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1 Cos’è la giustizia? Cominciamo da alcune caute osservazioni lessicali. Le parole «giusto» e «ingiusto» esprimono rispettivamente plauso e bia- simo. Si dice che una persona ha agito «giustamente», e in tal caso che la sua azione è degna di lode. L’ingiustizia, al contrario, è qualcosa che normalmente disapproviamo. Per quanto varie e distanti siano le opi- nioni degli esseri umani, a nessuno piace essere accusato di aver com- messo un’ingiustizia. Fin qui direi che siamo tutti d’accordo. La faccenda si complica, però, appena qualcuno ci chiede di spiegare cos’è la giustizia, o almeno di darne una definizione. La difficoltà cui andiamo incontro in questo caso apparentemente non dipende dal fatto che non siamo in condizio- ne di fare degli esempi di ingiustizia. Al contrario, l’esperienza passata e la cronaca mettono a disposizione di ciascuno un lungo catalogo cui attingere. L’eliminazione da una gara di un atleta sospettato di «doping» sulla base di rilievi poco affidabili, una truffa subita da un conoscente, il blocco di un’autostrada da parte di un gruppo di manifestanti o i termini di un accordo internazionale negoziato sotto la minaccia della violenza sono eventi in cui mi sembra di ravvisare i tratti dell’ingiusto. Ciò nonostante, per quanto salda sia la mia convinzione che in tutte queste circostanze è stata commessa un’ingiustizia, non riesco a tro- INTRODUZIONE di Mario Ricciardi

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Cos’è la giustizia? Cominciamo da alcune caute osservazioni lessicali.

Le parole «giusto» e «ingiusto» esprimono rispettivamente plauso e bia-

simo. Si dice che una persona ha agito «giustamente», e in tal caso che

la sua azione è degna di lode. L’ingiustizia, al contrario, è qualcosa che

normalmente disapproviamo. Per quanto varie e distanti siano le opi-

nioni degli esseri umani, a nessuno piace essere accusato di aver com-

messo un’ingiustizia.

Fin qui direi che siamo tutti d’accordo. La faccenda si complica,

però, appena qualcuno ci chiede di spiegare cos’è la giustizia, o almeno

di darne una definizione. La difficoltà cui andiamo incontro in questo

caso apparentemente non dipende dal fatto che non siamo in condizio-

ne di fare degli esempi di ingiustizia. Al contrario, l’esperienza passata

e la cronaca mettono a disposizione di ciascuno un lungo catalogo cui

attingere. L’eliminazione da una gara di un atleta sospettato di «doping»

sulla base di rilievi poco affidabili, una truffa subita da un conoscente,

il blocco di un’autostrada da parte di un gruppo di manifestanti o i

termini di un accordo internazionale negoziato sotto la minaccia della

violenza sono eventi in cui mi sembra di ravvisare i tratti dell’ingiusto.

Ciò nonostante, per quanto salda sia la mia convinzione che in tutte

queste circostanze è stata commessa un’ingiustizia, non riesco a tro-

introduzione

di Mario Ricciardi

L’ideale di giustiziaVIII

vare una formula che catturi adeguatamente le caratteristiche che tali

eventi hanno in comune. Inoltre, quando provo a spiegare a un amico

che sostiene la causa dei lavoratori in sciopero perché il blocco strada-

le mi sembra un metodo di lotta ingiusto, mi trovo in serie difficoltà.

Alcuni dei suoi argomenti mi colpiscono. Sono costretto ad ammette-

re che non riesco a confutarli senza una chiara idea di cosa sia la giu-

stizia, e sono consapevole che potrei trovarmi nella stessa situazione

anche discutendo gli altri casi di presunta ingiustizia con persone che

non sono della mia stessa opinione. Evidentemente passare in rassegna

le proprie intuizioni non è sufficiente.

Proviamo a prendere in considerazione un caso piuttosto semplice:

non mantenere le promesse. C’è un consenso diffuso sul fatto che una

persona che non tiene fede alla parola data commette un’ingiustizia nei

confronti del destinatario della promessa. La relativa uniformità delle

nostre reazioni di biasimo per chi non rispetta le promesse è resa evi-

dente da pratiche linguistiche consolidate come quella di scusarsi o di

offrire una giustificazione se non si rispetta la parola data. Ciò nono-

stante, credo che ci troveremmo in difficoltà se qualcuno ci chiedes-

se di spiegare perché è giusto mantenere le promesse. L’abitudine non

è una ragione sufficiente, altrimenti dovremmo ammettere che tutti i

modi di fare consolidati – per via di questa caratteristica – ci obbliga-

no alla conformità. Inoltre, cosa dovremmo fare se a essere ingiusta è la

pratica?

Torniamo al nostro immaginario interlocutore che vuole una spiega-

zione o una definizione. La richiesta è un invito a andare oltre le intui-

zioni per trovare un punto di partenza condiviso per discutere. Costui

non ci interroga sulle nostre impressioni, ma ci chiede: «cos’è giusto e

cosa ingiusto? In quali circostanze possiamo affermare, senza ombra di

dubbio, che una persona non ha agito giustamente?». Una risposta sbri-

gativa a queste domande potrebbe essere questa: «è ingiusto fare ciò

che non si deve fare». Tuttavia, non ci vuole molto per rendersi conto

che questa definizione non è accettabile perché non ci illumina affat-

to. Infatti, ci sono casi in cui diremmo che una persona ha il dove-

Introduzione IX

re di compiere un’azione – per esempio, perché c’è una legge che glie-

lo impone – eppure non sarebbe fuori luogo affermare che l’azione in

questione non è giusta.

