Introduzione Perché occorre un discorso pubblico … centrale nella costruzione dell’opinione...

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Introduzione Perché occorre un discorso pubblico sul giornalismo di Carlo Sorrentino L’assenza di un discorso pubblico sul giornalismo Sul giornalismo in Italia non si è mai sviluppato un discorso pub- blico. Se ne parla poco. Poche sono le ricerche e le pubblicazioni scientifiche in materia. Ormai sempre meno anche i libri di memoria- listica scritti dai principali professionisti dell’informazione, che rac- contano la loro vita e il loro mestiere. La professione giornalistica è del tutto assente dalla fiction proposta dai media: mentre imperversa- no medici, carabinieri, forze dell’ordine, preti e magistrati, quasi mai la fiction italiana ha saputo raccontare le professioni dei media e in particolare del giornalismo, diversamente da quanto succede altrove, dove giornali e giornalisti sono stati spesso il tramite privilegiato per raccontare trasformazioni sociali e culturali. Una conferma significativa di quanto detto viene dal processo di formazione. Soltanto da pochissimi anni esistono corsi di laurea in Scienze della comunicazione, presenti da molto tempo in quasi tutto il mondo, così come recenti sono le scuole di giornalismo quale ca- nale alternativo alla cooptazione nella professione, stabilita diretta- mente da editori e giornalisti, senza richiedere alcuna preparazione specifica. Perché questa scarsa centralità della principale forma di rappre- sentazione sociale della realtà? Molto probabilmente questa dimenti- canza è un residuo culturale di ciò che ha caratterizzato il nostro pae- se fino a non molti anni fa: l’assoluta irrilevanza del giornalismo come fattore di crescita sociale e culturale. Il nostro paese si è modernizzato, è diventato una delle principali potenze mondiali a prescindere dalla mediazione giornalistica. Consapevole di proporre una tesi forte, nelle pagine seguenti cer- cherò di argomentare quest’ipotesi, anche per dimostrare come tale irrilevanza sociale sia ormai superata e il giornalismo sia diventato un 15

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IntroduzionePerché occorre un discorso pubblico

sul giornalismo

di Carlo Sorrentino

L’assenza di un discorso pubblico sul giornalismo

Sul giornalismo in Italia non si è mai sviluppato un discorso pub-blico. Se ne parla poco. Poche sono le ricerche e le pubblicazioniscientifiche in materia. Ormai sempre meno anche i libri di memoria-listica scritti dai principali professionisti dell’informazione, che rac-contano la loro vita e il loro mestiere. La professione giornalistica èdel tutto assente dalla fiction proposta dai media: mentre imperversa-no medici, carabinieri, forze dell’ordine, preti e magistrati, quasi maila fiction italiana ha saputo raccontare le professioni dei media e inparticolare del giornalismo, diversamente da quanto succede altrove,dove giornali e giornalisti sono stati spesso il tramite privilegiato perraccontare trasformazioni sociali e culturali.

Una conferma significativa di quanto detto viene dal processo diformazione. Soltanto da pochissimi anni esistono corsi di laurea inScienze della comunicazione, presenti da molto tempo in quasi tuttoil mondo, così come recenti sono le scuole di giornalismo quale ca-nale alternativo alla cooptazione nella professione, stabilita diretta-mente da editori e giornalisti, senza richiedere alcuna preparazionespecifica.

Perché questa scarsa centralità della principale forma di rappre-sentazione sociale della realtà? Molto probabilmente questa dimenti-canza è un residuo culturale di ciò che ha caratterizzato il nostro pae-se fino a non molti anni fa: l’assoluta irrilevanza del giornalismo comefattore di crescita sociale e culturale. Il nostro paese si è modernizzato,è diventato una delle principali potenze mondiali a prescindere dallamediazione giornalistica.

Consapevole di proporre una tesi forte, nelle pagine seguenti cer-cherò di argomentare quest’ipotesi, anche per dimostrare come taleirrilevanza sociale sia ormai superata e il giornalismo sia diventato un

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luogo centrale nella costruzione dell’opinione pubblica: dunque di-venta particolarmente necessario sviluppare un ampio e articolato di-scorso pubblico sul giornalismo.

È quanto si propone questo volume collettaneo, nel quale si pre-sentano sedici interventi di professionisti e ricercatori in merito alleevoluzioni del campo giornalistico, ai temi e alle tendenze che essosta sviluppando negli ultimi anni. L’obiettivo del volume, quindi, èstimolare il dibattito sul giornalismo quale luogo rilevante di messa informa ed elaborazione della realtà.

Ma vediamo, prima, quali sono state le ragioni della sua duraturairrilevanza e come e perché progressivamente il giornalismo ha acqui-sito centralità.

Una modernizzazione che prescindedalla rappresentazione giornalistica

Uno dei più radicati luoghi comuni sul giornalismo italiano è la suaforte politicizzazione. Come sempre accade per i luoghi comuni, se sidiffondono con tale profondità è perché evidentemente colgono unnocciolo duro di veridicità.

In questo caso, la politicizzazione del giornalismo italiano deve es-sere vista non come una degenerazione dovuta a qualche fattore di-storsivo, bensì come un fattore strutturale, un «fattore di lunga dura-ta», come l’ho definito qualche anno fa (Sorrentino, 1995).

Le cause principali di tale centralità politica sono l’analfabetismoa lungo presente nel nostro paese e il ritardo con cui si è strutturatoun solido sistema economico. L’analfabetismo ha reso evidentementeimpossibile che si creasse un ampio pubblico di lettori acquirenti del-la carta stampata; mentre la fragilità del sistema industriale ha note-volmente ridotto la consistenza dell’altro cliente del sistema dei me-dia: l’utente pubblicitario.

La mancanza di un ampio mercato ha evidentemente comportatol’impossibilità per il giornalismo italiano di essere economicamenteindipendente, favorendo conseguentemente la dipendenza politica.

Non è un caso che i principali gruppi industriali, già nei primidecenni del XX secolo, entrino in possesso dei più importanti quoti-diani, dando vita alla famigerata figura dell’editore impuro, cioè unsoggetto economico che prevalentemente è impegnato in un altrocomparto industriale e assume il controllo di testate giornalistiche peracquisire la benevolenza del sistema politico.

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Si è avuta un’esasperazione della dimensione politica, che ha co-nosciuto il suo culmine nel ventennio fascista, quando il controllodella stampa divenne progressivamente sempre più asfissiante, co-stringendo i principali gruppi editoriali a cedere totalmente le redinidel comando alla volontà del regime.

Tale centralità politica, però, rimane anche quando dal secondodopoguerra, progressivamente, vengono meno le cause della dipen-denza, in seguito all’incremento dei tassi d’alfabetizzazione, sulla cuicrescita inciderà consistentemente l’istituzione – all’inizio degli annisessanta – della scuola media obbligatoria, e l’irrobustimento del si-stema industriale.

I motivi della permanenza della centralità politica sono vari. In-nanzitutto, il sistema politico gode di un vantaggio posizionale chechiaramente non vuole cedere. Il partito di maggioranza – la Demo-crazia cristiana – controlla saldamente il monopolio pubblico radio-televisivo, ed è attenta ad effettuare una politica della comunicazionetesa a stringere buoni rapporti con i maggiori gruppi industriali, pro-prietari delle testate principali. In provincia lavora alacremente per-ché i giornali siano controllati da società espressione più o meno di-retta dell’Associazione degli industriali e/o della Curia. Tutti gli altripartiti combattono questa centralità democristiana, ma non in nomedi un modello liberale e di mercato, bensì cercando d’inserirsi in que-sto processo con maggiore o minore efficacia.

Se appare chiara e comprensibile la volontà del sistema politico dinon cedere la propria centralità, meno scontato è, invece, il disinte-resse del sistema economico a sviluppare un solido sistema dei media.La ragione va ricercata nell’apertura dei mercati e della concorrenzache un sistema dei media inevitabilmente comporta, attraverso la cre-scita del mercato pubblicitario. Un sistema economico tendenzial-mente oligopolistico e basato sulla centralità di poche grandi famiglienon può guardare di buon occhio tale apertura concorrenziale.

Gli interessi politici ed economici convergono nel mantenere de-presso il sistema dei media, poco aggressivo nel ricercare nuovi mer-cati e originali interpretazioni di una realtà sociale italiana peraltro inquegli anni in gran fermento.

Un ulteriore segnale di questo tacito accordo è rappresentato dal-la caratteristica assunta dal sistema distributivo. Differentemente daquanto accade negli altri paesi a capitalismo avanzato, in Italia noncresce la grande distribuzione, ma permane – ed anzi negli anni cin-quanta e sessanta si espande – la piccola distribuzione. In questomodo, il sistema politico locale trova una sua funzione mediatorianella gestione delle licenze commerciali, mentre i grandi gruppi eco-

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nomici vedono confermata la primazia dei produttori nello scambiocommerciale con i piccoli distributori, evidentemente non in grado ditrattare su base paritaria.

