INTERCITY(590.(AVVENTURE(TRAGICOMICHE(DIUN(PENDOLARE( · Pendolante.wordpress.com!! 4!...
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INTERCITY 590. AVVENTURE TRAGICOMICHE DI UN PENDOLARE di Francesco Epico Pubblicato a puntate su Il Manifesto fino all’11 settembre 2011
Chi è Francesco Epico
52 anni, napoletano ma da 35 anni vive in Toscana.
Ha una compagna al sud e per questo, tutti i weekend, è costretto a prendere l'Intercity 590. Si occupa di impianti fotovoltaici e case ecologiche.
Nel passato ha creato e gestito una radio locale e un giornale che si occupava di antiquariato, curando alcune rubriche di attualità. Scrivere è la sua grande passione. Le cose che scriverà saranno sempre guidate dall’amore che ha per il sud. E' un attento osservatore della realtà e dei comportamenti umani. L’Intercity 590 è una delle sue fortunate fonti di ispirazione.
Prologo
A vederlo sembrerebbe un treno normale, uno di quegli Intercity fatiscenti e stanchi che arrancano su e giù per la penisola. A salirci non ci si rende conto di quello che si sta facendo. A pensarci sembra impossibile che migliaia di persone affidino, per alcune ore, il proprio destino a quella successione di vagoni sgangherati.
Stiamo parlando dell’Intercity 590, il mitico IC 590, che il sottoscritto prende tutte le settimane, da tre anni in qua, con la regolarità di una compressa per la pressione. Questo treno contribuirà, senza alcun dubbio, a scrivere la Storia di Trenitalia.
Tutte le mattine il convoglio parte da Napoli Centrale alle ore 10,17 e raggiunge Milano, prima o poi. Sul fatto che parta non vi è alcun dubbio, come sul fatto che arrivi. Sull’orario di partenza, però, è doveroso aprire un paio di parentesi e fare alcune riflessioni. Sul tabellone delle partenze c’è scritto “ore 10.17”, così come sul biglietto con prenotazione intercity che stringi gelosamente tra le mani. L’Intercity entra in stazione acquattato sui binari come un gatto selvaggio pronto ad avventarsi sulla preda. Centinaia di persone si affollano sui binari spintonandosi, nel disperato tentativo di salire per prime. Il treno sferragliando si ferma ed apre le porte ai passeggeri e alle loro speranze residue. Ricordo che le prime volte guardavo l’orologio e mi domandavo come avrebbe fatto a salire tutta quella calca, visto che all’orario di partenza mancavano si e no quattro minuti. Con il tempo e con l’esperienza ho capito che le 10.17 sono soltanto l’inizio dell’appuntamento. E’ come dire che da quel momento in poi ogni istante è buono per partire, basta non avere fretta. In tre anni, a dire il vero, una decina di volte siamo riusciti a partire in orario e la gente ci ha pure preso qualche ambo e un paio di terni.
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L’Intercity 590 sarebbe un treno da inserire come materia di studio alla facoltà di sociologia poiché in esso si consuma uno dei più affascinanti contrasti dell’esistenza: il conflitto tra la dinamica e la statica. Mentre il treno solca, infatti, le campagne assolate lanciando fischi laceranti contro il cielo, al suo interno si fermano attimi di vita di persone che, in fondo, chiedono solo di raggiungere le proprie destinazioni. E’ noto come nei momenti di difficoltà la gente chieda aiuto, cerchi una parola di conforto, uno scoglio a cui aggrapparsi e trovi un effimero sollievo nel mal comune. Siccome nell’Intercity 590 di momenti di difficoltà ce ne sono in quantità industriale, ecco che la gente si compatta e socializza, dando vita a situazioni teatrali che nemmeno i registi più fantasiosi sarebbero capaci di mettere in scena. Spontaneamente e come i funghi nel bosco, sorgono momenti melodrammatici, spunti di satira amara, occasioni in cui è difficile separare il grottesco dalla realtà. La gente dell’Intercity 590 è gente semplice, che viaggia per lavoro, per sapere, per amore, per dolore. E’ la gente che deve fare ritorno in quel nord che non l’ha mai completamente accettata e che si lascia alle spalle il profumo del suo pane e della sua terra. E’ la gente che non può permettersi il biglietto pazzesco della Freccia Rossa, quel treno moderno a forma di supposta che è sempre odoroso e quasi sempre in orario. La gente che soffre sull’Intercity 590 è gente vera, genuina, gente alla quale viene chiesto di lasciare a terra la dignità e il sogno, la fantasia e l’illusione.
“ Eddai che la vita è un gioco!” disse il capotreno ad un uomo che sedeva di fronte a me e che chiedeva solamente il motivo dei 120 minuti di ritardo. Sarà stato il caldo, sarà stata la frittata con le cipolle della sera prima, ma l’uscita del capotreno filosofo non piacque proprio a nessuno, nel mio scompartimento. Mentre riprendevo a sfogliare il giornale sgualcito e stanco, potei udire le parole del viaggiatore che, rassegnato, mormorò tra i denti:
“La vita è un gioco, ma noi non paghiamo con i soldi del Monopoli!”.
1 - Scusate per il disagio
Guardai l’ora e mi accorsi che mancavano ancora una quarantina di minuti alla partenza dell’Intercity 590. Avevo tutto il tempo di prendere un caffè e fare un salto alla libreria della stazione per comprarmi qualcosa da leggere. Dovevo armarmi di pazienza e buone letture poiché mi aspettavano otto ore di viaggio teoriche, ma nove, nove e mezza reali calcolando il solito ritardo che oramai era diventato una comica realtà.
Oltre al caffè, che sanno fare solo in questa città, mangiai anche una sfogliatella calda per imprigionare sul palato e nelle viscere dell’anima il profumo di Napoli, cercando di farmelo durare il più a lungo possibile. Mi avvicinai al tabellone delle partenze per vedere se era segnalato ritardo e il numero del binario. Erano le 10,10 ed il treno non era dato in ritardo, ma il binario non era ancora indicato. Un paio di centinaia di persone stazionavano nervose e indispettite sotto al tabellone luminoso e scaldavano i motori e le valigie come tanti piloti di Formula Uno. Possibile che a sette minuti dalla partenza ufficiale, del convoglio ferroviario proveniente da Salerno non ci fosse ancora uno schifo di traccia? Possibile che non avevano deciso neanche da quale binario farlo partire? Immaginai un consulto frenetico nell’ufficio del capostazione, voci alterate di due o tre operatori che discutevano dell’idoneità di un binario piuttosto che un altro, l’annunciatrice impaziente di fare il suo show agli altoparlanti a reti unificate mentre si dava un’ultima ritoccata al ciuffo meshato, il capostazione spazientito che alla fine decretava solenne “ ok, va bene il binario 11, ma io me ne lavo le mani!”.
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Finalmente ci fu la fumata bianca e il tabellone segnalò il numero 11. Un boato si levò nell’aria disperdendo l’eco nei meandri della stazione, qualcuno pianse dalla commozione. Ci fu uno scatto poderoso e simultaneo della folla verso la testa del binario, con ingorgo e incidenti già alla prima curva. Decisi di non correre poiché avevo carrozza e posto prenotato e mi incamminai in coda a quella sorta di transumanza biblica. Fu in quel momento che mi imbattei per la prima volta in un fenomeno paranormale che mi fece saltare per aria e ma al quale mi sarei presto abituato: avevano chiuso l’accesso al binario 11, proprio quello dal quale tra sei minuti sarebbe dovuto partire l’Intercity 590. Avevano ostruito il passaggio con delle transenne da stadio! Ohibò, pensai, il treno deve partire e questi chiudono l’accesso? La folla rumoreggiava ed aumentava paurosamente mettendo in pericolo l’incolumità fisica delle persone, mentre quella psicologica ce la eravamo giocata da un pezzo. Mi guardai intorno nella certezza che da qualche parte avrei scovato le telecamere di “Scherzi a parte” e che sarebbe stata l’occasione buona per vedere da vicino qualche attore. Niente macchine da presa e niente divi, ma scene tragiche e comiche a volontà. Proseguii e a un certo punto notai che le transenne erano presidiate da giovanottoni con corpetto Trenitalia che, piantati a gambe divaricate e disseminati lungo le transenne, volevano vedere i biglietti dei viaggiatori. Immaginate il caos e il panico generato da quell’imbuto forzato e, ve lo giuro, creato dall’intelligenza umana. Vaglielo a spiegare ai giapponesi che da noi così si fa (solo sull’Intercity 590), fai capire alla nonna con i tre nipotini che se vuol passare deve cercare i biglietti e speriamo che non li abbia messi in fondo al borsone con le merendine e l’acqua minerale, cerca di tranquillizzare la folla spaesata che non c’è nessuna fretta e che, anche se ormai le 10,17 sono passate da diversi minuti, il treno non partirà fino a quando anche l’ultimo viaggiatore non sarà salito a bordo.
