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L’UOMO CAMBIA LA FACCIA DEL PIANETAMezzo secolo dopo il simposio internazionale Man’s Role in changing the face of the EarthPrinceton, New Jersey (USA), giugno 1955

a cura di Virginio Bettini e Chiara Rosnati

coordinamento editorialeSusanna Maistrello

in copertinaLa tempesta di Hokusai

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L’UOMO CAMBIA LA FACCIA DEL PIANETA

Mezzo secolo dopo il simposio internazionaleMan’s Role in changing the face of the Earth

Princeton, New Jersey (USA) giugno 1955

a cura di Virginio Bettini e Chiara Rosnati

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Copyright © MMVIIIARACNE editrice S.r.l.

[email protected]

via Raffaele Garofalo, 133 A/B00173 Roma

(06) 93781065

ISBN 978–88–548–2210–8

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: novembre 2008

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autori del libro

curatoriVirginio Bettini professore associato di analisi e Valutazione ambientale facoltà di Pianificazione del territorio, Università Iuav di Venezia

Chiara Rosnati professore a contratto di Valutazione di impatto ambientale, facoltà di Scienze matematiche fisiche naturali, Università di Sassari

coautoriAlmo Farina professore ordinario di Ecologia del paesaggio, Università di UrbinoGiorgio Nebbia professore emerito di Merceologia, Università di BariSandro Pignatti professore emerito di Botanica, Università di RomaLuciano Vettoretto professore ordinario di urbanistica, facoltà di Pianificazione del territorio Università Iuav di VeneziaCarmelo Dazzi professore ordinario di Pedologia, facoltà di Agraria, Università di PalermoAndrea Buondonno professore ordinario di Pedologia applicata, facoltà di Scienze ambientali, II Università di Napoli, CasertaSergio Vacca professore associato di Pedologia, facoltà di Scienze matematiche fisiche naturali, Università di SassariGian Franco Capra ricercatore di Pedologia, facoltà di Scienze matematiche fisiche e naturali, Università di SassariPippo Gianoni professore a contratto del corso Il Ciclo delle Acque, Corso di laurea in Pianificazione territoriale, urbanistica e ambientale, Università Iuav di VeneziaStefano Picchio esperto in Sistemi territorialiLeonardo Marotta consulente ambientaleCarlo Scoccianti WWF ToscanaMassimo Morigi Agenzia per la Protezione dell'Ambiente e per i Servizi Tecnici, dipartimento Difesa della Natura, servizio Carta della Natura, settore Sistemi informativiCorrado Battisti ufficio Conservazione Natura, servizio Ambiente, Provincia di Roma

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INDICE

Una lunga, operosa giornata. Lucio Gambi, Ravenna 10 marzo1920 - Firenze 20 settembre 2006Teresa Isenburg

PremessaLeonard Ortolano

IntroduzionePrima e dopo Man’s RoleVirginio Bettini e Chiara Rosnati

Energia, speranze e declino, il lavoro umano come modificatoreGiorgio Nebbia

L’uomo trasforma il paesaggio vegetaleSandro Pignatti

Cambiamenti ambientali ed evoluzione del pensiero scientifico negliultimi 50 anni: dall’ecologia ecosistemica all’ecologia cognitivaAlmo Farina

Dal concetto di distruzione a quello di frammentazioneCorrado Battisti, Carlo Scoccianti

Uomini e Acque dall'Olocene all'AntropocenePippo GianoniScheda 1 - La negazione del diritto all’acquaEmilio MolinariScheda 2 - Benvenuti nell'Antropocene! L'uomo ha cambiatoil clima. La Terra entra in una nuova eraScheda 3 - Estratto da Il clima è nelle mani dell’uomo, UFAFP,Berna, 2005Scheda 4 - Carta di Monastier, Centro Internazionale Civiltàdell’AcquaScheda 5 - Immagini sparse sulle acque della Maggia – dal localeal globale, dalla sorgente al delta

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I suoli antropogenici, nuova frontiera della pedologiaAndrea Buondonno, Gian Franco Capra, Sergio Vacca

AppendiciAnalisi dei sistemi e dei processi ambientali nella verificadei cambiamenti locali e globaliLeonardo Marotta, Massimo Morigi, Stefano PicchioAppendice II sistemi informativi territoriali e il telerilevamentoLeonardo Marotta e Stefano PicchioAppendice IISatelliti e sensori principali per lo studio ed il monitoraggioambientale: la consapevolezza dei mutamenti attraversola lettura del territorioLeonardo Marotta, Massimo Morigi, Stefano Picchio

Stato di natura: processi naturali e processi sociali nelle ideedi pianificazione del territorioLuciano Vettoretto

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Dedicare anche a Lucio Gambi il volume collettaneo italiano di rivisitazio-ne di Man’s Role, a distanza di 50 anni, non è un gesto affettuoso da partedi chi, per coincidenze di tempi e di luoghi, ha intersecato il proprio cam-mino formativo con quello magistrale dello studioso romagnolo: è inveceil riconoscimento non rituale del significato di una stagione culturale epolitica e del contributo specifico ad essa di un intellettuale di alta quali-tà nella scienza e nell’agire. Basterebbe infatti, a spazzare il sospetto di for-malismo, notare che la ristampa anastatica dell’edizione di Barbèra del1872, ampiamente commentata e corredata, di L’uomo e la natura diGeorge Perkins Marsh (al quale è dedicato Man’s Role) avvenuta nel 1988,si colloca nella collana di Geografia umana diretta da Gambi per l’editoreFranco Angeli ed iniziata nel 1971 con la traduzione di Pierre George,L’organizzazione sociale ed economica degli spazi terrestri, per raggiunge-re poi oltre 50 volumi.Gambi conosceva direttamente la prima edizione, quella del 1956, del cor-poso Man’s Role: il volume è presente nell’Istituto di geografia da lui diret-to a Milano per circa tre lustri, dall’inizio degli anni ‘60 alla metà degli anni‘70, e risulta inventariato il 13 dicembre 19671, abbastanza tardi rispettoalla pubblicazione, ma consigliato a chi sceglieva una tesi in geografia giàda qualche tempo prima. Il testo è anche nella biblioteca personale diGambi, oggi ordinata presso la Biblioteca Classense2, ed altri istituti, diRavenna. E negli anni ‘60 aleggiavano in quell’Istituto, fisicamente o nelleparole scritte, altri protagonisti destinati a mettere in discussione il mododi pensare di chi si stava formando: Emilio Sereni con il suo paesaggio agra-rio carico di precisa materialità, Giulio Maccaccaro che trasformava l’epide-miologia da elenco statistico a lente di ingrandimento della società che era,muta, sotto gli occhi di tutti (e altrettanto faceva altrove Giorgio Nebbiacon un’altra elencativa disciplina come la merceologia), GiovanniHaussmann che dall’Istituto per le colture foraggere di Lodi lanciava fascidi luce sulla meraviglia dei suoli e dei lombrichi che la dissodavano senzasosta, mentre gli scritti di Max Sorre bruciavano le ore di lettura.Ma, al di là dei riscontri biografici e bibliografici, il metodo di identificarenodi problematici connessi all’organizzazione del territorio (il modo in cuil’uomo modifica in continuazione il volto della Terra, e a sua volta vede dirimando modificato il proprio volto sociale in un processo diffuso neltempo e che richiede la comprensione complessiva e inseparabile dei qua-

1 Ringrazio gli ottimi biblioteca-ri della sede di via Festa delperdono dell'Università deglistudi di Milano per la circostan-ziata informazione.2 Ringrazio il direttore, dr.D.Domini, che ha seguito illavoro che ha impegnato Gambinegli ultimi anni, di traferimen-to dei volumi e dell'organizza-zione della loro consultazione,per l'indicazione.

UNA LUNGA, OPEROSA GIORNATALUCIO GAMBI, RAVENNA 10 MARZO 1920 - FIRENZE 20 SETTEMBRE 2006

Teresa Isenburg

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dri naturali e dei contesti socio-ambientali) aveva già costituito, e avrebbecontinuato a costituire fino agli anni e alle pagine più recenti, il principioordinatore della produzione di Gambi, facendo dell’uomo uno studioso dif-ficilmente definibile all’interno di un unico recinto disciplinare, comeavviene per persone di raffinata e vasta cultura, di elevata intelligenza, diininterrotto intenso impegno lavorativo, di attenzione rigorosa per la socie-tà in cui via via si trovano a vivere ed ai mutamenti della quale prestanovigile attenzione. Riguardando Man’s Role, e alcuni dei promotori di quel-le giornate del 1955, che devono essere state bellissime per i partecipan-ti, come definire Sauer o Mumford? Geografi, urbanisti, antropologi oaltro? Poco importa, hanno afferrato grandi temi, e attorno ad essi si sonospesi senza risparmio, guardandoli da molti punti di osservazione e offren-do poi costruzioni complesse in cui molti studiosi hanno trovato riflessal’immagine di parte di proprie singole discipline e da cui molti cittadini ecittadine hanno ricevuto strumenti e contenuti per comprendere aspettidel contesto nel quale si svolgeva anche la loro quotidiana vita.La produzione di Gambi si può suddividere in tre cammini complementari:la ricerca scientifica destinata alla redazione di volumi, quali le grandimonografie sulla Calabria e Milano o quelle minori sulle piante da zuc-chero ovvero l’insediamento umano romagnolo, e alla preparazione dinumerosi articoli, alcuni selezionati e raccolti poi in volumi, su temi urba-ni, su questioni di ritaglio amministrativo, sul paesaggio. Poi la trasmissio-ne didattica, per la quale aveva un dono particolare, impartita negli ate-nei di Messina, Milano, Bologna, ma anche attraverso un fittissimo retico-lo di singole lezioni presso scuole, biblioteche, istituzioni. Ed infine unlavoro ininterrotto di organizzazione culturale attraverso progetti editoria-li, espositivi, museali, alcuni molto noti e di ampia diffusione, altri piùminuti ma di pari qualità e altrettanto duraturi: progetti nei quali Gambioccupava il ruolo centrale, costituiva il giunto cardanico e identificava ilprincipio ordinatore, definendo in modo lucido l’impianto e riuscendo adattivare reti di collaboratori ottenendo da essi lavori e contributi rigorosi lacui qualità era esaltata dall’inserimento in un inquadramento solido e digrande livello. Questo lavoro culturale che ha coinvolto, sotto una guidaferma, molte e molte persone va dall’apporto alla Storia d’Italia Einaudi aiQuaderni del periodo messinese, dalle speranze della realizzazione di unatlante storico nazionale negli anni milanesi ai bei volumi sulla Galleriadelle carte geografiche in Vaticano all’inizio degli anni ‘90, dalla parteci-pazione a redazioni di riviste, in particolare di "Storia urbana", all’impe-gno nell’Istituto dei beni culturali della Regione Emilia Romagna alla metàdegli anni ‘70, fino all’ultimo contributo di questo tipo, i due bei volumidel 2000 e del 2003 Un Po di terra e Un Po di acque molto vicini, perimpostazione e metodo, a quella visione anticipatrice che Man’s Rolemezzo secolo fa conteneva e sistematizzava in un pensiero articolato."Principio del ben fare è il ben conoscere", diceva Carlo Cataneo e nelleNotizie naturali e civili su la Lombardia aggiungeva: "Nessuno può abbra-

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ciar da solo tutto quel complesso di azioni e reazioni, che collegano i nostriordini agrarii ed amministrativi colle predisposizioni della natura. All’unomanca la cognizione dei terreni, all’altro quella delle acque; in ognimomento lo studioso si arresta, perché non ha sotto mano un fatto, cherimane sterile nei manoscritti d’un altro studioso”: conoscere e condivide-re, dunque, conoscere ed agire, ricomponendo in un quadro unitario ilvolto e il ruolo dell’uomo con il volto e il ruolo della Terra.

Milano, 7 ottobre 2006

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Questo volume celebra il 50° anniversario della pubblicazione Man’s Rolein Changing the face of the Earth” (che da qui in avanti, citeremo solocome Man’s Role), un contributo fondamentale alla comprensione degliimpatti generati dall’attività dell’uomo sulla Terra. Come introduzione aquesta raccolta di contributi celebrativi, vorrei inquadrare nel suo contestostorico l’opera pubblicata nel 1956.Prima, comunque, è bene dedicare qualche riga alla storia di Man’s Role.Tra il 16 e il 22 giugno del 1955, un gruppo di 70 scienziati illustri siincontrarono alla Princeton University nel New Jersey per partecipare alsimposio internazionale sul “Ruolo dell’uomo nel cambiamento della fac-cia del pianeta”. Il convegno fu reso possibile grazie al finanziamento dellaWenner-Gren Foundation for Anthropological Research, e rappresentò ilculmine di un considerevole sforzo di pianificazione e coordinamento ini-ziato nella primavera del 1952.L’assistant Director della Wenner-Gren Foundation, William L. Thomas Jr,fu il principale organizzatore del simposio, nonchè il curatore dei due volu-mi che raccolsero i contributi risultanti dall’evento1. Fin dalla sua proget-tazione, il simposio fu organizzato con l’obiettivo di una “pubblicazionefinale a beneficio del mondo scientifico”2. Il tema centrale riguardava glieffetti qualitativi e quantitativi generati dall’uomo su differenti aree delpianeta. I singoli capitoli dovevano essere interpretati come brevi saggiche riassumessero lo stato di conoscenza relativo all’argomento considera-to. Inoltre gli autori erano invitati a sottolineare eventuali carenze infor-mative, mettendo in evidenza gli ambiti da approfondire.Tre senior scholars, Carl O. Sauer, Marlston Bates e Lewis Munford, diede-ro un forte contributo alla realizzazione del simposio, si prestarono comeco-chairs e collaborarono alla redazione dei due volumi del Man’s Role. Ciòche colpisce di questo gruppo, oltre al suo ben riconosciuto livello scienti-fico, è l’eterogeneità dei campi di appartenenza. Carl Sauer era allora pro-fessore di geografia alla Berkeley University, California, e, dal 1923 al1954, aveva ricoperto la carica di direttore del dipartimento di geografia.Marlston Bates era professore di Zoologia all’università del Michigan.Lewis Mumford, che ha fornito importanti contributi nel campo della sto-ria dell’architettura, dell’urbanistica e della cultura, insegnava, al tempo,alla facoltà di pianificazione urbana dell’università della Pennsylvania.Anche tra i partecipanti è possibile rilevare una complessa eterogeneità

1 Thomas, W.L. Jr., Man’s Rolein Changing the Face of theHearth, 2 volumi, Chicago,Illinois: University of ChicagoPress. La pubblicazione di Man’srole venne sostenuta da unfinanziamento della NationalScience Foundation of theUnited States2 Man’s role, p.xxiii

PREMESSA

Leonard Ortolano

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disciplinare. I 70 partecipanti provenivano da ben 24 settori scientifici,percentualmente così suddivisi: 40% dalle scienze della terra, 28% dallescienze biologiche, 12% dalle scienze sociali e umanistiche, 20% da campidi applicazione, come la pianificazione urbana. Inoltre, ad aumentare ladiversità, i partecipanti provenivano da 10 differenti paesi.Un’altra interessante caratteristica del simposio è che tutti ebbero l’oppor-tunità di leggere le bozze dei vari capitoli prima dell’incontro a Princeton.La distribuzione anticipata dei diversi contributi pose i partecipanti nellacondizione di poter evitare la lettura formale dei papers durante il con-gresso, lasciando maggior tempo ad un confronto approfondito ed alloscambio di idee.Non è difficile trovare importanti precedenti al Man’s Role, in quanto unodi questi viene menzionato nella dedica al libro e ulteriormente approfon-dito nell’introduzione. Il libro è dedicato infatti a George Perkins Marsh, el’introduzione si concentra sul suo contributo in letteratura a proposito del-l’influenza dell’uomo sul pianeta. In effetti, Carl O. Sauer, uno degli orga-nizzatori del simposio e co-curatore del Man’s Role, parlò una volta del sim-posio come di “una sorta di Festival dedicato a Marsh” (Williams M., 1987).Marsh era uno spirito eclettico. Fra i tanti ruoli professionali da lui svolti sipuò menzionare l’avvocato, il redattore di quotidiani, l’uomo d’affari, ildocente, il politico, il diplomatico, lo scrittore. Inoltre Marsh era in gradodi leggere fluentemente 20 lingue, scrivere sulle origini della lingua ingle-se, ed era un ben noto studioso dello scandinavo. Venne citato nell’intro-duzione del Man’s Role per la sua pubblicazione del 1864 Man andNature, or, Physical Geography as Modified by Human Action (Marsh G.P.,1965), un lavoro che rifletteva la sua ampia conoscenza della storia comeanche le sue personali osservazioni sulle foreste del New England e suisuoi viaggi in Europa durante i cinque anni come ambasciatore USA inTurchia e in seguito (a partire dal 1861) come ambasciatore USA delnuovo Regno d’Italia3.Nonostante il grande respiro dell’esperienza personale di Marsh ed i suoiinteressi intellettuali, Man and Nature fu necessariamente limitato nelloscopo. Il libro enfatizza i cambiamenti geografici e climatici provocati dalladeforestazione e da differenti tipologie di progetti legati alla gestione deisistemi idrici. Nonostante le sue finalità specifiche, Man and Nature fucitato nell’introduzione di Man’s Role come “il più grande lavoro di sintesiprodotto in epoca moderna che esamini in dettaglio l’alterazione dellasuperficie della terra a seguito dell’intervento umano”4. Altri hannodescritto i contributi di Man and Nature nei termini della sua “sintesi suvasta scala che sottolinea le interrelazioni tra singoli impatti e individuagli innumerevoli effetti a distanza dell’azione umana” (Kates R.W., TurnerB. L., Clark W.C., 1990).È interessante notare come Man and Nature non sia solo stato un contri-buto scientifico, ma anche un dibattito, riassunto nelle osservazioni delgeografo e biografo di Marsh, David Lowenthal, nella sua introduzione alla

3 È interessante notare cheMarsh rimase in carica comeambasciatore americano inItalia per gli ultimi 21 annidella sua vita. Morì nel 1882.4 Man’s role, p.xxix

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riedizione del Man and Nature nel 1965: “La più grande lezione del Manand Nature è che la natura non si cura da sola; la terra, una volta domi-nata e poi abbandonata dall’uomo, non è ritornata alle sue condizioni ori-ginali ma ne è risultata impoverita. La difficoltà non sta nel fatto che ilpotere dell’uomo si sia rivelato superiore a quello della natura, ma che l’e-stensione del suo potere non sia stata riconosciuta. L’avidità è solo par-zialmente responsabile del saccheggio del territorio; le azioni principal-mente responsabili non sono comprese, sono perfino inconsce. Molti uomi-ni non intendevano distruggere il bilancio della natura; non sapevano chelo stavano facendo” (Marsh, 1965)Prima del simposio del 1955, vi sono stati altri importanti lavori che hannoavuto come soggetto l’influenza dell’uomo sulla terra, ma il libro di Marsh siè distinto dagli altri nel contesto americano. Marsh, secondo Lowenthal, èstato acclamato come il precursore della geografia storica degli Stati Uniti5.Dopo aver considerato questo importante precorritore del Man’s Role,rivolgo l’attenzione sui successivi lavori di rilievo prodotti sul medesimosoggetto. Molti di questi hanno un tono piuttosto diverso.In massima parte, gli autori dei capitoli del Man’s Role hanno dimostratouna certa “distaccata riflessione accademica” e, con poche eccezioni, nonè emerso un giudizio sulle trasformazioni dovute all’intervento umano daloro descritte (Wilson R.M., 2005). Un importante eccezione è rappresen-tata dalla serie di conclusioni di Lewis Mumford che, commentando leimplicazioni dell’uomo come specie dominante sul pianeta, affermava: “iodirei che lo scenario futuro dell’uomo è nero ...” e continuava così: “ la dif-ficoltà è che la nostra capacità tecnologica e la nostra metodologia scien-tifica hanno raggiunto un alto grado di perfezione quando altre impor-tanti componenti della nostra cultura, in particolare quelle che hannomodellato la personalità umana – religione, etica, educazione, arti – sonodiventate inoperose o, piuttosto, condividono una generale disintegrazio-ne ... Se vogliamo raggiungere qualche grado di bilancio ecologico, dob-biamo mirare anche al bilancio umano”6.In una revisione retrospettiva dei due volumi, Wilson ipotizza che il tonoaccademicamente non giudicante della maggior parte del testo “potrebbederivare dal fatto che il volume ha avuto un minore impatto di altre pub-blicazioni scientifiche posteriori sul cambiamento ambientale di origineantropica” (Wilson, 2005). Tra gli altri libri successivi al Man’s Role, SilentSpring (1962), della scrittrice conservazionista e naturalista Rachel Carson,è spesso citato come un testo che ha focalizzato l’attenzione del pubblicogenerale sulle conseguenze devastanti dell’uso incauto dei frutti dellamoderna tecnologia, in questo caso l’uso dei pesticidi (Carlson R., 1962).Più tardi, sempre durante gli anni ’60 del secolo scorso, esce The polula-tion bomb, del biologo di popolazioni e professore di Stanford PaulEhrlich, un best-seller che denuncia la carestia e la distruzione che, l’auto-re predice, accompagnerà un’incontrollata crescita della popolazione(Ehrlich P., 1968).

5 Lowentahl, come citato daThomas, Man’s Role, p.xxxv6 Mumford L., “SummaryRemarks: prospect”, in Man’sRole, Op. cit., P.1146

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Entrambi i libri sono rivolti ad un pubblico di massa ed hanno ottenuto ungrandioso successo popolare.L’interesse pubblico venne acceso non solo dall’ampia discussione che cir-condava queste controverse pubblicazioni, ma anche da una catena dicatastrofi ambientali caratterizzate dall’esteso danno ambientale cheaccompagnò la fuoriuscita di petrolio, altamente pubblicizzata, sulle costedi Santa Barbara, California, nel 1969. Poco dopo, nel 1971, fu pubblicatoIl cerchio da chiudere (Commoner B., 1971). Questo libro di ampio respiro,scritto da Barry Commoner, professore di biologia alla WashingtonUniversity di St. Louis, attivista per molti anni nel movimento anti nuclea-rista, descrisse minuziosamente gli alti costi ambientali associati allo svi-luppo tecnologico.Gli anni ‘80 testimoniarono l’emergenza del termine “sostenibilità”, unconcetto che ha caratterizzato i dibattiti su conservazione e sviluppo dallafine degli anni ’80 fino ad oggi. La sostenibilità è stata definita come “lapiù grande idea emergente nella storia dell’antropocene ... – un concettonormativo riguardante non solo quello che è, ma anche quello che dovreb-be essere l’uso umano della terra.”(Clark W.C., Crutzen P.J., SchnellnhuberH.J., 2004)7.Sebbene il termine “prodotto sostenibile” sia stato divulgato nel contestodella gestione forestale all’inizio del ventesimo secolo, il concetto di svi-luppo sostenibile è emerso nel 1980 in una forma piuttosto diversa. Unrapporto prodotto dalla International Union for the Conservation ofNature and Natural Resources (IUCN), insieme a numerose organizzazioniamericane, introdusse la “World Conservation Strategy” la quale afferma-va che lo “sviluppo economico sostenibile” richiedeva:- il mantenimento dei processi economici e dei sistemi essenziali di sup-porto alla vita;- la conservazione della diversità genetica;- misure per assicurare l’uso sostenibile di specie ed ecosistemi (TisdaleC., 1993).Il termine sostenibilità non ha però catturato l’immaginazione popolarefino agli ultimi anni ’80, quando viene riproposto nella forma di “svilupposostenibile” in Our Common Future, il ben noto rapporto della WorldCommission on Environment and Development. Il rapporto spinge il con-cetto di sostenibilità oltre la nozione di conservazione e protezione degliecosistemi, definendo lo sviluppo sostenibile come “sviluppo che incontrale esigenze del presente senza compromettere la possibilità delle futuregenerazioni di soddisfare le proprie necessità” (World Commission onEnvironment and Development, 1987). Le dimensioni prescrittive dellasostenibilità vengono enfatizzate in Our Common Future. Si afferma che lerisorse naturali debbano essere usate, ma in modo da privilegiare le neces-sità della parte più povera del mondo e non portare al fallimento le pro-spettive delle future generazioni lasciando loro in eredità una riserva ina-deguata di capitale naturale.

