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INQUIETUDINE DI TERESA CORSI RACCONTO PRIMO CLASSIFICATO ANNO SCOLASTICO 2016-2017 12 luglio, Delft Damon si svegliò alle sei come tutte le mattine. Appena aprì gli occhi rimase accecato dalla luce che filtrava dalla finestra e si maledisse per non aver chiuso le tende la sera prima. Scese dal letto controvoglia e camminò fino alla cucina. Si sedette sulla poltrona e lesse il giornale, aspettando che Mike gli portasse il latte. Mike era un ragazzino di quindici anni che tutte le mattine faceva il giro del paesino portando bottiglie piene di latte, suo padre era un pastore. A Damon stava abbastanza simpatico, era sempre stato molto gentile. Guardò l'orologio e vide che Mike era in ritardo di quindici minuti, ma non ci fece gran caso. Arrivò cinque minuti più tardi e subito si scusò. Dopo aver consegnato il latte disse a Damon di dargli meno soldi a causa dell'orario, ma lui non gli badò e lo pagò come ogni mattina. Quando tornò in cucina prese un bicchiere, senza preoccuparsi dello strano cigolio che emise lo sportello e che non prometteva nulla di buono, e lo riempì fino all'orlo. Si sedette nuovamente sulla poltrona con la bottiglia di latte in mano e iniziò a bere. Pochi minuti dopo era a terra senza vita. Sul fondo della bottiglia c'era scritta una sola parola. Inquietudine. 13 luglio, Delft Sarah aveva già aperto gli occhi quando sua madre entrò per svegliarla. Sentiva che quello sarebbe stato un giorno fortunato. Magari suo fratello, che era stato arruolato come militare un anno prima, sarebbe tornato finalmente a casa. Una volta in cucina notò che sua madre aveva già preparato la tavola per la colazione e che quindi sarebbe bastato aspettare che il figlio del pastore le portasse il latte. Sarah, se doveva essere sincera, aveva una piccola cotta per il figlio del pastore. Lui era di due anni più grande di lei, ma erano comunque diventati amici nel corso degli anni. Quella mattina arrivò puntuale e quando lei corse ad aprire la porta lui la salutò con un sorriso a trentadue denti. Le portò il latte fino alla cucina e poi la salutò augurandole di passare una buona domenica. Sarah chiamò sua mamma dicendole che era tutto pronto e tutte e due si sedettero al piccolo tavolino di legno. Versarono il latte in due grandi tazze, una rosa e una verde, e bevvero con gusto. Dopo circa un minuto entrambe erano morte. La madre di Sarah nel cadere sul tavolo aveva rovesciato la bottiglia. Sul fondo c'era scritta una parola. Inquietudine. 14 luglio, Delft Daniel aveva appena finito di scolare la prima bottiglia di whisky di quella mattina quando qualcuno bussò alla porta. Andò ad aprire e si trovò davanti il figlio del pastore. Gli fece cenno di lasciare le bottiglie di latte nel piccolo ingresso e poi gli disse di mettere tutto sul suo conto. Si capiva benissimo che era ubriaco già alle sette di mattina, ma Mike non ci fece caso, succedeva sempre. Quella mattina però suo padre gli aveva espressamente detto di farsi pagare da Daniel tutti gli arretrati del mese prima e di quello prima ancora. Mike con voce pacata provò a spiegare all'uomo ubriaco ciò che gli aveva detto il padre, ma lui gli diede una spinta buttandolo a terra e poi chiuse la porta di colpo. Il figlio del pastore si ripromise di dire a suo padre che a casa di quell'uomo non ci sarebbe più tornato. Daniel dopo aver chiuso la porta si avviò verso la sua camera e si sedette sul letto. Quella mattina aveva intenzione di bere il latte invece del solito alcool, ma dopo un sorso lanciò la bottiglia per terra e si attaccò alla bottiglia di rum. Ci vollero pochi minuti prima che cadesse all'indietro sul letto rovesciando la bottiglia sul materasso. Sul fondo di quella bottiglia non c'era scritto nulla, ma sul fondo di quella del latte c'era una parola. Inquietudine. 15 luglio, Delft

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INQUIETUDINE DI TERESA CORSIRACCONTO PRIMO CLASSIFICATO ANNO SCOLASTICO 2016-2017

12 luglio, DelftDamon si svegliò alle sei come tutte le mattine. Appena aprì gli occhi rimase accecatodalla luce che filtrava dalla finestra e si maledisse per non aver chiuso le tende la seraprima. Scese dal letto controvoglia e camminò fino alla cucina. Si sedette sulla poltrona elesse il giornale, aspettando che Mike gli portasse il latte. Mike era un ragazzino di quindicianni che tutte le mattine faceva il giro del paesino portando bottiglie piene di latte, suopadre era un pastore. A Damon stava abbastanza simpatico, era sempre stato moltogentile. Guardò l'orologio e vide che Mike era in ritardo di quindici minuti, ma non ci fecegran caso. Arrivò cinque minuti più tardi e subito si scusò. Dopo aver consegnato il lattedisse a Damon di dargli meno soldi a causa dell'orario, ma lui non gli badò e lo pagò comeogni mattina. Quando tornò in cucina prese un bicchiere, senza preoccuparsi dello stranocigolio che emise lo sportello e che non prometteva nulla di buono, e lo riempì fino all'orlo.Si sedette nuovamente sulla poltrona con la bottiglia di latte in mano e iniziò a bere. Pochiminuti dopo era a terra senza vita. Sul fondo della bottiglia c'era scritta una sola parola.Inquietudine.

13 luglio, DelftSarah aveva già aperto gli occhi quando sua madre entrò per svegliarla. Sentiva chequello sarebbe stato un giorno fortunato. Magari suo fratello, che era stato arruolato comemilitare un anno prima, sarebbe tornato finalmente a casa. Una volta in cucina notò chesua madre aveva già preparato la tavola per la colazione e che quindi sarebbe bastatoaspettare che il figlio del pastore le portasse il latte. Sarah, se doveva essere sincera,aveva una piccola cotta per il figlio del pastore. Lui era di due anni più grande di lei, maerano comunque diventati amici nel corso degli anni. Quella mattina arrivò puntuale equando lei corse ad aprire la porta lui la salutò con un sorriso a trentadue denti. Le portò illatte fino alla cucina e poi la salutò augurandole di passare una buona domenica. Sarahchiamò sua mamma dicendole che era tutto pronto e tutte e due si sedettero al piccolotavolino di legno. Versarono il latte in due grandi tazze, una rosa e una verde, e bevverocon gusto. Dopo circa un minuto entrambe erano morte. La madre di Sarah nel cadere sultavolo aveva rovesciato la bottiglia. Sul fondo c'era scritta una parola. Inquietudine.

14 luglio, DelftDaniel aveva appena finito di scolare la prima bottiglia di whisky di quella mattina quandoqualcuno bussò alla porta. Andò ad aprire e si trovò davanti il figlio del pastore. Gli fececenno di lasciare le bottiglie di latte nel piccolo ingresso e poi gli disse di mettere tutto sulsuo conto. Si capiva benissimo che era ubriaco già alle sette di mattina, ma Mike non cifece caso, succedeva sempre. Quella mattina però suo padre gli aveva espressamentedetto di farsi pagare da Daniel tutti gli arretrati del mese prima e di quello prima ancora.Mike con voce pacata provò a spiegare all'uomo ubriaco ciò che gli aveva detto il padre,ma lui gli diede una spinta buttandolo a terra e poi chiuse la porta di colpo. Il figlio delpastore si ripromise di dire a suo padre che a casa di quell'uomo non ci sarebbe piùtornato. Daniel dopo aver chiuso la porta si avviò verso la sua camera e si sedette sulletto. Quella mattina aveva intenzione di bere il latte invece del solito alcool, ma dopo unsorso lanciò la bottiglia per terra e si attaccò alla bottiglia di rum. Ci vollero pochi minutiprima che cadesse all'indietro sul letto rovesciando la bottiglia sul materasso. Sul fondo diquella bottiglia non c'era scritto nulla, ma sul fondo di quella del latte c'era una parola.Inquietudine.

15 luglio, Delft

Quando Raven si svegliò sul cuscino accanto al suo trovò un bigliettino scritto nella bellacalligrafia di James che diceva che lui era andato a correre. Raven sorrise al pensiero diJames. Decise di fargli una piccola sorpresa quella mattina, così si vestì in fretta perandare al forno davanti a casa loro. Appena entrò nel negozio il profumo del pane caldo laavvolse. Comprò due cornetti alla crema e uscì dalla bottega. Mentre attraversava lastrada per tornare a casa vide Mike, il figlio del pastore, davanti a casa sua che aspettava.Una volta raggiunto gli sorrise e si scusò se quella mattina non si era fatta trovare. Lui lerispose molto gentilmente che era arrivato in quel momento e che non era un disturbo perlui aspettare. Raven prese il latte, pagò Mike ed entrò in casa. Era decisa ad aspettareJames per fare colazione, ma il profumo dei cornetti era così forte che non resistette einiziò. Bevve un po' di latte e poi diede un grande morso al suo cornetto, assaporando apieno il sapore della crema. Si stava versando un altro bicchiere di latte quando sentì laporta aprirsi. James si tolse le scarpe da corsa e si diresse verso la cucina. L'unicoproblema fu che trovò Raven morta, distesa sul pavimento, con ancora uno sbaffo dicrema sul labbro. Un po' di latte gocciolava sul pavimento dalla bottiglia rotta che era sultavolo. Il fondo era intatto. E sul fondo c'era scritta una parola. Inquietudine.

16 luglio, DelftNoah si svegliò eccitato come ogni mattina da ormai diversi giorni. Aveva una missione dasvolgere e ne era fiero. Uscì dalla camera in fretta e furia, ancora in vestaglia e si diresseverso il ripostiglio. Prese una piccola fiala dall'armadietto più vicino e la mise in tasca. Poitornò in camera e si vestì con il suo solito completo di velluto. Era talmente tanto tempoche si metteva solo quei vestiti che aveva perso il conto dei giorni pure lui. Estrasse la fialadalla vestaglia e la mise in una piccola tasca interna della giacca. Dopo arraffò il giubbottoe uscì di casa velocemente. Era solito percorrere la strada fino a casa del pastore incinque minuti, ma ormai la vecchiaia non gli permetteva più di andare veloce e così cimise il doppio del tempo. Una volta arrivato si avvicinò al piccolo carrettino con cui Mike, ilfiglio del pastore, portava il latte in città. Prese la quinta bottiglia, una per giorno, la aprì eci versò dentro il contenuto della fiala. Dopo, con una matita, scrisse sotto alla bottiglia unaparola. Inquietudine. Non sapeva perchè gli era stato detto di scrivere proprio quellaparola, lui lo faceva e basta. Voleva evitare di essere ammazzato. Disegnò sul tappo unapiccola X per riconoscere la bottiglia e poi la rimise nel carretto. Nell'attesa di Mike sisedette su un muretto lì vicino e aspettò. Il ragazzino arrivò dopo qualche minuto e salutòNoah con un cenno della mano. Lui gli si avvicinò e gli disse che, come ormai ognimattina, era andato lì per accompagnarlo mentre portava il latte. Mike ne era felice, suononno e Noah erano stati molto amici da giovani e lui gli raccontava sempre delle storiellesulle loro avventure. Senza esitare oltre iniziarono il giro delle case. Avevano consegnatogià le prime quattro bottiglie e Noah era impaziente di sapere a chi sarebbe toccata labottiglia di inquietudine. Mike controllò la lista dei nomi, che gli era stata data da suopadre, e gli disse che la prossima casa era la sua. Noah non poteva crederci. Senza darea Mike una qualunque spiegazione si diresse verso casa sua e si chiuse dentro. Una voltaentrato pensava di essere al sicuro, ma Mike bussò alla porta e gli disse che si eradimenticato il latte. Così glielo consegnò e continuò il suo giro senza preoccuparsi troppo,suo nonno gli aveva raccontato che a volte Noah era un po' strano. Evidentemente quellaera una di quelle volte. L'uomo, dopo aver chiuso la porta, si diresse verso la sedia e ci sirannicchiò. Era deciso a non bere quel latte, nonostante gli ordini che gli erano stati datierano precisi. Doveva mettere, ogni mattina, una fialetta di veleno in una diversa bottigliadi latte e accompagnare il figlio del pastore nel suo giro di consegne. Si ricordavabenissimo la mattina in cui quell'uomo incappucciato era arrivato alla sua porta. Gli avevapuntato il coltello alla gola e aveva minacciato di ucciderlo se non avesse fatto comediceva lui. Gli aveva procurato un grande numero di fialette di veleno e gli aveva dato leistruzioni. Ma ormai, che bevesse o meno, era morto. A lui stava semplicemente decidere