Non mi capacitavo del perché di tale procedura che si ripete tutt’oggi e un giorno, per farmelo spiegare, ho usato uno stratagemma che vi racconterò prossimamente, magari corredando il tutto con un paio di foto. D’altra parte domandare spiegazioni a quei signori che controllano i biglietti con una calma olimpica e che sono un mix tra Rambo e Cassius Clay, può diventare esercizio inutile e pericoloso.
Tutti riuscimmo a salire in un pigia pigia generale e in una confusione che la Torre di Babele era un collegio svizzero, a confronto. Dopo che finalmente furono scesi gli accompagnatori e gli aiutanti degli accompagnatori, dopo che furono saliti anche i venditori di giornali, di calzini, di saponette e della mitica scarpetta di Cavani, i venditori di panini incartati nella pellicola trasparente e delle lattine di Coca affogate nel ghiaccio, qualche ragazzotto in cerca di un portafogli che sporgesse generosamente dalle tasche di un jeans, fra persone che già avevano preso a salutare con la mano ed i parenti a terra che ripetevano in lacrime miraccomamdamammà, telefonappenarrivi e guardadinonpigliàilraffreddore, ecco che il treno lentamente si muove: forse siamo partiti.
Sfiliamo davanti ai grattacieli del Centro Direzionale che pure loro ci guardano schifati e il caos di voci e grida che saturavano un ambiente già saturo di suo, viene placato per un attimo dall’altoparlante del treno che, irriverente, annuncia:
“Buongiorno, sono il capotreno dell’Intercity 590. Vi do il benvenuto a bordo e vi annuncio che il treno ha lasciato la stazione di Napoli con quarantuno minuti di ritardo. Scusate per il disagio.”
Ma a questi qua gli annunci glieli scrivono o se li inventano da soli?
2 - Basterebbe poco
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Carrozza 7 e posto 62, lato corridoio. Ogni pendolare sviluppa nel tempo una serie di accorgimenti che in qualche modo potrebbero agevolargli il viaggio. Non so se ciò sia vero, ma aiuta a vivere. E’ come se un reparto del cervello diventasse autonomo e girasse con moto proprio indipendentemente da tutte le altre stanze, correndo su binari immaginari, notte e giorno. Solo chi vive sui treni, sui treni italici, può sapere che lo stridìo di ferraglia ti accompagna fino a quando vai a dormire, che quel rumore sincopato ti da la buonanotte e ti promette che sarà lì ad aspettarti appena riaprirai gli occhi l’indomani mattina. Ho saputo che a qualche pendolare particolarmente esaurito, la puzza dei freni racconta anche le fiabe prima di dormire. E’ una sensazione bellissima e non ci si sente mai soli.
Io cerco di prendere sempre il posto lato corridoio in modo da poter stendere le gambe, alzarmi per andare al bagno senza scalciare la gente che dorme, gestire l’apertura e la chiusura della porta dello scompartimento e le luci, e avere la sensazione di stare al margine, un po’ più defilato dal cuore del problema.
Prendo il giornale dalla borsa ed inforco gli occhiali. Ma quanto leggono i pendolari! Il convoglio finalmente parte e scatta puntuale l’annuncio del capotreno che ripete la formuletta canonica col fare stanco del notaio che legge l’atto o del prete col Vangelo. Ci annuncia che è lieto di averci a bordo (bugiardo!), ci augura buon viaggio (ottimista!), ci rende edotti dei minuti di ritardo (ripetitivo!), elenca le fermate che il treno effettuerà e prega di spegnere i telefoni cellulari per non disturbare gli altri viaggiatori ( ahahaha!). Poi ripete il tutto in una lingua che assomiglia un po’ all’inglese e riattacca.
Accanto al finestrino, una di fronte all’altra, sono sedute una mamma dai lineamenti dolci e una bambina col viso incorniciato da boccoli d’oro. Sono letteralmente attratto da quel cantico, da quella sorta di visione mistica, sembrano la Madonna col Bambino del Botticelli. Che ci faranno mai due icone sacre sull’Intercity 590? Mi perdo in questo pensiero dolce e stupido e un velo di malinconia si avviluppa intorno ai miei neuroni che, improvvisamente, hanno voglia di piangere. Distolgo lo sguardo e vedo di fronte a me un uomo che non avevo notato, forse perché prima si era mescolato e nascosto, diventando materia nel marasma della partenza. Come per miracolo era apparso a mezzo metro da me un povero Cristo che già era sprofondato in un sonno intimo. Aveva la barba trascurata di un paio di giorni e i capelli arruffati di chi si è alzato dal letto e non si è nemmeno pettinato. Stringeva sulle ginocchia una borsa nera nella quale, probabilmente, c’era il pranzo di quella giornata. Era un pendolare che si recava a Roma per lavoro e di questo ero certo poiché lo avevo notato già molte altre volte.
Stiracchiai le gambe stando attento a non svegliarlo e cercai di concentrarmi sulla lettura. Ma il mio cervello quella mattina non ce la faceva proprio ad andare in folle: aveva voglia delle marce basse, quelle che ringhiano e ti grattano le pareti della coscienza. Pensai che l’essere umano non sceglierebbe mai di fare il pendolare ed ho buoni motivi per credere che non si tratti nemmeno di una condizione ereditaria. Si diventa pendolari per caso, da un giorno all’altro, senza che nemmeno te ne rendi conto. Si diventa pendolari perché spesso non si può scegliere il lavoro, ma si è scelti da esso, quando c’è. Il pendolarismo unisce le persone nella sofferenza e nel sacrificio e le rende tutte perfettamente uguali nello stile di vita, sia che esse viaggino in giacca, cravatta e valigetta ventiquattrore, sia che indossino i panni modesti dell’operaio, ordinati dell’impiegato o casuali dello studente. In prossimità delle stazioni di arrivo li vedi ammassarsi alle porte perché hanno sempre una coincidenza da prendere in corsa, o un autobus, o una metropolitana che non ha voglia di aspettarli. I viaggiatori abituali hanno sempre i minuti contati, i soldi contati e, continuando ad andare avanti accumulando ogni tipo di stress, gli anni contati.
Eppure non ci vorrebbe tanto a rendere la vita di questa gente solo un po’ più tollerabile. Il pendolare non pretende mica il bagno con la doccia idromassaggio, basterebbe rendere agibili e dignitosi quelli che ci sono. Mica chiede la puntualità svizzera, ma che il ritardo si verificasse
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almeno una volta si e una volta no. Ai pendolari dei treni italiani basterebbe che d’estate funzionasse l’aria condizionata e d’inverno il riscaldamento, perché fare il contrario è da sadici. I pendolari avrebbero piacere che, ogni tanto, si usassero quei prodotti contro zecche e batteri che non costano molto e sono abbastanza efficaci. I pendolari vorrebbero che Trenitalia si ricordasse che essi, con i loro abbonamenti super salati, costituiscono lo zoccolo duro, la base di introiti fissi tanto cara alle aziende. Con questo non è che si aspettino il pacco natalizio e il biglietto d’auguri, ma almeno che la piantassero con quegli annunci in cui si chiede continuamente scusa per il disagio. E’ urticante!
Basta, basta. Voglio leggere adesso!
