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JESUIT REFUGEE SERVICE IRAQ CHE COSA CI ASPETTA? AFGHANISTAN PADRE PREM È STATO LIBERATO APRILE 2015 ITALIA MALAWI SIRIA FRANCIA NUMERO 59 p. 4 p. 6 p. 13 p. 16

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JESUIT REFUGEE SERVICE

IRAQCHE COSA CI ASPETTA?AFGHANISTANPADRE PREM È STATO LIBERATO

APRILE 2015

ITALIA

MALAWI

SIRIA

FRANCIA

NUMERO 59

p. 4

p. 6

p. 13

p. 16

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EDITORIALE

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FOTO DI COPERTINA

IN QUESTO NUMERO

EditorialE

Siamo pieni di gioia 3 per la liberazione di padre Prem

italia

Ero straniero e mi avete invitato a entrare 4

MalaWi

Raccontare un albero attraverso i suoi frutti 6

FoCUS SUl MEdio oriENtE

iraQ SEttENtrioNalE

Dove porta il futuro? 9

aPPEllo

Puoi aiutare l’équipe del JRS in Iraq 12

Siria

Non festeggiamo il quinto anniversario 13 del conflitto!

SoUtH aFriCa

Xenofobia: un crimine contro il Sudafrica 14

FraNCia

Dentro il confine 16

rdC | RIFLESSIONE

Tracce di resurrezione 19

SUdaFriCa | QUARTA DI COPERTINA

Refuge 20

Hanaa e la sua bambina, Maryam, nata il 14 dicembre 2014 nei locali della parrocchia di Mar Eliya all’interno di un campo per rifugiati a Erbil, nell’Iraq settentrionale. (Peter Balleis SJ/JRS)

Peter Balleis SJ | Direttore internazionale del JRS

Il 21 febbraio il direttore del JRS Afghanistan, padre Alexis Prem Kumar SJ (nella foto sopra, con la sua famiglia), che era stato rapito mentre visitava una scuola locale finanziata dal JRS, è stato finalmente liberato dopo otto mesi e venti giorni di prigionia. Il ritorno alla sua famiglia, ai suoi confratelli gesuiti e al JRS ha dato immensa gioia a tutti noi e anche a molti amici che, in tutto il mondo, hanno pregato per lui.

Padre Prem ha più volte espresso profonda gratitudine per tutti coloro che lo hanno ricordato, pregando per lui, nel corso di questi difficili mesi durante i quali è stato tenuto in manette sotto la sorveglianza di guardie armate. Mi ha raccontato che in tutto quel

tempo due cose gli hanno permesso di continuare a sperare: le preghiere quotidiane e la fiducia che il JRS avrebbe fatto tutto il possibile per ottenere la sua liberazione.

Mentre la forte speranza di padre Prem ha conservato il suo ottimismo, l’équipe del JRS in Afghanistan ha lavorato senza sosta per il suo rilascio, tenendosi ogni giorno in contatto con il personale delle unità di crisi a Roma e New Delhi. L’esperienza di padre Prem ci ha insegnato ad accrescere la fiducia negli sforzi dei nostri colleghi afghani e del governo indiano per contattare i rapitori e ottenere la sua liberazione. Esprimiamo la nostra più profonda gratitudine nei confronti del governo indiano per

il proficuo impegno dimostrato.Il contesto in cui lavoriamo

oggi è diventato sempre più ostile. La realtà è che il JRS, come altre organizzazioni umanitarie, ha bisogno di far crescere la consapevolezza dei rischi per la sicurezza e attuare procedure di sicurezza a livello locale. Mentre monitora il movimento di gruppi estremisti ostili in molte zone di attività, il JRS continua a concentrarsi sui bisogni dei rifugiati. Il JRS non ha interrotto né diminuito i suoi servizi in Afghanistan durante il periodo di incertezza e angoscia per padre Prem. Alla fine l’amore che esprimiamo con il nostro servizio ha prevalso e ha dimostrato di essere più forte di qualunque male.

Siamo pieni di gioia per la liberazione di padre Prem

Sapete che io sono Prem Kumar, ero in Afghanistan dal 2011, sono stato rapito il 2 giugno 2014 e ora sono tornato a vivere. E questo grazie alle vostre preghiere, al vostro sentito impegno e al lavoro in rete… Grazie.

Servir è disponibile in italiano, francese, inglese e spagnolo. È pubblicato due volte l’anno dal Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati (JRS).

DIREZIONEPeter Balleis SJ

REDAZIONEDanielle Vella

PRODUZIONEMalcolm Bonello

Il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati è un’organizzazione cattolica internazionale creata nel 1980 da Pedro Arrupe SJ. La sua missione è accompagnare, servire e difendere la causa dei rifugiati e degli sfollati.

Jesuit Refugee ServiceBorgo S. Spirito 4, 00193 Roma, Italia

TEL: +39 06 69 868 465FAX: +39 06 69 868 461

[email protected]

servir

APRILE 2015 NUMERO 59

La versione elettronica di Servir è di facile accesso e piacevole lettura e il nuovo formato conserva l’impatto visivo della rivista stampata. Se volete ricevere Servir via email invece che per posta, scriveteci all’indirizzo [email protected] o iscrivetevi online alla pagina www.jrs.net/signup?&L=IT. Grazie!

e-SERVIR diSPoNiBilE iN VErSioNE ElEttroNiCa

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ACCOMPAGNAREACCOMPAGNARE

successo”.Ecco che cosa è accaduto:

una sera alcuni malviventi si presentarono a casa di Mark in Kenya e lo presero in ostaggio, dopo avere ucciso suo cugino di 20 anni e ferito gravemente un caro amico. “Cercavano mia madre, a causa del suo lavoro”, ricorda Mark. “Siamo sopravvissuti per grazia di Dio. Presero me e dissero a mio cugino di tornare a letto. Appena si girò, lo colpirono al collo e lo uccisero”. Il resto della famiglia non morì perché i vicini di casa attivarono gli allarmi antifurto e avvertirono la polizia. La madre di Mark senza esitazione lasciò il Paese insieme ai figli.

Mark porta ancora le cicatrici di quell’aggressione. “Ho un segno qui, sul cranio, e uno sul braccio. Ma le ferite emotive sono quelle che restano; ricordo sempre gli ultimi istanti che ho trascorso con mio cugino. Ogni giorno penso: cosa sarebbe successo se avessi posto resistenza? Se avessi fatto questo o quello? Ma ora accetto anche il fatto che vivere significa onorare il suo sacrificio”.

Come molti altri rifugiati, Mark trova nella sua fede cristiana un profondo sostegno per superare le traversie: “La nostra fede in Dio è

ciò che ci fa andare avanti, anche se è continuamente messa alla prova dalle tante sfide che affrontiamo, mentre cerchiamo risposte alla sofferenza che abbiamo provato”.

