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Marina Ripa di Meana INVECCHIERÒ MA CON CALMA

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Marina Ripa di Meana

INVECCHIERÒ MA CON CALMA

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Della stessa autricenelle Edizioni Mondadori

Tramonto rosso sangue

L’editore ha ricercato con ogni mezzo i titolari dei diritti di riproduzio-ne delle fotografie dell’inserto senza riuscire a reperirli tutti: è ovvia-mente a piena disposizione per l’assolvimento di quanto occorra nei loro confronti.

Invecchierò ma con calmadi Marina Ripa di MeanaCollezione Ingrandimenti

ISBN 978-88-04-62186-7

© 2012 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., MilanoI edizione settembre 2012

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Indice

Premessa

9 Istruzioni per l’uso

13 1 Il taglio del bosco 25 2 Roma o Dublino? 39 3 Il “singhiozzo” dell’uomo bianco 49 4 Il Pincio, cuore di Roma 65 5 Una famiglia di cani 78 6 I figli so’ piezz’e core 103 7 Una storia tutta italiana 118 8 Il San Giacomo 125 9 Battaglie ambientaliste 140 10 Un triangolo isoscele e due strade da cancellare 156 11 Itaca 169 12 Due matrimoni e quattro cani

188 Postscriptum

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A Carlo,

for your eyes only

Invecchierò ma con calma

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Premessa

Istruzioni per l’uso

Un tempo avevo quarant’anni. Un cappuccino, un cor-netto e sono già a settanta.

Non lo dico con nostalgia; non voglio fare come Si-mone Signoret, casque d’or del cinema francese, che nella sua autobiografia disse che nemmeno la nostal-gia era più quella d’una volta.

Perché esiste un segreto, per viaggiare nel tempo.Era estate, a Venezia. Una di quelle serate speciali,

in cui dimentichi i canali sudici della città e ti pare che perfino la laguna abbia un buon profumo. Quella sera, tra gli ospiti della Biennale, c’era Jorge Luís Borges, allora già ultrasettantenne. Non so nemmeno bene io perché (forse solo per dimostrargli in qualche modo la mia ammirazione), durante la cena a casa di Renato e Bianca Mieli, avevo nascosto nella fetta di torta de-stinata a lui il mio sottilissimo portacipria d’oro, con lune e stelle di diamantini incastonati.

A un certo punto qualcuno chiese allo scrittore ar-gentino un consiglio sul futuro della Biennale.

Borges, dopo un attimo di esitazione, stringendo le mani sul bastone d’ebano con il pomo d’argento ce-

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sellato – una sua civetteria – con quella voce bassa, un po’ da vate, disse: «Purtroppo il futuro è irreversibile. L’unica cosa che possiamo cambiare è il passato. Io, il mio, lo cambio ogni volta che ci penso...».

Allora io ero giovane, impetuosa, piena di energia, di vitalità e il futuro, più che “irreversibile”, mi sem-brava pieno di promesse. Perciò avevo pensato che la sua fosse solo la boutade di un grande scrittore che non rinuncia mai a stupire. Borges, che immaginava l’uni-verso come una grande biblioteca, piena di misteriosi corridoi, e si aggirava nei suoi labirinti con la assoluta disinvoltura della propria fragilità, era già abbastan-za vecchio (o saggio) per sapere che i viaggi nel tem-po non vanno mai in una sola direzione.

Oggi so che aveva ragione.Chi avrebbe mai detto allora che il mondo intorno a

noi sarebbe cambiato tanto? Che quelle che sembrava-no minacce lontane dal sapore esotico, come l’espres-sione boat people, sarebbero diventate una realtà alle porte di casa, affrontate con una certa... possiamo dire imprudenza?, dal mondo occidentale e anche dalle ge-rarchie cattoliche? Chi avrebbe pensato allora che quel terrorismo, che sembrava quasi sconfitto in casa no-stra, avrebbe poi assunto le connotazioni più cupe e preoccupanti del fondamentalismo islamico?

