Io, Icaro e il Telecomando

31

description

Enrico Maria Guidi, mainstream. Uno studente universitario nella Urbino pseudo colta e artistica degli anni Ottanta del secolo scorso. Le abitudini, le trasgressioni, una certa misoginia, gli amori e le inevitabili delusioni fino all'età matura, con i problemi di lavoro, di rapporti e di adeguamento all'ambiente. Fino alla resa finale. Un linguaggio quasi sperimentale, al limite del gergale, con una descrizione fredda degli ambienti di quegli anni fondamentali per comprendere l'evoluzione del mondo contemporaneo.

Transcript of Io, Icaro e il Telecomando

Page 1: Io, Icaro e il Telecomando
Page 2: Io, Icaro e il Telecomando

In uscita il 30/4/2015 (13,70 euro)

Versione ebook in uscita tra fine aprile e inizio maggio 2015

(2,99 euro)

AVVISO

Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita.

La conversione automatica di ISUU a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi

preghiamo di considerare eventuali irregolarità come standard in relazione alla pubblicazione

dell’anteprima su questo portale.

La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.

Page 3: Io, Icaro e il Telecomando

Enrico Maria Guidi

IO, ICARO E IL TELECOMANDO

www.0111edizioni.com

Page 4: Io, Icaro e il Telecomando

www.0111edizioni.com

www.quellidized.it

www.facebook.com/groups/quellidized/

IO, ICARO E IL TELECOMANDO Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-880-0 Copertina: immagine Shutterstock

Prima edizione Aprile 2015 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

Page 5: Io, Icaro e il Telecomando

PARTE I

Page 6: Io, Icaro e il Telecomando
Page 7: Io, Icaro e il Telecomando

5

PRIMA. C’è tanta gente che fa Mao Mao. Perché faccia Mao Mao… questo proprio non saprei dirlo. C’è capitata per caso… forse. Non so come sia successo. Non so perché. Mi ci sono trovato. Improvvisamente. È come scendere per strada e accorgersi che si è fatta una scelta, il più delle volte una fottuta scelta che però, ormai, si è fatta. E tutto si trasforma, diventa altro e comincia a girarti attorno come una trottola e a essere tanto vero come un film virtuale, come un essere perfetto con la pelle sintetica e gli occhi bionici che fanno frii frii quando gi-rano. Mi pare di esserci cascato per caso, per un errore di cal-colo magari o, forse, perché ho spinto il tasto sbagliato del te-lecomando. Lì, voglio dire, cosa ci facevo? In quello spillo di mondo, dove il privilegio è sempre quello di non esserci. Io Icaro lo avrei evitato volentieri, ma m’è capitato tra le pal-le, come il dito medio di una donna che ti sottolinea la divi-sione tra le due. Non l’ho cercato e non l’avrei neppure fre-

Page 8: Io, Icaro e il Telecomando

6

quentato se la notte non fosse caduta all’improvviso, metallica e impasticcata, nel mezzo della notte stessa. Avrei dovuto spegnere tutto con il telecomando, una leggera pressione e… più nulla. M’ero fermato nell’agorà, fermato proprio, ansimante e desi-deroso di riposo dopo l’ennesima salita, seduto sullo scalino di un portico a fissare il vuoto di gente e di prospettiva che avevo davanti. Non volevo nessuno e nulla, solamente stare lì, come un manichino metafisico, ad aspettare un’ora giusta, una delle tante, per stordirmi tra le lenzuola, affossato nel cuscino duro e teso, sotto il piumino d’oca originale e il lampeggio pa-ranoico della radio sveglia, puntata su di un canale qualsiasi, di quelli che trasmettono ventiquattro ore su ventiquattro mu-sica del cazzo, per lo più nella lingua barbara d’oltremanica. «Già visto gli altri?» mi disse, e io mi accorsi che lo conosce-vo appena. È vero, sembra impossibile non conoscere qualcu-no, almeno di vista, qui, in questa città morta, piccola, dove tutti conoscono tutti, dove il privato è collettivo. Ma è altret-tanto reale che, anche se avevamo fatto le scuole assieme, più o meno tutte, e ora ci trovavamo ogni fottuto mattino nella stessa aula universitaria, fianco a fianco, nelle stesse bibliote-che, alle stesse mostre, rendermi conto che lo conoscevo ap-pena era una realtà effettiva. «Gli altri chi?» risposi, ma era già sparito come un ologram-ma infernale. Non ci feci molto caso, non me ne fregava nulla, era uno come tanti, forse più stordito degli altri e certamente più di me, che non ero ancora stordito per nulla, solamente af-faticato dalla salita.

Page 9: Io, Icaro e il Telecomando

7

Lo immaginavo però, percepivo dove sarebbe andato o finito anche quella sera. Lo vedevo uscire, in perfetta dimensione estetica, con la giacca blu e affannato, sudato, dall’ultimo vernissage. Appoggiarsi a un muro con la mano destra e pie-garsi in avanti, non troppo lontano dall’entrata della mostra, e vomitare tutti i tramezzini mangiati. Poi, come se nulla fosse, come se il suo stomaco fosse un sostituto sintetico, rientrare aggiustandosi il colletto della camicia, o il nodo della cravatta firmata, e infilarsi in bocca una mentina. Rimasi ancora un poco seduto sugli scalini indeciso su cosa fare. Qualcuno sarebbe certamente arrivato e non era una pre-occupazione imminente, non sapevo bene cosa me ne sarei fatto della presenza di qualcun altro. La sera passò tra inutili discorsi e risate, tra bibite e birre, come sempre, come ogni sera. Il ripetersi è un vizio sottile. Ci si carica fino all’infinito a for-za di ripetere se stessi. È come sforacchiare con un cacciavite la stessa superficie per anni, aspettando che sia totalmente sfonda e senza la possibilità di venderla a qualche miliardo di lire, a meno di falsificare una firma. La ripetitività non ha nessun altro nemico che la noia, se si cade nella noia allora anche il ripetersi diventa un gioco da rottinculo, sei fottuto per sempre. Nella noia non si ha più nulla da fare, ma nella ripeti-tività si diventa anche creativi, anzi necessariamente creativi, perché tanto tutto è assolutamente, merdosamente ripetitivo. E allora può succedere che si sogni, che si immaginino cose an-che bellissime, come assistere al banchetto degli avvoltoi che