Mamma e figlia parlavano dolcemente e si rimbalzavano il loro amore.
Il pendolare russava e sperai che, almeno nel sogno in cui era immerso, il povero Cristo avesse varcato per un po’ la soglia della felicità.
3 - L’anima dell’IC
Eccolo l’Intercity 590 che fa il suo ingresso in stazione, proveniente da Salerno. Si appropinqua alla testa del binario passando tra una banchina deserta e l’altra con una densità di viaggiatori al limite dell’umano. Ha la faccia sporca, l’Intercity 590, tutta tempestata di quintali di insetti che oramai si sono cristallizzati nella vernice verde, creando una patina crostacea molto simile a una roccia sedimentaria. I fari tondi assomigliano a due occhi che chiedono pietà, che implorano misericordia. Anche i treni hanno un’anima!
Un ultimo sibilo lamentoso e finalmente si ferma. Apre le porte e si appresta a ricevere nel suo corpo l’orda famelica. Ma a questo punto già si crea un primo inconveniente: occorre trovare la carrozza corrispondente al numero assegnato dal biglietto con prenotazione “obbligatoria”. Vabbè, direte voi, che ci vuole? Basta scorrere il treno e cercare il vagone corrispondente al proprio numero. Anche un bambino dell’asilo può essere preparato a un simile esercizio, basta saper contare da uno a nove ed il gioco è fatto. In effetti è così, o almeno dovrebbe. Quella mattina però le cose non si svolsero in questo modo poiché i numeri delle carrozze non seguivano una progressione aritmetica, ma si presentavano in progressione artistica. Si cominciava con il due, poi c’era l’otto, il cinque e via via fino alle porte del caos. La gente naturalmente ci mise pochissimo tempo ad impazzire. Chi correva in avanti trascinandosi enormi trolley cigolanti, chi correva all’indietro trascinandosi la suocera, chi andava avanti e indietro bestemmiando, chi cercava il capotreno, chi cercava aiuto, chi gridava in inglese, chi approfittava della confusione per vendere i calzini a righe, chi si toglieva i calzini perché faceva caldo.
Io mi fermai accanto a una panchina per non farmi trascinare dall’onda cieca ed ero fiducioso che, presto o tardi, una soluzione si sarebbe trovata. Si trova sempre una soluzione sull’Intercity 590 perché la natura ci ha dotati dell’istinto di sopravvivenza senza il quale ci faremmo sbranare dai “piccoli contrattempi” come accade ad alcuni ragni che vengono divorati dai propri figli.
Notai un ometto seduto sulla panchina che annotava i numeri nella loro fantasiosa progressione. Sarei un bugiardo se dicessi che succede sempre così, ma non posso negare che ogni tanto comicamente accade.
“Scusi, ma lei annota i numeri?”
“Si”
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“Per giocarli al lotto”
“No, che lotto e lotto! Siccome non mi sembra una cosa possibile, voglio capire che cosa si nasconde dietro a questa storia.” Aveva assunto un’aria che andava da Sherlock Holmes a Tom Ponzi, passando per Vanna Marchi.
“Che vuole che si nasconda”, dissi. “E’ semplicemente che chi ha apposto i cartellini con i numeri era distratto. Non si è curato di organizzarli e li ha appiccicati così come venivano. Quella che i matematici definiscono distribuzione casuale.”
“No no, Io dico che stavolta c’entrano i Maya. Questo è un segnale chiaro e forte.”
Dicendo questo, l’ometto si alzò e si avvicinò al mio orecchio, guardandosi intorno per accertarsi che nessuno lo stesse ascoltando:
“Lei ci crede alla fine del mondo?”
Ci mancava solo l’ometto catastrofico quella mattina! Mi guardai intorno a mia volta e notai che la folla brulicante si stava facendo lentamente inghiottire dai vagoni del treno, infilandosi faticosamente nelle porte aperte come l’acqua stagnante di un lavandino otturato.
La situazione stava tornando lentamente alla normalità e, prima o poi saremmo anche partiti. Il ritardo segnalato era già di trenta minuti. La fine del mondo, pensai! Mi voltai verso l’ometto che, nel frattempo, si era dissolto.
Mi avviai verso la mia carrozza, che adesso avevo individuato. Il treno era gonfio e stanco ancor prima di partire. Toccai il suo metallo rovente e gli chiesi:” E tu ci credi alla fine del mondo?”
Emise un fischio lacerante. Penetrai al suo interno. Fiducioso.
4 - Vado al bagno
Faceva un caldo terribile quella mattina a Napoli. Il bollore torrido e l’umidità si mescolavano come la frutta nella macedonia e generavano un’afa che si tagliava a fette. La gente galleggiava sulle molecole di acqua come in un vecchio film western dove, al posto dei cavalli, si portavano per le redini enormi trolley scalpitanti. Mai come quella mattina mi rifugiai con sollievo all’interno dell’Intercity 590, in partenza per il nord
Trovai il mio posto prenotato e notai immediatamente che un getto di aria fresca fuoriusciva dalle apposite fessure: l’aria condizionata aveva deciso di funzionare. Partimmo.
C’era uno strano silenzio, forse perché eravamo tutti alla fine delle forze e ciascuno stava cercando faticosamente di recuperare il respiro. Aprii il mio libro e pensai che quel giorno avrei fatto un viaggio quasi umano, con l’aria condizionata in funzione, il treno più o meno in orario e una venerea quiete che ovattava l‘ambiente. Il convoglio filava liscio verso Roma e mi stavo persino appisolando quando, ovviamente, squillò il telefonino. Non era il mio ma quello dell’avvocato lato finestrino, quello che resisteva stoicamente con la giacca che lo stritolava e con una cravatta sgualcita che gli stringeva il collo. La voce stentorea e decisa del professionista si appropriò con arroganza dello spazio angusto, entrando nelle teste degli altri viaggiatori senza neanche chiedere permesso. L’uomo si affrettò a tranquillizzare il suo cliente che tutto sarebbe andato per il meglio e che poteva dormire tranquillo, il cliente. Avrei voluto dirgli che anche noi avremmo voluto dormire tranquilli, ma ebbi paura della sua inclinazione ad accompagnare la gente nelle aule di giustizia. Solo una breve pausa e l’avvocato ricominciò
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a strillare la sua professionalità e la sua bravura, garantendo a tutto lo scompartimento che avremmo vinto la causa. D’un tratto si mise a cantare anche il telefono della signora seduta di fronte a me, lato corridoio. Era uno degli ultimi successi polifonici di Andrea Bocelli e la signora non si sbrigava a rispondere, tanto che l’avvocato lato finestrino sembrò quasi scocciato.
La signora tranquillizzò la madre, dall’altro capo del telefono, che aveva chiuso il gas e che non sarebbe scoppiato il suo appartamento e tutto il palazzo nel centro di Portici. L’avvocato domandava e la signora rispondeva, la signora gridava con la madre e l’avvocato la tranquillizzava. Sembrava a un certo punto che parlassero fra loro e che se la madre non la smetteva con quelle stupide illazioni, l’avrebbero citata in giudizio. Quando suonò anche il telefono del senegalese seduto di fronte all’avvocato, decisi che non ce l’avrei potuta mai fare, e andai al bagno.