se morire avvelenato o sgozzato. Non c'erano terze opzioni. Stappò la bottiglia e bevve.Subito si sentì strano, come in un'immensa ruota che gira senza mai fermarsi. Cadde aterra e pensò di essere morto, ma il fato non era così gentile. Prima doveva soffrire.Vedeva la luce del sole che arrivava dal vetro della porta, sentiva i rumori della città checontinuava a vivere nonostante lui stesse per morire. Si chiese perchè nessuno erapreoccupato della sorte che stava per capitargli, senza pensare che nessuno lo sapeva. Ilprimo pensiero che riuscì a formulare fu che se riusciva a raggiungere quella luceprobabilmente non sarebbe morto. Quella luce era la sua salvezza, l'unico motivo percontinuare a lottare. Il secondo pensiero andò alle persone che aveva ucciso nei giorniprecedenti. Si chiese se anche loro avessero visto quella luce e se anche loro avesseroprovato a raggiungerla. In ogni caso, nel bene o nel male, loro erano morte. Il terzopensiero fu che tutto era crudele. Lui per primo, il fato per secondo. Il quarto pensiero sidiresse a quell'uomo incappucciato, che era nato dalla sua follia, che in essa era cresciutoe che nella stessa stava per morire. La stessa follia che per una vita intera non gli avevafatto trovare la pace, che per una vita lo aveva tormentato e che lo aveva reso prigionierodi se stesso. Il quinto pensiero non arrivò. L'inquietudine era riuscita a incombere su di lui.Quella luce di pace si era pian piano allontanata da lui fino a spengersi del tutto. Lui eramorto. Come era morto Damon. Come erano morte Sarah e sua mamma. Come eranomorti Daniel e Raven. E tutti erano morti con accanto una bottiglia. Sul cui fondo c'era unaparola. Una parola che li aveva uccisi. Inquietudine.

L'ULTIMA PALLOTTOLA DI GIULIA SCATIZZIRACCONTO SECONDO CLASSIFICATO ANNO SCOLASTICO 2016-2017

4 Febbraio 1944Sempre mi fu cara quell'enorme distesa di neve che copre il mio cuore di dolcipensieri e che al bianco lenzuol s'accosta come per incanto. Rimembro ancora oggiquel soave grido di anime insignificanti perse nell'aria.Auschwitz rimarrà sempre nel mio intimo più profondo per avermi rimembrato i verivalori per cui son nato e con cui sono cresciuto.Ero un tenente del quinto battaglione del Terzo Reich, assegnato alle mansioni nelcampo di lavoro di Auschwitz. Nessuno di quegli “sporchi, luridi, bastardi”, è riuscitoa macchiare il mio nome e la mia rettitudine. Mi facevano soltanto ribrezzo e a volte,ancora oggi, mi chiedo perché, dagli stolti, vengono considerate persone.Quella mattina mi trovavo nel mio alloggio attendendo ansiosamente di svolgere ilcompito a me assegnato dal caporale maggiore. Il mio superiore, punto di riferimentoper me e per tutti i miei colleghi del battaglione, ci aveva ordinato di smistare “lebestie” quel giorno; e in cuor mio confidavo ardentemente in un lavoro rapido masoddisfacente, che potesse placare la mia sete di giustizia e di rivalsa.Mi diressi velocemente e con passo disciplinato verso il treno che stava arrivando eche mi regalava sempre molte gioie. Scesero prima i bambini e gli anziani, triste fineli attendeva; poi scesero gli altri. Io “ammassai” le donne non vedendo l'oral'indomani di vederle soffrire a terra. D'un tratto però, il mio sguardo incrociò quellodi una giovane donna che per un istante mi fissò. Persi il senso del tempo, tutto sifermò... c'era solo lei con me in quell'istante. Mi sentivo bene, come non lo ero maistato prima e un intenso ardore mi rapì nonostante il gelo invernale.Mi perdevo nei suoi occhi dal color dei prati primaverili e sapere che non avrebbe piùcorso spensierata a piedi nudi su quei manti smeraldo, mi pugnalava il cuore. Avreivoluto possederla più di ogni altra cosa; era così trascendente e divina da sembrare unangelo. Le mie labbra sulle sue e pian piano sarei asceso in paradiso fra le sue

candide braccia.Capelli lunghi e bruni, corpo esile e guance rosee, era perfetta e non avrei maidesiderato vederla fucilata da un misero tedesco come me. Ma un colpo di ventoriportò il mio pensiero alla realtà e il naufragare in quei dolci pensieri si affievolì finoa placarsi.Come ho potuto pensare tutto ciò di quella sgualdrina? Come mi son potuto infatuaredi una “bestia” come lei? Non avevo risposte, ero solo uno sciocco innamoratoperdutamente e con il desiderio di rivederla fortemente ancora.La sera, a lavoro finito, mi rifugiai nella baracca con la mia cara compagna di visioniirreali: la bottiglia di vino invecchiato sulla mia scrivania. Ne bevvi un sorso, poi due,tre... persi il conto rapidamente.Se non potevo averla realmente, volevo almeno che pensasse a ciò la miaimmaginazione. Io e lei, soli, in un'altra epoca; due amanti felici con una famiglia. Laragazza non poteva immaginare neanche la mia inquietudine; soffrivo, avevo pauraed ella rimaneva sempre fissa lì, nei miei pensieri.Pag. 2 di 4Questo terribile stato d'animo mi perseguitava e fra me pensavo che nessuno potessecommettere il peccato di uccidere tale principessa.Ero molto ansioso, non mi sentivo più le gambe. Perché proprio un' ebrea? Perché ame tale disgrazia?14 Febbraio 1944I giorni passavano lentamente, bevevo sempre di più e la mia anima logoratacontinuava ancora a distruggersi inutilmente.Quel pomeriggio avrei dovuto accompagnare le donne a smistare le valigie dei nuoviebrei giunti al campo. Con occhi vigili ed un comportamento ferreo e crudele, miostinavo a far aumentare loro il passo a mio avviso troppo lento e trasandato:parevano un branco di pecore. Arrivati a destinazione le guardai una ad unaschernendole con i miei compagni. Le fissai tutte e infine la vidi. Lei mi guardavasenza farsi notare, ormai mi amava; lo capii dalla luce splendente che aveva nei suoiocchi. Era la mia Beatrice ma il nostro amore era quasi impossibile. Mi eroinnamorato perdutamente seppure non conoscessi né lei, né il suo nome. Era unafanciulla bellissima nel fiore dei suoi anni, ma l' avverso destino di morte non ciavrebbe concesso di poter vivere il nostro amore. Il mondo continuava a girare ma iocrollavo nel ginepraio di paure di questo sentimento complicato.Erano passati solo dieci giorni e il suo corpo sempre più magro era quasi allo stremo.Chissà come saremo stati bene mangiando insieme davanti ad una tavola imbandita,le avrei potuto dare molto di più di quanto non abbia mai fatto, ma era nata ebrea equeste erano solo dolci fantasie irrealizzabili.D'improvviso mi ricordai della fetta di pane avanzato che avevo nella tasca della miadivisa e mi sovvenne di donargliela di nascosto, e così feci. Mentre riaccompagnavole donne alla loro capanna, mi avvicinai a lei furtivamente e silenziosamente glipassai il tozzo di pane. Lei lo nascose nella tasca della gonna e rimase scioccata,quasi timorosa che le potessi fare del male; penso che in fin dei conti non abbia maicapito il perché del mio buon gesto.La ragazza non aveva più i suoi capelli color della notte ed io quella sera li rividimentre ammiravo il cielo stellato.17 Febbraio 1944Mi ricorderò sempre questo giorno perché fu importante per confermare i miei valoried ideali.Il comandante mi espresse l'ordine di fucilare una ragazza che aveva rubato unamedicina dall'infermeria. Io ormai abituato, con fare quasi robotico preparai il fucile emi diressi verso il muro delle fucilazioni, che sovente mi aveva dato molte

soddisfazioni.Stavolta però, l'immagine che vidi non fu quella di una “bestia” ma di un piccolocerbiatto smarrito e indifeso. Era lei, la “causa” di quel mio intenso e travagliato statoPag. 3 di 4d'animo, che ormai mi soffocava da giorni. Iniziai a tremare e sudare, cosa che nonera mai successa prima in quell'occasione. I miei baffi biondi erano impregnati disudore, le guance dal bianco assunsero un colore rossastro e il mio sguardo tremante,incrociava il suo, come la prima volta che c'eravamo visti. Adesso però, i suoi occhiimploravano pietà. Avevo timore che, se non avessi adempito all'ordine prescrittomi,avrei disonorato la mia patria, il mio lavoro e il mio nome.Mi venne in mente di non sparargli; ma sarebbe stato giusto? Ormai non ero piùconvinto di amarla davvero. Il mio respiro si affannò mentre lei piangeva e la luce deisuoi occhi si spense di colpo. Io non feci trasparire nessuna emozione, ma dentro misentivo ardere, come la prima volta che la incontrai.Stavolta però era tutto diverso. Mi avvicinai alla ragazza senza mai guardarla negliocchi, alzai il fucile, misi il dito sul grilletto, mirai e sparai.La centrai in piena fronte, cadde a terra senza vita come le foglie in autunno.Lo meritava... il nostro non era amore e lei era solo un' animale, non era degna di me;perché avevo provato tutti quei sentimenti?Io non volevo morire per quella stupida ebrea; tutti i giorni convivevo con quelle“bestie”, con il loro disgustoso odore ed inoltre mi appagava molto la monotonia delcampo. Così non mi feci coinvolgere da una di loro, io ero il più forte, la nostra razzaè la più forte e li distruggeremo. Chiamatemi pure vile, ma io ancora oggi son certoche è stato meglio salvare me, l'onore e la Germania, che quella mediocre.Quel giorno ringraziai il mio collega sottotenente che, vedendomi in “leggera”difficoltà, mi sussurrò all'orecchio: “annientare una vita senza valore non comportaalcuna colpa”.

IL RIFUGIO NELLA CARTA DI SAVERIO CECCHIRACCONTO TERZO CLASSIFICATO ANNO SCOLASTICO 2016-2017

Una stanza chiusa, buia. Una matita e un foglio. L' unico suono che riecheggiava era losfregare della mina sulla carta, come il frinio delle cicale, ma più delicato, come secercasse di smuovere il cupo silenzio che avvolgeva la stanza e lui. Aveva una facciastanca e incavata, i suoi occhi erano due fessure tenute aperte dalla flebile luce dellalampada che era sul tavolo. La sua bocca disegnava un arco stretto e all'ingiù, come seprovasse disgusto per qualcosa che era nella stanza, o fuori, o dentro di lui.Nel complesso, Moore sembrava sul punto di crollare; era tenuto vivo solo dalla suamatita. La sua mano ossuta non sembrava in grado di adoperarla con tanta maestria, ma ifogli si riempivano, uno dopo l'altro, imprigionando dentro di loro pensieri, riflessioni, storie,ma tutto condito da una punta di malinconia. C'erano, però, anche dei momenti vuoti, nei quali Moore non riusciva ad imprimere nellacarta i suoi pensieri. Conosceva bene quei momenti; la sua testa era come un fiume inpiena, sgorgante di idee, ma quando posava la matita sul foglio, la sua mente si svuotavae la sua bocca si corrucciava in una silenziosa imprecazione; Il foglio rimanevatristemente vuoto.

Quella sera, o mattina (quando scriveva Moore non aveva una completa cognizione deltempo, stando anche giorni di fila a scrivere, nella sua stanza buia) aveva intenzione dicreare una storia diversa dal solito, come se la sua matita si fosse stancata di riempire lacarta di tristezza, voleva uscire dalla sua cupola. Ma la mano, abituata alla malinconia, eracome se si rifiutasse di scrivere, come se fosse lei lo scrittore, come se tutto Moore fosse

comandato da quella sua mano rugosa; era lei a gestire i pensieri, a disporliordinatamente sui quaderni, e lei non voleva quella storia. La testa di Moore, ormai inconflitto interno, era terribilmente confusa, ogni trama a cui pensava prendevairrimediabilmente una piega cupa come la sua stanza. Tentò a lungo di risolvere questoproblema, e alla fine dal mare di inquietudine nel quale si trovava immerso, spuntò unascialuppa; quella scialuppa si chiamava Shelly. Shelly era il completo contrario di Moore, ma nonostante questo, lui ci si rispecchiavaperfettamente. Se la immaginava bionda, sfarzosa, solare, ma non poteva fare a meno didescrivere il suo sguardo come pungente e profondo. La mina ballava sul foglio. Moor descrisse la sua casa, la sua famiglia, i suoi amici, ma stavolta senza malinconia,con ritrovata serenità, e anche la stanza sembrava più luminosa. Era come se lapersonalità chiusa e timida di Moore si sciogliesse in una storia, in un personaggioimmaginario, solo descrivendone il carattere, la famiglia, la semplicità. Ecco, è questa laparola giusta; la sua malinconia si diluiva in un bicchiere di semplicità.