Page 10: Io, Icaro e il Telecomando

8

si avventano su di un povero fesso legato nudo sotto il sole nel deserto del Nevada. C’è il deserto in Nevada? Boh! Gli avvoltoi che si pappano le mucose, le labbra prima… poi gli occhi… i coglioni e la fisichella pendula. Poi aprono a beccate la pancia e ficcano dentro il collo… fatto apposta il loro collo per entrare nel ventre, un collo quasi pneumatico, e tirano fuori le budella. Si pappano tutto. Uno splendido co-cktail di film italian-western infantili e documentari naturali-stici che sembrano finti come i western. E la ripetitività a vol-te si interrompe, o meglio, sembra interrompersi, se arriva qualcosa di nuovo… Un’altra fottuta ripetitività. E infatti proprio in quei tempi avevo conosciuto una ragazza, diciamo la tipa, che era da fuori di testa. Mi piaceva per i suoi modi, oltre che per come era fatta. Mi assorbiva completa-mente ed è raro trovare una donna così, una che non ti annoia con la sua voglia di sesso, con il volere sempre affermare la propria femminilità. Era come, dopo tanti anni di bocchini ve-loci, di scopate del devo farlo per dimostrare cosa poi non si sa, di rapporti stancanti e meccanici, quasi informatici, ritro-vare qualcuno con cui parlare e fare un probabile sesso senza tanti problemi o interrogativi. Una pacchia. Stavamo davanti alla città. La vedevo in tutta la sua grandeur, la città. Si delineava lungo il colle come una donna stesa, an-che se con quelle due torri sembrava più un uomo che non sa-peva bene più un cazzo di un cazzo, con una pompa a pile e-

Page 11: Io, Icaro e il Telecomando

9

terne al posto del cardio e che non voleva più saperne di nulla, se non di scaricare il seme almeno una volta alla settimana. Ma il paesaggio superava ogni limite, era un essere a sé, qual-cosa che assorbiva e che rimandava ad altre occasioni, ad altre eventualità. Uno scenario hollywoodiano costato un occhio della testa. «Piano che si consuma» le dissi mentre armeggiava, tirando come un’ossessa, a una canna mal confezionata che voleva a tutti costi passarmi… ma una volta fumato l’avrei mandata in culo, lei e tutte le sue bellezze. «La vuoi far fumare al vento?» disse con due occhi pallati e lucidi. Fumare o no, aspettavo che dicesse qualcosa di concreto, del tipo “ti va da me?”, ma non succedeva nulla e io mi sentivo sempre più stanco e già pensavo alla levataccia del giorno do-po e ai libri che mi aspettavano con un sorriso sadico e attra-ente sulla scrivania chiara - cavalletti con piano sopra, pieno stile minimale tipo Miami Vice o bancone del falegname, co-stata una fortuna per via della firma dell’architetto - ricordan-domi i giorni che mancavano agli esami. Così all’una le dissi che dovevo andare «Scusa è tardi, devo andare…» le dissi, iscrivendo le mie po-tenzialità espressive al registro delle frasi fatte, dei topi lin-guistici. Lei ci rimase niente male, anzi si accorse che era tar-di e che pure lei doveva rientrare, che le amiche probabilmen-te erano già a dormire - con chi poi chissà? - e che poi, soprat-tutto, il mattino dopo avrebbe dovuto studiare duro pure lei.

Page 12: Io, Icaro e il Telecomando

10

Un mese dopo la situazione non era cambiata per nulla. Ci si vedeva e scopare niente, si parlava in mezzo a tanta gente che parlava, beveva, sniffava e si fumava, si bucava no! quelli e-rano banditi perché schifosi. E poi c’erano quelli che ti tirava-no dentro Hegel o la statuetta di marmo trovata vicino a Ro-ma. A volte però ci si divertiva a fare certi discorsi pataccosi. Soprattutto con i moralisti, quelli che ti sparano davanti l’etica e la deontologia, che sembra una strana malattia, men-tre sorseggiano il terzo cuba libre dopo la canna fantastica di maria calabrese e che si affannano subito dopo per avere i se-metti da piantare nel vaso che sta sul terrazzo e che la mam-ma, contenta per la vocazione botanica del pargolo, annaffia ogni tre giorni domandandosi poi per mesi perché il suo bim-bo le aveva sradicate tutte proprio quando erano belle alte e piene di foglie, per appenderle a testa in giù nella stanza più buia della casa. Era divertente, dicevo, dire loro che l’etica è una stronzata, è un’invenzione bassa e raccapricciante della mente umana, come il latino o il greco, che insomma sono tut-te merdate perché tanto chi c’è c’è e chi non c’è non c’è. Non era un problema di serietà, c’era in gioco la carriera, e tutti sapevamo che chi vuole andare avanti deve avere le palle quadrate, certo, ma anche lo stomaco di ferro e il culo aperto come il tubo di un oleodotto, una lingua prensile come quella dei gatti che solletica, pronto a leccare l’anello anale del più prossimo superiore sino ad arrivare alle prime merde degli in-testini. Loro non ci credevano, no! E loro finirono come ma-rionette impiccate senza sentire dolore, convinti dei propri pensieri e dei loro presupposti, fieri santi ed eroi dalle mani