Le caratteristiche del sistema distributivo incidono notevolmentenella conformazione del sistema dei media (Pilati, Richeri, 2000), in-fatti, mentre il tradizionale rapporto fra produttori e piccola distribu-zione è mediato da reti articolate di rappresentanti, grossisti ecc., nel-la grande distribuzione il consumatore è solo davanti ad enormi scaf-fali di merce, deve scegliere sulla base delle informazioni che possie-de in merito alle singole marche e ai singoli prodotti. Diventa, dun-que, fondamentale la capacità di comunicazione diretta del produtto-re con il consumatore, che avviene principalmente attraverso la co-municazione pubblicitaria sui media. Ecco perché c’è una precisacorrispondenza fra incidenza della grande distribuzione, ampliamentodel mercato pubblicitario, e crescita e articolazione del sistema deimedia.

Gli interessi convergenti del sistema politico e del sistema econo-mico trovano un’importante legittimazione nelle principali culture po-litiche italiane, quella cattolica e quella marxista, che guardano condiffidenza alla crescita del consumismo e di conseguenza stigmatizza-no lo sviluppo della pubblicità. Evidentemente, una tale humus favo-risce la visione dei media come luogo culturale di formazione e dicrescita educativa, piuttosto che come luogo economico.

Quanto finora detto spiega la costante subalternità del sistema deimedia alla politica, anche quando le cause strutturali di tale dipen-denza si attenuano.

Tuttavia, è giusto ricordare che ciò è accaduto perché la societàitaliana a lungo non ha avuto bisogno del sistema dei media, poichéaltri sono stati i luoghi e le forme attraverso cui si è compiuto il pro-cesso di modernizzazione.

Infatti, la dipendenza del sistema dei media da quello politico èindice di una più complessiva centralità in Italia della dimensione po-litica, che ha favorito un processo di modernizzazione “dall’alto” (cfr.Baglioni, 1974), in cui altri luoghi della mediazione hanno a lungosvolto un ruolo fondamentale nella socializzazione degli italiani. Sonoquelli rappresentati dal ceto medio intellettuale allargato, compostoda maestri e parroci, militanti di partito e vicini di casa, professionistidella prossimità culturale (il medico di famiglia, il farmacista di paese,l’avvocato) e capi del sindacato, insomma un’articolata pletora di“con-fidenti” in grado di tradurre nei piccoli mondi della vita quoti-diana le nuove forme sociali prodotte dai fenomeni della moderniz-zazione.

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In questo processo il giornalismo svolge una funzione di secondolivello: ad esso si espone soltanto una ristretta fascia sociale 1 allaquale è demandato il compito di diffondere le notizie, le idee e lacultura che tali mezzi presentano. I famosi «millecinquecento lettori»di cui parlava Forcella (1959) non sono soltanto una ristretta élite au-toreferenziale, ma vanno considerati come leader d’opinione che rie-laborano i contenuti giornalistici e li diffondono nelle proprie cerchiesociali.

Tali intermediari traducono simboli, idee ed opinioni nelle formeconsone, cioè comprensibili ai singoli mondi con i quali interagisco-no. Non c’è nemmeno bisogno di uscire di casa e di andare in luoghipubblici; basta restare in famiglia per trovare la figura del padre-ma-rito che racconta la vita pubblica in quanto unico abitante di tali luo-ghi, cioè gli ambienti eterogenei del lavoro, dove si incontrano “glialtri”, come i dottori, i meridionali immigrati, le “signorine” non spo-sate che iniziano a guadagnarsi da vivere e possono permettersi un-ghie laccate e messa in piega tutte le settimane, gli affollati mezzi ditrasporto.

Si tratta di una funzione socializzatrice fondamentale, ovviamentesospesa fra apertura alla modernità e controllo sociale, in cui i pas-saggi intermedi fra uno strato e l’altro permettono ritraduzioni, occul-tamenti e sottolineature, insomma interpretazioni adeguate al conte-sto.

Basta ripercorrere la storia d’Italia dagli anni cinquanta per vede-re all’opera tali leader d’opinione. Dove? In tutti i luoghi della pub-blica discussione: nelle piazze, nei bar, nelle sezioni di partito, nelleparrocchie, nelle associazioni e nelle confraternite del volontariato.Un ruolo fondamentale in questo processo è giocato dalle subculturepolitiche e dalla centralità svolta dai partiti nell’articolazione delleforme e dei processi attraverso i quali si afferma la modernità e sisviluppano nuove forme di conoscenza.

L’opinione pubblica si forma all’interno di una sfera pubblicastratificata, dove ogni individuo definisce appartenenze sociali e cul-turali attraverso reti relazionali corte, dirette, i cui snodi sono rap-presentati da mediatori tradizionali sempre più centrali: parroci, inse-gnanti, funzionari di partito, sindacalisti, dirigenti di patronati e ditutta quella vasta rete di enti collaterali e secondari che incomincianoad innervare l’Italia repubblicana.

Nella sfera pubblica stratificata, tali intermediari sono dei veri epropri nodi d’accesso, dei centri fiduciari che rassicurano nei momen-ti spesso traumatici della mobilità: geografica, sociale, economica, cul-turale. Basti pensare a quanto sia ricorrente nella letteratura e nella

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cinematografia italiana il ruolo del con-fidente (quasi sempre qualcu-no che svolge uno dei ruoli sociali prima ricordati) al quale confessa-re le ansie per il violento ingresso nel tradizionale andamento dellavita familiare di innovazioni e trasgressioni.

In questo processo è opportuno ricordare quanti e quali siano sta-ti i ruoli e le figure di portatori d’innovazione e di fratture. Un esem-pio sono gli emigranti. Il meridionale che lascia il suo paese per salireal Nord e trovare fortuna in fabbrica, quando torna a casa esibiscenella sua amata piazza dell’infanzia nuovi modi di sentire e vedere larealtà, concretamente raffigurata dall’automobile, da una nuova foggianella pettinatura, dai vestiti “giovanili”.

Se si accetta la definizione di Luhmann di opinione pubblicacome processo che definisce i temi all’ordine del giorno per un di-scorso pubblico, si può dire che la tematizzazione era svolta proprioda tali intermediari. I temi erano immessi e poi alternati nel circuitodella pubblica discussione sulla base di filtri interpretativi rappresen-tati da quelli che non a caso abbiamo chiamato con Giddens «nodidi accesso». I frames interpretativi e le definizioni delle situazioni era-no elaborati in contesti separati secondo l’opportunità e le convenien-ze stabilite da rapporti di potere e gerarchici interni a tale ceto mediointellettuale e poi socializzati, filtrati, trasferiti.

Diversamente da altri contesti, ad esempio dagli Stati Uniti, dovei giornali rappresentavano un luogo centrale per l’integrazione socialedei neoimmigrati, in Italia i media erano la camera di compensazionedove si formavano le idee e le linee interpretative della classe diri-gente. Non è un caso, allora, se in tale giornalismo siano stati a lungodominanti l’opinione, il commento rispetto alla cronaca dei fatti. Ilcinico ed autoreferenziale incipit degli editoriali di Missiroli: «i fattisono noti», che gli consentiva di passare rapidamente al commento,per esprimere le proprie opinioni, conferma come i fatti fossero unpretesto per ribadire punti di vista e linee politico-culturali preesi-stenti.

Tutto ciò non vuol dire che i cittadini (quelli che oggi piace chia-mare la “gente comune”) fossero disinformati, totalmente a digiunodi quanto avveniva nel paese. Il modo attraverso il quale gli interme-diari culturali traducevano quanto acquisivano esalta la funzione so-cializzativa delle pratiche discorsive. La chiacchiera al mercato, laconversazione a tavola in famiglia, la discussione in piazza, la litigataal bar permettevano a tutti di articolare le proprie conoscenze, di svi-luppare una nuova qualità dell’immaginazione 2: «la conversazione èuno scambio tra menti con memorie e abitudini diverse. Le mentinon si limitano a scambiare dei fatti: li trasformano, li rimodellano,

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ne traggono conseguenze diverse, ne prendono lo spunto per formarenuove catene di pensieri. La conversazione non si limita a rimescolarele carte: ne crea di nuove» (Zeldin, 2002, p. 39).

L’articolata combinazione della cultura pubblica, «una zona di di-battito culturale [...] un’arena in cui altri tipi, forme e sfere della cul-tura si incontrano, interrogano e contestano a vicenda in modi nuovie inattesi» (Appadurai, Breckenridge, 1988, p. 6), era tradotta nellavita quotidiana dall’efficace azione dei nodi d’accesso. In questo pro-cesso, i partiti politici e le loro culture di riferimento costituivanosenz’altro ciò che Stuart Hall (1978) ha chiamato «definitori primari»,cioè istituzioni che garantivano i principali quadri interpretativi deglieventi, gestivano i principali significati sociali degli stessi, stabilivanole definizioni delle situazioni (i frames interpretativi). Arrivavano di-rettamente ai cittadini attraverso una pervasiva quanto efficace rete diistituzioni intermedie: dalle parrocchie alle case del popolo, dalle cel-lule sindacali all’associazionismo culturale. In questo modo, l’apparte-nenza politica – al di là dell’effettivo livello di partecipazione dei sin-goli individui – era determinante nella formazione delle identità indi-viduali, e i media assecondavano tali processi. Non a caso, la colloca-zione politico-culturale è stata tradizionalmente il principale posizio-namento dei mezzi di comunicazione italiani (Sorrentino, 1999), checostituivano una bussola politica per il descritto ceto intellettuale me-dio allargato, per “farsi un’idea” su cosa e come pensare in ordine aivari eventi e per gestire poi tali opinioni nella propria quotidianità.