Pensiamo al caso di un pubblico ufficiale che ha il dovere legale di

agire in un modo che offende la nostra sensibilità: eseguire lo sfratto

di una famiglia che sappiamo priva di mezzi di sostentamento. Tutti

abbiamo ben presenti casi del genere, e siamo consapevoli che nella

vita di ogni giorno non è affatto inconcepibile che l’adempimento di

un dovere imposto dalla legge comporti un’ingiustizia. Fare ciò che si

deve non è necessariamente giusto. O meglio, non possiamo accettare

che lo sia senza aver compreso cosa si intende per «dovere» nelle diverse

circostanze in cui impieghiamo la parola. D’altro canto, fare un passo

indietro spostando l’attenzione dall’azione alla regola non cambia radi-

calmente i termini del problema. Anche le critiche morali rivolte a una

regola sociale che impone di compiere un’azione ingiusta si formula-

no allo stesso modo, dicendo: «non è giusto». Lo stesso avviene per le

regole che permettono l’ingiustizia. Così, ad esempio, si afferma che è

ingiusta una legge che non stabilisca limiti stringenti per la carcerazio-

ne preventiva. Oppure che non è giusta una procedura di selezione per

un incarico pubblico che non tenga adeguatamente conto delle quali-

ficazioni o delle capacità dei partecipanti. Appare naturale conclude-

re che regole che permettono l’ingiustizia sono a loro volta ingiuste.

Ma in che senso sono ingiuste, se lo sono? Che differenza c’è, ammesso

che ce ne sia una, tra l’ingiustizia di un’azione e quella di una regola?

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Soffermiamoci ancora per un momento sul primo caso, quello del-

l’azione ingiusta. Di frequente «giusto» e «ingiusto» si usano, parlando

di azioni, come se giustizia e moralità fossero coestensive. Cioè come

se ogni azione immorale fosse anche ingiusta. In questo modo di pen-

sare c’è probabilmente l’eco di una tradizione che risale alla Grecia

L’ideale di giustizia�

antica. Verso l’inizio del libro V dell’Etica nicomachea, Aristotele ripor-

ta un detto, che attribuisce a Teognide, che esprime questa opinione:

«nella giustizia si riassume ogni virtù». Per questo, aggiunge Aristote-

le, essa viene considerata spesso la virtù «sovrana», ovvero quella che

desta maggiore ammirazione. Non è difficile spiegare l’origine di que-

sto modo di intendere la giustizia nel pensiero greco. Infatti, la parola

che i greci impiegavano per caratterizzare un’azione ingiusta è «adikon»,

che si può usare pure per dire che una cosa è sbagliata. Come accade

anche in alcune lingue moderne, ad esempio l’italiano e l’inglese, la

coppia composta da «adikon» e «dikaion» presenta un’ambiguità tra un

senso più specifico, corrispondente ai nostri «ingiusto» e «giusto», e uno

più ampio espresso dalla coppia «sbagliato» e «giusto». Come nei casi

di «giusto» e «sbagliato» e di «right» e «wrong» in inglese, le due paro-

le greche possono esprimere sia una generica conformità o difformità

rispetto a ciò che è stabilito da una regola, il modo appropriato di fare

una cosa secondo una convenzione sociale, sia una più specifica valu-

tazione che – soprattutto al nostro orecchio di moderni – assume natu-

ralmente una coloritura morale.

L’idea che la giustizia sia la virtù sovrana, che include tutte le altre,

trova alimento da questa ambiguità lessicale. Lo stesso Aristotele fini-

sce per accoglierla identificando la giustizia come conformità al dirit-

to positivo (i «nomoi») con la virtù morale in generale, sulla base della

considerazione che l’uno e l’altra hanno lo stesso scopo perché mirano

al bene comune dei membri di una società politica – sia essa retta da un

regime democratico o aristocratico – prescrivendo o proibendo le stes-

se cose. Ad esempio, sostiene il filosofo, il diritto prescrive di compiere

le azioni tipiche dell’uomo coraggioso, temperante o mite, e quindi ciò

che esso ci richiede di fare nelle diverse circostanze della vita è in armo-

nia con i requisiti da soddisfare nell’esercizio delle virtù.

Subito dopo aver proposto questo primo resoconto generale della

giustizia, Aristotele introduce però una qualificazione, che modifica

notevolmente le conseguenze cui sembrava arrivare il suo ragionamen-

to. Infatti, egli aggiunge che la giustizia è virtù completa perché chi la

Introduzione XI

possiede è capace di servirsi delle virtù anche nei confronti degli altri,

e non solo di sé stesso. Per capire cosa intende Aristotele, bisogna ricor-

dare che per i greci il possesso della virtù apporta beneficio alla persona

virtuosa. Molte virtù della tradizione classica – basti pensare alla tem-

peranza o al coraggio – sono disposizioni ad agire che migliorano la

vita di chi le possiede. La giustizia, dunque, sarebbe la virtù completa in

quanto è l’unica che, essendo rivolta al prossimo, è un bene anche per

gli altri e non solo per chi la possiede. Come si è detto, si tratta di una

qualificazione importante. A partire da questa osservazione di Aristote-

le, infatti, si afferma la tendenza a vedere nella giustizia una virtù squi-

sitamente sociale, che riguarda le interazioni tra le persone. Una perso-

na giusta sarebbe quindi quella che è in grado di avere l’atteggiamento

appropriato nei confronti degli altri, e che non agisce in modo virtuoso

solo a proprio vantaggio. Un compito difficile, commenta Aristotele.