Mark, sua madre e sua sorella ora si sentono parte di una famiglia presso i cappuccini. Ma l’accettazione non è stata automatica. Mark sa qualcosa dell’iniziale imbarazzo e diffidenza che può comportare accogliere uno straniero. “Non è una decisione facile prendere qualcuno in casa tua, farlo entrare nel tuo ‘spazio privato’. Però è possibile: in questi mesi ho visto atteggiamenti cambiare dal sospetto all’affetto e all’amore. Ora mi sento parte della comunità”.

Anche altri sostengono la famiglia keniana. Mark è pieno di lodi per il Centro Astalli del JRS, specialmente per il suo avvocato. “Non sarei mai stato in grado di destreggiarmi nel sistema legale senza l’aiuto di Francesca. Si è data da fare per il nostro caso e così ci è stato concesso lo status di rifugiati”.

Francesca ha anche presentato Mark, sua madre e la sorella a un gruppo parrocchiale di venti famiglie. “Ci hanno invitato nella loro chiesa per raccontare la nostra

storia e siamo diventati amici. Sono così buoni con noi! Talvolta partecipiamo ai loro incontri, abbiamo trascorso la vigilia di Natale con una famiglia. È come dicevo prima: ciò di cui hanno bisogno i rifugiati è sentirsi accolti, non visti come un fastidio”.

Ostacoli immensi sono ancora di fronte alla famiglia di Mark. Per citarne uno, egli sa bene che trovare un lavoro è molto difficile. Ma è ottimista e grato per i tanti ‘angeli custodi’. “Sarebbe così bello - conclude - se tutti i rifugiati potessero ricevere una tale accoglienza. Ma non tutti la ricevono. Molti sono in una situazione più difficile e dormono perfino in strada… Il mio cuore è con loro. Questo amore, questo sostegno che abbiamo ricevuto per ricominciare daccapo è ciò che tutti i rifugiati meritano”.

*Nome di fantasia

Mark * non sapeva che nel settembre 2013 Papa Francesco aveva sollecitato le congregazioni religiose ad aprire i propri conventi vuoti per accogliere rifugiati. Anche se avesse avuto quella notizia, con ogni probabilità non vi avrebbe prestato a lungo attenzione. In quel periodo il 27enne Mark era impegnato a condurre la sua vita a Nairobi. Le cose andavano bene: gestiva un’impresa di ricerca con alcuni amici, era stato appena accettato per il lavoro dei suoi sogni al parlamento del Kenya come impiegato e stava portando a termine un master in Studi internazionali.

Appena sei settimane più tardi,

accadde l’impensabile. Un attacco per motivi politici costrinse Mark, sua madre a la sorellina di dieci anni a fuggire dal Kenya. La famiglia venne a cercare asilo a Roma, dove una comunità di cappuccini, ordine religioso maschile, aprì loro le porte. La loro ospitalità è una risposta alla preghiera di Mark sotto più punti di vista.

Quando gli chiedo di raccontarmi della sua nuova casa, Mark risponde con un’altra domanda: “È sufficiente offrire a noi rifugiati un posto in cui dormire e un pasto?”. Il suo atteggiamento non è polemico. Mark è pacato e gentile, un gigante buono. Risponde alla sua stessa

domanda: “Ciò di cui abbiamo più bisogno è amore e comprensione per ristabilire la dignità che ci è stata sottratta. Abbiamo bisogno di sapere che non tutto è perduto, di guarire le nostre ferite e ricostruire le nostre vite e, con fiducia, curare anche gli altri che sono stati feriti”.

Mark ha trovato comprensione nella comunità che lo ha accolto. Come in una casa, gli hanno dato il sostegno pastorale di cui aveva davvero bisogno per sentirsi nuovamente completo. “Per i primi mesi la situazione è stata proprio difficile. Ero triste e avevo quasi perso la speranza. Grazie al sostegno che ho ricevuto, ora posso almeno parlare di ciò che è

Ero straniero e mi avete invitato a entrare

PAPA FRANCESCO DURANTE UNA VISITA AL CENTRO ASTALLI DEL JRS A ROMA NEL 2013

Danielle Vella

Il senso di appartenenza è cruciale per i rifugiati. Nella foto, la piccola rifugiata a Malta mostra di sentirsi a casa. (Darrin Zammit Lupi)

Alessia Giuliani

Carissimi religiosi e religiose… I conventi vuoti non sono nostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati. Il Signore ci chiama a vivere con più coraggio e generosità l’accoglienza delle persone nei conventi vuoti. Certo non è qualcosa di semplice, ci vogliono criterio, responsabilità, ma ci vuole anche coraggio.

ITALIA ITALIA

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ACCOMPAGNAREACCOMPAGNARE

Il figlio di Peter* è stato ucciso quando lo ha travolto un veicolo che stava percorrendo una stretta e difficoltosa curva nel campo di Dzaleka, in Malawi. Rifugiato da molto tempo, Peter aveva già sopportato abbastanza dolore nella sua vita. Ha pianto tristemente ricordando il figlio durante un incontro con il gruppo di sostegno. Settimane più tardi, mentre disegnava il suo ‘albero della vita’, Peter rifletteva: “Sai, la frutta acerba cade a terra dall’albero. Ma altra frutta crescerà al suo posto, perché l’albero ha le sue stagioni”.

Questa rivelazione gli giunse dopo aver frequentato molte settimane il gruppo di sostegno organizzato dal JRS per i rifugiati da lungo tempo. Guidati da counselor, i rifugiati hanno seguito insieme un percorso di

terapia, iniziando con timidi passi a condividere le loro esperienze di vita.

Dopo aver percorso un cammino personale disseminato di ricordi dolorosi e sogni infranti, i partecipanti hanno scoperto che entro la fine del programma avrebbero potuto pensare al passato e al presente in un modo nuovo e, in qualche modo, liberatorio. Sono arrivati a sentire che contano e che hanno amicizie consolidate, volendosi bene a vicenda nello spazio sociale che il programma continua a organizzare.

L’opportunità di condividere è probabilmente uno dei più efficaci benefici del programma. Anche un’anziana donna, Protasia Gathendoh, ha partecipato al progetto dopo essersi resa conto

che i rifugiati anziani mancavano dalle attività psicosociali offerte del JRS a Dzaleka. Quando ha saputo della possibilità di fare qualcosa, Protasia ha scoperto che l’isolamento gravava pesantemente su molti ultrasessantenni.

Nelle condizioni peggiori, racconta, sono quelli soli con se stessi. Le loro spose sono morte o sono partite. Non hanno i figli accanto: forse vivono altrove, forse sono stati uccisi. Se fossero tornati al loro villaggio, un’altra famiglia li avrebbe adottati, ma nel campo gli anziani che finiscono soli restano soli.