Questo non significa che io mi voglia rifugiare nel pas-sato con dei rimpianti. Voglio solo prendermi anch’io, come il protagonista di Midnight in Paris di Woody Al-len, la licenza di gironzolare avanti e indietro nel tem-po, senza dover ricorrere agli artifici fantascientifici di Ritorno al futuro, senza nessuna macchina del tempo.

Per questo, mi sono voluta creare un punto fermo, intorno al quale dipanare il mio vagabondare, il mio andirivieni tra gli avvenimenti.

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Avete presente la famosa data del 16 giugno 1904, che James Joyce sceglie per raccontare le avventure del suo Ulisse?

Ecco, con un po’ di improntitudine, dirò che ho fat-to come Joyce, e ho scelto anch’io una giornata, che rappresenta il punto di partenza e di arrivo di questo mio memoir: il 28 febbraio 2011.

Niente paura, nessuna pretesa di emulazione: da Joyce ho preso a prestito solo questo trucco. In fondo, dell’Ulisse ho letto sì e no un paio di pagine.

I pensieri che affollano la mia mente nascono dalle vie, dalle piazze, dai palazzi e dalle fontane di Roma, la città dove ho trascorso la maggior parte della mia vita. E non vi dovrete stupire se muovendomi con di-sinvoltura nei labirinti della mia mente, racconto cose che vanno molto indietro nel tempo o molto avanti, ri-spetto alla data fatidica del 28 febbraio. Una licenza che Borges mi autorizza a prendermi.

Se nei Miei primi quarant’anni il ritmo del racconto era incalzante, tutto teso verso il futuro, ora, trent’an-ni dopo, il filo conduttore della narrazione è una pas-seggiata per le strade di Roma.

Forse non è un caso se Woody Allen, quest’estate, ha girato il suo ultimo film proprio a Roma, in ben ses-santanove location! Le mie “location” non sono così numerose, ma poco ci manca...

Voglio solo precisare che nessuna unità, né di tem-po, né di luogo, né di azione, viene rispettata nel mio libro. Può addirittura capitare a volte che io stia rac-contando avvenimenti del futuro, rispetto alla data del 28 febbraio 2011, ma che appartengono al pas-sato rispetto a oggi. Forse sembra complicato, ma in realtà è molto semplice: basta seguire i meandri dei miei pensieri.

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Questa breve premessa andrebbe usata come uno di quei foglietti d’istruzioni che si trovano nelle con-fezioni dell’Ikea. Con un vantaggio: per leggere il mio libro, non vi dovrete nemmeno procurare la famosa “brugola”.

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Sono entrata in casa e ho capito subito che era cam-biato tutto.

Andrea ripeteva: «C’è più luce, così si potrà final-mente leggere anche senza accendere la lampadina». E io, con un filo di voce: «Ma che dici, figlio mio!».

In cima alla piccola rampa di gradini che porta in giardino, ho dovuto farmi schermo con una mano, e socchiudere gli occhi.

Il padrone di casa aveva deciso di cedere alle ri-chieste dei condomini e di procedere al “taglio del bo-sco”. Non solo potare qua e là, diradare e distanziare i rizoma a terra dei bambù, medicare le palme malate a causa del punteruolo rosso, tagliare le spire da grande rettile del glicine con il suo corpo ligneo e sinuoso che sale e sparisce oltre i muretti dell’albergo adiacente, liberare dall’ombra le foglie lucide, grasse, delle ma-gnolie e i fiori gialli di mimosa di certe acacie, ridur-re il troppo, lo sfuggito al controllo, dare luce alle or-tensie che preparano la fioritura per aprile. No. Tutto quello che era stato fino a quel giorno, lunedì 28 feb-braio 2011, il più segreto giardino di ombre e silenzi

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Il taglio del bosco

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del quartiere di Prati di Castello a Roma, via Ovidio 26 e 28, era sparito.