Page 13: Io, Icaro e il Telecomando

11

consumate e le lingue gonfie, con occhi di spugna e un tele-comando sessuale che gli fa rizzare la protesi appesa tra le gambe ogni volta che si deve fare piacere o si presuppone sia il momento del piacere… E te girava ‘n’ altra canna. Con la tipa comunque tutto in culo. Buoni amici… se vuoi. Ma rimanere soli mai, in quell’età del cazzo, se non altro per una questione d’immagine. Così mi ritrovai davanti alla catte-drale con una che non ricordo come si chiamasse. Nome di battaglia Fernanda, non nel senso dei terroristi, quelli un’idea cazzuta ce l’avevano, nel senso che si diceva comunemente in giro “ho infilato la Fernanda”. Parlava non so quale lingua, una specie di slang sgrammaticato pieno di “cioè” e di “non so che”, tipico di certa cultura “avanguardistica” della peniso-la, e io cominciavo a sorvolare le parole e guardavo. Guardare è la grande conquista di questo secolo, perfino un libro più che leggerlo lo si guarda, e io osservavo quella piazza che a-vevo nelle retine da decenni, e pensavo. Mi sorprendeva il fat-to che lì, nella piazza, ci giocavo a pallone uscito dall’oratorio e che d’improvviso, la domenica, lo zio arrivava con il mer-cedes - famiglia borghese la mia, di origine contadina, ma, da quando me la ricordo, borghese, medioaltoborghese - mi fa-ceva un cenno, lo zio, segno che si andava a vedere la partita a Cesena o Bologna. E solo ora mi rendo conto che i ricordi sono micidiali. Non c’è senso nel perdere la memoria, dicia-mo pure la memoria storica, ma ce ne può essere uno nel per-dere i propri ricordi, dimenticarsi ciò che si è stato per rein-

Page 14: Io, Icaro e il Telecomando

12

ventarsi, come se tutto fosse stato un sogno, un sogno appunto del quale, dopo pochi minuti, hai perso le tracce. A pensare troppo si finisce con il farneticare, e il farneticare è un privilegio di pochi e forse lo era di Icaro, ma non mio. Io mi trovavo a viaggiare nelle notti fino al mattino attendendo lo scoccare di un’ora qualsiasi, che le lancette dell’orologio della piazza centrale facessero il loro ultimo passo e mi dices-sero che era ora di rincasare. Bel casino prendere sonno poi, affascinato dalle virgole dell’alcol o di sostanze magnifiche, intrappolato nella magnificenza di abiti, gioielli e atteggia-menti, folgorato da musiche e quadri impensabili. Ma quella era la notte ed era il meglio che si potesse avere. Il giorno era questione, affare dei proletari, dei professionisti, di chi lavo-rava per sbarcare il lunario. Noi si lavorava per nulla, ossia solo per il nostro fottuto io, un divertentissimo cazzuto lavoro, chini su quintali di pagine, tonnellate di parole e qualche grammo di idee. Ma si lavorava, si studiava ed era piacevole, non era un lavoro faticoso, cioè era faticoso, ma non si suda-va, tranne d’estate, e comunque non era neppure pagato, ma-gari! Era divertente, non era un lavoro, era tempo speso per aspettare la notte. Il rigurgito del giorno, la demenza possibile e voluta fino in fondo come scelta, come necessità… il s’ei piace ei lice, con le dovute scuse a Torquato. E Icaro era sem-pre lì, con la sua presunta vita perfetta, come se nulla avesse potuto intaccarlo, nonostante le nottate peruviane, il suo suc-cesso mondano e quei sei chili di fica appresso. Non era l’invidia che me lo rendeva ostile, dio me ne scampi, era la

Page 15: Io, Icaro e il Telecomando

13

sensazione dell’errore, che qualcosa stava andando storto, che non aveva un senso o che lo avrebbe perduto perché effimero. Insomma era invidia fino all’osso. Come quando andammo alla mostra del momento. Nella sala si susseguivano i quadri della transavanguardia, un raccapricciante miscuglio di stili… un critico con la testa ra-sata come un quindicenne e dai modi affabili e la presunzione di un cardinale mediceo. Che gli artisti fossero, in quel mo-mento, i padroni del mondo, di quel mondo chiuso tra le mura dell’esposizione, era certo e non erano neppure antipatici, fa-cevano il loro mestiere, ma credersi i creatori dell’intelligenza umana era davvero troppo. E Icaro era d’accordo con loro. Pontificava sui significati dell’esistenza, cremava le idee co-me fossero cadaveri vecchi, trasformava la vita in una sorta di rappresentazione artistica più simile agli specchi che alla merdona, mediocre, maledetta realtà quotidiana. Gli prestai cinquanta carte, quella sera, perché doveva uscire con una nuova bionda favolosa, figlia di chi o amante di quale artista non ricordo, so solo che doveva portarla a cena e non poteva sbatterla in un tavolo di questo paesello… ci voleva la Riviera, qualcosa di più idoneo. «E con cinquanta carte cazzo ci fai?» gli chiesi. «N’ho rimediate altre cento in giro. I miei erano a corto ‘sta sera… già spompati.» Stronzo! I suoi, due professionisti da 400 milioni di lire l’anno, spompati? Più che altro non li aveva educati ai suoi vizi… lo stronzo! Friggevo d’invidia e invidiavo la sua pre-sunzione. Da parte mia a conti fatti, la tipa e la Fernanda, due

Page 16: Io, Icaro e il Telecomando

14

storie del cazzo. Cambiato nulla. Tanti ci ci co co e nient’altro. Roba da spararsi due seghe al giorno. Alla pros-sima pensai, magari un’amica di Icaro, di quelle che ti fanno perdere la testa solo a guardarle.

