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Introduzione.........................................3 1.................................................... P ratiche di bottega. Accenni d’individualità nella cultura della creazione collettiva...................6 1.1.................................................An tichità classica: arte-techne-ars. L’artigiano- artista.......................................... 6 1.2.................................................M edioevo. Artifex e creazione collettiva.............8 1.3................................................Co rporazioni e botteghe...........................10 1.4................................................Di pinti e contratti...............................12 1.4.1La firma......................................13 1.4.2I contratti.....................................16 1.4.3Autografia e metodi..............................18 1.5................................................Pe rsonalità artistiche. Il Rinascimento e l’Arte in nuce.............................................21 2....................................................Il Rinascimento maturo. Nuovi approcci creativi.......28 2.1................................................Ma rsilio Ficino e il culto dell’arte..............28 2.2................................................Un creatore solitario. Michelangelo primo artista moderno.........................................32 2.2.1I lavori nella Cappella Sistina.......................38 2.2.2L’approccio alla scultura e il non-finito................45 2.3................................................Ra ffaello, il capobottega.........................48 2.3.1Gli aiutanti e il metodo............................50 2.4................................................L’ istruzione accademica. Il passaggio dalla pratica alla teoria.....................................55 3....................................................La questione dell’autore..............................62 3.1................................................Op

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Introduzione...........................................................................................................3

1. Pratiche di bottega. Accenni d’individualità nella cultura della creazione collettiva..................................................................................................................6

1.1 Antichità classica: arte-techne-ars. L’artigiano-artista................................61.2 Medioevo. Artifex e creazione collettiva......................................................81.3 Corporazioni e botteghe.............................................................................101.4 Dipinti e contratti........................................................................................12

1.4.1 La firma.............................................................................................131.4.2 I contratti............................................................................................161.4.3 Autografia e metodi...........................................................................18

1.5 Personalità artistiche. Il Rinascimento e l’Arte in nuce..............................21

2. Il Rinascimento maturo. Nuovi approcci creativi.........................................282.1 Marsilio Ficino e il culto dell’arte...............................................................282.2 Un creatore solitario. Michelangelo primo artista moderno.......................32

2.2.1 I lavori nella Cappella Sistina............................................................382.2.2 L’approccio alla scultura e il non-finito...........................................45

2.3 Raffaello, il capobottega..............................................................................482.3.1 Gli aiutanti e il metodo......................................................................50

2.4 L’istruzione accademica. Il passaggio dalla pratica alla teoria...................55

3. La questione dell’autore.................................................................................623.1 Opera e autore............................................................................................623.2 Il mondo dell’arte.......................................................................................66

3.2.1 Lavori congiunti..................................................................................663.2.2 Non esiste creazione solitaria............................................................68

3.3 Cosa è falso, cosa è autentico......................................................................703.4 Una conclusione?.......................................................................................74

4. Autore e creazione alla prova dell’arte contemporanea...............................764.1 Marcel Duchamp: il ready-made e la fine dell’illusione............................764.2 Andy Warhol. Appunti per una creazione collettiva..................................80

4.2.1 Eredità e incomprensioni....................................................................85

5. Approcci contemporanei alla creazione.........................................................895.1 Takashi Murakami, una bottega contemporanea........................................89

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5.2 Tomma Abts, la scelta dell’autografia.......................................................935.3 Maurizio Cattelan, la delegazione dell’arte................................................95

Conclusione.........................................................................................................101

Riferimenti bibliografici....................................................................................104

Riferimenti sitografici........................................................................................111

Appendice...........................................................................................................113

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Introduzione

Questo elaborato si propone di offrire una riflessione sulle dinamiche che danno vita all’opera d’arte, cercando di capire, nello specifico, come la creazione collettiva, di bottega, in cui altre mani oltre a quella dell’artista/maestro partecipano al lavoro, possa conciliarsi con l’idea dell’opera d’arte come frutto della creazione dell’autore.

Nella concezione contemporanea dell’arte e dei suoi prodotti, infatti, l’opera nasce sempre dall’idea del singolo, dell’artista-demiurgo tanto caro alla tradizione romantica e tale concezione ha tanto influenzato la comune considerazione dell’opera d’arte quanto, ad uno sguardo più attento, si rivela pressoché fuorviante per comprendere gli svolgimenti della creazione artistica. In realtà, infatti, la maggior parte dei capolavori che hanno segnato la storia dell’arte sono nati sì dall’idea di un singolo individuo (anche se questo non è sempre coinciso con l’artista), ma sono stati effettivamente realizzati da dei “delegati”, degli aiuti o dei collaboratori.

Per capire dunque come l’idea della creazione individuale si è imposta su quella collettiva, analizzeremo le figure dell’artista e dell’opera d’arte tra modernità e contemporaneità in quanto epoche portatrici di regole e convenzioni diversissime sull’arte. Seguiremo un percorso storico-artistico formato da due strade di ricerca parallele, quella dell’indagine sull’arte e sull’opera e quella dell’evoluzione della figura dell’artista, concentrandoci su pittura e scultura, poiché arti molto legate all’idea di un autore individuale che sta dietro alla loro produzione.

Per quanto riguarda la prima strada, ci dedicheremo, soprattutto nella prima parte, al percorso di emancipazione delle arti visive dall’etichetta di arti prima servili e poi meccaniche: sarà infatti di particolare interesse per il nostro lavoro vedere come le belle arti siano state accostate per una lunga parte della loro storia a quelle che oggi definiamo arti applicate, o artigianato, dividendo con queste, oltre alla classificazione, le regole di produzione legate a un regime collettivo. Nello specifico ci occuperemo della corporazione, struttura che per secoli ha imposto leggi specifiche all’arte e a chi la faceva, e della bottega, luogo per eccellenza del lavoro organizzato e condiviso. Per quanto riguarda la seconda strada, invece, studieremo la condizione dell’artista dall’antichità classica fino al Rinascimento maturo, evidenziando i punti di svolta che hanno condotto alla formazione e all’accettazione comune dell’idea dell’artista come creatore, ossia

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come colui che dà vita all’opera seguendo il suo genio e la sua ispirazione, senza l’aiuto di nessuno, al pari del poeta, il creatore solitario ed ispirato per eccellenza.

Per esemplificare tali passaggi, ci interesseremo in particolare di due personaggi che in un momento di forte cambiamento nella comune considerazione dell’arte e dell’artista come il Rinascimento di fine Quattrocento/inizio

Cinquecento1 si fecero portatori di due visioni profondamente diverse, ma complementari, del loro lavoro, Michelangelo e Raffaello. Il primo, consideratoda molti l’antesignano della moderna visione che l’artista successivamente ebbe di se stesso, sentì infatti la necessità di staccarsi da un approccio all’arte ancora di tipo artigiano, collegato a un regime di lavoro collettivo. Avvertì infatti l’impossibilità di una collaborazione feconda con allievi e aiuti, favorendo la comparsa di una nozione di filiazione delle opere rispetto alla quale la personalità dell’artista stesso appare necessaria affinché l’opera d’arte si presenti come tale. Il secondo, diversamente, si affidò ancora al sistema di condivisione del lavoro tipico della bottega ma lo reinventò attraverso l’eliminazione della gerarchizzazione dei ruoli e della modalità di apprendimento che sino ad allora avevano caratterizzato il lavoro collettivo. Lo trasformò quindi in una scuola in cui, attraverso la centralità del disegno, potessero convivere le particolarità di ciascuno nell’omogeneità finale.

Facendo un salto in avanti nel tempo di tre secoli, passeremo a un altro momento topico della storia dell’arte, il XX secolo di Marcel Duchamp e Andy Warhol, artisti che hanno svincolato l’arte da tutti i concetti e le idee che sino ad allora erano stati punti fermi del dibattito artistico. L’uno (Duchamp) ridefinì il concetto di opera d’arte, l’altro (Warhol) le regole produttive, rendendo così la scelta di agire individualmente o collettivamente sull’opera non più una mera questione socio-culturale, ma un vero e proprio elemento di poetica.

Passeremo quindi all’analisi di tre artisti che hanno raccolto proprio quest’eredità e che hanno assunto tre approcci all’arte diversissimi tra loro, facendone un passo programmatico del loro lavoro: Takashi Murakami, il quale ha adattato la sua estetica superflat, di incontro tra cultura alta e cultura bassa, a un metodo di produzione industriale, come se tutta la sua arte non fosse altro che una costosissima riproduzione dei gadget dei manga che lui rappresenta; Tomma Abts, pittrice solitaria e individualista che costruisce l’opera nel suo farsi,

1 Quel Rinascimento in cui le idee di creazione, ispirazione e genio proposte dal Neoplatonismo ficiniano iniziarono a modificare profondamente l’orizzonte culturale sino ad allora in auge e trovarono terreno fecondo nelle accademie, punto di arrivo del processo di promozione dell’artista verso la condizione di intellettuale e del suo allontanamento dalla formazione tecnico-artigianale, sostituita da un forte fondamento teorico che mise sempre più in primo piano il legame tra arte e individualità.

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nell’oggettivazione del suo animo sulla tela e che non può ammettere intrusione da parte di esterni nel suo lavoro; Maurizio Cattelan, che ha deciso di giocare liberamente con l’arte e le sue regole, arrivando persino ad avvalersi di opere altrui per il suo lavoro e di delegare la produzione ad altri.

Come punti fermi attorno ai quali ruoterà l’intero lavoro, cercheremo di definire le figure dell’opera e dell’autore delineandone un profilo tale da considerarli come costanti al di là dei cambiamenti socio-temporali e al fine di capire come, pur nelle diversità delle regole interne ad ogni epoca e ad ogni società, si siano sempre riconosciuti chiaramente due elementi indicati come tali. Allargando la prospettiva e facendo ricorso ad altre discipline, introdurremo quindi alcune riflessioni interne al campo dell’estetica e a quello della sociologia. Cercheremo di sottolineare come, anche nelle considerazioni teoriche di alcuni autori interni a tali discipline, si riscontrino posizioni contrapposte, per le quali l’opera è il prodotto esclusivo del suo creatore oppure, al contrario, risultato del lavoro di diversi attori.

Inoltre, ci dedicheremo anche ad un argomento che sembra apparentemente distante da quanto detto sinora, ma che in realtà ci permetterà di capire la relazione che intercorre tra opera e autore, cioè il problema del falso in arte. In particolare, ci interrogheremo su come sia lecito considerare autentica un’opera realizzata all’interno di un sistema di creazione collettivo e organizzato come quello di bottega, in cui altre mani oltre a quelle dell’artista-autore attendono alla realizzazione dell’opera, e come, al contrario, non lo sia se l’opera in questione è stata realizzata da persone esterne allo stesso sistema, in modo tale da cercare un’ulteriore elemento di risposta nel confronto con altri campi.

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1. Pratiche di bottega. Accenni di individualità nella cultura della creazione collettiva

Questo primo capitolo si propone di introdurre il lavoro e le logiche di bottega attraverso le figure dell’artista e dell’arte nella loro evoluzione dall’antichità al Rinascimento. Abbiamo scelto di prendere in esame un periodo di tempo che va dall’antichità all’età moderna, poiché le idee della classicità sull’argomento hanno profondamente condizionato le epoche successive, seppur con specifiche particolari a seconda del tempo e della società.

La bottega sarà presa in esame in quanto luogo e modello privilegiato per la produzione artistica nei periodi analizzati e, al contempo, in quanto specchio dei cambiamenti che hanno interessato la visione dell’arte e degli artisti. Inoltre, dedicheremo particolare attenzione al valore e al significato della firma e dell’autografia, in quanto segni di una forte volontà di affermazione della nuova identità dell’artista.

1.1 Antichità classica: arte-techne-ars. L’artigiano-artista

L’antichità classica non aveva un termine che indicasse con precisione quelle che oggi chiamiamo belle arti. Sia il sostantivo greco téchne che quello latino ars indicavano tutte le abilità pratiche e teoriche senza distinzione (Shiner 2001, p. 28). La sola differenza tra arti risiedeva nella classificazione in téchnai (arti applicate) e arti della mimesis (belle arti). A partire dal V secolo si venne a creare attorno a queste ultime il raggruppamento speciale della téchne mimetiké, il sapere e l’abilità nel produrre immagini (Jiménez 2002, p. 52), ma non esisteva un termine di carattere generale in grado di esprimere i diversi prodotti riferibili a questa categoria.

La parola ergon, e il suo plurale ta érga, esprimeva in un senso completamente aperto e generico le idee di “atto”, “fatto”, “lavoro” e “opera”. Praticamente gli stessi significati che incontriamo nel suo corrispondente latino opus, plurale opera, dal quale derivano i termini delle altre lingue romanze (p. 100).

Entrambe le concezioni erano state comunque ricondotte da Aristotele al medesimo procedimento produttivo che le subordinava al concetto di potenza e le

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legava a quello di tecnica: l’artista prendeva un materiale grezzo e vi si applicava con idee e procedimenti precisi al fine di creare un prodotto che non aveva valore di per sé ma solo in base al suo utilizzo; tutta l’antichità, analogamente, valutava l’arte per la sua funzionalità e non in base al principio dell’arte per l’arte.

“Ammiriamo l’opera, disprezziamo l’operaio” dicevano Seneca e Plutarco (Gimpel 1968, p. 39) e l’attenzione del pubblico non legava l’opera e l’autore, ma onorava la prima disprezzando il secondo.

In questo modo,

l’antichità classica perviene a risolvere l’intima contraddizione fra il disprezzo del lavoro manuale e l’alta valutazione dell’arte come strumento di culto e di propaganda, separando l’opera dalla persona dell’artista, cioè onorandola pur disprezzandone l’autore (Hauser 1955, p. 114).

All’artista non spettava nulla della gloria affidata al poeta: il primo veniva indicato con il termine banausos, il vile meccanico che lavorava per i soldi, mentre il secondo veniva dipinto come il vate mistico, creatore di miti, che lavora solo per la gloria: in tal senso “se esaminiamo l’antica nozione di ‘artista’ ci accorgiamo che era molto più vicina alla nostra idea di artigiano che ai moderni ideali di indipendenza e originalità” (Shiner 2001 p. 31). Si conosceva unicamente l’ambivalente termine oggi traducibile con artigiano-artista, il poietes, un produttore piuttosto che un creatore. Ne consegue che non ci fosse alcuna enfasi sui concetti di immaginazione, originalità, individualità tanto esaltati dalla cultura europea post-romantica, e men che meno era considerato il moderno ideale dell’artista-creatore genio e solitario. La produzione e la creazione artistica erano procedimenti esclusivamente collettivi, di bottega, e in questa visione dell’arte e dell’artista, la classicità riflette la divisione tra arti libere e non libere, tra le arti dell’intelletto e quelle della mano: tutte le attività pratiche, manuali non erano infatti ritenute degne dell’uomo libero e nobile, ma solamente servili.

Sebbene quindi fossero accomunati dalla creazione, il poeta e l’artista erano posti su piani sociali diversi, nonostante l’età di Alessandro avesse introdotto, assieme al culto dell’individuo, l’emancipazione della figura dell’artista rispetto a

quella dell’artigiano1. Rudolf e Margot Wittkower hanno messo in luce diversitentativi di affermazione dell’individualità portati avanti da artisti in periodi diversi dall’età alessandrina, definendo l’epoca come “una strana dicotomia fra

1 Plinio dà notizia della forte amicizia che legava il sovrano ad Apelle e che lo spinse, per gratitudine, a donare all’artista la sua cortigiana preferita, Campaspe.

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l’abbastanza rapido processo di individualizzazione degli artisti, e la quasi completa noncuranza del pubblico nei loro confronti” (Wittkower 1963, p. 10): a riprova di ciò, i nomi di alcuni artisti sono giunti fino a noi senza esser stati tramandati dalle fonti scritte, ma solo attraverso la firma sulle opere. Il vaso François, fabbricato ad Atene nella prima metà del VI secolo a.C. e oggi conservato al museo archeologico di Firenze, riporta per ben due volte la firma dei suoi autori “Ergotimos mi ha fabbricato / Kleitias mi ha dipinto” (Bora et al. 2002, p. 77). Per dirla con le parole dei coniugi Wittkower, “non c’è dubbio che questi maestri consideravano l’opera d’arte come qualcosa di diverso dagli altri prodotti artigiani. La consapevolezza dell’unicità della creazione artistica li spingeva a firmare le loro opere” (Wittkower 1963, p. 10). Un altro aspetto da sottolineare è che assieme alla firma, anche l’autoritratto e il trattato erano altri mezzi di conoscenza e affermazione di se stessi e su questo punto Kris e Kurtz hanno sottolineato come il ricordo del nome di un artista dipendesse dal significato attribuito all’opera d’arte e come, tenendolo in considerazione, l’opera iniziasse a essere considerata come oggetto fine a se stesso (Kris, Kurtz 1934, p. 10).

Nonostante ciò, il silenzio di scrittori e trattatisti sull’argomento durò a lungo: infatti, salvo rare eccezioni, come Plinio e Duride, il lavoro artistico, di cui si apprezzavano solo i risultati tecnici e non quelli creativi, era considerato lavoro manuale e dunque non da uomini liberi e degni di apparire nelle fonti letterarie e sottolinea sin da ora che tale concezione non sarà abbandonata per diversi secoli.