Quando accettano di partecipare al gruppo di sostegno, tutto prende avvio con fiducia. “Creare un posto sicuro significa creare un luogo in cui i partecipanti possano fidarsi gli uni degli altri, parlando di ciò che la vita rappresenta, di ciò che ciascuno di loro ha attraversato nel proprio Paese e vivendo da rifugiato per più di dieci o quindici anni”, racconta Protasia.

“Ricordare e piangere le perdite nella vita di un rifugiato è come sbucciare cipolle: quando togli il primo strato di buccia non c’è problema, ma quando sbucci strati più vicini al centro l’odore ti fa luccicare gli occhi. Quando affrontano ogni ricordo che affiora, i rifugiati fanno esperienza della profondità del dolore che hanno soffocato a tempo”.

Protasia ricorda come una donna avesse esclamato: “Mi fai ricordare di nuovo tutte queste cose!”. Ma le aveva ribattuto: “Dunque, come le ricordi adesso?”. La risposta della donna era stata:

“Il dolore c’è ancora, ma riesco anche a riconoscere il legame che questo ricordo ha con la mia vita. Se si tratta di una perdita di proprietà, di lavoro, di sicurezza, di nazionalità, posso ancora vedere me stessa come una rifugiata e fa male sapere che non ho una soluzione duratura. Ma è una consolazione sapere che sono ancora viva, sono sopravvissuta”.

Protasia è raggiante mentre racconta. “Poi diciamo sì, sei un sopravvissuto, guardiamo la tua capacità di ripresa. E le persone iniziano a raccontare ciò che hanno fatto per sopravvivere, ciò che li ha aiutati”.

Il viaggio nel passato è tutt’altro che facile. Lacrime, stanchezza e sensi di colpa hanno un costo. “Possono esserci circostanze in cui un sopravvissuto si sente in colpa per non aver fatto ciò che avrebbe potuto per proteggere i propri cari, o prova vergogna per non avere

reagito. Diciamo loro che quello che hanno fatto per sopravvivere è stato molto importante, che non devono sentire il rimorso per non avere agito meglio”.

‘L’albero della vita’ è un esercizio che riunisce il tutto. Ogni persona è spinta a disegnare la propria storia come un albero: le radici sono i nostri antenati, il tronco è la nostra esperienza, i rami le nostre relazioni e le foglie le cose che facciamo bene. I frutti potrebbero essere maturi rappresentando i nostri traguardi, oppure acerbi, i nostri sogni spezzati.

L’attenzione alle forze e al modo in cui esse possono essere usate nel presente è cruciale. “Li stimoliamo a pensare a cosa significa resilienza”, racconta Protasia. “Significa fare ciò che devo fare, un giorno per volta. Così guardiamo un altro strumento, l’esercizio di 24 ore,

domandandoci: che cosa faccio di ciascuna ora della mia giornata? Sorprende il modo in cui essi guardano la vita nel campo, c’è una diversa prospettiva: ciò che fanno dal momento in cui si alzano a quello in cui vanno a dormire è importante. Possono acquisire nuove capacità, sostenersi gli uni gli altri e non sentirsi esclusi. Questo è molto importante per i più anziani: qualunque cosa facciano conta, ha valore e significato”.

Dopo che, nel corso di due anni, otto gruppi di sostegno hanno frequentato il programma della durata di dieci settimane, ora c’è uno “spazio sociale completamente aperto” per chi lo desidera. Agli incontri non ci sono più soltanto giochi di carte, musica e una tazza di tè. “Il beneficio complessivo del programma è il modo in cui le persone si preoccupano le une delle altre”, dice Protasia.

Raccontare un albero attraverso i suoi frutti

Il gruppo di sostegno del JRS ha aiutato i rifugiati più anziani a comprendere che il loro tempo è prezioso e tutto ciò che fanno con esso ha importanza. Possono imparare e continuano a farlo, restando coinvolti nella vita della comunità.

Il campo di Dzaleka, in Malawi.

MALAwI MALAwI

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ACCOMPAGNARE

Prendete per esempio Joseph* che ha più di settant’anni e vive solo. “Se resti solo a lungo, le persone iniziano a domandare, perché non hai amici? A Joseph serviva sempre più alcool per affrontare questo isolamento. Diceva, nessuno vuole parlare con me tranne quando beviamo insieme, altrimenti sono di nuovo solo. Abbiamo parlato con gli altri e stimolato Joseph a interessarsi ad attività di gruppo, ad andare con qualcun altro nel suo orto. Joseph lo ha fatto e, anche se continua a bere, ha iniziato a stabilire rapporti”.

Poi c’era Unita* che si stava perdendo le attività perché aveva una gamba gonfia. “Abbiamo chiesto se qualcuno poteva andare a chiamarla lungo la strada, così le donne hanno iniziato a mettersi in gruppi di due o di tre”, ricorda Protasia. “Da quel momento hanno deciso di iniziare a mettere

insieme il denaro per comprare prodotti agricoli da un mercato aperto settimanale per rivenderli nel campo. Per lungo tempo avevano desiderato di organizzare una piccola attività come questa e alla fine è successo”.

I progressi sono lenti, ma reali. I counselor chiariscono che le attuali difficoltà e le cicatrici dei traumi passati resteranno, ma ci sono modi per accettarle, modi per imparare a convivere e crescere con esse, specialmente in comunità. Nel gruppo di sostegno si racconta la storia di una palma per esprimere questo. Non la racconterò, ma tutto questo parlare di alberi mi fa ricordare qualcosa che disse Gesù: puoi parlare di un albero dai suoi frutti…

*Nomi di fantasia

INFO POINT

Il campo per rifugiati di Dzaleka si trova a 45 km a nord-est della capitale del Malawi, Lilongwe. È un campo aperto, ma i rifugiati necessitano di un permesso scritto per uscire per qualunque motivo. Il JRS offre principalmente formazione scolastica e altre possibilità di apprendimento per i rifugiati, specialmente bambini e giovani la cui istruzione è stata interrotta, ritardata o negata del tutto. Il principale bisogno espresso dai rifugiati è un lavoro che permetta loro di guadagnare denaro per far fronte alle necessità non soddisfatte dall’ACNUR o solo di rado: cibo a sufficienza, vestiti e materiali per cucinare, assistenza sanitaria, nonché protezioni adeguate per i loro ricoveri.

A Dzaleka, come in qualunque altro campo, c’è il rischio che i rifugiati più anziani finiscano per sentirsi isolati e messi da parte.

FoCUS SUlMEDIO ORIENTEDove porta il futuro?