L’Italia del boom e del miracolo è entrata nella modernità riu-scendo a ben adattare le tradizionali reti relazionali. Di fatto è stata lasolidità delle reti corte e dei legami forti che ha permesso traduzionilente e progressive del nuovo mondo che favorissero l’allenamento in-dividuale alla distinzione e alla diversità; che rendessero possibile im-maginare di vivere in altre città, di cambiare lavoro, di sposare perso-ne di altri paesi di provenienza. Insomma, l’incontro con l’alterità,costitutivo della modernità, della vita urbana, della società industrialee poi della comunicazione e del sapere, è stato mediato con efficaciae con saggezza dalle principali istituzioni della prossimità sociale eculturale, attraverso letture politicamente forgiate e orientate dallapervasiva presenza dei partiti nella società italiana.

L’azione è stata efficace, se si pensa a come l’Italia abbia compiu-to un rapidissimo processo di modernizzazione, pagando peraltro co-sti sociali contenuti. L’integrazione fra istituzioni consolidate e formesociali rinnovatesi ha prodotto un buon amalgama e garantito la tenu-ta sociale.

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In questo processo il ruolo della rappresentazione giornalistica èstato del tutto secondario. Come paradigma di ciò può essere assuntala constatazione che la società italiana non è affatto rappresentata neimedia degli anni cinquanta e sessanta: se si riprendono i giornali del-l’epoca, si fa enorme difficoltà a trovare una società dinamica, in for-te trasformazione, in cui si stanno realizzando enormi processi migra-tori, d’industrializzazione, di crescita sociale e culturale (Bechelloni,1982; Sorrentino, 1995). D’altra parte, la RAI cattolica di Bernabeiracconta un paese molto più tradizionale di quanto non sia; un paeseche desterà stupore e smarrimento quando con il ’68, prima, e con ilreferendum sul divorzio, poi, si rivelerà secolarizzato e aperto a nuo-ve istanze sociali e culturali.

Individualizzazione e interdipendenza

Il processo di modernizzazione guidata dall’alto e a centralità politica,se ha consentito la tenuta del corpo sociale e l’ingresso nella moder-nità, comportava un fortissimo controllo sociale e un limite alla mobi-litazione delle conoscenze e alle possibilità d’azione da parte dei sin-goli.

Era inevitabile che dovessero emergere nuove istanze ed esigenzesociali, specialmente fra soggetti sociali che – entrando in nuovi mon-di – progressivamente imparavano a gestire nuovi ruoli e a costruirenuovi punti di vista e concezioni del mondo. A tali soggetti tanto lamediazione familiare, della prossimità sociale e culturale quanto quel-la politica dei partiti non bastava più. Anzi, iniziavano a contestarla,se non anche a detestarla.

Il movimento del ’68 ha rappresentato la rottura di ben stabilischemi interpretativi e di sistemi di riferimento da parte di almenotre specifiche categorie di soggetti sociali: donne, giovani e operai.

L’ingresso delle donne nel mondo del lavoro e l’innalzamento delloro livello d’istruzione, favorito dall’obbligatorietà della scuola me-dia unificata, determina progressivamente la consapevolezza della va-rietà dei mondi di vita e della loro complessità. Inoltre, fornisce lamisura della marginalità sociale e politica in cui la secolare chiusuranel privato familiare aveva relegato le donne. I più famosi slogan delmovimento femminista, «il privato è politico» e «io sono mia», sonoben esemplificativi del ritardo con cui le donne si accorgono dicome le traduzioni dei nodi d’accesso di cui prima si è detto tendes-sero a sopire, ad arginare una presenza attiva delle donne sulla scena

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sociale. La teorizzata centralità della donna nel privato della vita fa-miliare, esaltata da tante pubblicazioni e dalla programmazione tele-visiva, ma soprattutto legittimata da quelle reti relazionali corte dicui prima si è detto, inizia ad essere percepita come deliberata stra-tegia d’emarginazione, e in tal senso, combattuta, non soltanto attra-verso le più appariscenti contestazioni operate dal movimento, mamolto più pervasivamente nella vita quotidiana, nella diversa e origi-nale combinazione dei set di ruolo assunti nelle ormai diversificateistituzioni frequentate.

Analogamente, le giovani generazioni del baby-boom iniziano atrarre le debite conseguenze da un processo di socializzazione cheper la prima volta – specialmente nei ceti sociali più affluenti – è ca-ratterizzato da una pluralità d’esperienze e da una vivacità culturaleprecedentemente inimmaginabile: la scuola, la musica rock, i libri tra-dotti, il cinema americano, la minigonna, i cardigan variopinti, i viag-gi, le vacanze come fase di sospensione di molte regole sociali. Tuttociò favorisce un’immaginazione più fervida, in cui è possibile pensareprocessi di mobilità sociale e culturale fino a pochi anni prima impre-vedibili. L’affrancamento dal bisogno rende possibile porre comecentrali quei valori che Inglehart (1988) definisce post-materialisti, suiquali poter costruire una propria innovativa identità, tesa a realizzarei valori traditi dagli “adulti” (Sciolla, 1990).

Il movimento operaio segna la rottura con quella declinazionedella modernizzazione guidata dall’alto che Baglioni (1974) definiscedegli ideali superiori e tesa a realizzare il cambiamento senza trasfor-mazione sociale. Il movimento rompe il clima conservatore e confor-mista con il quale il sistema politico e il grande sistema economicogestivano la società, e si presenta come nuovo e rilevante attore nellacontrattazione sociale, che non redistribuisce soltanto reddito, ma an-che concezioni del mondo e stili di vita.

Ovviamente, non si ha qui lo spazio adeguato per articolare ulte-riormente le ragioni della mobilitazione dei tre movimenti (operaio,studentesco e femminista), nonché per descrivere i modi e le formeche tali ragioni assunsero e l’efficacia delle loro azioni. Interessa sol-tanto sottolineare come negli anni settanta sia progressivamente venu-ta meno nel compito d’intermediazione culturale la preminenza deiluoghi della prossimità prima descritti. Tali luoghi si ridefiniscono manon scompaiono, né diventano irrilevanti, come pure tantissima lette-ratura da allora in poi sostiene, parlando un po’ troppo semplicistica-mente di morte della famiglia, della scuola, della religione, della poli-tica ecc. 3. Ciò che muore, invece, è la centralità della dimensione co-

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munitaria, nella quale fino ad allora queste istituzioni avevano opera-to, poiché nuove forme sociali obbligano a ridiscutere le loro funzionie le conseguenti modalità di svolgimento.

In definitiva, ciò che caratterizza i processi descritti è una mobili-tazione individualistica. La scuola, il lavoro, i viaggi, l’associazioni-smo, la partecipazione politica, l’attività sportiva e i consumi culturalidiventano pratiche sociali quotidiane e diffuse per un crescente nu-mero di individui: si realizza così per ognuno una moltiplicazione deimondi sociali abitati, che fa confluire la varietà d’esperienze diversenella propria costruzione identitaria. Si determina un processo di dif-ferenziazione sociale e d’individualizzazione che si intreccia con lafunzione dei media in uno stretto rapporto di cause ed effetti.

La diversità delle esperienze compiute dall’individuo, gettato inpiù mondi sociali, comporta un allargamento dello spazio pubblicoda lui frequentato, si fa più ricco ed articolato il flusso d’informazio-ni, da gestire adesso attraverso la sua più estesa rete di relazioni so-ciali. Il soggetto sviluppa così un capitale sociale individuale menodefinito dalle sue appartenenze tradizionali e maggiormente consi-stente nelle sue azioni (agency 4): l’opera di traduzione nei propricontesti di vita quotidiana è più personalizzata che nel passato, e siavvale di una ricchezza simbolica derivata proprio dalla varietà e dal-la diversità delle esperienze dirette svolte nei vari mondi sociali, maanche di quelle mediate e deterritorializzate che i media consentono.

Infatti, l’evoluzione tecnologica, con la conseguente centralità as-sunta dai media elettronici, favorisce la fusione dei mondi informati-vi. Diventa più facile fare esperienza dell’alterità, anche e soprattuttoattraverso il ricco patrimonio simbolico mostrato dai media. Come ri-corda Meyrowitz, i media elettronici hanno la tendenza a «fonderemolte situazioni sociali precedentemente separate, a confondere la li-nea di confine fra comportamenti pubblici e privati e a rompere illegame, un tempo dato per scontato, tra posizione fisica e “posizio-ne” sociale» (Meyrowitz, 1993, p. 121).

La separatezza propria della fruizione della stampa, che favorivala stratificazione della sfera pubblica, è superata dalla rottura provo-cata dai media elettronici e dalla loro maggiore immediatezza, perva-sività e facilità di fruizione, per la natura stessa dei mezzi, che nondevono essere cercati, rincorsi, acquistati, ma raggiungono il pubblicodirettamente in casa: «oggi, le informazioni sono molto più condivisedai diversi settori della popolazione. Ciò che molti individui appren-dono e sperimentano attraverso i media elettronici dipende relativa-mente poco dall’età, dal tipo di istruzione e dalla posizione sociale

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[...] a differenza di quanto accade con i libri 5, le élite non possonousare la televisione per comunicare solo tra loro e su di loro» (Mey-rowitz, 1993, pp. 134-6). Diventa più difficile gestire la segretezza,mantenere separati ambiti di discorso e conseguentemente garantirel’inaccessibilità sociale, che significava anche il mantenimento di unelevato status sociale e di potere per gli intermediari culturali primarichiamati 6.