1.2 Medioevo. Artifex e creazione collettiva

Il Medioevo ereditò dall’antichità gran parte delle idee e delle teorie sull’arte e gli artisti: in particolare, la riorganizzazione delle arti proposta da Marziano Capella, con la sua divisione delle arti liberali tra arti del Trivio – Grammatica, Dialettica, Retorica – e del Quadrivio – Aritmetica, Geometria, Astronomia e Musica – condizionò a lungo la loro classificazione relegando arte e artigianato tra le arti servili.

Il solo tentativo di rivoluzione e di ribaltamento di questo schema fu tentato ad opera di Ugo di San Vittore, il quale sviluppò un’argomentazione tesa a favorire un passaggio di denominazione delle arti servili in arti meccaniche. Ricollegandosi al canone antico della meccanica, il teologo trasformò formalmente la categoria attribuendole maggior dignità in virtù della sua

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vicinanza con la matematica e creando così un nuovo parallelismo con le arti liberali (Shiner 2001, pp. 40-42).

Tuttavia, la figura dell’artista medievale si sviluppò e si caratterizzò comunque sulle indicazioni di un sistema di valori erede della filosofia di Aristotele, portatore di una netta suddivisione tra scienze speculative e arti produttive, di un forte pregiudizio sulla manualità, l’utilità e il lavoro retribuito (parametri troppo vili per essere associati a un’arte liberale) e di una sostanziale equiparazione tra arte e arti applicate. Come ben evidenziato da Shiner, “il termine artista era abitualmente impiegato per indicare coloro che si dedicavano allo studio delle arti liberali, mentre chi era coinvolto nella produzione o nell’esecuzione, nell’ambito delle numerose arti meccaniche, era normalmente detto artifex” (p. 43). Ne risulta una chiara caratterizzazione del pittore medievale, il quale “era innanzi tutto un artigiano della decorazione, impiegato per rivestire le pareti delle chiese, degli edifici pubblici, delle case dei ricchi, nonché per dipingere mobili, bandiere, scudi e insegne su commissione” (ib.).

Così come non c’era distinzione di genere nella produzione delle arti, non c’era nemmeno distinzione di categoria tra artisti e artigiani. Entrambi lavoravano in un sistema di bottega all’interno del quale la creazione era collettiva e organizzata secondo regole precise, dettate dalla suddivisione del lavoro, dalle richieste del committente e dall’organizzazione corporativa. La produzione artistica era quindi legata a logiche precise, diversissime da quelle oggi in uso, dove il concetto di originalità non trovava ragion d’essere poiché quello artistico era un lavoro digruppo organizzato, in cui ogni individuo era addetto a una compito preciso2. Lacreazione dell’opera spettava piuttosto a chi la commissionava ed era quindi costui a decidere soggetto, progetto e materiali.

Nel Medioevo contava più l’opera e chi l’aveva resa possibile che non il suo materiale esecutore, e forse alla base della mancata distinzione terminologica tra artista e committente sta anche un relativo disinteresse verso la personalità creativa, tanto più che, almeno fino al gotico, l’artista raramente firma la sua opera (Segre Montel 2003, p. 577).

Sopra a tutto stava la corporazione che, con le sue regole, garantiva determinati standard qualitativi e organizzava i rapporti tra le diverse botteghe in materia di prezzi e di concorrenza. In questo quadro, si configura quindi come, per quanto importante, l’artista fosse solo un ingranaggio di un meccanismo complesso.

2 “La partecipazione personale sparisce sotto la marca di fabbrica del laboratorio” (Schlosser Magnino 1924, p. 80).

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1.3 Corporazioni e botteghe

A partire dal XII secolo, il sistema delle professioni d’arte si organizzò in strutture corporative, quelle che in Toscana si chiamavano Arti, in Emilia e in Lombardia Paratici, in area veneta Fraglie o Università e nel resto d’Europa Gilde. Dopo la fine del cantiere, unità produttiva base dell’arte dell’Alto Medioevo, nonché organizzazione gerarchica dei salariati al servizio dell’autorità ecclesiastica, la corporazione si presentò come associazione ugualitaria di imprenditori autonomi e con funzioni simili in tutta Europa, nonostante la diversità di nomi. La prima e più importante era quella “sindacale”, che stabiliva regole atte a difendere la forza lavoro locale dalla concorrenza straniera – per poter lavorare a Firenze, ad esempio, gli artisti non fiorentini erano accettati solo previo pagamento di una doppia quota d’iscrizione all’Arte di appartenenza. Altre funzioni di diretta competenza delle corporazioni erano quelle di regolarizzare i prezzi delle opere d’arte e di garantire un certo standard di qualità per i prodotti immessi sul mercato; si occupavano, inoltre, di stabilire regole sulla formazione degli artisti e sui materiali da utilizzare nella produzione e di fungere da società di mutuo soccorso in caso di bisogno di denaro o di malattia (Wackernagel 1938).

Non esistendo però corporazioni singole per le diverse specialità, gli artisti si associavano a quelle considerate affini: ad esempio, a Firenze, i pittori erano iscritti all’Arte dei Medici e degli Speziali, gli orafi all’arte della Seta, gli scultori all’Arte dei Maestri di Pietra e Legname. Solo nel 1339 fu fondata la Compagnia di San Luca, prima vera associazione volontaria di pittori, presenza fondamentale in quanto “importante punto di aggregazione e di incontro fra gli artisti, contribuendo a sviluppare quella mentalità corporativistica, elemento cardine della società rinascimentale, che ha le sue radici nelle antiche istituzioni medievali” (Bernacchioni in Gregori et al. 1992, p. 26) .

É necessario sottolineare come introdurre le corporazioni e i loro compiti sia importante per comprendere la scala gerarchica e organizzativa che ha regolato la produzione artistica europea per gran parte della sua storia: innanzitutto, fornisce un’ulteriore conferma di come le arti siano state poste a lungo sotto l’egida delle arti meccaniche – pittura, scultura, architettura, al pari di oreficeria, tessitura e altre, erano mestieri manuali da organizzare secondo regole economiche e

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produttive precise3. Inoltre, la corporazione ci avvicina all’altra unità di base del mondo artistico del passato, la bottega.

Ogni artista, per poter esercitare la sua professione, doveva essere iscritto alla corporazione di appartenenza e con esso la bottega per cui lavorava. Questa, oltre a essere il luogo fisico della creazione, il laboratorio in cui si lavorava e si vendevano le merci, l’unità produttiva fondamentale dell’economia artistica, era anche una tappa obbligatoria della formazione per chiunque volesse esercitare una

professione artistico-artigianale4. A capo della struttura stava il maestroresponsabile o capomaestro, il proprietario della bottega. Al suo fianco c’erano gli apprendisti, gli operai salariati, gli assistenti e i maestri ospiti. A Firenze l’apprendistato in bottega iniziava attorno ai 14 anni e durava in media 9 anni, secondo lo statuto dell’Arte dei Medici, anche se Cennino Cennini, primo autore a raccontarci il lavoro e l’apprendimento del lavoro di bottega, riporta che in realtà il suo apprendistato presso Agnolo Gaddi durò 12 anni. Ogni relazione di apprendistato era regolata dagli statuti della corporazione di appartenenza che prevedevano il vitto e l’alloggio a carico del capo bottega. Secondo la prassi indicata da Cennini, l’apprendista doveva innanzitutto imparare a preparare i colori e a disegnare, copiando i modelli dei disegni di cui era dotata la bottega per apprenderne lo stile e uniformarsi. Solo dopo aver appreso tutte le pratiche complementari alla pittura e aver imparato il mestiere poteva intervenire nel lavoro del maestro e successivamente realizzare lavori interamente di sua mano: arrivato alla fine della formazione, poteva iscriversi all’Arte di appartenenza, dimostrando così di aver terminato l’apprendistato (Cennini XIV secolo).

Solo nei primi decenni del Quattrocento alla pratica si integrarono insegnamenti teorici e famoso fu l’esempio di Guzon da Padova, maestro, che nell’affidare il figlio agli insegnamenti dello Squarcione gli richiese espressamente di iniziarlo alla teoria prospettica (Cassanelli 1998, p. 26).

L’apprendistato era un percorso finalizzato non solo all’apprendimento della perfetta padronanza dei mezzi tecnici ed espressivi richiesti dal mestiere, ma anche al raggiungimento di uno stile che fosse come quello di un alter ego del maestro, e alla base di questo fenomeno vi era un’esigenza ben precisa:

3 Fino al Cinquecento inoltrato, un pittore poteva occuparsi della creazione di un affresco e allo stesso modo della decorazione di una sedia. Botticelli, ad esempio, dipingeva stendardi e spalliere, insieme a olii su tavola o su tela. Si vedano i due pannelli con le storie di Lucrezia dipinti attorno al 1498 che facevano parte di una delle spalliere di casa Vespucci a Firenze.

4 Chi invece sceglieva un’educazione umanistica era avviato verso lo studio universitario, unadifferenza di percorso, questa, che sottolinea ulteriormente la differenza tra coloro che si dedicavano alle arti liberali o coloro che si dedicavano alle arti meccaniche.

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il raggiungimento di questa sorta di mimesi tra allievo e maestro era del tutto funzionale agli scopi della collaborazione stretta che la prassi delle botteghe artigiane imponeva quotidianamente, garantendo la messa a punto di prodotti ben omogeneizzati anche nella stesura pittorica, che potevano legittimamente essere presentati, al committente prima di tutto e al fruitore in generale, come di mano del conduttore stesso della bottega (Padoa Rizzo in Gregori et al. 1992, p. 53) .

Era la bottega come tale, piuttosto che il singolo, ad avere un certo stile e tutti vi si dovevano adattare, esterni e familiari, e non è un caso che spesso, infatti, la bottega fosse gestita da grandi famiglie di artisti, che si passavano l’attività di generazione in generazione e che vi facessero lavorare all’interno soprattutto familiari (la corporazione proteggeva questo costume e difatti i figli di maestri pagavano quote inferiori). Tuttavia, presto ci si rese conto, su modello dell’Europa settentrionale, delle possibilità di ibridazione che la fusione e la collaborazione tra scuole poteva portare: si diffuse così anche in Italia la pratica di far muovere gli apprendisti tra una bottega e l’altra per favorire incontri, esperienze e perfezionarsi permettendo soprattutto ai giovani che facevano parte di famiglie di artisti di incontrare stili e modi di lavorare diversi (Burke 1972, p. 54).

Ciò nonostante, è importante sottolineare la presenza parallela di artisti che sembra gestissero da soli la propria attività – o comunque senza aiuti fissi. Giovanni di Domenico, padre di Francesco Botticini, ricorda nel 1480 che il figlio faceva “il dipintore in una chamera nello studio sanza gharzoni” (Venturini in Gregori et al. 1992, p. 125). La notizia, probabilmente è da riferirsi a un periodo particolare della vita del pittore dato che si sa che lavorò anche con il figlioRaffaello5, ma dà comunque un’informazione in più su possibili prime eccezionial modello di lavoro collettivo.

1.4 Dipinti e contratti.

Possiamo a questo punto introdurre il tema centrale di questo primo capitolo, quello che più di tutti si lega al fil rouge di questa tesi, il problema dell’autografia e dell’autenticità nel lavoro di bottega. Come già Nicholas Penny, dobbiamo

5 Francesco Botticini nell’Enciclopedia Treccani, http://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-botticini_%28Dizionario-Biografico%29/.

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chiederci: “quali nozioni di autografia e autenticità, di creatività individuale erano riconosciute a quel tempo, e da chi?” (Penny in Cassanelli 1998, p. 31).

La bottega è (con tutte le specifiche delle due epoche) un elemento di continuità tra Medioevo e Rinascimento, è l’evoluzione del cantiere medievale, un tipo di organizzazione del lavoro che portava a livellare le differenze individuali senza distruggere la qualità artistica delle singole prestazioni. Contrariamente a quanto avviene oggi, infatti, per tutto il Medioevo e per parte del Rinascimento, il lavoro del pittore fu un lavoro di gruppo, un’idea in grande contrasto con quella dell’artista specializzato e individualista di epoche successive (Burke 1972, p. 69). I tipi di incarichi richiesti agli artisti dell’epoca, come grandi pale d’altare o decorazioni murali e affreschi, richiedevano un lavoro di squadra per esigenzepratiche e per essere portati a termine entro tempi e modi stabiliti6; tuttavia, ilmaestro rimaneva comunque sempre presente nelle diverse fasi dell’attività creativa e produttiva sia progettando che intervenendo personalmente durante i lavori (Burke 1979, p. 87).

Che significato aveva dunque la firma su un’opera nell’economia di un lavoro di gruppo come quello di bottega? E quale effettivo ruolo creativo aveva l’artista in un sistema in cui era il committente a decidere la struttura e il soggetto dell’opera?

1.4.1 La firmaLa firma, a voler cercare una definizione, è l’apposizione autografa del proprio

nome, un segno dell’identità di chi scrive (Fraenkel 1992, p. 8): è una manifestazione di identità che si ritrova costantemente nella tradizione occidentale e che ha la funzione di un’etichetta, di qualcosa che garantisce l’appartenenza a una determinata filiera produttiva.A.M. Lecoq riflette sulla presenza del nome dell’autore in pittura a partire dall’icona bizantina, manufatto sul quale pesava l’impossibilità della firma in ragione della sua funzione sacrale; il suo valore, in quanto oggetto sacro, faceva sì che nient’altro contasse al di fuori dell’immagine in sé, né autore, né data, né circostanze di fabbricazione (Lecoq 1974, p. 15). La firma, quindi, iniziò a comparire unicamente su quelle immagini o su quei manufatti che non avevano alcun valore cultuale segnando così il passaggio a un diverso stato per l’opera d’arte, quello di manufatto slegato da altre funzioni oltre a quella prettamente

6 Si poteva quindi far ricorso a mano d’opera specializzata assunta all’occorrenza oppure circondarsi di collaboratori fissi – opzione, questa, assai più vantaggiosa, soprattutto per una tecnica artistica come l’affresco in cui l’uniformità dello stile era necessaria per non alterare l’armonia del dipinto.

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estetica, e anche per l’artista, che si trovò a iniziare a distinguersi dai suoi colleghi. “L’artista è infatti in primo luogo un nome (...). Mentre l’artigiano è nella maggior parte dei casi ridotto all’anonimato, coloro che forniscono alla società immagini sacre o profane non sempre si sono astenuti dall’apporvi la propria firma” (Damisch 1977, p.961). Già negli atelier del Dypilon era usanza firmare le proprie opere, costume che continuò anche nel Medioevo con la firma su cattedrali o manoscritti miniati, un’affermazione della medesima nozione di identità. “Comunque si voglia interpretare il fatto – orgoglio per la bontà dell’opera, desiderio di tramandare il proprio nome ai contemporanei e ai posteri – non c’è dubbio che questi maestri consideravano l’opera d’arte come qualcosa di diverso dagli altri prodotti artigiani” (Wittkower 1963, p. 10). Apponendo il proprio nome, l’artista rivendicava la propria paternità sull’oggetto ed è quindi legittimo chiedersi che valore aveva la firma nella logica del lavoro collettivo.

Le opere prodotte in bottega erano solitamente anonime e “quando venivano firmate, la funzione della firma era, probabilmente, quella di garantire il prodotto piuttosto che di significare l’orgoglio del singolo creatore”, suggerisce Burke, in opposizione all’idea dei Wittkower sull’argomento (Burke 1979, p. 87). La firma, infatti, poteva indicare due o più esecutori responsabili dell’opera o l’intestazione della bottega, fungendo così da marchio di fabbrica, e a tal proposito il miglior paragone per spiegare la funzione della firma è quello suggerito da Giovanna Ragionieri: la firma è come un sigillo “posto a sottoscrivere e ad autenticare scritture spesso non autografe” (Ragionieri in Cassanelli 1998, p. 57).

La firma era dunque un’indicazione del carattere collettivo del lavoro di bottega e una prova dell’appartenenza di un’opera a una determinata scuola, anche se non propriamente di mano del capomaestro: “se l’artista è considerato il padre delle sue opere, queste possono accedere all’esistenza legale solo portandone il nome” (Damisch 1977, p. 962).

Se la firma moderna è, per definizione, autografa, al contrario le iscrizioni

tardo-medievali potevano anche essere eseguite da altri7. Un’opera di bottega era allo stesso modo condotta nello studio di un maestro, ma realizzata dai collaboratori. Un lavoro che mostrava somiglianze di ideazione e di fattura con quelle del caposcuola senza raggiungerne la qualità, qualcosa di complementare ma diverso rispetto all’opera fatta “di sua propria mano”,

7 Fino al XVI secolo, infatti, la firma non richiedeva un’apposizione autografa del proprio nome, ma solamente un segno distintivo che poteva essere posto anche da persone delegate (Fraenkel 1992, p. 30).

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un concetto che solo in età manieristica evolverà in quello moderno di autografia, con i suoi corollari di apprezzamento per gli abbozzi, i disegni, le “prime idee” e che può quindi, se applicato senza gli opportuni distinguo alla bottega tardo-medievale, risultare anacronistico e fonte di errori (Bagnoli, Bellosi 1985, p. 11).