7 Il termine “Antropocene” èstato introdotto da PaulCrutzen, un chimico dell’atmo-sfera vincitore del premio Nobelparecchi anni fa. Una storiapubblicata dal Financial Timesriporta che l’adozione del termi-ne antropocene per descriverela nostra attuale epoca geologi-ca nasce dalla considerazioneche gli umani sono diventatirivali della natura nel loroimpatto sull’ambiente globale(Clive Cookson, Finacial Times,26 agosto 2004,http://www.msnbc.msn.com/id/5831910/#storyContinued

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8 Professore presso il corso dilaurea in Scienze Ambientali eNaturali dell’Università diSassari

Secondo Kates, Turner e Clark, negli anni tra la pubblicazione di Man’sRole, nel 1956, e il 1990, 17 libri pubblicati in inglese potrebbero essereintesi come sforzi per considerare i cambiamenti in natura indotti dall’uo-mo secondo una prospettiva a scala globale (Kates R.W., Turner B.L, ClarkW.C., 1990). Nel portare avanti queste osservazioni, gli autori elencanodue dei lavori citati – The Careless Technology and Our Common Future –come esempio di tentativi di reinterpretazione. Kates, Turner e Clark pro-seguono affermando: “Comparando Man and Nature e Man’s Role con i 17lavori del periodo 1956-1990, si può notare come questi ultimi mostrinoscarsa attenzione alla storia delle modificazioni, cambiamenti, trasforma-zioni. Essi comunque evidenziano una maggiore comprensione sia degliaspetti qualitativi delle trasformazioni indotte dall’uomo che dei processiresponsabili di tali trasformazioni”.Le osservazioni di Kates, Turner e Clark si trovano nel capitolo introduttivodel libro The Earth as Transformed by Human Action che, dopo Man andNature e Man’s Role, rappresenta “un terza reinterpretazione globale deicambiamenti a lungo termine indotti dal genere umano sulla biosfera”.Come Man’s Role, questo volume del 1990 riporta il risultato di uno sforzodi pianificazione nel lungo termine, iniziato nel 1984, che ha visto coinvoltiun gruppo di scienziati illustri. In questo caso, il meeting fu organizzato allaClark University di Worcester, Massachusetts, e rappresentò una parte dellecelebrazioni del centenario dell’Università, tenutesi tra il 1987 e il 1988.La raccolta di contributi in The Earth as Transformed by Human Action haprovato a documentare le maggiori trasformazioni a scala globale nell’a-spetto e nei flussi della biosfera sin dalla fine del diciassettesimo secolo,per affrontare alcune delle cause sociali immediate di questi cambiamen-ti, e per esaminare le interazioni attraverso casi studio regionali. L’obiettivoera “.. catalizzare e conquistare un pensiero sintetico sulla trasformazioneumana del pianeta in un periodo in cui l’interesse per la comprensione delcambiamento ambientale globale si sta rapidamente espandendo.”. Permolti aspetti The Earth as Transformed by Human Action è stato più sal-damente radicato nella tradizione del Man and Nature e Man’s Role deglialtri lavori pubblicati in inglese durante il periodo 1956-1990.Ora, sedici anni dopo la pubblicazione di The Earth as Transformed byHuman Action, a questa ricca tradizione di reinterpretazione a scala glo-bale si aggiunge un altro volume, questa volta un contributo italiano, percelebrare il cinquantesimo anniversario del Man’s Role. Il curatore di que-sta raccolta, il professor Virginio Bettini, è uno stimato geografo, pianifi-catore ed ambientalista, membro da molto tempo della facoltà diPianificazione del Territorio alla Iuav, università di Architettura di Venezia.Come molti pianificatori, geografi e geologi della sua generazione,Virginio Bettini è stato ispirato dal Man’s Role. La profonda influenza diquesto testo sulla sua evoluzione professionale ha spinto il ProfessorBettini, in accordo con la sua collaboratrice Chiara Rosnati8, a mettereinsieme un gruppo straordinario di scienziati naturali e sociali e pianifica-

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tori per commemorare Man’s Role. I loro contributi coprono un ampio rag-gio di tematiche, dalle scienze, inclusa la geologia e la biologia, alla pia-nificazione urbana e all’architettura del paesaggio e altre forme di inter-vento umano. Viene qui proposta una stimolante e suggestiva raccolta dicontributi. Indubbiamente il tributo più appropriato all’opera che, con que-sto libro, si vuole celebrare a 50 anni dalla sua pubblicazione.

BBiibblliiooggrraaffiiaaCarlson R., 1962, Silent Spring, New York, Houghton Mifflin PublishersClark W.C., Crutzen P.J., Schnellnhuber H.J., 2004, Science for Global

Sustainability, Toward a New Paradigm, in Clark, William, Schnellnhuber,Claussen, Held, eds. Earth Systems Analysis for Sustainability,Cambridge, MA, MIT Press

Commoner B., 1971, The Closing Circle: Nature, Man, and Technology, NewYork, Knopf

Ehrlich P., 1968, The population Bomb, New York, Ballantine BooksKates R.W., Turner B.L, Clark W.C., 1990, “The Great Transformation” in

Turner B. L. II, et al. Eds. The Earth as Transformed by Human Action,Cambridge, Cambridge University Press. 1990. p.3

Marsh G.P., 1965, Man and Nature; or, Physical Geography as Modified byHuman Action, Cambridge, edited by David Lowenthal. MA, BelknapPress of Harvard University, 1965 (pubblicato originariamente nel 1864)

Tisdale C., 1993, Environmental Economics: Policies for EnvironmentalManagement and Sustainable Development, Hants, U.K., Edward Elgar.,p.164

Williams M., 1987, “Sauer and ‘Man’s Role in Changing the Face of theEarth”, Geographical review, vol.77, No.2 (aprile 1987), pp. 218-231

Wilson R.M., 2005, “Retrospective Review,” William L.Thomas Jr, ed. Man’sRole in Changing the Face of the Earth, Environmental History, Vol. 10,No.3 (luglio 2005), pp. 564-566

World Commission on Environment and Development, 1987, Our CommonFuture, Oxford, U.K., Oxford University Press. P.43

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L’UOMO CAMBIA LA FACCIA DEL PIANETA

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Prima di Man’s RoleMan’s Role non è un’improvvisa implosione in campo accademico. Primache il 16 giugno 1955 si riunissero a Princeton, New Jersey (USA), i par-tecipanti al Simposio Internazionale “Man’s Role in Changing the Face ofthe Earth”, alcuni autori avevano formulato ipotesi ed analisi in qualchemodo predittive sul tema del rapporto tra uomo, natura e società in nettosviluppo tecnologico.Non possiamo quindi fare a meno di considerare i contributi che, su diver-si fronti, ci confermano il livello di maturità dei temi affrontati nel corsodell’incontro svoltosi a Princeton.Se vogliamo restare nell’ambito della cultura ambientalista nord america-na, non possiamo prescindere dalle idee e dalle personalità di J. P Marshe John Muir.

La lezione anticipata di un geografo: John Perkins MarshLa lettura di Man’s Role richiama immediatamente alla mente la figura delgrande George Perkins Marsh (1801-1882), un uomo che, cultore di moltediscipline, dalla filologia alla letteratura, dalla storia all’archeologia, sisegnalò anche in due ben precisi e distinti campi, la diplomazia e la geo-grafia. Il suo capolavoro “Man and Nature; or physical geography as modified byhuman action” di 560 pagine (Marsh, 1864) fu pubblicato in italiano daBarbèra di Firenze qualche anno dopo. (Marsh, 1872)Il legame di Marsh con il nostro paese fu fortissimo. Primo ambasciatoredegli Stati Uniti nel neonato Regno d’Italia, prima a Torino, poi a Firenze,Marsh iniziò la stesura di “L’uomo e la natura” nel corso di un soggiorno aPegli, sulla riviera ligure, nel 1862.In molte cose, nei suoi scritti, Marsh ricorda Buffon, Goethe, Alexander vonHumbolt, ma in particolare il grande Henry David Thoreau, con il qualedivide la passione per la natura ed i boschi. (Thoreau, 1854, 1964)Thoreau scriveva nel suo Journal, il 22 agosto 1860: “Quasi tutti i nostricosiddetti progressi tendono a convertire la campagna in città” ed ancora,nel capitolo di Walden dedicato all’economia:“mentre il processo di civilizzazione sta migliorando le nostre abitazioni,non migliorano in ugual modo gli uomini che le abitano”.

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PRIMA E DOPO MAN’S ROLE

Virginio Bettini e Chiara Rosnati

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Thoreau non si ferma qui. La lettura del suo Walden ci regala alcune sor-prese, come quelle che troviamo nel capitolo “Dove ho vissuto e perchè: Lanazione stessa, con tutti i suoi cosiddetti progressi interni, che sono poitutti esterni e superficiali, è una istituzione inefficiente e troppo cresciuta,impacciata dalla mobilia e impigliata nelle sue stesse trappole, rovinatadal lusso e da spese sconsiderate, da mancanza di calcolo e di una nobilemeta, come i milioni di famiglie che la abitano; e l'unica cura, per essa eper i suoi abitanti, è una rigida economia, una dura e più che spartanasemplicità di vita, e uno scopo elevato. Essa vive troppo in fretta. Gli uomi-ni pensano che alla Nazione siano necessari commercio ed esportazionedel ghiaccio, parlare per mezzo del telegrafo e viaggiare con i treni a tren-ta miglia all'ora, e non hanno dubbi in proposito, anche se poi essi stessinon necessariamente usufruiscono di questi servizi; ma è una cosa un po'incerta, se noi dobbiamo vivere come babbuini o non piuttosto comeuomini. Non siamo noi a condurre il treno, ma piuttosto il treno che con-duce noi”. (Larusso, 1992)Allo stesso modo non possiamo dimenticare un grande poeta come RalphWaldo Emerson, nato nel 1803, figlio di un pastore della First Church diBoston, il quale fu a sua volta ministro, la cui più celebre frase crediamosia: “Man is a stream whose source is hidden” (“L’uomo è un fiume la cuisorgente è nascosta”) e la cui opera “Nature” fu pubblicata nel 1838. Thoreau aveva notato nel suo Journal come in Emerson vi fosse molto piùdi divino che in qualunque altra persona avesse conosciuto.Generazione di naturalisti e di ambientalisti sono stati ispirati e sugge-stionati dalla visione che Emerson aveva della natura, al tempo stessomanifestazione fisica dello spirito divino e veicolo di collegamento con lanatura stessa della divinità. Secondo Emerson il nostro apprezzamentodella natura riflette una sorta di autorealizzazione. (Turner, 1994)Emerson usa il termine “natura” in senso filosofico: natura come oppostodello spirito o dell’anima, natura come materialità. Emerson non era unoscrittore, ma un predicatore, uno speaker.Marsh ha ben presente gli insegnamenti di Thoreau e di Emerson. La suaopera è un tentativo di proporci i modelli della geografia fisica come stu-dio dei luoghi della terra in rapporto ai molti processi che, nel tempo, lihanno modellati. A Marsh la semplice morfologia però non basta: egli ci vuole spiegarescientificamente alcune situazioni, individuandone le cause probabili.Come sostiene la curatrice della più recente versione italiana dell’opera diG.P. Marsh, Fabienne O. Vallino (Marsh, 1988), nel suo lavoro si può sco-prire l’ombra del grande Immanuel Kant, il quale, superata la concezionedel tempo, era riuscito a collegare storia e scienze della terra, due facce diuna sola medaglia.Marsh allarga la visione kantiana e struttura la propria analisi concettualesulla base di tre fondamenti: il movimento, il mutamento, il tempo.Per Marsh, l’uomo, elemento creatore, ma anche perturbatore e distrutto-

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re conduce una perpetua guerra volontaria contro tutti gli esseri che nonpuò ridurre in schiavitù, non cessando di distruggere foreste, prosciugarelaghi e paludi, sconvolgendo: “le condizioni idrometriche, termometriche,elettriche e chimiche dell’atmosfera” attraverso “le operazioni dell’agricol-tura e delle arti industriali”, modificando e talora estirpando quell’armoniache regola “miriadi di forme di vita”. (Giorello, 1989)Marsh è stato il primo grande geografo ad intuire che la nostra capacitàdi plasmare la terra in funzione dei nostri bisogni avrebbe finito col met-terci in balia di energie incontrollabili.Inondazioni, frane, disboscamenti, degradazione di paesaggi, inquinamen-to dei corsi d’acqua, mutamenti del clima, calamità: nulla in natura è frut-to del caso, tutto si collega, anche se in modo non sempre evidente.Nel testo di Marsh troviamo molti elementi che si saldano all’analisi diMan’s Role, molte di quelle problematiche oggi al centro dell’analisi scien-tifica, senza alcun sterile rimpianto per una natura incontaminata. Al con-trario dal testo emerge una decisa e specifica esortazione al genere umanoperché si assuma completamente le proprie responsabilità: “La natura nonconosce nulla di minimo o insignificante e le sue leggi sono inflessibilitanto se si tratta di un atomo quanto di un continente o di un pianeta”.Come ben ha chiarito Giorgio Nebbia: “L’influenza di Marsh sulla culturageografica e naturalistica è stata enorme. Ne è stato profondamenteinfluenzato Lewis Mumford che riscoprì Marsh nel 1931 con il libro “Thebrown decades”. Alla fine della seconda guerra mondiale l’azione dell’uo-mo sulla terra aveva assunto nuovi volti: la contaminazione radioattiva adopera delle attività nucleari militari e civili, l’esplosione delle città, l’au-mento della popolazione mondiale, gli effetti dello sfruttamento colonialedei paesi del “terzo mondo” indussero alcuni studiosi a ripensare il temacentrale di Marsh. Carl Sauer, Marston Bates, Lewis Mumford e altri deci-sero allora di tenere a Princeton, nel 1955, un grande simposio i cui con-tributi sono stati raccolti nei due volumi dell’opera curata da WilliamThomas Jr., Man’s Role in changing the face of the Earth, a Chicago, nel1956”. (Nebbia, 2001)Marsh ha scritto con molta chiarezza a proposito della reazione dell’uomosulla natura: “Ma, come abbiamo veduto, l’uomo ha reagito sulla naturaorganica ed inorganica, e in conseguenza ha modificato, se non ordinato,la struttura materiale della sua dimora terrestre. La misura di questa rea-zione costituisce evidentemente un importantissimo elemento nell’apprez-zamento delle relazioni tra la mente e la materia; come pure nella discus-sione di molti problemi puramente fisici. Ma sebbene questo argomentosia stato toccato incidentalmente da moltissimi geografi, e svolto conmaggiore ampiezza di particolari per ciò che riguarda certi campi limitatidell’umano lavoro e certi effetti specifici dell’azione dell’uomo, non èstato, nel suo complesso, per quanto io sappia, fatto argomento di specia-le osservazione, né di ricerche storiche da nessun dotto investigatore”(Marsh, 1872).

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Il mancato apprendimento della lezione di John MuirCiò che manca, in Man’s Role è la discussione etica in merito alle ragioniper cui l’uomo si è sentito il padrone e fattore dominante del pianeta.La differenza tra un’etica centrata sull’uomo ed un’etica più specificamen-te basata sugli aspetti ambientali, crediamo debba essere riferita alledivergenze interpretative tra “shallow ecology” e “deep ecology”.La shallow ecology colloca l’inquinamento e l’esaurimento delle risorse altop della lista delle problematiche ambientali, privilegiando quindi anco-ra una volta l’azione dell’uomo sulla natura, un’azione che, se concertataed accettabile, potrebbe aprire al modello della “sostenibilità”, che comun-que pone le esigenze dell’uomo e delle generazioni future al livello più altodella scala dei valori. La deep ecology promuove invece, in maniera mirata e specifica, l’egualita-rismo nell’ambito della biosfera, il che vorrebbe dire tradurre la morale spe-cifica dell’uomo su ogni forma di vita esistente sulla terra. L’uomo non domi-na, ma si colloca in una posizione di assoluto rispetto per ogni elemento checostituisca il puzzle terrestre (Naess 1973, Devall & Sessions 1985).I ricercatori che, a metà degli anni ’50 del secolo scorso, diedero vita alConvegno nel corso del quale si discusse del ruolo avuto dall’uomo nelcambiare la faccia del pianeta, a nostro avviso non avrebbero dovuto pre-scindere dalle esperienze e dagli insegnamenti di John Muir.I concetti fondamentali della deep ecology dominano gli scritti e la vitadi quest’uomo che ha fortemente segnato la cultura ambientale a cavallotra il XIX ed il XX secolo negli Stati Uniti e non solo. (Hefferman, 1993)Per Muir la natura non può solo essere considerata, difesa e tutelata inquanto valore ed utilità per l’uomo: “Nessun dogma insegnato dalla civil-tà d’oggi sembrerebbe presentare un’ostacolo così insuperabile alla cor-retta comprensione dei rapporti tra la cultura e il selvaggio, come quelloche riguarda il mondo fatto appositamente per gli usi dell’uomo” ed anco-ra: “la nozione barbara…. sostenuta quasi universalmente dall’uomo civi-lizzato, che in tutti i manufatti della Natura esiste un qualcosa di essen-zialmente rozzo e volgare che può, e deve essere sradicato dalla culturaumana” (Muir, 1918).Esistono, molte, troppe creature che non sembrano aver nulla a che farecon gli obiettivi dell’uomo.Una visione utilitaria della natura selvaggia non potrà mai tener conto delvalore della natura in sé.Prendiamo ad esempio il paesaggio non contaminato dall’uomo. Il paesaggio naturale ha, per Muir, lo stesso valore che ha un’opera d’arte,come una scultura di Michelangelo. Le forze che creano un paesaggio sonomolteplici, perfetta sintesi di equilibrio tra molte componenti, tra le qualinon necessariamente rientra l’uomo. (Muir, 1916)Muir va oltre e ci dice che l’umanità deve portare più attenzione all’ag-gressione che compie nei confronti di molteplici valori ambientali del pia-neta, dimostrandosi più cauta nei processi di trasformazione a propria

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immagine e somiglianza, in quanto l’umanità stessa non può fare a menodella bellezza: “la bellezza insieme al pane, un luogo dove giocare e dovepregare, dove la Natura può guarire e rincuorare, dando forza al corpo edall’anima”. (Muir, 1962)Muir combatte tutta la vita perché gli Stati Uniti si dotino di una rete diparchi nazionali. I Parchi Nazionali sono per lui fontane di vita, la struttu-ra stessa che permette connettività e scambi tra aree ad alta produttivitàbiologica, significativamente abitate da specie rare. In questo Muir potreb-be anche essere considerato uno dei precursori dei concetti della landsca-pe ecology.Ne scrive già nel suo diario nel 1873 e lo ribadisce in Steep Trails quandosostiene che l’uomo tende a sottrarre le aree naturali e selvagge all’usoproprio che ne fa la natura per farne un uso improprio e che nessun ani-male è stato creato in funzione di un altro animale, ma solo per se stesso.Muir considera assolutamente arrogante l’atteggiamento dell’uomo ilquale si propone: “più che una piccola parte della grande unità della crea-zione”. (Muir, 1916)Quando Muir si pone la domanda: “Why should wilderness be preserved?”,perchè la natura selvaggia dovrebbe essere preservata? risponde con un’al-tra domanda: “Why should human life be preserved?”perchè la vita umanadovrebbe essere preservata?Nel messaggio di Muir si ritrova quello che Jean Jacques Rousseau giàaveva scritto nel secolo dei lumi: “La natura comanda ogni animale, e laBestia obbedisce. L’uomo prova la stessa impressione, ma si riconosce libe-ro di accondiscenderle o resisterle”.Un uomo che anche Rousseau avrebbe voluto diverso quando chiede atutti noi, nel suo “Emile ou de l’Education” (1762), di tener conto dellanatura e di seguire la strada che la natura stessa ci indica: “Observez lanature et suivez la route qu’elle vous trace”.

Il contributo di Aldo LeopoldNell’affrontare il significato dei temi discussi nell’ambito dell’incontro diPrinceton, non possiamo prescindere dal contributo di un grande ecologoed ambientalista in un libro che è la sintesi di una vita completamentededicata alla ricerca del significato dell’equilibrio tra uomo e natura.(Leopold A., 1949)Il testo di Aldo Leopold, professore all’Università del Wisconsin, un uomonato nel 1887, molto ci ricorda il Thoreau di Concord, con la sua fede nelfatto che la salute del mondo non possa prescindere dallo stato selvaggio.Diversamente da Thoreau, Leopold aveva vissuto tutte le contraddizionidella rivoluzione tecnologica, dal mondo della macchina allo stato nuclea-re. Dalle pagine del suo almanacco emerge una terra scorticata, bruciatadal pascolo intensivo del bestiame e dagli incendi, uno spazio monotonodesertificato, scavato dalle autostrade.Dal 1912, quando esce dalla prima scuola forestale di Yale ed inizia a lavo-

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rare nella gestione della foresta nazionale Kit Carson, nel Nuovo Messiconord occidentale, la sua attenzione si rivolge alla scomparsa delle grami-nacee dalla prateria, delle foreste di querce secolari, delle zone umide dellaregione dei Grandi Laghi, del venir meno di quell’uragano biologico rap-presentato dai piccioni viaggiatori.La sua denuncia di profondi ed irreversibili cambiamenti ambientali è unaprecisa constatazione fisica, non un partito preso dal punto di vista intel-lettuale, come ben sottolinea Le Clézio nella prefazione all’edizione fran-cese della sua opera più letta, discussa e commentata.Aldo Leopold, che pure era stato educato nel sogno dei pionieri e che eraappassionato di caccia, sottolineò la progressiva scomparsa dei predatori,lupi, puma ed orsi, invitando ad accettare la vicinanza dei predatori, il cheavrebbe finalmente significato non più pensare da uomini, ma “pensarecome una montagna”.Ci ha ricordato che il viaggiare delle oche risale al pleistocene e che que-sto viaggio proclama, ogni anno, a primavera “l’unità delle nazioni, dalmare della Cina alle steppe siberiane, dall’Eufrate al Volga, dal Nilo aMourmansk, dal Lincolnshire allo Spitzbergen”.Ci ha parlato della magica danza delle beccacce nell’anfiteatro delle zoneumide, del linguaggio degli alberi, della loro memoria, di come i fiumi sap-piano disegnare il paesaggio.Nell’introduzione al suo almanacco, Aldo Leopold ci ha detto cose cheprima non avevamo mai sentito:“Ci confrontiamo ora con il problema di sapere se un livello di vita ancorpiù elevato giustifichi un alto prezzo in vite di animali selvatici che vivonoliberi in natura”.Ed ancora: “L’ecologia non può portarci da nessuna parte perché incom-patibile con la nostra idea abramica della terra. Noi abusiamo della terraperché la consideriamo come un nostro possesso. Se invece la consideras-simo come una comunità cui apparteniamo, potremmo cominciare ad uti-lizzarla con amore e rispetto. Non esiste altro mezzo se vogliamo che laterra sopravviva all’impatto dell’uomo meccanizzato, se vogliamo fare teso-ro di tutta quelle serie di insegnamenti estetici che la natura è in grado dioffrire alla cultura.La terra in quanto comunità: è questa l’idea di base dell’ecologia, maanche l’idea che bisogna amarla e rispettarla non è altro che l’estensionedi un modello etico. Che la natura sia risorsa culturale è un concetto notoda tempo, da poco dimenticato”.Aldo Leopold ci sfoglia il suo almanacco, segnato dallo scorrere dei mesi,ci presenta alcune specifiche situazioni legate alle sue esperienze inWisconsin, Illinois, Iowa, Arizona, Nuovo Messico, Oregon e Utah ed allafine ci suggerisce il modello estetico per la protezione della natura: unapprofondimento del valore della natura vergine in grado di suggerirciun’etica della terra.

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Il fronte dell’approccio scientifico-tecnologicoSu di un altro fronte, quello dell’approccio scientifico-tecnologico, va ricor-dato un altro testo, pubblicato nell’anno in cui si stava organizzando l’in-contro che avrebbe reso possibile Man’s Role. (Greiling W., 1954)Il testo è significativo perché si colloca in tutt’altra dimensione rispettoall’almanacco di Leopold ed a Man’s Role, una dimensione più scientista etecnologica, per quanto critica nei confronti degli abusi dell’uomo sul-l’ambiente naturale. Greiling sostiene che si può prevedere, in prospettiva, lo sviluppo della tec-nica, ma che queste visioni prospettiche sono terrificanti. Egli ci propone un concetto discutibile, ma indubbiamente documentato:il futuro sarebbe già stato esplorato/ipotizzato dagli antichi Egizi su, su,fino a Malthus. Ci ricorda che alcune crisi mondiali, crisi economiche, consostanziali risvolti ambientali, erano già state predette, come aveva fattoWagemann per la crisi del 1929-1932. (Wageman E., 1953) Walter Greiling pone il problema di come si potranno nutrire 9 miliardi diuomini e prevede una terra configurabile come una sola città.Un contributo italiano esemplare, da non dimenticare.Esiste poi un contributo che scaturisce dalla pubblicistica, dal giornalismo,un contributo tutto italiano, che ci sembra utile ricordare. A partire dal 1946, Leonardo Borgese, in pectore precursore di AntonioCederna ed Alfredo Todisco, pubblica una serie di articoli sul Corriere dellaSera in cui parla di un territorio “che tramonta nel cemento” e della luceal neon che “uccide il chiaro di luna” sul Canal Grande.Leonardo Borgese racconta ai lettori del Corriere della Sera, tra gli anni ‘40e ‘50, di come l’acqua debba essere considerata un bene di tutti, sollecitale amministrazioni a chiudere i centri storici al traffico motorizzato, chiedel’incentivazione del trasporto pubblico. Ricorda che le buone amministra-zioni non demoliscono, ma restaurano e che “progresso, civiltà moderna,igiene, viabilità non sono che scuse della mania distruttiva, del desideriodi lucro”. (Borgese L., 2005)Una coscienza stava maturando e Man’s Role ce lo rivela.

Dopo Man’s RoleIl primo, vero allarme lanciato dopo Man’s Role è quello di Silent Spring,sintesi di un lavoro di ricerca e verifica dati avviato nel 1958 sul problemadel sempre più diffuso inquinamento da pesticidi. (Carson R., 1962)Rachel Carson inquadra il tema in una dimensione corretta quando, nelsecondo capitolo di Primavera silenziosa sostiene: “La storia della vita sullaterra è la storia dell’interazione tra gli esseri viventi e la natura circostan-te. L’ambiente esterno ha avuto una grande importanza nel plasmare lamorfologia ed il comportamento del regno vegetale e animale. Al contra-rio, da quando la terra esiste, gli esseri viventi hanno modificato l’am-biente in misura trascurabile; soltanto durante il breve periodo che decor-re dall’inizio di questo secolo ai giorni nostri, una sola “specie” – l’uomo-

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ha acquisito una notevole capacità di mutare la natura del proprio mondo.Nel corso degli ultimi 25 anni questo potere non solo è diventato tantogrande da costituire un pericolo, ma ha assunto anche un aspetto com-pletamente nuovo.”Carson fa riferimento alla contaminazione con sostanze nocive di aria,suolo, fiumi e mari, portando la propria attenzione sulle conseguenze del-l’uso degli insetticidi sulla vita degli uccelli, sulle cause dirette ed indiret-te della morte dei pesci, su di una società che resta a contatto quotidianocon i veleni, sul ribellarsi della natura alla violazione da parte dell’uomo.Il libro della Carson, che segnalava il pericolo dell’abuso degli insetticidichimici là dove l’uomo aveva trasformato vastissime estensioni territorialiin monocultura, insetticidi che avevano in pratica cancellato la legge bio-logica della lotta di animali tradizionalmente nemici degli insetti nocivi, èstato per mesi un best-seller negli Stati Uniti ed in Europa.Molti definirono il testo della Carson una “camera degli orrori”, per quan-to scientificamente accurata e qualcuno (Mellanby K., 1967) prese, in untesto decisamente valido, le distanze da una posizione che riteneva inqualche modo estrema: “l’impatto notevole di “primavera silenziosa” diRachel Carson fa pensare che gli insetticidi siano il più grande dei perico-li. Ho deliberatamente evitato di occuparmi di questo libro, non perchèsottostimi il suo contributo, ma perchè penso che è tempo di cercare diconsiderare tutti gli aspetti del problema. R. Carson, quando si occupò diinsetticidi ed erbicidi, fu attenta a fornirci la realtà americana, ma selezio-nò la sua realtà, e ci fornì un caso legale. Allora fu un servizio utile allascienza, ed allo stesso modo le repliche tendenziose da parte dell’industriachimica fecero poco per rassicurare il pubblico”.Mellanby, in questo testo che ben definisce come i pesticidi si inseriscano,negli anni ’60, nel complessivo quadro di un inquinamento considerato aduna scala quasi globale, sostiene che esistono, segnalandoli in bibliogra-fia, “altri e più obbiettivi testi sugli effetti dei pesticidi”, mentre il librodella Carson, se da un lato è da considerare “per quanto concerne gli inset-ticidi, generalmente accurato”, sul fronte dei dati che riguardano gli effet-ti medico sanitari fornisce elementi “in generale non comprovati”.Mellanby non è completamente convinto che l’allarme lanciato dallaCarson sia del tutto valido. Una sua precisa affermazione in questo sensoè ripresa in una ben congegnata opera di divulgazione di Frank GrahamJunior: “today weedkillers are not a major danger to wildlife in Britain” algiorno d’oggi gli erbicidi non sono il rischio più grande per la fauna dellaGran Bretagna. (Graham F.J., 1970)Aveva o non aveva ragione la Carson? Per certi aspetti senza dubbio. Neglianni ’60 l’ambiente veniva assaltato da una società che credeva di poter-ne avere, nel tempo, il completo controllo. Molto di quanto previsto daRachel Carson in “Primavera silenziosa”: tossicità ambientale, effetti sullasalute dell’uomo, contaminazione dell’acqua, difficoltà nel trovare siti ade-guati per lo smaltimento dei rifiuti, è oggi realtà.