Dall’alto del cestello giallo di una gru con motose-ga, una botanica ed esperta di essenze ornamentali, piante, arbusti e fiori, che ha il suo vivaio a Vallerano di Roma, con gesti energici e precisi dava istruzioni a due operai albanesi, che eseguivano a ritmo serrato.

Ho cacciato un urlo lungo oltre un minuto: «Crimi-nali, fermatevi! C’era un sogno e ora non c’è più nul-la. Fermatevi, delinquenti!».

Dovevo avere un’aria davvero minacciosa, perché i tre si sono fermati e si sono girati a guardarmi con aria sbalordita.

Ero appena rientrata da Milano, dove avevo parte-cipato a una trasmissione televisiva, “Mattino 5”. Per tutto il viaggio avevo accarezzato l’idea di tornare a casa, sdraiarmi nella penombra della mia stanza e rior-dinare i pensieri. Ma ora avevo l’impressione di esse-re entrata per sbaglio in casa d’altri, forse nello studio di un notaio, con un tetro giardinetto angusto e bana-le, noioso come il suo proprietario.

Gli orrendi palazzi vicini, la cui vista per anni mi era stata risparmiata dalla volta verde dei miei alberi, ora si stagliavano contro il cielo in tutta la loro brut-tezza e incombevano su di me in una luce abbacinante.

È stato un momento terribile: ho capito che si era rot-to per sempre un equilibrio, che era sparito per sem-pre il luogo dove, per dieci anni, c’eravamo nascosti e riservati nei momenti peggiori.

Il mio bosco segreto, che di notte si animava di fru-scii e rumori lontani, di aliti di vento, giaceva ora da-vanti a me distrutto e umiliato dalle bianche ferite in-ferte dai denti della sega sul nero della scorza.

Se è vero quel che si legge nei libri, Cosimo, il Baro-

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ne Rampante, aveva sentito dire che nei tempi antichi una scimmia che fosse partita da Roma saltando da un albero all’altro sarebbe potuta arrivare fino in Spa-gna senza mai toccare terra. Io ne ero sicura, e quando mi avvicinavo in silenzio ai miei alberi, per osserva-re le foglie nuove, grandi e lustre, o piccole e velluta-te, e i rami neri della magnolia, dove di colpo a tempo debito sporgeva un carnoso fiore bianco, quando mi muovevo in quella luce verdastra da acquario, pensa-vo che bastava chiudere gli occhi per arrivare, che so, in Moldavia, in Carinzia, nella Selva Nera.

Tutto finito.Ho posato il bastone che avevo brandito minacciosa

davanti ai due operai albanesi e alla bionda amazzone che avevano fatto scempio del mio regno.

Sono entrata come una furia nello studio di Carlo, che pareva infastidito da tutto il trambusto che s’era creato e cercava imperturbabile di continuare la tele-fonata in cui era immerso.

«E tu non hai mosso un dito!» urlo. «Stanno distrug-gendo la mia, la nostra vita, e tu te ne stai qui, sus-surrando parole incomprensibili, in mezzo alle tue scartoffie!»

«Niente di incomprensibile, Marina. Come al soli-to esageri! Sono normali lavori di potatura che anda-vano fatti comunque! E io stavo rispondendo al sarto Primo Chiodo, che sta ritoccando i pantaloni del mio smoking per Venezia, e voleva sapere se il pacco lo porto a destra o a sinistra.»

«Ah, parlavate di coglioni! E dici che io esagero!? Ma hai provato a uscire dal tuo guscio, a dare un’oc-chiata a quell’ammasso di relitti, tronchi, rami, bam-bù sradicati, abbandonati per terra?»

«I bambù sono piante altamente infestanti» dice com-

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punto Carlo, come se ripetesse una lezioncina di bota-nica appena imparata.

«Infestanti!? Infestanti!? Ma ti hanno fatto il lavag-gio del cervello?»

A quel punto è scoppiata una inevitabile, terribile, furibonda lite, che si è conclusa con l’altrettanto ine-vitabile: «Me ne vado, non rimetterò mai più piede in questa casa!».