Judith Behnen, Ufficio missionario dei gesuiti, Germania

Kamala sta piangendo. “Abbiamo perso tutto - dice questa donna di 45 anni - avevamo una casa a Mossul, guadagnavamo e abbiamo investito così tanto nell’istruzione di nostra figlia. Tutto per niente… Tutto è perduto, anche la nostra identità. È peggio che morire. Che futuro avremo qui?”. Kamala indica il container che ora chiama casa. Ha provato a renderlo confortevole, c’è un tappeto, un orologio, scatole con i vestiti e prodotti alimentari coperti da lenzuola, materassi ordinatamente addossati contro la parete per fare spazio.

CONTAINER NEL SAGRATOQuella di Kamala è una delle 80 famiglie sfollate che vivono nel sagrato di Mangesh, un piccolo

villaggio nel nord dell’Iraq. Dalla scorsa estate oltre 700mila iracheni sono scappati nella regione autonoma del Kurdistan per mettersi al riparo dal famigerato Stato Islamico (ISIS). Musulmani e cristiani sono arrivati da Mossul, dalla città a prevalenza cristiana di Karakosh e dai suoi dintorni, mentre gli yazidi sono giunti da villaggi nelle montagne di Sinjar. Con l’aiuto della parrocchia locale e il sostegno finanziario di organizzazioni internazionali, le prime tende temporanee nel sagrato hanno lasciato il posto a container più stabili e isolati. I rifugiati sono grati di questa ospitalità ma, dopo sei mesi di attesa, stanno diventando inquieti e si preoccupano per il futuro.

CHECKPOINT MILITARIMangesh si trova a soli 100 chilometri da Mossul. Ma da quando l’ISIS ha conquistato la seconda città irachena, i rifugiati non pensano di tornare indietro tanto presto, nonostante i piani annunciati di recente dagli Stati Uniti e dall’Iraq di riconquistare Mossul. I combattenti peshmerga curdi stanno respingendo l’ISIS e hanno già preso sotto il loro controllo tre strade principali che portano a Mossul. Lungo le strade i checkpoint militari sono un po’ per impedire a spie e combattenti dell’ISIS di invadere i territori curdi. “Improvvisamente è un vantaggio essere cristiano; è una cosa nuova in Iraq - dice Sarab Mikha con un sorriso. Come

Un campo per sfollati nei terreni della parrocchia di Mar Eliya a Erbil, la capitale provinciale del Kurdistan. (Peter Balleis SJ/JRS)

MALAwI IRAQ SETTENTRIONALE

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SERVIRESERVIRE

cristiani non siamo sospettati di sostenere l’ISIS e possiamo passare senza problemi”.

TORNARE IN IRAQ DALLA SIRIASarab coordina i progetti del JRS in Iraq settentrionale. È cresciuta a Baghdad, dove ha studiato informatica e psicologia. “Nel 2006 un gruppo terrorista islamico ha rapito mio fratello e minacciato tutta la nostra famiglia. Abbiamo pagato il riscatto e siamo scappati”. Sua madre ora vive in Canada, la sorella negli Stati Uniti e il fratello in Svezia. Sarab è andata in Siria. “Non era facile incominciare una nuova vita a Damasco. All’inizio ho lavorato come addetta alle pulizie in una compagnia informatica e una sera ho avuto una conversazione con il capo. Era sorpreso quando sono stata in grado di aiutarlo con un problema

al computer. Attraverso di lui ho incontrato i gesuiti di Damasco e ho iniziato ad aiutarli ad avviare progetti di aiuto per rifugiati iracheni e poi siriani. Ma ho continuato a sognare di tornare in Iraq e fare qualcosa per le persone che ci vivono”.

UN’ENTUSIASTA EQUIPE DEL JRS Nell’ottobre 2014 Sarab è tornata a vivere in Iraq per coordinare i progetti del JRS nella capitale provinciale curda, Erbil. Le comunità cristiane nella città hanno dato alloggio ai rifugiati con calore ed efficienza e le cose sono organizzate molto bene. Un’équipe di venti persone del JRS ha iniziato a lavorare in quattro luoghi di Erbil e dei dintorni, attraverso visite alle famiglie, programmi di istruzione e psicosociali. Quasi tutti nell’équipe sono sfollati. Molti vengono da

Karakosh o da Mossul; altri, come Sarab, hanno trascorso anni in Siria prima di fuggire dalla guerra civile e tornare a casa, dove la vita resta ugualmente pericolosa. La maggior parte di loro sono giovani e istruiti che svolgono il lavoro con un forte coinvolgimento personale.Abeer era un insegnante a Karakosh. Ora visita famiglie sfollate in una delle colonie di container a Erbil. Rupina è armena e ha già lavorato con il JRS in Siria. Ha incontrato di nuovo Sarab per caso a Erbil. Mithal è un’artista che aveva un atelier di ceramiche a Mossul. Tutto ciò che rimane delle sue opere sono poche immagini nel cellulare. Ce le mostra con un misto di orgoglio e dolore. Ora supervisiona i programmi di arti e mestieri per bambini e giovani. Suor Rajaa e Suor Raed sono due Piccole Sorelle di Gesù che si sono

unite all’équipe; la loro comunità, proveniente da Mossul, ha trovato rifugio presso le consorelle di Erbil.

PARTORIRE IN ELICOTTEROIl nostro viaggio continua a Feshkhabour, un villaggio sul confine tra Iraq e Siria. Il fiume Tigri separa i due Paesi. Famiglie di yazidi hanno cercato rifugio tra le rovine di una fattoria abbandonata e altre tende sono state montate. Il vento risuona attraverso il paesaggio cupo e un sottile strato di neve copre le colline. L’unica fonte di calore sono piccole stufe al cherosene, mentre alcune tele cerate avvolgono le costruzioni piene di spifferi.

Noura, una delle donne yazide, ci invita nella sua abitazione di fortuna. “Questa era una stalla”, dice. “Gli animali stavano qui, non le persone”. In un angolo una giovane donna solleva dolcemente da una culla un piccolo bimbo malnutrito. “È il mio primo figlio - dice Hadiya -. Siamo fuggiti dall’ISIS scappando verso le montagne di Sinjar e non ci restava più niente da mangiare. Un elicottero è venuto a salvarci e mio figlio è nato là sopra. L’abbiamo chiamato Behwar. Nella nostra lingua significa ‘senza casa’”.

OPPORTUNITÀ IN KURDISTAN Perdere la propria casa per tutti i rifugiati è un dolore indescrivibile, ma almeno nel nord dell’Iraq ci sono opportunità. “Paragonato ad altri luoghi che ospitano enormi numeri di rifugiati, il Kurdistan è un’isola stabile in una regione agitata. Si sta sviluppando e la sua economia emergente offre occasioni di lavoro”, dice il responsabile internazionale del JRS, Peter Balleis SJ. “Molti rifugiati hanno una buona istruzione e solide esperienze lavorative, perciò l’integrazione locale è possibile se si superano le barriere linguistiche”.

