiche elezioni canonichedei vescovi a clero e popolo, difendere le proprietà ecclesiastiche dalleusurpazioni del potere temporale “in modo però da congiungere questadifesa con un magnanimo disinteresse e con atti di generosità a favorede’ bisogni del popolo e della patria”. Erano i temi delle Cinque piaghe einfatti Rosmini concludeva il suo scritto invitando l’ordinario diocesanoa stendere frequenti indirizzi al popolo per interessarlo “de’ beni e de’mali della Chiesa”36. Del resto l’importante operetta rosminiana DelleCinque Piaghe della Santa Chiesa vide la luce giusto qualche giorno dopoche il Roveretano ebbe lasciato Milano.

35 Il manoscritto originale è andato probabilmente perduto, ne rimane però una copiadovuta a G. Bozzetti: ASIC, A,2 – 54/B, f. 41. Il documento era già stato segnalato estudiato da Traniello (in Società religiosa e società civile..., pp. 320-321), che ne ha rilevatola “straordinaria unità d’ispirazione” con le proposte riformatrici per la Chiesa diMilano.36 Il corsivo è mio.

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Rosmini comunque continuò a seguire le vicende ambrosiane, ancheattraverso le notizie che gli davano gli amici. Il 21 maggio Pestalozza gliscriveva: “Ieri ho ricevuto per posta due copie delle Cinque Piaghe; unal’ho fatta presentare subito all’Arcivescovo [...]. L’arcivescovo mi famolti ringraziamenti del dono. Quanto alla Commissione per gli affaridella Chiesa, credo che finora non abbia avuto occasione né di dolor ditesta né di quello di gola”37. Qualche giorno dopo, il 24 maggio, Rosminida Stresa scriveva a Romilli: “Quanto non sarebbe grato alla Lombardiavedere il suo Arcivescovo prendere tanto interesse della sua felicità!Quanto non potrebbe forse giovare questo suo passo alla santaChiesa!”38. Successivamente Rosmini richiedeva ancora al Pestalozzainformazioni sull’attività della “Commissione per gli affari dellaChiesa” e l’amico gli rispondeva il 24 giugno da Milano: “Chiede Ellache cosa faccia la Commissione eletta da sua Eccellenza? Non si sa seesista e forse essa stessa ha dimenticato la propria esistenza”39.

Gli scritti rosminiani sopra ricordati parlavano di “riformeecclesiastiche” e dunque ricorreva spesso il verbo “riformare”: una solavolta tuttavia esso si accompagnava all’avverbio “radicalmente”. Era nelcaso degli ordini religiosi, anzi dell’”ordine religioso”. Nel più ampioabbozzo, dedicato alla Chiesa di Milano, Rosmini invitava l’arcivescovoa “provvedere ad una perfetta armonia ed unione anche del Clerosecolare col regolare, e proteggere anche quest’ultimo a bene dellaChiesa”. Nell’appunto sulle “riforme ecclesiastiche” indicava invece lanecessità di “Riformare radicalmente l’ordine religioso. Abolire quelliche non hanno più lo scopo pel quale furono istituiti. – I. Ordini dipubblica povertà e penitenza – mendicanti (veri). II. Ordinicontemplativi. III. Ordini attivi, che hanno uno scopo tuttora esistente dicarità”. Evidentemente per Rosmini si dovevano abolire i ‘falsi’mendicanti, cioè quegli ordini religiosi mendicanti che non erano piùveramente poveri, e quegli ordini attivi che non svolgessero più unautentico apostolato caritativo. In sostanza tutti coloro che avessero, percosì dire, tralignato dalle proprie regole originarie e non mirassero piùallo scopo per il quale furono istituiti. La ‘modernizzazione’ proposta da 37 Radice, Antonio Rosmini e il clero ambrosiano, cit., vol.I, pp. 256-257.38 Cit. in [Pagani] – Rossi, Vita..., cit, vol.II, p. 163.39 Radice, Antonio Rosmini e il clero ambrosiano, cit., vol.I, p. 269.

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Rosmini non mirava dunque ad accorpamenti o razionalizzazioniastratte e, meno ancora, a sopprimere gli ordini presunti inutili. Sitrattava invece di perseguire gli abusi e di esigere coerenza evangelica efedeltà al carisma d’origine: in questo modo si sarebbe corrisposto, inmodo veramente adeguato, all’”esigenza dei tempi”, cioè dei “tempimoderni”, e si sarebbe evitato di diventare anacronistici proprio con ilmantenere uno spirito di continua emendazione e riforma.

Era questo del resto quanto Rosmini immaginava in un altro appunto– intitolato “Memoriale” – non datato ma collocabile nel periodo che vadalla gestazione dell’Istituto della Carità agli anni della stesura delleCinque Piaghe40. Già nel 1824 egli aveva annotato:

La legge del corso della Religione nostra cominciando da Gesù Cristo è questa:Gesù Cristo fu solo forma o solo spirito. Dopo Gesù la religione si compone diforma e di materia. Quanto più cresce il mondo, tanto più cresce la materia, ovvero(che è il medesimo) più relazioni estrinseche, cioè amministrazione di cose umaneentra nella storia. Quanto più è materia nella religione cioè potenza, scienza, vitainsomma di questa terra tanto più è difficile la santificazione. Ma quanto è piùdifficile la santificazione tanto più la Chiesa di Dio (forma) si metterà conimpegno, cioè farà sforzi per santificarsi41.

E probabilmente uno di questi “sforzi” era quello che egli delineavanel “Memoriale”. Nei primi tre punti di questo scritto, Rosminiosservava:

1.Quanto più una società qualunque s’estende in superficie, tanto più s’attenuanell’unità del suo spirito e fervore. 2. Quanto più una società qualunque siallontana dalla sua origine, tanto più si illanguidisce e perde la propria imagine.3. Quanto più i membri [di un ordine religioso] fanno per abito le cose, quanto piùle fanno per legge, quanto più le fanno meccanicamente cioè pensando colla testad’altri tanto più si raffredda lo spirito della società [religiosa].

Egli pertanto proponeva di “stabilire un corpo di Riformatori [...] iquali non abbiano altro a fare che star sempre attenti

40 Questo scritto è stato studiato e parzialmente edito da Clemente Riva (in “Studium”,1971). In appendice ne pubblichiamo il testo integrale.41 A. Rosmini, Appunti per una storia dell’Umanità, in “Memorie dell’Accademia delleScienze di Torino”, s.III, t.4 (1957), parte II, p.46.

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sull’inlanguidimenti della società, e deviazione dalla prima forma”. Nonè chiarissimo – e forse non lo era neppure nella mente di Rosmini – setale corpo si dovesse istituire all’interno di ogni ordine religioso o sefosse piuttosto una società religiosa a sé stante.

Tuttavia è evidente che tale esigenza di “riforma” della vita religiosaritornasse con forza nel 1848, quando – come il Roveretano scrivevanell’abbozzo per la Chiesa ambrosiana – gli “affari ecclesiastici [...]vanno necessariamente moltiplicandosi quanto più il popolo prendeparte al civile governo”. Quanta più “materia” entra nella Chiesa tantopiù c’è bisogno di santificazione e spirito di continua riforma.

In questa sua visione riformatrice, Rosmini non si ricollegava aistanze giansenistiche o giuseppiniste – che egli aveva sempreavversato: basti solo ricordare quanto si dice, negli scritti citati, sulladisciplina relativa al matrimonio – ma al più antico e più puro filonedella Riforma cattolica. Egli era, com’è noto, molto intimo dei maggioricamaldolesi dell’Ottocento ed è quindi molto probabile, anche per i suoiinteressi di storia della Chiesa e degli ordini religiosi, che egliconoscesse i settecenteschi Annales Camaldulenses. Nel IX volume di taliAnnales, pubblicato nel 1773, era compreso il memoriale dei due monacicamaldolesi veneziani – Paolo Giustiniani e Pietro Quirini – rivolto aLeone X: si tratta del famoso Libellus ad Leonem X. In esso si insistevasulla “ecclesiastica libertas”, sulla riforma degli studi ecclesiastici, sulla“frequens conciliorum celebratio” (inclusi i Concilii provinciali).Un’ampia parte era poi dedicata alla riforma dei religiosi, per eliminarei numerosi abusi e per ritornare “ad sanctam...antiquam institutionem”,anche sopprimendo alcune società religiose42.

3. Libertà della società civile e libertà della Chiesa

Nella polemica tra Gioberti e i gesuiti, che andava ormaiintrecciandosi – nel 1848 – con gli inizi dell’opera di laicizzazione e dimodernizzazione dello Stato Sardo (un’opera che, come già si è visto,sarebbe proseguita negli anni successivi), la posizione di Rosmini 42 Cfr. S. Tramontin, Un programma di riforma della Chiesa per il Concilio Lateranense V: ilLibellus ad Leonem X dei veneziani Paolo Giustiniani e Pietro Quirini, in AA.VV., Venezia e iConcili, Venezia 1962, pp. 67-93.