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Fu comunque tutto merito della Carson se fu istituita la EnvironmentalProtection Agency e se si cominciò a ragionare di valutazione del rischio afronte del beneficio dei pesticidi e se sono stati definiti alcuni dei conflit-ti tra alti livelli di produttività agricola e costi ambientali (Marco Gino J.,Hollingworth R.M., Durham W., 1987), se si è sondato lo spazio dell’eco-nomia della natura. (Ricklefs R.E., 1976)La denuncia della Carson è comunque valida ancor oggi, basta pensarealla permanente contaminazione da pesticidi in frutta e verdura. (AmalouF., 2006)Gli anni ’60 non furono quindi solo contestazione sociale, furono ancheprofonda, sentita contestazione sui modi di sfruttamento della natura daparte dell’uomo.Colui che meglio interpretò questo sentimento fu un ornitologo di grandefama internazionale, che lavorava al Museo Nazionale di Storia Naturale diParigi e che era presidente del Comitato per la stazione di ricerche biolo-giche Charles Darwin alle Galapagos, il francese Jean Dorst.Dorst auspicava una riconciliazione possibile tra l’uomo e la natura.Stimolava, chiedendolo a gran voce, un dialogo tra economisti e biologi,chiedeva uno sfruttamento razionale delle risorse naturali. (Dorst J., 1965)Il suo stupendo ed affascinante lavoro individuava, nell’equilibrio di ieri,un possibile riferimento al da farsi di oggi, senza mai spingersi in previ-sioni apocalittiche, ma chiedendo un’inversione di tendenza “prima chenatura muoia, per una possibile riconciliazione tra uomo e natura”, in ter-mini di crescita della popolazione, di crescita dei rifiuti, di sfruttamentodelle risorse marine.Nell’edizione italiana al testo di Dorst si trova un’appendice curata da unodei più impegnati naturalisti del periodo, Valerio Giacomini, professore dibotanica all’Università di Roma, un autore che ritroveremo come mentordel lavoro di divulgazione compiuto da Dario Paccino, il quale sottolinea-va come, dalle pagine di Dorst, emergesse il concetto fondamentale, nonastratto, non idealizzato, ma concreto ed umanissimo della conservazione:“In questi ultimi tempi non si parla più soltanto di conservazione dellanatura, ma ci si affretta ad aggiungere la conservazione delle risorse natu-rali. Si pone dunque evidentissimo un problema di un bilancio assennatodei beni che si offrono all’utilizzo, al consumo per la vita e il benessere del-l’uomo. Ogni forma di produzione si attua con un’opera di sfruttamento dirisorse fisiche e biologiche della terra, delle acque e dell’aria. É ben notoche non poche di queste risorse sono esauribili, altre deteriorabili, altreancora rinnovabili. Non sarà dunque saggia e razionale un’attività unica-mente rivolta a stimolare la produzione, perché potrebbe condurre all’ina-ridimento o impoverimento di sorgenti di beni, essenziali per la stessa vitaumana. Si impone dunque anche un’attività di conservazione, così come inqualsiasi buona amministrazione si rende necessario un oculato e vigilan-te controllo affinché le spese non intacchino in modo rovinoso la disponi-bilità di capitale”.

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Il prof. Valerio Giacomini introduce così alcuni concetti legati al rapportotra ecologia ed economia, concetti che svilupperà ulteriormente, conmolta lucidità, a distanza di un decennio: “Poiché non ha senso un’ecolo-gia che si chiuda agli scambi concettuali e strumentali con altre discipline,in questo quadro di esigenze diventa particolarmente auspicabile un col-legamento fra ecologia ed economia, che non può non produrre vicende-voli vantaggi.L’economia offre all’ecologia concetti che le erano estranei o poco fami-liari, come l’ottimizzazione e l’esternalità e la induce a considerare piùattentamente la presenza dell’uomo, vero attore e destinatario della pro-blematica ecologica.L’ecologia offre all’economia amplificate visioni nello spazio e nel tempo.Soprattutto avverte dell’esistenza di processi a lungo termine, taloraimpercettibili, che solitamente non vengono presi in considerazione neicalcoli economici per la loro incospicuità e per la quasi nulla incidenzaattuale, ma che possono accumularsi e dare nel futuro conseguenze rovi-nose”. (Giacomini V., 1980)Il prof. Sandro Pignatti, succeduto al prof. Giacomini nella cattedra dibotanica dell’Università di Roma, una degli autori di questo testo, svilup-perà poi ulteriormente, a sua volta, il rapporto tra economia ed ecologia.(Pignatti S., Trezza B., 2000)

Mario Pavan e l’ambientalismo fanfanianoFra le personalità italiane che consapevolmente o inconsapevolmente svi-lupparono le idee e le proposte di Man’s Role dobbiamo annoverare MarioPavan, professore di entomologia agraria all’Università di Pavia, grandestudioso della formica rufa e ministro dell’ambiente in un breve governoFanfani.Pavan fu anche il primo ambientalista che, a livello nazionale ed interna-zionale pose il problema ambientale nei suoi corretti termini di priorità,con una particolare attenzione per i paesi del terzo mondo.Il suo primo, significativo testo fu pubblicato dal Ministero dell’Agricolturae delle Foreste in collaborazione con UICN, l’Unione Internazionale per laConservazione della Natura e delle sue Risorse ed il WWF, Fondo Mondialeper la Natura.Nell’affrontare il tema degli squilibri causati dall’uomo e le loro conse-guenze, Pavan sosteneva:“In tutto il mondo, nei secoli scorsi, sono state compiute indiscriminatedistruzioni della natura e delle sue risorse, delitto che ora si paga e sipagherà in futuro assai caro. Non solo l’economia, ma anche gli aspetti piùdelicati della nostra vita ne risentono, essendo state talora profondamen-te alterate le caratteristiche ambientali più idonee agli esseri viventi ingenere ed all’esistenza umana in particolare.La difesa della vita comporta infatti anche la conservazione degli ambien-ti nei quali essa si svolge e perciò non si può pretendere di distruggere

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questi senza causare gravi ripercussioni generali” (Pavan, 1967). Pavaninsisteva in modo particolare sulla responsabilità dell’uomo nella riduzio-ne della superficie delle foreste: “Al tempo di Carlo V, nel 16° secolo, glieserciti potevano recarsi dal meridione della Spagna fino al Norddell’Europa, senza uscire dalle foreste. Oggi è possibile percorrere lo stes-so itinerario senza entrare in una foresta”Come abbiamo già ricordato, Pavan pose il problema della distruzionedella natura anche nei paesi del terzo mondo. La sua attenzione restavaparticolarmente centrata sull’Africa, nel ricordarci che: “ Numerosi statiindipendenti dell’Africa, che una certa facile letteratura considera semprecome un continente abitato da uomini selvaggi e da terribili animali sbra-natori di uomini, ci stanno dando l’esempio di una comprensione moder-na dei problemi dell’equilibrio e della conservazione della natura e dellesue risorse, di cui vorremmo avere l’eguale in molti paesi d’Europa”. Eglifece riferimento ai manifesti di Arusha (Tanzania), 1961 e di Nairobi(Kenya), 1963, solenni proclami di governi africani, esempi di sensibilitàmoderna per i problemi della conservazione della natura e delle risorsenaturali: “Nei giorni della proclamazione del Manifesto di Nairobi eravamonei Parchi nazionali del Kenya, paese ancora sotto l’amministrazione ingle-se; questa gestiva in modo esemplare una rete di Parchi Nazionali e diRiserve naturali tra i più interessanti del mondo, tali da giustificare vera-mente l’impegno degli uomini di governo africani che entro brevissimotempo avrebbero preso le redini del loro paese. Nei parchi nazionali diKenya, Tanzania ed Uganda la gestione dei governi autonomi, assunta conl’indipendenza, ci è apparsa egualmente esemplare nelle ripetute visitecondotte successivamente”.Nel suo lavoro il prof. Mario Pavan approfondì le ragioni della distruzionedella natura in America, Asia, Oceania ed Australia, elencò i mammiferirari minacciati di estinzione, gli uccelli estinti o che si presumevano estin-ti dopo il 1.600. Riconobbe la necessità di una politica mondiale del suolo,considerati gli enormi danni delle erosioni, trovò ingiustificate e dannosele grandi distruzioni faunistiche, ribadì la necessità di mantenere impor-tanti equilibri biologici, evidenziò gli errori della caccia indiscriminata e, dabravo entomologo qual’era, ci fece rilevare il ruolo degli insetti nell’econo-mia e nell’equilibrio della natura. Il suo SOS pianeta terra (Pavan, 1969)era stato specificatamente redatto per l’insegnamento della conservazionedella natura e degli equilibri biologici nelle scuole della Somalia, sullabase di una specifica richiesta del Ministero della Pubblica Istruzionesomalo. (Clauser, Dell’Oca, Pavan, 1969)Pavan ci aveva dato suggerimenti che rimasero inascoltati, sia in campostrettamente ambientale, alla vigilia di quello che sarebbe stato l’anno1970, ovvero l’Annata Europea per la Conservazione della Natura, sia incampo internazionale per quanto afferiva alle politiche specifiche nei con-fronti dei paesi terzi, in particolare degli stati africani da poco indipendenti.Pavan fu uno dei primi a parlarci della “vera Africa”, spiegandoci non come

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gli africani muoiono, ma come vivono e come in futuro avrebbero potutovivere in un rapporto privilegiato con il proprio ambiente naturale.Il messaggio di Mario Pavan fu vox clamantis in deserto.

1970, Anno europeo per la Conservazione della NaturaAltre voci si levarono in occasione del tanto celebrato 1970, AnnataEuropea per la Conservazione della Natura. In quell’occasione PietroZangheri ben individuò la crisi nel rapporto uomo-natura e ci ricordò comedisprezzo per la natura fosse disprezzo per l’uomo. Citò un aforisma diBacone: non si comanda alla Natura che obbedendole.Obbedire alla natura dunque, come fanno gli altri viventi, dando sostanzaalla società umana “piena”, molto diversa da quella “vuota” che è la socie-tà condizionata dallo strapotere della tecnologia: “che, di fatto e senza esa-gerazioni, arriva in pratica ad attuare l’esclusione dell’uomo vero”, mentrel’umanità diventa pedina di una tecnologia che sta mutando l’uomo in unsuo prodotto, in una particolare funzione nell’ambito di un apparato tecni-co. L’uomo non più in rapporto con la natura, ma dipendente dalla tecno-logia, con la chiusura di un dialogo tra uomo e Natura. (Zangheri, 1970)Zangheri pone particolarmente l’accento sul problema della popolazione:“La natura è grande maestra in materia: ha adottato, per gli organismivegetali ed animali, i più vari espedienti: limitazione dei tempi atti allariproduzione, selezione a tutti i livelli, sacrificio di un gran numero di vite(ancor più che in atto in potenza), lotta senza quartiere perché non si giun-ga alla cosiddetta riproduzione potenziale…..Ciò che non ha mai fatto laNatura nelle centinaia di milioni di anni che conta la vita sul pianeta, loha fatto l’uomo”. (Zangheri, 1970)I concetti di Zangheri furono ribaditi nel corso di un Convegno organizza-to dalla Federazione delle Associazioni Scientifiche e Tecniche (FAST), aMilano, nel 1970 in occasione dell’Anno Europeo per la Conservazionedella Natura, un incontro cui partecipò una vera folla. Furono non menodi 1.600 i convegnisti che ebbero modo di assistere ad una sconcertantepasserella di politici, opinionisti e scienziati.Nella sezione dedicata alle premesse culturali della crisi ecologica, GiorgioNebbia ci consegnò un quadro d’analisi impareggiabile, stimolandoci allariflessione con un’affermazione che non abbiamo mai dimenticato: “Lacrisi dei rapporti tra l’uomo e la biosfera dipende dalla maniera in cui latecnica è usata e la soluzione della crisi non è soltanto un problema tec-nologico e naturalistico, ma anche, e forse soprattutto, un problema cul-turale”. (Nebbia, 1971)Nebbia ebbe anche il coraggio di farci rilevare come la cultura giudaico-cristiana sia essenzialmente antropocentrica, basata sul principio che l’uo-mo è re della natura e che la stessa è a lui data per servirlo.“Non bisogna dimenticare che nella nostra gara per la conservazione del-l’ambiente è in gioco la sopravvivenza della stessa democrazia. Se infattinon sapremo far tacere i singoli egoismi in vista del fine comune di lascia-

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re alle generazioni future un ambiente umano e se non sapremo program-mare volontariamente l’uso delle risorse naturali e del territorio, dovremoaugurarci la creazione di un’autorità centrale – una dittatura della con-servazione – capace di svolgere una nuova politica di programmazione edi razionale utilizzazione del patrimonio comune”. (Nebbia, 1971)Altre voci si unirono a quella di Giorgio Nebbia nel corso del Congresso,che qualcuno timidamente definì una sorta di Man’s Role all’italiana, 15anni dopo. Ci interessa ricordare quella dell’idrobiologo Roberto Marchetti,il quale sostenne: “Per effetto dello sviluppo delle forze produttive, il rap-porto dell’uomo con la natura che, in origine, era squisitamente biologico,ha fatto un salto di qualità: quello attuale è un rapporto che tende adessere – senza per altro riuscirvi – di tipo strumentale ( natura come ogget-to; uomo fuori della natura, ecc.). Un tempo l’uomo utilizzava le risorsenaturali senza alcuno sconvolgimento dell’ecosistema; oggi invece lomodifica profondamente con strumenti e per bisogni che egli stesso crea.”.(Marchetti, 1971)Nessuno, nel corso del Convegno di Milano, accennò a Man’s Role.Un vero peccato anche perché è proprio dal 1970 che muove la critica diDario Paccino, il quale si presenta sempre in coppia, sostenuto da unadelle più fulgide e nitide personalità dell’ambientalismo scientifico deglianni ’60, quella favolosa personalità, al tempo stesso schiva e dirompen-te, che fu Valerio Giacomini, Direttore dell’Istituto Botanico di Roma, pro-fessore di botanica alla Sapienza e Presidente della Federazione NazionalePro Natura. (Paccino, 1970)Come ben comprese Valerio Giacomini, le pagine di Dario Paccino non sonopagine di scienza, sono la traduzione umana di un’originaria parola scienti-fica e, nell’intento, volevano giungere a tutti: entrare nella case, nelle scuo-le, nelle fabbriche, non tanto per comunicare impressioni superficiali, mauna convinzione sofferta e realistica delle più urgenti necessità comuni.L’urgente necessità comune, quella che avevano sottolineato già ormai da15 anni gli autori di Man’s Role, era quella di un confronto continuo,costante, autocritico tra uomo ed ambiente, un confronto che potessechiarire come, nelle sue manifestazioni, l’uomo poteva trasformarsi innemico di se stesso, distruttore della propria casa.Paccino, giornalista e, come lo definiva Valerio Giacomini, terzo uomo, ingrado di creare una comunicazione tra il produttore specialistico di scien-za e di tecnica (primo uomo) e qualsiasi altro uomo (secondo uomo) chemanifestasse ben legittime esigenze di informazione e conoscenza in cam-bio ambientale, elaborò un testo che divenne un libro culto dell’epoca, ilcui titolo non dava adito a dubbi: “L’imbroglio ecologico”. (Paccino, 1972)Assunto dell’opera era la proposta di mettere l’ecologia con i piedi perterra, la terra di tutti gli uomini, quindi anche quella delle loro verità edideologie, dipendenti dal sistema dei rapporti di produzione.Dario Paccino, lo possiamo dire perché siamo stati grandi amici, così comelo fummo di Valerio Giacomini, era in aperta polemica con quell’ecologia

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o quegli ecologi che si libravano al di sopra delle parti, gli scienziati aset-tici, ma non era tenero neppure con i materialisti storici che accoglievanola riduzione idealistica della storia naturale alla storia umana.Il testo è tesissimo, vissuto e polemico. Da molti fu classificato al livello delpanphlet, in particolare da uomini di scienza, cultura, politica ed economiache, nel loro apparente, asettico non schierarsi, sceglievano il modellodello sfruttamento delle risorse naturali come assolutamente necessarioed irreversibile, mentre da altri e tra questi vogliamo annoverarci, il testodi Dario Paccino fu considerato una vera svolta nella valutazione del rap-porto uomo-natura, che teneva conto anche del modello produttivo e di“coloro che, per guadagnarsi il pane, devono vivere in habitat che nessunecologo accetterebbe per gli orsi del Parco Nazionale d’Abruzzo e gli stam-becchi del Parco Nazionale del Gran Paradiso: gli operai delle fabbriche edei cantieri”. (Paccino, 1972)L’Italia aveva il suo Man’s Role su basi polemiche, politiche ed economi-che, un Man’s Role che muoveva dalla storia naturale e dai momenti sto-rici dell’ecologia, per affrontare e criticare una certa ideologia ecologica,ma non se ne rese conto.Paccino definì l’uomo “nemico di se stesso”, in quanto non in grado di per-cepire che la conservazione della natura significa conservazione di se stesso,difesa di tutta la vita del mondo, di equilibri e solidarietà universali, ma dif-fida ed invita a diffidare dell’ideologia ecologica che “raggiunto l’accordosulla natura, sul consumismo, sui costi, è pronta, come Cenerentola riscatta-ta dal Principe, ad indossare le più belle vesti del guardaroba del padrone”.Non possiamo dimenticare il ruolo avuto da un altro biologo, EttoreTibaldi, il quale ulteriormente sviluppò le idee di Dario Paccino, con un’im-postazione che potremmo definire di anti-ecologia: si trattava di discuteretra ecologia come scienza di sintesi ed ecologia come sintesi di scienze inmodo da capire chi fossero i padroni dell’ecologia e se veramente esistes-se, come sosteneva Paccino, un’ecologia dei padroni. (Tibaldi, 1975)Ci vorranno trent’anni per capire che l’ecologia corrente, l’ecologia di fac-ciata, l’ecologia politica è ecologia dei padroni.

Dopo Man’s Role, l’ambito internazionaleA distanza di poco più di un decennio, George Stewart aveva già aggior-nato gli argomenti di Man’s Role con un testo, “Not so rich as you think”,il cui sottotitolo era chiarissimo: “Immondizia, smog, ciarpame e fogne, ilprezzo nascosto che stiamo pagando per la nostra opulenta società”.(Stewart, 1967).Il primo contributo internazionale all’altezza dell’analisi di Man’s Role fu“The tragedy of the commons” di Garrett Hardin. (Hardin, 1968)Hardin è ormai un classico ed il suo contributo è stato recentemente dis-cusso e rivalutato. (Dietz, Ostrom, Stern, 2003)Hardin sosteneva che, in un ambiente ristretto e con risorse non abbon-danti, la logica dei commons produce la propria rovina ed il decesso di

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coloro che dipendono dai beni comuni. La posizione di Hardin a questoproposito è chiarissima: non esistono vie intermedie, o si sceglie il sociali-smo o si sceglie la libera impresa. Secondo Hardin, comunque, la sponta-neità non sarebbe in grado di garantire una gestione sostenibile e prolun-gata nel tempo di beni via via più scarsi, perché più richiesti.Per Garrett Hardin, nel 1968, due erano i fattori antropici alla base delletrasformazioni ambientali: la crescente richiesta di risorse naturali ed ilmodo in cui l’uomo si organizza nel recupero di queste risorse, alterandole.L’anno seguente, Don R. Arthur definisce il modello educativo che sidovrebbe adottare per segnalare e far comprendere le problematicheambientali. Centrando la propria attenzione sull’ecologia umana, sostiene:“l’ecologia umana dovrebbe essere parte integrante dell’educazionemoderna in un mondo sempre più dominato dai processi tecnologici”.(Arthur, 1969)Abbiamo già rilevato come il 1970 rappresenti l’anno più significativo inambito europeo, dopo la comparsa di Man’s Role, ma lo è anche oltreo-ceano, ove si riprende in maniera decisa l’analisi di Rachel Carson in SilentSpring. L’opera della Carson è definita: “pietra miliare scientifica” del XXsecolo, sì come l’origine della specie di Darwin lo era stata nel XIX.(Graham, 1970)Nel 1971 si parla del pianeta terra come fosse popolato da una società sui-cida. Si sostiene che l’umanità sia ormai ad una svolta decisiva della pro-pria storia e che l’utopia di una futura e perfetta civiltà delle macchine sipuò trasformare in un pauroso incubo tecnologico che, nel giro di 30 anni,potrebbe rendere non più abitabile il mondo, per via della sovrappopola-zione, dell’inquinamento e delle alterazioni a carico della natura. (RattrayTaylor, 1971) Il 1972, anno della Conferenza Mondiale sull’Ambiente di Stoccolma, fuun altro flop, anche se non mancarono messaggi diretti e specifici, come“The limits of the growth” del Club di Roma, limiti dello sviluppo/crescitache avrebbero anche potuto tradursi in “equilibrio globale” (Forrester at al.,1973) ed il testo di Barbara Ward e René Dubos, “Only one earth, the careand maintenance of a small planet”, il rapporto non ufficiale che accom-pagnò la Conferenza. (Ward & Dubos, 1972)Dei primi anni ’80 è l’ipotesi Gaia, il pianeta capace di autoregolarsi e dirispondere, forse, a tutti i fattori nuovi ed avversi che turbano gli equilibrinaturali. (Lovelock, 1981) Il dibattito sulla teoria di Gaia è ancora in corso e James E. Lovelock èdiventato uno dei guru dell’ecologia convertitasi al nucleare.Nello stesso 1981 si pubblica un bellissimo testo di Andrew Goudie:“Man’s Role in environmental change” il quale considera le problematichedella vegetazione, degli animali, del suolo, dell’acqua, dell’uomo comeagente geomorfologico, del clima e dell’atmosfera, della proliferazionedegli impatti, dei cambiamenti reversibili ed irreversibili, della suscettibili-tà al cambiamento. Goudie si chiede se il futuro della terrà sarà segnato

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dall’uomo o dalla natura, conducendoci in un excursus che muove da JohnRay (The wisdom of God manifested in the works of the creation, 1691) al“Man and Nature” di George Perkins Marsh (1864), passando per Bacone,Galileo, Cartesio, Humboldt ed i principi di geologia di Charles Lyell(1835). (Goudie, 1981)Il cerchio, a nostro avviso, si chiude nel 1990, con la morte di LewisMunford, che diede un contributo insuperato alla discussione di Man’sRole e la pubblicazione, da parte di Hans Yonas de “Il principio di respon-sabilità, un’etica per la civiltà tecnologica”, in cui Yonas evidenzia comel’uomo sia diventato, per la natura, più pericoloso di quanto la natura, untempo, fosse per lui. (Jonas, 1990)

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NNoonn aa ccaassooNon a caso gli organizzatori del convegno da cui nacque il volume Man’sRole chiesero la collaborazione di Lewis Mumford (1895-1990), lo studio-so a cui si deve, a mio parere, con il libro “Tecnica e cultura” (1932) la piùstimolante analisi dei rapporti fra energia, materiali e tecnica, e l’evolu-zione della società umana e le alterazioni della natura e della “Terra”.Ampliando una idea che era stata espressa nel 1914 da Patrick Geddes(1854-1932), Mumford propose di dividere la storia umana in vari periodisulla base della capacità di usare la tecnica per trasformare la natura e rica-varne beni in grado di soddisfare le necessità umane: di alimenti, di calore,di abitazioni, di movimento, conoscenza, possibilità di comunicare. In que-sta evoluzione della tecnica l’energia ha sempre avuto un ruolo centrale.Mumford ha chiamato eotecnico il periodo che va dalla rivoluzione delNeolitico – la transizione delle comunità umane dallo stadio di raccogli-tori-cacciatori a quello di coltivatori-allevatori – fino all’incirca alMedioevo, così come lo chiamiamo noi occidentali.In tale lungo periodo, una diecina di migliaia di anni, gli esseri umanihanno avuto bisogno di energia per ricavare pietre e metalli dalle rocce,per solcare i mari, ed hanno imparato ben presto a ricavarla da quello chela Terra e la natura offrivano. Il legno delle foreste, bruciando, forniva calo-re dapprima per riscaldare le caverne e poi le abitazioni, cuocere e conser-vare gli alimenti, per renderli disponibili anche a mesi di distanza dai rac-colti o dalla macellazione. Il calore della combustione del legname per-metteva di cuocere le argille, di trasformare alcuni minerali in metalli durie resistenti adatti a tagliare le pietre e ad uccidere gli animali e altri esse-ri umani che si azzardavano a cercare di conquistare terre o raccolti o ani-mali ”altrui”. Il calore del Sole faceva evaporare, lungo le coste del mare,l’acqua marina lasciando una polvere bianca, il sale, che ben presto si rive-lò essenziale per conservare le carni e le pelli e che addirittura poteva esse-re scambiato con altri popoli lontani dal mare.Oltre alla biomassa di origine solare e al calore diretto del Sole, le comu-nità antiche impararono a utilizzare il vento, un’altra fonte di energia deri-vata dal Sole, che si prestava a far muovere le barche e le navi con la suapressione sulle vele e quindi con meno fatica umana. Con queste tre fontienergetiche solari – biomassa da bruciare, calore solare diretto, vento –tutte e tre rinnovabili, come diremmo oggi, le società umane hanno per-