* * * La presunzione è sempre in agguato però. Anche quando ci si trova in un campo di battaglia, nel mezzo di una guerra, con le pallottole che fischiano alle orecchie. Non era una guerra nel vero senso della parola quella che vivevamo, non era la resi-stenza o guerra civile che dir si voglia, non era la seconda o la prima e neppure Baghdad, con l’inviato speciale, era sempli-cemente una sporca maledetta guerra di affermazione, di con-tinuo ritrovare se stessi, di certezze che sfilavano come una teoria di bruchi sull’asfalto, sicuri e allineati, in pericolo per il gioco di un bambino o dell’agricoltore che le stermina, giu-stamente, perché si vanno ad attaccare all’albero che tanto ha fatto per tirarlo su così ritto e orgoglioso, come mai lui l’ha avuto. Ma la presunzione aveva le proprie carte in regola. Si poteva osare tutto e tutto era osabile e Icaro questo lo sapeva bene, lo aveva capito prima di tutti noi che siamo finiti in banca, che ci mordiamo le palle per le occasioni perse e ci consoliamo sputando i peli dopo aver mangiato le palle, che ci palpiamo il fegato, il cuore, le arterie, come fossimo sempre sull’orlo di una crisi, su una linea gotica immaginaria, anche dopo il referto medico di piena ed efficiente salute.

Page 17: Io, Icaro e il Telecomando

15

(La storia della presunzione però, mi è rimasta sullo stomaco. Ci hanno infilato per anni dicendo che non si deve essere pre-suntuosi e poi ti accorgi che senza presunzione non riesci a fare nulla. Ci vuole la presunzione del santo dei calzolai che rubava il cuoio per fare i sandali ai poveri. In galera doveva-no metterlo e con lui Robin Hood. Ma tutti e due hanno fatto una carriera non male. E Icaro era un tipo del genere. Lui sapeva di non valere più di tanto, di non avere una cultura così profonda e vasta come ciò che voleva fare richiedeva. Non gliene fregava un cazzo, la presunzione l’avrebbe aiuta-to. E così fu. Ha fatto strada; una tessera giusta che dovrebbe essere bruciata, tutto si ricicla al giorno d’oggi, ma che anco-ra funziona, il pugno sempre alzato, con moderazione si in-tende, e un sorriso a trentadue denti. Poi la retorica, la vec-chia cara santa retorica ha fatto il resto.) Dopo i tentativi inutili con la Fernanda che si era scopata mezza città e io naturalmente appartenevo all’altra metà, mi stavo facendo in quattro per una ragazza. Mi piaceva da im-pazzire con quei fianchi rotondi che sembravano un invito a ogni fantasia quando camminava. Mi piacevano i suoi vestiti neri, i suoi capelli corvini e i suoi occhi verdi, le sue mani ca-paci di scorrere sulla tastiera di un computer come quelle di una pianista. Conosciuta, eravamo diventati amici presto e speravo di potere concludere, di mettermici assieme, in poco tempo. Giravamo come pazzi in macchina. Grossa cilindrata straniera e vetri elettrici, aria condizionata. Una bottiglia di Four Roses nascosta nel cruscotto. Ma giravamo e basta, par-

Page 18: Io, Icaro e il Telecomando

16

lavamo, inventavamo storie. Timidi come due criceti tutti e due… un contatto della pelle e i brividi salivano fino al cer-vello. Poi la chiamata improvvisa. Il telefono squilla ed era lei. Cor-sa per le strade strette e angolose della cittadina, un’emergenza sembrava. Si sentiva sola. A rischio di inciden-te e di multa perché si sentiva sola. Una frittata, un po’ di vino rosso e Martini dry. Poi sul tappeto nudi a strisciarsi i sessi uno sull’altra, a baciarseli e infilarseli, fino alla fine, e quando lo tiri indietro per non creare casini e scarichi tutto dove ti ca-pita: «Hai sparso tutti i bambini sul tappeto» dice ridendo, mentre ansima. Non fu un rapporto durevole, anzi si esaurì lì, in quella sera. Ci vedemmo poi, certo e scopammo un altro paio di volte a distanza di anni; ma sempre per caso. E dire che mi piaceva veramente, piaceva non nel senso solito del termine, non per scoparci o per passare un po’ di tempo, ma perché ci stavo bene, era come me, un po’ più accorta e saggia di me, ma fondamentalmente come me. Non sopportava l’esistenza. Di-ceva, tra un party e una serata a teatro, che la trovava un gran casino e un vero problema. Lei però era tutto il contrario della presunzione. E per questo era magnifica. Non voleva altro che starsene bene, vivere come voleva, non avere rotture di co-glioni. Non voleva nulla insomma o, forse, voleva tutto. A parte lei, la parentesi di lei, bella e invidiabile, era tutto un correre verso qualcosa che non esisteva, e non per illusione, ma solamente perché doveva essere così, così si era deciso. Attenti come mai a vestirsi in determinati modi, ad avere la