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rappresentava, in qualche modo, la linea del juste milieu. Si potrebbedire che nel suo pensiero, comunque autonomo e originale, siscomponessero l’errore e la verità dei gesuiti e l’errore e la verità diGioberti, trovando combinazioni nuove secondo una “chimica delleopinioni”, per usare un’espressione rosminiana43.

Espressivi delle posizioni rosminiane furono gli articoli che ilRoveretano pubblicò, fra il 1 luglio e il 5 agosto 1848, sulperiodico”Risorgimento”. Egli era stato inizialmente “incerto sulla sceltadel giornale” – come scrisse l’8 maggio a Pestalozza – sul qualestampare brevi interventi di carattere politico: la decisione finale apparemolto significativa. Il “Risorgimento” infatti era il periodico fondato neldicembre 1847 e diretto da Camillo Benso di Cavour con un indirizzochiaramente liberale. Rosmini lo stimava per la serietà e il livelloculturale e chiese all’amico Gustavo di Cavour, fratello di Camillo, difarsi portavoce di questa sua proposta. Camillo, per parte sua, pubblicògli articoli, introducendo il primo con una nota redazionale chemanifestava grande apprezzamento per “l’illustre filosofo A. Rosmini,una delle glorie intellettuali d’Italia”, pur non mancando di avvertireonestamente come “possa avvenire che le nostre dottrine differiscano inqualche punto da quelle dell’illustre autore”. Il primo articolo, dunque,si apriva con queste parole: “Dopo lunghi secoli di espiazione l’Italia èribenedetta dalla Provvidenza: chiamata da quel Dio che non l’ha maidimenticata nei suoi giusti rigori, ella si è svegliata, e con una mano giàdiscaccia l’antico oppressore, coll’altra sta per iscrivere la legge, sotto laquale ella viva ordinata e pacifica della vita delle nazioni”44.

L’obiettivo polemico di Rosmini era sempre il dispotismo, sia “quellodi Napoleone, quello di Federico, di Giuseppe II e di Caterina diRussia”, sia quello che – citando Tocqueville – chiamava “il dispotismodelle maggioranze”: il dispotismo, storicamente proteiforme, non soloera sempre tirannico e illiberale, ma soprattutto faceva sì che i poteripolitici “rimanessero divinizzati in mezzo del mondo, come idoli a cuitutti dovessero piegare le ginocchia”45. Era in fondo questa indebita

43 A. Rosmini, Psicologia, a cura di V. Sala, vol. I, Roma 1988, p. 191.44 Id., La Costituente nel Regno dell’Alta Italia, in Id., Scritti politici, cit., p. 273.45 Ibid., pp. 309, 313, 316.

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sacralizzazione del potere alla radice dei contrasti recenti tra le libertàcivili e il clero cattolico. L’11 luglio Rosmini scriveva:

Fra le classi, che si mostrarono più esitanti e più difficili a dare la loro confidenzaai politici rivolgimenti, vi fu il clero. Direte voi che il clero non ama la libertà, nonama l’uguaglianza de’ cittadini? Inganno, inganno manifestissimo: non vi hanessuno che l’ami di più, nessuno che la possa amare di più. La libertà el’uguaglianza è ciò che costituisce l’essenza del clero e della Chiesa cattolica: lesue parole sono sempre e non possono essere altro che di libertà e d’uguaglianza:questa è la materia continua ed unica della sua predicazione; non ne ha maiavuto, e non ne può avere un’altra: il fare altramente sarebbe pel clero unabdicare se medesimo: non sarebbe più clero cattolico, perché non predicherebbepiù il Vangelo: egli è clero pel Vangelo, e il Vangelo è la libertà e l’uguaglianza.Ma perché dunque il clero si mostrò in parte contrario a quanto fece larivoluzione francese, e talora anco alle forme governative nate da essa? – Sapeteperché? Volete che ve ne dica la vera ragione? Appunto perché il clero ama edamò sempre la libertà e l’uguaglianza46.

Durante la Rivoluzione francese si era verificata, secondo Rosmini,una contraffazione e una falsificazione delle libertà, proclamateteoricamente nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino madisconosciute e violate nella prassi “volteriana”. Il clero dunque siopponeva alle contraffazioni ma “appoggiò sempre le sue rimostranze aquanto era scritto nella dichiarazione, ne domandava unicamentel’adempimento”47. Rosmini, pertanto, concludeva:

Il dissenso adunque fra il clero cattolico e la rivoluzione francese fu profondo; lalotta fu inconciliabile: ma questo dissenso, questa lotta non consisteva in altro senon in questo, che il clero voleva che la libertà e l’uguaglianza e gli altri diritti

46 Ibid., pp. 289-290.47 Ibid., p. 293. Scriveva Rosmini: “La più bella cosa della rivoluzione fu l’imitazionedegli Americani, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, benché imperfetta. Ilclero era d’opinione, che non bastava che fosse scritta; domandava che divenisse unfatto. L’Assemblea colle sue operazioni la violava, contenta d’averla scritta. […] Ladichiarazione garentiva il diritto naturale di associazione: il clero voleva l’adempimentodi questo diritto. L’Assemblea non la intendeva così: sciolse i claustrali, dichiarò di nonriconoscere i voti religiosi: prese tutti i loro beni. Il clero voleva la libertà vera, i membridell’Assemblea la volevano soltanto scritta: non potevano andar d’accordo: ma chil’amava di più?” (ibid., p. 292).

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proclamati passassero dalla carta nella realtà, ritenendo che altramente sarebberostati una pura menzogna; e per lo contrario la rivoluzione si riserbava il pieno edassoluto potere di violare tutti quei diritti, facendo consistere il suo liberalismonell’averli filosoficamente consegnati ad una carta, e promesso al popolo chesarebbero mantenuti. […]In Italia non sarà così, io spero. A misura che la dottrina della libertà edell’uguaglianza sociale si andò accostando alla verità e cessò d’essere unamaschera di partiti, anche il clero si andò sempre più ravvicinando, o per dirmeglio, si trovò più vicino ai promotori di quelle. Allora quando questi darannoprove indubitabili della loro sincerità, quando le opere mostreranno che si cercauna libertà e un’uguaglianza di fatto, in tutta l’estensione della parola, per tutti icittadini ugualmente, senza cavilli, senza fini secondarii; quando si darà a tutti ilsuo, tutti i diritti saranno riconosciuti, le coscienze rispettate, allora il clero, tuttoil clero senza eccezione alcuna sarà non solo l’amico, ma il più degno apostolodella libertà e dell’uguaglianza, quale egli è della verità e della giustizia per suaistituzione e natura. Perocché, a dirlo di nuovo, il clero cattolico esiste a questosolo titolo48.

Rosmini si poneva dunque, da una parte, come portavoce di tutto ilclero e non di una sola fazione di esso (il clero ‘liberale’), chiedevalibertà per la Chiesa e per il clero – libertà di coscienza, libertà diassociazione, libertà di fare il bene nelle forme dell’apostolato49, libertàdi continuare ad essere se stessi – ma, dall’altra parte, egli aveva comefine quello di togliere ogni motivo di opposizione tra il regime liberalecostituzionale e tutto il clero. Affermava infatti:

48 Ibid., pp. 293-295.49 Il 20 luglio Rosmini avrebbe scritto: “Egli [Gesù Cristo] ha istituito la Chiesa e l’haincaricata di prestar soccorso a tutte le umane miserie. I Governi non avrebbero a faraltro che riconoscere pienamente questa verità, e di conseguente lasciare libera la Chiesanella sua azione, libera ne’ suoi istituti, libera nell’esercizio della sua sapienza: nonavrebbero che a trattare il clero cattolico con sincera benevolenza, a compatirlo,incoraggiarlo, coadiuvarlo, senza pretendere che ogni opera benefica intrapresa dalclero secolare o dagli ordini religiosi riesca perfetta o senza difetto fino dal primoistante, sapendo anche apprezzarne l’effetto complessivo, sapendo valutare lo spirito dicarità che il clero è atto a diffondere in tutti i privati cittadini, quando egli non siacavillosamente e astiosamente contrariato, inasprito, minacciato, costretto a spendere indifesa propria o in difesa del bene che fa, quella attività e quelle forze che pur vorrebbeimpiegare in una più ampia carità” (ibid., p. 307).

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Volete dunque far cessare all’istante ogni qualsiasi apparente opposizione delclero cattolico alla causa della libertà e dell’uguaglianza? La cosa è facilissima, lapiù facile del mondo: basta solo che voi facciate queste due cose:Primo, che definiate bene la libertà e l’uguaglianza, in modo che non resti piùdubbio che voi parliate d’una vera libertà e d’una vera uguaglianza, d’una veralibertà per tutti e d’una vera uguaglianza per tutti;Secondo, che troviate delle forme sociali che realmente guarentiscono i diritti ditutti, acciocché la vera libertà e la vera uguaglianza possa realizzarsi nella società.Con queste due operazioni rimane d’un tratto annullata ogni opposizione dallaparte del clero […]. Il clero per essere vostro amico non ha da mutare i suoisentimenti: voi non lo renderete già amico della libertà e dell’uguaglianza, ma lotroverete tale, perché tale è di sua natura. Non sarà il clero che avrà mutato,sarete voi che vi sarete spiegati meglio, che avrete operato con più coerenzaallevostre massime, avrete trovato o almeno avrete cercato sinceramente di trovareciò che fin qui non avete certo trovato, cioè tali forme governative che riducanoad una verità la libertà e l’uguaglianza. Allora la libertà sarà divenuta sincera,sincera l’uguaglianza, e questo appunto è quello che vuole il clero50.