Per Moore era molto semplice scrivere delle storie tristi; per lui era come guardarsi allospecchio, esprimere la sua solitudine e in qualche modo liberarsene, come se bastasseaccartocciarla e deporla in un angolino della stanza. Quel mondo gli apparteneva. Per ilracconto di Shelly era diverso; non gli apparteneva niente di lei, della sua famiglia, dei suoiamici, lei non aveva una stanza buia dove rinchiudersi e scrivere. Ma Moore continuava lastoria, lui era la storia. Si immergeva completamente in quel mondo nuovo e per un attimosi dimenticò della sua matita, dei suoi fogli, del suo mondo, e si assopì.

La mattina dopo fu svegliato dall'inserviente che era venuta a portargli la colazione. Moorela prese e scaccio la signora senza dire una parola. Notò poi che il terzo foglio su cuistava scrivendo la sera prima si era riempito, nonostante lui avesse scritto solo due paginee mezza. Leggendo, gli si sgranarono gli occhi e il cuore gli cominciò a battereall'impazzata. Il foglio era mezzo scritto a penna, con una tecnica di scritturacompletamente diversa dalla sua, sembrava quasi un diario. Inoltre, lui non usava lapenna per scrivere, e in fondo al foglio figurava un inquietante “ciao”. A quel punto il foglio cominciò a parlare; sulla carta si delinearono altre lettere, e Moore neseguì il disegno passandosi una mano fredda e tremante tra i capelli.“Ciao, chi sei?”. Moore urlò, ma nessuno venne; spesso urlava mentre scriveva, come perdare maggiore enfasi alle storie. Si fece coraggio, e il dialogo con la carta continuò :”Michiamo Moore... tu chi sei?”. Scriveva veloce, era spaventato.“Sono Shelly”. Il foglio ondeggiò leggermente.“Oh... bel nome...”. Non ci aveva mai saputo fare con le persone, anche da dietro unfoglio.Il dialogo continuò, ed ogni volta che Moore vedeva l' inchiostro espandersi sulla cartacreando domande e risposte, si tastava la faccia ossuta, come per controllare che nonfosse un sogno. Moore le raccontò chi era, chi non era, della sua vita e della sua stanza.Shelly fece lo stesso e anche se Moore la conosceva già, lasciò che il foglio parlasse,tanto era stupito da quella visione. La grafite si alternava all'inchiostro, creando unassurdo concerto di blu e grigio, di domande e risposte tra carta e uomo.“Ma non ti stanchi mai a stare sempre nella tua stanza?”. Scrisse Shelly. Quelle parolerisuonavano pungenti nella testa di Moore.“Fuori è difficile... pensa se mi venisse in mente qualcosa e io non potessi scriverlo...andrebbe perso, e nessuno potrebbe leggerlo”.Ma Shelly aveva smosso qualcosa; aveva fatto notare a Moore quanto fosse vuota la suavita prima di allora. E ora che ci pensava bene, Moore non stava scrivendo quello cheprovava in quel momento, nonostante ci fossero pagine e pagine da riempire, nessunopoteva saperlo; ma stranamente si sentiva bene.

“Perché non vieni a vivere da me? Siamo tanti in famiglia, non daresti fastidio”.“Ma è impossibile!” sulla guancia di Moore discese una lacrima, perché alla fine lui volevadavvero abbandonare la sua stanza. Shally gli aveva aperto gli occhi.A quel punto Moore appoggio una mano sul foglio per alzarsi, ma sotto il foglio non c'eraniente; la sua mano iniziò a sprofondare nella carta.All'inizio si spaventò, ma poi capì; non avrebbe mai più visto la sua stanza, quella tetrastanza che lo teneva intrappolato già da troppo tempo. Si lasciò trasportare dal foglio,dall'inchiostro, fino a diventarne parte, pensando che finalmente diverrà lui stesso tutte lenuove storie che scriverà. Poi il foglio tornò ad essere un semplice e fantastico pezzo dicarta.

La sera la signora che si occupava della pulizia delle stanze non trovò Moore nella sua;trovò solamente un ammasso di fogli accartocciati sul tavolo e una lettera.“Cara signora, la ringrazio di essersi presa cura di me per tutti questi anni. Scrivo questalettera per avvertirla che da adesso vivo nella carta, nei fogli, nella grafite e nell'inchiostro,e in tutte le emozioni che possono suscitare. Un saluto, D.K.Moore”.

UNA BOTTIGLIA DI SANGUE DI ELENA BALDIRACCONTO MENZIONATO CON MERITO ANNO SCOLASTICO 2016-2017

Sono rintanata sotto le coperte, e non voglio uscire. Quello che sento dentro è una sorta difusione fra la nausea e il pianto, ma ormai c’ho fatto il callo. Penso di dovergli dare unnome; Tiziana lo dice sempre. Angoscia, potrebbe andare. No. Troppo poco, troppo facile,troppo uguale a sempre. Inquietudine, è la definizione giusta.Stamani non voglio andare a scuola, e la mamma sa benissimo perché. Ma mi accarezza,e mi dice che devo affrontare con coraggio anche le giornate più dure.È probabilmente quello il momento in cui le vomito addosso.Un’ora dopo sono a scuola, stipata in quel banchino così piccolo per me. Suona lacampanella. Un groppo mi sale in gola, e cerco di farlo tornare giù, ma niente. Vomito dinuovo, in mezzo alle risate di tutti.È da un po’ di tempo che ho trovato questo modo di espellere le emozioni negative. Direiche funziona, ma non fa altro che crearne delle nuove. Dover pulire il mio vomito conl’aiuto di una bidella, per esempio, è imbarazzante. Dicono che se continuo così arriveràun momento in cui dovrò pulire io, da sola. Le bidelle si sono stancate del puzzo del miovomito. Anche loro si sono stancate di me.Il professore entra. Ed ecco che un nuovo incubo comincia.Ci mettiamo in fila a coppie per uscire dall’aula. Io sono in fila con Clove, la ragazzaaustraliana con i problemi. Mi dà la mano, ma io la rifiuto. Ci mancherebbe altro che mivedessero per mano con lei. Perciò non faccio altro che camminarle accanto, in silenzio,come se né io né lei esistessimo.La porta degli spogliatoi è come sempre spalancata. Entriamo, e io mi metto nel mio solitoangolino. Tutte le altre parlottano fra loro, mentre io respiro profondamente, per evitareche le lacrime travasino. Sto pensando alla mamma, e a tutte le persone che mi hannovoluto bene. Ovviamente c’è il mio cane, Achille. E il mio gatto, Gandalf. Un pensiero vaanche a Roberta. D’istinto corro in bagno, perché sento che le palpebre si stannoinumidendo. Mi siedo sul gabinetto chiuso, e mi gusto il sapore salato delle lacrime. Mi èsempre piaciuto il sapore delle lacrime. Poi mi alzo, e guardo la mia immagine riflessanello specchio lercio accanto al lavandino. Decido che mi cambierò in bagno, finché i taglinuovi non si saranno cicatrizzati. Io non sono come le altre autolesioniste. Io non mi tagliosolo per sentirmi viva. Mi taglio perché faccio schifo. Il mio corpo fa schifo.

Esco, prendo i vestiti e torno in bagno. Vedo Roberta che mi guarda e poi sorride aJasmine. Stronza. Tutti stronzi. Ma lei di più. Vestita con leggins neri e maglietta nera esco dallo spogliatoio e entro in palestra.Dobbiamo fare quindici giri di campo, ma io riesco a farne solo tre, per poi fermarmi arespirare, prima di ripartire. Dopo dieci giri sono morta, perciò mi siedo sulla panchina. Inteoria dovrebbe farmi bene correre. Per sgombrare la mente dai pensieri negativi, o non ècosì che dice Tiziana? Tiziana è la mia pranoterapeuta. Vado da lei e non da unopsicologo perché la mamma è per i rimedi alternativi. Ma mi sembra di essere giàabbastanza diversa. Non c’è mica bisogno di frequentare un pranoterapeuta. Lei pensasolo alla parte mentale della mia salute. È per questo che non si rende conto che io nonposso correre. La fatica che duro è immensa. In più tutto il mio corpo ballonzola come unagelatina durante un terremoto, e non è una bella sensazione. Riesco a sentire quel che èrimasto dei muscoli contrarsi, ma senza un gran risultato. Gli chiedo troppo. Spostare tuttaquesta massa di roba deve essere asfissiante per loro. Scusate muscoli.Mi si siede accanto Luca, e respira in silenzio per un po’. Poi, prima di alzarsi, mi guarda emi chiede se voglia una mano per alzarmi e riiniziare a correre. «Se non ti dispiace peròchiederei una mano a Ricky, sai…» aggiunge dopo. Dà il cinque sghignazzando a uno chepassa, e se ne va. Luca è quello che se la tira più di tutti, e le ragazze gli vanno dietrocome cagnolini. Ma non se ne rendono conto?, di quanto sia vuoto?Se c’è una cosa che può essere definita “vantaggio” nella posizione in cui sono io, è chevedo tutto. Nessuno mi parla mai, quindi ho tutto il tempo che voglio di osservare. Mipiace, osservare. E, veramente, loro non hanno idea di quanto sembrino dei cani. Unavolta, sotto la doccia, ho pensato di prenderle in giro, per il loro modo di fare le cagne. Mapoi ho pensato che mi avrebbero risposto, e probabilmente io avrei pianto o vomitato. Appoggio una guancia su una mano, e penso un po’. Quando mi volto, il postoprecedentemente occupato da Luca è stato conquistato da Clove. Anche lei mi guarda, eci osserviamo a vicenda per un lasso di tempo che mi sembra un secondo, maprobabilmente non lo è. Poi lei mi abbraccia, e dalla sua bocca un po’ bavosa esce unsussurro. Clove non parla italiano, quindi quello che dice suona come:«Take a breath. And don’t think about him. Don’t think about someone you don’t care.Just… breathe». Me la cavo in inglese, perciò seguo le sue istruzioni, respiro e penso aqualcos’altro. Non ha mai parlato. E ciò che ha detto… era così profondo, per una chedeve girare con il fazzolettino in tasca per pulirsi la bava. La stringo un po’ e poi lascio. Miricordo che siamo ancora sulla panchina della palestra quando tutti hanno già visto estanno ridacchiando fra loro. A quel punto mi metto in cerchio con gli altri per lo stretching.Mi sento piena. È una sensazione bellissima. Non ho più un buco nello stomaco, o unavoragine che mi spacca a metà dallo sterno al mento. E provo la stessa sensazione pertutto il giorno, anche tornando a casa. La mamma oggi è tornata presto dal lavoro, e mi ha fatto la pasta con il ragù. È la solitaporzione di sempre, ma oggi mi sembra tantissima, perciò ne lascio un terzo nel piatto. Lamamma si preoccupa, e mi chiede se c’è qualcosa che non va. Il suo tono quasiangosciato mi irrita. «Quanto ho mangiato? Un etto di pasta? Senza contare il ragù.Mamma, la gente normale non arriva nemmeno a mangiare questo. E di solito io ingeriscomolto di più, tutto quello che posso trovare per riempire questo vuoto. Ma è un’illusione. Ilvuoto non si può riempire. Ma preferisco vivere pensando di averci provato, a colmarlo. El’unica cosa che mi viene in mente per farlo è il cibo. Perciò dovresti essere contenta, semangio un po’ meno. O sbaglio?». Scuoto il piatto nel cestino e corro in camera mia, sottole coperte. Dove mi sveglierò domani, colma d’angoscia.Prima di andare a scuola saluto la mamma con un bacio sulla guancia, e salutomentalmente il babbo. Chissà dov’è, ora. Accanto alla sua foto ce n’è una mia, insieme aRoberta. Esco di casa, e non smetto di pensare a quella foto finché non arrivo a scuola. Èdi due anni fa, ma era tutto così diverso. Alle elementari non gliene importava niente a