GUASTO, c’era scritto sulla porta. Andai alla carrozza appresso e un biglietto, redatto con la stessa mano, recitava GUASTO. Sbuffai spazientito e proseguii nel corridoio, cercando di non calpestare i bambini che giocavano a guardia e ladri e che saltavano sulle teste dei genitori impassibili e di non gettare dai finestrini tutte quelle valigie che occupavano il novanta per cento del passaggio. Era guasto anche il terzo. Riuscii a trovare un gabinetto agibile (per usare un eufemismo) solo dopo altre due carrozze. Vidi da lontano il controllore e decisi di affrontarlo per domandargli il perché di tutti quei bagni guasti e se fosse normale che uno, per andare al cesso, dovesse tornare a Napoli a piedi. Lui mi rispose, senza neanche degnarmi di uno sguardo, che i bagni in realtà non erano guasti, ma ne apriva pochi alla volta altrimenti come avrebbero fatto ad arrivare a Milano? Che gli dici a uno che ti risponde così senza neanche distogliere lo sguardo dai biglietti che stava controllando? Avrei voluto dirgli che i bagni si potevano pure pulire durante il viaggio, come accade sui treni belli per i viaggiatori ricchi. Che se una persona anziana ha un’urgenza non può fare lo slalom per tre carrozze tra bambini schiamazzanti ed invasivi, valigie che ballano libere nei corridoi, controllori spiritosi, avvocati in linea col tribunale e signore che urlano con le mamme apprensive. Gli dissi solamente che la ritenevo una trovata geniale e, solo a quel punto, alzò gli occhi sulla mia faccia. Aveva un’espressione stanca, stufa delle lamentele dei viaggiatori che per banali-‐vecchie centomila lire, pretendono anche il bagno nella propria carrozza e magari pure pulito. Il creativo di Trenitalia era seccato di fronte a tante pretese assurde, neanche fossimo uomini e non bestie da tradurre al macello. Io gli dissi con gentilezza che era stato un genio ad inventarsi la storia dei bagni a targa alterna e non seppe mai, il controllore arguto, se i miei complimenti fossero sinceri o se lo avessi solo preso per quel posto dove il sole fa fatica a battere. Tanto fra un po’ se ne sarebbe andato in pensione, e chi si è visto si è visto.
5 - Il genio nell'Intercity
Forse non ci crederete, ma un paio di mesi fa notai un sacchetto abbandonato nei pressi della stazione di Napoli. Lo so che di cartocci abbandonati se ne trovano a tonnellate per le vie partenopee, ma il mio era speciale: al suo interno c’era la lampada di Aladino. Quando la strofinai e mi apparve il Genio che mi chiese il desiderio. Volli essere originale: non chiesi soldi, né donne, tantomeno salute e banalità del genere. Domandai di poter organizzare un viaggio con una trentina di persone speciali.
Il Genio mi accontentò.
Fu così che mi trovai a capeggiare una spedizione alla quale parteciparono il Capo dello Stato, il Presidente del Consiglio, una manciata di ministri, alcuni segretari, portaborse, viceministri, parlamentari, consiglieri vari e finanche un paio di sindaci.
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Partimmo dai mari blu e dalle pianure dorate di quella lingua di paradiso che è la Puglia e ci dirigemmo verso la Toscana, il luogo in cui fiorirono le arti, la cultura e i nobili pensieri. Un viaggetto da una decina di ore, si e no.
L’appuntamento era alle sette di mattina alla stazione di Foggia da dove, con un pullman di linea, avremmo raggiunto Napoli. Lì ci aspettava il Nostro: l’insostituibile Intercity 590 delle 10,17, binario da decidere.
Sarà stato perché l’idea della gita li intrigava, sarà stato perché Aladino lavora da Dio, fatto sta che arrivarono tutti puntuali e con la valigia personale. Qualcuno pretendeva di fare il check in, ma lo svegliarono subito con un caffè ristretto. Aladino aveva consegnato a ciascuno una maschera da gente comune con viso anonimo, in modo che potessi riconoscerli solo io. Sarei stato per un giorno il loro Virgilio e li avrei portati a spasso per le viuzze dell’inferno.
Il presidente si ritrovò ad essere un maestro delle elementari, i ministri erano idraulici, ragionieri e studenti. Le ministre casalinghe, commesse e pensionate. C’era pure una concubina che doveva raggiungere l’amante a Prato, fedifrago a sua volta. Aladino andò in crisi solo con il Cavaliere, che ebbe da discutere su ogni proposta di trasformazione e non gli stava bene nessun ruolo minore. Alla fine il Genio riuscì ad imporsi e lo fece magistrato per un giorno.
Il fatto di rimanere senza uomini di scorta, senza le auto blu, senza la servitù, trovandosi abbandonati sotto il sole cocente del piazzale della stazione, li sbilanciò per un attimo. Ci mescolammo a una folla sudata che doveva salire sullo stesso pullman e fu subito ressa. Cominciarono a fioccare i primi leinonsachisonoio, con relative pernacchie che echeggiavano sonore dalle retrovie. Salimmo e ci accomodammo ma, purtroppo, i passeggeri erano più delle poltrone e qualcuno restò in piedi. La ministra fu una di quelle meno fortunate e si lamentava che le facevano male i polpacci, ma nessuno se la filò e dovette arrivare fino a Napoli reggendosi forte nelle curve. Signora, le dissi, non è roba dell’altro mondo, ma di questo. Cavaliere, come va? Stia calmo e non prenda iniziative. Tutta questa gente viene dall’Africa vera e non ha nessuno zio Capo di Stato. Non si faccia venire idee per festini e affini. Questi sono quei ragazzi che vanno sulle spiagge a vendere le cose inutili e che noi ci giriamo dall’altra parte e facciamo finta di dormire per non essere disturbati. Si lo so, nella sua villa non hanno accesso, questi!! Ma sulle nostre vie, ai nostri semafori e sui nostri lidi cercano di guadagnarsi un tozzo di pane. Come dice sottosegretario? Si, dopo glielo spiego che cosa è un tozzo di pane.
Attraversammo l’Irpinia e giungemmo a Napoli. Questa è la sua Napoli, signor Presidente. Il traffico, il caos, lo smog. Vanno in due sul motorino anche perché insieme si affrontano meglio le strade buie di un futuro che non si vede. E lei non faccia battute stolte, signorino. Venga a vivere qui e non si faccia abbindolare dai discorsi di papà.
Scendiamo e li conduco alla biglietteria. Signori, vi spiego il concetto di coda, perché vedo che avete le idee poco chiare. Dovete mettervi uno dietro all’altro e aspettare il vostro turno, respirando il sudore di chi vi sta davanti e sopportando il peso e le bestemmie di chi vi pressa da dietro. Sì signor sindaco, da noi funziona così. Gli unici lampeggiatori che conosciamo sono quelli delle ambulanze, le scorte nostre sono solo alimentari (quando ci riusciamo), gli autografi li facciamo sulle cambiali per arrivare a fine mese. Come dice signora assessora? Si, dopo le spiego cosa sono le cambiali. E lei stia in campana signor ministro che qui fanno presto a farla diventare ministro senza portafoglio.
Che fatica con questi qua! Sembrano un gruppo di collegiali svizzeri in visita ad un orfanotrofio del vecchio mondo. Salite, salite sull’intercity. Ma che fa signor senatore, cerca le cinture di sicurezza? No, qui non marcia così. Qui ci facciamo il segno della croce nella
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speranza di partire e di arrivare, prima o poi. Oggi non funziona l’aria condizionata, purtroppo ci dobbiamo arrangiare. Vuole il ventaglio cinese, signora deputata? Provi col giornale ripiegato, anche se è un po’ troppo carico delle vostre menate. E voi dovrete avere un po’ di pazienza, signori portaborse: oggi il treno è strapieno e si viaggia in piedi. Si lo so che avete pagato il supplemento, ma sul biglietto c’è scritto “posto non garantito” e, in questo caso, mantengono sempre le promesse. Forse a Roma scende qualcuno e troverete uno strapuntino libero dove appollaiarvi. Che volete da me, prendetevela con Trenitalia.
Si Cavaliere, c’è un po’ di ritardo, solo una cinquantina di minuti, ma che vuole che siano di fronte all’eternità. No, quel bagno non funziona e vi garantisco che il capotreno se ne frega, anche se gli mandate il sottosegretario di Gabinetto.
Giungiamo a Firenze e finisce il viaggio. I miei compagni di avventura sono stravolti ed indignati. Qualcuno sussurra che così no, così non si può. C’è chi dice di sentirsi una bestia. Qualcuno butta giù un paio di psicofarmaci comprati di contrabbando sul treno. (Detto fra noi, li hanno fregati: sono semplici mentine senza zucchero. Proviamo con l’effetto placebo, visto che quello placenta non ha funzionato).