La maggior parte dei rifugiati parla arabo, non curdo. Per questo non è così semplice per i bambini rifugiati frequentare le scuole locali ed è difficile per i loro genitori trovare un lavoro. I programmi di istruzione del JRS stanno affrontando questo problema. “Uno dei nostri compiti più urgenti è preparare i bambini attraverso l’istruzione informale e corsi di curdo e inglese, in modo che poi siano in grado di frequentare le regolari scuole locali”, continua padre Balleis. “Lo stesso avviene per gli adulti. Imparare il curdo è la chiave per cavarsela e preparare un futuro qui”.

SOGNARE LA SICUREZZAAfaaf non vede il proprio futuro in Kurdistan. È scappata da Karakosh e ora vive con oltre 400 altre famiglie a Erbil nell’edificio incompiuto di un centro commerciale. Vuole stabilirsi in Germania con la famiglia. Uno dei suoi fratelli ha vissuto a Colonia per dodici anni, ha trovato un lavoro e costruito una casa. “La Germania è sicura, è come il paradiso”, dice Afaaf. È molto difficile per le persone come lei e Kamala considerare le opportunità a portata di mano, invece di sperare in un paradiso lontano. Hanno visto l’inferno nel loro Paese e non credono più che in Iraq sia possibile un futuro di pace. Solo il tempo potrà dimostrare se hanno ragione nella loro sconfortante valutazione di ciò che sta loro di fronte.

Abuna Zakka (a sinistra) è un prete ortodosso proveniente dal villaggio di Marga, vicino a Mossul. Sarab Mikha, che lavora per il JRS, è commossa fino alle lacrime mentre ascolta la sua storia. Abuna Zakka ha lasciato Marga insieme a 80 famiglie per fuggire dall’ISIS. Ora vivono tutti in container montati in un sagrato presso il villaggio di Mangesh nella regione di Dohuk, nel nord dell’Iraq. (Peter Balleis SJ/JRS)

Il piccolo Behwar è nato sull’elicottero che ha salvato sua madre Hadiya dalle montagne di Sinjar, dove migliaia di cristiani e yazidi sono scappati per fuggire dall’attacco dell’ISIS. (Judith Behnen)

Sarab Mikha racconta una barzelletta ai bambini che vivono nei container allestiti dalla chiesa locale per accogliere i rifugiati a Erbil. (Peter Balleis SJ/JRS)

IRAQ SETTENTRIONALE IRAQ SETTENTRIONALE

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DIFENDERE

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SERVIRE

Negli ultimi mesi è diventato quasi impossibile non sentire notizie delle conquiste e delle atrocità dello Stato Islamico (ISIS) in Siria e Iraq. Centinaia di migliaia di persone sono fuggite dagli attacchi di questo gruppo terroristico. In Kurdistan, nel nord dell’Iraq, il JRS sta lavorando a fianco della Chiesa locale per aiutare i rifugiati. Vorremmo che i nostri progetti di istruzione e sostegno psicosociale da poco avviati dessero loro il conforto e la speranza di cui hanno davvero bisogno. Per favore aiutateci ad aiutarli.

ECCO CHE COSA PUOI FARE:

Visita jrs.net per gli ultimi resoconti e jrs.net/donate per fare una donazione online.In alcuni Paesi si può beneficiare delle deduzioni fiscali donando attraverso le nostre organizzazioni partner. Scoprite di più sul nostro sito.

CARI AMICI,

Grazie

Puoi aiutare l’équipe del JRS in Iraq

50$/45€ 300$/264€

500$/440€ 1000$/880€

Per analisi mediche e medicine di una persona Per l’affitto di due o tre famiglie

Per un corso di formazione per un adulto della durata di tre mesi

Per l’istruzione di un bambino in un intero anno

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Non festeggiamo il quinto anniversario del conflitto!Elias Sadkni nel 2013 ha terminato il suo master su Conflitto, sicurezza e sviluppo all’Università del Sussex ed è ritornato in Siria. Vive ad Aleppo dove lavora come assistente direttore del JRS Siria.

È complicato parlare di Siria. Di solito evito in ogni modo di esprimere i miei sentimenti, forse perché non so realmente cosa provo a proposito di quello che sta accadendo o semplicemente perché ho paura di affrontare la verità. La situazione in Siria è troppo complessa per essere descritta in una sola parola: devastante, sconvolgente, sconfortante… L’unica realtà che vedo è che stiamo perdendo la speranza di mettere fine a questa guerra mortale e di ristabilire un giorno una vita normale.

Il bisogno più importante è la volontà di mettere fine a questa guerra. Ma finora questa volontà manca e non si può fare nulla. Ogni altro tentativo di trovare una soluzione incompleta sarebbe vano. La guerra è diventata più estesa della Siria, ma al contempo la soluzione dovrebbe partire dall’interno del Paese.

I civili, in particolare la società civile siriana, hanno avuto e continuano a giocare un ruolo decisivo. Ciò nonostante, il suo impatto è - su larga scala - limitato alla dimensione sociale del conflitto e non è stato percepito in ambito politico o militare.

Io credo in un possibile ruolo positivo da parte della comunità internazionale quando - e solo quando - sia basato su prospettive locali. Le organizzazioni internazionali possono sostenere le iniziative proposte dai siriani

per affrontare le conseguenze e soprattutto le cause della guerra. Tuttavia, il ruolo più significativo spetta ai governi, perché spingano verso una soluzione che metta fine alle sofferenze e dia protezione ai rifugiati.

Voglio mettere in pratica quello che ho imparato. Quando abbiamo avviato il progetto del JRS ad Aleppo, eravamo solo in otto a fornire sostegno a 25 famiglie bisognose. Oggi questo progetto impegna 200 persone e raggiunge oltre 10mila famiglie. Quindi sì, credo fermamente che una persona possa fare la differenza perché l’ispirazione e la speranza possano essere trasmessi agli altri.

INFO POINT

I siriani stanno entrando ora nel quinto anno di una delle più brutali guerre del XXI secolo, un tragico anniversario caduto in marzo. Mentre il bilancio dei morti aumenta a una velocità incontrollata, si sentono più sfiduciati e divisi che mai e allo stesso tempo abbandonati e attaccati da tutti. Il JRS sollecita la comunità internazionale a prendere iniziative per aprire la strada di un serio dialogo politico e, cosa di massima importanza, per una cessazione della violenza contro i civili e gli operatori umanitari. Il nostro appello al mondo è: “Non festeggiamo il quinto anniversario del conflitto siriano!”.