Dopo aver pubblicato dodici articoli, Rosmini interruppe la suacollaborazione al periodico cavouriano perché il 31 luglio il governosubalpino gli affidò l’incarico di negoziare l’accordo col papa. Era,com’è noto, la “missione a Roma” che si concluse infelicemente51.

La posizione personale di Rosmini era comunque condivisa daireligiosi del suo Istituto, come Francesco Paoli o Francesco Puecher,oltre che dai suoi amici ed estimatori e da alcuni periodici, come “Fede ePatria”, che fu pubblicato nel 1848-49 nella diocesi di Casale – retta daNazari di Calabiana, futuro arcivescovo di Milano – sotto la direzionedel canonico Giuseppe Gatti52 e che nel 1848 pubblicò, a puntate, LaCostituzione secondo la giustizia sociale.

Sul settimanale casalese scrisse anche Rosmini sia pubblicando trelettere esplicative delle Cinque piaghe per quanto concerneva le elezionidei vescovi a clero e popolo, sia – con due articoli apparsi anonimi mache riassumevano le argomentazioni esposte nella Filosofia del diritto enella Filosofia della politica – parlando dei beni ecclesiastici e delle

50 Ibid., pp. 290-291.51 Cfr. A. Rosmini, Della Missione a Roma di Antonio Rosmini-Serbati negli anni 1848-49.Commentario, a cura di L. Malusa, Stresa 1998.52 Su “Fede e Patria” cfr. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista, cit., pp. 156-168.

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corporazioni religiose53. Su quest’ultimo tema, tuttavia, fu soprattuttoPuecher a intervenire con maggior ampiezza, pubblicando – da luglio1848 a gennaio 1849 – una serie di articoli o meglio un lungo saggio inpiù puntate54, poi raccolte appunto in volume unico55.

L’esordio dello scritto del Puecher era una chiara manifestazione diideali neoguelfi: “Allorché – egli scriveva – questa sacra terra d’Italiaalla voce amorosa, e al cenno possente di Pio si risvegliava dal suosecolare letargo come un forte inebbriato, e congiunte le menti, i petti ele braccia de’ suoi figli sollevati come un sol uomo dall’Alpi al Faro,gittava nel mezzo del mondo attonito il grido d’indipendenza; balenòagli occhi di tutti i buoni e veri cattolici un raggio della più lietasperanza”56. Citava poi il Primato di Gioberti per affermare che chivoleva essere un buon italiano doveva essere un buon cattolico, masosteneva pure che “doveva essere naturale ai buoni e sinceri italiani disperare nelle rimutate sorti, e nella sorgente indipendenza d’Italia,eziandio una più felice condizione ed emancipazione della ChiesaCattolica”57. Ecco perché era necessario impegnarsi affinché “collasocietà civile anche la ecclesiastica uscisse dalle dure pastoie e rompessele ignominiose catene, onde una satanica politica era pur riuscita adavvolgere entrambe, e rapir loro le libertà più preziose”58.

53 Corrispondenza sui beni ecclesiastici, in “Fede e Patria”, n.4 (26 maggio 1848); Beniecclesiastici e corporazioni religiose, in “Fede e Patria”, n.10 (7 luglio 1848).54 F. Puecher, La libertà e le ragioni della Chiesa, in “Fede e Patria”, n.13 (28 luglio 1848),pp.100-103; n.14 (11 agosto 1848), pp.113-115; n.18 (1 settembre 1848), pp. 141-143; n.20(15 settembre 1848), pp. 153-155; n.21 (22 settembre 1848), pp. 170-171; n.22 (29settembre 1848), pp. 173-174; n.24 (13 ottobre 1848), pp.197-199; n.25 (20 ottobre 1848),pp. 203-205; n.26 (27 ottobre 1848), pp. 208-209; n.28 (10 novembre 1848), pp.225-228;n.29 (17 novembre 1848), pp. 233-236; n.32 (8 dicembre 1848), pp. 258-262.55 Id., Il diritto di associazione applicato agli ordini religiosi, Casale 1849. L’introduzione(Preponimento: pp. 3-6) era datata: Stresa, 2 gennaio 1849.56 Ibid., p.7.57 Ibid., p.118.58 Ibid., p.9. E continuava osservando: “Persuadiamoci una volta che mal provvederemoalla libertà e alla gloria della patria nostra se invece di proclamare e promuoverealtamente la perfetta emancipazione della cattolica Chiesa, per legale grettezza, o perirreligiosa malizia, o per angustia di mente ci ostinassimo in questa stupendarigenerazione italica a trattare la Chiesa anziché con principi magnanimi e liberali, coidispotici pregiudizi, e con vani sofismi attinti alle vecchie e ignobili scuole Gallicana,

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La Rivoluzione nazionale era dunque per Puecher ancheun’occasione storica per rompere la “Babilonica schiavitù” della Chiesa.Ciò, a suo parere, avrebbe avuto un benefico effetto sul pianodell’evangelizzazione: “Perocché – affermava infatti – coloro, i quali nonavevano abbastanza vigorosa e penetrante la vista per discernerenettamente nella Chiesa l’opera di Dio da quella dell’uomo, l’elementoceleste dal terreno, e la faccia ingenua e bellissima di lei dalla turpemaschera che le si teneva violentemente sovrapposta: non fa meravigliache di essa si formassero una idea mostruosa, sino a crederlacospiratrice col dispotismo per asservire i popoli, e inconciliabile nellesue massime e instituzioni con quella giusta libertà che è il dirittoinalienabile di ogni individuo, di ogni nazione, della umanità tuttaquanta”59. Puecher indicava con efficacia la contraddizione di queiliberali anticlericali che criticavano il dispotismo asburgico per invocarepoi, sul piano del diritto ecclesiastico, i principi del giuseppinismo.Come potevano “certi pseudo-italiani declamare con tanto zelo contro latirannica politica dell’Austria [...] e poi andare a scuola e idolatrare lapolitica Giuseppina”?60. Costoro erano italiani anfibi, anzi “austro-italiani”.

Poiché ogni politica soppressiva verso gli ordini religiosi si erasempre, prevalentemente, fondata su un giudizio di inutilità dei religiosialla vita civile della società moderna, Puecher affrontava di petto questoproblema, partendo da quella che gli pareva una corretta definizione di“utilità dello stato civile”61: questa infatti doveva essere intesa tanto insenso materiale quanto però anche in senso morale e spirituale (edunque si doveva riconoscere una sua utilità pure alla preghiera62). Egli

Giansenistica, Volteriana, Machiavellica, Giuseppina” (pp. 11-12).59 Ibid., p.8.60 Ibid., p.13.61 Ibid., p.52.62 Egli scriveva: “O noi riguardiamo la preghiera a Dio come una superstizione e unaciancia: e allora noi saremo coerenti a noi stessi giudicando ridicola, oziosa e inutile persé e per altrui una società di uomini consecrata esclusivamente all’orazione. Ma in talcaso noi dovremmo rinunziare apertamente al cattolicismo, rinnegare il Vangelo ecancellare dall’animo nostro ogni pensiero dell’esistenza di Dio. Che se noi abborriamoda così orribili conseguenze, e vogliamo essere o almen parere cristiani, allora noisaremo costretti di avere o almeno mostrare di avere una opinione ben diversa, di coloro

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comunque negava che potessero esserci ordini religiosi totalmente“inutili”63. Non credeva neppure che si potesse riscontrare un progressomorale nel secolo XIX tale da far concludere all’inutilità oggettivadell’azione dei religiosi64. Né tale azione poteva essere surrogata dalfilantropismo laico come qualcuno sosteneva65: in realtà le analisi socio-economiche – da Malthus in avanti – non giustificavano alcunottimismo:

Forse – osservava Puecher – il numero dei miserabili è, o sarà mai così scarso darendere eccessivo quello de’ misericordiosi? O non vediamo noi anzi ogni dì piùsvilupparsi nuove sventure, e moltiplicarsi le miserie dei popoli con sìspaventevole sproporzione coi mezzi di soccorso, da minacciare una socialecatastrofe senza esempio? E questo fremito del popolo bisognoso e infelice non sifa forse sentire più orrendo colà, dove i religiosi sono o sbanditi, o impediti nelloro operare? Non temiamo adunque che abbondino soverchio gli uominiconsacrati alla carità. Sfoghino pure i laici liberissimamente tutta la loro attivitàfilantropica a consolazione e benefizio di questo infelice genere umano. Ma noninvidino, né impediscano che i religiosi alla loro volta prestino essi pure l’operapropria: se sono saggi e pietosi invece di escluderli, gli associno fraternamente ase stessi nella santissima impresa. Il campo della beneficenza è così sterminato, ele occasioni di soccorrere alla bisognosa, e afflitta umanità sono così continue einnumerevoli, che saria cosa ridicola, o piuttosto crudele l’arrogarsene ilmonopolio66.

che consecrassero la loro vita anche unicamente alla preghiera” (p.73).63 Si chiedeva Puecher: “O v’ha egli oggimai ordine religioso di maschi e di femmine,che oltre alla preghiera non coltivi più o meno le arti e le scienze, non eserciti laospitalità, non largheggi in elemosine ai poveri, non accorra al letto degli infermi, non sioccupi nella istruzione e nella educazione, non si condanni a farsi padre e fratello de’carcerati, degli orfani, dei pazzarelli, de’ sordi muti, e di ogni altro genere d’infelicianche più schifosi alla umana sensibilità?” (ibid., p. 66).64 Puecher affermava: “tirato il conto del bene e del male complessivo esistente nelsecolo nostro e nei trascorsi, se i nostri maggiori furon barbari e corrotti, noiconserviamo però non pochi né piccoli pegni della parentela che a loro ci stringe, [...] ilmondo cristiano del 1848 non può essere in sostanza gran fatto migliore del mondocristiano de’ secoli andati” (ibid., p.62).65 Ibid., pp. 76-77.66 Ibid., pp. 79-80.