I media diventano degli ascensori cognitivi (Sorrentino, 2001), che– spostandosi fra varie dimensioni e contesti di azione – favorisconol’inclusione sociale, da intendersi come capacità d’azione e di mobili-tazione cognitiva, di formarsi le proprie opinioni e di renderle coe-renti con i valori e le rappresentazioni sociali usati per costruire lapropria immagine della realtà.

Questa visione del ruolo svolto dai media elettronici è – comeben si sa – fortemente criticata da chi sottolinea, invece, una crescitanelle società contemporanee del potere d’influenza e di controllo,reso più subdolo proprio dall’informalità attraverso cui agisce.

Non negando l’esistenza di differenti capacità di presenza e d’in-cidenza sui media da parte dei diversi attori sociali (con la conse-guente capacità d’imporre specifiche ed interessate “definizioni dellasituazione”), condividiamo con Appadurai la convinzione che la per-durante visione dei media – e in particolare della televisione – come“oppio dei popoli” derivi dalla confusione fra immaginazione e fan-tasia.

Con fantasia lo studioso indiano intende la possibilità che agli in-dividui venga mostrato un mondo irreale a cui affezionarsi, ma irrag-giungibile in quanto inesistente. La fantasia ha a che vedere con l’illu-sione. Ed è su queste basi che i critici dei media argomentano la co-struzione di illusioni per il popolo e la conseguente propagazione dialienazione e falsa coscienza, imposte dalle forze del consumismo, perprodurre autoreferenzialità e indifferenza. Si tratta di una critica ba-sata su un paradigma che separa nettamente il pensiero dai progetti edalle azioni, e vede nei media un pericoloso agente di contenimentodell’azione attraverso l’esaltazione dell’illusione, del fantasticare.

Alla fantasia Appadurai contrappone l’immaginazione, intesacome possibilità di mescolare nella propria mente informazioni chearrivano dalla varietà d’esperienze immediate e mediate che – comedetto in precedenza – gli esseri umani compiono, nonché come con-seguente possibilità d’adoperare in modo originale tali informazioniper definire quella che Hannerz (1998) chiama «il network delle pro-spettive culturali di un individuo». La prospettiva culturale è una

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struttura biografica che riflette l’intero repertorio di ruoli sociali del-l’individuo: si modifica in continuazione, e in modo cumulativo ri-flette coinvolgimenti ed esperienze precedenti, diventando un para-digma personale che alimenta l’azione. Questo processo porta Appa-durai ad affermare che «l’immaginazione è una palestra per l’azione,e non solo per la fuga» nel limbo alienante della fantasia (Appadurai,2001, p. 22).

L’immaginazione è dunque «un campo organizzato di pratiche so-ciali, una forma di opera (nel duplice senso di lavoro fisico e di prati-ca culturale organizzata) e una forma di negoziazione tra siti d’azione(individui) e campi globalmente definiti di possibilità» (Appadurai,2001, p. 50).

La varietà dell’esperienza individuale odierna, favorita e acceleratadai media elettronici, accresce il capitale immaginativo di un maggiornumero di persone, e rende l’immaginazione parte del lavoro mentalequotidiano della gente comune. Ma c’è un’altra conseguenza dell’al-largamento sociale della possibilità d’immaginare: la dimensione col-lettiva di quest’esperienza. Come afferma Benedict Anderson (1996) èstata proprio la stampa a sviluppare il senso dell’appartenenza nazio-nale fra gli individui, i quali – anche senza mai incontrarsi – hannoiniziato a pensarsi come italiani, americani, giapponesi, e a svilupparequelle che l’autrice definisce «comunità immaginate». Questa feliceintuizione riconosce il valore fondante dell’immaginazione, ma soprat-tutto ne sottolinea la dimensione collettiva, che crea condivisione eappartenenza.

L’arricchimento del patrimonio simbolico articola significativa-mente le comunità immaginate d’appartenenza degli individui, per lequali si è parlato di “comunità di sentimento”, di “comunità deimodi di vita”, oppure – con un termine maggiormente diffusosi –“stili di vita”. Queste definizioni descrivono un agire individuale defi-nito dalla pluralità delle appartenenze e dalla complessa e mobile ar-ticolazione in ogni singolo individuo dei tre distinti capitali individua-ti da Bourdieu (1983): economico, culturale e sociale.

Tali comunità interpretative producono nuove reti di significato eoriginali configurazioni sociali, delle quali prendere consapevolezza,riconoscendo chiaramente la loro fragilità. Sono comunità da cui sipuò entrare ed uscire con facilità, aderirvi parzialmente; non possonoessere confuse con la solidità o la costrittività delle comunità tradizio-nali 7, anche se rappresentano uno strumento utile per «considerarela società dal punto di vista del potenziale d’azione degli individuiche deriva dalle strutture di relazioni» (Bagnasco, 1999, p. 67).

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L’individualizzazione è un fenomeno ambivalente nella misura incui produce maggiore indipendenza degli individui dai tradizionaliluoghi della prossimità fisica e culturale e dagli intermediari ricordatinel paragrafo precedente, ma, contemporaneamente, rende l’indivi-duo maggiormente interdipendente, attraverso l’allargamento dellereti di relazioni e l’adesione ad un maggior numero di comunità d’ap-partenenza, seppure fragili e cangianti.

Su questo punto può aiutarci molto l’elaborazione teorica di Gid-dens, per il quale i rapporti sociali sono “tirati fuori” dai contesti lo-cali d’interazione e ristrutturati su diversi archi spazio-temporali. Lavita quotidiana si rimodella nel contesto di più ampi cambiamenti so-ciali, ciò rende più impersonali le relazioni, ma non meno autentiche.È infatti richiesta la fiducia attiva, conquistata sulla base di una re-sponsabilità sociale costruita sull’inclusione dell’altro e non derivatada prestabilite posizioni sociali. Affinché la crescita dell’autonomiad’azione individuale non si trasformi in caos ed egoismo, si deve pre-vedere il riconoscimento della reciprocità, cioè la conoscenza e il ri-spetto delle ragioni dell’altro: nelle interazioni diventa fondamentalela capacità di riconoscere attese e aspettative, non più derivate dal-l’intimità e dalla profonda conoscenza, tipiche delle comunità tradi-zionali, ma dalla continua discussione e dallo scambio di opinioni.

A partire dall’istituzione più vicina – la famiglia – ogni compo-nente deve assumere i comportamenti adeguati al proprio ruolo, com-prendendo di avere a che fare con interlocutori – mogli, mariti, figli,genitori – ognuno dei quali porta in casa prospettive derivate dall’in-sieme di ruoli pubblici e privati che svolge. Anche nei rapporti fami-liari si negozia sulla base di un’articolata presentazione delle ragionidi tutti, ragioni derivanti dall’insieme di componenti che abbiamo vi-sto definire l’identità dell’individuo contemporaneo. Questo processod’intellettualizzazione delle pratiche sociali (Giddens, 1994), cioèastrazione dal contesto specifico e capacità di produrre una riflessionepressoché continua sulle condizioni delle proprie azioni, definisce l’al-largamento dello spazio discorsivo, che incide sui processi decisionalie sull’azione. Anche nel privato della propria famiglia si definisce unospazio discorsivo pubblico, perché vi partecipano prospettive definitedall’insieme dei ruoli degli interlocutori: «la relazione è determinatada chi l’altro “è” in quanto persona, piuttosto che da un particolareruolo sociale» (Giddens, 1997, p. 146); la capacità di dialogo diventaquindi una qualità relazionale decisiva perché si crei una reciprocitàbasata su «un’autonomia psicologica e materiale indispensabile a co-municare effettivamente con gli altri» (ivi, p. 148).

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La progressiva centralità sociale dei media

Come si è visto, il ruolo dei media è molto importante nella molti-plicazione delle esperienze e dell’arricchimento del patrimonio sim-bolico.

Le nuove esigenze sociali degli individui richiedono non soltantola crescita degli scambi informativi, ma anche la loro accelerazione,come ricorda Elisabeth Eisenstein (1986) quando definisce «rivoluzio-ne inavvertita» l’incessante processo d’innovazione tecnologica finaliz-zato a velocizzare i processi comunicativi, da Gutenberg ad oggi.

Per questo motivo, l’Italia degli anni settanta, caratterizzata daimutamenti prima descritti, dalla centralità di nuovi soggetti sociali edalla loro richiesta di differenti modi d’interagire ha bisogno di ade-guate forme di rappresentazione sociale della realtà. Si innestano pro-cessi che provocheranno nel giro di pochi anni una centralità socialedei media mai realizzatasi prima.

È possibile raccontare questa evoluzione attraverso tre distinticambiamenti:– le trasformazioni del panorama della carta stampata;– la legge di riforma della RAI, varata nel 1975;– la nascita delle radio e delle televisioni private.