nessuno se eri grasso o alto o basso o brutto. Io e Roberta eravamo inseparabili.Facevamo anche delle battutine sul mio peso, e ridevo anche io. Ma poi siamo entrati alle medie, e tutto è cambiato. La cicciona andava scansata.Guardata come se avesse la lebbra. Roberta mi è sempre rimasta accanto, fino a un certogiorno di marzo. Eravamo andate e prendere un gelato in piazza, e stavamo tornando acasa. Dall’angolo della casa davanti a noi sono spuntate Letizia e Jasmine. Hanno iniziatoad offendermi, e io non sapevo come reagire, perciò ho chiesto a Roberta di darmi unamano, di suggerirmi qualcosa. «Perché dovrei?», aveva risposto lei. «Sei solo una bruttacicciona, nessuno ti vuole».Basta. La scuola è davanti a me e non voglio apparire sull’orlo, pronta per cadere di facciain un’altra crisi di vomito. La lezione della prima ora si svolge regolare. Qualche battutina,ma poi silenzio. Idem la seconda e la terza ora. Suona la campanella della ricreazione, eio chiedo di andare in bagno; probabilmente la prof pensa che voglia vomitare, perchésembra piuttosto ansiosa di mandarmi via.Non devo vomitare, solo fare la pipì. Come la gente normale. Ma poi mi ricordo che io non sono normale, e capisco la prof.Per le scale c’è il gruppetto dei ragazzi “diversi” che sta salendo. Hanno passato due delletre ore di stamani in aula di ceramica, e adesso stanno trasportando i loro capolavori nellastanzina dove li fanno asciugare di solito. Fra loro c’è Clove, che appena mi vede misorride. Dalla sua bocca pende un rigagnolo di saliva, che si stacca e cade sul pavimentolucido delle scale. Non posso fare a meno di arricciare il naso. Poi scopro che mi stomuovendo. Sto camminando verso lei e a un certo punto la mia mano si infila nella tascadella sua felpa, per cercare un fazzoletto. Trovato. Lo porto al suo mento e ce lo struscio,fino ad arrivare alle labbra. «Ecco, ora chiudi la bocca», dico sorridendo. In risposta lei laapre e emette un suono particolare, che io interpreto come una risata. «Sì, brava», mi urlauna voce dal pianerottolo. «Pulisci la bava all’australiana. Ah ah, perché non vai con loro,con i ragazzi speciali? È il giusto posto per una come te. Mi sbaglio, amico?» domanda,rifilando una gomitatina a Luca. Ricky ride ancora, e insieme se ne vanno. Di nuovo i mieipiedi partono senza che io gli abbia detto di farlo, e finisco nella mensa delle elementari,che è al piano di sotto. Le bidelle ora non ci sono, perciò posso fare quello che mi pare.Prendo un coltello, e mi avvio verso la palestra.

Il materasso blu è caldo e molto morbido. Forse non è così caldo, forse la sensazione dicaldo è dovuta al sangue che sembrava non vedesse l’ora di uscire dalla mia grossapancia. Non sento un gran male. Sento dei passi strascicati fuori dalla porta. Che sfiga,magari qualcuno mi trova e fanno in tempo a salvarmi. La maniglia viene spinta e la portasi spalanca. È Clove. Cammina lentamente verso di me, e mi si sdraia accanto. Poi la suamano si appoggia sulla mia, e scivola fino al coltello. Sento un suono strano provenire dadietro, dove penso che ci sia la sua testa. Poi, silenzio. Adesso ho capito perché mi prendevano sempre in giro. Perché ero sola. E loro eranotanti. Ma ora siamo una squadra, un team. Ora siamo inv…Ora più nessun dolore, nessun’angoscia. Solo il leggero sussurro delle spighe di granoche frusciano invade le mie orecchie. È come sentire il respiro della terra, che è pronta adaccogliere i nostri corpi, come se li avesse aspettati da una vita.I nostri corpi, come bottiglie svuotate dell’acqua che contenevano. Le persone non sonomai riuscite a vedere altro che le bottiglie. Non hanno mai avuto la curiosità di guardarecosa contenevamo. Acqua? Vino?E l’unica cosa di cui si accorgerà chi ci troverà è che eravamo piene di sangue.

UN'INVESTIGATRICE DA SOGNO DI BENEDETTA MARINIRACCONTO MENZIONATO CON MERITO ANNO SCOLASTICO 2016-2017

Il sole era già tramontato da un’oretta e l’inquietudine della notte stava calando quando l’ ispettrice Martha Mistery, seduta alla sua scrivania, stava lavorando ad un caso molto importante: il rapimento del Sindaco di Erice.Era questo il motivo che l’aveva portata ad allontanarsi dall’Inghilterra e trasferirsi per un breve tempo nel piccolo borgo siciliano.Ma perché proprio un’ ispettrice inglese se il caso era avvenuto in Italia?La signora Mistery era il detective più famoso d’ Inghilterra e la sua fama si era diffusa da tempo in lungo e in largo per via della sua singolare capacità di risolvere i casi nel sonno; questo però avveniva solamente se si trovava vicino al luogo del delitto.Il nuovo caso a lei affidato stava tormentando la Polizia siciliana che non riusciva a capire chi fosse il colpevole, il motivo del rapimento ma soprattutto dove si trovasse l’amato Sindaco.Questi era un uomo solare e gioviale con tutti. Era scomparso improvvisamente in una bellissima giornata di Agosto mentre si dirigeva verso il Comune che non raggiunse mai.I cittadini non riuscivano a capire il perché del suo rapimento…eppure tutti in paese lo adoravano e la cosa era reciproca.Chiunque lo avesse rapito che motivi aveva? Voleva dei soldi? Era geloso della sua fama?Voleva vendicarsi?… insomma in città tutti iniziarono a formulare mille domande alle quali nessuno sapeva rispondere.Tutta la fiducia era riposta sull’investigatrice, anche se era molto difficile fidarsi di una donna così riservata, introversa, misteriosa.Al suo arrivo Mistery aveva espresso chiaramente le sue intenzioni: voleva stare da sola, perché secondo la sua esperienza l’ unico modo per concentrarsi era chiudersi in se stessi.Quella sera Martha stette a lungo concentrata sulle informazioni raccolte senza però arrivare a nessuna intuizione, nonostante ciò era sicura che la notte le avrebbe portato consiglio.Senza nemmeno accorgersene appoggiò la testa sulla scrivania, ed entrò nel suo magico mondo…stava camminando sulla sabbia calda a piedi nudi mentre la brezza leggera le scompigliava i capelli dandole un senso di benessere. L’ unico rumore che si percepiva era quello delle onde.Poco lontano un mucchio di oggetti scintillanti catturò la sua attenzione, e solo avvicinandosi capì cosa fosse: un’ enorme ammasso di bottiglie di vetro colorato.Stava per avvicinarsi quando improvvisamente si svegliò di soprassalto chiedendosi che senso avesse il sogno che aveva appena fatto.La notte successiva il sogno sembrava ripresentarsi identico alla notte precedente, se non fosse per il fatto che le bottiglie erano scomparse e per un tratto della spiaggia erano sparse scatolette di tonno consumato...ma cosa poteva significare tutto ciò?Perseguitata da innumerevoli dubbi, il giorno seguente la signorina Mistery pensò che fosse arrivato il momento di chiedere un aiuto, così decise di recarsi in paese e raccontareagli anziani di Erice ciò che aveva sognato nelle notti precedenti e chiedere loro se avessero potuto aiutarla a far luce in questi pensieri confusi.Partì di buon mattino attraversando le stradine tortuose che guardavano il mare. Era un piacere passeggiare con il venticello che oltre a rinfrescarla, portava con sé un miscuglio di odori provenienti dai numerosi forni e pasticcerie.Dopo una lunga camminata per il paese, la signora Mistery raggiunse la piazza centrale dove, riuniti in piccoli gruppetti, erano radunati gli anziani che discutevano dei fatti più interessanti accaduti in quei giorni.Il rumore dei tacchi di Martha fece zittire tutti finché la piazza cominciò a riempirsi di bisbiglii e occhiate curiose; aspettavano questo momento da molto tempo...non vedevano l’ora di poter aiutare in qualche modo la signorina Mistery a risolvere il caso dell’anno come in un vero e proprio giallo.

L’ispettrice iniziò a raccontar loro dello strano sogno, della luce abbagliante del mucchio divetri e delle scatolette di tonno sparse per tutta la spiaggia...cosa significava tutto ciò?Tutti iniziarono a scambiarsi sguardi perplessi senza però riuscire a dare alcuna risposta all’ispettrice, finché il vecchio Tony con voce fioca provò a fare un’ ipotesi, collegando il tonno ad un’isoletta lì vicina, Favignana, molto famosa per la pesca di quel tipo di pesce.L’ipotesi appena formulata fece riflettere tutti i presenti che subito pensarono alla vecchia fabbrica che un tempo produceva bottiglie proprio a Favignana.Adesso che tutto sembrava avere un senso, l’ ispettrice, certa di avvicinarsi sempre di più alla verità, ringraziò chi l’ aveva aiutata e si diresse verso la Polizia per informarla di tutto l’accaduto.Molto soddisfatti di come stesse procedendo l’indagine, i poliziotti organizzarono per l’indomani la spedizione alla fabbrica, fiduciosi di poter riavere fra loro l’amato Sindaco.Il giorno seguente, l’ispettrice, accompagnata dai poliziotti raggiunse Favignana.Nonostante numerose difficoltà riuscirono a raggiungere la fabbrica, dove trovarono il povero Sindaco, il quale rinchiuso in uno sgabuzzino, aveva vissuto quei giorni scrivendo lettere su come era la vita in quel posto e su come fosse difficile resistere... mangiando solamente una scatoletta di tonno e bevendo una bottiglia d’ acqua al giorno.Tutto il paese ringraziò Martha invitandola a tornare da loro, questa volta però in vacanza.

IL FREDDO DELLA GUERRA DI ERICA VIGNATIRACCONTO MENZIONATO CON MERITO ANNO SCOLASTICO 2016-2017

Era l'ottobre del 1942 , mi trovavo in Russia insieme al resto dell'esercito italiano chediminuiva sempre di più: morivamo di freddo, morivamo di fame, ma lottavamougualmente.Ci nascondevamo circondati da metri e metri di neve tanto che anche il fiume, chescorreva limitrofo al nostro appostamento, era diventato un enorme letto di ghiaccio. Ad untratto non so come successe, persi i sensi e mi ritrovai dentro il vagone di un treno.Mi svegliai nel sentire la voce dei miei commilitoni:-"Antonio, Antonio... sveglia! Siamoprigionieri."-Aprii gli occhi e non dissi nulla, mi guardai intorno, era tutto buio; c'era solo un po' di luceche entrava da una piccola fessura posta in alto e un silenzio penetrante: nessuno avevapiù voglia di parlare, eravamo senza forze, ci sentivamo sconfitti.Ci guardavamo gli uni con gli altri, con i nostri occhi pieni di inquietudine per le immaginiche per sempre rimarranno impresse, come cicatrici, sulla nostra pelle.Lungo il tragitto pensai alla mia famiglia e a quanto mi mancava trascorrere le domenichecon loro.Ricordo com’era bello entrare in casa con l'odore della minestra di mia nonna indaffaratain cucina, mia madre che sgridava il mio piccolo fratellino che ora è costretto a vivere inmiseria e lavorare nei campi per mantenere la famiglia: tutti lavori e doveri troppo duri perun bambino di otto anni.Al confronto, mi sentivo più fortunato, perché almeno avevo vissuto la mia infanzia inmodo più tranquillo e sereno e rimpiangevo quei giorni; mentre mio fratello non potrà mairaccontare ai suoi futuri figli della sua infanzia senza un magone in gola.Mi mancavano anche le squallide battute di mio padre e il nonno che invece raccontava lesue avventure nell'esercito: seduto sulla sua poltrona davanti al fuoco con accanto la suabottiglia di rum preferito.Quanto volevo bene a mio nonno, per me era come un eroe, ma anche i più forti prima opoi si spengono.Purtroppo, non ho potuto salutarlo, passare con lui i suoi ultimi giorni e sentire il suo ultimorespiro, ma resterà per sempre vivo nel mio cuore e continuerò a combattere in nome