Con gli occhi iniettati di sangue, ho spalancato la porta d’ingresso e l’ho sbattuta con forza dietro di me.

Ho incrociato lo sguardo con la signora del piano di sopra, che stava scendendo gli ultimi gradini che dan-no sull’androne del palazzo.

«Ma bene» dice sarcastica la signora. «Begli ambien-talisti, voi Ripa di Meana! Avete fatto legna per l’inver-no? Dovreste vergognarvi di quello scempio là fuori!»

L’ho guardata ammutolita. Ho riaperto la porta di casa mia e ho urlato: «Carlo, vieni un po’ qui, la signo-ra del piano di sopra ha qualcosa da dire all’integer-rimo ambientalista!».

Credo sia in casi come questi che la mia voce possa legittimamente essere definita “stridula”. Dopo qual-che minuto di dialogo con la gentile dama del piano di sopra, Carlo si è deciso, finalmente, a dare un’occhiata in giardino. Ora anche lui era impietrito, e continuava a ripetere: «Era il giardino più incantato di Roma, e adesso è un deposito di nani di Biancaneve sbeccati».

Con un’ultima occhiata di inutile trionfo, ho deci-so di abbandonare il campo della rovina, di uscire, alla ricerca di consolazione nei paesaggi noti e intat-ti per le strade di Roma, approfittando del fatto che Andrea era impegnato a comprare salmone all’aneto gravad lax all’Ikea e a portare in un piccolo deposito

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di via Fauro (sì, la stessa via dove abitavo da ragaz-zina!) i vestiti che decido di mettere in vendita per-ché, dopo averli indossati in televisione, praticamen-te non li posso portare più d’un paio di volte. Intanto Carlo, forse un po’ stordito dai capelli folti e dalle zin-ne sode della botanica, decisa come Anita Garibaldi, stava nel suo studio, con aria affranta. In cuor mio, speravo che le mie ultime minacce di morte, seppu-re generiche, avrebbero sortito la conclusione dei la-vori del cantiere prima del tempo fissato. Penso che la bella botanica di Vallerano di Roma abbia chiama-to quello stesso pomeriggio il proprietario dell’im-mobile, spiegando l’accaduto e aggiornando il lavo-ro per l’indomani.

Sono uscita di casa e, tirando il passo, ho attraversato piazza Cavour umida, gelida, con tutte le palme mala-te, la chioma secca piegata e sorretta da un anello me-tallico, come la capuzzella di un impiccato, quando alla forca c’era ancora il boia pontificio, mastro Titta. In un vapore grigio, una sola libreria, Arion, sull’an-golo, rossa, tanto illuminata e tanto ottimistica, vuota, certo, con le panchine sul marciapiede, circondata da notizie pessime della TV che riportava manifestanti li-bici che roteavano roncole-scimitarre, e il presidente Giorgio Napolitano che dalla Germania invitava a non preoccuparsi più di tanto, in particolare per il numero dei barconi e di quanti, profughi senza futuro, sareb-bero sbarcati nell’atollo italiano di Lampedusa, pren-dendo il largo da un porto della Libia.

Arrivata al Ponte Cavour, tenendo la destra di via Vittoria Colonna, all’altezza dell’incrocio con il Lungo-tevere dei Mellini, uno strano edificio di fine Ottocen-to con un grande lucernaio, sopra il tetto, una specie di

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atelier per pittori, e ai piedi, lungo tutto il basamento, tavoli e alzate e vetrine dei grandi Ruschena, che se-condo me dovevano essere pasticceri piemontesi, ine-guagliabili nei mont blanc e nei marrons déguisés. E, quando ci penso, salivo dalla nostalgia. Un languore per la pasta di castagne glassate con un tappo di pan-na montata, o per i piccoli mont blanc di taglio “pa-ste della domenica”, con la meringa di un tempo e la panna montata come la si faceva una volta, dal latte battuto con il cucchiaio di legno poroso e biancastro, e che ora sono invece composti da spaghetti di marroni-ta pigiati nei sac à poche, da dove spuntano ormai ca-stagne insapori, e da una panna sbattuta da fruste di metallo, che è invece solo schiuma, praticamente nul-la, come la spuma con cui si fanno i cappuccini. E io vengo presa dalla disperazione, perché i sapori spari-scono. E tutto non sa più di niente.