Aladino mi viene incontro per rimettere il sogno nella lampada. Volano via le maschere dei miei insoliti compari e si materializzano la auto blu con lampeggiante prepotente. Ci sono un paio di elicotteri in attesa. Tutti si precipitano a riprendersi le poltrone anatomiche con la forma dei loro deretani, le ville in Sardegna, i viaggi in business class, i viaggi di lavoro a Charme & Chic, gli emolumenti auto-‐aumentati con l’ultima finanziaria.
Anche il Genio se ne va. Va a nascondere la lampada per un nuovo desiderio. Forse mi sono giocato un’occasione, ma sono felice ugualmente. Ho la speranza che qualcuno sia rimasto turbato dal nostro modo di muoverci, attraverso quell’Italia che loro dovrebbero far funzionare. Almeno un po’.
6 - Aspettando la coincidenza
Scendo dal treno alla stazione di Roma Termini e guardo l’orologio. Devo aspettare circa un’ora per la coincidenza. E’ una giornata torrida di una caldissima estate. L’altoparlante dice che “per il contrasto delle attività illecite sono chiusi i sottopassaggi”. Un cartello dice che “è vietato attraversare i binari, usare gli appositi sottopassaggi”. Mi sento un po’ confuso e poi mi dico che, per fortuna, non ho binari da attraversare. Entro nel gigantesco atrio senza una meta precisa e ammiro la maestosità della stazione di Roma e la moltitudine di gente che ospita nella sua pancia.
E’ l’ora di pranzo e quasi quasi ne approfitto per mangiare il panino che ho nella borsa da viaggio. Non ho particolarmente fame, ma mangiare subito il panino mi consente di non farlo a bordo del treno che dovrò prendere fra un’ora. Odio mangiare in treno. Riesco a trovare un angolino discreto in cui appartarmi e apro la borsa. Che caldo che fa! Prendo subito la bottiglietta dell’acqua e me la porto alla bocca. E’ bollente come l’acqua della vasca da bagno e mi sembra pure di sentire l’odore della schiuma e dei sali. Che schifo. La ripongo in borsa e mi alzo: devo comprare qualcosa di freddo. Esco dalla stazione e vedo il marchio di una nota catena di panini, quelli degli gli hot dog che si son fatti la plastica come le soubrette e degli hamburger composti con una specie di poltiglia che loro chiamano, in maniera fiduciosa, carne macinata. Ho poco tempo e devo accontentarmi di quello che passa il convento. E poi mi serve solo qualcosa da bere, qualcosa che sia gassata e soprattutto ghiacciata, il panino lo ho in borsa.
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Appena spingo la porta d’ingresso vengo investito da una nube di freddo, di quelle che sai che ti fanno tanto male perché sei sudato, ma chissenefrega. Il mio corpo mi manda una mail di ringraziamento ed io rispondo con una pacca sulle spalle: con ogni probabilità sono ai primi sintomi di farneticazione da calore. Appoggio la borsa su uno sgabello libero e mi dirigo verso il banco. Stranamente non c’è molta gente e si notano diversi posti vuoti. La signorina-‐hamburger, con il cappellino calato sugli occhi, mi guarda con un sorriso ipocrita come quello dei candidati alla campagna elettorale, chiedendomi cosa desidero. Una birra ghiacciata, rispondo, quella più ghiacciata che avete. E poi? Chiede la signorina-‐hamburger-‐candidata. E poi basta, ribatto. Dopo avermi squadrato da capo a piedi e dopo aver cancellato il sorriso bugiardo dal suo volto, la tizia mi spilla la birra in un bicchiere di plastica (bleaa) e me la porge con ostentato disinteresse. Che occasione che mi sto perdendo! Ho l’impressione che se le avessi chiesto un big-‐burger con doppia razione di maionese strabordante, forse avrebbe potenziato il suo sorriso con un occhiolino ammiccante. Se poi mi fossi spinto fino ad ordinare anche un cartoccio di patatine in sale grosso e fritte in un buon olio da motore, avrei addirittura scroccato il suo numero di telefono. Pazienza!
Torno allo sgabello e tiro un sorso robusto di birra ad occhi chiusi e sento partire l’applauso delle ghiandole della goduria. Una di esse mi chiede il bis, ed ho tanta voglia di accontentala. L’aria condizionata è diventata sopportabile e guardo dalla vetrata i beccheggi del calore che hanno inondato la strada, là fuori. Libero mezzo panino dalla carta argentata e ne azzanno un pezzo. La mortadella è più gustosa quando è appena affettata, ma a me piace lo stesso quel profumo. Alzo gli occhi verso la signorina-‐cartellone-‐pubblicitario-‐elettorale e la vedo che cammina verso di me. Dal suo atteggiamento eufemisticamente stizzito, mi faccio l’idea che non sta venendo a chiedermi un appuntamento per quella sera. Signore, mi dice, qui non può mangiare quel panino, e mi si pianta a mezzo metro con le mani sui fianchi. Guardo il sandwich cercando di capire di quale colpa può essersi macchiato e, francamente, lo trovo innocente e anche molto aggarbato. Ma qui a Roma mangiano tutti, signorina. Sfodero il mio miglior sorriso versione comfort nella speranza di aver pronunciato una battuta che la farà sorridere. Dopo avermi chiesto se ero sempre così spiritoso o se a volte sapevo fare anche di meglio, gira i tacchi e se ne va. Un altro morso al mio panino e un’altra gustosa sorsata di birra. Non passano neanche due minuti che mi sento una mano sulla spalla: sono Rambo e Rocky insaccati in una maglietta con su scritto security e di un paio di misure più piccole della loro taglia. Mi guardano masticandosi le mascelle e, siccome ho il pregio di capire le cose abbastanza velocemente, prendo a riavvolgere il mio panino nella carta, bevo la birra restante in un unico sorso, saluto gentilmente la signorina che aveva riacquistato il suo sorriso in scatola e che avrebbe fatto carriera, ed esco.
Non si può mangiare un panino normale in un posto dove vendono panini speciali, penso sorridendo tra me e me. Ma quelle che mi avete proibito di mangiare nel vostro locale, miei cari gemelli Rambo e Rocky, non sono due semplici fette di pane con dentro della mortadella un po’ rinsecchita. Quelle che mangerò più tardi in un treno che porta al nord, sono pennellate d’autore che racchiudono il profumo di casa mia, che portano dentro la dolcezza delle mani di chi le ha preparate, la fragranza dei sentimenti ed il tono melodico del ricordo appena nato.
Le fette di pane che mi avete impedito di mangiare non rispondono alle leggi del marketing ne alla libidine del consumismo, non hanno bisogno di tonnellate di ketch-‐up per sembrare più accattivanti.
Il caldo ricomincia a prendermi alla gola. I fratelli di taglia mi osservano da dietro ai vetri e sono felici e fieri per aver sventato un attacco alla loro costituzione commerciale. Li lascio lì, sotto i getti di aria fredda e nella loro convinzione che l’America è meglio.
Io mi porto via le mie fette di pane, quelle impastate con il grano che ancora matura al sole.
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7 - La sala d'aspetto
E poi c’è ancora qualcuno che si permette di parlare male dei servizi di Trenitalia!
Una volta nelle stazioni c’erano le sale d’attesa di terza classe destinate ai disgraziati, a tutti coloro che non dovevano permettersi di creare dannose incursioni nel campo visivo degli altri viaggiatori. Quei miseri che aspettavano i treni nella terza classe, dovevano starsene raggruppati in branco e non infastidire con la loro presenza il resto dei viaggiatori appartenenti a ceti sociali più elevati. Erano ancora i tempi delle valigie di cartone tenute chiuse con lo spago. Erano i tempi in cui l’Italia muoveva i suoi primi passi, in cui nascevano i nostri genitori, i tempi in cui cominciava a prendere forma la nostra Storia. Mi sembra che a quell’epoca si chiamassero sale d’aspetto perché, rinchiuse in quei miserabili stanzoni, le persone di terza serie aspettavano il treno per il destino. Poi qualcuno si accorse (che il Cielo l’abbia in gloria) che le sale d’aspetto di terza classe erano un’offesa al pudore e le eliminarono, bontà loro. Correvano i treni e i tempi delle mitiche Ferrovie dello Stato. Rimasero le sale d’attesa di prima e seconda classe e divenne più agevole dividere le mandrie di individui che sostavano nelle stazioni, incanalandole fra i corridoi della gente di serie A e quella di serie B. C’era un gran desiderio di rendere le cose più facili e credo che quello fu uno dei primi esempi di attività da Ministero della Semplificazione.