Pur essendo tuttora largamente diffuso, il modo di concepire la giu-

stizia esemplificato da Aristotele corre il rischio di oscurare distinzioni

concettuali molto importanti. In primo luogo, come abbiamo già osser-

vato, e come lo stesso Aristotele ammette nella sua discussione della

giustizia in generale, non possiamo assumere affatto che ci sia sem-

pre coincidenza perfetta da tra ciò che ci impone una regola sociale (le

regole di diritto sono un tipo di regola sociale) e ciò che sarebbe moral-

mente giusto fare. Inoltre, anche se ci sono buone ragioni per ritene-

re che la giustizia abbia un ruolo prominente nella valutazione mora-

le dell’azione, un’analisi attenta dei nostri giudizi morali rivela che essa

è solo un aspetto della moralità. L’azione umana ha eccellenze o difet-

ti di vario tipo. Per esempio, se una persona agisce in modo da ferire i

sentimenti di qualcuno, diremmo che ha fatto qualcosa di indelicato,

cattivo o malvagio, forse che non ha adempiuto a un dovere, ma non

necessariamente che ha agito ingiustamente. Non è difficile immagi-

nare una situazione in cui una persona agisce giustamente – per esem-

pio ripagando un debito – ma in modo indelicato. Ciò non dipende dal

fatto che «ingiusto» manifesti una disapprovazione più o meno intensa

rispetto ad altre espressioni di biasimo, ma piuttosto dal senso speciale

L’ideale di giustizia�II

che il termine ha rispetto agli altri modi che abbiamo per formulare un

giudizio negativo sul comportamento di una persona. L’uso di «ingiu-

sto» sarebbe appropriato piuttosto nel caso di un genitore che punisca

un figlio in maniera più severa per una marachella cui hanno parteci-

pato egualmente anche gli altri figli. Oppure in quello di un genitore

che punisca uno dei figli senza preoccuparsi di accertare se sia effettiva-

mente colpevole. Se l’ingiustizia è un difetto dell’azione, non c’è dub-

bio che tale genitore ne è colpevole.

Ma di quale difetto stiamo parlando? Nel primo caso, il genitore

punisce i figli in modo diverso anche se essi sono egualmente responsabi-

li della stessa azione riprovevole. Nel secondo, invece, la punizione appa-

re ingiustificata perché arbitraria. Cosa hanno in comune questi due casi

che spieghi perché li consideriamo entrambi ingiustizie? Non è affatto

casuale che H.L.A. Hart, l’autore da cui abbiamo ripreso gli esempi che

stiamo discutendo, abbia scelto per illustrare l’ingiustizia due situazioni

che, anche se non la menzionano, evocano la figura di un giudice. Sia nel

primo sia nel secondo caso il genitore di cui stiamo parlando viene pre-

sentato come una persona che ha il diritto di punire i propri figli se fanno

qualcosa di male. In entrambe le situazioni si può dire che tale diritto è

stato usato in maniera impropria, che egli ne ha abusato. In cosa consi-

ste questo abuso? Se, per esempio, egli avesse punito nello stesso modo

tutti i figli egualmente responsabili della stessa marachella diremmo che

ha agito in modo giusto? Probabilmente sì, almeno nel senso minimo di

giustizia «come regolarità» per cui casi eguali previsti da una regola devo-

no essere trattati nello stesso modo. Sappiamo infatti che un giudice giu-

sto applica le regole in modo imparziale, senza fare distinzioni arbitra-

rie di trattamento tra persone che si trovano nella stessa situazione. Forse

anche il secondo genitore ha commesso un’ingiustizia in questo senso,

oppure in uno molto simile. Infatti, si potrebbe sostenere che punire una

persona che non si è macchiata di alcuna colpa è fare differenze arbitrarie

di trattamento. In questo caso, tra persone egualmente innocenti.

Sulla base della nostra sommaria ricognizione preliminare degli usi

linguistici di «giusto» e «ingiusto» si potrebbe assumere che l’esame di

Introduzione XIII

esempi come quelli proposti da Hart ci consenta di trovare un caso

paradigmatico da cui partire per spiegare cos’è la giustizia. L’ingiusti-

zia dell’azione sembra infatti la manifestazione più immediata – perché

più vicina all’esperienza quotidiana – di questo difetto da cui muove-

re per chiarire il concetto di «giustizia». Per affrontare questo proble-

ma, viene spontaneo chiedersi cosa hanno in comune tutti gli atti giu-

sti, e cosa li distingue da quelli ingiusti. C’è una proprietà, qualcosa

che tutte le manifestazioni di giustizia – o di ingiustizia – dell’azio-

ne hanno in comune? L’idea che la giustizia sia una virtù che ricono-

sciamo nel modo di agire delle persone suggerisce che c’è uno specifico

difetto caratteriale che si accompagna al vizio dell’ingiustizia. Per Ari-

stotele, che era di questa opinione, esso consiste in ciò che egli chiama

«pleonexia», che si potrebbe tradurre come «ingordigia», o «desiderio

di avere più degli altri». Tuttavia, che l’essere motivati da pleonexia nel

fare qualcosa sia un requisito necessario dell’ingiustizia è smentito dal-

l’obiezione sollevata da un filosofo contemporaneo, Bernard Williams,

che ha fatto notare che ciò che conta perché un’azione sia ingiusta non

sono le motivazioni che l’accompagnano. L’ingiustizia, infatti, si pre-

senta in compagnia di diversi atteggiamenti. Si può agire ingiustamen-

te per ingordigia o per il desiderio di avere più degli altri, ma anche per

superficialità o per invidia. Talvolta, un’ingiustizia può essere persino

involontaria, come può capitare quando una persona cagiona un danno

a un’altra senza averne l’intenzione. A questo punto, però, non è più

chiaro perché l’ingiustizia sarebbe un vizio, almeno nel senso in cui lo

sono la codardia o l’insincerità, che sono invece accompagnate necessa-

riamente da un atteggiamento mentale di un certo tipo.