All’improvviso mi sono sentita come quando avevo vent’anni e tornavo, la domenica pomeriggio, dalla co-lazione a piazza della Libertà a casa delle mie amiche e cugine Azzariti e Bedoni, con quelle lunghe buone cu-cinate dei miei amati parenti. Nel frattempo sono ar-rivata alla schiena d’asino del Ponte Cavour, dove ho davanti l’angolo e il bow-window dello sperone di Pa-lazzo Borghese, i platani forti, con il rostro dell’antica punta, che per secoli era stato il segnale del porto flu-viale di Ripetta nelle acque del Tevere, a terra, e i pla-tani spogli, che alla fine della luce del pomeriggio si riempiono a migliaia di storni che stridono e a poco a poco cedono di colpo, e i rami diventano pesanti e rigidi, nel silenzio improvviso. Quando da ragazzina guardavo Palazzo Borghese, pensavo che in fondo, per via di matrimonio, un giorno forse avrei potuto anch’io invitare a cena Linda Christian e Tyrone Power al Cir-

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colo della Caccia, all’ultimo piano del palazzo, punto certo, perché mi proponevo di sposare un grande no-bile, uno con i quattro quarti, e dunque con il potere di invitare a cena chiunque in quel prestigioso, magi-co luogo riservato al gotha della nobiltà.

Sono salita tenendo la mano destra sulla spalletta del ponte, più o meno lì dove, sotto una delle grandi arca-te, era all’ancora una delle chiatte dei circoli canottieri.

Circa trent’anni prima, nel 1979, nella mia deliran-te interpretazione cinematografica di Assassinio sul Te-vere di Bruno Corbucci, con Tomas Milian, lanciando-mi al tramonto dalla spalletta del Ponte Matteotti, da dove ogni Capodanno si lanciava l’“olandese volan-te” Mister Ok, mi ero gettata anch’io nel gorgo scuro del fiume per raggiungere e uccidere la mia vittima, nuotando con una muta nera da sub. E una voce all’al-toparlante, argentina e dissacrante, tipica di un giova-ne fiumarolo, mi aveva rincorso con un: «A Mari’, sta’ attenta ar cefalo!».

Per quei misteriosi allineamenti della memoria, mi sono ricordata che quella con Bruno Corbucci e Tomas Milian era stata in realtà la mia unica esperienza cine-matografica. Il mondo della celluloide non era per me, mi annoiavano le lunghe attese tra un ciak e l’altro e quel sentirsi sballottata a destra e a manca, con un truc-catore che ti seguiva come un’ombra. Avevo avuto an-che un’altra (e per la verità meno sguaiata) occasione di entrare nel mondo del cinema, in quel caso holly-woodiano, quando circa nove anni prima, nel ’70, il pro-duttore americano Bob Evans, con il quale a quel tem-po avevo una storia, mi aveva chiesto di interpretare il ruolo di protagonista di Love Story. Sì, voleva affidarmi proprio la parte che venne poi data ad Ali MacGraw, e che la rese famosissima. Alla mia obiezione che non

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parlavo l’inglese, Bob Evans mi aveva anche procu-rato una coach per insegnarmelo a tamburo battente. Poi, però, non se ne era fatto niente, perché il mio rap-porto con la coach era finito a male parole (colpa della mia insofferenza e della sua pignoleria), ma soprattut-to perché non avevo voluto lasciare Roma. Il faldone del cinema, quel pomeriggio del 28 febbraio 2011, lo richiusi ripensando all’ultima esperienza, quella del ’92, quando in Venezuela ero stata regista e sceneg-giatrice del film Cattive ragazze. Con un sottile dolore e un pizzico di autoironia, ricordai anche che il critico Paolo Mereghetti così informò i suoi lettori delle mie fatiche: “Il primo e ultimo film di una serie così breve da esaurirsi nel giorno stesso del suo inizio”.