Nella bottega tardo-medievale erano infatti scontate la preminenza del capomaestro e la collaborazione paritaria dei collaboratori nella creazione, pratiche che col tempo diventeranno incompatibili con il concetto di autografia normalmente connesso alla pratica pittorica.

Quello di Giotto è un ottimo esempio, ben documentato, per farsi un’idea del valore della firma: nel suo caso le opere firmate erano quelle in cui il maestro era intervenuto di meno. Questi erano, infatti, i lavori che più degli altri necessitavano della garanzia di una firma che documentasse la loro provenienza. Il lavoro di Giovanni Previtali Giotto e la sua bottega ha messo chiaramente in luce come, in rapporto al lavoro del pittore, si possa parlare solo di Giotto e bottega, poiché senza gli aiutanti il suo lavoro non sarebbe esistito (Previtali 1967). Gli fa eco Damisch, affermando che il successo dell’artista non fu determinato solo dalla sua superiorità artistica rispetto ai concorrenti, ma soprattutto dall’aver costruito il primo atelier dell’era moderna, “un atelier il cui successo economico risulta dal fatto che tutta la produzione artistica di quel periodo dell’arte italiana va ancora oggi sotto il suo nome” (Damisch 1977, p. 969). Se agli esordi le opere erano prevalentemente realizzate da lui, con rari interventi dei collaboratori, come nelle Storie di Isacco della Basilica superiore di Assisi, successivamente l’aiuto della bottega divenne sempre più importante e fondamentale nella riuscita della gran mole di lavoro affidata al pittore. Così Giotto iniziò a dividere il lavoro per specializzazioni, tenendo per lui la resa spaziale (specialità di cui era grande esperto) e restando sempre a disposizione per compensare le più vistose cadute qualitative. Solo in rari casi, come nel confronto tra Il Presepe di Greccio (fig. 1) e Il Miracolo dell’assetato (fig. 2), si avverte una forte differenza tra lavoro di bottega e gli autografi giotteschi. Il primo, infatti, realizzato dagli aiutanti, risulta qualitativamente assai scarso rispetto al secondo, realizzato dal maestro in persona (Ragionieri in Cassanelli 1998, p. 59) ma, anche in questi casi, la firma era sempre presente come suggello della supervisione giottesca.

“Quando un quadro è firmato dal maestro di bottega ciò non significa necessariamente che egli lo avesse dipinto con le proprie mani, ma che sotto la propria responsabilità lo riteneva degno del livello della bottega” (Burke 1972 p. 70). La firma con il nome del capobottega serviva dunque per garantire sul lavoro e sull’identità dell’autore (spesso collettivo) dell’opera, riconoscendo, allo stesso

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tempo un titolo e un diritto di paternità all’artista sulle opere. La presenza sempre più massiccia della firma nel passaggio tra Medioevo e età moderna fa comunque presagire come “nel corso dell’Umanesimo gli artisti cominciarono a firmare le loro opere, considerate finalmente un frutto dell’individuo e non di un lavoro collettivo, ripetitivo e ripetibile” (Vettese 1998, p. 23).

1.4.2 I contrattiAnche l’autonomia artistica era principalmente soggetta alle richieste dei

committenti. Nessuno creava su ispirazione, secondo il diktat romantico dell’artista e dell’arte, ma solo su richiesta e ogni contratto poteva specificare, oltre al costo complessivo del lavoro comprendente impegno, il compenso dell’artista e i materiali da utilizzare, lo stile, la quantità e la qualità di dettagli, il soggetto del dipinto. Questo poteva essere scelto dal committente stesso o da un consulente umanista, figura di intermediario tra cliente e artista che si occupava di scegliere cosa e come rappresentare in virtù della sua cultura (Burke 1972, p 123). L’inventione, l’idea del soggetto, spettava infatti a chi pagava, a chi doveva usare la sua opera magari per fini politici e di propaganda, mentre il letterato sceglieva e ordinava i temi dando loro il senso voluto. L’inventione precedeva l’opera e le era superiore come grado di valore (Settis 2010, p. 59). Questo fa capire come la creazione artistica vera e propria fosse solo la realizzazione materiale di idee quasi sempre altrui. Spesso era richiesto di seguire il modello iconografico di opere già esistenti “nel modo et forma”, così da avere delle copie di opere già famose.

Il regolare contratto che legava l’artista al committente era un’ulteriore conferma del carattere artigiano del mestiere dell’artista; per le opere di maggior impegno tutte le spese, come l’acquisto del materiale, gli stipendi e spesso anche il mantenimento di aiuti e garzoni, erano pagate dal committente e il capobottega riceveva un onorario che era escluso dai costi scritti nelle clausole. Ulteriori specifiche precise dei contratti erano riservati a chi doveva eseguire il lavoro: spesso, infatti, i committenti richiedevano che fosse proprio il capobottega ad eseguire l’opera “di sua propria mano”. L’espressione non era usata solamente per distinguere la produzione autografa e cambiava a seconda delle richieste del committente, potendo riferirsi all’esecuzione di tutto il dipinto o solo a piccole parti, come volti o capelli.

La presenza nei documenti di clausole con le quali il committente intendeva assicurarsi almeno alcune parti autografe del maestro rivela chiaramente la consuetudine di affidare parti secondarie a collaboratori nonostante che, in alcuni casi, venga esplicitamente precisato che deve essere tutta di mano del responsabile della

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bottega. L’idea compositiva, l’invenzione del dipinto o dell’affresco era invece indiscutibilmente competenza del maestro, il quale doveva anche verificare personalmente la qualità di qualsiasi opera uscisse dalla sua officina. Gli stessi committenti sembrano in taluni casi conoscere e ammettere le collaborazioni giacché in alcuni contratti è esplicitamente contemplato l’intervento nel dipinto di altri artisti scelti dal pittore responsabile della commissione (Pons in Gregori et al. 1992, p. 36).

Solo i grandi conoscitori dell’epoca domandavano opere completamente di

ideazione e di mano di un certo artista8, mentre il committente medio preferiva

puntare sul soggetto piuttosto che sulla fattura9. Come sottolinea Hauser, gli artisti del Quattrocento non sono ancora coscienti del loro ruolo e del loro statuto (Hauser 1955, p. 51).

La formula di richiesta di esecuzione di mano propria del capobottega veniva quindi inserita non principalmente per ragioni estetiche o di gusto, ma come formula di protezione da eventuali suballogazioni sia interne che esterne alla bottega, una pratica che poteva mettere a rischio la qualità stilistica dell’opera.

I contenuti dei contratti tra artista e committente tra Quattrocento e Cinquecento possono dunque essere presentati da alcune costanti. Innanzitutto, la definizione dell’oggetto della commissione, contenente indicazioni su natura dell’oggetto e sua destinazione, materiale da utilizzare con relative quantità, dimensioni dell’opera; seguiva la messa a punto del soggetto che a volte rimandava a una precedente scrittura private, altre a un’istructione fornita dal committente. Altre volte ancora, oltre alla sua specificazione, venivano date indicazioni riguardo all’iconografia che potevano indicare un disegno realizzato da altri o proprio un’altra opera già esistente – ci sono esempi di contratti accompagnati dai disegni veri e propri e anche i modi e la qualità dell’esecuzione erano definiti nelle stesse righe (Settis 2010, pp. 68-76). Queste informazioni ci danno un’idea reale di quanto poca “libertà creativa” fosse lasciata all’artista.

Spesso però, capitava che il pittore non rispettasse delle clausole. Nel 1519, nelle Fiandre, la gilda di San Francesco intentò causa all’artista Albert Cornelisz accusandolo di aver impiegato degli aiutanti nella realizzazione del trittico con l’Incoronazione della Madonna e di non aver quindi rispettato gli accordi. “L’artista affermò che la pratica era avvallata della tradizione e che egli era tenutosolo a disegnare la composizione e dipingere le parti in incarnato. Vinse la causa” (Burke 1972, p. 119)10.

8 Opere originali e riconoscibili come “un Bellini” o “un Mantegna”.9 Vedi la già citata formula “nel modo et forma”.10 Camescasca riporta la stessa notizia datando l’evento al 1522 (Camesasca 1966, p. 195).

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Anche l’accordo stipulato il 23 ottobre 1461 tra Benozzo Gozzoli e la compagnia di Santa Maria della Purificazione e di San Zanobi per la creazione di

una pala d’altare da collocare nella chiesa di San Marco di Firenze11 (fig. 3) oltre a stabilire che l’opera dovesse rappresentare la Vergine in trono “nel modo et forma” della pala del Beato Angelico in San Marco specificava che l’opera dovesse essere dipinta da Benozzo stesso, anche nei dettagli, e che nessun altropotesse lavorarvi, nemmeno nella predella. Ma gli accordi non vennero rispettati: i pannelli della predella, esplicitamente menzionati nel contratto, sono infatti riferibili a Benozzo per stile e qualità: le ridotte dimensioni della parti avrebbero male assorbito discontinuità e richiedevano comunque maggior perizia. Al contrario, il pannello centrale risulta chiaramente di mano della bottega: riccamente decorata, questa parte incorpora caratteristiche ornamentali e dettagli già impiegati altrove, realizzati di fretta e con poca cura. Il gruppo centrale della Vergine col bambino è stato inoltre disegnato insieme agli angeli e non risulta ben connesso con i santi laterali (vi sono piccoli errori di forma). Stesso discorso per i santi in primo piano, realizzati con un metodo di lavoro meccanico che svela un approccio all’opera di tipo standardizzato – attitudine, questa, favorita dalla suddivisione dei compiti all’interno della bottega.

1.4.3 Autografia e metodiCome sottolineato da Nicholas Penny12 in riferimento al caso di Benozzo

Gozzoli e della Pala della Purificazione, il problema principale del lavoro operato a più mani può essere quello della qualità dell’esecuzione, non la partecipazione della bottega (che rappresenta comunque un pretesto per sottolineare come, anche in un’importante bottega, potesse emergere l’individualità, in quanto possiamo appunto riconoscere la mano del maestro). Benozzo, molto probabilmente, progettò la maggior parte di questo dipinto, ma non lo dipinse e non ne controllò nemmeno l’esecuzione, facendo così uscire dal suo atelier un prodotto di sua marca ma di seconda scelta. Anche se non era riconosciuta come un valore e un criterio assoluto, l’autografia aveva quindi una sua importanza.

Per ogni lavoro di bottega si doveva comunque tener conto nel giudizio dei due diversi tipi di artisti che lavoravano all’interno di un atelier; come detto in precedenza, c’erano apprendisti formatisi sotto la guida del maestro e collaboratori esterni impiegati solo in caso di necessità, con stili diversi rispetto a

11 L’odierna Pala della Purificazione della National Gallery di Londra.12 L’analisi dell’opera è contenuta nel saggio di N. Penny “Pittori e botteghe nell’Italia del

Rinascimento” (Cassanelli 1998, pp. 31-54).

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quello della bottega. Nelle botteghe più prestigiose e quotate dell’epoca, come quella di Giovanni Bellini o del Ghirlandaio, si tentava però di tenere sotto controllo la presenza dell’individualità degli stili, lavorando sull’opera fino a garantirne l’uniformità generale e tra le parti: fondamentale per l’ottenimento di questa unitarietà fu il ricorso a disegni e cartoni preparatori, strumenti importantissimi al fine di trasporre fedelmente stile e disegno.

Leonardo, grande perfezionista che si adoperò per un rinnovamento dell’arte anche a partire dalle sue tecniche di lavoro e di apprendimento del mestiere, imparò ad utilizzare al meglio la trasposizione durante la sua giovinezza passata a bottega da Verrocchio. Quest’ultimo, che non era pittore ma bensì scultore, oltre a

circondarsi di aiutanti di un certo calibro13, creava bozzetti plastici in argilla datradurre in pittura, imponeva alla bottega le sue opere da usare come esempi e controllava sempre il risultato finale. Leonardo riprese il metodo di Verrocchio creando sempre personalmente i cartoni preparatori che servivano da modelli, sia per le opere autografe che per le opere di bottega: tale pratica risulta evidente nella comparazione tra il cartone preparatorio della Vergine con il bambino, Sant’Anna e San Giovannino della National Gallery di Londra (fig. 4) e il dipinto terminato del Louvre (fig. 5). Il cartone londinese dà prova della grande attenzione riservata da Leonardo alla preparazione. Lo attestano la sua perfezione e la sua finitezza, qualità necessarie per questo tipo di disegno che Raffaello riprese, migliorando, proprio a partire da lui. L’effetto di sfumato, appositamente cercato da Leonardo, indica che non c’è stato spazio per il lavoro di bottega. È solo nella versione del Louvre, quella pittorica, che si intravede la mano degli aiutanti, almeno nelle pennellate iniziali, anche se l’enfasi, la luce morbida e sfumata e l’attenzione per la relazione tra le parti lasciano chiaramente intravedere l’intervento stesso del maestro. La qualità dei suoi dipinti è tale da non lasciare spazio alla facilità di alcune pratiche artigianali e da porre sempre i dipinti realizzati in collaborazione con la bottega sullo stesso piano degli autografi (Penny in Cassanelli 1998).

Un approccio totalmente autografo all’opera fu un requisito che raramente si poté riscontrare in commissioni che vertevano sull’arte come un prodotto artigianale qualsiasi, anche per grandi dipinti o cicli di affreschi, poiché richiederla per questo tipo di commissioni era assai rischioso, in quanto avrebbe protratto i tempi di esecuzione in proporzione al tempo lavorativo di una sola persona alle prese con tecniche artistiche di questo genere. Se il committente

13 Oltre a Leonardo dalla sua bottega uscirono pittori coma Perugino, Botticelli, Lorenzo di Credi e Ghirlandaio.

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voleva avere una traccia autografa di un artista in un’opera, gli chiedeva di lavorarvi personalmente in piccole parti autografe. Ma la norma era comunque quella di dividere il lavoro tra più persone o addirittura più botteghe.

Le grandi botteghe cercarono comunque di ottenere il miglior risultato possibile anche nella collaborazione e una delle qualità più importanti di un buon maestro-impresario era infatti saper creare una buona omogeneità stilistica pur nella diversità delle mani che lavoravano all’impresa, qualità che garantiva una coerenza nei risultati che diventava fondamentale soprattutto negli affreschi, dove il maestro non sempre poteva controllare capillarmente la qualità.

Domenico Ghirlandaio fu maestro in questo senso: la sua idea era presente sin dallo schizzo preliminare per l’impaginazione compositiva, cui si accompagnavano i disegni delle singole figure e dei particolari; il tutto veniva successivamente tradotto in un disegno illustrativo per il committente, cui seguiva il progetto definitivo. L’intera composizione veniva poi riprodotta sul cartone preparatorio a grandezza naturale ad opera stessa del maestro, in modo da lasciare meno margine d’errore possibile agli assistenti (Venturini in Gregori et al. 1992, pp. 125-136).

Ne consegue che “in un clima in cui si voglia accentuare il carattere ideale dell’arte, il pregio risiederà principalmente nell’ideazione” (Conti 1977, p. 146), motivo per cui è possibile associare l’idea dell’autografia modernamente intesa solo in riferimento a casi in cui si dava molta importanza a questa fase del lavoro. È interessante comunque rilevare come “l’abilità personale del capo-bottega, che i critici sorprendono in questa o quell’opera, non doveva restare sempre sommersa nella preponderanza del lavoro collettivo” (Camesasca 1966, pp. 194-195). In ogni caso, solitamente, “era la clientela a determinare i maggiori apporti individuali dei maestri: e vi riusciva o con la propria importanza o con quella delle opere commissionate” (ib.). Solo nel caso di modesti lavori

era usuale affidarne l’incarico alla bottega, con la tacita intesa che questa vi avrebbe provveduto collettivamente; al massimo si stabiliva quale parte del lavoro veniva richiesta al titolare. Quando invece era in causa una grande pala o un cospicuo ciclo di affreschi, il maestro doveva impegnarsi a eseguirli quasi interamente di sua mano, limitando l’intervento dei collaboratori nelle zone secondarie (ib.).

Un distacco di ruoli che ci conduce in quelli che saranno i cambiamenti del primo Rinascimento.

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1.5 Personalità artistiche. Il Rinascimento e l’Arte in nuce

Se dunque, come ricorda Mina Gregori, bisogna tenere a mente che “l’immagine dell’artista come monade isolata nello sforzo della creazione [è] ormai un ricordo lontano che appartiene all’estetismo ottocentesco” (Gregori in Gregori et al. 1992, p. 15), è ugualmente necessario ammettere che l’età rinascimentale ha messo le basi per la stessa “monadica” individualità artistica.

A voler abbracciare la tesi di Rudolf e Margot Wittkower, l’Italia del Quattrocento, al pari della Grecia del IV secolo, ha visto l’elevazione dell’artigiano al rango di artista: infatti, nonostante il diverso atteggiamento verso l’arte e chi la faceva e un altrettanto diverso sfondo socio-politico, le due epoche avrebbero attribuito lo stesso carattere agli artisti emancipati: quello di essere figure diverse rispetto agli altri, capaci di creare oggetti unici. La differenza starebbe solo nell’attenzione riservata all’artista dal pubblico: la letteratura antica, infatti, parla solo raramente di arti visive, mentre l’età umanistica, a partire daDante, ha dedicato molta attenzione all’argomento14.