Un effetto immediato della mobilitazione operaia, giovanile e fem-minista è la nascita di quella che sarà definita stampa alternativa ocontroinformazione. Infatti, all’inizio degli anni settanta nascono mol-ti quotidiani e settimanali che si rifanno all’esperienza dei movimenti,ai quali offrono un punto di vista giornalistico eccentrico rispetto aldiffuso livello di conformismo esistente. Il ruolo che tale stampa rico-prirà nella storia del giornalismo italiano è a nostro avviso maggioredall’effettiva fortuna di queste testate: molte durano lo “spazio di unmattino”, ed anche quelle che resistono di più non si può dire rap-presentino luoghi centrali del giornalismo italiano.

Al di là del successo editoriale, ciò che rende particolarmente in-teressante tale stampa è l’ingresso di nuovi soggetti sociali e di nuovitemi e punti di vista nell’opinione pubblica. Ovviamente, si tratta diun giornalismo che rinnova ed anzi rafforza la tradizione di politi-cizzazione della stampa italiana, se si considera la centralità politico-ideologica presente in tali testate. Ma viene rappresentato uno spac-cato della realtà sociale italiana particolarmente effervescente e alquale sempre più frequentemente fa riferimento anche la stampa pe-riodica d’attualità, che dagli anni sessanta – specialmente attraverso“L’espresso” e “Panorama” – racconta un’Italia più laica e modernadi quella desunta dai principali quotidiani.

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Un segnale forte del clima di cambiamento è rappresentato dalreferendum sul divorzio. Nonostante la forza del fronte abrogazioni-sta, capeggiato, ovviamente, dalla Democrazia cristiana e dall’attivi-smo delle parrocchie, la legge istitutiva del divorzio è confermata, an-che grazie al sostegno di molti organi d’informazione. Questo eventopuò essere assunto come un momento di svolta: il giornalismo italia-no finalmente incomincia a interpretare gli umori profondi della so-cietà.

Ma il “precipitato” principale della stampa alternativa degli annisettanta è rappresentato dalla nascita – nel 1976 – e dal repentinosuccesso di “la Repubblica”.

Il quotidiano inventato da Eugenio Scalfari, ovviamente, non èuna diretta prosecuzione della stampa alternativa, ma si fa interpretedi alcune delle sue istanze: ad esempio attraverso l’ampliamento deitemi e dei soggetti rappresentati, con particolare attenzione a quei“soggetti sociali nuovi” prima ricordati (donne, giovani e operai).

È possibile rintracciare degli elementi di continuità a diversi li-velli. Anzitutto, la composizione del corpo redazionale. Diversi sonoi giornalisti che provengono da fogli alternativi e compongono unaredazione giovane, politicamente orientata, in cui consistente è lapresenza femminile, almeno rispetto ai numeri esigui di donne allo-ra riscontrabili nelle altre redazioni. Nella redazione di “la Repub-blica” si ritrova anche la tradizione dei settimanali d’attualità: infat-ti, Scalfari viene dalla direzione di “L’espresso”, e porta con sé di-versi redattori.

Quindi, “la Repubblica” tenta di coniugare le due differenti tradi-zioni del giornalismo politico che negli anni precedenti – seppure inmodo diverso – avevano cercato d’innovare il giornalismo italiano, at-traverso uno sguardo politicamente orientato, ma soprattutto trattan-do nuovi temi ed eventi e adoperando un taglio narrativo di più am-pio respiro. Si rinnova la tradizione italiana basata sull’opinione, maattraverso un taglio giornalistico che – seppure in modo differente –veniva usato dalla controinformazione e dai settimanali d’attualità:quello che di lì a poco sarebbe stato definito tematizzazione.

“la Repubblica” modifica anche l’articolazione e la gerarchizzazio-ne dei contenuti: accurata selezione dei temi, con interesse prevalenteper ciò che è maggiormente coerente con la propria linea editoriale eminore attenzione alle esigenze di completezza; mentre dai settimanalieredita il taglio narrativo: maggiore spazio e analisi per i temi selezio-nati, quella che, non a caso, verrà definita settimanalizzazione.

La motivazione editoriale di queste eredità è nella dichiarata vo-lontà della neonata testata di fungere da quotidiano d’approfondi-

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mento, che per i lettori deve accompagnarsi alle tradizionali abitudinidi lettura: esattamente come un settimanale, che arriva a fine settima-na a riepilogare e argomentare gli eventi principali; oppure come lastampa alternativa, deliberatamente eccentrica nella scelta dei temi edel taglio per la consapevolezza dell’esistenza di altre fonti d’informa-zione che completano il quadro informativo degli affezionati lettori.

Il successo della testata di piazza Indipendenza dipenderà proprioda queste caratteristiche; non tanto perché “la Repubblica” diventeràil secondo quotidiano del ceto intellettuale allargato (come nelle am-bizioni del direttore), bensì perché il taglio narrativo basato su unamaggiore selettività e analisi dei temi anticipa una tendenza che dovràlentamente essere assunta da tutta la carta stampata, per differenziarsidalla più immediata rappresentazione della realtà dei media elettroni-ci (radio e televisione). Una fortunata eterogenesi dei fini che anticipala ridefinizione dei rapporti fra stampa e media elettronici e che sicompleterà con l’arricchimento e l’articolazione del sistema radio-te-levisivo.

Dunque, “la Repubblica” presenta meno notizie ma trattate piùapprofonditamente. Sfruttando il formato tabloid riesce a costruire laprima parte del giornale con pagine tematiche, che favoriscono unamigliore gerarchizzazione e l’uso di uno stile maggiormente narrativo,attraverso il quale costruisce un contratto di lettura di maggiore coin-volgimento con la readership.

La redazione innova generi e settori informativi. Ad esempio, lepagine culturali sono spostate dalla classica terza pagina al centro delgiornale. Il “paginone centrale” – come viene chiamato – tratta temiculturali di grande respiro ed impegno, ma nelle altre pagine delgiornale c’è una declinazione in chiave più antropologico-sociologicadi cultura, con inchieste, interviste e servizi tesi a raccontare i pro-cessi di trasformazione della società italiana, specialmente – come giàdetto – attraverso i suoi nuovi protagonisti sociali. Una più ampia edifferenziata concezione di cultura (Buonanno, 1999) risulta anchedall’apertura a temi riguardanti gli spettacoli, la televisione, nonchéattraverso un racconto delle cronache cittadine maggiormente attentoa presentare la molteplicità d’incontri e d’occasioni socioculturali pos-sibili, che ad informare sui fatti di cronaca, come evidenziato daun’invenzione giornalistica tuttora presente nelle cronache cittadinedella testata progressivamente rinforzate: il cartellone.

Anche all’economia è concesso più spazio, il sindacato viene elet-to ad attore protagonista di questo mondo come mai era successo inprecedenza nelle altre testate italiane.

Quest’evoluzione della linea editoriale verso nuovi temi, nuovi

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soggetti e nuove modalità stilistiche e narrative comporta una più in-cisiva fidelizzazione dei lettori. Non si acquista e si legge il quotidia-no soltanto per una strumentale acquisizione di informazioni, ma piùcomplessivamente perché si vede rappresentata una concezione delmondo. Altrove ho definito questa tendenza come nascita di testate-stili di vita (Sorrentino, 1999), definizione con la quale si voleva sot-tolineare maggiore coinvolgimento e identificazione.

Tale processo è strettamente collegato con quanto si è argomenta-to nel paragrafo precedente in merito alle evoluzioni nella costruzionedelle prospettive culturali degli individui. Articolando le proprieesperienze e venendo meno la centralità pervasiva e tendenzialmenteassolutistica dei luoghi della mediazione culturale tradizionale, gli in-dividui devono ricercare altri luoghi, altre “comunità” utili a definireun idem sentire. Probabilmente, “la Repubblica” è stato il primo quo-tidiano in Italia ad intercettare quest’esigenza 8. È ipotizzabile cheeserciti una maggiore incidenza sull’opinione pubblica, perché è dif-fusa soprattutto tra il nuovo ceto medio intellettuale allargato che,sebbene non più con la stessa pervasività ed efficacia, continua asvolgere la funzione di traduzione di eventi e di idee nei contesti del-la vita quotidiana.

Il secondo evento interessante – avvenuto sempre a metà deglianni settanta – è la riforma del sistema radiotelevisivo pubblico, chesposta il controllo della RAI dall’esecutivo al Parlamento, così da coin-volgere tutte le forze politiche, e in particolare il PCI, in quegli anniall’apice dei successi elettorali.

La parola-chiave della riforma è pluralismo, inteso nella sua de-clinazione politica e culturale.

Con pluralismo politico si vuol affermare il superamento della ri-gida egemonia del partito di maggioranza relativa e la conseguenterappresentanza delle altre forze politiche. Nel dettato della riformaquesto processo è indicato come esigenza di rappresentare le diffe-renti realtà politiche, nonché come necessità d’allargamento della co-pertura informativa alle differenti realtà territoriali del paese, per ade-guarsi alle esigenze poste dalla neonata istituzione del livello ammini-strativo regionale 9. Specificamente finalizzata a quest’ultimo obiettivoè la costituzione della terza rete televisiva, deputata a raccontare lerealtà regionali, con specifici spazi di programmazione direttamentegestiti dalla RAI a livello regionale.