ENERGIA, INSUCCESSI E SPERANZE: IL LAVORO UMANO COME MODIFICATORE

Giorgio Nebbia

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corso novemila anni del periodo eotecnico durante il quale sono cambia-te materie prime, minerali, imperi, strutture sociali, modi di uccidere, reli-gioni, modi di vita delle classi agiate e dello sterminato proletariato – e sisono fatti vedere i primi segni di modificazione della Terra.Già l’uso eotecnico delle risorse rinnovabili e della tecnica aveva lasciatoconseguenze che, del resto, erano ben presenti nel classico libro diGeorge Marsh (1801-1882) a cui si ispirava il convegno Man’s Role. Leattività minerarie e metallurgiche e l’uso del legno come fonte di energiaavevano già lasciato profondi segni negativi sotto forma di erosione delsuolo, di frane e alluvioni; la stessa nascita delle città medievali, con leloro nuove esigenze di una borghesia urbana e mercantile, aveva contri-buito all’abbandono di parte delle campagne e foreste e a profondemodificazioni nel mondo naturale, nel corso dei fiumi richiesto dalle boni-fiche che dovevano aumentare le terre coltivate a colture alimentari perla popolazione crescente.Geddes e Mumford raccontarono che al periodo eotecnico è seguito unnuovo periodo, che essi chiamarono paleotecnico, in cui “la tecnica” haimparato a usare nuove fonti di energia – carbone e petrolio – nuovematerie prime e ciò ha provocato alterazioni ambientali e sociali, unasocietà violenta e inquinata, l’“impero del disordine”, con città congestio-nate, valli erose esposte a frane e alluvioni.Mumford, scrivendo nel 1932, credé di ravvisare – erano i tempi del NewDeal rooseveltiano – i segni dell’avvento di una nuova società, “neotecni-ca”, basata sull’elettricità e su nuove strutture urbane, su nuovi rapportisociali; alla società neotecnica avrebbe dovuto seguire una società “bio-tecnica” basata sulle risorse rinnovabili, sulle merci e fonti di energia deri-vate dai grandi cicli biologici, da quella che oggi chiamiamo biomassa. Lecose sono andate molto diversamente e l’analisi di questo cammino puòaiutare a riconoscere, forse, i segni di cambiamenti che si intravvedono(che potrebbero verificarsi) verso quella società neotecnica e biotecnicaauspicata da Mumford. Il libro Man’s Role in molti capitoli prende già inesame le modificazioni apportate dall’uomo sulla natura già nei periodieotecnico e paleotecnico. Molti studi successivi hanno contribuito a chia-rire ulteriormente questi aspetti.Prima di affrontare una pur breve analisi dei rapporti fra energia e modi-ficazione della Terra sarà il caso di chiarire di chi stiamo parlando: l’“uomo”che modifica la Terra è appartenuto ed appartiene ancora oggi ad unaminoranza, forse il 20 percento, degli abitanti del pianeta. L’analisi chesegue si riferisce sostanzialmente a questa parte degli “uomini” non per-ché quanto è avvenuto ed avviene nei rapporti fra il resto dei terrestri e laterra da loro abitata abbia meno importanza, quanto piuttosto perchéquel 20 percento degli uomini che noi chiamiamo “sviluppati”, che abita-no quello che si suole chiamare “il Nord del mondo”, ha contribuito da soloalla maggior parte delle modificazioni della Terra, intesa come suolo,acque e atmosfera, in gran parte appartenente al resto dell’umanità.

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In questo inizio del XXI secolo anche una parte crescente del restante 80percento degli “uomini” è investito da mutamenti sociali ed economici cheportano a consumi di energia e di merci simili a quelli della minoranzaopulenta, il che suggerisce che le modificazioni negative della Terra sifaranno sentire con crescente rapidità e intensità, il che rende ancora piùurgente chiedersi in quale modo è possibile soddisfare i bisogni umani conmerci ed energia, in quantità e di qualità diverse dalle attuali e capaci dialterare di meno “la Terra”. Due altre precisazioni: in questo contributocontinuerò ad usare il termine “uomo”, al singolare e al plurale, nel sensoe nello spirito di “man” del testo inglese del libro Man’s Role, cioè di“uomo e donna”, di essere umano, ben riconoscendo quanto “la donna” siacoinvolta nelle, e danneggiata dalle, modificazioni della Terra. Infine useròil termine Terra con la “T” maiuscola per indicare il pianeta e le sue risor-se e il termine “terra” con la “t” minuscola, per indicare il suolo, il terreno.

La società paleotecnica del carboneLe prime vere grandi modificazioni della Terra da parte dell’uomo si ebbe-ro con l’avvento dell’era del carbone che si può far coincidere con l’iniziodell’era paleotecnica. Al graduale impoverimento delle foreste come fontidi combustibili fece fronte la “provvidenziale” scoperta che il carbone, pre-sente nel sottosuolo di molti paesi, poteva essere usato come combustibile.Il carbone, già nelle sue prime applicazioni, in Inghilterra, rivelò i suoiinconvenienti sotto forma di puzza e di polveri inquinanti, al punto daprovocare, già nel Cinquecento, leggi che ne limitavano l’uso come com-bustibile. Ma la grande svolta paleotecnica si ebbe con il contemporaneoaumento della richiesta di energia e di ferro: la scoperta della polvere dasparo, la necessità di produrre cannoni e armi con materiali meno costo-si del bronzo, spinsero alla ricerca di nuovi metodi di fabbricazione delferro; nel Medioevo la trasformazione degli ossidi e dei minerali di ferroin ferro era realizzata con il carbone di legna, con una fonte di energia,quindi, rinnovabile ed eotecnica, ma ben presto il legno, in seguito aldiboscamento, cominciò a scarseggiare e fu necessario cercare un sosti-tuto del carbone di legna. Il carbone, per il suo elevato contenuto di carbonio, si prestava bene per leoperazioni siderurgiche e nel 1600 cominciarono a diffondersi forni da ferroalimentati a carbone fossile. Siamo nel secolo in cui intellettuali e sapienticercavano di capire “come sono fatti” i beni offerti dalla natura e come pos-sono essere trasformati al vantaggio dell’economia e delle manifatture, iltempo in cui i filosofi, ricordiamo per tutti Francesco Bacone (1561-1626)e Renato Cartesio (1596-1650), sostenevano che la natura è ”strumento”necessario per il progresso tecnico e delle manifatture: anche se lo stessoBacone avvertì che “alla natura si comanda solo se le si ubbidisce”.Il meccanismo di sfruttamento della natura e di modificazione della Terraera comunque avviato: i “chimici” mostrarono ben presto che il carbonefossile, scaldato in assenza di aria, si trasformava in un materiale, il “car-

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bone coke”, che si prestava bene per la produzione del ferro, una scopertache fu applicata industrialmente nel 1709 dall’inglese Abraham Darby(1677-1717); anzi le miscele di carbone coke e minerale potevano esseretrattate in forni più grandi dei precedenti, gli altiforni, con i quali era pos-sibile ottenere più ferro e a costi minori.Da questo momento in avanti è tutta una reazione a catena; nella trasfor-mazione del carbone fossile in carbone coke si formavano dei fumi cheinquinavano l’aria e le acque nelle zone minerarie e metallurgiche; perdiminuire questi inquinamenti vennero analizzati i fumi delle cokerie e benpresto qualcuno scoprì che, per raffreddamento, si potevano recuperaresostanze liquide e solide e gassose. Il recupero di catrame dai gas dellecokerie cominciò in Germania nel 1770 e quasi contemporaneamentefurono separate a analizzate le altre componenti che si rivelarono utilicome materie per la produzione di coloranti sintetici. La frazione gassosaera costituita da sostanze combustibili che potevano essere immesse inadatte tubazioni e che, bruciando con fiamma luminosa, vennero usate, apartire dai primi anni dell’Ottocento, per illuminare strade e poi officine,fabbriche e poi abitazioni.Nello stesso tempo la disponibilità di migliori qualità di ferro e acciaio per-metteva di costruire motori – la svolta fu rappresentata dai perfeziona-menti della macchina a vapore introdotti da James Watt (1736-1819) nel1776 – e macchine per aumentare la produzione di tessuti e la fabbrica-zione di pompe con cui era possibile svuotare l’acqua dai pozzi minerari eaumentare la produzione del carbone.L’aumento della produzione di tessuti per una popolazione in aumento eper un proletariato che cominciava ad avere un pur piccolo reddito richie-deva migliori agenti lavanti e sbiancanti ed è ancora il carbone che per-mette di trasformare il sale in carbonato di sodio col processo inventatodallo sfortunato medico Nicola Leblanc (1742-1806). Il processo Leblancrichiedeva acido solforico che doveva essere prodotto trattando lo zolfocon processi inquinanti e durante la produzione della soda si formavanoresidui inquinanti come l’acido cloridrico e l’idrogeno solforato.In questo avvio dell’era paleotecnica, nella prima metà dell’Ottocento, pra-ticamente l’unica fonte di zolfo era rappresentata dalle miniere della Sicilia;l’estrazione e la raffinazione dello zolfo, oltre ad effetti umani devastanti,provocò la distruzione dei raccolti e l’inaridimento di vaste zone della Sicilia,anche queste conseguenze di un processo reso possibile dal carbone.Altrettanto devastanti erano le modificazioni della Terra nelle zone mine-rarie e metallurgiche in Germania, Francia, Inghilterra. Alcune delle sostan-ze che si liberano nell’aria durante la trasformazione e l’uso del carbonefacevano comparire strane malattie che i medici riconosceranno ben pre-sto come forme di tumore derivanti dal contatto delle mani e del corpodegli operai e degli spazzacamini con tali sostanze “cancerogene”.Le città paleotecniche sono state descritte da Charles Dickens (1812-1970;si pensi alla Coketown di “Tempi difficili”, del 1854) e dagli scrittori “radi-

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cali” dell’Ottocento. Il trionfo del carbone è apparso allora così grande dafar temere ad alcuni economisti, come Stanley Jevons (1835-1882), il pos-sibile esaurimento delle riserve inglesi di carbone. Una previsione fuoriluogo perché pochi anni prima che Jevons pubblicasse, nel 1865, “Thecoal question”, un certo “colonnello” Drake (1819-1880) aveva scopertonel sottosuolo della Pennsylvania un nuovo combustibile, il petrolio, cheavrebbe aperto una nuova fase della società paleotecnica.Il carbone ha continuato per tutto il Novecento e ancora in questo XXIsecolo, ad avere un ruolo rilevante come fonte di energia in molti paesi,ma è sempre più esposto a contestazioni sia per il crescente numero diincidenti mortali nelle miniere, sia per l’inquinamento atmosferico provo-cato dal suo uso, sia, soprattutto, per il contributo all’effetto serra, moltopiù grande, a parità di energia liberata, rispetto ai prodotti petroliferi e algas naturale, sia perché, infine, la combustione del carbone lascia dellescorie, in peso dal 10 al 15 % a seconda della qualità merceologica delcarbone, oltre mezzo miliardo di tonnellate all’anno nel mondo, di diffici-le smaltimento in discariche.La situazione non è alleviata dalle molte, peraltro di limitato successo, pro-poste di gassificazione, di gassificazione sotterranea, di abbattimentodegli inquinanti atmosferici.

L’era paleotecnica del petrolioIl petrolio era un combustibile noto da secoli, ma aveva avuto finoall’Ottocento praticamente solo modesta importanza. Eppure nel corso delNovecento aprì una nuova fase dell’era paleotecnica contribuendo all’au-mento dei guasti di tale società: la congestione, l’inquinamento, la deva-stazione urbana, la società dei consumi e dello spreco.Il successo merceologico del petrolio si ebbe con la scoperta che, per distil-lazione, poteva essere frazionato in varie materie combustibili liquide. Adifferenza del carbone, solido e trasportabile con difficoltà per mare o perferrovia, il petrolio era più facile da trasportare e le sue varie frazioni si pre-stavano a molte applicazioni fino allora impensate. Non pensava ancoraall’uso del petrolio Eugenio Barsanti (1821-1864) quando inventò, nellametà dell’Ottocento, un motore “a scoppio”, capace di trasformare un gas(all’inizio il gas illuminante) o un liquido (all’inizio l’alcol etilico) in un motorotatorio. Ma certamente quando Nicolaus Otto (1832-1891) e poco dopoRudolph Diesel (1858-1913) pensarono di utilizzare i liquidi distillati dalpetrolio in un motore a combustione interna, diedero l’avvio alla secondafase dell’era paleotecnica.Il nuovo motore ben presto si rivelò adatto ad azionare veicoli che si muo-vevano da soli – automobili – e, poco dopo, siamo ormai nei primi annidel Novecento, aeroplani. Il rapido aumento della produzione e della richiesta di automobili e diaeroplani, accelerata dalla prima guerra mondiale (1914-1919), fu accom-pagnata da un altrettanto rapido aumento delle richiesta di petrolio e dal-

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l’apertura di pozzi petroliferi dovunque era possibile: America, Russia,Romania, penisola arabica, Persia, eccetera. Nel 1850 la produzione mondiale di carbone era di circa 200 milioni ditonnellate all’anno e quella di petrolio era trascurabile, nel 1900 la pro-duzione mondiale annua di carbone era diventata di 800 milioni di ton-nellate e quella di petrolio era 25 milioni di tonnellate; nel 1938 la pro-duzione mondiale annua di carbone era stata di 1500 milioni di tonnella-te e quella di petrolio di 350 milioni di tonnellate, per arrivare, all’iniziodel XXI secolo, ad una produzione quasi uguale, di oltre circa 4000 milio-ni di tonnellate all’anno, di carbone e di petrolio; quest’ultimo ormaiestratto da territori sempre più difficili da raggiungere, come il fondo deglioceani e le zone artiche, con conseguenti profonde modificazioni di molteparti della Terra.L’impatto ambientale del carbone si era, fino ai primi decenni delNovecento, manifestato – vicino alle miniere, alle cokerie, alle fabbrichemetallurgiche e chimiche e nelle caldaie in cui il carbone veniva bruciato,sostanzialmente in installazioni fisse – sotto forma di polveri, di sostanzecancerogene, di metalli tossici presenti nelle ceneri. Le modificazioni dellaTerra provocate dal petrolio e dai suoi derivati si manifestarono sotto formadi perdite vicino ai pozzi o nei mari o nelle raffinerie, ma in grado moltomaggiore nelle nuove “macchine” mobili, veicoli che emettevano, ormaidovunque nel territorio, nelle città o nelle campagne, gas tossici, metallivelenosi, idrocarburi aromatici cancerogeni.La fase paleotecnica del petrolio fu caratterizzata da un aumento dellamobilità, dalla rivoluzione urbana, dalla nascita di grandi strutture edilizieverticali, fino ai “grattacieli”, da una crescita della richiesta di nuovi mate-riali come la gomma o “la plastica” o l’acciaio. Nello stesso tempo il car-bone e il petrolio vennero usati in quantità crescenti nella produzione dielettricità, quella comoda forma di energia che all’inizio era stata ottenu-ta da una fonte rinnovabile, come il moto delle acque, con le centraliidroelettriche. Le centrali termoelettriche hanno assorbito in tutto ilNovecento e ancora oggi crescenti quantità di carbone e di prodotti petro-liferi diventando importanti fonti di inquinamento atmosferico.Legato al petrolio, per la natura chimica degli idrocarburi che compongonoentrambi e per la frequente vicinanza ai giacimenti petroliferi, è il gas natu-rale che può essere estratto anche da giacimenti a grande profondità eanche sotto il fondo degli oceani e può essere trasportato con grandigasdotti che attraversano i continenti, o deposti sul fondo dei mari o in navirefrigerate allo stato liquido a bassa temperatura.Un nuovo volto della modificazione della Terra ad opera delle fonti di ener-gia si manifesta sotto forma di alterazioni climatiche. Un autorevole stu-dioso svedese, Svante Arrhenius (1859-1927), premio Nobel, già negli ulti-mi anni dell’Ottocento aveva indicato tali conseguenze del crescente usodei combustibili fossili. I combustibili fossili sono sostanzialmente deposi-ti di carbonio organico proveniente da residui vegetali e animali sommer-

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si sotto strati di rocce e coperti da mari poi evaporati. Si tratta di materiaformata, centinaia e decine di milioni di anni fa, dalla fotosintesi solare,biomassa anche quella, originariamente costituita da carbonio, idrogeno eossigeno, e passata attraverso i grandi cicli biochimici e geologici. Utiliindicazioni si possono ancora oggi trarre dalle fondamentali opere, “La bio-chimica” e “La geochimica”, scritte negli anni trenta del Novecento dallostudioso russo Vladimir Vernadsky (1863-1945), altro grande anticipatoredei temi trattati nel volume Man’s Role a cui ci stiamo riferendo.Col passare del tempo e in seguito a reazioni microbiologiche, i materialiorganici originali si sono trasformati in materie solide, liquide o gassose,ricche di carbonio, insieme ad idrogeno (di più nel gas naturale, di menonel petrolio e poco nel carbone). La combustione di questo carbonio fossi-lizzato genera anidride carbonica che finisce nell’atmosfera. Alcuni calcolimostrarono che l’aumento della concentrazione dell’anidride carbonicanell’atmosfera avrebbe alterato il bilancio energetico della Terra; una fra-zione dell’energia solare incidente sarebbe stata intrappolata dentro l’at-mosfera e avrebbe provocato un aumento della temperatura dell’atmosfe-ra e quindi degli oceani e delle terre emerse. L’anidride carbonica funzio-na come filtro della radiazione infrarossa riemessa dalla Terra verso glispazi interplanetari, in maniera simile a quanto fa una lastra di vetro chetrattiene il calore all’interno di una serra. Il fenomeno ha così preso il nomedi effetto serra, anche se non ha ricevuto grande attenzione fino allaseconda metà del Novecento quando si è visto che il rapido aumento dellacombustione di carbone, prodotti petroliferi e gas naturale, complessiva-mente oltre undici miliardi di tonnellate all’anno (equivalenti, insieme, aquasi 450 exajoule di energia) all’inizio del XXI secolo, provoca l’immis-sione nell’atmosfera, ogni anno, di circa 30 miliardi di tonnellate di ani-dride carbonica con conseguente lento inesorabile aumento della concen-trazione atmosfera di questo gas (e di altri “gas serra” associati all’uso deicombustibili fossili) e crescenti modificazioni del clima della Terra e con-seguente avanzata dei deserti, alluvioni, fusione dei ghiacci e innalza-mento del livello medio degli oceani; una reazione a catena planetariainnescata dall’uso umano delle fonti energetiche fossili.Un ultimo aspetto sulla insostenibilità dell’uso dei combustibili fossili èlegato alla crescente consapevolezza che le riserve di petrolio e di gasnaturale sono fisicamente limitate; agli attuali tassi di estrazione, le riser-ve di petrolio vengono stimate utilizzabili per poche diecine di anni, forse40 anni, e quelle di gas naturale possono durare un po’ più a lungo, esau-ribili forse entro una sessantina di anni. Ogni tentativo di aumentare l’ac-cesso alle riserve residue, presenti a sempre maggiori profondità nel sot-tosuolo dei continenti e nel fondo degli oceani, comporta alterazioniambientali e modificazioni della Terra.Un breve cenno su un’altra proposta, che sta trovando crescente ascolto,di produzione di energia dalla combustione dei rifiuti solidi urbani e indu-striali; questi rifiuti vengono indicati come una fonte di energia “rinnova-

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bile”, con la scusa che una piccola parte dei rifiuti urbani è costituita dascarti di alimenti o di attività di origine vegetale e solare; in realtà gli ince-neritori, in Italia chiamati termovalorizzatori, trattano ad alta temperaturarifiuti urbani e industriali, miscele complesse di merci usate e scartate, chenon sono affatto derivate dal Sole, che sono fonti di inquinamento atmo-sferico, e che lasciano come residui sostanze inorganiche, ceneri, che devo-no essere poste in discariche e da qui contaminano le acque e l’ambiente.Ugualmente ingannevole è l’illusione di recuperare metano combustibiledalle discariche di rifiuti, in quanto tali modeste quantità di gas combu-stibile derivano dalla putrefazione di materiali i cui residui contaminano leacque sotterranee. Se davvero si volesse recuperare una parte dell’energia“contenuta” dentro qualsiasi merce usata dalle comunità umane si dovreb-bero sviluppare tecniche di riutilizzo e riciclo, le uniche che consentono didiminuire i consumi complessivi di energia.

Il volto paleotecnico dell’energia atomicaLa terza fase paleotecnica nacque da una serie di scoperte fisiche verifica-tesi negli anni trenta del Novecento. Nel 1900 era stato descritto il feno-meno della radioattività, l’emanazione di energia (e di particelle) da partedi alcuni elementi naturali come il radio e il polonio. Cercando la causa diquesto fenomeno fu scoperto che alcune particelle costituenti del nucleoatomico, sia dotate di carica elettrica positiva (le particelle alfa) sia privedi carica come i neutroni, interagivano con vari elementi modificandone ilnucleo al punto da generare nuovi elementi.Vari esperimenti hanno mostrato, nel 1939, che in seguito all’urto dei neu-troni con il nucleo di uranio, tale nucleo si frammenta in nuclei più picco-li liberando energia, anzi grandissime quantità di energia rispetto allamassa degli elementi in gioco. Tale energia poteva essere liberata in gran-de quantità in tempi brevissimi con carattere esplosivo – e questo fu allabase della produzione delle bombe atomiche, a partire dal 1944-45 – opoteva essere liberata in maniera controllata e poteva essere recuperatasotto forma di calore, in modo da alimentare dei generatori di vapore perla produzione di elettricità. Nasceva la terza fase dell’era paleotecnica, quella nucleare. La prima appli-cazione di queste scoperte fu di carattere militare, la costruzione di bombeatomiche, nelle loro varianti di bombe a fissione dell’uranio e del plutonio,o di bombe a fusione degli isotopi dell’idrogeno, deuterio e trizio (nellebombe all’idrogeno, termonucleari). I sottoprodotti fisici, tecnologici eindustriali delle attività di costruzione delle bombe atomiche potevanoessere impiegati per la costruzione di centrali capaci di utilizzare il caloredella fissione nucleare controllata per la produzione di elettricità, un pro-gramma lanciato dagli Stati Uniti nel 1951 col nome di “atomi per la pace”.C'è stato un periodo, negli anni cinquanta del Novecento, in cui si è dif-fuso il mito che l'energia nucleare avrebbe risolto tutti i problemi energe-tici umani; sarebbe stato possibile superare i problemi di scarsità delle

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fonti fossili, addirittura i reattori autofertilizzanti, alimentati a plutonio,avrebbero potuto utilizzare, durante il funzionamento, anche l’uranio nonfissile. Reattori nucleari, collocati in qualsiasi punto della Terra, avrebberopotuto fornire calore ed elettricità per produrre ferro e alluminio, e prodottichimici e concimi per sfamare la popolazione terrestre, e per dissalare l’ac-qua del mare irrigando i deserti.Il sogno si è dissolto rapidamente in seguito a vari incidenti, i più noti deiquali furono quello al reattore americano di Three Mile Island (1979) e lacatastrofe al reattore ucraino di Chernobyl (1986), in seguito alle fughe dimateriali radioattivi dai vari impianti nucleari nel mondo, alla fine inglo-riosa del reattore autofertilizzante Superphenix e dei tanti soldi, anche ita-liani, dissipati in quella avventura. Così si sono dissolte pure le illusioninate dalla “scoperta”, da parte di alcuni scienziati, della "fusione fredda",che avrebbe dato energia illimitata senza tutti gli inconvenienti dei reat-tori a uranio e plutonio, scoperta poi rivelatasi infondata, o il sogno diottenere elettricità commerciale dalla fusione dei nuclei di idrogeno, unareazione che effettivamente libera energia, ma utile solo per le bombe ter-monucleari a idrogeno.La possibilità di ottenere elettricità commerciale dalla fissione dei nucleiatomici si scontra con problemi tecnici, economici e di modificazione del-l’ambiente che non hanno soluzione, tanto che la diffusione nel mondodi nuove centrali nucleari, in questo inizio del XXI secolo, procede moltolentamente. Molte grandi imprese industriali, direttamente o indiretta-mente legate alle attività militari, continuano a proporre un rilancio del-l’energia nucleare che viene presentata come soluzione agli inconvenien-ti che derivano dal crescente consumo di combustibili fossili, primo fratutti l'effetto serra responsabile dei mutamenti climatici che stannoaffliggendo tanti paesi.É vero che la produzione di elettricità nucleare avviene senza formazionedei gas responsabili dell'effetto serra. É vero che le riserve mondiali dipetrolio e di gas naturale si impoveriscono rapidamente e che un numerocrescente di pozzi di idrocarburi si sta esaurendo.Ma in questo quadro la soluzione non può essere cercata nel ricorso allacostruzione delle centrali nucleari. Tali centrali funzionano con un com-plesso ciclo che comprende l'estrazione di minerali di uranio (che contie-ne appena lo 0,7 % di uranio-235 “fissile”), con formazione di scorieradioattive inquinanti, la trasformazione dell'uranio naturale nell'"uranioarricchito" (col 3 % di uranio “fissile”) destinato ai reattori nucleari (conformazione di residui radioattivi di uranio "impoverito" che finora hannotrovato impiego nei proiettili di cannoni).L'uranio arricchito viene poi sottoposto a fissione nei reattori con libera-zione di calore e con formazione di atomi radioattivi (stronzio, cesio, iodioe altri) e di plutonio, tossico e radioattivo. Dopo vari mesi la "carica" delreattore viene estratta, con tutto il suo contenuto di elementi radioattivi,e viene lasciata a se per mesi o anni, con elevati costi di sorveglianza.