Sembra però più lecito mediare la posizione dei Wittkower con quella di Larry Shiner, il quale parla di “genesi dell’arte” in riferimento all’epoca

rinascimentale15: a partire dalla metà del Trecento si verificò infatti l’inizio del processo di transizione che portò la cultura occidentale dal sistema dell’arte- artigianato a quello dell’Arte. Nonostante quanto sostenuto da Shiner – “insieme alla nostra categoria di arte, nel Rinascimento era assente il nostro idealedell’artista indipendente, alla ricerca dell’espressione di sè e dell’originalità” (Shiner 2001, p. 53) – è necessario tenere conto di alcuni eventi che hanno dato avvio ai moderni concetti di arte e di artista.

Rispetto al Medioevo pieno, già agli albori dell’Umanesimo le arti visive acquisirono un prestigio maggiore e una riconosciuta affinità con le arti letterarie, sebbene non fossero ancora poste sotto la comune egida delle Belle arti – Lorenzo Valla escludeva ancora la pittura e la scultura dal suo elenco delle arti liberali (Blunt 1940, p. 50) – e sebbene il poeta continuasse a vivere nel mondo della creazione mentale, mentre l’artista in quello della creazione manuale. Tuttavia, si iniziò a parlare di artisti nella letteratura, genere a loro precluso fino ad allora,

14 Wittkower: gli artisti greci furono un grande punto di riferimento per gli artisti del Quattrocento. Le notizie dall’antichità riferivano della grande fama di cui godevano pittori e scultori e quindi, per tutti gli Umanisti, degni modelli per la loro emancipazione.

Cfr. Pommier 2006, pp. 53-57.15 Secondo Shiner c’è stata una proiezione anacronistica sul Rinascimento della moderna figura

dell’artista indipendente.

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evento a cui, a distanza di poco, si aggiunsero la nascita del genere letterario della vita d’artista e una notevole evoluzione e diffusione del genere dell’autoritratto.

Il Rinascimento fu intimamente connesso al Medioevo e fu proprio alla fine di quest’ultimo periodo che germogliarono le idee del cambiamento. Fu Dante a usare (e probabilmente a inventare) in anticipo su tutti la parola artista, che compare per la prima volta nel canto XIII del Paradiso.

Se fosse a punto la cera deduttae fosse il cielo in sua virtù supprema,

la luce del suggel parrebbe tutta; ma la natura la dà sempre scema, similmente operando a l’artista

ch’a l’abito de l’arte ha man che trema (Dante XIV secolo, vol. III, p. 266).

Dante sembrò quasi dare al suo artista la definizione che si imporrà fino ai giorni nostri, ossia quella dell’ “essere in cui si incontrano la capacità intellettuale di concepire un progetto e l’abilità tecnica, manuale, di dare corpo a questo

progetto nella materia” (Pommier 2006, p. 6). Il termine ritorna ai canti XVIII16 e

XXX17 dello stesso libro.

“Introducendo questa parola nel vocabolario italiano, Dante inventa la figura dell’artista” (p. 7) e lo fa anticipando i tempi: per i due secoli successivi, infatti, il termine sarà usato in modo raro e discontinuo e solo Michelangelo lo riprenderà in tutto il suo valore nel sonetto detto Dell’ottimo artista (cfr. par. 2.2). Ugualmente, fu sempre Dante il primo a parlare di un artista a lui contemporaneo: nel canto XI del Purgatorio, dedicato ai superbi, parlando della transitorietà della gloria, cita Giotto con i celebri versi che lo ritraggono nel confronto con Cimabue,

Oh vana gloria de l'umane posse! com' poco verde in su la cima dura,

se non è giunta da l'etati grosse!Credette Cimabue ne la pittura

tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,sì che la fama di colui è scura

(Dante XIV secolo, vol. II, pp. 206-207).

16 “Indi, tra l’altre luci mota e mista, / mostrommi l’alma che m’avea parlato / qual era tra i cantor del cielo artista” (Dante XIV secolo, vol. III, p. 374).

17 “Ma or convien che mio seguir desista/ più dietro a sua bellezza, poetando, / come a l’ultimosuo ciascuno artista” (Dante XIV secolo, vol. III, p. 612).

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Legare questi due pittori al concetto di gloria significava offrire loro una promozione sociale e culturale che li collocava sullo stesso piano dei principi e dei letterati, i soli a cui, fino ad allora, era stata associata la gloria, promozione confermata dal passo successivo, quello in cui Dante ripete il confronto citando i due Guido della poesia del tempo, Guinizzelli e Cavalcanti.

Dante, in questo modo, inventa l’artista e lascia capire che potrebbe diventare soggetto di una storia esattamente come il poeta perché anche la sua attività è innanzitutto mentale.

Ma forse Dante, nel suo avvicinare l’artista al poeta, si spinge ancora oltre.

Nell’XI canto dell’Inferno18, Virgilio spiega al poeta che “l’arte vostra”, cioè, in senso ampio, qualunque attività che produca oggetti o immagini che mostrano oggetti reali o immaginari, riproduce nel suo processo la natura, figlia di Dio (Pommier 2006, p. 11). Quello che l’artista crea gli viene dalla linea diretta Dio- natura-arte e i suoi modelli sono l’antichità classica e la Natura: in tal modo Danteanticipò di quasi 100 anni le idee di Marsilio Ficino e dei suoi contemporanei. LaDivina Commedia aprì così all’artista la lunga strada della letteratura.

Dopo pochi anni Boccaccio fece sempre di Giotto il protagonista di una novella del suo Decameron, la quinta della sesta giornata. Il racconto, che si lega al tema delle risposte pronte e argute che permettono di togliersi d'impaccio o da una situazione pericolosa, mette a confronto due nobilissimi ingegni del tempo, Forese da Rabatta, avvocato, e Giotto. Nella presentazione dei personaggi, Boccaccio mette in luce le virtù che derivano dal loro mestiere e, parlando del secondo, lo definisce “il miglior dipintore del mondo” e “una delle luci della fiorentina gloria” (Boccaccio XIV secolo, pp. 738-739). Lo scrittore riprese tutte le intuizioni dantesche e le attribuì a Giotto, associando un pittore alla gloria di una città e facendolo così entrare nella categoria degli uomini illustri, quelli degni di essere ricordati nella storia.

A completare la triade, anche Petrarca diede il suo contributo nel delineare e legittimare un genere fino ad allora praticamente inesistente, quello del ritratto.

Collezionista e amico di Simone Martini19, il poeta era affascinato dal potere dell’artista di rappresentare l’uomo e la sua immagine facendole diventare testimoni ed elementi della storia. Nei sonetti 77 e 78 del Canzoniere, Petrarca costruì queste riflessioni attorno al ritratto di Laura, paragonando Simone Martini,

18 “Che l’arte vostra quella, quanto pote, / segue, come ’l maestro fa ’l discente; / sì che vostr’arte a Dio quasi è nepote” (Dante XIV secolo, vol. I, pp. 232-233).

19 Sappiamo dal suo testamento che oltre al famoso ritratto di Laura possedeva un dipinto diGiotto.

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autore dell’opera, sia ad Apelle, apice della pittura greca, che a Virgilio, il quale aveva dato gloria a Mantova come Simone a Siena. “Era il modo migliore per celebrare la grandezza del suo contemporaneo e favorire il suo ingresso tra i rappresentanti delle arti liberali” (Pommier 2006, p. 20).

Gli umanisti erano per l’artista

i garanti del suo valore intellettuale e a loro volta trovavano nell’opera d’arte un mezzo di propaganda per le idee su cui fondavano la loro egemonia spirituale. Da questo reciproco legame derivò quel concetto unitario dell’arte, che per noi è del tutto evidente, ma fu ignoto al Rinascimento (Hauser 1955, p. 264).

Un’inconsapevole genesi dell’arte, smorzata dalle numerose contraddizioni interne all’epoca: se da un lato infatti l’organizzazione del sapere e delle attività intellettuali antiche e medievali continuò ad essere a lungo d’intralcio per la considerazione degli artisti da parte della storia, dall’altro furono gli artisti stessi a prendere coscienza di se stessi. Aiutati da Filippo Villani e dal suo Liber de origine civitatis Florentie et eiusdem famosis civibus, che inseriva tra le categorie degli uomini illustri della città anche quella dei pittori (confermando così ulteriormente l’intuizione di Boccaccio), molti artisti iniziarono a scrivere d’arte e di loro stessi.

Il primo fu Cennini, che esortò i suoi a emulare i dotti e i loro valori, a cui seguì, a pochi anni di distanza, Ghiberti che nei Commentarii unì il suo trattato sull’arte e sugli artisti alla prima autobiografia d’artista della storia, un gesto di riconoscimento della consapevolezza del proprio potere intellettuale e creativo. Consapevolezza comune ad Alberti, il quale fuse nella sua personalità e nella sua opera la cultura letteraria dell’umanista e la pratica dell’artista, aprendo anche alla trattatistica quattrocentesca: scrivere una teoria della pittura e della scultura, ed averlo fatto in latino, significò infatti porre queste discipline sullo stesso piano delle Arti liberali, decisione a cui Alberti aggiunse il consiglio per l’artista di applicarsi nella scienza e di farsi amico dei letterati per essere moderno. La matematica faceva infatti parte della ristretta cerchia delle arti liberali e “se i pittori fossero riusciti a dimostrare che la loro arte implicava la conoscenza di essa ciò avrebbe costituito un valido argomento per farla considerare liberale” (Blunt 1940, p. 62). Alberti si prodigò anche per far sì che la parte di inventione, di decisione su soggetto e iconografia dell’opera d’arte, spettasse all’artista, in modo da renderlo più padrone del suo lavoro.

Per l’Alberti, la conoscenza dei testi, che precede e fonda la capacità d’invenzione

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pittorica, dovrebbe spettare al pittore stesso: “Piacerammi sia il pittore (...) uomo buono e dotto di buone lettere (...) dotto in quanto e’ possa, in tutte le arti liberali” (Settis 2010, p. 58).

Attorno al 1500, si ebbero persino le prime rappresentazioni delle allegorie della pittura e della scultura nei cicli delle arti liberali e degli artisti nei cicli degli uomini illustri. Furono però gli artisti stessi a dare l’impulso più forte alla diffusione della loro rappresentazione: il primo autoritratto è probabilmente da far risalire alla metà del Trecento, quando l’Orcagna si scolpì a una delle estremità del gruppo degli apostoli che guardano l’assunzione della Vergine, nella parte inferiore del tabernacolo della Dormitio Virginis nella chiesa di Orsanmichele inFirenze20. “L’autoritratto sarebbe così un’eco dell’elogio di Giotto in Boccaccio enei documenti amministrativi e l’annuncio dell’ingresso dell’artista tra gli uomini illustri di Firenze con la cronaca di Villani” (Pommier 2006, p. 93). L’Orcagna inaugurò una lunga tradizione di autorappresentazione che all’inizio si limitò ai ritratti di gruppo, dove l’artista si dipingeva come parte della folla, ma si rendeva distinguibile per il dettaglio dello sguardo rivolto verso lo spettatore. Tramite l’autoritratto l’artista si riconobbe come personalità degna di sovrastare persino l’interesse per l’opera d’arte in sé.

L’arte rimase sempre un’attività meccanica da svolgere su commissione, ma l’emergere della consapevolezza dell’artista modificò la percezione sia dell’opera che dell’artista da parte del pubblico. Se all’inizio del Quattrocento, un contratto verteva principalmente su tre temi – soggetto, tempi, materiali – nel corso del secolo si verificarono graduali cambiamenti nel porre l’accento su particolari diversi e l’abilità pittorica assunse maggiore rilievo; se prima negli accordi era riservata grande importanza ai materiali nobili, all’uso e alla qualità dell’oro e dell’azzurro oltremarino, a poco a poco questi persero di importanza e vennero sostituiti da indicazioni relative all’abilità tecnica del pittore. Infatti,

la dicotomia fra qualità del materiale e qualità dell’abilità tecnica dell’artista era il motivo che ricorreva in modo più frequente ed evidente in qualunque tipo di discussione sulla pittura e sulla scultura (...). Un dipinto veniva pagato in base a questi due elementi, materia e abilità, materiali e manodopera (Baxandall 1972, pp. 17-18).

Si diffuse inoltre l’usanza di attribuire un valore notevolmente diverso al lavoro del maestro rispetto a quello degli assistenti. Nel 1447, al momento di

20 L’identificazione dello scultore ci è proposta sia da Ghiberti che da Vasari.

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pagare il Beato Angelico per la cappella Niccolina in Vaticano, la cifra finale fu stimata in base al tempo impiegato da lui e dai suoi tra assistenti: all’Angelico spettarono 200 fiorini e agli assistenti 108, da dividersi in base alla fama. Dei 108 fiorini, infatti, 84 spettarono a Benozzo Gozzoli e i restanti 24 furono spartiti tra Giovanni della Checha e Jacopo da Poli. In questo modo,

il cliente conferisce lustro al suo dipinto non con l’oro, ma con la maestria, con la mano del maestro in persona. Verso la metà del secolo il fatto che l’abilità pittorica venisse pagata a caro prezzo era ormai cosa nota (...). Le persone illuminate che acquistavano l’abilità, spinte dalla consapevolezza che l’individualità dell’artista diveniva sempre più significativa, erano però abbastanza numerose da far sì che nel 1490 l’atteggiamento del pubblico fosse ben diverso da quello che si era avuto nel 1410 (p. 22).

Proprio l’atteggiamento del pubblico spinse alcuni principi ad assumere a corte gli artisti pur di avere il meglio della loro produzione in esclusiva. Mantegna fu chiamato da Ludovico Gonzaga nel 1469 e dai documenti sappiamo con precisione a quanto ammontavano il suo stipendio annuo e i privilegi connessi. Gli artisti, assunti a corte, migliorarono la loro condizione sociale ma continuarono a lavorare su commissione e a realizzare anche oggetti di artigianato. L’assunzione a corte fu comunque la maggior forma di libertà dalla logica della corporazione, tanto che

i contratti redatti alla fine del XV secolo tra committenti e artisti dimostrarono quanto radicalmente, nell’arco di tempo denominato Umanesimo, le cose fossero cambiate: chi pagava si assicurava sempre più spesso che la maggior parte del lavoro fosse eseguito dal maestro della bottega e non dai suoi aiuti, diminuì l’importanza delle opere accessorie, come l’esecuzioni delle cornici articolate e complesse dei polittici; e ancora, sempre più spesso si apprezzava la maestria di un pittore in grado di fingere i paesaggi e sfondamenti prospettici sui cieli rannuvolati, piuttosto che piatte stesure di blu o di foglie d’oro: fondali, aureole, vestiti, che non affidassero il loro valore alla preziosità del materiale ma l’abilità dell’autore divennero, almeno in Italia, una delle caratteristiche importanti di una commessa del primo Cinquecento (Vettese 1998, pp. 22-23).

Molta cultura europea moderna a partire da Burckhardt ha visto nel mito del Rinascimento quello dell’individualità dell’uomo colto, resosi moderno grazie all’universalità dei suoi interessi e della sua cultura (Burckhardt 1860).

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In questo periodo (diversamente da quelli precedenti), le opere d’arte vengono create con uno stile intenzionalmente personale, oltre che nello stile caratteristico dell’epoca o della regione (...). All’osservatore del XX secolo i quadri rinascimentali danno in genere l’impressione di essere opera di singoli individui più di quanto non la diano quelli medievali (Burke 1972, p. 38).

Alla generale autonomia delle arti si affiancò dunque quella di chi creava:

l’opera dell’artista è ormai considerata come lo specchio di un pensiero individuale, e non più di un’idea superiore (...). Svanisce l’importanza del soggetto. Quel che conta è acquistare un’opera di mano del tale o talaltro maestro. Non si vuole più una Madonna o una Deposizione, ma un Leonardo da Vinci, un Michelangelo o un Bellini (Gimpel 1968, pp. 50-51).

Quanto descritto rappresenta quindi un avanzamento verso la moderna concezione dell’arte e dell’artista, ma non è da considerarsi un punto di arrivo. Nonostante i vari tentativi di equiparazione tra arti meccaniche e arti liberali, le forti personalità artistiche, il cambio di punto vista dei committenti, la norma creativa, anche nel Rinascimento maturo, continuava ad essere quella della bottega, collettiva e con regole diverse dalle nostre.

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2. Il Rinascimento maturo. Nuovi approcci creativi

Il riconoscimento delle virtù creative degli artisti coincise con il Rinascimento dei grandi committenti e dei grandi intellettuali, ed iniziò con un lento ma significativo cambiamento: a una maggioranza di artisti-artigiani, si affiancò infatti una ristretta minoranza di artisti che si occupò di importanti progetti per facoltosi mecenati. Nonostante la difficoltà di affermazione della “concezione soggettiva” delle personalità individuali, retaggio della considerazione medievale di un’arte obiettiva superiore alle inclinazioni del singolo (Hauser 1955, p. 67), molti artisti iniziarono ad essere considerati e a considerarsi come tali. La bottega continuò a esistere e con essa l’autorità del maestro che stabiliva le condizioni del lavoro che altri dovevano eseguire, ma il nuovo valore cardine propugnato con energia, anche nell’atelier, fu quello dell’originalità, associato all’arte e al genio dell’individuo, di cui i grandi artisti si fecero vati in seguito alla diffusione delle idee del circolo neoplatonico di Marsilio Ficino (Sennet 2008, p. 75).