Page 19: Io, Icaro e il Telecomando

17

barba rigorosamente di due giorni e qualcosa sempre fuori po-sto, non avevamo tempo per rielaborare tutto ciò che imma-gazzinavamo nelle nostre menti. Era un gioco, uno splendido e divertente gioco per tutti, a parte quelli che ci hanno lasciato la pelle, ma dopotutto che fare? C’è sempre un game over. E allora? Un’altra monetina e… Il video game riprendeva. Intanto Icaro cresceva sempre di più. Eravamo convinti tutti che sarebbe diventato un dirigente di partito, non certamente di quei partiti che regnavano allora, troppo scoperti ormai e nel Novantadue gli avrebbero fatto la pelle, no! Un dirigente dei nuovi partiti, riciclaggio dei vecchi con nuove terminolo-gie sempre più del cazzo, nuovi look e le stesse facce con sor-risi più aperti o più preoccupati a seconda dei momenti, nuovi partiti sempre più schifosi, merdosi, puttanieri, spettacolari, diarroici, logorroici, rifatti con la preoccupazione del simbolo, del nome, del potere, con leader grassi o magri che parlano come vescovi, con i baffetti alla Stalin e l’occhio di chi “io ho sempre ragione”, con visi rifatti per sembrare più giovani. Un nuovo che sentivamo, che eravamo certi sarebbe arrivato, ma che speravamo non arrivasse mai. Troppo divertente era il presente. Icaro però, al pari della prima volta che gli rivolsi la parola sulla piazza, compariva di tanto in tanto e poi spariva. La sua presenza era come quella della fenice, sempre pronta a brucia-re per poi rinascere. Andava avanti, progrediva, sarebbe arri-vato, pensavamo, dove noi mai avremmo potuto desiderare,

Page 20: Io, Icaro e il Telecomando

18

sembrava qualcosa di bionico… mi aspettavo di trovarmi un suo braccio tra le mani da un momento all’altro, magari men-tre lo salutavo con affetto. La tentazione di spingere il tasto del muto sul telecomando era grossa. Lasciarlo senza parole, solo immagine televisiva senza un senso, abbandonato ai suoi movimenti così inutili e primitivi, senza il supporto della pa-rola. Uno schifo. Fu in quel periodo che ci trovammo tutti, o quasi, a una rap-presentazione teatrale, di quelle di uno dei vari centri speri-mentali dell’università. Tutti accalcati in un teatro moderno su di una scalinata di cemento grigio che dava su di un palcosce-nico anche lui di cemento. Tutti felici o simili al felice in quella bolgia di puzzo di sudore, di fumo, di canne, di alcol, di merda, di composito umano già in decomposizione. Tipo concerto rock, quando stai a ballare sul vomito di uno e non te ne accorgi e poi a casa non capisci perché puzzi tanto. Ma non è un problema poi grande, puzziamo di natura, ci riconoscia-mo dalla puzza… grande cosa gli odori. Rappresentavano qualcosa di Brecht, nel primo tempo, e dei testi nostri nel se-condo. Cagate pazzesche rilette oggi. La cosa eccezionale era che quello conclusivo, quello che sarebbe rimasto impresso, pensavo, era il mio, mentre quello di Icaro era il primo. In mezzo una merdata di uno del primo anno messo lì con l’intercessione del prof… Andò tutto bene e, come da copio-ne, applaudirono il mio pezzo. “Credo” sia andato tutto bene, perché gli attori si muovevano senza nessun senso teatrale, non sapevano minimamente cosa fosse la scena, erano legnosi e di una legnosità non intenzionale, ma d’inesperienza. Recita

Page 21: Io, Icaro e il Telecomando

19

parrocchiale, tipo. Chi se ne frega, pensai, è andata. Il pubbli-co che conosceva gli autori, perché eravamo tutti dello stesso gigantesco gruppo, si voltò verso di noi per applaudirci. Icaro si alzò in piedi e nella posizione in cui era prese tutti gli ap-plausi, tutti quegli applausi che erano destinati a me, pensai. Cercai di farmi vedere, ma inutilmente. Alla fine il merito fu tutto suo. Non ci rimase che tuffarci nel dopo spettacolo, in una stanza assieme agli attori, al regista che sembrava un ali-scafo e a qualche sedicente critico che aveva la nostra età e non un cazzo di straccio di idea. Mi fermai un poco e poi me ne sparii, lasciando lì Icaro e l’allegra combriccola a sporcarsi il naso con la peruviana e a intasarsi i polmoni con la calabre-se. La si racconta così come una pagina di diario, ma fu un even-to importante. Primo perché smisi di frequentare il teatro d’avanguardia, almeno quel tipo di teatro d’avanguardia, se-condo perché fu l’ultima volta che vidi Icaro. Icaro sparì. Di-leguato, dal giorno alla notte, anzi dalla notte al giorno. Spari-to con i suoi vestiti, con i suoi libri e articoli, con il suo cellu-lare e i suoi debiti. Era l’84 o giù di lì. Non mi sarei mai aspettato, anzi, non ci saremmo mai aspetta-ti, di ritrovarlo dodici anni dopo tra i portaborse cagacazzo, ma di quelli importanti, del partito di maggioranza. Sì, perché la conclusione di tutto ciò sarà questa: Icaro ha intrapreso una brillante carriera politica e in questo non ci sarebbe nulla di strano, era previsto, un paraculo come lui non poteva che fare una brillante carriera politica, ma che fosse riciclato, lui mez-