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Gli ordini religiosi erano insomma, per il Puecher, artefici diuguaglianza67 e di affratellamento sociale68, esercitavano sulla societàuna benefica influenza morale69, potevano perfino essere visti comescuole di felicità70.

4. I religiosi nei processi di modernizzazione

La riflessione di Puecher non era solo una nuova e ben argomentatadifesa degli ordini religiosi: non era una modernizzazionedell’apologetica. Essa andava ben oltre: sulla scorta del pensierorosminiano, infatti, cercava di operare un ripensamento complessivo deiprocessi di modernizzazione e della nuova posizione che in essidovevano assumere i religiosi.

Il nodo centrale attorno al quale ruotava tutto lo scritto del religiosorosminiano era l’appofondimento del “diritto di associazione” comediritto liberale moderno fondato sul diritto naturale. Egli scriveva:

67 Scriveva Puecher: “Essendo gli Ordini religiosi asili aperti egualmente ai ricchi ed aipoveri, ai nobili e ai plebei, ai sapienti e agli idioti, ai principi e ai sudditi, chiara cosa èche essi divengono altrettante società, in cui nel modo più naturale e sincero si realizzaquella fraterna eguaglianza fra gli uomini, che fuori di esse non è per lo più che unavana chimera e un tremendo desiderio. Per la quale stupenda e prodigiosa fusione digente tanto fra sé diversa e disuguale pacificamente e santamente operata gli Ordinireligiosi si trasformano come a dire in altrettanti mezzi conduttori atti piucché mai aravvicinare ed equilibrare gli estremi contrari della umana società, cioè la sovranità e lasudditanza, il governo e i governati, la potenza e la debolezza, la nobiltà e la plebe, laricchezza e la povertà” (ibid., pp. 90-91).68 Secondo Puecher, “uno de’ più efficaci, e forse il più efficace rimedio contro a quei dueorrendi flagelli che minacciano oggidì piucchemai di sovvertire le fondamenta stessedelle umane società, cioè la insaziabile avarizia de’ ricchi, e il selvaggio comunismo de’poveri, sono gli Ordini religiosi [...]; possono impedire più efficacemente che non sipensi, l’urto e la lotta violenta e fratricida delle due parti” (ibid., p.92).69 Puecher indicava la “benefica ed efficace influenza degli Ordini religiosi sulla moralitàe quindi ancor sulla pace interiore prima de’ membri interni, e poi altresì de’ loroconcittadini esterni” (ibid., p. 85).70 Puecher vedeva negli Ordini religiosi “altrettanti centri, dai quali si diffonde in tuttala rimanente società una scuola, e un esempio del sublime segreto di viver felici con quelcomune vantaggio che è facile argomentare” (ibid., p. 88).

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Nulla è più naturale agli uomini che il raccogliersi in libere e regolate adunanzeper trattare a forze unite dei loro molteplici e scambievoli interessi e concertareinsieme dei mezzi più convenienti allo scopo di tutelarli, accrescerli e trarne lapropria felicità. [...] Laonde tutti i più celebri pubblicisti si accordanonell’insegnare, che il diritto d’associazione appartiene rigorosamente al dirittonaturale [...]. Non fa adunque maraviglia, se noi oggidì vediamo il diritto dilibera associazione generalmente ammesso dalle Costituzioni delle modernesocietà civili, e gelosamente reclamato dai popoli educati alla scuola della buonanovella. Vero è che un diritto così naturale e prezioso non si vede mai abbastanzaguarentito né precisato nelle Costituzioni di stampa francese [...]. Molta lodeperciò di civile prudenza e di sociale giustizia si è meritato il governo provvisoriodi Lombardia, il quale tra le condizioni richieste alla fusione colla Sardegna posepur quella della libertà di associamento71.

Il “diritto di associazione” si doveva applicare a tutte le differentiforme di ‘sociabilità’, vecchie e nuove: “le tante società di commercio, leaccademie letterarie, i congressi scientifici, i circoli o club politici, efinalmente le corporazioni religiose di mille guise”72. In altri termini “lesocietà religiose non sono che un caso, una realizzazione particolaredell’istinto umano e del diritto generale e sacro di associazione”. Illegislatore doveva essere imparziale, non fare differenze tra le varieforme di ‘sociabilità’, non discriminare le società religiose: “la parzialitànel caso concreto equivale ad ingiustizia, a dispotismo, a violazione deldiritto di società. I cittadini membri di questa specie di associazioniaventi uno scopo morale e religioso sarebbero privati arbitrariamentedell’esercizio di un diritto naturale, quello di associazione, sarebberomessi fuori dal gius comune, esclusi dall’uguaglianza in faccia alla leggeche garantisce a tutti la libertà di associamento; e quindi sarebberotrattati come una casta di schiavi, d’iloti, di parias”73. Non era necessarioche le società religiose, come pure tutte le altre società, fossero provateutili per lo Stato perché avessero diritto di esistenza: bastava che nonfossero malefiche o dannose74.

Su queste basi Puecher poteva controbbatere a quei parlamentarisubalpini, come G. Siotto Pintor, che sostenevano il pieno diritto dello

71 Ibid., pp. 23-25.72 Ibid., pp. 32-33.73 Ibid., p. 32.74 Ibid., pp. 28-29.

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Stato di sciogliere e sopprimere le corporazioni religiose: tale diritto erainvece, secondo il rosminiano, “un diritto chimerico, innaturale eincostituzionale, perché conculca i principii riguardanti il diritto diassociazione”75, esso contrastava infatti “coi principii più ineluttabili deldiritto non solo ecclesiastico, non solo civile, ma fin anco naturale”76.

Ma ciò che appare ancor più significativo è che Puecher si richiamavaall’esperienza anglosassone. E a chi, come il deputato subalpino Chenal,osservava che in America le corporazioni religiose non avevanoesistenza legale, egli rispondeva: “Non hanno una esistenza legale inforza di una legge particolare fatta ad hoc, lo concedo. Ma hanno peròuna esistenza legale generica, in quanto che quella nazioneclassicamente e sinceramente liberale, riconosce e proclama il diritto diassociazione, come un dritto naturale e costituzionale, pel cui esercizionon c’è bisogno domandare il permesso a nessuno, nemmeno algoverno, come pur troppo si esige dai nostri liberalissimi Signori, cheinterpretano quel diritto e tanti altri a loro modo”77. E rivolgendosidirettamente ai Parlamentari Sardi, Puecher aggiungeva: “ecco quelloche vi chiedono ed hanno diritto di chiedervi i cittadini membridegl’istituti religiosi in nome della libertà di coscienza, dellaemancipazione dei culti, della tolleranza religiosa, del diritto diassociazione, garantite, o almeno scritte nella costituzione dello Stato”78.