Distribuzione di cibo nel centro storico di Homs per i residenti rientrati dopo la firma del cessate il fuoco. (Tomy Kilahji/JRS)

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Lettura in un container trasformato in biblioteca... un luogo sicuro in cui imparare. (Judith Behnen)

SIRIA

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DIFENDEREDIFENDERE

La xenofobia si sta presentando ancora un volta nel nostro Paese. Almeno cinque persone, di cui tre sudafricane, sono morte in conseguenza di violenti saccheggi ai danni di negozi gestiti da stranieri nelle township intorno a Johannesburg. Oltre 80 negozi sono stati distrutti.

Il sensazionalismo dei media e il rifiuto delle autorità e della polizia di riconoscere i fatti dipingono questi attacchi come atti di criminalità e non di xenofobia. Ma è difficile sostenere questa tesi quando sono stati assaliti solo negozi gestiti da stranieri. Ma emerge una mezza verità: un attacco a stranieri in Sudafrica è, per la verità, un attacco ai sudafricani, tutti lo tollerano e questo è criminale. Ecco perché gli attacchi sono una questione da

prendere seriamente da parte delle autorità civili, politiche e religiose.

Gli eventi recenti ricordano quelli del 2008, quando oltre 100mila persone furono sfollate e altre 63 uccise in attacchi xenofobici. Ciò che i media non riportano è che da allora ogni anno, eccetto il 2009, molti altri sono morti per aggressioni analoghe. Nel solo 2013, 240 rifugiati sono stati uccisi in questo Paese, alcuni dei quali nelle circostanze più orribili. Nel frattempo i consigli municipali approvano normative locali allo scopo di escludere gli stranieri dall’economia e isolarli dalla comunità.

Poiché la xenofobia sembra essere una componente radicata nello scenario sudafricano, è importante sfatare alcuni miti diffusi:

Mito 1 Il Sudafrica è invaso da immigrati e rifugiati. Il Sudafrica ospita una delle maggiori popolazioni di richiedenti asilo al mondo (stimata in 315mila persone). Complessivamente, tuttavia, è un Paese in bassa posizione nella classifica dell’immigrazione: solo il 4% della popolazione è nato all’estero, circa due milioni di persone.

Mito 2 Gli immigrati e i rifugiati portano via il lavoro ai locali. Un crescente numero di ricerche compiute in Paesi diversi tra loro, come Uganda, Tanzania, Danimarca, Australia e all’interno dello stesso Sudafrica dimostra che i rifugiati e gli immigrati forniscono modelli economici di successo per servizi non facilmente accessibili, creano posti di lavoro e

Xenofobia: un crimine contro il SudafricaDavid Holdcroft SJ, direttore regionale del JRS Sudafrica

generano entrate per i sudafricani – la loro presenza giova all’economia. Dopo le recenti aggressioni, i sudafricani poveri hanno confermato questo, lamentando la perdita dei chioschi locali gestiti da somali che fornivano un buon servizio, anche di credito, nei periodi difficili e negozi di alimentari a buon mercato.

Mito 3 Accettando gli immigrati, il Sudafrica corre il pericolo di perdere le sue culture.Qui l’esperienza dell’Australia è di esempio. Consecutive ondate di immigrati hanno cambiato il tessuto della società australiana in un modo che nessuno avrebbe potuto sognare o pianificare. Ha prodotto tensioni, ma un autentico esperimento multiculturale ha lasciato il Paese maggiormente aperto a commerci maggiori con più partner di prima.

Mito 4 L’immigrazione incoraggia il terrorismo. Gli attentatori di Charlie Hebdo “si sentivano francesi ma erano visti (da molti francesi) come stranieri”. Se non includiamo gli immigrati nello sviluppo della nostra società allora la disaffezione probabilmente aumenterà. L’immigrazione è qualcosa su cui è necessario lavorare costantemente.

Mito 5 I sudafricani sono inospitali. Nella mia esperienza, i sudafricani sono ospitali tanto quanto ogni nazione sulla terra – la xenofobia ha le sue radici altrove.

LA SOLUZIONEIl primo passo è chiamare queste aggressioni agli stranieri per ciò che sono – xenofobiche e, di conseguenza, criminali. Gli aggressori devono essere perseguiti in modo che tutti imparino che la violenza non è un linguaggio lecito

per esprimere lo scontento.In secondo luogo, è vitale

riunire comunità e leader politici e religiosi per discutere le cause delle aggressioni. Queste scaturiscono dall’assenza di speranza e visione di una società in cui molti giovani entrano nell’età adulta con un’istruzione carente, poche prospettive e limitata voce in politica. Non hanno la sensazione che chi ha il potere si preoccupi di loro o li ascolti.

Le radici della xenofobia stanno in un complesso intreccio di ragioni che hanno a che fare con la grande disparità di ricchezza e l’esclusione economica e sociale di molti sudafricani. Ampi settori della comunità non fanno esperienza della coesione sociale che rende una società significativa per tutti i suoi componenti. La mancanza di responsabilità verso un collegio elettorale locale è una caratteristica particolare del Sudafrica che deve essere affrontata.

Le Chiese hanno un ruolo cruciale da svolgere poiché hanno una visione dell’umanità più ampia della semplice dimensione nazionalista o di appartenenza etnica. Devono resistere all’impulso di definire le comunità come tali.

Dobbiamo rincuorarci del fatto che Gesù stesso ha combattuto con le forze dell’ostracismo e razzismo e fu una straniera a spingerlo a immaginare in modo nuovo la sua missione. Siamo diretti beneficiari dell’intercessione della donna siro-fenicia e non dovremmo mai vedere lo straniero come altro che un’opportunità per riflettere e cambiare i nostri valori e le nostre vite.

RIFLESSIONE

Nell’episodio del Vangelo di Marco (7, 24-30), Gesù lascia la Giudea per raggiungere il territorio pagano di Tiro. Una donna originaria di quella regione, siro-fenicia, cioè greca di diversa religione e cultura, chiede a Gesù di guarire sua figlia che è posseduta da uno spirito maligno. Gesù risponde: “Lascia prima che si sazino i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”. Le parole di Gesù ci sorprendono. Sembra condividere la visione della sua gente che guarda i non ebrei come cani perché non appartengono al popolo eletto. Inoltre, la più sviluppata Siro-fenicia sfrutta la Galilea, la terra di Gesù. Ma la donna dice: “Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli”. Egli risponde: “Per questa tua parola, va’: il demonio è uscito da tua figlia”. La reazione di Gesù può essere la nostra: è in territorio straniero, incontrato da una straniera che vuole aiuto. E risponde “no”. Ma la donna torna con umiltà, intelligenza e coraggio. Forse, nelle sue parole Gesù sente la voce di suo padre che gli dice di abbattere le barriere del pregiudizio e di accettare l’intromissione dell’altro che ha bisogno. Genere, origine, cultura e religione separavano Gesù da quella donna, che gli insegna a superare queste differenze. PABLO ALONSO SJ, tratto dal volume “God in Exile” (Dio in Esilio), pubblicato dal JRS nel 2005