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Quando le piscine e i magazzini sono pieni degli elementi di "combustibi-le nucleare" esaurito, una parte viene sottoposta a delicate operazioni diseparazione degli elementi radioattivi che devono essere tenuti isolatidalle acque e da qualsiasi forma di vita per decenni o secoli. C'è, all'insa-puta di tutti, un traffico internazionale di residui radioattivi, alcuni desti-nati alla preparazione di armi nucleari, altri esposti a furti o ad azioni cri-minali; una parte finisce nei rottami e poi in materiali industriali.Quando poi la vita utile di un reattore è finita, dopo una trentina di anni,tutte le parti interne contengono materiali resi radioattivi per attivazionee la bonifica di un reattore, per evitare che le componenti radioattive fini-scano nell'ambiente, comporta costi molto elevati e nessuna soluzioneconvincente è stata finora trovata.Così come non esiste alcuna soluzione per la sepoltura, per secoli, di tuttii materiali radioattivi formatisi durante il funzionamento e alla "morte"del reattore. Alcuni propongono di gettarne gradualmente una parte neglioceani, altri di sotterrarli in miniere di sale, o in posti isolati, ma finora nes-sun progresso verso una soluzione convincente è stata trovata e i costi disorveglianza e immagazzinamento dei residui radioattivi delle attivitànucleari aumentano continuamente, a mano a mano che aumenta ilnumero di centrali nucleari commerciali in funzione (nel 2008 circa 450nel mondo), con una “storia” di esercizio di oltre 12.000 anni-reattore, acui vanno aggiunte le centrali e le attività nucleari militari.La critica alla resurrezione del nucleare ha anche altri aspetti: se si fannocorrettamente i conti si vede che le centrali nucleari producono elettricitàad un costo "superiore" a quello delle centrali tradizionali, nonostante levolonterose dichiarazioni del contrario da parte dei sostenitori del nuclea-re. Le centrali nucleari, durante il loro funzionamento "normale", sonofonti di un sia pur limitato ma continuo inquinamento radioattivo e inol-tre di un inquinamento termico dell'aria e delle acque superiore, a paritàdi elettricità prodotta, a quello delle altre centrali. Le centrali nucleari sonoesposte a incidenti: quella di Chernobyl fu una catastrofe, ma altri inci-denti sono avvenuti e sono possibili, con pericolo per le popolazioni, tantoche le norme internazionali impongono che le centrali siano collocate adistanza di sicurezza da centri abitati, industrie, installazioni militari.Riassumendo, le centrali nucleari non sono economiche, non sono sicure,non sono pulite e, con i materiali radioattivi che inevitabilmente genera-no, condannano diecine di generazioni future a far la guardia a pericolosidepositi che esse si troveranno intorno, senza neanche sapere perché legenerazioni precedenti hanno voluto correre l'avventura nucleare.La soluzione nucleare per la produzione di elettricità è improponibile e varifiutata per lo stretto legame che esiste fra il ciclo nucleare delle attività“commerciali” con quelle militari che le norme internazionali, come ilTrattato di non proliferazione nucleare, impongono (imporrebbero) di farcessare sia nei paesi che oggi possiedono armi e attività militari nucleari,sia in quelli, sempre più numerosi, che hanno tentazioni di costruire pro-

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prie armi nucleari. Ma nessun passo verso la denuclearizzazione della Terraè stato finora fatto: da qui la necessità di cercare altre strade.

Verso una società neotecnicaIl XXI secolo si è aperto con una chiara visione del fatto che le fonti dienergia usate – carbone, petrolio, gas naturale, fissione del nucleo atomi-co – provocavano profonde modificazioni della Terra. Pochi dati (peraltroapprossimativi), relativi alla situazione dei consumi mondiali nel 2008,possono dare un’idea delle modificazioni apportate agli ecosistemi terre-stri e alle società umane dall’uso di tali fonti di energia:

Consumo Massa degli agenti miliardi di t/anno EJ/anno miliardi di t/anno

Carbone 5,5 130 10 Petrolio 4,5 180 10Gas naturale 2,5 120 7 Energia nucleare – 3 – ? –Energia idroelettrica e altre (*) – 30 –

(*) Contabilizzata a circa 9 MJ per chilowattora

Come sarà possibile assicurare energia, dalla quale dipende la possibilitàdi ottenere qualsiasi altra merce, dagli alimenti, all’acqua, alle abitazioni,alla salute, ai mezzi di comunicazione e di mobilità, ad una popolazionemondiale di 6600 milioni di persone nel 2008, che aumenta in ragione di70 milioni di persone all’anno? Come sarà possibile dare una risposta atale domanda rallentando le modificazioni della Terra in corso e nel rispet-to dei diritti delle future generazioni ad un pianeta abitabile, e dei dirittidei paesi più poveri a condizioni di vita decenti e “umane”?La soluzione può essere cercata soltanto in una svolta nella direzione cheera stata indicata da Mumford, verso una società neotecnica basata sufonti di energia e materiali rinnovabili, derivati dal Sole, a cui dovrebbeseguire una società biotecnica.Il Sole è, infatti, l’unica vera fonte di energia da cui dipende la vita sullaTerra, che ha regolato i cicli e le ere geologiche del passato, che ha fabbri-cato la materia vegetale da cui si è formata la materia animale e la mate-ria che si è poi trasformata negli attuali combustibili fossili.All'interno del Sole, ad altissima temperatura, molti milioni di gradi, sisvolgono continuamente reazioni di fusione fra nuclei dei vari isotopi del-l’idrogeno con liberazione di energia a spese della massa del Sole.L'energia prodotta sul Sole in un anno – 30.000 miliardi di volte la quan-tità di energia usata sulla Terra nello stesso periodo – viene irraggiatanello spazio, in tutte le direzioni. Di tutta l'energia irraggiata dal Sole laTerra intercetta soltanto una frazione piccolissima; nel corso di un anno

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l'energia che raggiunge la superficie della Terra ammonta a circa3.500.000 EJ (exajoule) ed è circa ottomila volte superiore a tutta l'ener-gia – circa 450 EJ – che, in un anno (nel 2008), sulla Terra, tiene in motole fabbriche, gli 800 milioni di autoveicoli, le macchine, i frigoriferi, scaldagli edifici, eccetera. Dell’energia solare che arriva sulla superficie del pia-neta, circa 2.500.000 EJ raggiungono la superficie degli oceani e circa1.000.000 EJ quella delle terre emerse.L'energia solare svolge, da miliardi di anni, alcune funzioni fondamentali peril "funzionamento" e per la vita della Terra. Prima di tutto l'energia solaretiene in moto il grande ciclo dell'acqua; il calore solare fa evaporare e con-densare ogni anno 500.000 miliardi di tonnellate di acqua dalla, e sulla,superficie dei mari e delle terre emerse. Ogni anno 100.000 miliardi di ton-nellate di acqua ricadono, sotto forma di pioggia, neve o grandine, sulle terreemerse e circa 40.000 miliardi di tonnellate scorrono sulla superficie deicontinenti ritornando al mare dopo aver superato talvolta grandi dislivelli.Questo flusso di acqua ha "dentro di se" un contenuto energetico poten-ziale equivalente a circa 55.000 miliardi di chilowattora (circa 200 exa-joule, a 3,6 MJ/kWh)) all’anno; si tratta di energia meccanica, quella chesi "libera" quando l'acqua supera un dislivello e che può essere recupe-rata facendo passare tale acqua attraverso ruote o turbine. Di questo gran-de potenziale energetico ogni anno viene recuperata come energia idroe-lettrica soltanto una frazione minima, poco più del sei percento, circa3.000 miliardi di kilowattore (nel 2008).Il ciclo dell’acqua ha un ruolo fondamentale nel clima del pianeta e quin-di sulle modificazioni “naturali”; dove arriva l'energia solare la terra o imari si scaldano; l'evaporazione dell'acqua avviene a spese del caloresuperficiale per cui l'evaporazione dell'acqua è accompagnata da un raf-freddamento e il calore "immagazzinato" nel vapore acqueo viene resti-tuito dove l'acqua cade al suolo sotto forma di pioggia o neve.Grazie al ciclo dell'acqua il Sole scalda alcune parti del pianeta e ne raf-fredda altre; la differenza di temperatura mette in moto le masse di ariada una parte all'altra della superficie del globo e genera i venti, la cuigrandissima forza può anch'essa essere utilizzata come fonte di energia, eprovoca il moto delle onde sulla superficie dei mari: vento e moto ondosoentrambi potenziali fonti energetiche derivate dal Sole.

Speranze e qualche limite della società neotecnica solareL’importanza dell’uso delle fonti energetiche rinnovabili di origine solaresta nel fatto che (a) il loro uso arreca modificazioni della Terra molto mino-ri, rispetto a quelle fossili e all’energia nucleare e (b) che esse si prestanoa fornire le merci energetiche in tutte le forme ottenibili dalle fonti non rin-novabili: calore ad alta e bassa temperatura, elettricità, energia meccani-ca, merci alimentari e materie prime industriali.Il “calore” solare può essere concentrato, con un sistema di specchi,in unospazio piccolissimo tanto che nel punto di concentrazione, nel "fuoco" del

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sistema, si raggiungono temperature altissime; forse con qualche lente ospecchio gli uomini primitivi hanno acceso i primi fuochi, "catturando" ilcalore del Sole. Se si desse retta ai racconti, scritti però molti secoli dopol'evento, il primo uso dell'energia solare a fini pratici andrebbe attribuitoal grande matematico greco Archimede che, per aiutare il suo amico eospite Gerone a difendere Siracusa, avrebbe costruito un insieme di spec-chi per riflettere e concentrare la radiazione solare sulle vele della flottaromana comandata da Marco Claudio Marcello. Le vele e le navi si sareb-bero incendiate e i Romani sarebbero stati costretti a rimandare per mesila conquista della città. Abbastanza curiosamente la prima applicazionedell’energia solare, su cui si vorrebbe costruire una società neotecnicameno violenta e inquinata, sarebbe stata pensata a fini militari. Di certo ilproblema degli specchi e delle lenti incendiarie, "ustorie", ha affascinatoi matematici per duemila anni dal mondo greco, a quello persiano e isla-mico in Asia a quello cinese, tornando poi nel Mediterraneo, la prima mul-tinazionale scientifica alla rincorsa dell’uso del Sole: un altro esempio disolidarietà internazionale alla ricerca di strumenti per le energie rinnova-bili è offerto dagli strumenti per utilizzare l’energia del vento e l’energiadel moto delle acque, i motori a vento e i “mulini”, passati dalla Cina,all’Asia centrale, al Mediterraneo. Il riscaldamento ad alta temperatura, mediante specchi solari, dei mate-riali ha permesso di scoprire nuove proprietà della materia, già nelSettecento, e ha stimolato moltissime invenzioni di motori e macchineazionati dal vapore ottenuto concentrando l’energia solare con specchi.L'ottenimento di calore ad alta temperatura mediante la concentrazionedella radiazione solare è apparentemente affascinante, ma presentanumerose difficoltà, in primo luogo perché è in grado di utilizzare soltan-to la radiazione diretta, quella disponibile quando il cielo è limpido, e lafrazione di energia solare diretta disponibile varia a seconda dei luoghi edelle stagioni; i tentativi di far funzionare delle centrali termoelettrichecon collettori a specchi non hanno finora avuto successo; una centralesolare a specchi costruita in Sicilia è stata chiusa dopo pochi anni di cat-tivo funzionamento. Altre difficoltà hanno incontrato le varie centrali sola-ri a specchi costruite in vari paesi.La causa dell'insuccesso va cercata nel fatto che una caldaia, necessariaper alimentare le turbine di una centrale elettrica, deve disporre di un flus-so di calore non solo ad alta temperatura costante, ma anche continuo; nelcaso delle centrali a specchi o con concentrazione basta che il cielo si ran-nuvoli perché il calore solare cessi di arrivare nella caldaia che non è piùin grado di generare il vapore necessario per il funzionamento della turbi-na. L’impianto deve pertanto essere dotato di un sistema di conservazionedel calore ad alta temperatura per tempi abbastanza lunghi, il che è diffi-cile. Infine gli specchi devono essere continuamente orientati verso il Sole,seguendo il suo “moto apparente” nel cielo, variabile da giorno a giorno,operazione anche questa non facile.

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I limiti dei sistemi a concentrazione stanno nel fatto che il Sole da il megliodi se stesso se gli si fanno fare su scala umana le cose che sa già fare benesu larga scala e male si adatta alle dimensioni delle macchine sviluppateper altre fonti di energia.

Il Sole scalda l’acqua e le caseLe cose vanno meglio se ci si accontenta di ottenere dal Sole calore a bassatemperatura, che è la più sperimentata applicazione in quanto permette diutilizzare la radiazione solare sia diretta sia diffusa. Una piastra metallicadi colore nero, coperta con una lastra di vetro ed esposta al Sole raccogliela parte visibile della radiazione solare e la trasforma in radiazione infra-rossa che resta "intrappolata" al di sotto del vetro, sulla piastra. Questo"effetto serra" consente di portare una piastra, d'estate, a temperaturefino a 80 o 90 gradi Celsius; con particolari accorgimenti è possibile scal-dare un collettore solare anche a temperatura un po' superiore a 100gradi Celsius. Se il calore della piastra nera viene trasferito ad una massadi acqua che, per esempio, viene fatta circolare entro tubi appoggiati sullapiastra stessa, d'estate è possibile, per ogni metro quadrato di superficiedel collettore solare, scaldare 100 litri di acqua da 20 a 40 gradi, oppure50 litri di acqua da 20 a 70 gradi Celsius.Con l'acqua scaldata col calore solare, o con un altro gas che il calore sola-re fa espandere, è possibile far funzionare dei motori solari. Ne sono statiinventati diecine, progettati principalmente per sollevare l'acqua dal sotto-suolo nelle zone aride, e alcuni sono anche stati costruiti e venduti. Il prin-cipale inconveniente dei collettori di calore solare a bassa temperatura stanel fatto che d'inverno il riscaldamento ottenibile è modesto e non è pos-sibile conservare calda per alcuni mesi l'acqua scaldata col Sole d'estate.I sistemi solari basati sui collettori solari prendono il nome di sistemi "atti-vi"; per il riscaldamento dell'aria all'interno degli edifici si prestano beneanche i sistemi "passivi" realizzati progettando gli edifici in modo da ren-dere massima la quantità di radiazione solare che, anche d'inverno, entranell'edificio, facendola eventualmente assorbire da speciali materialicapaci di immagazzinare calore anche a bassa temperatura. Qualche suc-cesso hanno avuto i sistemi di accumulo del calore basato sulla proprietàdi alcuni sali (per esempio il solfato sodico decaidrato) di fondere a relati-vamente bassa temperatura (per esempio intorno a 50°C) con assorbi-mento di calore; per raffreddamento i sali ritornano allo stato solido resti-tuendo, per esempio di notte, il calore di fusione accumulato. L'ideale sarebbe poter raccogliere il calore solare d'estate, quando èabbondante, e poterlo tenere a disposizione per l'inverno, quando larichiesta di calore è maggiore, ma è bassa la disponibilità della fonte dienergia.Finora l'unico sistema per l'accumulo dell'energia solare è basato su uncurioso fenomeno naturale scoperto agli inizi del Novecento; alcuni scien-ziati hanno osservato che l'acqua sul fondo di alcuni laghi era sempre

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calda, anche d'inverno; analizzando l'acqua calda del fondo hanno anchevisto che questa aveva un elevato contenuto di sali.Intorno al 1950 alcuni ricercatori israeliani hanno cercato di riprodurre ilfenomeno: immaginiamo di avere una vasca, profonda circa uno o duemetri, piena d'acqua, una specie di piscina. Se sul fondo viene posto unostrato di una ventina di centimetri di acqua con elevata concentrazione disali, per esempio di sali di sodio e magnesio, come l'acqua madre dellesaline, la soluzione dello strato salino non si mescola con l'acqua dolcesovrastante. Il calore solare attraversa lo strato superficiale di acqua dolcee viene assorbito dallo strato salmastro che si trova sul fondo; questo stra-to lentamente si scalda e conserva la sua temperatura che può raggiun-gere anche i 70 o 80 gradi Celsius, costante per mesi. Questi "stagni sola-ri" costituiscono un vero e proprio sistema di "accumulo" del calore sola-re, funzionante tutto l'anno, dal quale il calore del fondo può essere gra-dualmente prelevato e può essere utilizzato come fonte di energia. Alcunistagni solari sono in funzione in vari paesi, ma la tecnologia può certa-mente essere applicata su scala maggiore.Il più grande collettore solare è costituito dagli oceani; in molte zone dellaTerra la radiazione solare scalda la superficie dei mari al punto da deter-minare una differenza di temperatura costante, che può arrivare anche aventi gradi Celsius, fra gli strati superficiali caldi e quelli freddi profondi.Già negli anni trenta del Novecento sono stati costruiti i primi dispositiviper ottenere energia meccanica utilizzando la differenza di temperaturadegli oceani; in tali macchine l'acqua fredda viene sollevata dagli stratiprofondi e viene portata a contatto con l'acqua superficiale più calda e lapur piccola differenza di temperatura viene trasformata in energia elettri-ca; il rendimento è modesto, circa l’uno-due percento del calore delleacque superficiali è trasformato in elettricità, ma le macchine sono relati-vamente semplici e grandi progressi possono ancora essere fatti.Con il calore a bassa temperatura ottenuto con collettori solari è possibileessiccare prodotti agricoli, azionare condizionatori d’aria, frigoriferi, scal-dare e rinfrescare edifici, tutte applicazioni che potrebbero dare un contri-buto fondamentale al miglioramento di vita delle popolazioni rurali e iso-late in molti paesi poveri, dove sono inaccessibili macchine azionate concombustibili fossili o dove non sono disponibili grandi quantità di elettri-cità. Si tratta di applicazioni basate su “tecnologie intermedie” che posso-no essere realizzate con materiali locali, disponibili anche nei paesi poverie utilizzando, in molti casi e paesi, esperienze e “saggezze” che erano unavolta note e familiari anche nei paesi oggi “industriali” e che sono statedimenticate a mano a mano che i combustibili fossili offrivano soluzionipiù comode. Insomma, la transizione dalla era paleotecnica ad una etàneotecnica potrebbe contribuire anche a recuperare conoscenze e diversi-tà culturali utili che sono state perdute.

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Acqua potabile dal SoleLa conquista europea delle colonie africane spinse i colonizzatori, davantia tanta abbondanza di Sole nelle nuove terre conquistate, a inventare deisistemi per ottenere calore o elettricità dal Sole e fra questi un ruolo impor-tante hanno avuto i motori solari per sollevare l’acqua dal sottosuolo esoprattutto i distillatori solari capaci di trasformare l’acqua di mare o leacque salmastre in acqua potabile, capaci cioè di alleviare la sete nellezone aride. Il primo grande distillatore solare fu costruito intorno al 1880e funzionò per una trentina d'anni sull'arido altopiano cileno dove era dis-ponibile soltanto acqua salmastra; un ingegnere tedesco-cileno costruì undistillatore alimentato dal Sole che forniva 4.000 litri di acqua potabile algiorno ai minatori.La seconda guerra mondiale portò milioni di persone a combattere in zonedesertiche e in mezzo agli oceani, con difficoltà di approvvigionamentoenergetico, e l'energia solare ricevette nuova attenzione: un distillatoresolare gonfiabile e galleggiante, di dotazione agli aviatori americani, con-sentiva ai naufraghi di sopravvivere fornendo qualche litro al giorno diacqua dolce per distillazione dell'acqua di mare col calore del Sole.La distillazione solare dell’acqua di mare è di grande importanza perchérisolve l'annoso problema della mancanza di acqua dolce nelle zonecostiere; milioni di chilometri di coste bagnate dall'acqua salina dei marinon hanno acqua dolce e in generale la situazione è tanto peggiore quan-to più ci si trova nella fascia centrale della Terra, dove peraltro è maggio-re l'energia solare disponibile.I distillatori solari sono dispositivi relativamente semplici. In uno spaziochiuso, coperto da lastre trasparenti di vetro o di materia plastica, l'acquamarina viene esposta alla radiazione solare ed evapora, condensandosisulla superficie interna del “tetto” trasparente, sotto forma di acqua privadi sali, che viene recuperata; i distillatori solari hanno il vantaggio di uti-lizzare il calore solare a mano a mano che diventa disponibile, tanto che èpossibile utilizzare fino al 40 per cento di tale calore per far evaporare l'ac-qua. Con un distillatore solare è possibile ottenere circa 1000 litri di acquadolce all'anno, per ogni metro quadrato di superficie esposta al Sole.La produzione di acqua dolce varia nei differenti mesi; d'estate – quandoè maggiore la richiesta di acqua dolce – si possono recuperare fino a seilitri di acqua al giorno per ogni metro quadrato di distillatore; un distilla-tore solare di 50 metri quadrati, posto sul tetto di una casa vicino al mare,d’estate può fornire fino a 300 litri di acqua dolce al giorno. Sono statisperimentati diecine di modelli di distillatori solari e questa è una dellesoluzioni neotecniche che sembra di più immediata applicazione su largascala per soddisfare uno dei più importanti bisogni umani.

EElleettttrriicciittàà ddaall SSoolleeA parte la produzione dal Sole di calore a bassa temperatura, uno deicampi che ha ricevuto più attenzione è la produzione di elettricità utiliz-

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zando sia il calore solare, sia la radiazione elettromagnetica solare.Antonio Pacinotti (1841-1912), fisico pisano inventore, fra l'altro, delladinamo, descrisse, già nell’Ottocento, l’effetto termoelettrico solare: se laradiazione solare raggiunge la saldatura fra due metalli, tenuti a diversatemperatura, ai capi dei fili metallici si osserva una differenza di potenzia-le, cioè i fili sono percorsi da una corrente elettrica.Molto maggiore è stato il successo dei sistemi di produzione dell’elettrici-tà dal Sole per effetto fotovoltaico, utilizzando la radiazione elettroma-gnetica solare; dall’Ottocento era noto l’effetto fotoelettrico del selenio edel silicio, sostanze nelle quali si forma una corrente elettrica nell’esposi-zione successiva alla luce e al buio, ma la grande svolta tecnico-scientificasi ebbe nel 1954 con l'invenzione delle celle fotovoltaiche costituite dasottili piastrine a base di silicio trattato in modo speciale, capaci di tra-sformare la radiazione solare in elettricità, direttamente, senza macchine oparti in movimento. Realizzate originariamente per la produzione di elet-tricità a bordo dei satelliti artificiali, cominciarono ben presto ad avereapplicazioni terrestri. Le primissime furono pensate come strumenti perfornire elettricità su piccola scala nelle zone isolate, per alimentare delle"radio di villaggio" con le quali, senza dover ricorrere ad altre fonti dienergia, qualsiasi villaggio avrebbe potuto essere informato degli eventidel mondo, delle previsioni meteorologiche; con le fotocelle solari qualsia-si comunità isolata avrebbe potuto avere l'elettricità indispensabile per farfunzionare un frigorifero, dei sistemi di telecomunicazioni o delle luci.Le attuali celle fotovoltaiche consentono di produrre da 100 a 150 kilo-wattore di elettricità all'anno per ogni metro quadrato di superficie difotocelle esposte al Sole, con un “rendimento di circa il 12-13 % rispettoalla radiazione solare incidente, un valore abbastanza basso anche perchéle fotocelle al silicio, pur utilizzando la radiazione solare sia diretta sia dif-fusa, trasformano in elettricità soltanto la frazione rossa e infrarossa vici-na della radiazione elettromagnetica solare.Sono ormai costruiti industrialmente impianti fotovoltaici con decine dimigliaia di kilowatt di potenza e il costo delle fotocelle e delle centrali stacontinuamente diminuendo, avvicinandosi ai costi delle centrali elettrichetradizionali. A differenza di queste ultime, le centrali fotovoltaiche solarinon hanno bisogno di combustibili, non producono effetto serra e scorieradioattive, possono essere installate dovunque con una potenza propor-zionale alla richiesta: a seconda della superficie delle fotocelle esposte alSole possono cioè dare elettricità per poche case isolate, oppure permigliaia di abitanti. A proposito dell’utilizzazione della radiazione elettromagnetica solare sipossono ricordare le prospettive della fotochimica, cioè delle modificazio-ni indotte dalla luce sulle molecole e sugli esseri viventi; alcune molecoleesposte alla luce del Sole si trasformavano in altre e "tornano indietro"nella forma di partenza, al buio, restituendo l'energia "immagazzinata"durante il giorno.