dell’Italia, proprio come aveva fatto lui nella prima guerra mondiale.Mi iniziò a girare la testa, forse a causa della stanchezza o forse della brutta contusioneche avevo preso poco prima: in quel momento ci voleva proprio zia Ludovica, o Ludocome ero abituato a chiamarla io.Zia Ludo era una persona molto vivace, aperta, socievole e radiosa.Si sposò a soli diciotto anni. I miei nonni materni gli organizzarono un matrimoniocombinato con un anziano, ricco, signore indiano.Lei amava il suo paese, ma anche i suoi genitori: così decise di accontentarli e partì per lalontana India.Dopo dieci anni di matrimonio ella divenne vedova e così tornò nella sua amata terra.Venne a vivere a casa nostra, dove si prese cura di me e delle faccende domestiche pernove mesi, mentre mia madre aveva in grembo il mio fratellino.Mi ricordo che con lei non mi comportavo benissimo e proprio per questo, visto che erosempre stato un bambino maldestro, mi capitava spesso di cadere e farmi male.Lei però non si preoccupava, come faceva mia madre, veniva con tranquillità verso di me,poggiava le sue mani sulla ferita ed essa "magicamente" non faceva più male.Lei mi raccontava che aveva imparato questa "magia" in India ed era diventata così bravache tutti volevano farsi curare da lei. Era veramente un’ottima pranoterapeuta.Purtroppo non ho potuto salutare neanche lei; questa volta però non è stata la vecchiaia aportarla via, ma una brutta malattia.La cosa che mi rattrista di più è il fatto di non essere stato lì a consolare mia madre cheamava sua sorella più di se stessa.La frenata del treno mi distolse dai miei profondi pensieri e il trambusto che ci fu nelvagone, mi fece tornare alla dura realtà.Erano le cinque del mattino quando ci ritrovammo di fronte al cancello del campo, ilbenvenuto che ci diedero fu quello di vedere un carro pieno di morti rovesciati in un fosso.Molti rimasero paralizzati dall'orrore delle scena, altri scoppiarono a piangere ancora primadi ricevere le torture a cui ci avrebbero sottoposto. Io non provai nessuna emozione, perme ormai niente poteva più scandalizzarmi, perché ero arrivato alla conclusione che se gliesseri umani potevano scatenare una guerra del genere avrebbero avuto il coraggio difare qualunque malvagità.Entrammo in una stanza squallida e maleodorante. Per prima cosa ci sequestrarono tutto,anche le uniche divise che indossavamo. Eravamo circondati da tutti i nostri nemici :c'erano russi, francesi e serbi; eravamo in trappola.Ci portarono nelle docce: l'acqua era gelata, anche se c'eravamo quasi abituati al durofreddo russo, molto simile a quello proveniente dall'Antartide.Successivamente, arrivarono i barbieri con delle macchinette malfunzionanti che, invece ditagliare i capelli, spesso li strappavano.C'erano uomini che, sanguinanti, piangevano dal dolore; per fortuna avevo i capelli giàmolto corti, così non poterono farmi niente. Invece , almio povero amico Giorgio, andò peggio: sanguinava e piangeva dal dolore deldisinfettante che gli misero in seguito sulle ferite.Giorgio fu uno dei pochi soldati che restò con me fino alla fine: prima avevamo formato unbel gruppo di amici e ci tenevamo compagnia a vicenda; dopo, purtroppo, anche la nostraamicizia ci venne strappata via dalla guerra.

IL SEGRETO DELLA FELICITA’ DI BIANCA ABBRIRACCONTO MENZIONATO CON MERITO ANNO SCOLASTICO 2016-2017

Amazzonia, 14 maggio 2017

Rapporto della spedizione:

Sono l’agente Shila Edwiss; in questo momento mi trovo accanto ai resti dell’aereo precipitato ieri notte. Sono l’unica sopravvissuta di tutti i miei compagni: Mary, James e Beky non ce l’hanno fatta. La tempesta era troppo forte per noi, ma ,non so come, io mi sono salvata. Piangerò tristi lacrime sui cadaveri dei miei defunti compagni con la speranza che il Signore mi aiuti. Fra una settimana devo essere nel villaggio di Costera Blanca, in Brasile,per poi incontrare un contatto che mi darà le informazioni di cui ho bisogno per andare nel luogo dove troverò informazioni per lo scopo della missione, ma non so nemmeno in che diamine di parte della foresta sono. Spero vivamente che la leggendaria tribù degli Hankher non mi scopra o, almeno, che non sia in vena omicida (sempre che esista). Ora mi accampo tenendo con me un coltello, non voglio essere impreparata ai pericoli. Amazzonia, 15 maggio 2017

Sono le sei del mattino. Stanotte non ho chiuso occhio: ho sentito voci, fruscii, occhi puntati su di me. Penso che mi abbiano scoperta: la tribù esiste ed ho paura che possa farmi del male. Ora proseguo il viaggio verso… Non lo so più.Ora sono le quattro di pomeriggio. Gli Hankher mi hanno presa, ma non mi hanno fatto male, mi hanno solo chiusa in una tenda sorvegliata da guardie armate di lancia. Ora mi stanno venendo a prendere. Non nego di aver paura. Amazzonia, 16 maggio 2017

Ieri sera gli Hankher, dopo avermi trattenuta cinque giorni, mi hanno chiesto cosa ci facevonel loro territorio. Ho detto loro ciò che mi era capitato e sono riuscita a convincerli del fatto che dicevo il vero. Ho chiesto aiuto al loro capo, Muitraka, ma non lo vedevo convinto, solo grazie a sua figlia Sinkaha mi ha aiutata dicendomi che per trovare il villaggio dove sono diretta devo seguire il corso del Rio delle Amazzoni. Mi hanno guidata verso il fiume e da lì io ho proseguito il mio tragitto. Gli devo molto; anche perché, grazie aloro, ho imparato usi e tradizioni di questo posto ed ho anche iniziato a rendermi conto di quanto sia bella la natura...Bando alle ciance, questo è il diario di una missione, non è un diario personale. Qui devo annotare lo svolgimento del mio compito. Cosa mi salta in mente di scriverci cose così dolci! Alla gente sarà utile la mia scoperta, non i miei sentimenti. In questo preciso istante mi trovo di fronte al corso del fiume più bello che ho mai visto: è da poco spuntato il sole ed io mi sono trovata a guardare un cielo rosato che si rifletteva sull’acqua in tutta la sua perfezione, piccole libellule che si libravano nell’aria ed un dolce canto di uccellini che era trasportato dal vento, lo stesso vento che faceva dolcemente ondeggiare le canne in riva al fiume. Mai avrei pensato di poter vedere un cosìbello spettacolo. Vorrei non andarmene mai. L’ho fatto di nuovo! Devo concentrarmi sulla spedizione e non devo lasciarmi trasportare dai sentimenti, ho una missione da portare a termine e non mi tirerò indietro proprio ora! Amazzonia, 17 maggio 2017

Il viaggio prosegue lento… L’unico modo è attraversare il fiume a nuoto o in barca, anche per essere sicura di non perderlo mai di vista se passo in un tratto di selva troppo distante dalla riva. Ho deciso! Se il fiume deve guidarmi allora io viaggerò con lui su di una zattera. La corrente è forte e veloce, mi farà arrivare in meno tempo, ed, in più, non farò altro che seguirne il corso. Mi metto subito a lavoro. Costera Blanca arrivo!

Costera Blanca, 18 maggio 2017

Sono arrivata in Costera Blanca. La città è meravigliosa! Dolci case si affiancano, le donneportano ceste con ogni genere di delizia, i bambini giocano allegri a calcio sulla morbida spiaggia accarezzata dalle onde dell’acqua più cristallina che io abbia mai visto. AAAAAH!!!!! Non dovrei scrivere di questo! Devo solo informare sulla missione. Domani incontrerò il mio contatto, Gerald Matthews. Lui mi dirà ciò che ha scoperto sulle incisioni di una tavola rinvenuta in un antico tempio dei Maya. Presto scopriremo cosa c’è in Antartide che può dare una mano alle ricerche scientifiche.

Costera Blanca, 19 maggio 2017

Ho incontrato il signor Gerald. Mi ha detto che sulla tavola c’era scritto:“Vai al Tempio della Luce, lì troverai la via”. Non sapevo cosa volesse dire, allora Gerald mi ha affiancato il suo assistente spagnolo Francisco Gonzales. Dice che sa tutto sulla cultura Maya e che quindi mi sarebbe stato molto utile nella missione. Dopo aver pensato un po’, Francisco mi ha detto che il Tempio della Luce cui si riferisce l’incisione è una scalinata dove i Maya celebravano le nozze dei loro re e lo chiamavano così perché speravano che da quella unione sarebbe nato un erede sano che avrebbe portato luce e prosperità alla loro civiltà. Tra poco ci incammineremo verso il tempio. Devo dire che Francisco è un ragazzo molto sveglio e simpatico, è intelligente ed anche piuttosto carino, capelli castani, occhi neri e profondi un sorriso che… PERCHEEEE’?!?!?! Mi prometto sempre di non parlare dei miei sentimenti ed invece finisco sempre per parlarne, comunque spero di non essermi innamorata di lui, non sarebbe affatto professionale Costera Blanca, 20 maggio 2017

Siamo andati al tempio ed abbiamo trovato un altarino con un’antica incisione. Doveva essere una scritta Maya di sicuro, ma nemmeno Francisco ha saputo decifrarla, o meglio, ha decifrato solo la parola Terra del Nord, cioè l’Antartide. Ho fatto una foto alla scritta e l’ho mandata al professore. Ha detto che c’è sul serio la parola Antartide, ma non sa cosa dice il resto della tavoletta. Ma dato che siamo in anticipo con tutta la missione andremo inAntartide per trovarci già preparati. Oggi al tempio Francisco mi ha sorpresa. Non avrà tradotto molto, ma è già qualcosa. Se sappiamo dove andare è solo grazie a lui; è un ragazzo d’oro. Mi piace molto… No no no no no, noooooo.DOBBIAMO mantenere un rapporto PROFESSIONALE!!!!! Anche se sarà dura per me. Non so cosa mi succede. Devo pensare solo alla missione, ma non ci riesco. Non so se mipiace. Ma tanto, una volta finita quest’avventura, non ci vedremo più, quindi meglio non pensare più a lui ora.

Antartide, 25 maggio 2017

Siamo arrivati in Antartide… NON C’E’ NIENTE! Solo ghiaccio ghiaccio ghiaccio e ancora ghiaccio! Mi hanno dato le coordinate e la mia posizione è corretta. Non capisco. Sta calando la notte. Il cielo è… stupendo. Le stelle brillano nella volta celeste, le costellazioni sembrano muoversi con tanta di quella grazia… Ma la cosa più bella è: l’ Aurora Boreale! Uno spettacolo di colori intenso tanto da riuscire a penetrarti nell’anima facendoti sentire inpace con il mondo. Antartide,26 maggio 2017

Ieri sera, senza accorgermene, ho preso per mano Francisco mentre guardavamo il magnifico spettacolo nel cielo. Ci siamo guardati negli occhi e abbiamo continuato a

guardare lo spettacolo. Dato che non abbiamo trovato niente qui annoterò solo i miei sentimenti, mentre il rapporto della missione lo stamperò a casa. Io e Francisco non siamofidanzati, siamo solo amici e colleghi di lavoro. Abbiamo deciso di continuare a lavorare insieme: siamo troppo simili per essere più che amici.Cinque del pomeriggioAbbiamo ricevuto la traduzione dell’incisione. Era un’antica profezia che diceva:“Dal tempio vola nella Terra del Nord, ammira lo spettacolo. Ripensa a ciò che hai visto mentre passavi per la foresta. Esprimilo senza timore. Questo viaggio servirà ad ammorbidire il cuore di voi persone future, divenute aride e avendo quasi del tutto dimenticato certi sentimenti. Dovrete aprire il vostro cuore passo dopo passo, senza badare a ciò che gli altri diranno di voi; solo così riuscirete a capire il valore della vita ed il segreto della felicità.”Alla fine, non dovevo smettere di scrivere le bellezze che vedevo, la missione serviva appunto a farci esprimere ciò che ci avevamo provato durante questo incredibile viaggio. Ecco cosa è utile per salvare l’umanità: aiutare a capire che non dobbiamo tenerci tutto dentro, solo esprimendo ciò che proviamo riusciremo a scoprire il vero segreto della felicità. Nelle prossime missioni scriverò pure ciò che sento.