Più generalmente, l’accentuazione del pluralismo vuol essere an-che un riconoscimento della differenziazione della società italiana edella conseguente presenza di sensibilità culturali più composite. Ri-sponde agli stessi principi anche la riorganizzazione dell’offerta, con

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la distinzione in tre reti televisive e tre reti radiofoniche, ad ognunadelle quali fa riferimento una specifica ed autonoma testata giornali-stica.

Come ben si sa, rapidamente questa diversificazione dell’offertaseguirà le linee rigidamente imposte dalle esigenze dei principali par-titi rappresentati in Parlamento, per cui la prima rete (e relativo TG)avrà come editore di riferimento 10 la Democrazia cristiana, la secon-da rete il Partito socialista, e la terza rete ridurrà fin da subito inmodo consistente la fisionomia regionalista per diventare la rete delPartito comunista.

Al di là di questa degenerazione – per la quale i commentatoriparleranno di lottizzazione – la legge di riforma della RAI è anch’essaun segnale significativo dell’esigenza d’arricchimento dell’offerta ra-diotelevisiva, per rispondere alle trasformazioni sociali del paese e allaconseguente domanda di comunicazione che proviene da tali cam-biamenti.

Un’ulteriore implementazione al sistema radiotelevisivo verrà data,in quegli stessi anni, dalla nascita delle radio e delle televisioni com-merciali.

I primi esperimenti risalgono agli inizi degli anni settanta, ad ope-ra di pionieri dell’etere, di fatto trasgressori della legge che vieta l’e-mittenza privata. Forse sarà il gusto della trasgressione, oppure –molto più probabilmente – la rottura di un monopolio culturale il cuicarattere di costrizione appare sempre più evidente, ma è sintomaticoche il termine assunto subito dall’opinione pubblica per descriverequesta novità sia emittenza libera, in cui l’aggettivo sembra accentuareun diffuso desiderio di svincolarsi da letture ufficiali e stereotipatedella realtà italiana.

Non è un caso se inizialmente a sfruttare l’apertura dell’etere sa-ranno gruppi politici e culturali che avvertono l’esigenza di veicolareinformazioni su specifici e peculiari spaccati della nostra società. Par-te il fenomeno tuttora precariamente esistente delle radio comunita-rie, alle quali si aggiungono emittenti – radiofoniche e televisive – in-teressate, per finalità commerciali oppure politiche, a dare una piùarticolata rappresentazione delle realtà locali italiane, tradizionalmen-te poco presenti nel nostro panorama mediale.

La necessità di disegnare un sistema dei media più articolato alivello territoriale, che faccia da contrappunto alla RAI, ma anche adun sistema giornalistico a stampa incapace d’arrivare nelle pieghe deimille campanili, probabilmente contribuisce a far propendere la Cor-te Costituzionale – nel giugno 1976 – per la liberalizzazione dell’etereper diffusioni a carattere locale.

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Come ben si sa, la storia del sistema radiotelevisivo privato ha poipreso tutt’altra china, con l’incredibile frammentazione dell’emittenzaradiofonica e la polarizzazione del sistema televisivo fra una miriadedi televisioni locali, molte delle quali con fatturati al di sotto dei limi-ti di sopravvivenza, e il progressivo consolidamento del gruppo Fi-ninvest, poi Mediaset, che nei primi anni ottanta acquisisce le emit-tenti televisive dei principali gruppi editoriali italiani 11, entrati senzaconvinzione e adeguato know how nel mercato televisivo, e diventacon tre reti l’unica e diretta concorrente della RAI.

La principale intuizione imprenditoriale del gruppo Fininvest èeconomica: aver capito che una società sviluppata, con i livelli di con-sumo italiani, presentava un incredibile sottodimensionamento degliinvestimenti pubblicitari. Il successo delle reti Fininvest-Mediaset con-sisterà proprio nell’efficace sfruttamento della leva pubblicitaria e nel-la definizione di un’offerta televisiva popolare, in grado di richiamaregrandi numeri.

Nel giro di cinque anni dal 1979 al 1984 si decuplica il mercatopubblicitario, che passa da 700 a 7.000 miliardi; mentre si quadru-plicano gli investitori.

L’incredibile espansione del mercato pubblicitario produce unaprogressiva autonomia economica del sistema dei media. Tradizional-mente ancillare al rapporto di reciproca convenienza fra sistema po-litico e grande capitale economico, sancito dalla proprietà editorialeconcentrata nelle mani delle principali famiglie del capitalismo italia-no, il sistema dei media degli anni ottanta mostra progressivamentedi poter ottenere ragguardevoli guadagni. Probabilmente non è uncaso se ad approfittarne sarà un imprenditore outsider – Silvio Ber-lusconi – proveniente dal mondo dell’imprenditoria immobiliare, masicuramente non appartenente al gotha del sistema economico italia-no. Così come è altrettanto esplicativa l’ostilità che la classe politicamostrerà nei confronti di questo processo, che si manifesterà concre-tamente nella ritrosia a regolamentare il settore radiotelevisivo, alfine di poter mantenere il controllo dei media: la sentenza di libera-lizzazione dell’etere della Corte Costituzionale è – come già ricorda-to – del 1976, mentre la prima legge di regolamentazione del sistemaradiotelevisivo, nota come legge Mammì dal nome dell’allora mini-stro delle Poste e Telecomunicazioni, sarà del 1990. Analogamente,il favore del partito socialista di Craxi per lo sviluppo della televisio-ne commerciale dipende dalla comprensione di come la rottura delmonopolio radio-televisivo possa erodere l’egemonia politica ed elet-torale democristiana e comunista, due partiti che a metà degli annisettanta raccoglievano circa il 75% dei voti degli italiani.

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I tre cambiamenti descritti, avvenuti a metà degli anni settanta,rispondono a tre differenti esigenze sociali emerse nella società italia-na: l’ampliamento dei temi e dei soggetti sociali; il pluralismo politicoe culturale che questa più fitta interazione dei temi e dei soggetti pro-duce; l’evoluzione nelle forme di consumo di una società economica-mente e culturalmente evoluta.

La creazione di un mercato dei media per esaudire tali esigenzedefinisce un sistema culturale che assume maggiore centralità sociale.Diventano di gran lunga più numerosi i luoghi e le forme della rap-presentazione della realtà proposta dai media. Tutto ciò causa mag-giori livelli di concorrenza che incidono:– sui contenuti: crescono, infatti, i temi e i soggetti sociali che trova-no copertura sui media;– sui generi: si pensi soltanto alla ridefinizione dei vari mezzi conse-guente alla maturazione di un nuovo medium 12; oppure all’evoluzio-ne dalla paleo- alla neotelevisione, che cerca la sempre maggiore in-clusione dello spettatore nella costruzione del prodotto televisivo 13;– sulle fonti protagoniste degli eventi: si pensi alla maturazione nellecapacità comunicative di tutti i soggetti che hanno interesse a coltiva-re una visibilità pubblica.

Ovviamente, non è questo il luogo per argomentare ragioni e ca-ratteri di queste trasformazioni. Ciò che interessa è, piuttosto, sottoli-neare – come già ricordato nel paragrafo precedente – in quale modoi media diventino un luogo centrale nella rappresentazione delle nuo-ve forme sociali che si producono e articolano nella società italiana.Come ho scritto altrove sono la piazza dove l’opinione pubblica siincontra e si riconosce (Sorrentino, 1995).

Si può azzardare una metafora: da stanza appartata, il cui accessoera riservato a un numero limitato di soggetti che elaborava i conte-nuti, per poi tradurli alle proprie reti di relazioni, i media diventanoun ambiente pubblico e pubblicizzato di facile ed immediato accessoper chiunque.

Questa ridefinizione del contesto mediale incide senz’altro nellaconformazione della sfera pubblica: cerchiamo di vedere in chemodo.

Il giornalismo e la sfera pubblica densa

Attraverso i media si definisce un nuovo spazio pubblico più ampio.Se si assume l’affermazione per cui tutto ciò che accade nei media ènotizia, si comprende facilmente come l’arricchimento del panorama

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mediale produca la crescita esponenziale del repertorio culturale(simboli, idee, valori, modelli culturali ecc.) potenzialmente accessibi-le per i consumatori di media.

Alla diversificazione del patrimonio simbolico si accompagna an-che la progressiva inclusione nei consumi mediali di nuove fasce so-ciali, che si servono delle rappresentazioni mediali per costruire i pro-pri percorsi sociali e culturali all’interno della realtà in cui vivono eper produrre la mobilitazione delle proprie conoscenze, che incide si-gnificativamente nella costruzione dell’identità individuale. In questomodo, i media offrono nuovi luoghi e nuovi modi d’incontro per ilpubblico, nuove forme di riconoscimento e d’appartenenza.

Abbiamo definito questo processo popolarizzazione (Sorrentino,2002), cioè la possibilità di rendere più visibile a un maggior numerodi individui una parte più ampia di società, mostrando zone, settori eprocessi sociali prima nascosti. Ovviamente, il costo da pagare è intermini di semplificazione di molte forme di rappresentazione dellarealtà, come lamentano coloro che preferiscono parlare di spettacola-rizzazione e di sensazionalismo. Ma l’uso di modalità narrative cherendono più semplice l’organizzazione dei significati favorisce la co-struzione di uno spazio pubblico più ampio e affollato, più ricco epartecipato, e soprattutto l’ingresso di un numero maggiore di perso-ne nell’arena del discorso pubblico (Norris, 1997, 1999). Si definisceun più largo processo d’inclusione sociale. Un maggior numero dipersone è in grado di sviluppare pratiche e disposizioni atte a realiz-zare un più completo e complesso monitoraggio della realtà per co-gliere dati grazie ai quali farsi un’opinione autonoma (Schudson,1998).