Nelle sale d’attesa di seconda classe si fumava e una spessa coltre grigia si posava sulle teste delle persone ordinatamente sedute. In fondo c’erano i mendicanti che dormivano russando chissà in quali mondi. D’inverno ci si copriva con i giornali per attenuare la morsa del freddo che partiva dai piedi per finire fino a dentro l’anima. Poi un altoparlante gracchiava il nome del tuo accelerato e ti alzavi di scatto per andare verso il binario. E poi c’era la sala di prima, quella dei ricchi. I pavimenti di marmo lucido ospitavano poltroncine un po’ più larghe, illuminate da lampade un po’ più bianche, con l’aria un po’ più pulita, dove c’erano muri un po’ più chiari e un po’ più di silenzio. Erano destinate alla gente che poteva spendere un po’ più di soldi e che doveva essere trattata con guanti un po’ più bianchi.
Ma siccome esiste un Dio (eh se esiste!), ecco che un giorno spunta Trenitalia. Fu un’esplosione di gioia e di soddisfazione fin dai primi momenti in cui venne annunciato il lieto evento, per assurgere addirittura ad apoteosi quando hanno inserito la grande novità delle Frecce Rosse, Bianche, Argento, nientemeno Rosa e con i colori della Pace e della Pece. Siamo ai nostri giorni.
Questi treni velocissimi che quasi volano, ti conducono dalle Alpi alle Piramidi in un battito di ciglia, o poco più. Qualcuno osa dire che per farti un viaggetto su queste supposte a rotaia devi impegnarti la tredicesima o ricorrere a un piccolo prestito, ma Parigi val bene una messa (delle supposte di cui sopra). Parbleu!
Il massimo del successo si è avuto nel momento in cui hanno provveduto alla ristrutturazioni di quasi tutte le stazioni più importanti, curando il design e l’altissima tecnologia, con accorgimenti innovativi e funzionali e proiezioni future. Pensate che da questi gioiellini usciti dalle matite di importanti architetti, arrivano e partono finanche i treni.
E poi la trovata geniale delle sale d’attesa. Con un colpo di spugna hanno eliminato tutte le vecchie sale d’attesa di prima e di seconda classe, cancellando per sempre una macchia infame secondo la quale la gente veniva nientemeno classificata in viaggiatori di serie A e di serie B. Hanno spazzato via anche tutte le panchine e le fontanelle con l’acqua, inutili orpelli in un mondo che corre più veloce delle Frecce. Adesso, in molte stazioni, finalmente esiste una sola
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sala d’attesa: la vip club Freccia Rossa. Si è vero, possono accedervi solo i vips ed i viaggiatori top class, quelli con abs e smart phone di serie, ma che fa?
Gli altri viaggiatori, quelli dell’Intercity, dei regionali veloci o soppressi, quelli che vanno ad affollare i vecchi convogli che reggono l’anima coi denti, quelli che pendolano per l’Italia per vocazione o per necessità, perché mai dovrebbero avere una sala d’attesa? A cosa servono questi locali così grandi se non a togliere spazio ai negozi del nuovo shopping? E poi mi dite un solo valido motivo per cui i viaggiatori normali dovrebbero sedersi e riposarsi? Non è forse meglio che questi barbari dalle mille pretese ingannino il tempo di attesa andando per negozi a fare compere? Se si accomodassero nelle sale d’aspetto come farebbero a farsi bombardare dai messaggi pubblicitari vomitati con maleducata insistenza da schermi al plasma disseminati come bombe in ogni metro quadrato della stazione? Chi si ferma è perduto: bisogna affrettarsi tra le corsie del supermercato delle cose inutili, depositare i nostri pochi soldi nei punti vendita sfavillanti di lampadine accese.
Lasciamo pure i viaggiatori gold e platino a soffrire in quelle sale sfarzose con le poltroncine anatomiche, sotto il peso dell’aria condizionata, a subire i denti bianchi delle assistenti ai viaggiatori che sembrano modelle.
Visto che non c’è più nemmeno un posticino in cui sedersi, andiamo a farci penetrare il cervello da ogni tipo di messaggio promozionale e stiamo attenti a non sbattere la testa contro i cartelloni e i totem pubblicitari appesi dappertutto. Facciamoci pure disorientare dal festival del niente, quello incartato con i fogli colorati della pseudo felicità, ma diamo sempre un’occhiata all’orologio altrimenti perdiamo il treno e va a finire che ce la prendiamo con Trenitalia. Poveri noi.
8 - Concerto per Intercity
E poi?
Poi entro nella stazione e noto un’atmosfera strana, diversa. C’è tanta gente come al solito, ma ho la sensazione di percepire un senso di quiete che non riesco immediatamente a spiegarmi. Una musica discreta e rassicurante si diffonde attraverso gli altoparlanti, posandosi con affetto sull’ambiente. Anche i colori mi sembrano delicati. Strano. Mi avvio verso la biglietteria e noto una piccola fila di persone composta ed educata. Le macchinette automatiche funzionano, danno finanche il resto, ringraziano e non noto intorno ad esse quegli individui sinistri che, di solito, cercano di fregarti qualche spicciolo di euro. Arriva presto il mio turno e chiedo un biglietto per… La signorina dall’altra parte del vetro mi sorride con gentilezza, mentre armeggia con il computer. Mi affretto a precisare che il mio biglietto deve essere di seconda classe, non si sa mai. Seconda classe? Mi domanda con evidente stupore. Non capisco signore, per noi i viaggiatori sono tutti di una classe sola, ci mancherebbe!
E poi?
Poi guardo l’orologio e mi accorgo che c’è ancora mezz’ora alla partenza del mio intercity. Sento un bisogno che sorge improvviso e mi dirigo verso i bagni. Entro in un ambiente climatizzato e soprattutto pulito e con un odore di disinfettante che tranquillizza l’anima e il corpo. Una donna cortese in camice blu mi indica la strada. Porto la mano alla tasca per prendere dei soldi e lei mi blocca: si accomodi signore, l’utilizzo del bagno è gratuito, compreso nel prezzo del suo biglietto, ci mancherebbe! E’ tutto così pulito qui, dico. Sono bagni, signore. Ci mancherebbe!
E poi?
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Poi quella musica aumenta di tono e di intensità. Intorno a me gente educata, file ordinate, personale di terra che si adopera affinché la mia sosta in stazione sia più confortevole possibile. Vedo un gruppo di persone felici e domando a un ferroviere se si tratta di una comitiva in partenza per Lourdes. Nossignore, mi dice, sono i pendolari. Per loro abbiamo delle corsie preferenziali poiché è gente che passa la vita sui treni e nelle stazioni e noi facciamo di tutto per agevolarli e, in qualche modo, farli sentire a casa. Una specie di Mulino Bianco e pasta Barilla? Domando, mentre la musica si avvicina sempre più. Certo, signore. I pendolari sono lavoratori e studenti. Sono l’Italia che fatica oggi e quella che lo farà domani. La nostra prima missione è rispettarli, ci mancherebbe!
E poi?
Poi mi ricordo di aver letto da qualche parte di disservizi, cessi sporchi su treni ancora più sporchi, corse soppresse, ritardi cronici, viaggiatori e pendolari trattati come animali da soma, bagni a pagamento e pagamento in bagno. Mi do dello stupido e del malfidato, del diffidente. I miei pensieri belli e brutti si mescolano in una danza atavica, al ritmo di quella musica che adesso sta diventando veramente insistente. Da un tabellone si affaccia una signorina che mi augura buon viaggio e mi ringrazia di aver scelto Trenitalia. Ci mancherebbe, dico!
E poi?