Sara e Yohannis hanno vissuto in Sudafrica come richiedenti asilo per dieci anni, continuamente a rischio di maltrattamenti e sfruttamento. Yohannis riesce a fatica a ricordare quante volte è stato aggredito. A Johannesburg un giorno è stato picchiato così tanto da rimanere steso in strada privo di sensi per oltre un’ora. La foto a sinistra e quella nella pagina a fronte sono state scattate durante la visita agli uffici dell’organizzazione Avvocati per i Diritti umani, a cui Sara e Yohannis hanno chiesto aiuto per ottenere lo status di rifugiati. (Graeme Williams/JRS)

QUARTA DI COPERTINA

SUDAFRICA SUDAFRICA

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16 17servir servir

DIFENDEREDIFENDERE

Verso mezzogiorno Reporter Senza Frontiere ci allertano che non hanno notizie di un giornalista siriano che avrebbe dovuto arrivare a Marsiglia. Chiamo la polizia e mi informa che il giornalista è trattenuto nell’area di attesa dell’aeroporto; non ha ancora varcato il confine. Vado a incontrarlo e scopro che è in procinto di essere mandato indietro la sera stessa e che non ha fatto domanda di asilo. La polizia di frontiera non lo aveva informato di questa possibilità… e lui stava aspettando che arrivassero Reporter Senza Frontiere per farsi avanti. Gli ho detto come presentare la richiesta di asilo e lo ha fatto. Nel frattempo le associazioni parigine hanno inviato alle autorità tutti i dati in loro possesso sul giornalista, a cui è stato dato il permesso di entrare in Francia il giorno successivo.

Il giornalista è stato una delle tante persone che si sono ritrovate all’interno del confine. Se si osserva un confine disegnato su una mappa, si vede una sottile linea tracciata tra due Paesi. Ma guardando più attentamente con buone lenti di ingrandimento, su una mappa in larga scala si vedrà che ci sono davvero persone dentro quel confine.

Quando qualcuno entra in Francia via terra da un altro Paese che non fa parte dell’area Schengen, è soggetto al controllo alla frontiera e, per molte ragioni, gli si può impedire di attraversarla. Una ragione possibile è che forse non ha compreso del tutto che i suoi documenti - il visto, il biglietto di ritorno, la lettera di invito, nonché le spese di viaggio - devono essere tutti in regola. In casi più gravi il viaggiatore potrebbe avere un visto non valido o un

passaporto falso, o perfino non avere alcun documento. In caso di transito, i documenti per la sua destinazione finale potrebbero non essere in regola.

Chiunque in questa situazione potrebbe ritrovarsi in un’area d’attesa al confine, se non può essere immediatamente rimandato sull’imbarcazione o l’aereo con il quale è arrivato. Oppure se ha fatto richiesta d’asilo. E c’è anche un altro scenario: chiunque conosca i propri diritti può chiedere un ‘giorno di chiarimento’. Si tratta di un margine di respiro di 24 ore in cui la persona può contattare i familiari e un avvocato.

Qui la polizia di frontiera può agire a propria discrezione: se decide di rifiutare l’ingresso a qualcuno e di reimbarcarlo immediatamente, nessuno è sul posto per osservare, intervenire, verificare o opporsi alla decisione.

Secondo la legge, la polizia di frontiera può trattenere qualcuno per quattro giorni, finché non sia disponibile un viaggio di ritorno o l’iniziale procedura di asilo non sia completata. Nel frattempo il “non ammesso” può contattare un avvocato e i familiari e ricevere visite e aiuto dalle ONG umanitarie. Per prolungare la detenzione oltre i primi quattro giorni, alla polizia serve l’autorizzazione del magistrato.

Che cosa fanno i visitatori delle organizzazioni umanitarie quando si recano nelle aree di attesa ai confini?

Vorrei condividere alcuni esempi dalla mia esperienza. Una è quella del giornalista siriano, descritta sopra. In quel caso il mio ruolo è stato di dare un consiglio in quello che diventava un intervento di crisi. Sfortunatamente, però, il personale delle ONG non è sempre

a portata di mano.Nelle aree di attesa le

compagnie aeree forniscono i pasti. Per oltre una settimana visito un giovane africano che riceve un pasto freddo al mattino, a mezzogiorno e alla sera. Chi può resistere a una simile dieta? Gli chiedo che cosa preferisce; parla di riso con una salsa, pollo, pesce o noccioline. Lascio la stazione di polizia e torno con un contenitore comprato e riscaldato in aeroporto. Chiedo al capo della polizia se vuole dare il cibo al ragazzo. Questi dice alla giovane guardia: “Prendilo, ma prima passa il contenitore attraverso il controllo di sicurezza”. Questo semplice gesto di umanità ha un esito inatteso: impressiona la giovane guardia che mi chiede perché visito le persone trattenute e perché continuo a tornare. I comandanti della polizia chiamano i luoghi in

cui dormono le persone trattenute “stanze”, le giovani guardie li chiamano “prigioni”.

Un’altra volta visito un uomo appena giunto dall’Algeria e a cui sono state riscontrate irregolarità nei documenti di viaggio. È sconvolto perché la polizia gli ha detto di sospettare che sia venuto in Francia per rubare ed è sicuro che scriveranno “ladro” sul suo passaporto. Gli dico che non ha modo di impedire alla polizia di rimetterlo sull’aereo il pomeriggio stesso e gli spiego tutti i rischi che il rifiuto di imbarcarsi comporta, chiarendo che la scelta è sua. Gli dico anche che potrà tornare non appena avrà alloggio e denaro necessari e se il suo passaporto e il visto saranno ancora validi. Finalmente si calma perché sente di non essere più in un tunnel senza via d’uscita… anche se l’esito finale

Dentro il confineMichel Croc, JRS Francia

Attraversare confini internazionali non è una cosa semplice anche se - a volte, soprattutto se - si tratta di una questione di vita o di morte. Il ragazzo nella foto a sinistra è appena arrivato a

Malta dopo aver attraversato il mare provenendo dalla Libia.

Darrin Zammit Lupi Chrupka/Shutterstock MA8/Shutterstock

FRANCIA FRANCIA

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RIFLESSIONE

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DIFENDERE

Tracce di resurrezioneFelix Polten SJ, JRS RDC

La Pasqua è la celebrazione della passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo. La Via Crucis, con le sue quattordici stazioni, offre un’intensa visione di sofferenza e morte e talvolta porta alla resurrezione con una quindicesima stazione. Ma le tracce della resurrezione possono essere trovate anche nelle prime quattordici. Lavorando e vivendo con il JRS nel Congo orientale, la passione e la morte, da una parte, e la resurrezione, dall’altra, sono esperienze quotidiane.