Page 22: Io, Icaro e il Telecomando

20

zo cocainomane, vendiculo a esigenza e a richiesta, in un par-tito che si proponeva per il rinnovamento e che faceva della questione morale il proprio cavallo di battaglia elettorale, non lo si sarebbe mai previsto. E invece è logico. A dire il vero sapevamo cosa stesse facendo dopo la sua scomparsa, ma nessuno ci voleva credere. Le indagini, infatti, partirono subito e le indagini in un paese becero come questo - il pettegolezzo è la prima attività della popolazione e viaggia più veloce che in internet, si possono rovinare carriere e ma-trimoni con le lingue esplora intestini degli abitanti, sono così sottili che possono arrivare fino all’ultima piega del colon per pulirla della merda falsa e risputarla fuori nei bar del centro o anche nella piazza, la fogna cittadina, dove le signore stanno dietro le persiane a spiare la gente, a guardare la biancheria esposta al sole per capire cosa stia succedendo in quella fami-glia o nell’altra, e dove il primo mezzo di informazione è ra-dio massaia - le notizie, dicevo, sono sempre quasi certe e comunque velocissime. Per sicurezza comunque, telefonam-mo ai genitori, o meglio facemmo telefonare a una ragazza, curiosa anche lei più che preoccupata come tutti noi, che si presentò come la sua ultima scopabile. I genitori ci dissero la verità, che noi non credemmo, e cioè che aveva vinto una bor-sa. Come poi? È rimasto un mistero. E poi perché aveva tenu-to tutto segreto? Che si trovava in America che sta per Stati Uniti. Pensammo tutti che c’era qualcosa di losco, ma non ci preoccupammo più di tanto. A livello di gruppo. Diverso il

Page 23: Io, Icaro e il Telecomando

21

caso personale. Divenne una vera e propria paranoia, dove fosse andato Icaro. I genitori mi diedero anche l’indirizzo a-mericano e gli scrissi, gli telefonai e lui mi rispose sia per te-lefono che per posta, ma io continuavo a non crederci. Mi in-vitò persino negli Stati Uniti a passare un mese d’estate “al-meno impari un po’ d’inglese” disse conoscendo i miei inutili tentativi di apprendere la lingua barbara. Forse si devono delle spiegazioni, come sempre. Non è che non credessi al fatto che Icaro fosse là, quella era un’evidenza del cazzo, solo che mi sembrava così stupido, così senza sen-so che lui fosse là mentre io sarei rimasto invece qui a sfoglia-re libri… a perdere le notti per cercare una donna… a vedere la gente che si affannava… i muri ossidarsi e i genitori invec-chiare. Così cercai di dimenticarlo o meglio, evadevo sempre quando un discorso su di lui veniva fuori, quando qualcuno riceveva le sue lettere o le sue telefonate e quando telefonava a me facevo l’orecchio sordo, rispondevo a monosillabi, così che dopo un po’ smise di telefonare e scrisse sempre di più rado, solo se strettamente necessario. Insomma compiva tutte quelle azioni del cazzo che finivano per infilarmelo sempre di più in testa. Ma cosa facesse in America, visto che vi rimase un bel po’ di tempo, non ce lo disse e neppure ci informò di quello che faceva dopo il suo ritorno, quando si stabilì nella capitale. Gran figlio di puttana.

* * *

Page 24: Io, Icaro e il Telecomando

22

Poco dopo cominciai a bere l’Averna. Poco dopo avere incon-trato una ragazza, la Michela, iscritta al primo anno di Lettere e che per un mese mi parlò di delectare e prodesse… peggio della zona, controzona e catenaccio all’italiana. Due palle che non finivano più con l’estetica del Rinascimento. Nonostante tutto, si usciva convinti che il sole non sarebbe mai tramonta-to in quel giugno, con la pelle pronta a recepire tutti i suoi possibili gradi di calore, tutta la sua splendente luminosità. I tavolini fioriti dei bar sembravano chiamarci, chiederci qual-cosa, anche se erano sempre quelle quattro o cinquemila lire che rimanevano lì, il loro argomento principale. Ma credo che se ci fosse qualcuno che conosce questa città potrebbe capire che sono proprio loro, i tavolini della piazza, attenti come stu-denti alla domanda d’esame, consapevoli di tutti i discorsi dei cittadini, delle critiche degli stranieri, delle manipolazioni dei politici, dei concorsi universitari e di tutto quello che c’è da sapere, gli unici a poter comprendere l’anima intima di questa città. Tavolini immobili, inanimati, ma presenti. Testimoni di tempi e di generazioni. Tondi, come la vita di un uomo che torna sempre al proprio capolinea, stordito dalla propria esi-stenza. Con Michela ci trovammo una sera semistellata di giugno. Lei aveva ancora a che fare con l’estetica rinascimentale e cerca-va di spiegare qualcosa, del tipo i programmi televisivi se de-lectavano o prodessavano. Io mi stavo affannando nelle sue mutandine, nell’odore primaverile che mandavano. Sentivo le