HYDNI ON-LINE DI AURORA GRASSIRACCONTO MENZIONATO CON MERITO ANNO SCOLASTICO 2016-2017

18/6/2022 Ore:16:45Esce il nuovo MMORPG Hydni on-line in realtá virtuale. In Europa non ne sono mai stati inventati perchè la maggior parte sono di origine americana e Giapponese.Ho 19 anni e mi chiamo Andrea, mio fratello si chiama Noah e ne ha 22. Siamo due dei 1000 beta-tester del gioco.Per chi non lo sapesse, i beta-tester sono le persone che vengono invitate a giocare la demo del gioco. Hydni on-line non è un normale gioco di realtà virtuale: durante tutta l’avventura i partecipanti vengono messi in coma farmacologico. Nessun rischio però: i giocatori vengono monitorati da un’eccellente equipe medica che esegue esami del sangue, controlla i battiti cardiaci e studia ciò che il gioco provoca sulla mente umana. Sono 10 gli ospedali austriaci attrezzati per l’esperimento.Non abbiamo avuto il permesso dei nostri genitori ma siamo maggiorenni e abbiamo potuto firmare da soli le decine di pagine per il consenso al trattamento dei nostri dati personali. Mi portano all'ospedale di Skin Fellenz dove vengo fatta sedere vicino a mio fratello e ad una ragazza che continua a fissarmi: occhi azzurri che ricordano il cielo, capelli rossi acceso.Arrivano due infermiere, mi attaccano una flebo al braccio e gli elettrodi al petto. L’ansia sale."Attenzione: ogni giocatore è invitato ad indossare il proprio sistema per la realtá virtuale, grazie. Attenzione: ogni giocatore è invitato ad indossare il proprio sistema per la realtá virtuale, grazie".Emozionata, con il cuore in gola, indosso il mio dispositivo: è un casco grigio metallo a cui sono attaccati degli occhiali blu.Appena chiudo gli occhi il gioco si attiva: ID AndRe19Account corretto.Password Luce

Password corretta.Seleziono START.Il gioco a ben 3 biomi: medievale, fantasy e futuristico.Mi trovo a Death Gun, la cittá del bioma futuristico.Mi specchio in una vetrina che trovo di fronte: capelli corti neri, occhi verdi altezza circa 1.70.Bene, sono io. Devo procurarmi un’arma e trovare mio fratello . Inizio a correre verso il centro della città. Appena arrivo, un gruppo di persone cattura la mia attenzione: stanno cercando di vincereun gioco con in palio dei soldi. Ci proverò pure io, così accumulerò punti esperienza e avròil denaro per comprarmi un’arma. Mi metto in coda. Mi accorgo solo dopo che a giocare c'è anche la ragazza che è sdraiata vicino a me in ospedale. È veloce, ma non riesce a schivare un ultimo proiettile e perde il gioco. Non so perché ma vorrei conoscerla. Vedo che sta per andare via e la fermo. "Ci siamo viste prima in ospedale. Fermati un attimo qui, aspettami. Alle presentazioni ci pensiamo dopo " le dico e inizio a giocare. Ci sono bene 22000 euro in palio. Devo vincere assolutamente. Inizio a schivare ogni proiettile sparato dal manichino e riesco ad arrivare vicino. Un proiettile mi sfiora il viso. Mi abbasso in tempo fino ad arrivare a premere il bottone della fine.Ho vinto!! La ragazza mi fissa,stupita e viene verso di me."Come cavolo hai fatto!". "Shhh! Andiamo." Le dico facendole cenno di seguirmi. "Io non ti se..""Andiamo!" Ripeto, prendendola per un braccio e trascinandola in un vicolo.Le chiedo di far parte di un gruppo con me e lei mi fissa per qualche istante."Se facciamo squadra insieme saremo più forti e riusciremo a vincere. Ah...scusa: io sono Andre." Le dico porgendole la mano."Io...sono Iris. Piacere." Iris accetta di far gruppo con me e le trasferisco metà dei soldi della vincita.I giorni passano e non riesco a trovare mio fratello Noah. Abbiamo combattuto contro bestie feroci e siamo riuscite a scappare da draghi e mostri terrificanti. Ma di Noah nessuna traccia.

Iris decide di sedersi sulla riva di un fiume . Immagino voglia riposarsi. Ci stiamo dirigendo ad Alfeim, città del bioma fantasy e sono ore ormai che camminiamo senza sosta.“Andre”“Si?”“Non mi hai raccontato niente della tua vita...”“E cosa vorresti sapere?” Le chiedo.“Perchè sei qui con tuo fratello?Raccontami qualcosa su di te!”“ Il mio vero nome è Andrea Koller. Non c’è molto da raccontare su di me. Fin da piccola sono appassionata di computer e qualsiasi sorta di apparecchio elettronico. Mio fratello Noah è più grande di me di 3 anni ed è stato lui praticamente a crescermi. I nostri genitori non si sono mai occupati di noi seriamente. Mia madre torna tardi la sera da lavoro e ha sempre badato poco a me.Mio padre è diventato dipendente dal gioco d’azzardo ed è arrivato al punto di rubare i soldi che ci servono per vivere. A volte sparisce per giorni per rinchiudersi dentro quei dannati posti.A scuola non ho mai avuto molti amici, il mio unico punto di riferimento è sempre stato

Noah. Mi sono sempre bastati i videogiochi per star bene perché quando gioco posso fingere di essere un’altra e soprattutto posso immaginarmi di essere lontanissima da dove realmentesono, cioè a casa.”“Tuo fratello ti ha veramente salvato la vita! Ora capisco perché sei così legata a lui. Stai tranquilla che lo troveremo.” mi dice sorridermi in modo sincero.

Ci rimettiamo in cammino per Alfeim. Arrivate davanti al ponte che porta al grande portone della città di Alfeim vediamo la luce di una lampada che sta venendo verso di noi. Ormai è quasi notte e il buio ricopre ogni cosa. “Andrea!! Andrea sei tu?!”. Quella voce… Quella persona che mi sta chiamando è..“Noah!!” inizio a correre verso di lui per poi abbracciarlo.“Stai bene?! Cavolo è da una settimana che ti cerco!”“Tranquillo, non ero sola. Iris, lui è mio fratello Noah. Noah, lei è la mia amica Iris”. Noto che un sorriso a trentadue denti appare sul viso di Noah spazzando via la sua inquietudine. È la prima volta che mi sente dire “amica”.“Piacere di Conoscerti Noah. La tua dolce sorellina mi ha raccontato molte cose su di te!”Mando una richiesta di unirsi al gruppo a mio fratello e lui accetta.“Avete visto la novità?”“No. Quale?” Diciamo io e Iris in coro per poi scambiarci uno sguardo.“Guardate il vostro menù”. Risponde Noah.Aprendo il menù notiamo che il tasto di uscita è scomparso.“Cosa vuol dire tutto questo?” chiede Iris con voce tremante.“Siamo rimasti intrappolati. Non possiamo più uscire dal gioco.”“Moriremo qui dentro?!” Chiedo con voce rotta.“Probabile. Dobbiamo riuscire ad arrivare a Hydni, la città del bioma medievale. Lì potremotrovare e sconfiggere il creatore del gioco, liberando così noi e tutti gli altri beta tester.”.La situazione sembra tutto fuorchè facile, la gioia di vedere Noah lascia il posto al terrore di non riuscire più a tornare alla vita di tutti i giorni.E’ vero, ho sempre odiato la mia vita, ho sempre cercato di fuggirne ma ora che ho conosciuto Iris, ora che ho un’amica di cui mi fido, inizio a pensare che forse quella vita che tanto disprezzo, potrebbe essere meno pesante. Entriamo ad Alfeim dove mio fratello ci ospita nel suo alloggio per la notte. L’agitazione non mi fa prendere sonno.L’alba arriva presto, più stanca del giorno prima mi alzo e partiamo per Hydni.Il tragitto per Hydni risulta difficoltoso, soprattutto a causa della grande quantità di neve e ghiaccio che troviamo lungo il cammino. “Qua si gela! Sembra di essere in Antartide!” mi viene da dire con le poche forze che mi rimangono.“Sono sicura che riusciremo a battere il creatore “. Penso tra me e me. “Andre! Fermiamoci! La mappa indica che qui si trova il creatore!” Urla mio fratello riportandomi alla realtà.Iris è stata in silenzio tutto il tempo e noto anche che la sua pelle è molto più pallida di prima. Forse ha freddo.Mi avvicino a lei togliendomi il mio giaccone e lo poso sulle sue spalle.Davanti a noi c’è una struttura formata di solo ghiaccio.Mette i brividi.Io e mio fratello Noah apriamo il portone di ghiaccio e davanti a noi si presenta una

scalinata di roccia che scende verso il basso. Ad illuminare ci sono delle fiaccole con del fuoco blu che illumina la via. Iniziamo a scendere e man mano che scendiamo urla strazianti si fanno sentire sempre più forti. Ora davanti a noi si presenta una sala con un peluche al centro. “Vorreste dirmi… che il creatore è un peluche?” Dico, scoppiando a ridere.Ma improvvisamente il peluche si spezza in due e al posto della soffice gomma piuma esce un lago di sangue che pian piano prende la forma di un corpo gigantesco. Al posto degli occhi ha due buchi neri e un gigantesco sorriso ben visibile.“Ecco… Come non detto “. Il mostro viene verso di noi. Il primo ad attaccare è Noah che con la sua spada lo colpisce dritto al petto facendo rimbombare nella stanza l’urlo del nostro nemico.Iris usa la magia per bloccarlo mentre io lo attacco da lontano usando la mia pistola laser.È Iris stessa a dare il colpo di grazia al nemico, sferrandogli una potente onda di fuoco.

Davanti a noi ci appare la scritta “CONGRATULAZIONI! Avete vinto Hydni on line!”.Corro verso Iris abbracciandola ed entrambe iniziamo a saltellare mentre mio fratello guarda il centro della stanza . “Congratulazioni, ragazzi. Avete vinto il mio gioco..”. mi avvicino a Noah ed entrambi ci avviciniamo a quello che è il creatore.Quando scopre il suo volto io e Noah rimaniamo allibiti.“Papà?!”“Ciao Noah. Ciao Andrea.. Mi dispiace di non essere stato un buon padre. I soldi che ho preso mi servivano per costruire tutto ciò. E non solo i soldi ma anche la mia stessa vita. Questo me che vedete è una registrazione perché io ormai non ci sono più. Ho inventato Hydni on line per farvi un regalo, un gioco che ero sicuro avrebbe divertito due amanti dei videogiochi come voi.Andrea grazie a questo gioco adesso hai trovato un’amica che insieme a tuo fratello ti supporterà e ti starà vicino.Ho lasciato che il tasto di Uscita venisse cancellato perché sapevo che voi tre sareste riusciti a salvare tutti”.

Neanche il tempo di rispondergli e il mondo intorno a noi inizia a tremare, il soffitto cede e il video di nostro padre scompare.Apro gli occhi.Sono tornata nel mondo reale e mettendomi a sedere sul letto noto che anche Iris e Noah sono svegli. Davanti ai nostri letti ci sono alcuni dei partecipanti al gioco che ci applaudono per averli salvati.Nostro padre non c’è più ma prima di lasciarci ha fatto un gesto, l’unico nella sua vita, per farci capire che teneva a noi.E’ questa la consapevolezza che adesso ci fa affrontare con il sorriso ogni giorno della nostra vita.

NUVOLE DI ELENA BALDIRACCONTO PRIMO CLASSIFICATO ANNO SCOLASTICO 2015-2016

Fissava quel mucchietto di sassi da due giorni. Pensava continuamente all’ultimomomento in cui si erano parlati. Tutto il circo e gli spettatori si erano riuniti alle due spondedel fiume, per guardare. Erano tutti infreddoliti e si strofinavano le braccia e le mani, alcunisi abbracciavano, ed altri ancora avevano acceso un piccolo fuocherello. Le sue ultimeparole per lei sono state «Ti voglio bene, Thérèse» seguito da un bacio sulla fronte. Lei gliaveva risposto «Dai, coraggio papa». Non gli aveva detto né “ti voglio bene” né l’aveva