Inoltre, ci sono situazioni in cui l’ingiustizia non è il risultato del-

l’azione di una persona che ha l’intento di far torto a qualcuno, ma

piuttosto la conseguenza di un certo assetto sociale. Ritorniamo al caso

dell’ingiustizia di una legge, cui abbiamo accennato. Credo che sarem-

mo tutti d’accordo che una legge è ingiusta se stabilisce differenze di

trattamento arbitrarie tra le persone. L’ingiustizia risultante dall’appli-

cazione pedissequa da parte di un giudice di una legge di questo tipo

L’ideale di giustizia�IV

non è il prodotto dell’intenzione colpevole del magistrato. Ingiusto, in

questo caso, è il modo in cui la legge distribuisce vantaggi e oneri tra le

persone. Questo esempio mostra che c’è un’asimmetria importante tra

un caso significativo di ingiustizia e le altre virtù. Ciò non vuol dire che

dobbiamo rigettare integralmente la ricostruzione aristotelica della giu-

stizia. Ci sono indubbiamente casi in cui una persona agisce in modo

ingiusto per una forma di ingordigia come quella di cui parla Aristo-

tele. Tuttavia, non possiamo partire da esempi del genere per spiega-

re cos’è la giustizia. Proprio in reazione al tipo di difficoltà che abbia-

mo appena menzionato, alcuni filosofi contemporanei hanno tentato

un approccio diverso alla chiarificazione del concetto di giustizia.

Per illustrare questo approccio alternativo può essere utile pensare

alla società in cui viviamo attraverso l’analogia con un gioco come il

calcio. Le persone che prendono parte al gioco competono per la vit-

toria, ma il gioco non sarebbe possibile se non ci fosse un certo livel-

lo di cooperazione tra i partecipanti. Non solo, come è evidente, per-

ché la divisione in due squadre comporta la cooperazione tra le persone

che appartengono a ciascuna delle compagini, ma anche perché non ci

sarebbe affatto una partita se tutti i giocatori non accettassero le regole

del gioco. La vittoria, e il piacere che ciascuno deriva dalla propria par-

tecipazione, dipendono sia dalla competizione sia dalla cooperazione.

Considerato come una pratica sociale, il gioco ha una struttura costitui-

ta da regole che attribuiscono poteri, ovvero che stabiliscono cosa può

fare ciascuno dei giocatori all’interno del gioco stesso, quali sono le

mosse che è autorizzato a compiere in quanto persona che ha un certo

ruolo nel gioco. Attraverso l’attribuzione di questi poteri normativi, le

regole distribuiscono libertà alle persone che partecipano al gioco. Uno

degli aspetti interessanti di questo modo di vedere la società è che esso

ci aiuta a cogliere l’importanza delle regole che attribuiscono poteri, e

quindi distribuiscono libertà, nel condizionare le possibilità di azione

dei giocatori. Le regole del calcio distribuiscono la libertà di toccare il

pallone con le mani in modo diverso tra chi partecipa al gioco, e questa

differenza è destinata ad avere un impatto sul controllo esercitato sul

Introduzione XV

pallone stesso da chi occupa ruoli diversi. Inoltre, e questo forse è un

aspetto ancora più interessante, pensare alla società attraverso l’analogia

con un gioco ci aiuta anche a vedere che certe cose che ci colpiscono

come ingiustizie non sono necessariamente il prodotto della volontà di

una persona di commettere un torto, e nemmeno sono inevitabilmen-

te la conseguenza dell’esecuzione di una regola che impone di compie-

re un’azione ingiusta, ma possono dipendere invece dal modo in cui

le regole che costituiscono diverse pratiche e istituzioni sociali distri-

buiscono la libertà tra le persone che a esse prendono parte. In casi del

genere, l’ingiustizia è un difetto delle pratiche o delle istituzioni non

di una persona o di una regola. Per questo Hart, uno dei filosofi con-

temporanei che hanno promosso questa svolta nel modo di affrontare

la chiarificazione del concetto di giustizia, ha scritto che essa è «la più

pubblica e la più giuridica delle virtù». La giustizia, infatti, ha un lega-

me intimo con la società intesa come un’attività cooperativa intrapresa

per il mutuo vantaggio da un gruppo di persone tra cui c’è sia identità

sia conflitto di interessi.

3

Partire dalle azioni individuali, così, non ci porta molto lontano nella

chiarificazione del concetto di giustizia. Una prospettiva più promet-

tente potrebbe essere invece quella che Hart suggerisce quando osser-

va che buona parte delle critiche che muoviamo a una legge impiegan-

do le espressioni «giusto» [just] e «ingiusto» [unjust] potrebbero essere

formulate anche usando «fair» e «unfair». Per Hart, anche la «fairness»

non è coestensiva con la moralità in generale. Tale nozione viene richia-

mata normalmente in due tipi di situazione. La prima, quando abbia-

mo a che fare non con la condotta individuale di una persona, ma con

il modo in cui classi di individui sono trattate nella distribuzione di

qualche onere o beneficio. In questi casi, ciò che è «fair» o «unfair» è

la quota che essi ricevono. La seconda, è quella in cui qualcuno subisce

L’ideale di giustizia�VI

un’ingiuria e c’è la richiesta di una compensazione o di una riparazio-

ne. La tesi di Hart è che in tutti questi casi le nostre valutazioni assu-

mono sullo sfondo il principio che le persone hanno titolo, l’una nei

confronti dell’altra, a certe posizioni relative di eguaglianza o di dise-

guaglianza. Una volta chiarito il contenuto e la portata di questo prin-

cipio latente sarebbe possibile spiegare le diverse applicazioni del con-

cetto di giustizia come derivazioni o estensioni a partire dai due tipi di

situazione che abbiamo menzionato.

Appare evidente che ciò che Hart ha in mente quando parla di una

legge come «unfair» è il modo in cui essa plasma la vita delle persone

cui si applica attraverso la distribuzione di vantaggi e svantaggi della

cooperazione sociale. Nel presentare la propria tesi, egli riprende la

distinzione di Aristotele tra due sensi in cui si potrebbe parlare di giu-

stizia particolare (vedi Fig. 1). Per il filosofo greco la giustizia partico-

lare ha a che vedere con l’eguaglianza («ison» è la parola greca che egli

impiega, che letteralmente significa eguale) e si divide in due specie.