La maggiore densità comunicativa è implementata anche dallerinnovate esigenze delle fonti. Come sostenuto in precedenza, fra gliattori sociali bisogna stabilire intese basate sul dialogo, sulla negozia-zione delle proprie ragioni e sul riconoscimento di quelle altrui, per-ché si è tesi a comunicare con universi sociali più ampi, in cui non sipuò far riferimento alle forze della tradizione, al già noto, alla pretesadi atti fideistici da parte degli interlocutori. Occorre costruire quellache con Giddens abbiamo chiamato fiducia attiva. Allora per ogni at-tore che ha l’esigenza di comunicare in pubblico è fondamentale arti-colare strategie comunicative che cerchino di presentare un’identitàcoerente, che sappia dialogare e imporsi nella ricchezza dell’attualeflusso di comunicazione. Nessun attore sociale, seppure dotato di po-tere, può imporre la propria definizione della situazione richiamando-si alla tradizione oppure ad altri a priori, ma deve elaborare strategiecomunicative finalizzate a circoscrivere i significati e i discorsi co-

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struibili intorno alla propria identità a quelli auspicati; deve, in altritermini, elaborare definizioni della situazione che accrescano il suopotere di convocazione (Trupia, 2002). Deve negoziare la sua autorità(Giddens, 1997) declinando in maniera discorsiva quello che vienedefinito soft power, un potere non basato sulla persuasione bensì sul-la comprensione della società.

La costruzione della visibilità in una sfera pubblica stratificata po-teva contare su elaborazioni e mediazioni definite e composte al ripa-ro dalla pubblicità; la sfera pubblica mediatizzata è resa densa dallaquantità di attori e di temi, di argomenti e di posizioni che la abita-no, tutte immediatamente gettate nel mare magnum della comunica-zione mediale. È in questa densità che ogni soggetto (individuale ocollettivo che sia) deve costruirsi un’identità pubblica coerente e arti-colatamente diffusa: l’abilità comunicativa diventa infatti una risorsanegoziale attraverso la quale definire il rapporto con il contesto perdeterminare la propria immagine pubblica. In questo modo, quantopiù si lavora attivamente per la definizione di un’immagine pubblicasocialmente approvata, tanto più si acquisisce credibilità e autorevo-lezza.

Dunque, ogni individuo è immesso in un ambiente comunicativomolto più ampio, dove s’intrecciano fittamente i differenti flussi co-municativi. Quest’accesso più diretto non produce maggiore traspa-renza, bensì opacità sociale, poichè si accatasta un’enorme ricchezzasimbolica che sovraccarica le enciclopedie personali, rendendo evi-dente il bisogno d’appoggiarsi a intermediari culturali, a qualcunoche aiuti a definire un ordine interpretativo del mondo, che permettadi negoziare i significati.

È utile adoperare la metafora del supermercato. Nel supermercatosiamo da soli davanti a un rutilante e ricchissimo mondo di merci:diversamente dal piccolo negozio, non possiamo contare sulla media-zione del commerciante che ci suggerisce e consiglia, sulla base deiprodotti che a sua volta ha acquistato grazie ai suggerimenti e ai con-sigli del grossista. La mediazione commerciale nel supermercato si an-nulla o almeno si accorcia sensibilmente, così che dobbiamo scegliereda soli tra un’enorme possibilità di alternative.

Il nuovo ambiente comunicativo è come un enorme supermercatosui cui scaffali viene riversato con velocità e ricchezza sempre mag-giore un incredibile numero d’informazioni che propongono modelli,valori, sistemi culturali variegati, spesso confliggenti.

Ovviamente, anche al supermercato scegliamo sulla base di unprocesso di elaborazione delle conoscenze pregresse e di appropria-zione adattiva delle merci esposte sui banchi: la pubblicità, il consi-

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glio dell’amico, l’esperienza passata, la collocazione del bene in unnostro immaginario stile di vita; ma poi arriva il momento in cui sia-mo soli davanti alla nostra scelta d’acquisto e dobbiamo “aggrappar-ci” ad un prodotto.

Analogamente, a tutte le informazioni, le idee, le costruzioni disenso e i simboli applichiamo un processo di traduzione, cioè li adat-tiamo alle nostre esperienze pregresse, alla nostra cultura, alla vitaquotidiana fatta di relazioni, d’appartenenze a specifiche cerchie so-ciali, di conversazioni ecc. Ma mentre nella sfera pubblica stratificatavi erano vari passaggi fra i differenti livelli comunicativi, nei quali ga-tekeepers imposti dai nostri contesti di relazione stabilivano a qualicontenuti dovessimo accedere e quali ci dovessero essere negati, nellanuova sfera pubblica densa mancano questi intermediari, peraltro inun mondo molto più densamente popolato da eventi, da soggetti,nonché dalle loro possibili interpretazioni.

Ovviamente, la luminosità dei punti non è omogenea, dipende dalpotere di convocazione e di definizione della situazione di ogni emit-tente, stabilita dalle forze del mercato e del potere politico, in misuracangiante a seconda dei contesti e della forma assunta dalla negozia-zione fra i poteri.

Si impone così la reciproca esigenza dell’emittente a rendersi visi-bile e di ogni individuo-ricettore a determinare le tracce luminose chegli sembrano maggiormente in grado di guidarlo.

L’intermediazione giornalistica assume, in quanto contesto, l’inso-stituibile ruolo di messa in ordine, di gerarchizzazione di un “traffi-co” di informazioni e possibili significati intensificatosi così netta-mente.

Riflessioni sul giornalismo:l’importanza di un discorso pubblico

Da quanto finora affermato, emerge la progressiva rilevanza acquisitaanche nel nostro paese dal giornalismo. Se a lungo la sua condizioneancillare ha compromesso la sua funzione, negli ultimi venti anni essoha assunto un crescente rilievo culturale nella definizione dei climid’opinione, quindi delle idee e dei modi di pensare che si diffondonoin Italia. Principalmente, il giornalismo contribuisce in maniera signi-ficativa a far assumere forme pubbliche a tali idee ed esternazioni,con la conseguenza che i nuovi modi in cui si compongono i processiculturali si riverberano sul sapere esperienziale degli individui, equindi sul loro modo di pensare (Hannerz, 1998). Come ricorda

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Meyrowitz (1993), nuovi contesti culturali producono nuove situazio-ni sociali e nuove possibilità di azione.

Paradossalmente, la rilevanza del giornalismo cresce proprio nelmomento in cui ingenue cassandre ne prevedono la fine, basando laloro analisi sull’evoluzione dei nuovi media e la conseguente conver-genza multimediale, che avvicina domanda e offerta di informazioni.

Il giornalismo non soltanto non muore, ma diventa più rilevanteproprio per la sua «messa in forma» della realtà (Sorrentino, 2002).

È per questo motivo che diventa ancora più importante sviluppa-re un discorso pubblico sul giornalismo, non soltanto per definirne lefunzioni, ma per analizzare e monitorare di continuo come le svolge.Le forme di un’istituzione così rilevante per definire il contratto so-ciale e i modi attraverso i quali stiamo insieme, interagiamo e definia-mo il nostro agire quotidiano, devono essere elaborate riflessivamen-te, cioè attraverso un monitoraggio continuo delle condizioni e dellecaratteristiche dei processi di produzione giornalistica, monitoraggioche deve essere pubblicamente concepito e sviluppato.

Il discorso pubblico sul giornalismo deve assumere la forma di di-battiti, pubblicazioni, riviste, ricerche, ma – a nostro avviso – devepassare anche attraverso l’istituzionalizzazione dei processi formativi:soltanto un’elaborazione continua e riflessiva – consentita dai luoghidella formazione – permette lo sviluppo di quella tensione professio-nale che esalta la responsabilità sociale del giornalismo.

Nel passato, la strutturale condizione di subalternità dei media edel giornalismo ad altre istituzioni spiegava la prevalenza di altre logi-che nell’orientare l’agire professionale. Anche gli ideali professionalisi collocavano a ridosso di altri ambiti del campo culturale e privile-giavano una professionalità intesa come capacità di destreggiarsi neimeandri del complesso intreccio tra sistema politico ed economico,quella che Bechelloni (1982) ha definito professionalità politico-rela-zionale.

Oggi si richiede una professionalità culturale che si fonda su quel-lo che può essere definito giornalismo comprendente:– comprendere gli eventi significa riuscire ad attribuire significativi-tà agli stessi;– comprendere le esigenze dei lettori vuol dire coglierne le sensibi-lità;– comprendere è più difficile che riportare, perché obbliga a colti-vare l’arte del disincanto, che non deve significare cinismo, apparte-nenza, scelta di campo; bensì capacità di “uscire fuori da sé”, spo-gliarsi delle proprie determinazioni politiche e culturali, “decentrarelo sguardo” per comprendere l’altro (Melucci, 1993).