Spostandomi sull’altra spalletta, in direzione di via Tomacelli, potevo scorgere le due chiese basse rispet-to al Lungotevere rialzato, due chiese, quella di San Gerolamo dei Croati e quella del Valadier, dove ave-vo ancora il fotogramma dell’immediato dopoguer-ra, dei miei vent’anni, appunto, quando tornavo dai cugini Azzariti dopo aver divorato il bollito con salsa verde: molto prezzemolo, olio, chiara d’uovo tritata, un po’ d’aglio e un pizzico di acciuga, che mi dava ap-pena appena un po’ di bruciore, e che però mi piace-va tanto. A quel tempo, su quell’argine, c’era, ricordo benissimo, solo una piccola urna con dentro l’Ara Pa-cis, che io vedevo e riuscivo a leggere da fuori. Era la sistemazione di un architetto dell’epoca, Vittorio Bal-lio Morpurgo. Cinquant’anni dopo, lunedì 28 febbraio 2011, invece, mi gravava l’ombra bianca di un gigan-tesco parallelepipedo di foggia balneare, l’Ara Pacis di Richard Meier, l’americano, una specie di stabili-mento di Fregene, la grande “nave” di quel segmen-

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to del Tirreno. Poi ho proseguito attraversando largo Goldoni, scorrendo lungo tutta via Condotti e, arriva-ta a piazza di Spagna, a fianco della scalinata, ho pre-so posto al Babington’s tea room. Non si entra più in quel tempio dall’uscio laterale affacciato sull’andro-ne, ma diritti, attraverso una piccola rampa, un for-nice ricavato da un varco nel muro incorniciato dal travertino. E nella luce del fondo, tra scatole nere di tè e lemon pie giallo zafferano in una vetrina vitto-riana piena di luce, vedevo Luca Montezemolo con una sua amica, in silenzio; un profilo, quello femmi-nile, che sembrava tracciato dal Pollaiolo e che tira-va su da una tazza di tè lapsang, mentre Luca teneva con le due mani un oggetto piatto, rettangolare, di ve-tro o d’alluminio, forse un iPod (o iPhone?). Lo tene-va con due mani guardando in basso, con le dita stret-te sull’oggetto, amleticamente perplesso se chiamato, veramente o meno, a salvare l’Italia.

Qualche mese prima mi trovavo a Milano, in una di quelle classiche giornate autunnali fredde e piovose. Arrivai in taxi al Grand Hotel et de Milan, sotto un ac-quazzone dirompente. Il voiturier dell’albergo (così al-meno credevo) diritto e impettito mi aprì la portiera dell’auto e, tenendo aperto l’ombrello, mi invitò a scen-dere. «Prego, signora» mi disse con accento valdese, ravviandosi con noncuranza un ciuffo biondo cenere. Mi girai per ringraziarlo, ed ecco che mi si appalesa Luca Cordero di Montezemolo!

Tornando verso il Ponte Cavour, mi sono diretta al lo-cale bruxellese Du pain quotidien per mangiare un croissant, come facevo in avenue Louise nella capi-tale belga, quando Carlo era commissario europeo. Prima di scavalcare del tutto il ponte, mi sono girata

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indietro e ho visto l’innaturale, con alcune luci aloge-ne sparate dall’alto con fasce strette e violente di luce bianca lungo la facciata qualsiasi di un edificio otto-centesco, oggi la Banca del Fucino. Hanno creato solo con effetti di luce una specie di architettura da notti bianche di San Pietroburgo, che tuttavia potrebbe es-sere anche una facciata vicentina tardo-palladiana sui Monti Berici; e girando lentamente il capo verso gli at-tici del palazzo dei gioiellieri Bulgari, in Lungoteve-re Marzio, chi guarda in alto, sopra gli attici, entra in un mondo di luce e led, un giardino d’Oriente fatto di palme, di acque scorrenti, tutto virtuale, tutto inven-tato, sull’ultimo livello di quel palazzo che ha ai piedi il Tevere e di fronte Castel Sant’Angelo e San Pietro. È l’innaturale, il trionfo del mondo virtuale del nostro profeta, Dagospia.