E poi la riconobbi quella musica. Era il concerto in la minore di Antonio Vivaldi, quell’incanto barocco eseguito al pianoforte, che io avevo scelto come suoneria della mia sveglia.
Sono molto grave, dottore? Chiesi allo psicologo che mi stava analizzando.
No, non è un caso grave. Credo però che avresti bisogno di un periodo di riposo, un sano intervallo di disintossicazione da viaggio. Chi è costretto a muoversi con il treno e deve farlo anche in maniera più economica possibile, vive una realtà che spesso saltella sul confine che divide il sogno e il mondo di tutti i giorni. Chi passa molte ore sul treno è costretto a sopportare attimi di vita che sono origine di se stessi, irripetibili. Sono scene che si consumano nel treno, nelle biglietterie, nei cessi, nei nuovi centri commerciali travestiti da stazioni ferroviarie, e che finiscono nel momento in cui esci da quell’ambiente, pronte a riverificarsi alla prossima partenza. Sono situazioni che nel mondo reale non esistono e, chi non viaggia abitualmente, non può comprendere.
E poi?
Poi stavo pensando, dottore: ma se chi incassa i nostri soldi per darci in cambio un servizio, si adoperasse solo un po’ affinché…..
Fermo, mi disse il dottore, questo è già l’inizio di un’altra storia.
9 - La targhetta gialla
Viaggio sull’Intercity Firenze-‐Roma all’alba di una mattina qualunque. Il treno corre nella notte andando incontro alla luce del giorno. Appena arriverò a Roma Termini avrò solo una manciata di minuti per prendere la coincidenza: il regionale veloce per Napoli. Architettandosi sui treni e sulle coincidenze e scegliendo convogli arrugginiti che non usano più nemmeno nel Far West, si riesce a raggiungere la mèta con una quarantina di euro, contro il doppio dei treni belli e veloci. Passa il controllore e gli chiedo quanti minuti di ritardo abbiamo e lui, dopo aver guardato l’orologio, mi dice con fare trionfalistico che sono solo venti. Rimane a guardarmi con l’atteggiamento di chi si aspetta una pacca di approvazione sulla spalla. Devo ammettere che stavolta sono stati alquanto contenuti, ma fargli i complimenti non me la sento proprio. Raggiungo la carrozza di testa per scendere al volo perché se perdo il treno per Napoli, va a
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capire a che ora arrivo. Sono in prima posizione e guardo con fierezza quelli che avevano avuto la mia stessa idea, ma che avevo bruciato sulla velocità. Per viaggiare in treno bisogna essere esperti, devi sapere il momento preciso in cui fare le cose. A un certo punto un signore grida: "La targhetta gialla!!" E scoppia il caos. Guardo l’individuo cercando di capire se fosse un agente della Cia che si esprimeva in codice. La targhetta gialla e tutti cominciano a muoversi all’impazzata. Ma è un incendio? Un terremoto? Un attacco alieno? Domando a un signore accanto a me. Lui mi dice che la targhetta gialla è solo l’ultima invenzione di Trenitalia e sta ad indicare che quella porta non si apre. In pratica invece di aggiustare le porte che non si aprono, ci mettono una targhetta e buonanotte ai suonatori. Insomma, rimango fregato perché tutti si sono voltati per raggiungere la prima porta senza targhetta gialla, e io sono rimasto l’ultimo. Giunto a Roma non posso che constatare che la coincidenza se ne era andata, portandosi via la mia speranza di arrivare ad un orario ragionevole. Mi giro intorno per cercare il controllore trionfante e per spiegargli che quei venti minuti di ritardo, che a lui sembrano una quisquiglia, per me si tradurranno in un paio di orette. E poi vorrei capire perché se in Italia qualcosa parte in orario, quelle sono le coincidenze. Accipicchia! Va bene, va. Prendiamola con filosofia. Mi dirigo verso le biglietterie per effettuare il cambio biglietto con il primo treno per Napoli. Vedo da lontano una fila corta, con poca gente e una lunghissima che mi sembrava un capitolo dell’ Antico Testamento. Ovviamente mi dirigo verso la fila corta, cullandomi nell’illusione di essere l’unico uomo intelligente presente alla stazione Termini. Poteva anche essere, no? No. Ancora tre o quattro persone e sarebbe toccato a me. La fila di fronte, quella lunga, oscilla in maniera preoccupante. Le due signorine dietro al banco della fila corta sono veramente belle e curate nei dettagli, tanto che penso che per sceglierle ricorrano ai casting. Questo sportello è solo per le Frecce, signore. Dalla faccia che fece Noemi quando vede il mio biglietto, ritengo che nel chiamarmi signore abbia voluto strafare. Provo a sottolineare che il mio è un regionale veloce e non uno normale. Niente, devo cambiare fila. Mi metto dietro alla persona numero duecento e comincio a pregare. Prima che tocchi a me ci vorrà molto tempo. A questo punto comincio a pensare che sforerò anche le due ore di ritardo che avevo preventivato. Mi giro intorno e non vedo il controllore ottimista, chissà dove sarà. Mi sento come un emigrante del dopoguerra in partenza per l’America, in fila su una banchina malferma e con il futuro rinchiuso in un pacco legato con lo spago. L’emigrante rispetto a me aveva però un notevole vantaggio: lui sperava in un mondo migliore.
10 - La sala d'aspetto
E poi c’è ancora qualcuno che si permette di parlare male dei servizi di Trenitalia!
Una volta nelle stazioni c’erano le sale d’attesa di terza classe destinate ai disgraziati, a tutti coloro che non dovevano permettersi di creare dannose incursioni nel campo visivo degli altri viaggiatori. Quei miseri che aspettavano i treni nella terza classe, dovevano starsene raggruppati in branco e non infastidire con la loro presenza il resto dei viaggiatori appartenenti a ceti sociali più elevati. Erano ancora i tempi delle valigie di cartone tenute chiuse con lo spago. Erano i tempi in cui l’Italia muoveva i suoi primi passi, in cui nascevano i nostri genitori, i tempi in cui cominciava a prendere forma la nostra Storia. Mi sembra che a quell’epoca si chiamassero sale d’aspetto perché, rinchiuse in quei miserabili stanzoni, le persone di terza serie aspettavano il treno per il destino. Poi qualcuno si accorse (che il Cielo l’abbia in gloria) che le sale d’aspetto di terza classe erano un’offesa al pudore e le eliminarono, bontà loro. Correvano i treni e i tempi delle mitiche Ferrovie dello Stato. Rimasero le sale d’attesa di prima e seconda classe e divenne più agevole dividere le mandrie di individui che sostavano nelle stazioni, incanalandole fra i corridoi della gente di serie A e quella di serie B. C’era un gran desiderio di rendere le cose più facili e credo che quello fu uno dei primi esempi di attività da Ministero della Semplificazione.
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Nelle sale d’attesa di seconda classe si fumava e una spessa coltre grigia si posava sulle teste delle persone ordinatamente sedute. In fondo c’erano i mendicanti che dormivano russando chissà in quali mondi. D’inverno ci si copriva con i giornali per attenuare la morsa del freddo che partiva dai piedi per finire fino a dentro l’anima. Poi un altoparlante gracchiava il nome del tuo accelerato e ti alzavi di scatto per andare verso il binario. E poi c’era la sala di prima, quella dei ricchi. I pavimenti di marmo lucido ospitavano poltroncine un po’ più larghe, illuminate da lampade un po’ più bianche, con l’aria un po’ più pulita, dove c’erano muri un po’ più chiari e un po’ più di silenzio. Erano destinate alla gente che poteva spendere un po’ più di soldi e che doveva essere trattata con guanti un po’ più bianchi.
Ma siccome esiste un Dio (eh se esiste!), ecco che un giorno spunta Trenitalia. Fu un’esplosione di gioia e di soddisfazione fin dai primi momenti in cui venne annunciato il lieto evento, per assurgere addirittura ad apoteosi quando hanno inserito la grande novità delle Frecce Rosse, Bianche, Argento, nientemeno Rosa e con i colori della Pace e della Pece. Siamo ai nostri giorni.