degnato di un bacio. Poi lui si era avviato verso la fune, con il bastone in mano. Avevamesso il primo piede sul filo. Lei lo sapeva che lottava. Lo sapeva che lo voleva. Devivolerlo per domarlo. Ogni giorno si allenava, e sempre lo faceva con più disinvoltura. Mastavolta no. Fortuna che durante la notte la nebbia si fosse alzata, così le nuvolecoprivano il fondo e lui non vedeva il torrente. Poi, il passo falso. Era scivolato propriosotto ai suoi occhi, avrebbe potuto afferrarlo per un braccio, e invece no. Era rimasta lì adosservarlo mentre le nuvole lo risucchiavano. Aveva visto la faccia terrorizzata del padrementre cadeva e i loro sguardi si erano incrociati. Un’altra occasione mancata per dirgli un“ti voglio bene”. I ricordi erano svaniti e lei decise di tornare a casa.Le strade erano vuote, come i sorrisi della gente, come le gelide strette di mano e come leparole ‘mi dispiace’. Aveva 156 lune, e di inverni freddi ne aveva visti, ma nessuno erastato mai freddo come questo. Il padre era stato seppellito vicino alla casa. Mentre la madre sbraitava per la perdita della sua amata coperta, lei camminava verso laporta. Un piede davanti all’altro, lentamente e con estrema precisione, quasi come sestesse camminando su un filo sospeso nel vuoto. Finalmente, la porta. Il suo traguardo. Sigirò verso quella strada desolata, poi, con molta cautela, appoggiò la schiena contro latavola di legno, e alzò la testa al cielo. Sorrise, guardando le stelle. Oh, quanto lepiacevano le stelle. Cercava sempre di contarle, e sempre perdeva il conto. Ma ripartiva.Le ricordava quando suo padre l’aiutava a camminare sui fili. Lei cadeva, ma lui le diceva«Non mollare, sali e riprova», e lei lo faceva, ancora più decisa di prima. Le mancava. Lemancava il suo sorriso appena tornava a casa, le mancava il bacio sulla fronte, prima didormire. Lei si sdraiava nel letto e lui le dava un bacino, poi spegneva la candela con unsoffio, e nel rimetterla al suo posto, la faceva cadere. Di nuovo le scappò un riso a fior dilabbra. Era arrivata la sera. Era la prima volta che si addormentava in quel letto senza chequalcuno le desse un bacio sulla fronte e che spegnesse la candela. Ancora riusciva avedere l’ombra muoversi verso di lei. Le ombre. L’ombra di Thérèse assomigliava tanto aquella del padre. Le stesse gambe lunghe e affusolate, il busto fine e le braccia forti. Sivedeva anche dalla sua ombra che aveva due braccia forti. Lei era forte. I capelli li avevapresi dalla madre. Neri e ribelli, poco folti e bellissimi. Anche la bocca era della mamma. Illabbro superiore era leggermente fine, mentre quello di sotto protendeva al carnoso.Erano così chiare le loro labbra. Gli occhi erano del padre. Grandi, grandi e azzurri. Ma inquei giorni si erano ingrigiti. Erano belli lo stesso, però. Dormì. Dormì come non dormiva da tempo. Il giorno dopo, bella riposata, tornò a salutareil padre e si avviò verso la fune sulla quale lui si allenava. Non l’aveva mai fatto senza dilui. Fuori era freddo, e i colori dell’inverno erano gli stessi ormai da settimane. Il biancosovrastava il marrone dei tronchi degli alberi, molti dei quali morivano. Ogni mattinaPhilippe, il contadino che viveva in una fattoria poco lontana dalla loro, passava di lì espalava la neve dalla strada. Sotto la fune c’era talmente tanta neve che se fosse cadutaci si sarebbe immersa. Quella mattina, invece di Philippe passò il figlio, Louis. Questo lepiaceva. Louis le era sempre piaciuto. C’è da dire, che era un bel ragazzo. Occhi azzurri,cristallini, capelli neri e ricci, e la pelle chiara e delicata come la sua. Da piccoli si eranodati un bacio sulla bocca, ma breve, perché poi lei si era staccata e aveva detto «Se mene dai un altro ti porto al mulino a farti macinare con la farina». E allora si erano persi divista. Ora lui aveva 215 lune. Era cresciuto. E ora cominciava a svolgere le mansionidell’anziano padre. E così si vedevano spesso. Ogni volta che i loro sguardi siincrociavano lei si perdeva nei suoi occhi e rimaneva lì, passiva, a guardarli, mentre loroguardavano lei. Una luna prima si erano abbracciati. Proprio mentre il satellite erasplendente al massimo nel cielo. Appena la vide le corse incontro e di nuovo la strinse trale sue calde braccia, che la isolavano da tutto. Non c’era più il freddo e non c’era più ilrumore del mulino. C’erano solo lei, lui e quell’abbraccio. Senza scollarsi lui le disse uncommosso «Mi dispiace». Lui voleva bene a suo padre. Quel «mi dispiace» non era

freddo come gli altri. Non era vuoto. Era vissuto, pensato e dovuto. Si misero a piangere, equello che era un abbraccio diventò presto una morsa letale. Ma nessuno dei due silamentava. Louis era sempre stato bassino. Certo, sempre più alto di lei. Ma lui avevacinquantanove lune più di lei. Era normale. Il suo anniversaire era il giorno che le rondinitornavano in Francia. Primavera. Quando Louis se ne era andato, lei rimase un po’ afissare la strada. Com’era perfetta nelle sue curve tonde, gli alberi che crescevano ai lati,ricoperti di neve. Non era così fredda. Ancora vedeva l’ombra del padre che siincamminava verso la fune. Saliva e cominciava a camminare. Allora Thérèse salì e seguìle orme del padre. Lui appoggiava il piede destro e lei copiava. Mentre camminava la suamente divagava. Pensava a dove era finito il corpo del padre. Forse l’hanno preso lenuvole. Ne era certa. E più i giorni passavano, più lei non si faceva convincere delcontrario. Cinque giorni dopo la morte del padre andò al fiume. Cercava con lo sguardo, ma l’uomonon era lì. L’hanno preso le nuvole. ‘Le nuvole ti portano in posti lontani’, me lo avevadetto la notte prima… Non riusciva ancora a dirlo. Nemmeno a pensarlo. Non diceva laparola ‘morte’ da quando… sì, insomma, da quando era morto. Se le nuvole l’hannoportato in un altro posto… voglio andare con lui. Per sbaglio gli sfuggì detto davanti a Louis, mentre erano stesi sull’amaca, al freddo. Checosa credeva, che lui le dicesse «Certo, buttati perché le nuvole ti porteranno da tuopadre»? No, non glielo disse infatti. La credette matta e cercò in tutti i modi di convincerlaa non farlo.«E va bene, non mi butterò.» aveva detto. Ma al mattino dopo era lì, davanti al fiume, abraccia aperte e con il vento in faccia. Ad un tratto, proprio mentre aveva chiuso gli occhi eaveva aperto i polmoni al massimo, sentì un urlo. Si girò e vide Louis venirle incontrocorrendo. La prese in collo, come si fa quando ci si sposa e iniziò a correre. Poi, quandoerano abbastanza lontani dalla riva, la mise giù. «Non puoi» disse, con le lacrime agliocchi. «Non buttarti. Ti prego». «Ehi, devo rischiare. Non morirò, stai tranquillo.Semplicemente non sarò più qui, in questa povera contea. Le nuvole mi porteranno inqualche altro posto, da mio padre. Devo. Non impedirmelo.» Anche lei iniziava a sentirerivoli d’acqua scendere sulle guance. Piansero. Solo un po’, però. Lui non voleva che leiandasse. Lo sapeva che il torrente era ghiacciato. Lo sapeva che si sarebbe schiantatacontro il ghiaccio più duro oppure che sarebbe morta congelata nelle acque gelide. Losapeva. E gliel’aveva detto, più e più volte. Ma lei no. Lei credeva ancora nelle nuvole.«Devi lasciarmi andare, Louis. Mi mancherai, sì. Ma magari tornerò. Anzi, ti prometto chemi rivedrai ancora». E fu così, che si incamminarono verso la riva, lei davanti e lui dietro.Ad un certo punto, poco prima del dirupo, Louis la prese per mano, lei si voltò e lui labaciò. Fu un lungo bacio. Il naso di lei si scontrava con la guancia di lui. Poi, si staccaronoe Louis sussurrò un imbarazzato «Je t’aime». E lei rispose con un sorridente «Dovreibuttarti nella macina insieme alla farina». Si abbracciarono ancora, e poi la lasciò andare.Aprì le braccia e alzò la testa al cielo. Guardava le stelle. Si era già fatto buio. Oh, sì, inquel momento le stelle erano proprio belle. Si voltò di spalle alle nuvole, per ammirarleancora. Lui era lì, accanto a lei che guardava mentre lei cadeva nel burrone. Suo padre sichiamava Pier. Aveva 576 lune quando era sparito. Troppo presto. Troppo presto. «Addio»disse lei mentre si buttava. Chiuse gli occhi, allargò le braccia e fece un respiro, il suoultimo respiro con i piedi per terra. Si alzò sulle punte e si buttò. «Mi mancherai» disse lui«Mi mancherai». Fissò quel mucchio di sassi per due giorni. Gli mancava. Gli mancavaquando rideva e quando lo osservava. Gli mancava. Ancora pianse, sopra aquell’ammasso di pietre. «Mi mancherai» ripeté. «Mi mancherai›.

AUTUNNO DI ROBERTA PETRUCCIRACCONTO SECONDO CLASSIFICATO ANNO SCOLASTICO 2015-2016

Quanto amavo l’autunno. L’arancione, il rosso, il giallo... mi piaceva il suo modo di esserepoetico, il modo in cui attraeva il mio pensiero. Adoravo il profumo di ortensie cheirrompeva nella mia stanza la mattina presto quando la nonna apriva le finestre.I miei genitori non c’erano più. Avevo solo cinque anni quando mi hanno lasciato. Vivevocoi nonni. Smisi di parlare per tre anni. Nonna e nonno ormai avevano dimenticato qualefosse il suono della mia voce. Nonna piangeva tutte le sere, ed io ero malinconico. Ilnonno invece, bhe, lui non superò mai tutto ciò. Dava la colpa a papà che guidava quellasera. Esatto. Incidente d’auto. Io ero dai nonni per fare una sorpresa a mamma, era il suocompleanno, e loro stavano per arrivare. Ma poi avvenne la tragedia... Ogni domenica mattina partivamo da Filadelfia ed arrivavamo a New York. Lo so, èlontano, ma era lì che voleva stare la mamma. Adorava la città dove ha conosciuto papà. Il taxi ci lasciava sempre davanti al cimitero. Ormai il tassista ci conosceva, ogni volta erasotto casa nostra senza il bisogno di chiamarlo. Il nonno aiutava la nonna a scenderedall’auto mentre io correvo dai miei. Le prime volte mi urlavano di aspettare, ma poi cihanno fatto l’abitudine. Quando la nonna arrivava io ero già seduto a gambe incrociatedavanti alla lapide a fissare la foto di mamma e papà sorridendo. La nonna sapeva cosadoveva fare: camminava avanti e indietro raccontandomi delle storie di quando mammaera bambina. Che risate! Il nonno invece non ce la faceva nemmeno ad avvicinarsi.Troppo dolore. Se ne stava in fondo a guardarci da lontano con la testa chinata e le maniraccolte dietro la schiena. Ogni tanto ci osservava. Erano anni ormai che non lo vedevosorridere. Nonna era l’unica che cercava di sdrammatizzare per non farci cadere tutti nellatristezza e nel silenzio più assoluti. Quanto lo apprezzavo... Verso mezzogiorno, visto chec’eravamo, mangiavamo con una pizza e, specialmente in autunno, andavamo a CentralPark. Mamma, nonna ed io lo amavamo in quella stagione. Le foglie cadevano ericoprivano tutte le stradine del parco con il loro colore. Io e la nonna adoravamo farcicadere sui morbidissimi mucchi di fogliame. Una volta sdraiati osservavamo le nuvole ecercavamo le forme più strane. Una volta lei trovò una nuvola a forma di tartaruga. Fudivertentissimo: la chiamammo “tarta-nuvola”. Passavamo pomeriggi interi a giocare alparco. Il nonno no. Si sedeva sempre sulla solita panchina, era lì che la mamma gli disseche si stava per sposare, per lui fu una gioia immensa. Dopo essersi seduto stava cinqueminuti buoni a ripensare a lei; e poi si metteva a leggere sempre lo stesso libro, quello chegli regalò mia madre quando lui compì sessant’anni. Sulla prima pagina c’era una dedicascritta a penna da lei; ormai il libro era tutto consumato, con delle pagine quasi illeggibiliper le tante volte che lo aveva sfogliato... già, perché quando finiva di leggerloricominciava di nuovo; e piangeva ogni volta. Io invece certe volte per pensare a leicorrevo nello studio del nonno e guardavo quella calligrafia che ancora non comprendevobene. Mi faceva ricordare la sua morbida mano, il suo modo leggero e scorrevole con ilquale scriveva... la nonna diceva sempre che è importante ricordare. La sera si tornava acasa. C’era un sacco di traffico e ci mettevamo delle ore. Ma io mi divertivo a guardare leluci rosse delle auto nei giorni di foschia. Sembrava Natale con tutti quei fendinebbiaaccesi : era tutto rosso con un tocco di giallo per via della luce fioca dei lampioni semi-fulminati che facevano riflettere le ombre delle auto sull’asfalto delle strade. Era il giorno più bello la domenica. Era sempre uguale, ma non mi stancavo mai. Quantovolevo bene ai nonni...Una sera era il terzo anniversario dell’incidente, dopo aver fatto il bagno, la nonna miasciugò, mi mise il pigiama e si sedette come al solito vicino a me sul letto. Stava percantarmi la solita canzoncina della buonanotte; ma quella sera non riusciva ad aprirebocca. I suoi occhi cominciarono pian piano a farsi lucidi e rossi, e nonostante ci provasse,voleva dirmi qualcosa. Ma non servirono parole. Ci abbracciammo ed anche io iniziai a