Ripercorro il ponte in senso contrario e, arrivata quasi al piede, sono sempre sulla spalletta a nord del fiume, quindi verso San Pietro e non verso piazzale Flami-nio. Qualche giorno prima, Carlo, che stava passeg-giando con me, e seguiva con l’occhio Rosi Greco e un suo amico fermi, con il motorino in verticale per-ché si era bloccato il freno anteriore e la ruota non gi-rava più, guardava quella casa bianca di fronte, che è quasi dirimpettaia a quella di Dagospia dall’altra parte del fiume, già in Prati, in via Vittoria Colonna. E dopo un silenzio molto lungo mi aveva detto, indi-candomi il palazzo dell’Ottocento ridipinto in bianco e il suo portone: «Qui siamo a Lungotevere Prati. Lì, al piano nobile, ora abita Marta Marzotto». Io ho stretto le labbra e ho pensato: “Ah no, questo no. Anche qui. Ma non doveva rimanere fino all’ultimo giù in Libia con Gheddafi?”.

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Sarà stato il richiamo indiretto di Gheddafi, e il ricor-do dell’ultima telefonata di Carmen Llera dall’Africa del Nord che, dicono, destabilizzò Alberto Moravia il giorno prima della sua morte improvvisa; sarà stato il Lungotevere dei Mellini a sbalzarmi a oltre vent’anni fa al Lungotevere delle Vittorie, la parte iniziale dopo la Farnesina, e il mio ricordo va a un piano alto di una palazzina in stile littorio dove abitava da tanti anni il mio amico scrittore.

Alberto mi portava sulla prua della sua terrazza che dominava Roma per poterla rimirare da lì, escluden-do dallo sguardo le odiate auto. Ma di colpo mi tor-nano in mente i nostri ultimi incontri.

Alberto si era un po’ offeso per una mia intervista a un settimanale femminile in cui parlavo sì della nostra grande amicizia, ma lo criticavo anche, etichettando-lo con l’espressione “braccin curt”. A cercare di met-ter pace fu quella volta Alain Elkann, che stava lavo-rando al suo librone-intervista Vita di Moravia, che poi uscì il giorno esatto della morte dello scrittore.

Per fare pace, eravamo andati a cena, su sua iniziati-va, due settimane prima. E sono grata ad Alain, perché così ho potuto riparlare con Alberto e rivederlo prima della sua scomparsa. Pochi giorni dopo quella cena, il mattino del 26 settembre 1990, ero nel negozio Camo-milla a comprare un piccolo cappellino simile a quel-li a trapezio degli ufficiali polacchi. La radio annun-ciò che era morto Moravia. Corsi al Lungotevere delle Vittorie. Mi fecero entrare per salutarlo, e fu l’ultima volta che lo vidi.

Mi ricordai di quella sera, quando Alberto sbuffa-va e batteva i piedi per la “faticaccia” che gli avevano imposto le ultime bozze, dove, «quell’asino di Alain capiva sempre il contrario di quel che dicevo io»... poi

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sorrideva, abbassava la voce, non dimenticava che lui, Alain, a Parigi viveva in una gran bella casa, con una gran bella donna, Diane von Fürstenberg.

Mi domando cosa avrebbe detto Alberto se avesse let-to Il tesoro degli italiani, un libro firmato nel 2002 dall’al-lora ministro dei Beni culturali Giuliano Urbani, ma con la prefazione di Alain Elkann, in cui gli affreschi della Cappella Sistina venivano attribuiti a Raffaello...

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