L’argomento sarà trattato a partire da due grandi campioni del loro tempo, Michelangelo e Raffaello, scelti in quanto contemporanei e in quanto capifila di due modi completamente opposti di intendere l’arte e che sin da subito crearono due sorte di fazioni dietro alla loro fama. Michelangelo, di carattere duro e orgoglioso, concepì il lavoro condotto insieme ad altri solo in caso di forti necessità tecniche. Per lui il lavoro artistico fu sempre un lavoro di solitudine e di grande creatività individuale. Raffaello, di carattere opposto, socievole e solare, colse invece il meglio dai suoi collaboratori, dando vita a uno dei migliori atelier della storia dell’arte.

Il capitolo si concluderà parlando degli albori del passaggio dal sistema di bottega a quello di accademia, ossia di un sistema in cui si iniziò a considerare l’importanza dell’apprendimento anche teorico della pratica artistica, ulteriore riprova del cambiamento in atto nella considerazione delle arti plastiche e visive.

2.1 Marsilio Ficino e il culto dell’arte

Tra le grandi esperienze del Rinascimento, la presa di coscienza della propria individualità da parte degli artisti fu sicuramente una delle più importanti. L’unione tra forza della personalità, energia intellettuale e spontaneità dell’individuo creò il tipo del genio, quintessenza di tali facoltà, ideale in cui si

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raccolsero l’essenza dello spirito umano e il suo potere sulla realtà (Hauser 1955, p. 67).

Questa novità si sviluppò attorno ad un ambiente ben preciso, quello dell’Accademia dei Careggi, cerchia di intellettuali fiorentini che ebbe come ispiratore e maggiore esponente Marsilio Ficino, autore di un ampio lavoro di traduzione e di commento dell'opera di Platone, di Plotino e degli scritti ermetici. Nella villa donatagli da Cosimo de’ Medici, Ficino raccolse attorno a sé “una riunione di begli spiriti, un ‘circolo’ posto da Landino e Ficino sotto l’egida di Platone” (Chastel 1996, p. 20) con l’intenzione di rendere accessibile, mediante traduzioni latine, il pensiero della tradizione antica, integrandolo con i modelli di riferimento culturale del tempo (Virgilio, Cicerone, Agostino, Dante) e armonizzandolo con la tradizione cristiana, attuando così il primo vero tentativo di fondere la teologia cristiana con la grande filosofia pagana (Kristeller 1964, p. 50).

L’uomo occupò sempre una posizione di assoluto rilievo nel sistema ficiniano. In quanto possessore di un’anima razionale che partecipa alla mente divina e di un corpo che lo connette alla realtà materiale, l’essere umano fu considerato come il legame tra Dio e il mondo, il centro dei due livelli. “La sua ragione è esclusivamente umana, è una facoltà irraggiungibile per gli animali, inferiore all’intelligenza di Dio e degli Angeli, eppure capace di volgersi nell’una e nell’altra direzione” (Panofsky 1939, p. 192). E proprio questa, in virtù della sua unicità, si pose come punto di partenza nel grande ripensamento della cultura umanistica e dell’uomo moderno condotto dall’umanista. In un’epoca di profondo rinnovamento delle arti, come il Quattrocento, Ficino non tralasciò di dedicarsi anche a quelle, occupandosi diffusamente nei suoi scritti di problemi di linguaggio e di poesia e concentrandosi, inoltre, su un’interpretazione della riforma delle arti e su una nuova definizione della figura dell’artista. Grazie a lui, l’arte ricevette quella copertura metafisica data da legittimità, prestigio sociale e sfondo spiritualista necessaria per raggiungere il piano delle arti liberali. Sviluppando e giustificando il termine creazione, lo liberò dall’esclusività dell’utilizzo teologico e lo applicò alle attività umane, consolidando così la categoria di opera d’arte quale la intendiamo oggi.

Ficino pose alla base di tutto il suo pensiero una cosmologia che celebrava la perfezione e l’assoluta dignità del mondo, qualità che, contemporaneamente, ne costituivano l’essenza artistica. I suoi elementi principali erano la struttura del cielo, la gerarchia degli esseri e la trama del reale, indicatori della presenza di un autore (artifex o architectus sublime) che stava dietro a tutto. L’universo fu da lui

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considerato come la prima opera d’arte e il prototipo di tutte poiché la sua creazione era organizzata come un manufatto artistico in cui ogni parte è essenziale al raggiungimento di un preciso effetto finale. In questa grandiosa opera, tutto per lui era determinato secondo i principi dell’ordo e della decentia, qualità estetiche nelle quali si palesavano l’essenza stessa del mondo e il pensiero di Dio (Chastel 1996, p. 116).

Per spiegare con la pratica la sua teoria sul mondo e sulla sua creazione, Ficino ricorse, tra le altre, alla descrizione di un’inusuale opera d’arte, un ingranaggio automatico (somigliante agli odierni orologi con figure) in cui, nell’analizzarlo, vi scorse l’immagine stessa dell’ordine cosmico:

m’è capitato di vedere in Firenze un tabernacolo, opera di un artigiano tedesco: in esso figure scolpite in tutto tondo, rappresentanti animali diversi, tutte innestate su un unico perno e su di esso librate; al muovere che si facesse del perno le figure si muovevano contemporaneamente in modi diversi, correndo alcune a destra, altre a sinistra, in su ed in giù, alcune, prima sedute, si rizzavano, altre, fino a quel momento ritte, si piegavano: alcune ne coronavano altre; altre ancora facevano l’atto di ferirne altre; non solo: si udivano suoni di trombe e di corni, e canti di uccelli; insomma accadevano in quell’ordigno contemporaneamente a queste che ho descritto, moltissime altre cose simili a quelle, come conseguenza immediata di un solo e semplice movimento di quell’unico perno. In egual modo Dio, tramite lo stesso suo essere (che realmente si identifica con l’intendere ed il volere e che è, per così dire, il centro semplicissimo di tutto, dal quale, come dicemmo altrove, si deducono tutte le altre cose come le rette da un punto), con un facilissimo cenno folgora da sé tutto quanto da lui procede (Ficino in Chastel 1996, pp. 120-121).

Il cosmo manifestava dunque così la sua conformità al modello eterno ossia al pensiero del suo architectus. Il rapporto tra Dio e il mondo è infatti esattamente corrispondente a quello che corre tra un autore e la sua opera: il produttore è sempre presente nella sua creazione in quanto l’opera riflette la mente del suo artefice, secondo una vecchia idea proposta già nel I secolo da Filone di Alessandria (Jiménez 2002, p. 102). Considerato come un’opera e come un modello ideale di tutta l’opera umana, il mondo parlerebbe in questo modo del suo autore. La creazione divina iniziò così a corrispondere a quella umana, fatto che legittimava qualsiasi operazione artistica ad entrare in un campo di considerazione superiore rispetto a quello in cui si era trovata fino ad allora. Ma c’era di più: l’uomo sarebbe stato infatti capace di comprendere l’azione creativa

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di Dio. Spiega Chastel prendendo in esame il gioco di marionette del tabernacolo tedesco:

la scelta di questo esempio concreto è significativa, perché ci conduce ad un’idea capitale per l’antropologia di Ficino, e facile da discernere in tutta la Theologia Platonica: l’uomo è all’altezza della creazione non soltanto per la sua attitudine a coglierne il meccanismo e l’armonia, ma anche e soprattutto per il suo proprio dinamismo creativo (Chastel 1996, pp. 121-122).

Per Ficino nessuna opera poteva infatti essere compresa se non si possedeva lo stesso grado d’intelligenza del produttore e l’uomo, oltre a saper utilizzare l’opera divina, era anche in grado di capirne l’elaborazione, qualità che lo rendeva in grado di riprodurla. Questo grazie al principio di identità delle intelligenze esistente tra lui e il Creatore. L’anima umana era stata quindi presentata come in grado di utilizzare tutto ciò che Dio aveva messo a sua disposizione nel mondo, cosa che rendeva l’attività artistica umana pari a quella divina, in quanto utilizzatrice della bellezza del mondo per i suoi scopi creativi.

Dal punto di vista metafisico l’uomo poteva quindi essere finalmente definito artista universale, grazie a quanto affermato con convinzione da Ficino:

il filosofo si sforza di stabilire la realtà assoluta dell’anima, universale nello spazio e immortale nel tempo. È in funzione di questa nozione centrale che egli descrive l’aderenza profonda dell’uomo alla creazione, e questo prodigioso potere che investe tutti gli aspetti del reale (Chastel 1996, pp. 124-125).

L’arte, dal canto suo, si poneva dunque in totale corrispondenza con l’attività divina grazie alla capacità umana di concepire, enunciare e produrre forme con la materia messa a sua disposizione: d’altronde, “ciò che Dio crea nel mondo con il pensiero, lo spirito (umano) lo concepisce in se stesso con un atto intellettuale, lo esprime con il linguaggio, lo scrive nei suoi libri, lo raffigura in ciò che costruisce nella materia del mondo” (Ficino in Chastel 1996, p. 125). L’opera d’arte poté essere considerata altro rispetto alle attività umane in virtù della creatività, base dell’ideologia che legittimò la pratica artistica come differenza e genio. Come scrive Jiménez,

la nozione di opera d’arte trova così una delimitazione molto precisa: in senso proprio continua a esservi implicita l’idea di un fare (érgon, opus), ma ora non si tratta più di un fare qualsiasi, né genericamente artificiale, quanto piuttosto di un fare creativo, e

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ciò implica trasferire a livello artistico l’orizzonte spiritualista della teologia cristiana. La categoria creazione permette di concepire il compito, l’attività degli artisti come un’emulazione del potere (spirituale) d’infondere la vita caratteristico di Dio (Jiménez 2002 pp. 103-104).

3 “Michelangelo non nomina i cinque garzoni; inoltre, il tono del ricordo, così come il fatto che la loro paga sia annotata come una somma singola senza alcuna indicazione del fatto che fosse un salario da pagare in quel momento, suggerisce che sin dall’inizio Michelangelo avrebbe avuto intenzione di impiegarli solo per un periodo di tempo limitato”.

4 Esiste un’effettiva corrispondenza tra questa versione dei fatti e quella riportata nellaredazione delle Vite del 1550, il che significa che nonostante la biografia del Condivi (uscita nel 1553) e le verifiche succedutesi alla morte del maestro, nessuna modifica fu ritenuta necessaria per questa parte del testo, la quale venne giudicata sufficientemente precisa e veritiera dal Vasari.

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Contrariamente, nella biografia del Condivi, non compare alcun accenno alla presenza di aiuti, anche se “nel caso del Condivi vanno però tenuti presenti i motivi polemici nei confronti dell’opera vasariana e la palese volontà di mitizzare la figura di Michelangelo che determinarono la stesura della biografia” (Mancinelli 1990, vol. III, p. 107). Gli studi sulla volta sembrano comunque smentire la versione di Condivi. Sappiamo dalle sue lettere e dalle sue poesie che Michelangelo era solito dichiararsi incapace di fare tutto (per vera o falsa modestia che fosse) e che cercò sempre di rifiutare tutte le commesse che non fossero di scultura, unica tecnica in cui si sentiva veramente a suo agio. Persino negli stessi documenti relativi all’impresa della sistina si firmò come “scultore” (Forcellino 2005, p. 123).

Nonostante si fosse formato nella bottega del Ghirlandaio e avesse preso parte alla decorazione della cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella, Michelangelo non aveva effettivamente mai avuto a che fare nella sua attività da adulto con la tecnica della pittura a fresco. Gli fu quindi necessario appoggiarsi, almeno per gli inizi, ad aiuti più esperti di lui e “il ricorso ai ‘garzoni’ rientrava perfettamente nella prassi, e tanto più lo giustificava la vastità della superficie da dipingere” (Salvini 1965, pp. 182-183).

La decorazione ad affresco impone una sapienza tecnica straordinaria, poiché i pigmenti disciolti in acqua vanno applicati alla superficie da decorare entro 24 o 48 ore, ossia prima che l’intonaco si indurisca. Per questo motivo, dopo aver preparato un disegno generale e averlo riportato nelle sue linee essenziali sull’arriccio bisogna subito provvedere a stendere le porzioni di intonaco su cui si ha intenzione di lavorare nell’arco della giornata (e che per questo motivo ne prendono il nome). Ma il rischio è che la differenza delle giornate si manifesti già attraverso una diversa stesura e una diversa presa della malta, rischio a cui si aggiunge quello della coloritura che deve risultare omogenea almeno nelle parti adiacenti (Forcellino 2005, p. 121). Difficilmente Michelangelo poteva portare avanti un’impresa del genere in solitaria.

Inoltre, anche la costruzione dell’impalcatura gli causò problemi di non poco conto, considerando la superficie e la forma della volta da affrescare, poiché

la cappella costruita da Sisto IV a partire dal 1477 aveva una forma rettangolare molto regolare. Era lunga tre volte la sua larghezza (...), per una superficie complessiva di 1200 metri quadrati da dipingere con la testa rivolta verso l’alto, facendo attenzione alle deformazioni create dalla superficie curva (p. 120).

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Sia Vasari che Condivi raccontano che Michelangelo costruì il ponteggio su un proprio progetto dopo aver criticato quello eseguito da Bramante su commissione del Pontefice. Ma poco si sa di questo ponte “se non che consentì il normale svolgimento delle funzioni liturgiche nella cappella lasciando libero tutto o parte del piano della cappella stessa, e che fu costruito da Jacopo Rosselli, il muratore a cui Michelangelo appaltò anche l’arricciatura della volta” (Forcellino 1990, vol. III, p. 57).

L’artista chiamò unicamente manodopera fiorentina in quanto, se proprio doveva affidare un suo lavoro a qualcuno, voleva che fosse gente conosciuta, con lo stessa formazione e con lo stesso approccio all’arte. Dalle tracce stilistiche negli affreschi e dai nomi trovati nei documenti, si suppone che siano intervenute una dozzina di persone. Ai nomi riportati dal Vasari (cfr. Vasari 1568, vol. VI, p.35) bisogna aggiungere quelli di Giovanni Trignoli, Bernardino Zacchetti, Giovanni Michi, Pietro Urbano, Giuliano da Sangallo, Piero Basso e Piero Rosselli. (Wallace 1995, vol. II, pp. 203-204). Fu il Granacci, amico di Michelangelo sin dai tempi dell’apprendistato dal Ghirlandaio, a reclutare i suoi colleghi fiorentini, mentre il Trignoli, lo Zacchetti, il Michi e Pietro Urbano furono probabilmente assunti da Michelangelo stesso (ib.). Una precisa conferma della venuta a Roma degli aiuti si trova nel già citato ricordo michelangiolesco del 5 aprile 1508 (cfr.) e i nomi sono confermati in una lettera inviata da Granacci a Michelangelo in quello stesso mese (Barocchi, Ristori vol. I [1965], p. 376), anche se, in questo documento, manca il nome dell’Indaco Vecchio, probabilmente subentrato a Iacopo di Sandro che abbandonò Roma e il cantiere nel gennaio 1509 a causa di contrasti con Michelangelo stesso (Mancinelli 1985, vol. II, p. 539).

Va innanzitutto precisato che sebbene la presenza degli aiuti si avverta sia nelle parti squisitamente decorative che in quelle più complesse dei finiti rilievi dei troni, dei tondi e delle storie, i garzoni operarono in condizioni di completo subordine alle direttive del maestro, il quale esercitò sul loro operato un controllo spietato, spesso realizzando personalmente anche brani di elementi decorativi secondari, per mostrare loro come andasse fatto il lavoro. Strumento fondamentale di questo controllo, fu la realizzazione di una serie di cartoni accuratissimi, che non lasciarono spazio alcuno all’eventuale iniziativa dei garzoni, costringendoli a seguire con cura il percorso esecutivo predisposto dal maestro (Mancinelli 1990, vol. III, p. 111).

Nonostante nessuno dei cartoni sia giunto fino a noi – Michelangelo aveva la tendenza a distruggere i suoi disegni per paura che qualcuno potesse realizzare le sue idee al di fuori del suo controllo (Hirst 1988, pp. 25-26) – sull’intonaco della

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volta sono presenti evidenti tracce dei due metodi con cui venne trasposto il disegno preparatorio, ossia lo spolvero e l’incisione indiretta. Nella prima metà della volta il disegno era accuratissimo e venne trasposto ricorrendo sempre al primo metodo citato.

Se si pensa che dal Cinquecento l’uso del graffito ebbe il sopravvento (al più si impiegò lo spolvero nelle zone decorative o “periferiche”, affidate ai garzoni di primo pelo) e che proprio negli anni della volta era l’unico adottato da Raffaello dipingendo le stanze, possiamo credere che davvero Michelangelo si sentisse un principiante in tema di affresco (Salvini 1965, p. 184).

Almeno nelle prime parti, quindi, Michelangelo ricorse a una tecnica meno rischiosa e più in linea con la sua preparazione del momento, ma con l’avanzare dei lavori dimostrò di essere sempre più padrone del mezzo, alternando i due procedimenti.