Quello che Puecher presentava era un vero processo dimodernizzazione – secondo il modello anglosassone79 – delle strutture

75 bid., p. 49.76 Ibid., p. 17.77 Ibid., pp. 45-46.78 Ibid., p. 46. Puecher faceva giustamente rilevare la contraddizione logicanell’argomentazione di Chenal: “ci fa sapere che quegli Stati [Uniti d’America], comeprotestanti, devono naturalmente ammettere fra di loro le società religiose dei cattolici,che il Piemonte all’opposto, come cattolico, non può naturalmente tollerare, anzi devecolla forza sopprimere e disperdere” (ibid., p.42).79 Dopo aver citato La società e il suo fine di Rosmini, Puecher continuava: “Questa e nonaltra si è pure l’influenza e l’autorità che accordano al governo riguardo al diritto diassociazione, eziandio religiosa, [...] le nazioni più sinceramente liberali, come sonol’Inghilterra e gli Stati Uniti. Colà ognuno ha diritto di formare qualsivoglia società discopo materiale o religioso, non importa: il governo non vi si intrommette per nulla, atutte egualmente accorda la protezione delle leggi e l’applicazione del diritto comune: la

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statali, all’interno del quale gli ordini religiosi avevano un posto benpreciso, anche se dovevano essere pronti a pagare dei costi cioè amodernizzarsi essi stessi nei loro rapporti con lo Stato. Rivolgendosiancora ai legislatori subalpini, a nome di tutti i religiosi, egli infatticoncedeva:

che vi ripigliate pure, se così vi aggrada, i beni che avete lor dati, che li priviatedell’alta vostra protezione, che sottoponiate i loro beni tutti ai diritti del fisco, cheaboliate tutte le leggi passate, presenti e future, con tutti i viglietti Regii pergiunta, che o concedono ai religiosi esenzioni, privilegi, immunità e simili,ovvero tolgono loro i diritti civili e politici; leggi che in illo tempore si fecero peronorare e proteggere le corporazioni religiose, e di cui ora vi valete perischiacciarle. Ma dopo ciò essi credono potervi altresì con qualche diritto edequità dimandare, che vogliate lasciar liberi i cattolici di seguire le ispirazionidella propria coscienza, di associarsi per un fine anche religioso, di rispettare ilcittadino anche sotto la veste del religioso, di contentarvi che abbia le mani nonmorte, m,a vive, sicché elle possano possedere, vendere, comprare, testare,ereditare ecc., come fanno le mani vostre, e quelle di ogni altro cittadino80.

5. Tra gesuitismo e anti-gesuitismo: il giusto mezzo rosminiano

Nella sua chiara discussione, Puecher in realtà non mirava a unadifesa generica di tutti gli ordini religiosi esistenti: egli infattidistingueva accuratamente l’essenza della vita religiosa dalle differenze

esistenza di fatto induce per sé quella di diritto: non si pretende che sian utili evantaggiose allo Stato [...]. Che più? lo stesso comitato per la costituzionedell’Allemagna eletto dalla Dieta di Francoforte ha testè progettato che si debbaaccordare ai Tedeschi piena libertà di formare anche nuove società religiose senzabisogno di alcun riconoscimento da parte del governo” (ibid., p. 38)80 Ibid., pp. 46-47. E continuava: “Così imiterete gli Stati-Uniti, e l’Inghilterra, dove seuno lascia per testamento la roba sua al provinciale, o alla badessa del tale istitutocattolico, il testamento è nullo; perché il governo non riconosce né provinciali, nébadesse; ma se uno fa testamento a favore di N. N., p. e. del signor Chenal, quando beneegli fosse provinciale o badessa, il governo non si cura di ciò, e gli assegna la eredità” (p.47). È il caso di ricordare la particolare forma che il voto di povertà assumevanell’Istituto della Carità e che non poche difficoltà provocò nell’iter di approvazionedell’Istituto stesso: il religioso poteva continuare formalmente e legalmente a ritenereproprietà (anche se poi sostanzialmente, per il voto di ubbidienza, tutto era rimessonelle mani del superiore).

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“accidentali” che portavano a una varietà di istituti religiosi nati via vianel corso del tempo81. La sua riflessione dunque si focalizzavasull’”Ordine religioso in generale” e non sui singoli istituti82. Èinteressante allora notare come egli accettasse anche l’idea che ilgoverno civile potesse sciogliere una società religiosa ma solo“verificandosi certe condizioni, e adoperando certe maniere”83.

Puecher considerava un’obiezione “ragionevole e grave” quella cheopponeva alla sua riflessione il caso di società religiose non più fedeli alloro carisma originario84. Era questo infatti l’unico caso in cui egli

81 Osservava Puecher che “in tutti gli Ordini religiosi si vuol distinguere qualche cosa dicomune o essenziale, e qualche cosa di proprio o accidentale. Ciò che v’ha in essi dicomune ed essenziale dimora in questo, che sieno società formate da liberi cittadini, iquali usando il diritto giuridico naturale di associazione vivano insieme adunati alloscopo di aiutarsi scambievolmente e a forze unite a tesoreggiare per sé e per altrui ilmassimo dei beni umani, il bene morale assoluto, cioè la giustizia e carità perfetta,mediante la più esatta osservanza della legge divina e la professione de’ tre più sublimiconsigli evangelici, che sono povertà, castità e ubbidienza. Il proprio poi e lo specificodegli Ordini religiosi risulta da quel complesso di cose che senza togliere né alterare lapredetta sostanza, la vestono e l’adornano di una mirabile varietà e pieghevolezza aidiversissimi bisogni e dirò anche gusti de’ tempi, dei luoghi, degl’individui, e deipopoli” (ibid., pp. 83-84).82 Nell’introduzione, preposta alla raccolta degli articoli in volume, Puecher avvertiva:“In quest’anno io venni tratto tratto pubblicando nel Giornale FEDE e PATRIA diversiarticoli a difesa degli Ordini religiosi in generale [...]. E dissi degli Ordini religiosi ingenerale; perché non è mai stato né è ora mio intendimento di tessere una giustificazioneo apologia di qualsivoglia famiglia religiosa in ispecie: non più dei Domenicani che deiFrancescani; non più dei contemplativi che degli attivi; non più degli antichi che deirecenti; non più degli scaduti che dei fiorenti. Mio scopo dunque era ed è unicamente didifendere l’Ordine religioso in generale, nella sua idea ed essenza; o meglio ancora ilprincipio stesso generatore degli Ordini religiosi” (ibid., pp. 3-4).83 Ibid., p.18.84 Egli scriveva: “Gl’istituti religiosi, diranno alcuni, sorgendo nella Chiesa si proposeroper iscopo non solo la giustizia, ma insieme la beneficienza; non pure il propriovantaggio, ma sì ancora quello dei prossimi. Ora supposto che alcune di queste societàavessero difatti abdicato al nobile loro proposito di rendersi utili al pubblico, per cuiriguardo eziandio il governo civile le ammise, protesse e aiutò con leggi, con privilegi econ donazioni; non sarà egli forse ragionevole ed equo, che il governo intervenga collasua autorità per far cessare simili corporazioni degeneri, oziose, sterili di ogni bene, efeconde talvolta di deplorabili mali? [...] – Non ci dissimuliamo che questa obiezione èragionevole e grave” (ibid., p.50).

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ammetteva che si verificassero le condizioni per un intervento delpotere civile. Il problema di “che cosa debba e possa legittimamente fareun governo civile riguardo alle società religiose” si poneva cioè “ogniqualvolta queste degenerino più o meno dalla loro originaria e buonainstituzione, e abusino di loro forza sociale a danno del pubblicobene”85. Riguardo ai modi, tuttavia, Puecher negava che si potesseaccondiscendere alla violenza delle piazze: “io non sarò mai – affermava– di coloro che, supposta anche la convenienza di abolire una societàreligiosa, perché scaduta e degenere, ne approvino la dispersioneoperata per via di giudizii tumultuarii e di violenze plebeje”86. Egliprobabilmente si riferiva alla quarantottesca cacciata dei gesuiti dalPiemonte. Esclusi dunque i metodi violenti, non era ben chiaro in qualemaniera il governo dovesse agire. Forse Puecher pensava che sarebbestata la Chiesa stessa a favorire la fondazione e l’introduzione di nuoviistituti religiosi “che succedano ai caduti e cadenti”87.

Rispetto alle polemiche degli anni precedenti – e ancora in corso – suigesuiti, Puecher non era né per una difesa totale né per una condannagenerale che comportasse una loro soppressione: proponeva che laCompagnia di Gesù si allontanasse da alcuni luoghi e si astenesse daalcuni ministeri. Scriveva infatti:

io non sono, né fui mai Gesuita, né affigliato ai Gesuiti, né Gesuitante, o se altrov’ha termine di simil conio, in tutto ciò che questi vocaboli possono significareper le menti umane di colpevole e di torto or sia in religione, or sia in politica.Anzi poiché mi si porge tanto spontanea la occasione, dirò candidamente che amio parere la celebre Compagnia stata già nella sua giovinezza d’incontrastabilee grande vantaggio alla religione Cattolica e alla civil società, oggimai non lo èpiù, e gioverebbe meglio ad entrambe che cessasse di esistere; almeno per certiluoghi e per certi ministeri. Perocché sebbene lo sterminato cumulo di accusemosse contro ai Gesuiti, scosso nel vaglio di una severa e imparziale critica,stremi d’assai, tuttavolta rimane ancor quanto basta per poter giudicare quellasocietà nei nostri tempi per lo meno inopportuna88.

85 Ibid., pp. 125-126.86 Ibid., pp. 21-22.87 Ibid., p. 97.88 Ibid., pp. 19-20.

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Insomma, come Puecher ribadiva in un successivo intevento, usandomezzi legittimi e in accordo con la Chiesa, lo Stato – o almeno uno Statocostituzionalmente cattolico, come era lo Stato Sardo, in base al primoarticolo dello Statuto albertino – poteva studiare il modo di “riformaregli ordini scaduti, e di sopprimere i cancrenati”89. E concludeva condefinitiva chiarezza: “Io ho sempre protestato e ora di nuovo protesto diriguardare come una pubblica calamità la esistenza di un Ordinereligioso scaduto, e traviato dalla sua primitiva e santa istituzione.Affermo di più, che non solo la Potestà della Chiesa, ma e il governocivile, e il popolo cristiano, ed anche ogni privato cittadino può avere ildiritto, se non altresì il dovere di appigliarsi a tutti i mezzi opportuni elegittimi per riformare, o abolire simili società religiose, secondoché ilgrado di lor corruzione ammette, o rigetta il rimedio”90.