Page 25: Io, Icaro e il Telecomando

23

mani affossarsi nel suo inguine e le dita cercare l’argomento, l’entrata dello spinotto per la trasmissione di energie creative. Reclinati i sedili le salii sopra e sentii le sue gambe avvolger-mi. La infilai, ma la posizione scomoda dei sedili che si affos-savano creava problemi. A ogni andata corrispondeva un ri-torno e quando lo tiravo un po’ troppo in dietro usciva. Non me ne sarei accorto se non fosse stato per il fatto che al terzo colpo fuori porta lei lo prendeva in mano e se lo rinfilava. Una fatica della miseria ricominciare sempre da capo. A parte ciò era una gran palla. A volte ci si chiede cosa sia una donna. Non c’è risposta a queste domande. È come domandarsi cos’è un uomo, un ca-vallo, una lucertola, un caimano. Sono e basta. Avevano pure una loro ragione, per quanto inconcepibile o almeno difficile da comprendere. L’essere si esenta da certe risposte a meno che non ci si affidi al più bel libro del mondo, la Bibbia. Ma poi viene scontato domandarsi: “Che ci sto a fare?” Aveva le idee chiare però, voleva fare il critico o la critica, non accademica, militante. Avrebbe voluto organizzare mo-stre e lanciare artisti, proprio come Icaro al primo anno d’università, e questo mi infastidiva un poco. Ma ci sapeva fare, giocava con il mio telecomando come voleva, accendeva e spegneva, alzava e abbassava, schiariva e scuriva. Soprattut-to programmava il videoregistratore e finiva che si sapeva sempre cosa si sarebbe fatto, quale sarebbe stato il program-ma, quando interromperlo e riavviarlo, le cose che si potevano saltare e le immagini da fermare.

Page 26: Io, Icaro e il Telecomando

24

Quella estate fu una delle più belle forse, ma anche una di quelle in cui mi sentii in balìa di altri, e non solo di Michela, ma anche di tutti quelli che passavano accanto alla mia esi-stenza e la sfioravano come un tocco di vento. L’ho già detto, nelle cose ci si capita e basta! Non puoi farci nulla, di fatto gran parte dell’esistenza si eviterebbe, se si potesse, ma non si può e allora non resta che tuffarcisi. Così si ragionava, mentre si inghiottivano noccioline ameri-cane alternate a plegine con del succo di frutta alla pera. Michela d’altronde, non era meglio degli altri, né di me. Si gingillava come una foglia nel vento, accoglieva solamente quello che poteva essere alla sua portata. Fuori da scherzi o da giochi che non sono più concessi, non aveva nulla di ciò che a un uomo, nel senso di maschio, poteva piacere. Era diventata un uomo. Aveva gli stessi atteggiamenti, sembrava di stare con il compagno di facoltà. Tranne a letto. Lì si squagliava, prendeva in mano il cazzo come se fosse un feticcio sacro, lo accarezzava lo osannava lo baciava come null’altro. Al di fuo-ri di quello però, era un uomo. Cominciai a pensare che fosse lesbica. Poi seppi, o meglio constatai, che lo era. Se la faceva con una ricercatrice di economia, si slinguavano fino a notte fonda in una roulotte della ricercatrice, roulotte sua e del ma-rito. Ma non era proprio lesbica convinta… solo un passatem-po, tanto che durò solamente qualche mese. Cosa piacevolis-sima per noi che, saputo il luogo, andavamo a spiarle e ci ec-citavamo tantissimo. E qui sarebbe dovuto finire il racconto di Michela, che è poi la storia squallida di una futura impiegata in un comune del nord.

Page 27: Io, Icaro e il Telecomando

25

Ma tempo al tempo. È difficile però ricordarsi di quei tempi senza ironizzare o a-vere voglia di non ricordare. Certo erano tempi belli, quasi senza problemi, ma non avevano un senso, nessuno si poneva problemi seri, quesiti e, tanto meno, soluzioni. Ci si poteva addentrare nelle notti come si entra in un videogioco senza nessuna curiosità vera, senza un necessario interesse. La for-mula di vita era quella più scontata, fingere di vivere, fingere che ci fosse davvero una motivazione. Crollare come un ter-mitaio seccato dal vento, con la speranza che il giaguaro sedu-to sopra si rompa l’osso del collo. Finire come una prova tra le tante dell’indifferenza e del disagio giovanile, ascoltando le teorie fantasmagoriche e del cazzo dei sociologi e degli psi-chiatri. Era bello guardare i reportage, tipo fiction giornalisti-ca alla tele, l’intervento degli esperti e i commenti degli intel-lettuali. Che cosa ne sapevano di come vivevamo, anzi lo sa-pevano benissimo, visto che frequentavano le feste e i raduni per scoparsi la bella di turno illusa di una carriera facile o per incularsi quello più adolescenziale al quale piaceva il cazzo e basta! Senza tanti problemi di mancanza dell’immagine pater-na o altre cavolate. Tempi divertenti ma duri, in questo aveva pienamente ragione Icaro, nei quali era importante, soprattutto importante, avere il dominio del telecomando. Saperlo usare, sapere quando ac-cendere e quando spegnere, conoscere la sensibilità di ogni tasto in spugna o in materiale sintetico morbido. Non lasciarsi mai andare del tutto, controllare ogni minimo risultato, anche

Page 28: Io, Icaro e il Telecomando

26

la più piccola variazione dell’essere. Ci aveva insegnato bene Fromm, durante gli anni del liceo, cosa fosse l’essere e l’importante era applicare la sua teoria al contrario. Solo così si sarebbe potuto vivere bene. (Ricorrente a proposito, per divertirci, era ricordare le lezio-ni di storia del liceo o anche quelle dell’università. Quelle pallosissime palandrane sulla resistenza, sull’Italia fatta dai partigiani, che ci sembravano molto simili ai parmigiani. Tut-ti le conoscevano e non gliene fregava più un cazzo a nessu-no, avevano rotto i coglioni quasi come i film sulla guerra nel Vietnam, ma almeno quelli erano spettacolari. Tutta roba vecchia; patetici in quei documentari in bianco e nero, con quei movimenti a scatto, tante marionette insomma, vestiti come residui dell’ottocento puzzolente, con quelle armi da era pre-informatica che sembravano volergli esplodere in mano). I giorni passavano in queste inezie, in discussioni spesso sen-za capo né fondo. Si tirava a campare, a campare molto bene devo dire, figli di borghesi e con un mucchio di soldi in tasca. Finito giugno arrivava luglio ed era il momento esatto per an-dare via. Dove non aveva poi importanza, una destinazione qualsiasi, mare, montagna o città d’arte, nuovo mondo, basta-va andare via. Si montava sul duemila straniero o sul jet e si partiva. Una vacanza come tante, con nulla di eccezionale, ma un modo come un altro per scaricare lo stress di un anno chiu-si tra quelle mura. Poi fondamentalmente era importante il ri-