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EEnneerrggiiaa ddaall vveennttoo ggeenneerraattoo ddaall SSoolleeUna delle più importanti fonti di energia derivate dal Sole è rappresenta-ta dal vento. L’energia solare riscalda le varie parti delle terre emerse e deimari in maniera disuguale che dipende dalle stagioni, dalla latitudine,della natura della superficie del terreno. Le masse d'aria che sovrastanoterritori a differenti temperature scorrono da una zona all'altra e genera-no i venti che sono, quindi, l'effetto meccanico del funzionamento digiganteschi collettori solari.Esistono e sono stati sperimentati e costruiti, fin dal Medioevo, moltissimidispositivi che trasformano la forza del vento in energia meccanica. Comesi è già ricordato, i “mulini a vento" sono stati utilizzati all’inizio probabil-mente nell’Asia centrale e da qui sono arrivati in Cina verso oriente e nelMediterraneo verso occidente; gli europei a loro volta hanno copiato l'i-dea dal mondo islamico costruendo, dall'Olanda alla Grecia, motori capa-ci di azionare mulini da cereali o macchine, altro interessante esempio discambio di invenzioni utili e neotecniche.Gli attuali generatori eolici sono costituiti da un'elica o un sistema di palerotanti esposti al vento che si mettono in moto quando la velocità delvento supera un valore minimo, generalmente di una diecina di chilometriall'ora. Da questa velocità in avanti un motore a vento trasforma l'ener-gia del vento in energia meccanica utile con un rendimento che dipendedalla superficie della rotazione delle pale e dalla terza potenza della velo-cità del vento. I motori eolici moderni possono andare da macchine coneliche di grande diametro a piccoli motori fabbricati con tecnologie “inter-medie” relativamente rudimentali. L’energia meccanica ottenuta dal ventopuò essere utilizzata per azionare dinamo per la produzione di elettricità,o pompe o macchine.La forza del vento si manifesta non soltanto come moto di grandi massed'aria, ma anche come moto di grandi masse d'acqua superficiali sottoforma di onde derivanti anch'esse, quindi, dall'energia solare. La quantitàdi energia recuperabile dal moto ondoso dipende dalla differenza di altez-za fra la cresta e l'avvallamento dell'onda e dalla frequenza delle onde.Lungo le coste di fronte ai grandi oceani si ha un moto ondoso ampio eregolare la cui forza può essere "catturata" con vari dispositivi, alcuni deiquali hanno già superato il collaudo dell'applicazione industriale. Sonostate descritte almeno mille invenzioni di macchinari per l’utilizzazione delmoto ondoso, dai pontoni galleggianti ai più recenti dispositivi nei qualil'alternato sollevamento e abbassamento del livello dell'acqua comprime,in una specie di campana, l'aria che a sua volta fa ruotare una turbina.É anche possibile utilizzare la forza del moto ondoso con opere di capta-zione negli estuari o lungo le coste, ma tali opere possono provocare effet-ti erosivi e alterazioni ambientali quando la loro dimensione diventa moltogrande ed estesa, come è richiesto dalla bassa densità dell'energia delmoto ondoso per chilometro di costa.L’altra forma in cui può essere ricavata energia meccanica da una fonte

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derivata dal Sole riguarda l’utilizzazione della forza “contenuta” nel motodelle acque. Si è già accennato che poco più del sei per cento dell’energiacontenuta nel moto dei fiumi sulla Terra è recuperata come energia idroe-lettrica. In genere i grandi fiumi e le grandi montagne e i relativi rilevantisalti di acqua sono nelle zone disabitate come le zone tropicali e equato-riali, la Groenlandia, l'Asia centrale. Una parte dell'energia di queste risor-se idriche potrebbe essere trasformata in energia elettrica che potrebbeessere trasportata nelle zone dove è maggiore la richiesta, o potrebbe esse-re utilizzata per produrre, vicino alle centrali, per elettrolisi l'idrogeno, gascombustibile non inquinante da trasportare con condotte, simili ai meta-nodotti, nei luoghi di utilizzazione, oppure potrebbe essere utilizzata sulposto attraendo nuove attività produttive dai paesi già oggi congestionati.Anche in questo caso una società solare può utilizzare tecnologie moltoflessibili, che vanno da grandi impianti idroelettrici al ricupero dell'ener-gia da piccoli salti di acqua con turbine idrauliche relativamente semplici,realizzabili anche queste con “tecnologie intermedie”. Finora spesso l'e-nergia idroelettrica è stata recuperata con interventi sul territorio sconsi-derati dal punto di vista ecologico. Le proposte di una società neotecnicapresuppongono invece di utilizzare il Sole in maniera compatibile con isuoi caratteri e con le grandi leggi della natura.Alcune proposte di regolare il corso dei grandi fiumi con la creazione dilaghi artificiali, dighe, centrali idroelettriche, apparentemente neotecni-che in quanto basate su una risorsa derivata dal Sole e continuamente dis-ponibile, possono peraltro avere effetti devastanti – come è già avvenuto– sugli equilibri delle foreste pluviali o delle valli montane se non sonoprogettate in maniera del tutto diversa da quella finora seguita per moltegrandi centrali idroelettriche. Alcuni disastri, come, in Italia, il crollo delladiga di Gleno nel 1923, o la catastrofe del Vajont (1963), in cui un pezzodi montagna è franato nel lago artificiale provocando la fuoriuscita, al disopra della diga, che peraltro rimase intatta, di una massa d'acqua che haspazzato via duemila vite umane, sono il frutto di interventi fatti in modopaleotecnico, con una visione miope e sotto la spinta della speculazionee del profitto.

VVeerrssoo uunnaa ssoocciieettàà bbiiootteeccnniiccaa ssoollaarreeLa cosa comunque che il Sole sa fare bene, senza macchine, su larga scalae con notevole efficienza, è "fabbricare" materia organica attraverso i pro-cessi di fotosintesi: nelle foglie verdi, dotate di clorofilla, e nelle alghe verdipresenti nei mari e negli oceani l'energia solare riesce a far reagire l'acquae l'anidride carbonica (presente nell'atmosfera o nelle acque) in modo daformare delle molecole organiche, con liberazione di ossigeno che è il sot-toprodotto (in un certo senso il "rifiuto") della reazione. E con sottrazionedall’atmosfera di anidride carbonica responsabile dell’effetto serra.Alla fine, in seguito anche ad altre reazioni che comportano l'uso dell'a-zoto fornito dal terreno e di altri elementi, nei vegetali si forma un insie-

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me di sostanze organiche ricche di energia. Si tratta, principalmente, dizuccheri, amido, cellulosa, lignine, sostanze proteiche, grassi, eccetera.Se questi vengono bruciati restituiscono, come calore, l'energia che il Soleha messo a disposizione per la loro sintesi. Si può quindi dire che le sostan-ze organiche presenti nella massa vivente vegetale – nella "biomassa" –"contengono" incorporata dentro di se energia solare e tale energia resti-tuiscono bruciando, sia nel corpo degli animali che se ne nutrono – ognipersona e ogni animale "mangia" energia solare – sia come combustibiliper usi umani. Nei climi temperati da un ettaro di foresta o di terreno col-tivato è possibile ricavare ogni anno prodotti organici vegetali la cui ener-gia equivale a quella di circa 10 tonnellate di petrolio.Complessivamente ogni anno la "biomassa" vegetale formata grazie all'e-nergia solare ammonta a circa 100 miliardi di tonnellate negli oceani e a100 miliardi di tonnellate sulle terre emerse. Per rendersi conto del ruolostraordinario che il Sole svolge nella nostra vita come fonte di energia (pra-ticamente ”eterna” sulla scala dei tempi del pianeta Terra), vale la pena diricordare che tutti i prodotti vegetali "commerciali", alimentari e non ali-mentari, usati in un anno da tutti gli abitanti della Terra – dai cereali, allepatate, dalla verdura alle barbabietole, ai prodotti forestali – ammontanoa circa tre miliardi di tonnellate.La quantità di energia solare che può essere fissata dalla vegetazione variamolto a seconda del tipo di piante, delle condizioni climatiche, eccetera.Inoltre la fotosintesi utilizza soprattutto la componente visibile della radia-zione solare. Nelle zone in cui sono presenti colture ecologicamente stabi-li – come grandi foreste – è possibile recuperare sotto forma di sostanzeorganiche circa l'uno per cento della radiazione solare totale incidente. Sesi considera che gli scaldacqua solari e i distillatori solari utilizzano prati-camente circa il 40 % della radiazione solare incidente e che le celle foto-voltaiche solari trasformano in elettricità non più del 13 % della radiazio-ne incidente totale, si vede che un rendimento dell'uno per cento, senzamacchine, si può considerare buono.La maggior parte della biomassa fabbricata dal Sole non "serve" a niente,dal nostro punto di vista commerciale, ma assicura alimento e rifugio aglianimali allo stato naturale, regola il moto delle acque superficiali, e assicu-ra la bellezza del mondo che ci circonda, con innumerevoli colori, variabilinei diversi mesi dell'anno, come se il Sole si sbizzarrisse a usare la sua luceper la felicità nostra e degli altri animali. Gran parte della biomassa vege-tale si decompone poi restituendo più o meno presto all'atmosfera e almare l'anidride carbonica che diventa di nuovo disponibile per continuareil ciclo di fotosintesi sempre alimentato dall'energia del Sole.Comunque ciascuna delle sostanze presenti nella biomassa vegetale sareb-be ed è utilizzabile direttamente come combustibile o trasformata in fontidi energia commerciali, come gas o liquidi combustibili, e sempre più spes-so si parla di coltivazioni o piantagioni energetiche, progettate proprio perottenere combustibili o materie alternative a quelle ricavate dal petrolio.

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La materia organica vegetale presente nella biomassa è, peraltro, una fontedi energia ben differente dal petrolio, dal carbone, dal gas naturale, dallabenzina. Si possono tuttavia trasformare le sostanze organiche vegetali incombustibili liquidi, oppure in materie prime che, alternativamente, dovreb-bero essere fabbricate usando petrolio. Se le sostanze organiche della bio-massa sono ricche di amido e zuccheri queste possono essere trasformateper fermentazione in alcol etilico; è la stessa operazione che si ha nel vinoe nella birra, derivati da materie agricole "solari" anch'essi. L'alcol etilicopuro è un liquido combustibile che può essere miscelato con la benzina epuò essere utilizzato, quindi, come carburante per autoveicoli.Già in passato in vari paesi, e anche in Italia, negli anni trenta e quarantadel Novecento, l'alcol etilico di origine agricola, e, quindi, derivato dal Sole,è stato usato come carburante per autoveicoli. Per molti decenni in Brasilel'alcol etilico ottenuto dallo zucchero di canna è stato usato come carbu-rante con notevole risparmio di prodotti petroliferi; negli Stati uniti è statoed è usato come carburante l'alcol etilico derivato dall'amido di mais. Imateriali lignocellulosici possono anch'essi essere trasformati in alcol etili-co per fermentazione, oppure, per riscaldamento ad alta temperatura, pos-sono essere trasformati in due gas – ossido di carbonio e idrogeno – daiquali si può ottenere per sintesi alcol metilico il quale può anch'esso esse-re usato in miscela con la benzina come carburante per autoveicoli.In molte operazioni agricole si formano dei sottoprodotti che possonoessere trasformati in metano, un gas combustibile che è anzi lo stessocostituente del gas naturale, mediante processi semplici e noti. Si parla di"biogas" per indicare il metano ricavabile per fermentazione da sottopro-dotti e scarti agricoli e zootecnici, quindi il metano "solare".Interessanti prospettive ha anche la coltivazione “artificiale” di alghe verdifotosintetiche in grandi vasche esposte al Sole; alcune alghe hanno unagrande velocità di riproduzione e la loro biomassa può essere utilizzata afini energetici commerciali.

DDoommaanniiL’attenzione per l'energia solare offre l'occasione per pensare ad un futu-ro basato sulle fonti energetiche rinnovabili, tutte associate all'energiairraggiata dal Sole, al posto di quelle esauribili o responsabili di gravimodificazioni della Terra, ma anche per progettare una maniera diversa divivere e di produrre.Benché il Sole sia tanto attraente come fonte di energia, dal momento chela sua radiazione è capace di fornire energia nelle forme richieste dalleattività umane – calore, elettricità, energia meccanica – i progressi nelcampo dell'energia solare sono stati finora lenti e travagliati perché latransizione dall’attuale società paleotecnica, basata sullo sfruttamentodelle fonti di energia fossili, non rinnovabili e inquinanti, ad una "societàneotecnica solare" richiede non soltanto buone macchine e innovazionitecnico-scientifiche, ma anche profondi mutamenti economici e sociali, il

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primo dei quali è di carattere territoriale e geopolitico. Si pensi, per esem-pio alla struttura delle città. La città moderna, con edifici a più piani, èdipendente dai combustibili fossili. Una famiglia in una casa da 100 m2 adun piano usa energia, sotto forma di elettricità e di calore invernale, da 10a 20 mila kWh (elettrici e termici) all’anno. La radiazione solare che rag-giunge la superficie di tale casa potrebbe essere trasformata in elettricità ocalore in quantità corrispondente, all’incirca, agli stessi 10-20 milakWh/anno. Se gli abitanti di tale casa percorressero 5.000 km all’anno, conun veicolo che percorre un km con 0,1 kg di carburante petrolifero, per uti-lizzare un carburante ricavato dal Sole dovrebbero disporre della biomassaottenibile da un decimo di ettaro di terreno coltivato a piante energetiche,un relativamente piccolo spazio intorno alla casa.Ma non appena si passa ad edifici a più piani, per soddisfare i fabbisognienergetici degli abitanti occorrerebbero collettori solari di superficie ben piùgrande di quella dell’edificio e spazi di terreno coltivati a carburanti “solari”sempre più grandi e distanti dall’edificio. Per questo “la città”, così come èstrutturata nei paesi industriali, con edifici che devono sfruttare al massimolo spazio e quindi estendersi in verticale, “deve” per forza essere alimentatada fonti petrolifere o da gas o da fonti energetiche non rinnovabili. Una città verticale, per quanto ben progettata, non può né crescere nésopravvivere davanti ad una crescente scarsità di idrocarburi, al loro cre-scente uso, anche per l’aumento dei trasporti delle persone dalle abitazio-ni agli uffici, eccetera, e per il crescente inquinamento. La crisi energeticaurbana, qui appena delineata, si aggrava con l’aumento della popolazionemondiale (circa 70 milioni di persone all’anno) e con la tendenza allo spo-stamento di una crescente frazione della popolazione di ciascun paese nellecittà dove è più elevato il profitto per i proprietari dei suoli e dove i lavora-tori sono più facilmente disponibili, vicino a fabbriche, negozi, uffici.Gli "apparecchi" solari finora inventati saranno poca cosa se non verràfatto un salto culturale di grande importanza. Una società solare dovràquindi inventare anche nuovi modi di progettazione degli edifici: con unaappropriata esposizione al Sole, con la creazione di spazi esposti al Sole edi spazi in ombra, è possibile ottenere spazi ventilati d'estate e caldi d'in-verno, è possibile migliorare molto l'illuminazione dei locali e risparmiareelettricità. Una società solare dovrà progettare la distribuzione di abita-zioni e servizi coerente con la capacità si sopportazione – con la carryingcapacity – del territorio, della Terra e dovrà progettare e realizzare nuovimezzi e modi di trasporto compatibili con la disponibilità della “vera” fonteenergetica affidabile, il Sole.Alle proposte di costruzione di una società solare viene obiettato sempreche il calore, o l'elettricità, o i combustibili ottenuti dal Sole e dalle fontirinnovabili hanno un costo "eccessivo" rispetto a quello delle corrispon-denti forme di energia ricavate dalle fonti non rinnovabili, scarse, esauri-bili. A parte il fatto che quanto maggiore sarà la diffusione delle tecnolo-gie solari, tanto minore sarà, per effetto di scala, il loro costo e il costo del-

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l'energia, l’affermazione è in genere vera, secondo le regole della contabi-lità tradizionale, ma solo perché nell'analisi dei costi delle fonti energeti-che attuali non viene contabilizzato né il costo dell'inquinamento per lanostra generazione, né il costo, per le generazioni future, dell'impoveri-mento delle riserve di combustibili fossili o dei disastri provocati dai muta-menti climatici. Le modificazioni della Terra provocate dalle attività umanehanno un costo monetario individuale e collettivo.La convenienza, anche in termini contabili, a ricorrere alle fonti di energiaderivate dal Sole, apparirà ancora più chiara se si adotteranno, oltre a quel-li monetari, altri indicatori del valore tali che, per ciascun processo, per cia-scuna merce sia identificata la quantità di energia richiesta, il “costo ener-getico”, e la qualità dell’energia impiegata, essendo più “pregiata”, “valen-do” di più, l’energia ottenuta da fonti rinnovabili, mentre dovrebbero costa-re di più, in termini monetari, le merci e i servizi ottenuti con maggioriquantità di energia, per unità di merce e di servizio, e con fonti non rinno-vabili e inquinanti, che maggiormente contribuiscono a modificare la Terra.Dal Sole può partire un auspicato processo di trasformazione economica eproduttiva nella quale le risorse rinnovabili risolvono in maniera più giu-sta, più equa, più sicura, meno violenta e con meno sprechi e meno inqui-namenti, il problema dell'energia nel futuro. Da tale trasformazione trar-ranno vantaggio i paesi industriali, ai quali saranno offerte occasioni diinnovazione e occupazione, e quelli in via di sviluppo, spesso ubicati inzone ricche di energia solare, i quali, grazie al Sole, potranno risolvere consuccesso i propri problemi di vita e di sviluppo economico.Lo aveva intuito cento anni fa un famoso professore di chimicadell'Università di Bologna, Giacomo Ciamician (1857-1922), che, nellaprolusione all'anno accademico 1903-1904, aveva detto: "Il problemadell'impiego dell'energia raggiante del Sole si impone e s'imporrà anchemaggiormente in seguito. Quando un tale sogno fosse realizzato, le indu-strie sarebbero ricondotte ad un ciclo perfetto, a macchine che produrreb-bero lavoro con la forza della luce del Sole che non costa niente e nonpaga tasse!”. In una conferenza tenuta nel 1912 negli Stati uniti lo stessoprofessor Ciamician riprendeva questo tema: “Se la nostra nera e nervosaciviltà, basata sul carbone, sarà seguita da una civiltà più quieta, basatasull'utilizzazione dell'energia solare, non ne verrà certo un danno al pro-gresso e alla felicità umana! I paesi tropicali ospiterebbero di nuovo laciviltà che in questo modo tornerebbe ai suoi luoghi di origine".

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La visione thomasianaIntroduzione

L’opera edita da Thomas, pubblicata nel 1956, che in seguito sarà indica-ta come Man’s Role (1956), apre un capitolo nuovo negli studi sull’am-biente, e si distingue, a nostro parere, soprattutto per due motivi: interdi-sciplinarità e visione globale dei problemi trattati. L’interdisciplinarità ègarantita dalla partecipazione di un gran numero di studiosi dei più diver-si campi disciplinari: dalla geofisica e scienze ambientali alla tecnologia,urbanistica, storia, scienze sociali. Pur tra tante voci diverse, è stato possi-bile mantenere un linguaggio comune, con un marcato taglio ingegneri-stico, evitando il pericolo di cadere in una specializzazione eccessiva suargomenti settoriali: di questo va dato il merito ai coordinatori dell’opera.Il linguaggio unitario è la condizione essenziale per arrivare alla visioneglobale, che è garantita mediante la partecipazione di numerosi studiosiprovenienti da altri paesi, oppure studiosi stranieri di origine, ma ormaistabilmente inseriti nel sistema universitario americano.La lettura di Man’s Role (1956) rimane tuttora attuale, e nella nostra espe-rienza il materiale potrebbe venire suddiviso fra tre tipi di trattazioni:- spiegazioni di fenomeni del passato, la storia dell’uomo ha profondamen-te condizionato l’assetto del territorio, e di questi processi sono rimastetracce obbiettive, che permettono la ricostruzione di eventi del passato;

- proiezioni verso il futuro, come estrapolazione lineare delle tendenzeattuali, oppure previsione di passaggio a condizioni differenti, sulla basedi esperienze analoghe gia verificatesi;

- modelli, si hanno quando dalla visione fenomenologica è possibile astrar-re uno schema che rimane valido anche per tempi e luoghi diversi: in que-sti casi si passa dalla semplice descrizione a regole di valore generale.

Ovviamente, l‘assegnazione della trattazione all’uno o all’altro tipo è spes-so arbitraria, oppure limitata ad alcuni aspetti prevalenti, che però in molticasi possono anche alternarsi nello sviluppo di un singolo discorso. In par-ticolare, per quanto riguarda il punto 2, va tenuto presente, che gran partedegli interventi sono dedicati a dare una spiegazione storica degli avveni-menti: la ricerca appare quindi più rivolta al passato che all’avvenire.È ovvio che la lettura a distanza di cinquant’anni dalla pubblicazione dellibro, non può non tener conto dei progressi nelle conoscenze scientificheottenuti nel periodo intercorso, e pertanto fa rilevare una serie di carenze,su argomenti che negli anni ’50 non erano ancora stati sviluppati, oppuredi cui all’epoca non si era ancora compreso completamente il significato,

L’UOMO TRASFORMA IL PAESAGGIO VEGETALE

Sandro Pignatti

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soprattutto nel quadro interdisciplinare. Così, nella trattazione di Huzayyin(p. 304) sulla paleobiogeografia del Mediterraneo e Medio Oriente (peral-tro tuttora in gran parte condivisibile, almeno nelle conclusioni generali),manca la conoscenza degli avvenimenti legati alla crisi di salinità delMessiniano, ed anche l’affermazione che il Mediterraneo abbia semprecostituito una barriera agli scambi biologici tra Africa ed Europa va relati-vizzata. Manca la conoscenza del concetto di tettonica a placche e delcomplesso Tetide-Paratetide, come pure della prima fase di evoluzionedegli ominidi nell’Africa Orientale. Analogamente, Jannaki Ammal nonpoteva prevedere la “rivoluzione verde” degli anni ’70, ed il suo impatto(tanto in senso positivo che negativo) sui problemi alimentari e sociali deipaesi tropicali. Anche l’argomento della conservazione e recupero ambien-tale rimane ancora in posizione marginale (cfr. la sezione 4.4). Nell’attentaanalisi dello sviluppo culturale in epoca proto-storica nel territorio dell’at-tuale Germania, l’Autore (Narr, 138-40) parte dal periodo di economiamista (coltivazione del frumento/allevamento): però attorno al 1950 sisapeva ancora poco dello sviluppo precedente al 3000 av. Cr., dunquequello che viene messo all’inizio è a sua volta il risultato di avvenimentiprecedenti. Oggi, per lo sviluppo dell’agricoltura si può partire da Gerico(7000 av. Cr.) e dall’introduzione della coltivazione dell’orzo, più antica diquella del frumento.Si tratta di carenze ovvie, visto che oggi si dispone di un’esperienza scien-tifica più approfondita. Va tuttavia notato, cheMan’s Role (1956) ha avutoscarsa diffusione tra coloro che, negli anni successivi, in Europa si sonooccupati di scienza della vegetazione. Di conseguenza, essa è oggi reperi-bile solo in poche biblioteche universitarie, in generale manca negli istitu-ti di ricerca del campo vegetale ed anche l’impatto sugli studiosi di biolo-gia vegetale in Italia è rimasto limitato.

Questioni di metodoL’argomento di Man’s Role (1956) è il ruolo dell’uomo nel cambiare la fac-cia della Terra: questo tema viene sviluppato mediante un’analisi del pas-sato, la rappresentazione dei processi in atto ed una trattazione (relativa-mente breve) delle prospettive. Il filo conduttore generale per la descrizio-ne delle varie realtà locali è la transizione da società di cacciatori e racco-glitori, all’agricoltura ed infine alla società industriale fortemente urbaniz-zata, assieme alle trasformazioni indotte da questi processi nell’assettoglobale. Si tratta dunque di processi che si sviluppano nello spazio (eucli-deo) e nel tempo, con percorso in generale lineare, e tendono verso unobbiettivo finale definito. Questo metodo permette di descrivere scambi dimateria ed energia e catene di causa-effetto, ma non va oltre una rappre-sentazione fenomenologica degli avvenimenti: numerosi esempi sono pre-sentati e discussi, senza però arrivare ad una spiegazione generale. Tuttoquesto rappresenta un limite molto serio.A nostro avviso, i processi di trasformazione indotti dall’uomo non consi-

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stono soltanto in fatti che possono venire descritti nel continuo spazio-temporale, oppure nei flussi energetici, ma un ruolo essenziale va ricono-sciuto necessariamente anche alla componente immateriale. Questanecessità è ben presente anche in molti tra i contributi riguardanti le tra-sformazioni del paesaggio vegetale, ma vengono riassunti in un fattore“cultura”, nel quale sono riunite (riprendendo la classica formulazione diSchweitzer, 1925) tutte le conoscenze trasmesse dall’una all’altra genera-zione, dalla tecnica alle regole comportamentali.In realtà, già negli anni ’50 era iniziato il processo di trasferimento dimetodi e modelli della termodinamica e della teoria dell’informazione aicampi della biologia ed ecologia, e questo ha permesso di arrivare adimpostare il problema in maniera del tutto nuova. Concetti come ordine,disordine, diversità, equilibrio, stato stazionario entrano nel linguaggiodelle scienze della vita e mediante applicazioni statistiche risultano quan-tizzabili. Si apre così la possibilità di inserire anche la componente imma-teriale come una variabile del sistema, determinata in base alle relazionitra i singoli elementi. Per spiegarci con un esempio, nei contributi riguar-danti l’Europa temperata (Evans, Narr, Pfeifer) si descrive il passaggio dallaforesta alle aree coltivate, e come la foresta viene distrutta mediante ilfuoco, ma può anche rigenerarsi. Tuttavia non è sufficiente paragonare lesuperfici coltivate a quelle forestali: analizzando dal punto di vista rela-zionale i componenti della vegetazione, ci si rende conto che la foresta ori-ginaria è ben diversa da quella secondaria ricostituitasi dopo il fuoco, eche quest’ultima può diventare un elemento interagente con le superficicoltivate. Il modello lineare, nel quale il passaggio dall’uno all’altro statopuò essere indicato mediante una freccia è spesso fuorviante: la vita con-siste essenzialmente di trasformazioni cicliche, ed attraverso la descrizionedi trasformazioni lineari non è possibile capire cosa stia realmente cam-biando e perchè.