Questa riflessione del Puecher, il quale – si badi – era il Provincialedell’Istituto della Carità, provocò una polemica epistolare fra lui e unsuo vecchio amico d’antica data, il gesuita Giulio Protasi di Torino91.Questi, dopo aver letto l’opuscolo sugli ordini religiosi e il diritto diassociazione, scriveva – il 9 ottobre 1849 – al Puecher, rimproverandoglidi subire l’influenza giobertiana92. Quanto alle osservazioni delrosminiano relative alla Compagnia di Gesù, Protasi affermava: “Maquali sono questi luoghi, e que’ ministeri in cui la Comp. è nociva allareligione ed alla società? Un maligno (e so che alcuno spiegò le sueparole in questo senso) un maligno direbbe che questi luoghi e questiministeri sono quelli i quali è speranza che siano poi occupati daiRosminiani”. E concludeva con asprezza:

Se mai V. R. e il P. Paoli e qualche altro crede di procurare la dilatazione del loroIstituto col mostrar avversione a quello di S. Ignazio, oso dir loro che prendonoabbaglio. La dilatazione d’un Istituto è opera di Dio piuttosto che di umaneindustrie, tanto meno se inique, come sarebbe quella di denigrare gli altri ordini

89 Id., Il diritto di associazione applicato agli ordini religiosi, in “Fede e Patria”, n.38 (19gennaio 1849), p. 20.90 Ibid., p. 19.91 Cfr. M. F. Mellano, Anni decisivi nella vita di A. Rosmini (1848-1854), Roma 1988, pp. 68-70, con pubblicazione del carteggio (pp. 131-142).92 Protasi scriveva infatti: “si vede che V. R. ha cavato profitto dalla lettura del GesuitaModerno dell’ex Abate Gioberti” (ibid., p. 132).

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religiosi approvati dalla Chiesa. Né sperino di amicarsi il mondo col farsi credereantigesuiti. Il mondo da Adamo in qua si divide in buoni e cattivi: col mostrarsinemici de’ Gesuiti non piaceranno ai buoni, almeno finché la Compagnia avràl’approvazione della Chiesa: non piaceranno ai cattivi, perché se V. R. e i suoicompagni continueranno a vivere da buoni religiosi, i Brofferio, i Chenal, i pretispretati e simil canaglia continueranno a maledirli e chiamarli Gesuiti93.

Rispondendogli l’11 ottobre, Puecher, dopo aver notato che la letteradell’amico era scritta “con stile gesuitico”, gli ritorceva contro l’accusa diattaccare i gesuiti per prendere il loro posto, dimostrando come legelosie fossero sorte proprio nel seno della Compagnia94. E aggiungeva:

93 Ibid., pp. 132-133.94 Scriveva con impeto il Puecher: “Ella si lagna colà di me, di D. Paoli e di qualche altro,come di coloro che credono procurare la dilatazione del proprio Istituto col mostraravversione a quello di S. Ignazio, e dice che la dilatazione di un Istituto è opera di Dio,non di umane industrie, massime se inique. Mi permetta qui Rev.do Padre ch’io leritorca contro l’argomento, e Le dica che dunque anche i Gesuiti si ingannano a partito,se credono poter sovvertire l’Istituto della Carità, Istituto approvato dalla Chiesa, equindi opera di Dio esso pure (almeno sinché Dio non muta consiglio, non avendo eglipromesso la perpetuità se non alla Chiesa) con mene e persecuzioni ora occulte e orapubbliche, siccome hanno fatto finora. Può essere che Ella sia sopra ciò in buona fede, eignori la storia di quei fatti di cui io tengo nelle mani documenti irrefragabili, e che sefossero pubblicati, cagionerebbero sommo scandalo nel mondo, e imprimerebbero unamacchia incancellabile sulla fronte della Compagnia, e che perciò appunto tengo segreti.Sì, Rev.do Padre, egli è un fatto che i Gesuiti cominciarono ad avversare e perseguitarel’Istituto della Carità ed il suo Fondatore in specie, ancor prima quasi che l’Istitutoesistesse: egli è un fatto che i Gesuiti fecero ogni sforzo per impedirne in Romal’approvazione sotto Gregorio XVI: egli è un fatto che i Gesuiti si mostrarono o freddi oavversi dappertutto più o meno a Roma, a Verona, in Piemonte, in Francia, in Napoli, inInghilterra, nel Belgio, in Germania, nei quali luoghi tutti avvennero in proposito deifatti scandalosi: egli è un fatto che i Gesuiti o essi stessi o per mezzo dei loro addettiinvidiarono amaramente la gloria letteraria e la potenza morale di Rosmini, dissero,scrissero e stamparono lettere, opuscoli e libercoli anonimi d’ogni maniera per gettare ipiù neri sospetti sopra il Rosmini: egli è un fatto che i Gesuiti si facevano un piacere dispargere per tutta Italia il libello d’Eusebio Cristiano, e di far credere che Romariguardava Rosmini come un eretico o un lupo, e ne voleva condannare le opere: egli èun fatto che un Gesuita, di cui potrei dirle il nome, due anni fa girava attorno in santopellegrinaggio dai Vescovi d’Italia per mostrar loro uno scartafaccio, in cui aveva notatenon mica una o due, ma più centinaia di spropositi ed eresie, cavate dalle opere diRosmini, e tutto questo faceva con gran mistero!” (ibid., pp. 134-135).

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“Sappia di più che invece noi siamo conscii d’avere sempre venerata laCompagnia di Gesù, e avutala quasi per madre nostra, ma che unaseguenza interminabile di fatti ci ha trascinati purtroppo, nostromalgrado, a riconoscere che i Gesuiti dell’ottocento non sono quelli delcinquecento, e che un seme di degenerazione si è messo in quellamistica massa, e che bisogna essere ben ignorante o passionato per nonvedere nella Compagnia alle molte buone parti unite altre non buone”95.

Allargando il discorso, Puecher prospettava una distinzione delletendenze in campo che appare di grande interesse: non solo perchéindica quale fosse la coscienza riflessa di alcuni dei protagonisti, maanche perché traccia un quadro complessivo sostanzialmente corretto.Egli scriveva:

Il vero si è che la Compagnia viene giudicata da tre partiti: il primo è quello de’Gesuitomani, i quali la idolatrano e riguardano come una bestemmia e un’eresiaqualunque opinione meno che favorevolissima alla Compagnia, che canonizzanotutte le parole e le azioni senza eccezione. Il secondo è quello dei Gesuitofobi, iquali certo anche per odio alla religione cattolica e ad ogni bene perseguitano amorte anche con mezzi ingiustissimi la Compagnia appunto perché vedono inessa del bene, come perseguitano costoro altresì tutti gli altri religiosi e il Cleromedesimo. Ma in mezzo a questi due partiti eccessivi sorge e va ogni dìrinforzandosi un partito medio, il quale riguarda la Compagnia, come è nel fattoattualmente in teoria e in pratica, quale una società che ha delle buone parti, mane ha altresì delle cattive, che ha de’ buoni principi, ma ne ha anche de’ torti, cheha delle virtù, ma che ha anche dei vizi, che ha dei buoni e santi soggetti, ma chene ha anche di ben diversi. Or questo partito non si abbandona né all’uno néall’altro eccesso, ma lodando quello che va lodato, riprende insieme quello che varipreso; se mentre riconosce che, date certe condizioni, la Compagnia potrebbeessere utile, intende altresì che, date altre condizioni, ella farebbe meglio acessare, almeno per certi luoghi e ministeri96.

95 Ibid., p. 135. E continuava:” Mal si crede che la Compagnia sia per ogni versoirreprensibile che non sia perseguitata fuorché per la sola giustizia, che non abbia altriavversari che gli empi e che nessun buono possa avvertire in essa un difetto senzarendersi con ciò stesso cattivo ed empio; questa è una presunzione intollerabile. [...] Ionon ho mai sentito un solo di loro, né letto pur un libro che riconoscesse sinceramentequalche torto o difetto della Compagnia, e che parlasse de’ suoi avversari con dignità ecarità: sempre durezza, acerbità, difesa illimitata di sé, e offesa esagerata de’contradditori” (ibid., pp. 135 e 137).96 Ibid., pp.135-136. Una posizione analoga avrebbe espresso, qualche anno dopo,

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Giusto qualche giorno prima della lettera del Puecher, il 5 ottobre, su“Fede e Patria” era apparso un articolo anonimo che sosteneva le stesseidee, discutendo della messa all’Indice delle Cinque Piaghe e dellaCostituzione secondo la giustizia sociale di Rosmini, insieme a opere diGioberti e di Ventura. Affermava infatti: “Stimiamo che esista unastrada media e conciliativa fra le due che si battono in senso opposto daigesuitofobi e dai gesuitomani; e questa dichiariamo essere stata lanostra. I primi sospettano sempre che il partito consigli ed effettui lacensura dei libri; gli altri in vece, acerbi e tronfii, dan tosto dell’ereticoper lo capo a chi mova dubbio sull’intervento di qualche passioneprivata in quell’autorevole giudizio. Ma se quelli sono troppo corrivi nelgiudicare, chi non troverà questi in vece troppo aspri e niente persuasivinel sentenziare?”97.