Furono realizzati cartoni per ogni singolo disegno che doveva apparire sulla volta, persino per i capitelli della cornice architettonica circostante le storie e per le fasce ornamentali con conchiglie e ghiande attorno alle vele, anche se la varietà delle singole zone, unita al fatto che la volta era policentrica, fece sì che Michelangelo non potesse procedere a una progettazione generale vera e propria e dovette lavorare campata per campata studiando caso per caso la superficie da affrescare (Mancinelli 1994, vol. II, p. 10).

Nel caso dei capitelli della Delfica – i primi ad essere eseguiti – il cartone prevedeva uno schema decorativo più complesso che fu modificato solo all’ultimo momento (fig. 9), durante la fase della stesura pittorica, documentando un intervento diretto di Michelangelo, che all’inizio seguì evidentemente da vicino anche la realizzazione di questi elementi solo apparentemente secondari (Mancinelli 1990, vol. III, p. 111).

Il modo di impiegare gli aiuti risulta quindi particolarissimo in Michelangelo, soprattutto se confrontato con quello della bottega del Ghirlandaio, ambiente in cui si era formato e da cui aveva appreso tutta la sua pratica giovanile (Rosenauer 1990, vol. III). Nella cappella Tornabuoni, dove Michelangelo si fece le ossa, le parti più importanti e più vicine all’occhio dello spettatore furono eseguite in parte dal Ghirlandaio, in parte da aiuti sulla basi di cartoni dettagliati di mano del maestro, mentre le zone più distanti dallo sguardo furono interamente affidate alla bottega che lavorava su cartoni alquanto sommari, creando così differenze di mano piuttosto palesi soprattutto ad un’osservazione ravvicinata. Nella

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decorazione della Sistina, al contrario, grazie all’impiego di cartoni estremamente dettagliati e al controllo rigorosissimo di Michelangelo in persona, l’eterogeneità non sembra quasi percepirsi. Gli aiuti “subordinarono rigidamente la propria identità stilistica a quella del maestro, per cui la possibilità di identificare le singole mani risulta estremamente difficile e generalmente opinabile” (Mancinelli 1990, vol. II, p. 112). I soli fattori che rendono possibile intravedere personalità diverse rispetto a quella michelangiolesca sono l’impiego di tecniche esecutive diverse e un calo della tensione creativa estranea allo stile del maestro.

Un valido esempio da analizzare al fine di intravedere e di comprendere la presenza di più mani è la scena del Diluvio universale (fig. 7), la prima ad essere dipinta. Fu realizzata in due fasi distinte, lavorando inizialmente a secco, ma continuando a fresco. Della redazione iniziale (distrutta dall’artista stesso probabilmente a causa dei problemi di muffa di cui parlano sia il Vasari che il Condivi) si conserva solo la parte dei fuggiaschi sull’isolotto che fu inglobato nella versione definitiva. Nell’intera scena è comunque possibile riscontrare pentimenti, rifacimenti e discontinuità che risultano piuttosto evidenti nel confronto tra le figure in primo piano a sinistra con quelle dei fuggiaschi sotto la tenda: le prime denotano un modello vigoroso ma semplificato nell’articolazione dei piani - gruppo familiare con l’asinello; le seconde furono eseguite con un colore molto più acquoso e trasparente e con una cura ben più minuziosa. La figura del vecchio che approda portando il corpo del figlio morto risulta ancora diversa: l’articolazione dei piani è stata infatti eseguita con maggior vigore analitico, il colore è stato impiegato sia diluito che a corpo, a seconda delle necessità espressive, e la pennellata tende a definire le parti in primo piano semplificando e sfocando le più arretrate - tecnica che molto ricorda il tipico non- finito michelangiolesco della scultura e che per questo la rende classificabile come autografa. Differenze difficilmente attribuibili a un solo artista e che risultano ancora più evidenti nel confronto con le figure coeve ed autografe dei Veggenti e degli ignudi. Inoltre, va tenuto presente che la figura del vecchio denota la stessa tecnica esecutiva dei protagonisti della Creazione e che fu dipinta in una delle primissime giornate e non, come il gruppo con l’asino, nelle ultime. Se dunque il vecchio è da ritenersi come autografo, il resto della scena è da attribuire agli aiuti, anche solo per una questione di tempi di lavorazione (oltre che per le differenze stilistiche di cui si è appena detto) (ib.).

Contrariamente dunque a ciò che pensava Vasari, per un certo tempo la bottega rimase sul ponte con tutti i suoi componenti e Michelangelo non ne distrusse l’operato, ma al

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contrario ne sfruttò la collaborazione finché gli fu possibile, probabilmente (...), fin verso la fine del 1509 (ib.).

L’immaginazione non può quindi dirsi creazione o invenzione se riferita a Michelangelo, quanto piuttosto scoperta, rivelazione, il risultato di un’osservazione personale e per questo difficilmente condivisibile con altri nel suo farsi e per queste ragioni il maestro delegò raramente la creazione dei suoi lavori e altrettanto raramente eseguì disegni che altri misero in opera. Tutto nel suo approccio all’arte era pensato per far emergere e rivivere i concetti insiti nella materia, persino il metodo e gli strumenti utilizzati per scolpire. Per i primi anni della sua attività, Michelangelo lavorò il marmo facendo largo ricorso al trapano, strumento che permetteva di ottenere sculture ben finite in tempi rapidi – il David ne è un esempio. A partire dalla Pietà vaticana, però, l’artista decise di lasciar da parte questa scorciatoia, per dedicarsi all’utilizzo esclusivo di mezzi che gli permettessero di ottenere pienamente effetti e opere che fossero fedeli al suo pensiero. “La rinuncia al trapano è un’indicazione delle esigenze crescenti che Michelangelo si pone per quanto riguarda la capacità tecnica, la solidità e la

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perfezione: egli aveva bisogno d’una tecnica che fosse la più appropriata a dar vita al repertorio di immagini che divisava” (Wittkower 1977, p. 134). Da quel momento, l’artista ricorse massicciamente alla gradina, strumento che gli permise di far uscire la vita pulsante che risiedeva nel marmo. “La gradina gli consentiva di definire e ridefinire la forma naturale, di realizzare le modulazioni più sottili dei corpi, dei muscoli, della pelle e dei tratti del volto” (p. 137), come si vede chiaramente nel Tondo Pitti (fig. 8), dove furono utilizzati ben tre diversi tipi di gradina e una non rifinitura generale per arrivare all’effetto voluto. Liberando l’opera dal blocco di marmo con questo particolare tipo di scalpello dentato, la superficie otteneva quell’alone di movimento che lasciava vibrare la vita interiore della materia, a cui si aggiungeva l’effetto di non-finito tipicamente michelangiolesco, un effetto “col quale infran[se] le barriere sino ad allora esistenti tra pittura e scultura e sugger[ì] il valore plastico dell’atmosfera circostante alla forme” (D’Ancona 1951, p. 12).

Ancora più interessante per il nostro caso è lo sviluppo che questo non-finito ebbe in tutte le opere di Michelangelo. L’artista, infatti, lasciò volontariamente molte statue incomplete. Tra le più famose ci sono i Prigioni del Louvre e la Pietà Rondanini, quasi un testamento michelangiolesco a cui l’artista lavorò fino alla fine dei suoi giorni (Wittkower 1977, pp. 146-148). Queste opere sono interessanti al fine di capire lo sviluppo più significativo del concetto di genio creatosi a partire da Ficino, ossia un interesse maggiore per l’artista più che per l’opera e più per l’idea che per il risultato dell’intento. Michelangelo poteva permettersi di lasciare queste opere allo stadio di abbozzo proprio perché parte del contesto. È importante sottolineare come proprio in questo clima che si collocano l’interesse per il bozzetto, lo schizzo, l’incompiuto ed è corretto affermare che “l’origine del gusto per il frammento è da ricercare nella concezione soggettiva, nell’attrazione che esercita l’idea del genio” (Hauser 1955, pp. 68-69). Quel che inizia a contare veramente è l’intenzione artistica, un valore che a partire da quel momento andrà sviluppandosi sempre di più e che porterà col tempo alla figura dell’artista quale la si conosce oggi.

Per onestà e incapacità di trovare conclusioni degne ed esaustive riguardo al genio di Michelangelo, preferiamo delegare il compito alle parole di Salvatore Quasimodo che ci sono sembrate più chiare e veritiere di tante altre.

Solo un critico presuntuoso potrebbe pensare di chiudere in parole sinuose il mistero di Michelangelo, rischiarare un’immensa catena di immagini enigmatiche e darne per certa la genesi. C’è una “dietetica dello spirito” che non può essere spezzata, e lo

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sanno gli esegeti, quando discutono di “supposizioni” aperte al colloquio e alla voce che sempre si libera dalle opere dei grandi (Quasimodo in Camesasca 1966, pp. 7-8).

2.2 Raffaello, il caposcuola

La breve parabola della vita di Raffaello si aprì e si chiuse con la stessa perfezione che la contraddistinse in tutta la sua durata: “nacque adunque Raffello in Urbino, città notissima in Italia, l’anno 1483, in Venerdì Santo a ore tre di notte” (Vasari 1568, vol. VI, p. 156) e “finì il corso della sua vita il giorno medesimo ch’e’ nacque, che fu il Venerdì Santo, d’anni XXXVII” (p. 210). Che sia un’invenzione vasariana o meno, questa coincidenza sembra essere un coronamento dell’idea che già i suoi contemporanei avevano di lui: un uomo bello e buono, aggraziato nell’arte e nei costumi, gentile e affabile anche nel successo, anch’egli “divino”, come già Michelangelo, ma nella sua perfezione d’arte, di carattere e di aspetto. D’altronde, “Raffaello è stato considerato fin dai contemporanei come il pittore per eccellenza, quasi l’incarnazione stessa della pittura” (Becherucci 1968, p. 7).

Raffaello nacque in una famiglia di artisti. Il padre, Giovanni Santi, era un buon pittore a capo di una grossa bottega ad Urbino, al tempo centro culturalmente all’avanguardia grazie alla corte dei Montefeltro in cui, negli anni, si raccolsero importanti umanisti e artisti da tutta Europa. Pur non essendo un maestro di punta della scena italiana, il Santi fu sempre all’avanguardia riguardo alle novità del suo tempo, che raccolse nella Cronaca rimata, un componimento in terzine che celebrava le gesta di Federico da Montefeltro e che, al contempo, conteneva un’ampia digressione proprio sulla pittura del tempo sia in Italia che nelle Fiandre. Fu attivo per la corte di Urbino e, come ritrattista, per quella di Mantova (“Giovanni Santi” in Enciclopedia dell’arte 2002, p. 1105).

Il Santi morì nel 1494, quando Raffaello aveva solo 11 anni. Pur essendo in società con Evangelista da Pian di Meleto, lasciò formalmente il figlio a capo di tutta la bottega, informazione che ci viene confermata da un documento del 1500 per la pala del Beato Nicola da Tolentino di Città di Castello in cui il nome “Rafael Johannis Sancti de Urbino” è accompagnato dalla qualifica di “magister” e precede quella del più anziano collaboratore (De Vecchi 1966, p. 83). Raffaello crebbe dunque avendo davanti a sé un modello di approccio lavorativo preciso e ben strutturato, di cui imparò quasi contemporaneamente ad esserne sia garzone che capo.

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con il suo gesto, scegliendo, l’inizio della nuova vita per il manufatto che nel frattempo è diventato un ready-made, un’opera d’arte2.

Per Duchamp essere poeta era importante almeno quanto essere artista. Egli ha incarnato con maggior coerenza di chiunque altro il concetto dell’homo faber nel suo significato più completo di poeta (in greco, colui che fa) e di artista (colui che fa, in sanscrito). È riuscito a trascendere sia il poeta che l’artista, per arrivare al demiurgo che per sua sola decisione può riscattare dalla banalità l’oggetto comune ready-made, innalzandolo al livello di opera d’arte (Schwarz 1997, p. 21).

4.1 Andy Warhol. Appunti per una creazione collettiva

Andy Warhol proseguì sul percorso tracciato da Duchamp, ponendosi come il principale antagonista della tradizione artistica, in particolare quella americana, com’ era stata sino ad allora. Egli impose infatti l’irruzione dell’estetica e dei meccanismi della società consumistica sulla superficie della tela, l’eliminazione della soggettività dell’artista nell’opera d’arte e l’introduzione di un meccanismo di produzione seriale per ogni tipo di lavoro artistico.

Quando Warhol fece capolino nel mondo dell’arte, a metà degli anni Cinquanta, il panorama artistico americano era caratterizzato dalla fortissima presenza dell’Espressionismo Astratto, la prima vera avanguardia artistica d’oltreoceano, un movimento caratterizzato dall’importanza fondamentale attribuita al gesto del dipingere, inteso come trasposizione diretta sulla tela della tensione vitale dell’artista, coinvolto con tutto il suo corpo nell’azione pittorica, dal suo particolarissimo utilizzo del pigmento, legato a un uso intenso e totale del colore a discapito delle forme, e dall’idea che il pittore dovesse scendere nella profondità del proprio inconscio, traducendo l’impulso creativo, tipico dell’artista, in segni tracciati sulla tela o sulla superficie da disegno in maniera istintiva, con gesti ampi. Warhol, che seppur in un primo momento aderì in parte alla filosofia artistica espressionista e in particolare all’utilizzo pittorico del colore, con il quale iniziò a riprodurre le sue icone americane, fu il paladino di una concezione artistica opposta, che rifiutava qualsiasi idea romantica legata all’artista, alla profondità del suo gesto e della sua anima.

2 È bene ricordare che tutti gli “originali” sono scomparsi nel tempo e che attualmente esistono quasi solo repliche riguardo alle quali Duchamp stesso ha affermato: “la replica di un ready-made trasmette il medesimo messaggio dell’originale” (Duchamp 1961, p. 29). Duchamp ha così sottolineato come al di là dei cambiamenti del tempo e dello stile peculiare, un’opera sia da considerarsi sempre tale proprio sulla base della storia che le è propria e che la lega al suo autore.

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“Se volete sapere tutto di Andy Warhol – diceva nel suo tipico stile aforistico – non avete che da guardare la superficie dei miei quadri, i miei film e me stesso. Eccomi. Nulla è nascosto”. La concezione dell’arte del movimento pop è infatti assolutamente opposta a quella dell’Espressionismo Astratto. L’artista pop non ha segreti nascosti nell’inconscio. Se rivela qualcosa allo spettatore, si tratta sempre di cose che lo spettatore sa già, o di cui perlomeno conosce l’esistenza. C’è perciò un legame naturale fra l’artista e lo spettatore e, nel caso di Warhol, l’esistenza di questo legame contribuì senz’altro al processo che lo trasformò in icona. Warhol conosceva le stesse cose del suo pubblico e le stesse cose che emozionavano lui emozionavano anche il suo pubblico (Danto 2009, pp. 9-10).

Se Duchamp aveva dunque distrutto i paradigmi estetici dell’arte, negandoli nella loro totalità, Warhol riprese la sua indifferenza, proseguendo sulla strada di un’arte puramente intellettuale, ma celebrando, al contempo, la cultura dei consumi in cui si trovava immerso innalzandola sul piedistallo dell’arte. Prese le immagini più diffuse e popolari dell’America del suo tempo, bottiglie di Coca- Cola, scatole di Brillo, ritratti giornalistici di Marilyn Monroe, e le trasportò nello spazio dell’opera, dando loro una nuova dignità iconica e trasformandone profondamente la natura attraverso il loro isolamento e la ripetizione in serie. Così facendo, provocò una grande discontinuità all’interno della storia dell’arte, eliminando ciò che tutti consideravano appartenere all’essenza stessa dell’arte, il suo essere altro rispetto alla vita.

Uno dei suoi biografi, Victor Bockris, racconta che l’idea di utilizzare le zuppe Campbell come soggetto gli venne data da Muriel Latow, un’architetto d’interno. Warhol le offrì 50 dollari in cambio di un suggerimento geniale per farsi notare dal mondo dell’arte, le disse che cercava qualcosa che avesse un impatto forte, di diverso da quello che gli altri artisti pop già in circolazione, come Lichtenstein o Rosenquist, facevano. Lei gli suggerì di dipingere qualcosa che tutti vedevano tutti i giorni, che tutti riconoscevano, come un barattolo di zuppa, per l’appunto (Bockris 1989, p. 120). Tra l’altro, “le storie di questo genere sono numerose e sembrano indicare che questo era per Warhol un modo di procedere abituale. La maggior parte delle volte furono altre persone a suggerirgli le idee che lui poi utilizzava” (Danto 2009, p. 32). In una conversazione del 1970 con Gerard Malanga, suo storico assistente, Warhol affermò: “Prendo sempre le mie idee dalla gente. A volte non le cambio. Altre volte non uso subito un’idea, ma magari più tardi mi viene in mente e la utilizzo. Adoro le idee” (p. 33).