Modelli lineariIl metodo consistente nel risolvere la complessità delle trasformazioniattuate dall’uomo in una somma di singoli processi lineari dà un’immagi-ne semplificata della realtà, però permette di trasmettere una grandequantità di conoscenze attraverso trattazioni monografiche per alcune trale più importanti zone del globo. In Man’s Role (1956) se ne hanno moltiinteressanti esempi, soprattutto nelle sezioni “Through the corridors ofTime” e “Modification of biotic communities”. Questo metodo però in qual-che caso ha portato a proiezioni, che a distanza di mezzo secolo si rivela-no molto lontane dalla realtà. Gourou, partendo da una critica ineccepibi-le delle condizioni di uso agricolo del territorio nei paesi tropicali, qualiesse erano negli anni ’50, rileva come:- la superficie coltivata sia molto ridotta: si va dall’1-2 % della superficietotale in Brasile, al 30 % in India, e questo può provocare un impoveri-mento del suolo e perdita di fertilità – se ne deduce l’utilità di espandere

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le superfici, dissodando le aree forestali; in realtà oggi la foresta tropicaleè in fase di rapida distruzione, ma viene sostituita da savana improduttivae non da nuove aree fertili: la conservazione delle foreste tropicali è entra-ta tra le priorità globali indicate nella Conferenza di Rio (1992);- viene citato il Ruanda Urundi come esempio virtuoso di area tropicalecon densa popolazione agricola (p. 341), ma sappiamo che questa situa-zione ha portato nel 1994 a catastrofiche guerre civili e genocidi;- preconizza una modernizzazione dell’agricoltura tropicale mediante larealizzazione di sistemi agricoli diversificati con colture bilanciate, mentrela tendenza generale negli ultimi decenni è verso l’espansione di mono-colture, più coerenti con lo sfruttamento capitalistico.Lo sviluppo delle relazioni uomo-ambiente in epoca proto-storicanell’Europa Centrale viene analizzato in dettaglio da Narr (p. 134 e segg.),come una serie di periodi di adattamento alternati a fasi di cambio: infat-ti, durante periodi di generale stabilità l’uomo si adatta progressivamenteall’ambiente (quasi come un processo di adattamento biologico), svilup-pando nuove conoscenze e mezzi, che provocano il cambiamento dellecondizioni generali. L’adattamento negli animali porta alla formazione dinuove specie, nelle società umane allo sviluppo di nuove culture, in parti-colare alla invenzione di nuovi oggetti oppure alla domesticazione dinuove specie. Durante una prima fase di vita nomade come cacciatori eraccoglitori, non si producono cambiamenti permanenti e questa osserva-zione è confermata ad es. da quanto avvenuto in Australia, dove la socie-tà aborigena è rimasta immutata per 40.000 anni, fino all’arrivo dell’uo-mo bianco. Con la sedentarizzazione si avvia un modello di sviluppo cheprevede tre stadi:- stadio 1, piante ed animali addomesticati rimangono nella regione geo-grafica (bioma) ed ambiente (habitat) delle loro forme ancestrali;- stadio 2, l’uomo trasferisce piante ed animali domestici in altre regionigeografiche ed ambienti;- sub-stadio 2a, piante ed animali sono trapiantati in un ambiente nuovoed adattati a questo;- sub-stadio 2b, piante ed animali sono trapiantati in aree adatte, prepa-rate artificialmente.Quando Narr scriveva questo si sapeva poco sull’origine dell’agricoltura;oggi si hanno idee più chiare e si ammette che abbia avuto origine nellaMezzaluna Fertile, e da qui la coltura dei cereali (orzo, e successivamentefrumento) sia stata trasferita verso i Balcani, l’area danubiana e l’Italia, main complesso le nuove acquisizioni confermano il modello sopra indicato.Analogo è il processo descritto da Heichelheim (p. 166 e segg.) con mag-giore dettaglio. Il passaggio dalla cultura dell’età bronzo a quella del ferropermette agli abitanti dell’Europa Centrale di migliorare la produttivitàagricola e di occupare nuove terre. Infatti il bronzo non è adatto alla pro-duzione di strumenti per lavorare la terra, così l’agricoltore rimane legatoall’uso della zappa in legno, che può essere usata soltanto su suolo soffi-

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ce: per questo i primi coloni si insediano soltanto sulle aree con suolo aloess, sabbioso ma poco fertile, generalmente con vegetazione di bosca-glia aperta o pineta. Con lo sviluppo della siderurgia viene molto prestoinventato l’aratro in ferro, che può venire usato anche su suoli pesanti,come quelli del querceto misto, che sono i suoli più produttivi. Così, un’in-venzione nella lavorazione dei metalli, permette l’occupazione di nuovi ter-ritori e la trasformazione di tipi forestali differenti.Nell’articolo di Narr (p. 134-151) appare chiaramente la centralità di que-sta cultura indicata come “danubiana” che costituisce la culla delle cultu-re contadine successive, legata al loess. Si sviluppa in Germania circa trale valli del Danubio e del Meno, in un’area a clima continentale. Va anchetenuto presente che in questo clima continentale l’inizio della stagionevegetativa è molto anticipato: nella nostra ricerca sulla fioritura nelle fag-gete europee (Lausi e Pignatti, 1972); la prima segnalazione di specie infioritura viene proprio da questa zona, e non dalla fascia delle faggetemediterranee, come ci si potrebbe aspettare.Il rapporto uomo-ambiente, ridotto a termini molto generali, viene rappre-sentato da Sears (p. 423) con una semplice formuletta:

R-------- = f (C)P

dove R è il totale delle risorse, P la popolazione e C la cultura. Questosignifica che, dato un certo livello di risorse disponibili, la quantità di abi-tanti tra i quali queste possono essere ripartite è funzione del livello di cul-tura degli abitanti stessi. Si tratta di un concetto verificabile su grandisistemi: Australia, Nordamerica e Siberia avevano una popolazione dipoche centinaia di migliaia di aborigeni, e l’uomo bianco, grazie al più ele-vato livello culturale, ha sviluppato nelle stesse aree società industriali chearrivano a decine o centinaia di milioni di abitanti. Però, passando dallegrandi sintesi ad analisi più dettagliate, ci si rende conto che si tratta diun modello legato a particolari condizioni storiche: l’impero romano è crol-lato nel V secolo, quando era all’apice dello sviluppo culturale, e probabil-mente lo stesso è capitato per i Maya; nelle città commerciali tedesche sulBaltico ed in quelle italiane della Dalmazia, nel sec. XIX si sono insediatele popolazioni slave di origine contadina, ed in poche generazioni hannodel tutto sostituito l’elemento culturalmente dominante: dunque, la cultu-ra da sola non basta.L’uomo dunque agisce come modificatore, però le modificazioni possonoessere sia volontarie che impreviste. Negli esempi sopra citati, l’uomomodifica attivamente l’ambiente, per ottenere un certo risultato che glisembra utile per soddisfare i suoi bisogni vitali. In altri casi le modifica-zioni avvengono come conseguenze secondarie di azioni dirette ad altriscopi: questo è il caso delle modificazioni nella struttura della vegetazione

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Fig. 1 Modelli di trasformazionicicliche nella prateria nordame-ricana, (da Darling, p. 780-781).

dovute all’uso del fuoco durante la caccia agli erbivori, e della conseguen-te espansione della savana in Africa e della prateria nell’AmericaSettentrionale. Una caratteristica generale di questi modelli lineari è ilfatto che si passa da condizioni che con la nostra esperienza attuale con-sideriamo primitive a condizioni di maggiore benessere, migliore sfrutta-mento delle risorse, popolazione più densa, sviluppo delle comunità urba-ne. Con questo, la storia della trasformazione della superficie della Terraviene interpretata in senso unidirezionale come progresso, e la storia dellasocietà umana è rappresentata come lo sviluppo verso un ordine superio-re. Qui sembra affiorare un condizionamento in senso teleologico, incom-patibile con il metodo scientifico, e del resto anche il buon senso ci diceche non è possibile stabilire se la nostra vita effettivamente è più felice diquella dell’uomo delle caverne.

Feedback - modificazioni ciclicheAccanto ad un gran numero di esempi di trasformazioni lineari, in Man’sRole (1956) si trovano relativamente pochi esempi di trasformazioni cicli-che. Dalla trattazione riguardante la vegetazione della prateria nordame-ricana (da Darling p. 780-781) abbiamo potuto ricavare lo schema inter-pretativo della figura 1.

Nello schema di sinistra si ha la condizione corrispondente all’impatto deicacciatori indiani prima dell’arrivo degli europei in America: la produzionesi concentra nella prateria stessa (cioè nello strato erbaceo), una certaquantità di materia organica è trasferita agli animali (bisonte) ma succes-sivamente viene restituita allo strato erbaceo: il sistema tende a mante-nersi in condizione stazionaria; qui si inserisce l’uomo come cacciatore, manon modifica sostanzialmente il sistema. Nello schema di destra si ha lacondizione di quando la prateria è soggetta allo sfruttamento attuale.Anche in questo caso la produzione si concentra nello strato erbaceo eduna parte della materia organica è trasferita agli animali (bovini al pasco-

UOMO CITTA’

ERBIVORIERBIVORI

PRATERIA PRATERIA

UOMO

degrado concimazione

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lo), da qui essa viene prelevata dall’uomo per le necessità della societàurbana e per l’ecosistema è perduta: ne consegue il degrado dell’ambien-te, e per conservare le risorse è necessario intervenire con la concimazio-ne. Soltanto la completa analisi del ciclo permette di comprendere comeun grande sistema naturale passi dalla sostenibilità ad una forma di dipen-denza dalla produzione industriale.

La forza trainanteA questo punto, si pone il problema di quale sia il motivo che tiene inmovimento il sistema, cioè la forza trainante (driving force). Secondo l’opi-nione di Wittvogel (p. 152-164), nelle prime fasi dello sviluppo civile sitratta dell’azione dell’acqua (hydraulic civilizations), e questa opinioneviene ripresa in diversi passi di Man’s Role (1956). La rivoluzione neoliticaavviene circa nello stesso periodo (VII-VI millennio B.C.), indipendente-mente in varie parti del mondo, come effetto dell’inizio di varie forme diagricoltura primitiva, cioè basata sull’utilizzazione della pioggia, secondodue modalità principali: (1) hydraulic agriculture dove si hanno piogge sta-gionali scarse e l’acqua è derivata da grandi fiumi: Giordano, Nilo,Mesopotamia, Indo; (2) rainfall agriculture con piogge abbondanti (Cina,India). In questo modo, alla rivoluzione neolitica segue la costruzione didighe e canali d’irrigazione, una vera e propria “hydraulic revolution”, sorgel’esigenza di gestire il lavoro coordinato per l’utilizzo dell’acqua, ammini-strare le scorte alimentari e di sementi: si costituiscono le prime forme distato, una burocrazia, una casta sacerdotale che tra l’altro si impegna nellaprevisione delle piene (oppure dell’arrivo del monsone) in base all’osserva-zione delle stelle. Come risultato finale, dall’agricoltura idraulica si formala società urbana, nella quale si avvia il processo di civilizzazione. Nel casodella rainfall agriculture si formano invece società conservative, stabilicome nell’India gangetica, Cina e successivamente in Mesoamerica.L’interpretazione di Wittvogel è basata sull’interpretazione di evidenzearcheologiche non sempre univoche, comunque appare logica e verosimi-le. Essa tuttavia apre grossi problemi, quando venga confrontata con lasituazione attuale: nel passato la società urbana era sostenuta dall’agri-coltura idraulica, e questa condizione si prolunga fino all’inizio dell’evomoderno ed oltre. Oggi invece la società urbana è sostenuta da agricoltu-ra non idraulica, che attinge largamente ad energie non rinnovabili. È unacondizione che potrà sostenersi ancora per decenni, forse un secolo, macosa avverrà dopo? Domani la società urbana (in forte espansione) potràessere sostenuta dalle energie rinnovabili? Oppure, in termini più genera-li, andiamo verso un progresso oppure un ritorno alle origini?Si può osservare, che la società urbana non idraulica ad energia non rin-novabile apre chances a tutti: democrazia e sviluppo individuale a partiredalla prima rivoluzione industriale (però i conti sono pagati mediante ilcolonialismo) ed alla seconda rivoluzione industriale, e qui trionfa il neo-colonialismo. Ma oggi siamo ad una terza rivoluzione ed India/Cina pas-

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sano all’energia non rinnovabile: una svolta epocale non prevista, stimola-ta oppure indotta dai computer (III rivoluzione industriale?). Di fronte aquesta situazione imprevista, chi è in testa non può immaginare un supe-ramento, oppure si tratta soltanto di arroganza anglo-americana? Chi colo-nizza chi in futuro? Tutte domande che ancora oggi sono senza risposte; inMan’s Role (1956) il ruolo del computer nel cambiare la faccia della Terranon compare.Un altro contributo alla conoscenza delle forze trainanti deriva dalla trat-tazione di Malin (p. 362). Questa è dedicata alle condizioni del sistema dipraterie al centro del continente nordamericano, e qui l’acqua perde ogniimportanza. Dopo avere discusso l’equilibrio dinamico della prateria conti-nentale nordamericana, stabilito dagli indiani mediante caccia ed incen-dio, e mantenuto fino al secolo diciannovesimo, Malin mette in evidenzail cambiamento indotto dall’espansione del sistema ferroviario che ha per-messo lo sviluppo di intense relazioni interregionali. In questo modo “perla prima volta nella storia, il potenziale della forza della massa continen-tale è stato superato da quello dei sistemi di trasporto con macchine avapore e, a partire dalla metà del sec. XIX, da quelle con motore a com-bustione interna”. Dunque, l’azione dell’uomo si sostituisce ai fattori natu-rali dell’ecosistema, sovrastandoli. È un’intuizione di quanto succede oggicon i fenomeni indicati collettivamente come “cambiamento climatico”,soltanto la causa non sta nei sistemi di trasporto, ma nelle modificazioneindotte dalle combustioni (inquinamento, gas serra) sviluppate non solodai trasporti ma anche dai processi industriali e dai consumi della societàdel benessere. Siamo in un periodo, nel quale la forza trainante è svilup-pata dalla disponibilità di energia a buon prezzo, una condizione che irecenti aumenti nel prezzo del petrolio fanno ritenere ormai in fase diesaurimento. In termini più generali, nell’era della globalizzazione il reddi-to del capitale appare la forza trainante.

Cinquant’anni di trasformazioneIntroduzionePrendiamo ora in considerazione i cambiamenti avvenuti tra la pubblica-zione di Man’s Role (1956) ed oggi, cioè tutti i fatti che cinquant’anni fanon potevano essere noti, perchè non ancora avvenuti, ma in qualche casopotevano venire inseriti tra le prospettive di un mondo in trasformazione.Si tratta di un cambiamento imponente. Il mondo bipolare, diviso in duesistemi tra loro incompatibili, rispettivamente capitalista e collettivista, haora struttura multipolare, ma sotto l’egemonia di un unico paese; l’ideolo-gia marxista ha perduto di credibilità come modello politico, però nel frat-tempo emergono altre ideologie di ispirazione islamica; dopo due guerresanguinose, che nel 1956 erano ancora un’esperienza recente, si sono avutilunghi periodi di guerre non dichiarate, dalla quarantennale “guerra fredda”al terrorismo globale degli ultimi anni. Per la società attuale il fatto essen-ziale è l’espansione dell’informatica che ha portato alla globalizzazione.

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Il fenomeno della globalizzazione non è giunto inaspettato: esso è statointuito già da Teilhard de Chardin, in uno dei suoi ultimi scritti (p. 110), pub-blicato postumo perchè l’Autore non aveva avuto la possibilità di parteci-pare fisicamente al convegno. Teilhard, partendo da premesse riguardantil’evoluzione biologica, nota come anche l’evoluzione umana, biologica eculturale, abbia seguito una dinamica di splitting durante l’espansione intutto il mondo, dalla comparsa di Homo sapiens fino all’inizio del sec. XX,ma in seguito abbia iniziato una fase di converging. Questo scriveva uno deipiù acuti pensatori che hanno pubblicato le loro riflessioni sul ruolo del-l’uomo nel cambiare la faccia della Terra. Oggi ci troviamo nella fase dellaglobalizzazione e possiamo constatare la lungimiranza di questa previsione.Passando ad esaminare le cause che hanno contribuito a cambiare la fac-cia della Terra, va ricordato in primo luogo la crescita della popolazione,con un aumento di due volte e mezzo, da 2,5 miliardi nel 1953 ai 6,5miliardi attuali. La richiesta di alimenti è cresciuta in maniera più che pro-porzionale, perchè all’aumento numerico si somma quello dovuto almiglioramento del tenore di vita per gli abitanti di molte parti del globo.Per incrementare la produzione di alimenti si sono seguite due strategie:espansione delle terre coltivabili e miglioramento delle rese; la prima hacontribuito fortemente alla distruzione delle foreste vergini, la seconda haricevuto un forte impulso con la “rivoluzione verde”, però ha portato l’a-gricoltura in una condizione di grave deficit energetico. Nonostante que-sto sforzo imponente, spesso coronato da successi, rimane quasi un miliar-do di abitanti che vive in condizioni di povertà o denutrizione. Sono inol-tre cresciute le distorsioni nella distribuzione delle risorse alimentari, uti-lizzate sempre più spesso come mangime oppure per altri usi voluttuari, ades. la distillazione di bevande alcoliche.La crisi di sovrapopolazione è divenuta il volano per un impatto sempre piùgeneralizzato sulla superficie terrestre. Alla conferenza di Rio de Janeirosull’ambiente (1992) sono stati enunciati i tre settori prioritari sui qualiconcentrare gli interventi di tutte le nazioni: distruzione delle foreste, per-dita della biodiversità, cambiamento climatico.I primi due riguardano direttamente la copertura vegetale della Terra, e lostesso vale, almeno indirettamente per il cambiamento climatico, provoca-to dall’effetto serra, provocato a sua volta dall’alterazione del ciclo del car-bonio. Le emissioni di CO2 sono il risultato della combustione necessariaad alimentare i processi tecnologici ed il deficit energetico dell’agricoltu-ra. A queste cause si aggiunge inoltre la riduzione della fissazione di car-bonio nella biomassa forestale, correlata alla modificazione della vegeta-zione ed alla liberazione del carbonio fissato nel terreno.

Abbandono dello sfruttamento tradizionaleIl patrimonio forestale è oggetto di sfruttamento distruttivo già dall’anti-chità: il legname era usato da greci e fenici per la costruzione delle loroflotte ed i fusti dei cedri del Libano hanno fornito le travi per templi e

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palazzi in varie città del Medio Oriente. La Repubblica di Venezia per seco-li ha sfruttato le foreste dei paesi vicini: dalla Croazia importava il legnodel rovere di Slavonia, necessario per gli scafi delle galee, e dal Cadore itronchi di larice usati per le fondamenta dei palazzi. Con le scoperte geo-grafiche sono state aperte oltremare nuove riserve, apparentemente ine-sauribili, di legname. Le foreste di conifere dell’emisfero australe (ad es.Araucaria e Fitzroya) sono state sfruttate per secoli fino alla distruzionequasi completa degli individui maturi. Con la colonizzazione da parte dellepopolazioni di origine europea, immense aree forestali sono state messe acoltura, ed oggi in molti paesi è quasi impossibile trovare le testimonian-ze dell’originaria copertura forestale, ad es. nel bacino del Mississippi, inCalifornia, in Sudafrica e nell’Australia temperata.Anche oggi la deforestazione continua con ritmo progressivamente acce-lerato, nonostante gli allarmi dell’ONU: la produzione mondiale di legna-me raggiungeva tre miliardi di mc nel 1980, oggi tre miliardi e mezzo (paria mezzo metro cubo annuo di legname per ogni essere umano!). Il feno-meno rientra tra le azioni del neocolonialismo: sfruttamento di rapina deipaesi emergenti da parte di quelli industrializzati, che spuntano prezzi van-taggiosi approfittando della mano d’opera locale a basso costo; gran partedel legname pregiato è esportato in Giappone ed in Europa e spesso ado-perato per usi voluttuari come parquet e rivestimento delle pareti. In que-sto modo, i paesi industrializzati possono mantenere una gestione natura-listica delle proprie foreste.Il bosco in Europa è considerato risorsa rinnovabile, ma soltanto quando ègestito secondo giuste regole forestali. Il prelievo di legname deve esserein equilibrio con il normale incremento annuo, a lungo termine attorno al2-4 %; singole aree possono anche venire completamente disboscate e, segestite opportunamente, la foresta si ricostituisce spontaneamente nelgiro di pochi decenni. Regole per la conservazione della foresta sono notegià dal Medio Evo per le nostre vallate alpine, in Svizzera e Germania. Inquesto modo, la foresta può mantenersi produttiva per secoli, almeno neiclimi temperati: qui infatti, una grande quantità di materia organica èaccumulata nel suolo come humus, e garantisce la resilienza. Si stabilisco-no cicli forestali, che sono poco differenti sulle Alpi e sulle MontagneRocciose: dopo il taglio si forma una comunità di alte erbe, quindi cespu-gli, poi una boscaglia di alberi a crescita rapida (spesso si tratta di pino)ed infine si ricostituisce la foresta originaria (Graham, p. 685). L’interociclo può durare 1-2 secoli.Quando si è cercato di trattare allo stesso modo la foresta tropicale, appli-cando le nuove tecnologie per rendere più efficiente il taglio e trasportodel legname, il risultato è stato disastroso: se lo strato arboreo vienetagliato (oppure bruciato), in generale si forma una savana coperta da undenso tappeto di graminacee, che impediscono la rigenerazione della fore-sta. Questo è dovuto al fatto che nel clima tropicale caldo-umido (cheaccelera tutti i processi chimici) la materia organica delle foglie e rami che

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cadono sul terreno viene demolita nel giro di poche settimane, il suolo èlisciviato per le elevate precipitazioni e perde ogni fertilità: si formano cosìsuoli sterili, facilmente soggetti ad erosione sui quali le piante legnose nonriescono ad attecchire. Vaste aree di savana in Brasile, Africa equatorialeed Indonesia sono ecosistemi degradati che si sono estesi dopo il tagliodella foresta. Così, il ciclo forestale viene interrotto e la trasformazionediviene irreversibile. La foresta tropicale, che prima si poteva considerarerisorsa rinnovabile, si trasforma in risorsa non rinnovabile. La grande quan-tità di carbonio fissato nella biomassa forestale viene ossidato e passa nel-l’atmosfera, aumentando l’effetto serra.L’impatto delle nuove tecnologie non è limitato all’ambiente delle forestetropicali. Nella fascia saheliana il clima è troppo arido (300-350 mm diprecipitazioni/anno) per mantenere una vegetazione forestale, e la sava-na si estende su milioni di kmq. Qui la vegetazione è costituita da un tap-peto continuo di graminacee xerofile e singoli alberelli molto distanziatil’uno dall’altro: in Africa, a 5-15° di latitudine N, in generale si tratta diAcacia tortilis, con portamento ad ombrello, alta 5-7 m; paesaggi analo-ghi, con specie differenti di Acacia, si hanno in Sudafrica, ed Australia, econ l’affine Prosopis nelle due Americhe. Il bioma della savana è popola-to da tempo immemorabile, anzi si ritiene che proprio in questo ambien-te, nell’Africa Orientale, si siano svolte fasi essenziali dell’evoluzione diAustralopithecus e Homo erectus. Gli abitanti si sono adattati per lunghiperiodi alla caccia e raccolta, ed in Australia questo modo di vita era anco-ra praticato da alcune etnie aborigene al tempo della pubblicazione diMan’s Role (1956), mentre in Africa e nel Medio Oriente si è diffusa lapastorizia. Gli europei, abituati agli agi della vita moderna, potrebberosopravvivere in questo ambiente per uno-due giorni al massimo, mentre gliaborigeni qui si trovavano in casa propria e le condizioni di vita, pur moltodifficili, non ne mettevano in pericolo la sopravvivenza.In questo ambiente l’approvvigionamento di acqua è un problema essen-ziale, a causa delle piogge, rare e incostanti. I pochi punti di abbeveratasono cavità naturali nella roccia (rock holes) oppure gli avvallamenti argil-losi dove si ha una falda superficiale che si può raggiungere scavando. Persopravvivere era necessario conoscere ubicazione, portata e periodicità diqueste polle acquifere. La mancanza di acqua rappresentava il fattore limi-tante allo sviluppo della popolazione umana e degli erbivori (selvatici edomestici). Per aiutare le popolazioni locali, gli incaricati della cooperazio-ne allo sviluppo hanno realizzato ampi programmi per la captazione dellefalde profonde, spesso di acqua fossile, che hanno dato un risultato inat-teso. L’aumento nella disponibilità di acqua ha attirato i pastori con il lorobestiame (pecore, zebu, dromedari), così è aumentata anche la pressionedel pascolo ed in pochi anni la debole cotica erbosa è stata distrutta; diconseguenza alla superficie del terreno è aumentato l’albedo e la perditad’acqua per evaporazione. Così si sono perduti i naturali mezzi di sussi-stenza offerti dall’ambiente, ancorchè deboli e precari; a questo si è

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aggiunto il cambio climatico, e la savana è stata sostituita dal deserto.Oggi ampie superfici del Sahel sono ormai irreversibilmente perdute; inAustralia, gran parte delle rock holes sono ormai secche.

Si nota oggi in molti casi un cambio profondo nel nostro atteggiamentoculturale verso l’ambiente. L’accettazione delle componenti naturali e lacapacità di adattamento sono state spesso sostituite dalla volontà diimporre gli schemi mentali della popolazione urbana. Uno degli aspetti piùevidenti è il comportamento rispetto all’incendio della vegetazione.Questo, negli ambienti a clima arido e semi-arido è un fattore naturale del-l’ecosistema, al quale le popolazioni locali si sono adattate: per millenni gliaborigeni australiani, gli indiani d’America ed anche i pastori sardi hannousato l’incendio controllato per eliminare la paglia secca, ringiovanire lostrato erbaceo, aumentare il pascolo per gli animali domestici oppurecome esca per attirare gli erbivori selvatici durante la caccia. Oggi gliincendi sono considerati un danno, o addirittura un reato, ed esistonoampi sistemi di prevenzione: il risultato è che sul terreno si accumula illegno secco, e prima o poi questo comunque va a fuoco con risultatidisastrosi. Il fuoco da componente dell’ecosistema a nemico: non si pro-pone di liberalizzare l’incendio, ma un uso limitato del fuoco in condizionidi sicurezza è certamente possibile. L’effetto contrario si ha nei confrontidel bosco, che un tempo era considerato un ambiente ostile: la “selva sel-vaggia”; oggi invece è il simbolo della natura intatta, il paradiso perduto.Questo sarebbe un bene, se anche il comportamento rispetto ai boschinostrani corrispondesse a questa immagine. Invece essi vengono fram-mentati dalla rete stradale, gli alberi soffrono per i gas di scarico delle autodei visitatori, e nei punti di sosta si accumulano le immondizie. Anche que-ste contraddizioni, tipiche della società attuale, contribuiscono a cambia-re la faccia della Terra.