In ciascuna delle due specie di giustizia particolare l’eguaglianza

assume tuttavia un senso diverso. Nella prima, si tratta di eguaglian-

za proporzionale al «merito» delle persone coinvolte. Nella seconda, di

un’eguaglianza stretta tra le parti di un’interazione. L’interpretazione

Giustizia distributiva

Si attua nella distribuzione di oneri, di denaro o di quant’altro si può ripartire tra coloro che partecipano nella costituzione (giacché di queste cose uno può avere una parte sia eguale sia diseguale a quella di un altro)

Giustizia correttiva

Apporta correzioni nelle interazioni tra i privati e si divide in due tipi, quella che riguarda le interazioni volontarie e quella che riguarda le interazioni non volontarie

Figura 1

Giustizia particolare

Introduzione XVII

di questo aspetto della discussione del concetto di giustizia da parte

di Aristotele ha suscitato controversie vivaci tra gli studiosi, di cui non

possiamo occuparci in questa sede. Ci limiteremo a sottolineare che la

concezione dell’eguaglianza di Aristotele rispecchia in parte il modo di

pensare di una cultura che non riconosce l’eguale valore delle persone

come la nostra.

Torniamo alla chiarificazione del concetto di giustizia proposta

da Hart. Applicando la distinzione di Aristotele al problema di cui si

occupa Hart potremmo dire che una legge può essere considerata «fair»

o «unfair» da ciascuno dei due punti di vista. Dal primo, perché essa

distribuisce in modo diseguale (in un senso che richiede ulteriore speci-

ficazione) oneri o benefici tra le persone che appartengono a un gruppo

o che partecipano a un’attività. Dal secondo, perché ammette squilibri

tra le parti di un’interazione.

Gli oneri e i benefici di cui si parla a proposito di giustizia distribu-

tiva possono essere di vario tipo. Dal lato attivo della bilancia andreb-

bero inclusi tra i benefici non solo reddito e ricchezza, ma anche le

diverse posizioni normative cui genericamente ci riferiamo impiegando

l’espressione «diritti». Così, ad esempio, una legge distribuisce il potere

di concludere contratti tra le persone attraverso la disciplina che rego-

la la capacità di agire e stabilisce requisiti di validità per il contratto in

generale oppure per i diversi tipi di contratto.

Veniamo ora al secondo tipo di giustizia particolare. Lo schema

nella pagina seguente (Fig. 2) riassume la distinzione di Aristotele ripor-

tando gli esempi che egli menziona.

Tale distinzione, ci consente di articolare in modo più perspicuo

due profili di rilevanza delle considerazioni di «fairness» nell’ambito

del diritto. Le due specie di rapporti che Aristotele individua corrispon-

dono in parte, infatti, alla classificazione delle fonti delle obbligazioni

nella tradizionale sistemazione del diritto civile. Da un lato, la mancan-

za di «fairness» può dipendere dal fatto che la legge non interviene per

correggere uno squilibrio che si determina all’interno di interazioni il

cui principio risiede nella volontà delle parti di creare un’obbligazione.

L’ideale di giustizia�VIII

Dall’altro, essa può dipendere dal fatto che la legge non interviene per

rimediare a uno squilibrio che si determina all’interno di interazioni

il cui principio è indipendente dalla volontà delle parti di obbligarsi, e

nasce invece come conseguenza di un torto. Nel primo caso la mancan-

za di «fairness» – e dunque l’ingiustizia della legge – si manifesta come

mancata correzione della diseguaglianza nello scambio. Nel secondo,

come mancata correzione della diseguaglianza causata da un torto. Dal

nostro punto di vista la classificazione di Aristotele appare controin-

tuitiva perché include tra i torti figure che noi oggi collocheremmo nel

diritto penale e non in quello civile. Tuttavia, questa è una conseguen-

za del modo in cui venivano classificati gli illeciti nel diritto greco del

suo tempo che non deve distoglierci dalla ragione giustificativa della

distinzione aristotelica che abbiamo esposto.

L’elemento comune che potrebbe spiegare la classificazione di tutti

questi casi come esempi di ingiustizia consiste nel fatto che essi sono

violazioni del diritto che ciascuno avrebbe all’astensione da certi com-

portamenti da parte di chiunque altro. Per Hart, tale struttura di diritti

Interazioni il cui principio è volontario

Esempi: vendita, acquisto, prestito,

cauzione, nolo, deposito, locazione

Figura 2

Giustizia correttiva

Interazioni il cui principio

è non volontario

Inganno

Esempi: furto,

adulterio,

avvelenamento,

lenocinio,

corruzione

di schiavi,

omicidio, falsa

testimonianza

Violenza

Esempi:

maltrattamenti,

sequestro,

omicidio, rapina,

mutilazione,

diffamazione,

oltraggio

Introduzione XIX

e obbligazioni reciproche costituirebbe la base, anche se non la totalità,

della moralità di ciascun gruppo sociale. La funzione di tale struttura è

creare tra le persone in questione un’eguaglianza artificiale, che neutra-

lizzi le ineguaglianze naturali. Se, infatti, la legge impedisce a una per-

sona più forte o scaltra di derubare un’altra persona meno fortunata, o

di venir meno a una promessa nei suoi confronti senza subire conse-

guenze, essa le pone sullo stesso piano.

Attraverso questa interpretazione della classificazione proposta da

Aristotele e degli esempi che la illustrano si nota l’influenza che la

Rechtslehre di Kant ha sul modo di concepire la giustizia correttiva pro-

posto da Hart. La dottrina del diritto di Kant riguarda relazioni nor-

mative tra persone per il rispetto delle quali è giustificabile l’uso della

forza. In una situazione in cui tali relazioni hanno la forma appropria-

ta viene preservata l’indipendenza delle persone, nel senso che nessu-

na sarebbe sottoposta all’arbitrio di un’altra. Emerge in questo modo

una concezione specificamente moderna della giustizia che la associa

all’ideale di eguale libertà.