La prima stazione ritrae la condanna di Gesù: in tutto il mondo, le persone costrette a sfollare, un numero insostenibile di oltre 50 milioni di uomini, donne e bambini, sono condannate da forze del male e non hanno la possibilità di battersi contro la loro sentenza.

La terza, la settima e la nona stazione raccontano le tre cadute di Gesù sotto la croce. Celéstin osserva il luogo in cui si trovava la piccola capanna. Dopo cinque giorni nella foresta, è tornato e ha trovato il posto bruciato da uno degli innumerevoli gruppi armati che combattono qui nel Kivu settentrionale. È la terza volta che lui e la sua famiglia devono ricominciare completamente da capo. Sette anni fa abbandonarono il loro villaggio per un attacco. La loro fuga disperata li condusse a uno dei campi per sfollati interni della regione. Ma non vi rimasero a lungo: il campo fu saccheggiato e di nuovo la famiglia dovette partire per una destinazione sconosciuta. Vissero più o meno in pace in un altro campo, Muhanga, per sei anni

e mezzo, fino alla scorsa settimana.La quinta stazione mostra

Simone di Cirene che aiuta Gesù a portare la croce. Ogni volta che Zawadi trasporta la tanica di venti litri sulla schiena, legata alla testa con uno straccio, questa giovane di 11 anni sa bene che la mezz’ora di cammino per andare e tornare dalla fonte richiede un certo sforzo. Ma percorre questo cammino con gioia quattro volte alla settimana. Altrimenti, la sua vicina di 77 anni non avrebbe acqua. Igabas non riesce più a camminare e vive sola. La sesta stazione racconta come la Veronica asciughi il volto di Gesù. Maombi è orgogliosa della sua uniforme scolastica e del fatto che può frequentare la scuola

secondaria a Kashuga. È stata assente per due anni perché la sua famiglia non poteva permettersi di pagare le tasse scolastiche a tutti i figli. L’istruzione regala a Maombi la speranza di un futuro migliore fuori dal campo.

Alle persone che vivono in esilio non bastano i momenti quotidiani di resurrezione. Hanno bisogno di una nuova vita, una resurrezione sicura, non solo nel Regno che verrà, ma già oggi, in questo mondo. Ciò deve accadere perché il Regno dei cieli diventi realtà, perché il disegno di Dio per un’unica famiglia umana si materializzi, perché la vita, l’amore e la pace abbiano l’ultima parola – proprio come avviene a Pasqua.

non è quello che avrebbe preferito. Qui il mio ruolo è di spiegare la situazione, tutti i dettagli, senza cercare di influenzare la scelta dell’interessato.

Poi c’è la volta in cui sette siriani arrivano al porto di Tolone senza visto. Vogliono chiedere asilo, ma in Paesi diversi dalla Francia. La polizia pensa di dover applicare il Regolamento di Dublino che stabilisce che un richiedente asilo deve presentare domanda al primo Stato dell’Unione europea in cui entra. Se i siriani rifiutano, non c’è altra soluzione che rimandarli a Istanbul, le autorità non vogliono farlo davvero, tanto più che c’è un testimone… ovvero io. Raggiungiamo una soluzione “non illegale”: i siriani sono autorizzati a entrare in Francia, ma le loro impronte digitali non vengono prese perché non hanno fatto domanda d’asilo e viene dato loro un salvacondotto per il Paese di loro scelta.

Quando ti rechi nell’area di attesa come visitatore, entri nel campo dei diritti umani. Sono tanti gli esempi: per quanto riguarda il documento di rifiuto di ingresso, la polizia talvolta si permette di spuntare la casella “Chiedo di ripartire immediatamente”. Si verificano comportamenti indegni -“Se protesti, ti faccio a pezzi il passaporto”- e persino violenze durante i tentativi di imbarco, “gli ha colpito la testa in ascensore”. Il nostro ruolo in questi casi è di rilevare e condividere con le associazioni quei fatti che devono essere resi pubblici o portati davanti alla legge.

I visitatori nelle aree di attesa sono pochi e non riescono ad aiutare tutti quelli che vivono questa situazione difficile, non riescono sempre a controllare che i diritti delle persone siano rispettati. Perciò che cosa rende efficaci le nostre azioni quando sono, tutto sommato, così limitate?

È secondo la ben nota credenza cristiana che il male teme la luce e prospera con facilità finché gli è assicurata segretezza. Anche se i visitatori non sono sempre presenti, possono chiedere di entrare nell’area di attesa in qualunque momento senza preavviso. E osservazioni ripetute alla fine arrivano fino ai piani alti e portano davvero miglioramenti significativi in quei luoghi in cui molti soffrono e pochi possono essere al loro fianco per agire.

Anche se i visitatori non sono sempre presenti, possono chiedere di entrare nell’area di attesa in qualunque momento senza preavviso.

Gwoeii/Shutterstock

Barlumi di resurrezione tra grandi sofferenze: suor Regina del JRS di Masisi incontra una vecchia amica al campo per sfollati interni di Lubushere nell’est della Repubblica Democratica del Congo. (Peter Balleis SJ/JRS)

FRANCIA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO

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Jesuit Refugee ServiceBorgo S. Spirito 4, 00193 Roma, Italia

TEL: +39 06 69 868 465FAX: +39 06 69 868 461

Mittente (per cortesia, rispedire al mittente anche gli invii a indirizzi non più validi)

Jesuit Refugee Service Malta,St Aloysius Sports Complex,50, Triq ix-Xorrox,Birkirkara, Malta

Servir è redatto, prodotto e stampato a Malta

DARE AI RIFUGIATI UNO SPAZIO DA CONDIVIDERE SUDAFRICA

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www.jrs.net

Refuge, una nuova pubblicazione del JRS, offre uno sguardo sulle fragili ed eroiche vite di cinque rifugiati che sono stati travolti dagli eventi e sono fuggiti in Sudafrica. Le storie individuali interrogano su come gli esseri umani sopravvivano a difficoltà estreme come espropriazione, persecuzione, guerra civile, genocidio, stupro e prigionia. Questi racconti rivelano anche problemi specifici che affrontano i rifugiati in

Sudafrica: xenofobia e crimini contro gli stranieri sono temi ricorrenti. Essere ‘invisibili’ è un meccanismo di sopravvivenza per la maggior parte dei rifugiati perciò noi riconosciamo il coraggio di coloro che hanno partecipato al progetto. Il libro è parte del progetto di narrazione di storie promosso dal JRS Sudafrica che dà voce ai rifugiati e agli sfollati negli spazi urbani.