piangere... Parlai... esatto. Parlai. Mai come in quel momento sentii il bisogno di dire “tivoglio bene nonna”. Poi non mi fermai più: tutti mi dicevano che ero un granchiacchierone! Quella serata fu una delle più belle della mia vita, a volte non servono leparole, basta un piccolo gesto. Era mercoledì, erano le ventuno, questo non fermò me e la nonna, ci vestimmo in fretta efuria, l’unica cosa di cui sentimmo il bisogno in quel momento era correre a dare la notiziaa mamma e papà. Scommetto che sarebbero stati fieri del loro bambino. Trascorremmotutta la notte nel cimitero, i custodi non si accorsero di noi. Parlavamo alla tomba come sedall’interno ci potessero sentire. Ad un certo punto, sarà che avevamo sonno, ma sia a meche alla nonna parve che la mamma, nella foto, accennasse un sorriso... Stavo benedentro. Quando tornammo a casa sorridenti, il nonno vide che parlavo... sorrise! Fuincredibile come i suoi occhi sorridenti fossero uguali a quelli della mamma. La nonna glicorse incontro ad abbracciarlo, pianse con lui. Io invece ero seduto sul pavimento con legambe raccolte a guardarli, come eravamo felici. In quel momento, e solo in quelmomento, mi accorsi quanto veramente avevano sofferto. Quel giorno ci cambiò la vita...Io crebbi e fino ai trentuno anni vissi coi nonni. Successe poi che, essendo vecchi, ancheloro se ne andarono. Per me fu un crollo emotivo pazzesco all’inizio, ma poi riuscii acapire che era nomale, e me ne feci una ragione. Ogni domenica che posso, torno a NewYork per andare a trovare mamma, papà, nonna e nonno. Poi vado a fare unapasseggiatina a Central Park prima però compro il solito pezzo di pizza. Quando èautunno non posso fare a meno di pensare a loro, alle ortensie, e ancora mi ricordo della“tarta-nuvola”... che bei ricordi. Quando vedo i bambini che si buttano sui mucchi di fogliespesso mi scappa una lacrima, e mi ricordo di lei, che anche con il suo mal di schienaamava cadere all’indietro per il divertimento di entrambi.

NUVOLE DI TERESA CORSIRACCONTO TERZO CLASSIFICATO ANNO SCOLASTICO 2015-2016

Ogni persona pensa ciò che vuole dell'amore, lui pensava che fosse stupido. Non credevaall'amore a prima vista. Non credeva che l'amore potesse risolvere tutto. Non credeva chesenza amore non si potesse vivere. Non capiva quella gente per strada mano nella mano,o quei giovani innamorati seduti su una panchina a scambiarsi promesse d'amore eternoche non avrebbero mai mantenuto. Diceva che non si sarebbe mai innamorato. Pensavache non esistessero quelle persone che ti possono cambiare la vita.Si sbagliava.

Era in macchina da solo un'ora ma gli sembrava una vita. Aveva il cellulare scarico perchèquella stupida di Mel quella notte glielo aveva staccato di carica. In quel momento glitoccava stare seduto accanto a lei ad ascoltarla mentre cantava orribili canzoni. Mamma epapà non le dicevano niente perchè "aveva solo cinque anni" come gli ripetevano ognivolta che gli faceva notare che i vetri si stavano rompendo.Quando era partito le strade erano deserte, ma in quel momento pullulavano di macchine.Sua sorella e i suoi genitori avevano iniziato a giocare a contare le macchine rosse. Nonerano normali. Alcune volte gli veniva il dubbio di essere stato adottato, data la suaintelligenza sovrumana. Ahahah stava scherzando, ma in certi casi il dubbio nascevaseriamente. Era diretto a Toronto, perchè suo padre, che lavorava in una ditta diingegneria meccanica, aveva trovato un posto di lavoro migliore di quello che aveva prima.Gli era dispiaciuto abbastanza lasciare Ottawa, aveva amici, parenti, sport e scuola tutto lì.Gli si stavano chiudendo gli occhi, e non li poteva biasimare dato che Mel lo aveva tenutosveglio tutta la notte. Pensava di farsi una dormita.

Era appena arrivato nella sua nuova casa. Era spaziosa e bella, aveva una camera

enorme che si affacciava sul viale e una stanza nel seminterrato. Mamma e papà erano adormire, Mel stava giocando con i peluche e lui era seduto davanti alla finestra. Nella casadall'altra parte della strada c'era una luce accesa. Vedeva che dentro c'era qualcuno chesi muoveva e che si stava avvicinando alla finestra. Si era appena affacciata una ragazzapiù o meno dell'età di Matt. Lo salutò con la mano e lui ricambiò. Lei gli fece cenno discendere in strada. Decise di seguirla.Quando arrivò in strada si sedette sul marciapiedi aspettando la "misterisosa" ragazza chelo aveva chiamato. Successe tutto il contrario di ciò che lui si aspettava. Vide uscire dallaporta una ragazza di colore. Capelli rasta e occhi marroni. Indossava un paio di shortscolor jeans, una maglietta a mezze maniche, abbastanza larga, verde acqua e un paio diVans basse bordeaux con i lacci neri. Era totalmente diversa da Matt. Lui aveva i capellibiondi, corti e mossi. Occhi azzurri. Pelle bianchissima.Inizialmente Matt ebbe paura, cercava una scusa per tornare in casa, perchè avevasempre avuto dei pregiudizi nei confonti delle persone di colore. In verità quando erapiccolo aveva un migliore amico che veniva dall'Africa. Poi, però, alle elementari i suoicompagni gli avevano messo in testa idee sulla diversità tra le persone e lui era statoinfluenzato. Emma lo aveva capito, infatti la prima frase che gli disse fu:-Guarda che non mordo- lo disse mentre rideva. Rise anche Matt. La ragazza si sedetteaccanto a lui. Iniziarono a chiacchierare. All'inizio dicevano due parole appena, tanto pernon stare zitti, poi non si fermarono più. Restarono a chiacchierare per un'ora, un'ora emezzo, poi la mamma di Emma si affacciò alla porta e le disse che era pronta la cena. Idue ragazzi si salutarono e si promisero che si sarebbero rivisti presto.Matt e Emma si videro ogni giorno. Alcune volte andavano a prendere un gelato, altre sisiedevano semplicemente sul "loro" marciapiede. Quando non stavano insiemechattavano su whatsapp, oppure si facevano lunghe telefonate. L'amicizia era sbocciata,come un fiore in primavera. Nessuno ormai poteva più separarli.In quei giorni Matt sentiva qualcosa nascere dentro di lui, qualcosa di strano che nonsapeva identificare. Era una felicità immensa, unita alla paura di poter perdere ciò a cuiteneva, Emma. Un giorno, mentre erano per strada e stavano tornando a casa, a Emmasembrò che Matt fosse distante. Allora gli disse:-Non ti obbliga nessuno a frequentarmi, le cose o si fanno con il cuore o non si fanno. Nonti preoccupare, non saresti la prima persona che si allontana da me per il colore della miapelle. Siamo diversi, lo so.Non lo disse con un'aria scocciata, sembrava talmente sincera che una lacrima le solcò ilviso e cadde a terra, infrangendosi in mille piccole lacrime. Matt quandò sentì quelleparole si sentì tremendamente in colpa, pensò di aver sbagliato tutto. Le disse:-Eii! Non lo dire neanche per scherzo. Non mi interessa se hai un colore di pelle diversodal mio, usanze e tradizioni diverse o se provieni dall'altra parte del mondo. Noi esseriumani siamo come le nuvole, tutti diversi ma sotto un unico cielo, composti dalla stessamateria. Guarda ad esempio le nostre ombre, sono esattamente uguali, nonostante il fattoche noi siamo diversi. Alla fine la diversità non esiste, è solo un muro dietro al quale sinasconde la gente per paura di essere giudicata. Anche io prima evitavo contatti con lepersone di colore. Ma poi ho incontrato te, che mi hai cambiato la vita...A quel punto lei lo interruppe, altrimenti lui poteva andare avanti all'infinito, lo guardò einiziò a piangere. Mentre singhiozzava gli disse:-Non lasciarmi mai da sola. Ti prego.-Ti voglio troppo bene per farlo.I due ragazzi si abbracciarono. In quel momento, Matt, sentì che quel sentimentosconosciuto, che tanto lo aveva tormentato, era un sentimento che lui aveva sempreritenuto stupido, ma che in quel momento gli sembrava così banale. Amore. Ecco cos'era,puro e semplice amore. Matt iniziò a capire in quegli istanti cosa provavano quelle personeche lui vedeva mano nella mano al parco o seduti sulle panchine. Capiva cosa provavano

quando si vedevano dopo molto tempo. Capiva tutto. Si sentì per la prima volta in vita suarealizzato. Forte di potere tutto.Ma, ovviamente, è mai esistita una storia d'amore senza intoppi a questo mondo? Iopenso proprio di no.Quando Matt rientrò in casa vide i suoi genitori attorno al tavolo della cucina cheesaminavano dei fogli. Appena lo videro gli dissero parole che lui non avrebbe mai volutosentire:-Ciao Matt! A tuo padre hanno riofferto il posto di lavoro che aveva prima a Ottawae, visto che la scuola non è ancora riniziata, torneremo nella nostra vecchia casa. Cosìnon dovrai farti nuovi amici, e avrai tutto ciò che avevi prima. Non sei felicissimo?Matt non disse nulla, salì le scale, entrò in camera sua, si chiuse dentro e si sdraiò sulletto. Pian piano le lacrime iniziarono a scendergli lungo le guance, fino a quando non cela fece più e scoppiò in un fragoroso pianto. Tutto ciò che provava si era mutato in rabbia,verso i suoi genitori, verso il mondo intero, verso l'amore. Pensò che fosse vero chel'amore non esisteva e che tutto ciò in cui credeva prima di conoscere Emma fosse larealtà. Sdraiato sul letto guardava il soffitto e pensava ai suoi occhi:-I suoi occhi? Un'arma. Se li guardavi eri spacciato.E lui si era condannato a non scordarli più. Non avrebbe più scordato quei capelli. Nonavrebbe più scordato quella voce. Non avrebbe più scordato quella ragazza che gli avevacambiato la vita.Matt non sapeva come dirlo a Emma. Sperava che quello fosse solo un brutto sogno dalquale presto si sarebbe svegliato, ma non era così. Decise di dirglielo di persona così lemandò un messaggio per vedersi al più presto. Lo fecero quella pomeriggio. Lei capìsubito che c'era qualcosa che non andava in lui. Aveva gli occhi arrossati dal pianto.Quando le disse che si sarebbe dovuto ritrasferire a Ottawa lei non ci voleva credere. Dicomune accordo presero la decisione di parlarne meglio il giorno dopo. Ma non ci sarebbestato un domani. Matt e la sua famiglia sarebbero partiti quella notte, dato che la maggiorparte delle loro cose era ancora imballata negli scatoloni. Matt e Emma si videro perl'ultima volta quella sera, mentre il sole tramontava. Guardarono per l'ultima volta le loroombre, le videro scomparire, lentamente. Lui pochi minuti prima di andare via le dissequella "fatidica" frase che avrebbe cambiato la vita ad entrambi. Prese coraggio e disse:-Prendimi per pazzo ma ti amo.Lei, per l'ennesima volta, scoppiò a piangere. Si abbracciarono e poi ebbe luogo quelfavoloso bacio che tutti noi stavamo aspettando. Si salutarono e lui attraversò la strada,nuovamente deserta come nel momento in cui Matt partì per questo viaggio che gliavrebbe cambiato la vita. Ora, nonostante le distanze, niente li avrebbe più potutiseparare. La loro storia era stata scritta. I loro destini erano stati segnati. Le loro vite sierano legate l'una all'altra per sempre.

Bene, questo è ciò che a ogni persona sarebbe piaciuto leggere. Ma non successequesto. Quando Matt vide che Emma era di colore le disse che lui non passava il suotempo con i "neri" e tornò a casa. Per lui l'amore continuava a essere stupido. Questoperchè, ahimè, nella società moderna la gente ha ancora tantissimi pregiudizi nei confrontidelle persone che hanno la pelle diversa dalla loro. Ma, ricordiamoci, che siamo come lenuvole.