Nel proporre la propria interpretazione del concetto di giustizia alla

luce di quello di «fairness» Hart si discosta significativamente dal modo

di pensare di Aristotele. L’idea di «fairness» richiama infatti nozioni

come quelle di «correttezza», «onestà» o «imparzialità» da parte di per-

sone che sono coinvolte in un’attività comune per il muto vantaggio.

Come nei giochi – quando si evoca il «fair play» – competizione e coo-

perazione sono le due facce di questo tipo di attività. Si compete per

realizzare i propri scopi, ma senza cooperazione i benefici che dipen-

dono dall’esistenza del gioco stesso, la possibilità di vincere, sarebbero

irrealizzabili.

Vale la pena di sottolineare che nel pensiero giuridico le nozioni di

giustizia distributiva e correttiva non sono considerate tradizionalmen-

te come mutuamente esclusive. Può accadere, infatti, che considerazio-

ni ispirate dalla prima vengano richiamate per giustificare una modifica

nel modo di operare della seconda. Ciò potrebbe avvenire, ad esempio,

quando la legislazione introduce un regime di «responsabilità oggetti-

L’ideale di giustizia��

va» per distribuire i costi di un’attività in modo diverso rispetto a quel-

lo che risulterebbe attenendosi al principio retributivo. Nella prospet-

tiva delineata da Hart questa possibile complementarietà di giustizia

distributiva e correttiva viene sostanzialmente ripresa senza ulteriori

articolazioni. Per comprendere in che modo i due aspetti della giusti-

zia potrebbero essere legati attraverso principi comuni c’è bisogno di

una vera e propria teoria normativa della giustizia. Pur avendo posto

le premesse concettuali per la costruzione di una teoria di questo tipo,

Hart non ne ha mai proposta una. Le sue osservazioni sulla «fairness»

rimangono al livello di una chiarificazione preliminare delle nostre

intuizioni.

4

La caratterizzazione sommaria che abbiamo dato prima dell’ingiustizia

di una legge dicendo che essa stabilisce una differenza arbitraria di trat-

tamento tra classi di individui è troppo vaga per essere impiegata per

formulare un giudizio nella vita quotidiana. Cosa rende un diverso trat-

tamento arbitrario? Presumibilmente il fatto che sia irragionevole, cioè

che non è possibile darne una spiegazione accettabile. In primo luogo,

si potrebbe aggiungere, da parte di chi è svantaggiato da questa diffe-

renza di trattamento. Per capire di cosa stiamo parlando, basta pensare

a un intervento legislativo – di carattere costituzionale o meno, non è

importante da questo punto di vista – il cui scopo è mettere una perso-

na al riparo dagli effetti negativi che avrebbe un’eventuale condanna in

uno dei procedimenti penali che la riguardano. La questione di fondo,

quella cui risulta arduo dare una spiegazione davvero convincente, è

perché un provvedimento del genere sarebbe accettabile da chi si trova

in una posizione diversa rispetto al beneficiario della legge.

L’esempio che abbiamo appena proposto mostra che c’è un legame

tra giustizia e imparzialità. Le questioni di giustizia sociale richiedono,

per essere affrontate in modo soddisfacente dal punto di vista mora-

Introduzione XXI

le, uno sforzo per avvicinarsi a una prospettiva imparziale. Per com-

prendere le difficoltà che la realizzazione di questo obiettivo compor-

ta può essere utile fare un piccolo esperimento mentale. Proviamo a

immaginare un gruppo di persone che sanno di dover cooperare per

la realizzazione di uno scopo che è nell’interesse di ciascuno. Per svol-

gere tale attività, è tuttavia necessario mettersi d’accordo per stabilire

come distribuire sia i benefici che deriveranno dalla realizzazione dello

scopo, sia gli oneri che è necessario assumere per realizzarlo. Bisogna,

in altre parole, scegliere principi che specifichino termini «equi» (que-

sta è l’espressione normalmente impiegata per tradurre «fair» in italia-

no) della cooperazione sociale. A questo punto, normalmente, comin-

ciano i problemi. Infatti, le parti avranno interessi e priorità diverse.

Ci saranno differenze di età, di capacità personali, di risorse economi-

che che sono destinate inevitabilmente a esercitare un’influenza sui ter-

mini che ciascuno dei partecipanti è disposto ad accettare. Chi si trova

in una pozione di forza sarà meno incline ad assumersi gli stessi oneri

degli altri. Chi, invece, è più vulnerabile, sarà probabilmente più pro-

penso a assumere maggiori oneri pur di poter partecipare alla distribu-

zione dei benefici.

Ciò che abbiamo appena illustrato – ovviamente semplificandolo al

massimo – è un tipico problema di scelta collettiva. Analogo a quel-

lo che si pone Thomas Hobbes nella sua spiegazione della razionali-

tà di un’obbligazione politica basata sull’adesione a un contratto socia-

le. Solo che, a differenza di Hobbes, abbiamo presentato il problema di

scelta assumendo che le persone che partecipano al contratto che stabi-

lisce termini della cooperazione sociale non sono affatto in una situa-

zione di sostanziale eguaglianza dipendente dalla mutua minaccia di

aggressione. Inoltre, assumiamo che le parti abbiano una predisposizio-

ne a cooperare per il vantaggio comune, ma che non siano illimitata-

mente altruiste. Un’ipotesi che, come è evidente, è piuttosto realistica.

Date forti diseguaglianze tra le parti – ad esempio, di potere o di risorse

economiche a disposizione – i termini finali dall’accordo saranno pro-

babilmente niente affatto ragionevoli.