Questi treni velocissimi che quasi volano, ti conducono dalle Alpi alle Piramidi in un battito di ciglia, o poco più. Qualcuno osa dire che per farti un viaggetto su queste supposte a rotaia devi impegnarti la tredicesima o ricorrere a un piccolo prestito, ma Parigi val bene una messa (delle supposte di cui sopra). Parbleu!
Il massimo del successo si è avuto nel momento in cui hanno provveduto alla ristrutturazioni di quasi tutte le stazioni più importanti, curando il design e l’altissima tecnologia, con accorgimenti innovativi e funzionali e proiezioni future. Pensate che da questi gioiellini usciti dalle matite di importanti architetti, arrivano e partono finanche i treni.
E poi la trovata geniale delle sale d’attesa. Con un colpo di spugna hanno eliminato tutte le vecchie sale d’attesa di prima e di seconda classe, cancellando per sempre una macchia infame secondo la quale la gente veniva nientemeno classificata in viaggiatori di serie A e di serie B. Hanno spazzato via anche tutte le panchine e le fontanelle con l’acqua, inutili orpelli in un mondo che corre più veloce delle Frecce. Adesso, in molte stazioni, finalmente esiste una sola sala d’attesa: la vip club Freccia Rossa. Si è vero, possono accedervi solo i vips ed i viaggiatori top class, quelli con abs e smart phone di serie, ma che fa?
Gli altri viaggiatori, quelli dell’Intercity, dei regionali veloci o soppressi, quelli che vanno ad affollare i vecchi convogli che reggono l’anima coi denti, quelli che pendolano per l’Italia per vocazione o per necessità, perché mai dovrebbero avere una sala d’attesa? A cosa servono questi locali così grandi se non a togliere spazio ai negozi del nuovo shopping? E poi mi dite un solo valido motivo per cui i viaggiatori normali dovrebbero sedersi e riposarsi? Non è forse meglio che questi barbari dalle mille pretese ingannino il tempo di attesa andando per negozi a fare compere? Se si accomodassero nelle sale d’aspetto come farebbero a farsi bombardare dai messaggi pubblicitari vomitati con maleducata insistenza da schermi al plasma disseminati come bombe in ogni metro quadrato della stazione? Chi si ferma è perduto: bisogna affrettarsi tra le corsie del supermercato delle cose inutili, depositare i nostri pochi soldi nei punti vendita sfavillanti di lampadine accese.
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Lasciamo pure i viaggiatori gold e platino a soffrire in quelle sale sfarzose con le poltroncine anatomiche, sotto il peso dell’aria condizionata, a subire i denti bianchi delle assistenti ai viaggiatori che sembrano modelle.
Visto che non c’è più nemmeno un posticino in cui sedersi, andiamo a farci penetrare il cervello da ogni tipo di messaggio promozionale e stiamo attenti a non sbattere la testa contro i cartelloni e i totem pubblicitari appesi dappertutto. Facciamoci pure disorientare dal festival del niente, quello incartato con i fogli colorati della pseudo felicità, ma diamo sempre un’occhiata all’orologio altrimenti perdiamo il treno e va a finire che ce la prendiamo con Trenitalia. Poveri noi.
11 - Il rimborso
Sento che si avvicina il carrello bar. Nello scompartimento in cui viaggiavo si era creato un bellissimo clima, fatto di armonia tra sei persone che non si erano mai viste prima. Un agente immobiliare si divideva la scena da protagonista con un signore che stava andando a Roma per fare la comparsa in un film. Una suora lato finestrino parlava con noi mentre guardava fuori e pensava a Dio. Un vecchietto si addormentava di continuo e, svegliandosi di colpo, pretendeva di entrare nel discorso. Una signora di una certa età mi aveva chiesto il cambio del posto perché le faceva male il treno e poi, e poi c’ero io.
Fermo il carrellino ed ordino sei caffè: ho voglia di fare una azione bizzarra e manifestare a tutti la mia felicità per il fatto di viaggiare con loro. Quando il giovanotto mi porge lo scontrino, devo scegliere se pagare in contanti o accedere a un piccolo prestito. Odiando la burocrazia opto per il pagamento cash, nella speranza che nessuno abbia sete perché l’Acqua Santa che vendono sul treno ha un costo che è quotato alla Borsa di Milano (ops, mi scusi sorella!).
Non fu quel brodo nero e tiepido, leggermente tendente al salato, a minare l’equilibrio magico che si era creato nello scompartimento ma, udite udite, il fatto che il mio mitico Intercity 590 si piantò all’improvviso in mezzo a una campagna e non ne volle sapere di ripartire per una buona quarantina di minuti.
Tanto ce lo rimborsano, disse il vecchietto riemerso dal suo mondo. E’ una parola! Rispose la comparsa. E si aprì una tavola rotonda sull’argomento rimborso biglietti in cui ciascuno diceva la sua verità. Ovviamente ci fermammo a sei realtà e ognuno di noi era pronto a giurare e spergiurare che le cose stavano esattamente nel modo in cui le aveva esposte. Nel culmine della discussione, qualcuno propose addirittura di fare una interrogazione allo scompartimento accanto, ma non ottenne la maggioranza.
Un po’ per la rabbia, un po’ per la noia, un po’ perché dopo un po’ le discussioni inutili mi stancano, decisi che i miei compagni di viaggio non mi piacevano più.
Arrivammo a destinazione con più di un’ora di ritardo. Mi recai presso la biglietteria e mi misi in fila per domandare agli addetti notizie in merito ai rimborsi. Il vecchietto che dormiva e si risvegliava, era accanto a me. Tanto non ti danno niente, disse. Bene, risposi. Lui mi si avvicinò all’orecchio e mi sussurrò: guarda che Trenitalia, con la scusa di attenersi alle condizioni europee, ha emanato delle regole per i rimborsi che sono restrittive e totalmente negative per l’utente. Sai come diceva mio nonno? I soldi che non spendi sono il tuo primo guadagno, e forse a Trenitalia conoscevano mio nonno. Risi.
La signorina mi disse che solo dopo venti giorni si sarebbe potuto vedere se il mio biglietto aveva diritto al rimborso. Salutai il vecchietto che se la rideva alle mie spalle. Egli fece però in
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tempo a darmi l’ultima consolazione: tanto, semmai, te ne danno una parte talmente piccola che ti ci compri il biglietto del tram. Adieu vecchietto!
Passò un mese, e una mattina mi ricordai del biglietto che avevo in tasca. Andai alla stazione. Vorrei vedere se questo biglietto ha diritto al rimborso, signorina. Dunque vediamo…e cominciò a inserire numeri sulla sua tastiera. Vediamo, vediamo…ritardo 70 minuti, si si…ci sono le condizioni. Certo sarà una minima parte, ma tant’è. Me lo rimborsano, hai visto vecchietto spiritoso? E tutti quegli altri professori del mio scompartimento!
Ops, mi scusi signore, disse la signorina. C’è un problema. L’ombra del vecchietto si appoggiò sulle mie spalle per sentire il dilemma e già gli vidi un ghigno sadico disegnato sul volto. Il problema era che il computer diceva che il ritardo non era attribuibile a cause dipendenti da Trenitalia. E quindi? Quindi niente rimborso. Non sarà mica stata colpa mia? Domandai alquanto adirato. Non lo so, ma non nostra. E chi lo dice? Il computer.
Il vecchietto rideva a crepapelle, saltando sulle mie spalle come una scimmietta urlatrice, accidenti a lui! La signorina mi disse che avrei potuto fare ricorso. A chi? A Trenitalia. Certo: a quel computer? Mi spiace signore.
Spiaceva anche a me. Strappai il biglietto e lo buttai nel cestino. Condizioni restrittive, aveva detto quel giorno il vecchietto. Proibitive aggiungerei io.
La signorina mi guardava con un sorriso imbarazzato. La salutai con gentilezza e mi voltai per andare via. Non c’era fila alle mie spalle e si era dissolta anche l’ombra del vecchietto. La stazione era ormai deserta e anche i negozi erano chiusi.
Uscii e mi tirai la porta alle spalle. Quella storia era finita.