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Allo stesso modo, anche l’idea di passare dalla pittura alla serigrafia gli fu suggerita da Nathan Gluck, suo socio nei progetti pubblicitari. Warhol stava già lavorando all’idea dei barattoli di zuppa, proponendo non un semplice “ritratto” dell’oggetto, ma una griglia, costituita da otto dipinti esposti su quattro file, che rappresentavano ciascuna delle trentadue varietà di zuppe Campbell prodotte all’epoca, come se si trattasse di un allestimento di personaggi importanti. Per aumentare l’effetto di uniformità e quotidianità del soggetto trattato decise quindi di sfruttare l’idea propostagli e di utilizzare il telaio serigrafico, strumento da lui ben conosciuto grazie al suo lavoro nel campo della pubblicità. Ma non solo: oltre ad ottenere l’effetto desiderato e ad adattarsi perfettamente al suo talento di artista concettuale - per cui ciò che contava era solo l’intenzione - la serigrafia gli permetteva di velocizzare il processo di produzione dell’opera, rendendola ancora più simile all’oggetto che rappresentava. Queste le parole di Malanga riguardo all’utilizzo della serigrafia da parte di Warhol:

Andy si divertiva con ogni sorta di macchine e gadget, registratori, cassette, Polaroid, Thermofax. Ma l’obiettivo di tutta questa sperimentazione era la serigrafia applicata alla produzione di quadri. Andy era convinto che la serigrafia ne avrebbe semplificato al massimo la realizzazione. Quando i telai in seta erano molto grandi lavoravamo insieme; altrimenti ero abbastanza libero di fare di testa mia. Possedevo una conoscenza di prima mano della serigrafia perché avevo lavorato per un’estate come aiuto di un chimico tessile in una manifattura di accessori da uomo, perciò sapevo quel che facevo. Andy e io distendevamo il telaio in seta sopra le tele, facendo attenzione di allineare l’immagine in negativo con segni che avevamo precedentemente predisposto e sopra i quali il telaio in seta sarebbe andare. Quindi, una volta versata la pittura a olio in un angolo della cornice del telaio, la spargevo con il seccatoio. Arrivato il suo turno Andy afferrava il seccatoio ancora in movimento e proseguiva l’operazione di premere la pittura fino all’altra estremità del telaio. Quindi lo staccavamo, sollevandolo rapidamente, e cominciavamo a pulire la tela con fazzoletti di carta imbevuti di una sostanza chiamata Varnolene. Se non lo si faceva immediatamente la pittura avanzata si sarebbe seccata e rappresa (Malanga in Bockris 1989, pp. 138-140).

A distanza di anni, Leo Castelli confermò quanto asserito da Malanga nella prima parte del suo racconto. “Warhol mi aveva detto: ‘Tutti questi soggetti li avevo fatti a mano, ma poi ho trovato che era molto più facile servirsi di un filtro serigrafico. In questo modo posso farli io, ma può farli anche uno qualsiasi dei miei assistenti’ ” (Castelli in Boatto 2001, p. 5).

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Era il 1962. Da quel momento in avanti l’interesse per i processi di serializzazione tipici del mondo produttivo e l’idea che l’arte dovesse sopprimere ogni carattere individuale e soggettivo, assimilandosi alla logica meccanica e ripetitiva dell’industria, presero il sopravvento, inducendolo ad abbandonare la pittura a olio per dedicarsi esclusivamente alla serigrafia. Già alla fine del 1963, Warhol si risolse a dare alla sua opera una struttura degna della sua nuova natura. Abbandonata la vecchia caserma dei pompieri che sino ad allora gli era servita da studio, si trasferì in una vecchia fabbrica situata al 231 della Quarantasettesima Strada Est a Manhattan e qui, insieme a Malanga, ormai diventato suo assistente personale, diede vita allo spazio creativo più famoso di tutto il XX secolo, The Factory, così chiamato sia in onore del passato dell’edificio che lo ospitava sia per sottintendere che l’arte, da quel momento in avanti, poteva essere prodotta con metodi industriali, in catena di montaggio, proprio come i prodotti commerciali che rappresentavano l’America del tempo. Paul Morrissey, art director della Factory, le diede la definizione di “complesso industriale di Andy Warhol” (Morrissey in Thompson 2008, p. 104). Lo studio divenne famoso a New York e nel mondo per ciò che vi accadeva al di là della produzione artistica: divenne infatti un luogo di incontro in cui, come scrive Danto, “un gruppo di persone tipicamente Sixties potevano vivere una vita altrettanto tipicamente Sixties” (Danto 2009, p. 48). Tralasciando tutti i personaggi, i party e gli abusi di sostanze stupefacenti del caso, quello che qui ci interessa è l’altro lato della Factory, quello meramente produttivo. Warhol, infatti, radunò attorno a sé decine di assistenti da utilizzare per un creare dipinti e sculture secondo i dettami del lavoro di catena di montaggio tipico delle industrie, realizzando così quello che era la sua più grande aspirazione, dopo la celebrità: rendere l’arte uniforme.

A partire dal 1964, infatti, Warhol iniziò ad essere affascinato dalle scatole di Brillo e dall’effetto ripetitivo, meccanico, che esse riuscivano a creare se poste come sugli scaffali dei supermercati (fig. 14). Inizialmente pensò di utilizzare le scatole già esistenti in commercio, quelle che l’azienda utilizzava per trasportare le merci, ma ben presto si accorse che il cartone non era adatto a ricreare l’effetto da lui cercato. Si risolse quindi a far ri-fabbricare le scatole da artigiani che avrebbero tagliato e incastrato i pezzi secondo le istruzioni ricevute. “Malanga rintracciò una falegnameria sulla Settantesima Strada Est e vi ordinò numerose centinaia di scatole di legno di varie dimensioni, che furono consegnate alla Factory il 28 gennaio 1964” (Danto 2009, p. 52). Una volta che le scatole vennero consegnate, Andy e i suoi assistenti cominciarono a sistemare le scatole sul pavimento dello studio disposte in modo da formare una sorta di griglia composta

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di otto file nel senso della lunghezza. Una parte degli assistenti fu messa a dipingere le scatole in modo da ottenere un effetto simile a quelle originali; un’altra parte si dedicò all’appiattimento delle scatole che un esperto poi trasformava in stencil.

Una volta che il colore di base si era asciugato, Warhol e Malanga cominciavano a serigrafare le scatole dipinte, producendo in definitiva delle repliche di qualcosa che allo sguardo appariva identico a dei semplici contenitori di succhi di frutta, di cibo in scatola o, nel caso della più memorabile di tutte le scatole, di spugnette Brillo. Gli “operai della Factory” passavano da una scatola all’altra, completando all’incirca due facce di un determinato tipo di scatola al giorno. La base veniva lasciata bianca e non firmata (p. 57).

Il processo di produzione adottato da Warhol fu quindi l’esatta riproduzione di quello di una normale azienda: ogni compito era svolto da diversi gruppi di persone, secondo quanto avviene normalmente in una catena di montaggio, e ciò che non poteva venir realizzato dalle persone e dalle macchine della Factory veniva affidato ad esterni, che lo realizzavano secondo le istruzioni date. La sola caratteristica che distingueva la produzione della Factory da quella di una qualsiasi altra fabbrica era la considerazione dell’imperfezione e del difetto come parte integrante del processo e anche del risultato: spesso infatti si formavano grumi di colore o sbavature, ma per Warhol non erano altro che una fase necessaria e ineluttabile dell’operazione. “Nessuna revisione dunque, ma una riproduzione meccanica: questi due elementi divennero parte essenziale dell’estetica di Warhol, a prescindere dal mezzo utilizzato” (p. 58).

Quanto descritto mette chiaramente in luce una delle grandi novità dell’arte del XX secolo, sdoganata da Warhol stesso: “il fatto che un’opera d’arte sia stata effettivamente creata dall’artista che ne rivendica poi la paternità non fa più parte del concetto di opera ‘originale’: per questo basta che l’artista abbia concepito l’idea che l’opera semplifica” (p. 53). In questo risiede la portata concettuale della sua arte, la sua vera rivoluzione: Warhol rese evidente agli occhi di tutti il vero compito dell’artista nel processo creativo, mostrando come fosse stato possibile per secoli accettare una divisione collettiva del processo di produzione, proprio in virtù della portata della scelta creativa dell’autore. Arrivò persino ad affermare che “sarebbe fantastico se altre persone si mettessero a fare serigrafie in modo che nessuno potesse sapere se un’opera è mia o di qualcun’altro” (Warhol in Thompson, 2008, p. 105). Proseguì dunque nel compito duchampiano di

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distruzione delle classiche categorie e definizioni legate all’arte e all’opera, andando contro tutte le regole sino ad allora in vigore.

[Andy] ha preso in esame ogni possibile definizione del termine arte, sfidandola. L’arte rivela la traccia della mano dell’artista: Andy ha fatto ricorso alla serigrafia. Un’opera d’arte è un oggetto unico: Andy se n’è uscito con dei multipli. Un pittore dipinge: Andy faceva film. L’arte è distaccata dal commerciale e dall’utilitaristico: Andy si è specializzato in Campbell’s Soup Cans e in Dollar Bills. La pittura può essere definita in contrapposizione alla fotografia: Andy riciclava istantanee. Un’opera d’arte è ciò che un artista firma a riprova della sua scelta creativa, delle sue intenzioni: per modico compenso, Andy firmava qualsiasi oggetto. L’arte è un’espressione della personalità dell’artista, coerente con il suo discorso: Andy mandava invece al posto suo, per i giri di conferenze, uno che gli somigliava (McShine 1989, p. 441).

4.2.1 Eredità e incomprensioniC’è però un caso alquanto interessante, che ci permette di capire come certe

regole siano in realtà dure a morire e come l’arte, o per meglio dire, il sistema dell’arte, forse, non possa farne a meno.

Andy Warhol morì nel 1987 in seguito a complicazioni sopraggiunte a un intervento alla cistifellea. L’anno successivo, secondo le volontà testamentarie dell’artista, tutti gli oggetti di sua proprietà furono venduti all’asta da Sotheby’s per finanziare la Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, una fondazione con scopi filatelici legati al mondo dell’arte. L’organismo, tutt’oggi esistente, diede vita qualche anno dopo alla Andy Warhol Authentication Board, una commissione creata apposta per valutare l’effettiva autenticità delle opere di Warhol in circolazione. L’immensa produzione dell’artista, creava, per le tecniche utilizzate e la natura degli oggetti stessi, le condizioni ideali per la falsificazione: quale opera infatti è più semplice da contraffare di un’opera fatta con una tecnica meccanica quale la serigrafia o la fotografia e che può essere praticamente qualsiasi cosa, dal quadro, alla scultura, alla scatola?

L’Authentication Board è stato però al centro di numerosi dibattiti e controversie riguardo alle valutazioni e ai criteri di giudizio utilizzati, poiché negli anni ha ritenuto non autentiche numerose opere che non lasciavano dubbi in merito, senza nemmeno spiegare le ragioni di tale scelta. La storia è stata raccontata da Michael Shnayerson in un articolo del 2003 apparso sulle pagine di Vanity Fair America, proprio mentre la commissione si trovava nell’occhio del ciclone delle polemiche per numerose scelte giudicate fuorvianti da collezionisti, galleristi e avvocati. Centro dell’articolo è la storia di Joe Simon, collezionista

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americano entrato in conflitto con la commissione in seguito all’esito di giudizio negativo dato sul suo auto-ritratto di Warhol (fig. 15), acquistato nel 1989 per195.000 $ nella galleria newyokese Lang & O’Hara. La storia dell’opera aveva tutte le carte in regola per giustificare una somma simile: prima di approdare alla galleria era passata da un’asta di Christie’s che aveva avuto come banditore Ronald Fieldman, un dealer che lavorò a lungo con l’artista, e in precedenza era stata autenticata da Fred Hughes, l’esecutore testamentario di Warhol, nonché presidente della Andy Warhol Foundation.

L’esito negativo del giudizio spinse Simon a ricostruire la storia dell’autoritratto per smentire quanto sostenuto dalla commissione. Riuscì dunque a rintracciare Richard Ekstract, testimone della storia legata alla nascita dell’opera. All’epoca dei fatti, Ekstract era un giovane editore newyorkese che entrò in contatto con Warhol e la sua Factory per un’intervista per il magazine da lui diretto, Tap Recording. Nei mesi successivi all’intervista, i rapporti tra i due continuarono poiché Ekstract riuscì ad avere in prestito, su richiesta di Andy, una della prime videocamere in commercio. Siccome l’artista rimase affascinato dalla facilità di utilizzo dell’apparecchio rispetto alla 16 mm che normalmente utilizzava per i suoi film, propose al giovane di chiedere un ulteriore prestito dell’attrezzatura. In cambio, gli offrì una serie di suoi autoritratti, di cui uno degli esemplari era proprio quello che diversi anni dopo Simon comprò alla Lang & O’Hara. Dall’incontro, Simon scoprì che uno dei dipinti era proprio in possesso di Ekstract e che anche la sua era stata considerata non autentica dalla commissione. Warhol normalmente teneva per sé solo i lavori più importanti, delegando gli autoritratti che erano merce di scambio e non di vendita agli assistenti, intervenendo solo in fase di approvazione. Anche nel caso dell’opera in questione fu applicata la stessa procedura e la cosa fu confermata dagli stessi assistenti di Warhol.

Simon kept digging. He spoke to Paul Morrissey, Warhol's Factory film director in the l960s, who remembered the Ekstract deal and wrote a letter of support. Billy Name, the Factory's photographer at that time, corroborated Morrissey's version. Perhaps the most authoritative of the early Factory affidavits came from Warhol's Factory assistant Gerard Malanga, helped the artist produce nearly all early silkscreened paintings.“The Ekstract situation was an anomaly,” Malanga admits. “We never farmed out another job at that point.” But, he “it's still valid.” After all, he notes, Warhol was

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always experimenting with different methods. Just because this method different at the

time, says, “how can the say Joe's painting real?” (Shnayerson 2003)3.

Simon arrivò a interpellare Vincent Fremont, membro della commissione di giudizio e agente vendite della fondazione Warhol, che negli anni Ottanta aveva partecipato all’autenticazione del controverso autoritratto e riuscì persino a raccogliere, tramite un archivista dell’Andy Warhol Museum di Pittsburgh, le trascrizioni dei discorsi di Warhol in cui si parlava dell’opera in questione.

Il collezionista tornò dunque di fronte alla commissione con tutto il materiale raccolto, ma il dipinto fu considerato nuovamente non autentico, nonostante l’evidenza dei fatti, e anche quella volta la motivazione non fu giustificata.

Shnayerson riporta però nel suo articolo una lunga intervista a Claudia Defendi, membro della commissione, e Ronald Spencer, avvocato della commissione, che ci aiuta a far luce sul mistero. Se Defendi si limita a frasi standard, di circostanza – “The board is more than happy to re-review a work if

the owner is unhappy and feels the judgment is unfair”4; “The board authenticates

work if it's authentic”5 (ib.) – Spencer riesce invece a chiarire il perché delle scelte della commissione.

“All works that are ‘not by Warhol’ are not all fakes,” he clarifies. “That is to say, a fake is a work created with an intent to deceive. Historically, you have all kinds of work that were not created by the artist but were not created to deceive. They might have been copies; they might have been misattributions”. Just as likely, the board might see works Warhol did create – but not as art. “It has to do with the intent of the artist,” Spencer explains. “If the artist intends to create art, that's one thing. If the artist intended to sign a baseball cap to give someone his signature, that's not art”.Intention is the key, Spencer confirms, no matter how the art is made. “If Warhol conceived the idea, and he then directed someone else to prepare a silkscreen, and he then supervised the process of production and in effect signed off on it, whether or not he signed his name to it, as long as he said, ‘That's good, that's what I wanted,’

3 Simon continuo a scavare. Parlò con Morrissey, film director della Factory di Warhol negli anni '60, che ricordava l'accordo di Ekstract e scrisse una lettera di supporto. Billy Name, il fotografo della Factory al tempo, corroborò la versione di Morrissey. Forse la più autorevole delle deposizioni dell'antica Factory arrivo dall'assistente di Warhol Gerard Malnaga, che aiutò l'artista a produrre da vicino le prime serigrafie.

“La situazione di Ekstract era un'anomalia”, ammette Malanga, “Non abbiamo mai affidato un lavoro fino a questo punto”. Ma, “è ancora valido”. Dopo tutto, nota, Warhol stava sempre sperimentando con metodi differenti. Solo perché questo metodo era diverso ogni volta, dice, “come possono dire se il dipinto di Joe è reale?”.

4 “La commissione è più felice di revisionare nuovamente un lavoro se i proprietario èscontento e sente che il giudizio non è corretto”.

5 “La commissione giudica autentico il lavoro se lo è”

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Warhol created that work,” Spencer says, “no matter whether there were three, four, or

five assistants working under his direction” (ib.)6.

Con le parole dell’avvocato, improvvisamente le ragioni della commissione risultano chiare: è l’intenzione dell’artista a farla da padrone nel giudizio. Le opere di Simon e di Ekstract non potevano dunque essere considerate autentiche secondo questo criterio, poiché nate come semplice oggetto di scambio e poiché furono create in serie di cinque o sei su matrice di Warhol, ma la scelta del numero di esemplari spettò a Ekstract. La scelta dei criteri della commissione rimane comunque ambigua e criticabile da diversi punti di vista: altre fondazioni, come quella Calder, considerano autentico tutto ciò che ha avuto a che fare con l’artista e la sua intenzione di fare un’opera, anche se solo per un amico o per gioco. Inoltre, come sottolineato da Thompson (Thompson, 2008, p. 107), questo metro di giudizio sembra andare contro quanto più volte sottolineato dagli studiosi riguardo alla poetica warholiana: l’artista deve infatti il suo posto nella storia dell’arte proprio alla pratica di rendere evanescente l’autorialità tramite mezzi di produzione di massa. Com’è dunque possibile riconoscere l’autore solo in certe opere se questo deve svanire in tutte?