Data l’evidente similarità del ragionamento, Protasi sospettò che ilPuecher fosse l’autore dell’articolo, ma questi negò decisamente98. Il Gustavo di Cavour. In una lettera del 24 marzo 1856, da Torino, al lucchese CarloPagano Paganini, egli scriveva: “Io non approvo la politica dei Gesuiti; anzi ritengo cheessi non capiscano affatto le tendenze e i bisogni degli animi generosi che nutronoapirazioni di alto e schietto liberalismo. Li trovo anco fuori strada relativamente aiprincipi della filosofia che si confà ai bisogni dell’età nostra. Ma malgrado tutto ciòstimo moltissimo ed apprezzo molto quel sodalizio religioso di condotta religiosaesemplarissima. Di più essendo esso stato a’ giorni nostri indegnamente calunniato edinfamemente perseguitato da uomini che con questo loro procedere si mostrarono beneindegni del nome di liberali che s’arrogavano, non prenderò certamente parte veruna alotte e polemiche contro a quella Compagnia che ha la gloria di essere odiata da tutti inemici del Cristianesimo, e che essendosi spesso ingannata in cose secondarie ha semprecombattuto con vigore per la causa cristiana. L’illustre e santo personaggio di cui mionoro di essere stato discepolo ed amico, il Rosmini di cara e venerata memoria, sebbeneabbia molto sofferto per critiche esagerate e sciocche mossegli da vari Gesuiti, ha sempreconservato pel Sodalizio intero un gran rispetto, ed aveva deciso di smettere ognicontroversia con tali scrittori ch’egli teneva per illusi anzi che colpevoli” (cit. in E.Passerin d’Entrèves, Religione e politica nell’Ottocento europeo, a cura di F. Traniello, Roma1993, p.287).97 L’Indice, Rosmini, Gioberti, Ventura, i gesuitofobi, i gesuitomani, il giusto mezzo, in “Fede ePatria”, n.45 (5 ottobre 1949), p.313.98 Scriveva Protasi: “Mi vien detto da più d’uno che certi articoli un po’ malignetti che sileggono sul Fede e Patria per es. quello del 5 ottobre scorso, vengono da V. R.”. Puechergli rispondeva il 2 dicembre negando di essere “l’autore di certi articoli malignetti di

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gesuita, comunque, nella sua risposta confermò il diverso indirizzo dipensiero, mostrando anche il differente nesso che – negli ambienti dellaCompagnia – si vedeva tra vita religiosa e rivoluzione nazionale. Il 25novembre egli infatti scriveva al Puecher:

Ella mi vorrà far osservare, che se i Rosminiani non sono Gesuitomani, non sononemmeno Gesuitofobi, ma d’un partito di mezzo, che sa discernere ecc. Ebbene,io dico, che questo partito di mezzo, che secondo V. R. si va ogni giornoingrossando, se vorrà far bene deve manifestare le nostre magagne non alPubblico, ma al Papa, ai Cardinali, ai Vescovi, affinché ne tentino l’emendazione,e se questa non è sperabile, ne promuovano la soppressione. [...] Mi fu detto daalcuni sacerdoti che il P. Paoli è furioso non solo quando parla contro i Gesuiti,ma anche quando parla contro i Tedeschi. Senza prendere la difesa de’ Tedeschi,mi pare, che ciò disdica a’ religiosi: certo il governo tedesco ha dei grandi difettispecialmente in ciò che riguarda l’esercizio della religione, ma se avesseroprevaluto gli italiani del 1848-49 non so se la Religione avrebbe avuto davantaggiarsene: i saggi che se ne ebbero in questi due anni ci fanno abbastanzapronosticare come sarebbe stata trattata la religione se avessero avuto ilsopravvento. Ad ogni modo a me pare che noi religiosi dobbiamo abbracciaretutte le nazioni con sincero affetto, e non sparlare di alcun governo99.

L’imparzialità sovranazionale – di evidente matrice taparelliana – cheil Protasi metteva innanzi, tradiva in realtà un trasparente giudizionegativo sul movimento quarantottesco e sul costituzionalismopiemontese.

Nelle posizioni dei Rosminiani e dello stesso Rosmini, invece, gliaspetti di Riforma ecclesiale e l’articolarsi del movimento di rivoluzionenazionale potevano connettersi in modo significativo, senza indebiteconfusioni o ibride mescolanze di religione e politica, anzi con unachiara e netta distinzione tra ambito pastorale ecclesiale e ambitopolitico100. Fede e Patria e in ispecie di quello che si legge sotto la data 5 ott. ora scorso da Leimenzionato. Or sappia dunque che io non mi ricordo di aver mai stampati articoli indetto giornale da molti mesi in qua, e certo io ignoro affatto l’autore dell’art. 5 ott.”(Mellano, Anni decisivi..., cit., pp. 141-142).99 Ibid., pp. 140-141.100 Veramente emblematica, in questo senso, era la lettera che Rosmini scriveva, il 23novembre 1848 (si noti la data) da Roma, a mons. Claudio Samuelli, vescovo diMontepulciano, che gli aveva chiesto consigli sull’atteggiamento da assumere tra le

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Fu, paradossalmente, proprio* il Curci, che nel 1849 polemizzavacontro l’antigesuitismo giobertiano, a ben chiarire, in uno scritto ditrentacinque anni dopo, le ragioni interne della posizione rosminiana.Egli scriveva:

Quando il nostro crepuscolo religioso [...] cominciasse a sorriderci dei primialbori, e la società civile, sperimentata la sua impotenza, si consigliasse di tornarea Gesù Cristo nella sua Chiesa; allora sentirebbe l’insigne vantaggio di nonimbattersi, sulla sua via, nel formidabile ostacolo volutole frapporre colla ostilità,attribuita alla Chiesa stessa, verso le sue pubbliche istituzioni [...]. Che se,

passioni e i travagli politici del tempo. Il Roveretano osservava: “L’incarico che unVescovo ha ricevuto da Gesù Cristo di predicare il Vangelo e di condurre le anime degliuomini all’eterna salute è così sublime, santo e divino, che non v’ha cautela soverchia daadoperarsi, perché nessun altro affare terreno ne impedisca od intralci e disturbil’esercizio. Questo esercizio può essere intralciato soprattutto dalle umane opinioni inmateria politica, le quali si dividono e contrariano secondo il vario sentire e pensaredelle menti, e pur troppo ancora secondo le varie passioni da cui si lasciano agitare gliuomini e le cieche fazioni che ne derivano. Sopra di tutti questi interessi umani, diqueste opinioni, passioni e partiti, che agitano e travagliano la società e l’umanità, si levail Vangelo, e col Vangelo il Vescovo, che n’è il maestro istituito da Dio, e in questaregione celeste dell’Evangelio egli abita col suo spirito la città della pace imperturbata efelice: Nostra autem conversatio in coelis est.Parmi adunque che ogni Pastore della Chiesa cattolica adempia il suo ufficio ecorrisponda all’altezza della sua missione divina, se, astenendosi dal prender parte inqualsivoglia politica controversia e dal dichiararsi per qualsivoglia fazione, si limiti apredicare a tutti egualmente e in modo generale la giustizia, la carità, l’umiltà, lamansuetudine, la dolcezza, e tutte le altre virtù evangeliche, riprovando i vizi contrari edifendendo acremente i diritti della Chiesa, dove venissero da qualsivoglia parte violati.Reputo che il Vescovo debba, soprattutto in questi tempi, spargere un olio balsamico didolcezza nelle piaghe dell’umanità, debba guardarsi da ogni giudizio temerario, da ogniparola ingiuriosa a chicchessia, da ogni adulazione strappata dal timore, da ogniconnivenza al male che gli fosse persuasa da speranza di giovare, conservando uncontegno grave, riservato, fermo, con una conversazione verso tutti soave ed amorevole,ed insieme atta a far distinguere con una santa dottrina, ma senza alcuna veemenza, ilbene dal male. Colla preghiera più assidua ed intensa, col promuovere piùstudiosamente il culto divino tra i fedeli e tutti gli esercizi di pietà, coll’eccitarlisoprattutto ad una frequenza maggiore de’ Sacramenti, commendandone l’eccellenza, efacendoli loro amministrare con abbondanza, potrà il Pastore attirare le benedizionidivine sopra il suo popolo, preservarlo da molti mali richiamando molte menti traviateal retto sentire” (A. Rosmini, Epistolario ascetico, vol. III, Roma 1912, pp. 463-464).