L’ideale di giustizia��II

Per questo John Rawls, il filosofo che più di ogni altro ha contribui-

to a plasmare la discussione sulla giustizia negli ultimi anni, ha rielabora-

to il tipo di esperimento mentale che abbiamo menzionato in modo da

neutralizzare la parzialità delle persone che partecipano alla trattativa sui

principi, per far emergere le caratteristiche che dovrebbe avere un accor-

do ragionevole per svolgere un’attività comune nel mutuo vantaggio.

L’espediente proposto da Rawls è di immaginare quali sarebbero i termi-

ni su cui si accorderebbero parti che scelgono «sotto un velo d’ignoran-

za», ovvero prive di qualsiasi informazione relativa alla situazione in cui

si troveranno una volta che l’accordo è stato concluso. L’ignoranza – que-

sta è l’intuizione su cui fa leva l’argomento di Rawls – favorisce l’impar-

zialità. Come è ovvio, il filosofo statunitense non pensa che un accordo

del genere sia una possibilità reale. L’ipotesi di una scelta in condizioni

di ignoranza serve solo per aiutarci a rappresentare quali caratteristiche

dovrebbe avere una distribuzione di oneri e benefici tra persone che svol-

gono un’attività in comune nel mutuo vantaggio per essere ragionevole.

L’argomento dalla posizione originaria, la situazione di scelta inizia-

le in condizione di ignoranza in cui si trovano le parti, viene adope-

rata da Rawls come un’immagine che illustra la sua concezione della

giustizia sociale: la giustizia come fairness. Come suggerisce il nome –

che rimanda immediatamente all’idea di un’attività cooperativa retta

da regole per il muto vantaggio cui prendono parte persone che hanno

interessi parzialmente conflittuali cui alludeva anche Hart – si tratta

di un’interpretazione del concetto di giustizia che lo spiega attraverso

la nozione di «fairness» ovvero «equità». Non una definizione, ma una

chiarificazione filosofica che parte da certe intuizioni largamente con-

divise su cosa è la giustizia e tenta di metterle a fuoco in modo da arti-

colarle in una teoria. La posizione di scelta originaria, come spiega lo

stesso Rawls, è un artificio espositivo che dovrebbe aiutarci a formar-

ci una rappresentazione delle condizioni di un accordo ragionevole su

principi di cooperazione. Presentata in una serie di articoli pubblicati a

partire dagli anni cinquanta, la teoria di Rawls ha trovato la sua esposi-

zione compiuta in A Theory of Justice, un libro del 1971.

Introduzione XXIII

Tra gli aspetti più significativi dell’approccio adottato da Rawls nei

suoi scritti c’è il contributo che esso riesce a dare alla chiarificazione

della differenza che c’è, dal punto di vista morale, tra cooperazione

sociale e coordinazione efficiente. A differenza di Hart, il filosofo sta-

tunitense tiene conto dei risultati più avanzati raggiunti dalle scienze

sociali, e in particolare dall’economia, nella seconda metà del novecen-

to. Teoria della scelta razionale, teoria dei giochi, economia del Welfa-

re, interagiscono negli scritti di Rawls con le principali tesi della filoso-

fia morale e politica moderne in un modo che ha cambiato il modo di

concepire queste discipline.

Dopo la pubblicazione del libro del 1971, questo riservato professore

di Harvard si è affermato come l’autore di riferimento della discussio-

ne accademica sui grandi temi dell’etica pubblica. Al punto che c’è chi

ha osservato che, dopo A Theory of Justice, c’è stata una vera e propria

«rinascita» della filosofia politica, che è tornata ad avere il ruolo centra-

le che le apparteneva nella tradizione occidentale sin dai tempi di Plato-

ne e Aristotele. In effetti, oggi è difficile discutere di libertà e eguaglian-

za, democrazia e costituzione, senza usare il lessico di Rawls. Anche se

soltanto per criticarlo, il suo nome appare in decine di migliaia di pub-

blicazioni accademiche e le sue idee hanno avuto un’influenza straor-

dinaria ben oltre i confini della filosofia. Del resto l’oggetto del libro

del 1971 era niente meno che una teoria della giustizia per le istitu-

zioni che appartengono alla «struttura di base della società». Tale teo-

ria si articolava attraverso due principi che sono una ragionevole inter-

pretazione delle due idee principali della tradizione liberale: la libertà e

l’eguaglianza. Nella loro formulazione iniziale tali principi stabiliscono

genericamente che (i) ogni persona deve avere un eguale diritto alla più

estesa libertà di base compatibile con una simile libertà per le altre; e

che (ii) le ineguaglianze economiche e sociali devono essere configurate

in modo che esse siano (a) ragionevolmente prevedibili come a vantag-

gio di ciascuno e (b) legate a posizioni e offici aperti a tutti. Una parte

significativa del libro è dedicata alla specificazione di tali principi e alla

discussione delle loro conseguenze per le istituzioni che appartengono

alla struttura di base della società.

L’ideale di giustizia��IV

Nonostante lo straordinario successo di A Theory of Justice, Rawls ha

continuato a rivederne i contenuti e a riflettere sulle premesse e sulle

conseguenze degli argomenti che essa conteneva. A partire dalla secon-

da metà degli anni settanta, questo paziente lavoro di revisione, appro-

fondimento e ampliamento della sua teoria della giustizia ha trovato

espressione in diversi saggi e in alcuni volumi. Tra questi, bisogna ricor-

dare almeno Political Liberalism (1993), The Law of Peoples (1999) e Justi-

ce as Fairness. A Restatement (2001). L’ultimo sembrava destinato a rima-

nere l’ultima parola di Rawls sulla filosofia politica perché, pochi mesi

dopo la sua pubblicazione, l’autore si spegneva dopo una lunga malat-

tia. Invece, anche lo scrittoio di John Rawls, come quelli di altri filosofi

contemporanei, custodiva diversi materiali potenzialmente pubblicabili.