Il caso mette chiaramente in evidenza l’ambiguità della ricerca di un giudizio univoco sull’arte e, al contempo, l’ambiguità di giudizio sull’eredità artistica di

Warhol7.

6 “Tutti i lavori che sono ‘non di Warhol’ non sono tutti falsi”, spiega, “Questo bisogna dire, un falso è un lavoro creato con un intento di ingannare. Storicamente, si hanno diversi tipi di lavori che non sono stati creati dall’artista ma non sono creati per ingannare. Possono essere copie; possono essere delle attribuzioni sbagliate”. Altrettanto probabilmente, la commissione potrebbe vedere lavori fatti da Warhol – ma non come arte. “Ha a che fare con l’intenzione dell’artista”, spiega Spencer. “Se l’artista ha intenzione di fare arte, questa è una cosa. Se l’artista ha intenzione di firmare un cappellino da baseball per dare a qualcuno un suo autografo, questa non è arte”.

L’intenzione è la chiave, conferma Spencer, non di importa come l’arte è stata fatta. “Se Warhol ha concepito l’idea, e poi ha diretto qualcun’altro per preparare una serigrafia, e poi ha supervisionato il processo di produzione e ha effettivamente dato il consenso, sia che abbia posto o meno il suo nome su questa, purché abbia detto, ‘Questo va bene, è quello che volevo’, Warhol ha creato quel lavoro”, dice Spencer, “non importa se ci sono stati tre, quattro o cinque assistenti che hanno lavorato sotto la sua direzione”.

7 L’Andy Warhol Authentication Board non è più in attività dal 2012. Forse in seguito allenumerose polemiche legate a diversi giudizi e all’accusa ripetuta di conflitto di interessi (molti membri, come Fremont, avevano doppi ruoli all’interno della commissione e della fondazione difficilmente conciliabili) è stato deciso di dedicare tutte le energie e i fondi di cui il fondo dispone per attività esclusivamente filateliche. Qui, parte del comunicato stampa ritrovabile sul sito ufficiale della fondazione (www.warholfoundation.org): “The Board of Directors of The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, Inc. announced on October 19, 2011 that the Foundation will dissolve the Andy Warhol Art Authentication Board, Inc. in early 2012. The Foundation’s decision to dissolve the Authentication Board was informed by a strategic review of the Foundation’s core programs and reflects the Foundation’s intent to maximize its grant-making and other charitable activities in support of the visual arts”.

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3. Approcci contemporanei alla creazione

Dopo il passaggio di Duchamp e Warhol nella storia dell’arte, la scelta di agire individualmente o collettivamente sull’opera non fu più una mera questione socio- culturale, ma diventò una vera e propria poetica. Se, infatti, dal punto di vista delle regole interne a un determinato linguaggio, quale può essere quello della pittura o quello della scultura, i canoni non furono più legati a un procedimento necessariamente individuale o necessariamente collettivo, la decisione iniziò a spettare solo al singolo artista, il quale poté scegliere di adattare il proprio lavoro a un determinato metodo di produzione e con esso aggiungere un elemento ulteriore alla sua arte e alla sua poetica.

Nei paragrafi seguenti analizzeremo dunque tre casi di artisti contemporanei che propongono tre approcci creativi tra loro diversissimi, cerando di chiarire come la loro scelta produttiva metta in luce e sviluppi, aggiungendo dati ulteriori, il loro pensiero artistico. Takashi Murakami, erede della Factory warholiana, che ha scelto di lavorare solo ed esclusivamente avvalendosi dell’aiuto di numerosi assistenti, avvalorando ulteriormente quanto da lui già definito nella sua estetica superflat; Tomma Abts, la quale ha un approccio alla sua pittura totalmente individuale e solitario; Maurizio Cattelan, il quale ha deciso di poter giocare con liberamente con l’arte e le sue regole, così da non aver bisogno di alcun collaboratore fisso, di potersi avvalere di opere altrui per il suo lavoro e di delegare ad altri in caso di necessità.

3.1 Takashi Murakami. Una bottega contemporanea

“Takashi che consegna in ritardo un’opera commissionata da Pinault è come Michelangelo che non riesce a soddisfare in tempo le richieste del papa!” (Desmarais in Thorton 2008, p. 163). L’esclamazione nacque in seguito alla mancata consegna al patron di PPR della quarta opera della serie 727 da parte di Takashi Murakami, una serie di sedici pannelli raffiguranti le storie di una delle star dell’empireo iconografico dell’artista giapponese, Mr. DOB. Sebbene l’affermazione renda l’idea dell’importanza dei due personaggi presi in causa – e indirettamente compari due artisti dalle abitudini e dallo stile di vita molto simili (anche Murakami, al pari di Michelangelo, conduce una vita modesta e di intenso lavoro, circondato solo del necessario) – il paragone non considera opportunamente i contrastanti metodi di lavoro applicati dai due artisti presi in

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causa. Se infatti Michelangelo “non fu mai pictore né scultore come chi ne fa boctega” (cfr. par. 2.2), Murakami, al contrario, è a capo di uno dei più grossi atelier della storia dell’arte e la sua interpretazione dell’arte dipende direttamente da questo metodo di produzione.

Dopo aver terminato i suoi studi di pittura giapponese tradizionale, Murakami si trasferì a New York grazie alla vincita di una borsa di studio del MoMA PS1. Qui conobbe e rimase affascinato da artisti come Jeff Koons e Andy Warhol, di cui assorbì parte dei temi e del metodo artistico legato alla produzione di serie, raggruppato attorno a una Factory. Sin da subito capì che il suo approccio e la sua idea di arte Superflat, caratterizzata dall’integrazione di una grande varietà di elementi della subcultura giapponese Otaku (legata alle anime e ai manga) con quelli della pittura classica giapponese e uniti nell’appiattimento di una superficie pittorica levigata e dai colori brillanti, potevano ben concretizzarsi in un regime di produzione come quello collettivo e una volta tornato in Giappone, nel 1996, a soli tre anni dal diploma, diede vita a una sua iniziativa imprenditoriale, che si concretizzò nella Hiropon Factory, così chiamata in onore della Factory warholiana.

Sebbene agli inizi non avesse niente dell’importanza e dell’aura che circondava la Factory newyorkese – un assistente ricorda che lo “Studio No. 1” era situato in una struttura prefabbricata, arredato con mobili presi dalla spazzatura e gli impiegati si nutrivano di carne in scatola comprata al supermercato di fianco per pochi yen (Rothkopf 2008, pp. 146-147) – in pochi anni l’organizzazione si allargò sempre più, gettando le basi per quella che è l’impresa attuale, la Kaikai Kiki Co., Ltd. (fig. 16), una realtà che si divide tra tre studi giapponesi e uno newyorkese e che non si occupa solamente di creare opere d’arte, ma anche prodotti di design, pubblicità e promozione di artisti. Così Murakami stesso racconta della sua evoluzione:

As I took on new projects, the scale of my production grew, and by 2001, when I had a solo show at the Museum of Contemporary Art, Tokyo, the Hiropon Factory had grown into a professional art production and management organization. That same year I registered the company officially as “Kaikai Kiki Co., Ltd.”. To this day it has developed into an internationally-recongnized, large-scale art production and artist management corporation, employing over 100 people in its offices and studios in Hiroo, Tokyo and Long Island City, New York, as well as in its new animation studioin Daikanyama, Tokyo (Murakami)1.

1 Come ho preso in carico nuovi progetti, la scala della mia produzione è salita, e dal 2001, quando ho avuto una personale al Museo d'Arte Contemporanea di Tokyo, la Hiropon Factory si è

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rispettarli e lavorare in armonia con loro, altrimenti non si arriva da nessuna parte (Cattelan con Grenier 2011, p. 103).

Con Cattelan e la sua consapevolezza dell’essenza dell’arte e della sua differenza rispetto all’artigianato si chiude dunque il cerchio di quel binomio da cui eravamo partiti, quello della difficile convivenza tra arte e artigianato lungo i secoli. Alla fine del XX secolo, dopo aver attraversato secoli di lotte per il suo posizionamento al di fuori delle arti meccaniche, l’arte può finalmente ricorrere e collaborare con l’artigianato senza aver paura di essere confusa e questo, in virtù del trionfo dell’intelletto sui sensi più volte invocato da Duchamp.

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Conclusione

Giunti alla fine, è importante sottolineare come questo elaborato si configuri come lavoro teorico che ha però come aspirazione e obiettivo la comprensione di fenomeni pratici. Nel tentativo di capire quali sono le dinamiche che danno vita all’opera d’arte, ci siamo occupati di casi specifici in modo da chiarire come la creazione collettiva (di bottega), in cui altri realizzano il manufatto artistico in vece dell’artista, possa conciliarsi con l’idea dell’opera d’arte come frutto della creazione individuale (quale normalmente la percepiamo). Siamo giunti a sollevare questioni con chiare ricadute pratiche, quali la determinazione di un falso o ancora la diversità registrabile nella creazione di valore artistico nell’età contemporanea, con le dovute conseguenze.

Per arrivare ad avere un quadro completo ed esaustivo riguardo all’argomento, abbiamo lavorato, da un lato, attorno ad alcuni concetti fondamentali, quali l’autore, l’opera, la creazione, costanti che ci hanno permesso di individuare il cardine di ogni discorso sulla nascita dell’opera d’arte; dall’altro, attorno all’evoluzione storica delle idee di arte e di artista, al fine di mostrare come l’idea contemporanea riguardo all’argomento non sia sempre stata la stessa, affiancando a una parte teorica, di riflessione sull’arte e sul suo statuto, un percorso storico- critico, muovendoci tra la creazione collettiva e quella individuale.

Abbiamo mostrato come, contrariamente a quanto avviene oggi, per gran parte della storia dell’arte occidentale, almeno fino al primo Rinascimento, il lavoro dell’artista fu un lavoro di gruppo, una concezione in grande contrasto con quella dell’artista specializzato e individualista di epoche successive. Inoltre, abbiamo riscontrato che si possono trovare delle costanti, dei termini fissi, che conciliano le idee di creazione collettiva e individuale e siamo riusciti a individuarli nei concetti di autore, opera e invenzione, punti attorno ai quali deve svilupparsi qualsiasi discorso sull’arte e il suo farsi. Attraverso il pensiero di Becker abbiamo infatti dimostrato come ogni lavoro artistico sia un lavoro di dipendenza dall’attività di molte persone, una catena di cooperazione, in cui l’artista si trova a dovere dipendere da altri. Ma siamo anche riusciti a comprendere come all’interno di questo regime di collettività si riescano sempre a riconoscere l’opera d’arte come frutto di un protagonista ben preciso e questo in virtù dei concetti di autore e opera legati tra loro proprio dall’invenzione. L’autore è infatti colui che porta in sé l’invenzione che dà vita all’opera rendendola tale e non deve obbligatoriamente coincidere con colui che realizza manualmente e praticamente il manufatto che sarà poi riconosciuto come opera d’arte.

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Da parte sua, anche l’opera non è il prodotto fabbricato ma appunto quella stessa invenzione già evocata per l’autore, quell’elemento che non si esaurisce nell’operato, ma rimane aperto in e mediante esso. È per noi interessante sottolineare a tal proposito come proprio l’inventione, l’idea del soggetto, fosse considerata superiore in importanza rispetto al manufatto artistico già nei contratti di fine Quattrocento e come la figura dell’artista iniziò a delinearsi secondo i tratti che ancora oggi le attribuiamo proprio nel momento in cui questa caratteristica dell’opera passò nel suo campo di competenza.

Se la creazione artistica può dunque spettare anche a personaggi diversi rispetto a quello che noi chiamiamo artista, l’invenzione deve sempre essere di sua competenza se vogliamo affidargli il titolo di autore dell’opera, discorso che ben si ricollega a un altro punto fondamentale del nostro elaborato, ossia la scelta di portare avanti un’indagine che si riferisse solo a pittura e scultura.

Queste sono arti fortemente legate all’idea di un autore individuale che sta a monte della loro produzione, caratteristica che le collega anche a un altro punto centrale del nostro discorso che si è dimostrato interessante al fine di sviluppare la nostra idea di partenza, quello di autenticità. Ci siamo infatti chiesti come sia lecito considerare autentica un’opera d’arte realizzata all’interno di un sistema di creazione collettivo come quello di bottega, in cui mani diverse rispetto a quelle dell’artista attendono all’opera, mentre, al contrario, non lo sia se creata al di fuori, pur rispettando stile e soggetti. Ci siamo così rifatti nella classificazione di arti autografiche e allografiche proposta da Goodman, la quale, oltre a proporre una distinzione tra le due basata sulla significatività del falso e dell’originale – un’opera d’arte è autografica se anche la più esatta duplicazione non conta per questo come genuina – ci ha dato un elemento in più per capire la reale portata del legame tra l’autore e la sua opera. Pittura e scultura sono infatti da considerarsi autentiche solo quando sussiste un fatto storico inerente alla sua produzione che lo dimostri come riconducibile ad un autore chiaramente definito e riferibile alla stessa: un’ulteriore conferma di come un’opera rientri nei parametri a lei normalmente attribuiti solo in virtù del legame di invenzione che la lega al suo autore e che rende possibile anche la delegazione ad altri.

Nell’analisi di casi specifici di artisti che nella stessa epoca hanno avuto approcci all’arte e soprattutto alla sua produzione totalmente opposti, abbiamo quindi riscontrato come questi siano potuti essere (e possano ancora essere) più facce di una stessa medaglia proprio grazie a questo legame che si ripresenta identico e immutato in ogni situazione, anche in quella dell’arte contemporanea, in cui ogni regola sembra non essere più valida.

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Appendice

Fig. 1. Bottega di Giotto, Il presepe di Greccio, 1295- 1299, affresco, 230x270 cm, Assisi, Basilica superiore.

Fig. 2. Giotto, Il miracolo dell’assetato, 1295-1299, affresco, 270x200 cm, Assisi, Basilica superiore.

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Fig. 3. Benozzo Gozzoli e bottega, Pala della purificazione, 1461-1462, tempera su tavola, 161,9x170,2 cm, Londra, National Gallery.

Fig. 4. Leonardo da Vinci, Cartone di Sant’Anna, 1501- 1505, gessetto nero, biacca e sfumino su carta, 141,5x104,6 cm, Londra, National Gallery.

Fig. 5. Leonardo da Vinci e aiuti, Sant’Anna, la Madonna, il Bambino e san Giovannino, 1508, olio su tavola, 168x130 cm, Parigi, Louvre.

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Fig. 6. Michelangelo Buonarroti, Autoritratto, 1508- 1512, inchiostro su carta, Firenze, Casa Buonarroti.

Fig. 7. Michelangelo Buonarroti e aiuti, Diluvio universale, 1508 ca., affresco, 280x560 cm, Roma, Cappella Sistina, Musei Vaticani.

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Fig. 8. Michelangelo Buonarroti, Tondo Pitti, 1503-1505 ca., marmo, 85x82 cm, Firenze, Museo nazionale del Bargello

Fig. 9. Raffaello Sanzio, Disputa sul sacramento, 1509, affresco, 500x770 cm, Roma, Musei Vaticani.

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Fig. 10. Raffaello Sanzio, Cartone della scuola di Atene, 1509 ca., gessetto nero e sfumino su carta, 500x770 cm, Milano, Pinacoteca Ambrosiana.

Fig. 11. Raffaello Sanzio e bottega, Trasfigurazione, 1518-1520, olio su tavola, 405x278 cm, Roma, Pinacoteca Vaticana.

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Fig. 12. Han Van Meegeren, Cristo e l’adultera, 1942, olio su tela, 97x84 cm, Amsterdam, Rijksmuseum.

Fig. 13. Marcel Duchamp, Ruota di bicicletta, 1964 (copia dell’originale del 1913), ruota di bicicletta su sgabello, 126,5x31,5x63,5 cm, Parigi, Centre Pompidou.

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Fig. 14. Andy Warhol e Factory, Brillo box, 1964, vernice di polimeri sintentici e inchiostro serigrafico su legno, 43,3x43,2x36,5 cm, New York, MoMA.

Fig. 15. Andy Warhol e Factory, Autoritratto in rosso, 1965, vernice di polimeri sintentici e inchiostro serigrafico su tela, 24x20 cm, collezione privata.

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Fig. 16. Assistenti di Takashi Murakami al lavoro nello studio newyorkese della Kaikai Kiki Co. Ltd.

Fig. 17. Tomma Abts, Oke, 2013, acrilico e olio su tela, 48x38 cm, collezione privata.

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Fig. 18. Maurizio Cattelan, Lavorare è un brutto mestiere, 1993, manifesto, 270x580 cm, installazione, XLV Biennale di Venezia, sezione “Aperto ’93”.

Fig. 19. Maurizio Cattelan, Another fucking ready-made, 1996, opere imballate rubate da una mostra, dimensioni variabili, collezione privata.