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contrariamente alle mie liete congetture, quel crepuscolo [...] dovesse risolversi inferma notte, o, diciamo fuori metafora, se le genti di stirpe latina dovesserocessare di essere cattoliche, come nazioni: che fu il desolato presentimento delRosmini, dell’Audisio e fu ed è anche mio, quando troppo lungamente si restassecome si sta, sarebbe certo quella una immensa sventura101.

101 C. M. Curci, Lo scandalo del «Vaticano Regio», duce la Provvidenza buono a qualche cosa.Brevi note onde l’Autore di quello valedice a siffatte polemiche, Firenze – Roma 1885, p.89.

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APPENDICI

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I) Appunto di Rosmini sulla riforma della chiesa milanese(ASIC, A,2 – 42/A, ff. 84r-86r)

Ritenuto il principio, che il governo della Chiesa, quale lo esigono inostri tempi e le nuove forme dello Stato correlative, debba esserecollegiale piuttosto che individuale, o per dir meglio debba esserecollegiale la parte consultiva, individuale la parte deliberativa, si esponenei seguenti articoli l’organismo che sembrerebbe a tal fine il piùopportuno.

I°. Il Capitolo della Cattedrale è il Senato indivisibiledell’Arcivescovo, da raccogliersi ordinariamente una volta al mese sottola presidenza dell’Arcivescovo medesimo.

Avrà un Segretario dotto ed attivo scelto fuori del Capitolo stessodall’Arcivescovo, senza voto, il qual terrà il registro delle sedute,indicherà il giorno di esse ecc.

Le proposte saranno fatte dall’Arcivescovo prima, e poi dai singoliCanonici, e dopo la discussione, dove non vi abbia unanimità, siraccoglieranno i voti.

Il risultato della votazione non ha che forza meramente consultiva,rimanendo sempre l’Arcivescovo libero a seguir il partito che stimeràmigliore.

Se venisse fatta qualche proposta per cui non paresse all’Arcivescovoprudente il discutere o il deliberare; sarà passato oltre.

Rimane del pari libero all’Arcivescovo prendere le deliberazioni checrede senza che sia obbligato a sottometterle al Capitolo, e udita o nonudita la Consulta Arcivescovile, di cui si parla nell’articolo seguente.

II°. Per preparare le materie da riferirsi al Senato Arcivescovilequando l’Arcivescovo giudichi che sia necessario il sentirlo, perdiscutere quelle che sono più urgenti, o quelle che l’Arcivescovo nongiudica necessario proporre al Capitolo, vi avrà una Consulta che non

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eccederà il numero di 24 Sacerdoti, nominati dall’Arcivescovo, 12 de’quali almeno residenti a Milano.

Dovendosi l’Arcivescovo circondare di tutti i lumi perché il governodella Chiesa risponda all’esigenza dei tempi, agli affari ecclesiastici chevanno necessariamente moltiplicandosi quanto più il popolo prendeparte al civile governo; conviene che la Consulta si componga dellepersone più dotte e cospicue del Clero, sieno tratte non solo dalla Città,ma ben anche dalla Diocesi; come pure da altri Sacerdoti distinti perdottrina, pietà e prudenza, specialmente appartenenti al corpoinsegnante, tanto secolare come regolare.

Le ordinarie sedute di questa Consulta, perché non riesca una vanaistituzione, debbono esser fisse e frequenti, tenendosi almeno una voltain settimana, eccetto quella settimana, nella quale l’Arcivescovo tiene laseduta mensile del Capitolo.

Quando non vi può presiedere l’Arcivescovo, potranno esserepresiedute da un Monsignore del Duomo, che porterà il titolo di Vice-Presidente, e in mancanza di questo, da un Delegato dell’Arcivescovonominato di volta in volta.

Conviene che vi abbia un Segretario dotto, attivo, e zelante del benedella Chiesa.

I Consultori, oltre la discussione orale, dovranno estendere de’ voti iniscritto sulle materie proposte, ad imitazione de’ voti che estendono iConsultori delle Romane Congregazioni, acciocché le questioni venganomeglio approfondite.

La Consulta non è istituita per gli affari ordinarii, che seguitano adessere spediti dalla Curia o Cancelleria Arcivescovile colle soliteformalità, a meno che non occorrano dubbii difficili da risolversi.

Ella ha per iscopo discutere e fissare le massime del governoecclesiastico, e tutte quelle viste generali, che si rendono tanto necessariene’ tempi moderni per difendere i diritti della Chiesa, mantenere ladignità e l’attività dell’ecclesiastico ministero, riformare gli abusi,conservare le debite relazioni col Governo e col popolo, e illuminarel’uno e l’altro colla Sapienza evangelica ogni qual volta si manifesta ilbisogno. Dovendo il Prelato che governa la Chiesa far sentire la sua vocein queste occasioni, egli è supremo bisogno di essere educata dalconsiglio de’ più dotti del suo Clero, e di avere un appoggio

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nell’opinione pubblica, che non le può mancare, se i suoi passi sonoappoggiati a tale consiglio.

Quindi il Prelato potrà per mezzo de’ suoi Consultori, di ciò incaricatiespressamente, soddisfare ai più gravi, ai più urgenti, e generali doveridel Suo ministero, che sono i seguenti:

Vigilare su tutti gli atti del Governo, non lasciando passare cosa chesia contraria ai Sacri Canoni o allo Spirito della Chiesa senza opportuneammonizioni e proteste.

Vigilare sulla stampa resa libera dalle nuove istituzioni,contrapponendo ammonizioni, richiami, e istruzioni secondo il bisogno.

Vigilare sull’educazione d’ogni specie, acciocché ella sia cristiana, suilibri e metodi d’insegnamento, acciocché le sue pecore non ne bevano ilveleno, non favorendo mai il monopolio dell’istruzione, che se nevolesse riserbare il Governo.

Vigilare su tutte le opere di carità di ogni specie, acciocché sienoeseguite a dovere e in uno spirito evangelico.

Riformare e promuovere gli studi ecclesiastici sopra una base piùlarga conforme ai bisogni del secolo.

Riformare gli abusi di qualsivoglia specie.Promuovere l’union del Clero fra di sé, e l’unione del Clero col

popolo: provvedere ad una perfetta armonia ed unione anche del Clerosecolare col regolare, e proteggere anche quest’ultimo a bene dellaChiesa.

Difendere le proprietà ecclesiastiche contro le usurpazioni tentate dalpotere secolare, in modo però da congiungere questa difesa con unmagnanimo disinteresse e con atti di generosità a favore de’ bisogni delpopolo e della patria.

Estendere frequenti indirizzi al Clero per animarlo e istruirlo, ed alpopolo per interessarlo de’ beni e de’ mali della Chiesa: indirizzi, ched’ora in avanti si rendono sempre più necessarii ed utili, qualora sienoscritti nobilmente e contengano alti sensi e solida dottrina.

Spiegare in tutto ciò che interessa la Chiesa una maggiore attività chenon si faceva pel passato.

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Cose da farsi senza dilazione

I. Domandare al Governo Provvisorio l’abolizione totale del Dirittomatrimoniale austriaco, e che sia sostituito intieramente il Dirittoecclesiastico, ad imitazione di quanto è determinato su ciò dal Codice diCarlo Alberto.

II. Intavolare subito le pratiche per la nomina alle sedi vacanti diPavia, Brescia e Cremona, intendendola su di ciò, prima di tutto, colSommo Pontefice, e d’accordo con lui col Governo Provvisorio acciocchérinunzi al diritto di nomina, e si stabilisca in seguito l’elezione canonicatra Clero e popolo; provvedendo per intanto con una forma provvisoriad’elezione alla nomina de’ vescovadi vacanti.

III. Mandare un Sacerdote a Roma incaricato di concertare la cosa colSommo Pontefice.

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II) Appunto di Rosmini sulla riforma dei religiosi(ASIC, A.1, XIV – bis-, f.30r-v)

Memoriale

1. Quanto più una società qualunque s’estende in superficie, tantopiù si attenua nell’unità del suo spirito e fervore.

2. Quanto più una società qualunque si allontana dalla sua origine,tanto più si illanguidisce e perde la propria imagine.

3. Quanto più i membri fanno per abito le cose, quanto più le fannoper legge, quanto più le fanno meccanicamenta cioè pensando collatestad’altri tanto più si raffredda lo spirito della società. Allincontro,quanto più fanno per atto o energia dedotta dal proprio zelo, per amore,colla propria testa.

4. Stabilire un corpo di Riformatori capo de’ quali sia il Papa i qualinon abbiano altro a fare che star sempre attenti sull’inlanguidimentidella società, e deviazione dalla prima forma. Ogni anno debbano fareuna minuta descrizione dello stato della Società e una Costituzione diRiforma. Dovere principale di ciascun sozio è ogni anno di rinnovarsi,tornar da capo, cominciar nuova vita, nuovo fervore.

5. In tutti gli ordini religiosi6. Tutto debb’essere di buona voglia. Se vi sono alcuni che vogliono

astringersi a voti d’ubbidienza ecc. si accettano colle debite regole.7. Una orazione giornaliera della Società; o protesta.