Page 29: Io, Icaro e il Telecomando

27

torno, i complimenti per l’abbronzatura, i racconti sulle av-venture, sul viaggio, racconti che finivano quando gli altri, quelli che non erano venuti con te, ti dicevano apertamente che avevi rotto i coglioni e che non ne potevano più. Dopo una di quelle vacanze, Michela ricomparve. Solita rou-tine. Ma arrivò una lettera di Icaro. Può sembrare allucinante, ma non lo era. “Ti racconto come va qui. La città è davvero grande, né Milano, né nessuna città europea può esserle pa-ragonata. Non tanto per l’estensione o per il numero di abi-tanti, quanto per il fatto che sembra davvero di vivere in un microcosmo. Non nel senso al quale ci siamo abituati o ci hanno abituati, tipo la nostra piccola città, il villaggio, come tu lo chiami, che è o, meglio, era un microcosmo, ma nel sen-so che qui veramente si incontra di tutto. Giri l’angolo e hai cambiato continente. Insomma qui ho conosciuto dei ragazzi che frequentano il mio stesso corso, ma lo frequentano da più anni. Ho conosciuto anche ragazze e qualcuna l’ho infilata. Ma qui va di moda la stravaganza e in maniera totalmente di-versa da quella che ci possiamo immaginare noi. Adesso, non vomitare, si rimorchiano ragazzini. All’inizio era difficile, ma poi ho cominciato a capire. Ora li riconosco subito quelli giusti, con i loro grandi occhi e le bocche serrate come da una paura congenita. Non credere che siano solo portoricani o messicani o afroamericani (si di-ce così qui). Ce ne sono anche di buona famiglia americana, sedici o diciassette anni, a battere nei locali giusti. Li abbordi con poco, basta una bibita o una birra e poi si esce con la tranquillità di una famiglia che si reca a messa. A volte a dire

Page 30: Io, Icaro e il Telecomando

28

il vero bisogna calmarli, per loro siamo già vecchi e hanno paura, anche perché qualcuno ci ha già rimesso la pelle. Li porti nel tuo appartamento, se vogliono, e lì comincia il bello. Poi, e scusa l’impersonale ma mi viene meglio, dopo i baci e le leccate, le succhiate e le strofinate, veniva il momento di infilarli. Non l’ho mai fatto. Mi fa senso, ho l’impressione che ci si sbatta le palle a vicenda. Così ho adottato il metodo di De Sade. Infilare il mio pippo tra le loro gambe, proprio nel punto in cui si congiungono… ricordi? E poi continuare come consigliava il Grande Marchese. So che rimarrai perplesso da questo racconto, ma a qualcuno dovevo dirlo e tu mi sembri la persona più adatta. Non credo che ti scandalizzerai poi così tanto, visto che quel libro del Grande Marchese me lo hai consigliato tu e quindi qualcosa ti attraeva, penso. Aspetto ancora una tua missiva, se hai voglia scrivi. Tuo Icaro” Non gli risposi. Perché avrei dovuto farlo? Mi raccontava un pezzo della sua vita, un po’ strano, ma poi non tanto. Si stava divertendo, aveva tutto, perché rispondere e magari avanzare considerazioni che l’avrebbero intristito? Dopotutto non face-va altro che ripetere le esperienze del Grande Marchese. Te le fanno studiare all’università no? E allora? Continuai nella mia routine. Con Michela la sera e con i libri di giorno.

Page 31: Io, Icaro e il Telecomando

29

Il fatto è che spesso è così difficile dare un senso alle cose. Promuoversi una volta ancora alla classe successiva. La fine dei racconti è sempre una fine, buona o cattiva che sia, mentre in questo cazzo d’esistenza non c’è mai una fine, o meglio, quando c’è, è troppo tardi per leggerla e compiacersene. Cosi si spaziava tra la transavanguardia e Lyotard, tra un tra-mezzino al tonno e maionese e un abito alla moda. Reclusi in atteggiamenti massmediali, passavamo nottate tutto sommato piacevoli, spensierate almeno, finché non arrivava qualcosa ad affliggerci veramente. E cosa ci affligge veramente? La mancanza, la scomparsa, come quando qualcuno muore. E in-fatti morì uno dei docenti che più mi stavano a cuore, forse l’unico che era stato onesto con me e Icaro, l’unico che non aveva creato illusioni e ci aveva preso a cuore. Insomma non si distinguevano più i momenti strani, quelli nuovi o almeno così creduti, da quelli sentimentali che ti le-gavano a una tradizione ferrea. Li si accettava entrambi con una buona linea di demarcazione e per questo credo che non avessimo capito nulla. Icaro invece aveva capito e quando gli raccontai questa fac-cenda, quando lo informai della scomparsa del professore in una chiamata intercontinentale, rispose: «Sono vecchi dai…! … Chi ti scopi adesso?… Racconta!»

* * * Fine anteprima.Continua...