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L’elaborazione di un ricco e partecipato discorso pubblico sulgiornalismo favorisce l’evidenza sociale della professione e il ricono-scimento di un prestigio e di una centralità sociale determinata da unsolido patto sociale. Una riflessione trasparente sui compiti e sulle re-sponsabilità del giornalismo, sul ruolo svolto e sui modelli culturaliche ne scaturiscono rende più agevole la definizione dell’identità pro-fessionale, e più riflessiva l’individuazione di un’etica professionaleadeguata al ruolo svolto.

Infatti, quanto più la realtà da rappresentare è proteiforme e inaf-ferrabile, tanto più i giornalisti devono tracciare codici morali che limettano al riparo dalle contestazioni. La comprensione giornalisticadeve scavare in una realtà resa più opaca dalla moltiplicazione deifatti; ma proprio il riconoscimento dell’arbitrarietà insita in ogni pro-cesso di selezione, gerarchizzazione e presentazione delle notizie ri-chiede una chiara professionalità orientata dalla competenza e dallaresponsabilità, che non liberi il giornalista dal vincolo con i fatti, con-ducendolo dall’interpretazione alla fantasia (Christians, Ferrè, Fack-ler, 1993).

Se forte è l’identità professionale del giornalista e ben presentela funzione di servizio, più semplice sarà realizzare quel giornalismocomprendente richiesto a intermediari culturali che svolgono unafunzione fondamentale per garantire l’accesso degli individui alla fit-ta rete del flusso comunicativo: condizione ormai irrinunciabile perfare esperienza della realtà e per poter pensare e agire con la pro-pria testa.

Il giornalismo è un passaggio fondamentale per la crescita demo-cratica e l’attiva partecipazione degli individui. Quali forme assume eper quali motivi, quali sono le competenze dei professionisti che vilavorano, sono tutte domande che devono interessare e coinvolgeretutti noi. È proprio da tali presupposti che nasce questo volume.

Insomma, riflettere sul giornalismo ritengo faccia bene al giornali-smo per comprendere e interrogarsi sulle sue trasformazioni, sulleprobabili conseguenze, sulle strade auspicabili, perché possa svolgeresempre meglio il rilevante ruolo sociale che – come si evince daquanto finora affermato – è possibile attribuirgli.

Le riflessioni sono suddivise in tre parti. Nella prima, si cerca didelineare le principali caratteristiche del giornalismo italiano. Giovan-ni Bechelloni propone una tesi originale e provocatoria sulla progres-siva incontrollabilità dei media giornalistici, che a lungo andare po-trebbe costituire uno dei fattori di crisi delle liberal-democrazie. Be-chelloni sottolinea come questa tendenza si stia diffondendo in tutti ipaesi dove esiste una stampa libera e, paradossalmente, rischia di di-

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ventare la strada attraverso cui si “normalizza” il giornalismo italiano,da sempre considerato eccentrico nel panorama informativo.

Il saggio di Milly Buonanno racconta l’evoluzione dei processi diprofessionalizzazione del giornalismo italiano. Partendo dal riferi-mento obbligato delle iscrizioni ai due elenchi previsti dall’Ordinedei giornalisti – dei professionisti e dei pubblicisti – Buonanno ra-giona sull’evoluzione delle principali tendenze sociografiche, maprincipalmente sulle conseguenze dell’allargamento del campo gior-nalistico, che producendo la coesistenza di una pluralità di figureeterogenee rende più incerta l’identità dei giornalisti e la definizionedi linee di confine fra attività giornalistiche e contigue attività di co-municazione.

Cristiano Draghi descrive come le politiche editoriali dei varigruppi siano definite dagli assetti editoriali presenti in ogni singolocomparto mediale, sottolineando la tendenza a una concentrazioneche accomuna l’Italia al resto del mondo e determina spesso una sfi-da a due, non soltanto – come ben noto – nel mercato televisivo, maanche negli altri mercati editoriali.

Leonardo Bianchi analizza le evoluzioni normative che stanno ca-ratterizzando il giornalismo, anche alla luce delle profonde trasforma-zioni tecnologiche.

Nella seconda parte si delineano alcune evoluzioni dei processiproduttivi nel giornalismo. Partendo da un’analisi dei tratti caratte-rizzanti il giornalismo attuale, Alberto Ferrigolo pone l’accento sui li-miti del giornalismo italiano, conseguenti a una concezione obsoletadel ruolo del giornalismo nella società contemporanea. La riflessionedell’autore ruota attorno alla dimensione temporale che, con l’accele-razione dei tempi di trasmissione delle informazioni, impone al gior-nalismo una ridefinizione del proprio ruolo e della propria funzione.

Enrico Menduni presenta una ricognizione storica delle varie fasiattraversate dal giornalismo radiofonico e da quello televisivo. Descri-ve le nuove tendenze e analizza dettagliatamente i formati dell’infor-mazione.

Marco Pratellesi si occupa dell’informazione in rete, spiegando iprocessi attraverso cui si è sviluppato il giornalismo on line, e de-scrivendo le caratteristiche e il tipo di utenti. Pratellesi marca le diffe-renze tra giornalismo in rete e giornalismo cartaceo per descrivereesaustivamente il fenomeno dell’informazione on line. Sottolinea lecaratteristiche e le problematiche nuove, che impongono una riletturae una ridefinizione del ruolo delle testate tradizionali e del giornali-smo in generale.

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IL GIORNALISMO IN ITALIA

Barbara Fenati affronta il tema del marketing editoriale, spiegan-do i motivi per cui solo a partire dagli anni novanta in Italia si èsviluppata la consapevolezza dell’importanza del marketing anche nelsettore dell’editoria. Partendo dal presupposto che i prodotti culturalisiano dotati di una propria specificità, che non consente loro di esse-re equiparati a beni di consumo qualsiasi, affronta il caso particolaredel marketing nella carta stampata, fenomeno piuttosto recente versoil quale i direttori delle testate e i giornalisti mostrano ancora per-plessità, sottovalutandone l’importanza in un’epoca in cui la differen-ziazione dell’offerta informativa sembra essere una tappa inevitabiledell’evoluzione del giornalismo.

Nella terza parte sono stati selezionati temi specifici che offronouno spaccato interessante, per quanto non esaustivo sulle tendenzedel giornalismo italiano.

Rolando Marini e Franca Roncarolo si occupano del ruolo dell’in-formazione giornalistica durante le campagne elettorali. Alla luce dialcune riflessioni circa il mutamento dell’informazione elettorale, gliautori illustrano come il giornalismo italiano sia giunto, almeno tem-poraneamente, a due diverse modalità di elaborazione dei temi politi-ci: «da un lato occupandosi il meno possibile di politica [...] dall’al-tro seguendo la propria vocazione partigiana, radicalizzandosi e inter-venendo direttamente nel gioco politico».

Grazie alla sua esperienza personale, e attraverso esempi concreti,Giancarlo Santalmassi illustra efficacemente il panorama radiofonicoitaliano, marcandone le nuove forme e le tendenze più recenti. San-talmassi evidenzia le caratteristiche specifiche del mezzo, valorizza ipregi e fornisce gli elementi necessari per un’attenta riflessione sul-l’informazione radiofonica.

Occupandosi della rappresentazione della devianza giovanile, Sil-via Pezzoli illustra l’inefficacia di desumere dall’eccezionalità di talieventi forme e caratteri del complesso mondo giovanile. Ne consegueinfatti una rappresentazione estemporanea e semplicistica, nella qualeè difficile che i giovani si riconoscano.

Edoardo Tabasso s’interroga sui motivi della scarsa rappresenta-zione mediale di una professione che pure evoca tanti sogni e aspet-tative e che da sempre è in testa alle aspirazioni professionali dei gio-vani. Non a caso il giornalismo è molto raccontato dai media ameri-cani, si pensi alla cinematografia hollywoodiana. Tabasso individuaracconti incentrati su figure di giornalisti nella produzione di fictiontelevisiva dell’ultimo anno, ma verifica come tale rappresentazione siaprevalentemente un pretesto narrativo, che non riesce quasi mai afornire un’immagine verosimile della professione.

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Enrico Bianda analizza la varietà di percorsi rintracciabili nel gior-nalismo d’approfondimento, soffermandosi sulle formule innovativepresentate dal giornalismo d’inchiesta, sulle prospettive del quale in-terroga alcuni dei principali attuali protagonisti del genere.

Per rendere più chiaro ed esaustivo il panorama del giornali-smo italiano, è utile fare riferimento all’immagine di cui esso godeall’estero. Intervistando i corrispondenti in Italia delle principali te-state straniere e analizzando gli articoli sul nostro paese presenti sutali testate, Andrea Pannocchia sottolinea la ricorrenza degli stereo-tipi, spesso enfatizzati dagli indubbi vezzi e dai limiti della nostrastampa.

Felicita Gabellieri descrive un fenomeno mediatico relativamenterecente in Italia: la nascita di programmi di informazione multicultu-rale. Si tratta di un tipo d’informazione specificamente indirizzata aicittadini immigrati e la cui origine risiede nell’affermarsi di nuove esi-genze e domande culturali poste dalle minoranze linguistiche. Il feno-meno dell’informazione per gli immigrati rappresenta un aspetto nuo-vo del giornalismo italiano, ancora con contorni sfumati, ma destinatoad assumere rilevanza.

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