La pubblicazione degli inediti di un autore influente – si pensi a

Wittgenstein o a Heidegger – è divenuta ormai una prassi cui è diffi-

cile resistere per eredi e curatori del lascito letterario. Solo in questo

modo, sostiene chi è a favore di questa tendenza, è possibile risponde-

re alle richieste pressanti della comunità accademica che desidera avere

a disposizione tutto ciò che può aiutare a comprendere meglio le opere

dell’autore in questione o a illuminarne la genesi. Dall’altro lato, c’è chi

pensa che in molti casi sarebbe meglio lasciare gli inediti nello scrittoio

perché non aggiungono nulla di significativo e, talvolta, finiscono per

mettere in circolazione testi di qualità diseguale che possono perfino

danneggiare la reputazione di chi li ha scritti.

Per fortuna, nel caso di Rawls, la pubblicazione degli inediti sta

avvenendo con parsimonia, seguendo rigorosamente le indicazioni

del filosofo, che in alcuni casi ha specificamente predisposto il testo di

scritti che non erano in origine destinati alla diffusione o approvato il

lavoro fatto dai curatori. Ciò era avvenuto per le Lectures on the History

of Moral Philosophy (2000), di cui Rawls ha fatto in tempo a vedere la

pubblicazione, e di recente per le Lectures on the History of Political Philo-

sophy (2007), uscite dopo la sua morte. In entrambi i casi si tratta della

collazione e revisione di versioni dei testi delle lezioni tenute a Harvard

a partire dalla metà degli anni sessanta.

Introduzione XXV

Le prime aiutano a collocare il pensiero di Rawls nel panorama della

filosofia morale moderna, in particolare spiegandone il complesso rap-

porto con quella di Kant. Le seconde sono essenziali per comprendere

la filosofia politica di Rawls perché consentono di ricostruire lo sfondo

teoretico da cui emerge la teoria della giustizia del filosofo. Si tratta di

una sorta di «panorama intellettuale» ragionato che include i classici del

contrattualismo (Hobbes, Locke e Rousseau) e uno dei suoi critici più

severi (Hume). Inoltre, Rawls discute le idee politiche di Mill, Marx e

Sidgwick, ampliando lo sguardo oltre le teorie del contratto sociale fino

a delineare una sorta di genealogia concettuale del liberalismo e del suo

principale antagonista per oltre un secolo di storia europea e occidenta-

le, il socialismo. Proprio nel pensiero socialista si trova infatti la denun-

cia più veemente delle ingiustizie che dipendono dagli assetti sociali

che una teoria normativa della giustizia avrebbe il compito di prevenire

e correggere. L’interesse di queste lezioni per gli studiosi non è solo di

carattere storico. L’introduzione al volume contiene anche una presen-

tazione delle idee di Rawls su oggetto e metodo della filosofia politica e

alcuni commenti sulla natura della sua teoria della giustizia.

5

Lo scopo di questa antologia è aiutare il lettore ad acquisire familiarità

con il dibattito sulla giustizia sociale che ruota intorno alle tesi di John

Rawls, attraverso la lettura di alcuni articoli che sono ormai considera-

ti veri e propri «classici».

Si comincia con Are There Any Natural Rights? (1955) di H.L.A. Hart,

un saggio che anticipa alcuni aspetti della chiarificazione del concetto

di giustizia che abbiamo esposto nelle pagine precedenti, che il filosofo

britannico ha proposto nella sua opera più importante, The Concept of

Law (1961). L’articolo di Hart prefigura alcune delle idee più importan-

ti della teoria della giustizia come equità (justice as fairness) che Rawls

avrebbe sviluppato.

L’ideale di giustizia��VI

Poi c’è Justice as Reciprocity (1971), un saggio che Rawls aveva prepa-

rato per l’insegnamento, inedito in italiano. Si tratta di un lavoro che

si presta, proprio per lo scopo per cui era stato redatto dall’autore, e

per lo stile informale dell’esposizione, a fare da introduzione alla for-

mulazione matura delle idee di Rawls. In questo saggio, in particolare,

emerge l’importanza della nozione di reciprocità per spiegare il caratte-

re che avrebbe un accordo su principi di cooperazione equi. Si chiari-

sce anche il rapporto tra giustizia distributiva e correttiva che nel pen-

siero di Hart rimaneva in qualche misura indeterminato. Nel pensiero

di Rawls la prima stabilisce i termini equi della cooperazione sociale e

quindi assume un ruolo fondamentale per individuare il punto di par-

tenza da cui giudicare la giustizia delle interazioni di cui si occupa nello

schema classico, ripreso da Hart, la giustizia correttiva.

Seguono alcuni tra i contributi più rappresentativi alla discussione

sulla teoria di Rawls. In Justice and Rights (1973) Ronald Dworkin discu-

te il metodo di Rawls e i fondamenti della sua teoria della giustizia, sof-

fermandosi in modo particolare sulla concezione dell’eguaglianza che

essa presuppone. In Distributive Justice (1973) di Robert Nozick trovia-

mo invece l’attacco più vigoroso alla concezione della giustizia propo-

sta da Rawls e la presentazione di una prospettiva alternativa basata sui

diritti naturali delle persone. Al libertarismo di Nozick, e alla sua difesa

del libero mercato, si contrappone la critica socialista di G.A. Cohen in

Robert Nozick and Wilt Chamberlain: How Patterns Preserve Liberty (1977).

L’antologia si conclude con la versione rivista di Social Justice (1987) di

Tony Honoré, che discute alcuni dei problemi emersi nei saggi prece-

denti, prendendo in considerazione le conseguenze pratiche dell’appli-

cazione di diverse concezioni della giustizia sociale all’interno di una

società. Al termine del volume c’è un’ampia sezione di letture ulteriori

che funge da guida elementare alla sterminata discussione sulla giusti-

zia, prima e dopo Rawls.