Effetti di impatti tecnologici ed inquinanti sulla vegetazioneIl sogno di dare nuovi spazi all’umanità per viverci e crearvi una societàricca e felice si ricollega al mito prometeico, ed ha indubbiamente contri-buito allo sviluppo di alcune grandi opere di trasformazione: sono noti gliesempi delle terre strappate al mare oppure alle paludi nei Paesi Bassi, aVenezia, lungo il basso corso del Po e nell’Agro Pontino. Però la messa incoltura di una superficie che prima era occupata dalla vegetazione natu-rale richiede sempre intelligenza, progettualità, e soprattutto una lungafatica. Esempi recenti, e quindi ben documentati, si hanno per la coloniz-zazione europea nelle Americhe, in Sudafrica, Australia e Siberia.La creazione di un nuovo habitat per l’uomo presuppone sempre la distru-zione di un habitat precedente ed è quindi un atto di arroganza. Nel Faust

pozzi aumenta il bestiame aumenta popolazione grazingdistruzione strato erbaceo albedo siccità aiuti allo sviluppo Fig. 2 Il Feedback saheliano

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di Goethe viene rivissuta la vicenda delle bonifiche sulla costa atlantica,ma alla fine il mare irrompe attraverso le dighe e l’opera viene abbando-nata. Oggi possediamo tecnologie più potenti e vengono realizzate barrie-re mobili, già funzionanti in Olanda ed Inghilterra ed anche in costruzionea Venezia, ma rimane dubbio se esse siano compatibili con la conserva-zione dell’ambiente lagunare, soprattutto nella previsione di un aumentodel livello marino causato dal cambiamento climatico.Il mito prometeico appare ridimensionato in Man’s Role (1956), doveAnderson (p. 776) descrive l’uomo come creatore di nuovi ambienti, maosserva che esempi ben più impressionanti sono dovuti a cause naturali,ad esempio con la formazione di un grande lago come il Baikal, che ha per-messo un imponente processo di speciazione. La critica è giusta, e sipotrebbero aggiungere eventi come le glaciazioni oppure il prosciuga-mento del Mediterraneo durante il Messiniano. Però le trasformazioninaturali ed i conseguenti processi evolutivi richiedono tempi molto piùlunghi di quelli delle azioni umane. Inoltre, sfortunatamente quanto dettonon vale per il processo contrario, cioè l’estinzione di specie causata dafatti catastrofici, che può essere immediata e definitiva. L’estinzione diorganismi a causa dell’azione dell’uomo può essere un fatto involontario;ad esempio la scomparsa di tartarughe marine e della foca monaca sullecoste mediterranee è stata causata dalla intensa frequentazione dei sitiper la riproduzione di questi animali da parte di turisti e pescatori; la per-dita di cultivar di mele, pere ed altri fruttiferi, sostituite da poche varietàaltamente produttive è invece la conseguenza di scelte commerciali.Dall’impatto diretto (taglio di alberi, uccisione di animali) si passa a quel-lo indiretto, che è conseguenza dell’immissione di inquinanti, cioè disostanze nocive, che normalmente sono presenti solo in quantità minime:esse si diffondono nell’atmosfera oppure nella rete idrica ed arrivano amodificare i popolamenti vegetali ed animali anche a grandi distanze dallesorgenti dell’inquinamento. In questa sede si può soltanto accennare alletrasformazioni del territorio causate da inquinanti. Il danno a flora e faunapuò essere causato da sostanze tossiche, come nel caso delle piogge acide,che sono a loro volta causate da anidride solforosa ed ossidi di azoto libe-rati nell’atmosfera durante le combustioni, ed hanno messo in crisi le fore-ste di conifere: dopo una fase di acuto allarme nei primi anni ’90, sonostate prese alcune misure di contenimento ed oggi il fenomeno apparesotto controllo. Più insidioso è il processo di eutrofizzazione, causato dal-l’uso generalizzato di fertilizzanti e dalle acque reflue di origine urbana. Inquesto caso non si tratta di sostanze nocive, anzi esse sono utili alla cre-scita di vegetali ed animali; però sono spesso presenti a concentrazioneeccessiva, e questo ha causato il crollo di molti ecosistemi acquatici. Anchelo squilibrio termico del pianeta, iniziato negli anni ’80, può provocaremodificazioni analoghe ad un processo di inquinamento.Qui però va osservato che questo fenomeno, che appare causato dall’ef-fetto serra, non procede in maniera lineare, ma presenta aspetti di grande

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complessità, che lo rendono abbastanza imprevedibile, almeno per ora.Assieme all’inquinamento provocato dall’immissione di sostanze nocivenell’ambiente, va ricordato un altro processo più subdolo: l’inquinamentogenetico. Esso può avvenire a livello di comunità, mediante l’inserimentodi specie aliene (estranee alla flora locale), oppure a livello di popolazio-ne, come inserimento di geni estranei. A livello di comunità si nota comenumerose specie provenienti da altri continenti siano in grado di ambien-tarsi nel nostro territorio (generalmente colonizzando superfici aperte) eprogressivamente anche entrare a far parte della vegetazione naturale.Nella flora italiana si tratta di quasi il 10 % delle specie presenti, quasitutte introdotte per caso, assieme alle sementi oppure con il commerciodella lana. Il loro numero cresce continuamente: a volte si tratta di speciefastidiose come infestanti, oppure perchè spinose o velenose, e molte pro-vocano fenomeni di allergie, però tutto sommato da noi il fenomeno rima-ne sotto controllo. Esiste però anche il fenomeno inverso, e cioè il trasferi-mento di specie europee negli altri continenti: ad es. le specie pratensidella pianura nordamericana sono spesso un miscuglio di specie europee,come già nota Curtis (p. 731). Nella fascia semi-arida dell’Australia occi-dentale, all’inizio della primavera la pianura ondulata è coperta fino all’o-rizzonte da una compatta fioritura gialla: si tratta di Arctotheca calendula,composita introdotta dal Sudafrica, che cresce assieme a Trifolium subter-raneum, introdotto dal Mediterraneo. Le due specie crescono assieme eformano un pascolo magro, che ha completamente sostituito la flora loca-le. Quasi per una sorta di contrappasso, specie legnose di origine austra-liana, come eucalipti, acacie e Hakea si sono insediate in Sudafrica edanche in certe zone del Mediterraneo.Delle specie aliene si è occupato particolarmente Anderson che ricorda (p.765) come Isatis tinctoria, crucifera di probabile origine West-Europea,venisse coltivata nell’antichità. Quando Cesare arrivò in Britannia gli abi-tanti si coloravano in blu con questa pianta, adesso estinta. Lo stessoAnderson afferma (p. 416) che l’evoluzione procede molto rapidamentequando si aprono nuove nicchie che possono venire occupate, e questoconcetto è stato ampiamente sviluppato, portando alla teoria dell’evolu-zione per riduzione della flora mediterranea (Pignatti, 1979), come conse-guenza dell’azione umana sull’ecosistema.A volte le specie aliene sono state introdotte volontariamente, come spe-cie forestali, medicinali, commestibili o comunque utili, hanno invaso l’am-biente e sono riuscite a prevalere sui tipi locali: questo è il caso della robi-nia e dell’ailanto, che oggi sono diffusissimi e molto difficili da estirpare.Anche il platano comune ha una storia analoga: è un ibrido tra Platanusorientalis (indigeno in Sicilia e nell’Egeo) e Platanus occidentalis nord-americano. Formatosi per caso, si è rivelato molto più rustico dei genitoried ora è largamente diffuso in Italia e nell’Europa meridionale.Un tipo di inquinamento del tutto nuovo avviene a livello di popolazione,quando una specie estranea coltivata cresce nelle vicinanze di una specie

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indigena affine, e si formano spontaneamente ibridi: questo è avvenutoquando per inverdire le piste sciistiche e le scarpate stradali sono stateimpiegate sementi provenienti da vivai situati in Belgio oppure in Olanda.Esistono normative per evitare questa forma di inquinamento genetico, maè molto difficile farle rispettare; comunque, finora non si sono notate con-seguenze gravi. Va qui ricordato che anche gli organismi geneticamentemodificati potrebbero diventare la causa di analoghe modifiche all’equili-brio ecosistemico.In questo capitolo si è data una rapida rassegna dei più importanti fattori dimodificazione della copertura vegetale, la cui incidenza è divenuta evidentesoprattutto nel periodo successivo la pubblicazione diMan’s Role (1956). Daessa dovrebbe risultare chiaramente che dopo gli anni ’50, l’uomo ha conti-nuato a modificare sempre più rapidamente la faccia della Terra, e questotanto nei paesi del blocco sovietico quanto in quelli ad economia capitalista.

Visione sistemicaRiduzionismo e complessitàIl metodo scientifico, come mezzo per conoscere la natura, secondo Galileoè fondato sull’esperimento. Esso consiste nella riproduzione artificiale diun fenomeno, variando le condizioni nel quale esso avviene, in modo damettere in evidenza i legami di causa/effetto, che potranno poi venire sin-tetizzati in una legge empirica. Nella pratica, si cerca in generale di agiresu una sola variabile in modo da poterne apprezzare l’effetto con la mas-sima precisione possibile. Questo metodo, indicato come “riduzionismo”, èdi uso larghissimo nelle ricerche sperimentali. Gran parte della scienzamoderna è costruita sui risultati ottenuti con questo metodo, e questo ingenerale non ne inficia la validità. Tuttavia esiste una differenza tra unasemplice esperienza come ad esempio la misura della dilatazione termicae la sperimentazione sui viventi. Nel primo caso, è sufficiente avere unasbarretta di metallo, misurarla esattamente, riscaldarla e quindi effettuareuna seconda misura: la differenza tra le due corrisponde alla dilatazionealla data temperatura. Il risultato ha valore deterministico, cioè, se l’espe-rienza viene ripetuta, esiste una forte probabilità che si arrivi allo stessorisultato. Ripetere la stessa esperienza riscaldando un animale, oppureanche solamente un pezzo di legno, darà risultati differenti o, più proba-bilmente, nessun risultato: non è che in questo caso non avvenga la dila-tazione termica, ma essa si associa ad una varietà di altri effetti, che impe-discono di apprezzare il fenomeno. Se si arriva ad un risultato, ripetendol’esperienza sarà difficile ottenere lo stesso risultato. Quanto più aumentala complessità dell’oggetto da studiare, tanto più aumenta la difficoltà diapplicare l’approccio riduzionistico e di ottenere risultati certi e ripetibili.Nella vita comune siamo abituati ad agire in uno spazio a tre dimensioni:lo spazio euclideo. Quando invece ci confrontiamo con un problemaambientale, è necessario tenere conto di molte dimensioni: si arriva così al

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concetto di spazio ecologico, uno spazio multidimensionale (iperspazio)e la sperimentazione su una singola variabile diviene sempre meno signi-ficativa. Questo stabilisce una differenza essenziale tra l’esperienza nelcampo della fisica classica e lo studio dell’ambiente. In Man’s Role (1956),solo raramente si tiene conto di questa fondamentale differenza di meto-do, e questo limita il significato di molte affermazioni. Abbiamo trovatouna chiara esposizione del problema dove la geografia umana viene con-siderata come una disciplina sintetica, che ha lo scopo di descrivere e spie-gare le relazioni tra l’uomo ed il suo ambiente. Qui però si pone il proble-ma di cosa sia il territorio (Gourou, 346): secondo l’autore il territorio nonesiste come cosa in sè, ma soltanto in dipendenza dell’uomo, che lo ha tra-sformato e lo interpreta secondo le sue capacità tecniche (noi diremmopiuttosto: secondo la sua cultura). Così, la geografia diviene un approccioalla complessità del territorio.Secondo Graham (p. 677) la vegetazione agisce come interfaccia tra uomoe ambiente fisico, e si tratta di un’interfaccia attiva, che può venire varia-mente trasformata dall’uomo, ma ha la capacità di rigenerarsi autonoma-mente. Questo problema viene affrontato in maniera radicale da Teilhardde Chardin nell’introduzione al suo scritto (p. 103): durante il sec. XIX l’in-signe geologo Suess, assieme alle componenti fisiche del pianeta (litosfera,atmosfera, ecc.) proponeva il concetto di biosfera, cioè il complesso deiviventi, che oggi è di uso generale. Successivamente, accanto a queste, LeRoy, Vernadsky e lo stesso Teilhard de Chardin negli anni ’20 proponevanoil concetto di noosfera, come l’ambito nel quale si attuano i fenomeni lega-ti all’uomo come essere pensante. Il concetto di noosfera è importante, per-chè, come la biosfera è soggetta ai processi di evoluzione biologica, cosìdurante l’ominizzazione si formano nuovi tipi culturali analogamente allaformazione di nuove specie (Teilhard de Chardin, p. 108-109). Il progressoculturale dell’umanità viene pertanto inteso come la formazione di nuoveunità culturali, in parallelo a quanto avviene con la formazione di nuovespecie zoologiche. Alla luce delle più recenti acquisizioni sull’evoluzionedella mente, questa modo di esprimersi potrà apparire troppo dipendentedalle nozioni sul sistema del vivente che si avevano mezzo secolo orsono,nozioni anch’esse ormai superate. Però, quando l’autore sottolinea la neces-sità di considerare la cultura degli abitanti tra i fattori essenziali che rego-lano il rapporto uomo-ambiente nel territorio, ha indubbiamente ragione.Ritroviamo questo tipo di approccio anche in altri contributi, ad es.(Jannaki Ammal, p. 329) nell’importanza degli usi mistici in agricolturalegati alla fertilità femminile che a metà del secolo scorso erano ancora inuso nelle culture contadine dell’India, e, sempre nello stesso articolo, il tra-passo da “povero” a “miserabile” per effetto della modernizzazione.

Il problema della discontinuitàGran parte dei modelli si sviluppo di società tradizionali presentati inMan’s Role (1956) partono con la condizione iniziale nella quale l’uomo

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vive come cacciatore e raccoglitore; nello stadio successivo si passa ad atti-vità come l’agricoltura oppure la pastorizia. Questo passaggio può avveni-re soltanto attraverso una qualificazione e specializzazione del lavoroumano. Infatti il nomade che si sostiene con caccia e raccolta usa un stra-tegia “per ogni caso”: non può prevedere dove e quando incontrerà il frut-to da raccogliere oppure l’animale da uccidere, quindi deve essere semprepreparato a sfruttare qualsiasi risorsa gli si presenti. Invece nello stadiodella pastorizia ed agricoltura primitiva il lavoro va programmato neltempo e nello spazio secondo una precisa direzionalità: semina e mietitu-ra hanno tempi ben precisi, e la transumanza consiste nello spostare ilgregge dalla costa (in inverno) alle montagne (in estate). Il passaggio dal-l’attività indifferenziata alla direzionalità può avvenire per una presa dicoscienza, quasi come un’invenzione, ma certo non avviene per caso: anzi,esistono condizioni esterne che in generale favoriscono questo processo epossono svolgere il ruolo di fattori scatenanti. In generale si tratta dell’ef-fetto di una discontinuità, nel tempo oppure nello spazio, ad es.:

discontinuità fattore esempiofiumi con inondazioni periodiche tempo Nilo, Indo, Tigri ed Eufratemaree tempo Veneziaacropoli spazio Roma, Atene

Da questi esempi, risulta che fattori fisici e culturali agiscono contempo-raneamente ed in maniera unitaria nel regolare i rapporti tra uomo edambiente. Se si intende studiare il fenomeno secondo l’approccio riduzio-nista, essi andrebbero tenuti ben distinti, ma in questo caso si verrebbe aperdere la possibilità di comprendere lo svolgimento dei fenomeni.

Lo spazio come diversitàIl problema centrale è, a nostro avviso, spiegare come un mondo regolatodalle leggi della termodinamica, e che quindi naturalmente tende versol’uniformità, si trasforma in senso contrario. Questo sviluppo in senso con-trario all’entropia avviene a due livelli, quasi due “sfere” nella visione diTeilhard de Chardin:- piante ed animali (viventi privi di razionalità): differenziazione di nuovespecie

- uomo (essere razionale): differenziazione di nuove cultureIn Man’s Role (1956) questo problema non viene espresso chiaramente,ma come abbiamo visto esso sembra affacciarsi in alcuni contributi. D’altraparte, è chiaro che alla mentalità positivista diffusa nella comunità scien-tifica americana verso la metà del secolo scorso, non poteva sembrareaccettabile di considerare la cultura con lo stesso metro usato per variabi-li che potevano essere misurate con metodi obbiettivi. A questo punto,risulta quindi necessario introdurre il concetto di sistema, come il livellosuperiore, nel quale è possibile l’integrazione tra fattori fisici, biologici e

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culturali. Il sistema non è soltanto la somma dei diversi fattori, ma consi-ste soprattutto delle relazioni tra questi. Pertanto i singoli fattori sonovalutati sia come quantità che qualità. Nello spazio euclideo può venireintrodotto il concetto di diversità, come proprietà intensiva, cioè caratteri-stica dalle singole aree definite ed indipendente dalla loro superficie.Allora, la risposta alla questione iniziale, è che la superficie della Terra èsfaccettata in un numero quasi infinito di celle, differenti l’una dall’altra etali da presentare condizioni di vita differenziate. In queste celle si inse-diano categorie di viventi, diverse caso per caso, che mediante i processi diauto-organizzazione che sono loro propri, tendono a evolvere lungo traiet-torie differenziate. Per realizzare questo, che comporta consumo di energiae risorse, i viventi dispongono dell’energia solare catturata mediante lafotosintesi. Dunque, nella biosfera prevalgono i processi di differenziazio-ne, in contrasto (solo apparente) con la legge dell’aumento dell’entropia,perchè il sistema viene continuamente rifornito di energia esterna. Tutti iprocessi tendenti all’uniformità, avviati dall’uomo, dalle regolazioni idrau-liche alle monocolture ed a quelli che preoccupavano scrittori comeHulxley (1932) e Orwell (1949), sono intrinsecamente contrari alla vita.

Tendenze e prospettiveIntroduzioneAbbiamo finora esposto criticamente le idee essenziali riportate in Man’sRole (1956) su ruolo svolto dall’uomo nel modificare la faccia della Terra.Come conclusione, possiamo discutere se, ed entro quali limiti, le tenden-ze prospettate in quest’opera si possano ritenere confermate: questo, conla saggezza derivata dal fatto che oggi possiamo scrivere con mezzo seco-lo di esperienza ulteriore. Anzitutto, va messo in chiaro quanto già affer-mato all’inizio, e cioè che lo scopo dichiarato di Man’s Role (1956), è didescrivere processi e non di prevedere il futuro, tuttavia, il compito dellascienza è di arrivare a modelli predittivi, e quindi è lecita la domanda, se imodelli proposti possano ritenersi confermati. Una risposta generale,affermativa o negativa, non sembra tuttavia possibile. Nel caso dei giàcitati libri di Huxley e di Orwell venivano descritte condizioni precise in untempo dato, ed adesso sappiamo che non si sono avverate; analogamenteEhrlich nel 1968 immaginava a dieci anni di distanza uno scenario di guer-ra nucleare con 100 milioni di morti, ed anche questo per fortuna non siè avverato. Invece in Man’s Role (1956) si hanno soltanto cenni a condi-zioni tendenziali, e le estrapolazioni restano ipotetiche, a volte persinoarbitrarie. Per quanto ci è stato possibile accertare, ci sono almeno tre ideeforti, espresse in Man’s Role (1956), che si possono ritenere confermate,forse anche molto al di là di quella che poteva essere l’opinione di chi leha espresse:- l’attività umana come forza trainante del cambio globale (Malin, cfr. piùsopra la sezione 1.4) in base all’esempio della locomotiva ed automobile;

- la globalizzazione come risultato della tendenza convergente delle cul-

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ture umane (Teilhard de Chardin, cfr. sezione 2.1), nonostante il mondofosse allora drammaticamente diviso tra il blocco dei paesi capitalisti edil blocco sovietico

- la necessità di superare la cultura fondata sul metodo riduzionistico,affermata chiaramente da Mumford (vedi sotto).

Su quest’ultimo punto vi è una dichiarazione di estrema chiarezza, che valla pena riportare letteralmente: “to me the conference confirmed a beliefthat has long been growing more definite; namely that the still dominantpattern of seventeenth-century science, with its dismembered and isolateddata, with its preference for single-factor analysis, with its strict separationof quantity and quality, with its reductive technique, must be supplemen-ted in dealing with the phenomena of life with a method that does justiceto the essential nature of life: the autonomy and integrity of organismswith their selective and purposive behavior.” (Mumford, p. 1148). Se a qual-cuno durante il convegno fosse venuto in mente di mettere assieme que-ste tre idee ed immaginare il futuro della società umana in funzione diesse, sarebbe arrivato a prevedere il progressivo avvicinamento dei dueblocchi, il successivo assorbimento del secondo nel primo, la formazionedel grande spazio economico mondiale, il conseguente sviluppo dell’im-patto umano, non più come locomotive o automobili, ma con quello chele tiene in movimento, cioè la combustione di carburanti non rinnovabili,che produce il cambio climatico. Ma forse si pretende troppo da idee di cuisoltanto ora comprendiamo la forza, e che allora erano appena affiorate inmezzo ad una selva di nozioni che, benché utili, finivano per agire comeuna cortina fumogena.Nei loro scritti, la realtà è ben diversa: Teilhard (p. 111-112) lancia la previ-sione di una nuova età, nella quale l’umanità sarà in grado di raggiunge-re”un nuova e più stabile forma di conoscenza ed unanimità ... il passo suc-cessivo nel processo della sua co-riflessiva auto-evoluzione”, che lui para-gona alla scalata dell’Everest, ma rimane nel quadro di un condiziona-mento il senso teleologico. Mumford invece rivela (p. 1143-1147) un pro-fondo pessimismo (man’s future seems black), causato dall’aumentare del-l’inquinamento e soprattutto dalla minaccia di olocausto nucleare e sem-bra quasi raccogliere la preoccupazione di Spengler (1923) per la deca-denza dell’occidente.

La crisi ambientaleOggi la crisi ambientale viene percepita soprattutto a causa del problemaenergetico, che si sta rapidamente aggravando: negli ultimi anni il prezzodel petrolio è raddoppiato due volte, passando da circa 20 $ a 40 $ e men-tre scriviamo si avvicina agli 80. Ogni aumento sembra aver raggiunto untetto non superabile, ma dopo pochi giorni la crescita del prezzo riprende.Sembra che ormai si sia entrati nella fase di “picco” e la produzione non siapiù in grado di soddisfare la domanda globale. Ad ogni nuovo aumento delprezzo si lanciano allarmi catastrofici. Le recenti guerre nel Golfo, Caucaso

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ed in Afghanistan sono almeno in parte motivate dal controllo delle risor-se petrolifere. Tuttavia, quando l’attenzione si concentra sul prezzo delpetrolio, si dimentica che a livello globale il vero problema è il cambio cli-matico, causato dai gas liberati durante la combustione. Quindi, assurda-mente, un elevato costo energetico può considerarsi vantaggioso per l’am-biente globale, in quanto rallenta l’aumento dell’effetto serra. Questo feed-back, che regola i fattori del cambio climatico era stato previsto già neldocumento del Club di Roma (Meadows, 1972). La variabile fuori controlloè la popolazione globale, che continua ad aumentare con un tasso insoste-nibile: e questo determina l’incremento nel consumo di carburanti, dissipa-zione delle materie prime, aumento delle emissioni, cambio climatico e –non ultimo – l’impatto sul territorio e la trasformazione della faccia dellaTerra, cioè le preoccupazioni che stanno alla base di Man’s Role (1956).Grida d’allarme e previsioni catastrofiche negli ultimi decenni si sono ripe-tute. Fortunatamente, dopo cinquant’anni, si può osservare che in gene-rale i disastri previsti non si sono avverati. Negli anni ’60 lo zoologo tede-sco Grzimek prevedeva entro 10 anni la scomparsa della vita dai mari, maquesto non è avvenuto, anche se molte specie sono prossime all’estinzio-ne, ad es. le balene. La previsione di Ehrlich (guerra nucleare negli anni’70) non si è realizzata, ed anche le simulazioni Meadows, che nel 1972prevedeva condizioni di grave squilibrio negli anni 2000-2100 finora nonsono confermate. Questo non vuol dire che fossero esagerazioni. Si trattapiuttosto del fatto che le previsioni riguardanti il futuro vengono fattemediante l’estrapolazione delle tendenze del passato, linearizzando unsistema che. come si è più volte affermato, è invece, intrinsecamente, non-lineare. La biosfera, interpretata come sistema complesso, possiede unaimmensa capacità di omeostasi, e finora ha dimostrato di poter assorbirevariazioni esterne senza doversi modificare in toto, però anche in questocaso esistono valori di soglia, e quando questi vengono superati si ha unamodifica generale del sistema. Se il clima dovesse ad es. divenire più arido,non c’è da aspettarsi che ogni anno si abbia qualche millimetro di preci-pitazioni in meno ed il deserto avanzi di qualche chilometro, ma succede-rà che per alcuni decenni la situazione resterà più o meno immutata, poisi avvierà un processo rapido ed irreversibile di aridizzazione su ampiesuperfici. Questo è il reale, grande rischio al quale siamo esposti, ed attual-mente non si hanno elementi per prevedere nè quando si arriverà al valo-re di soglia, nè quale sarà la nuova condizione sulla quale verrà a stabilir-si un nuovo equilibrio.Si tratta dunque di una sindrome complessa, e tra le molte conseguenze viè anche la modificazione della superficie terrestre, sia in maniera direttacome messa a coltura per le necessità alimentari della crescente popola-zione, sia soprattutto in maniera indiretta a causa dell’inquinamento e delcambio climatico. La conseguenza più appariscente è la progressiva distru-zione delle foreste tropicali, che vengono abbattute per ricavarne il legna-me pregiato, oppure degradate a causa dell’agricoltura itinerante. Si trat-

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ta, come si è visto di un fenomeno irreversibile. Continuando con questoritmo, in pochi decenni, il bioma nel quale si concentra il massimo delladiversità vegetale ed animale del pianeta, sarà irrimediabilmente perduto,con conseguenze gravissime: aumento dell’effetto serra, desertificazione,erosione.Il cambio climatico va interpretato come un aspetto di fenomeni sul tipodi quelli descritti come “Gaia” in Lovelock (1988): feedback vegetazio-ne/clima e conseguente alternanza di fasi calde e glaciazioni. Anche senella ricostruzione di Lovelock molti elementi rimangono ipotetici, è sen-z’altro giusto considerare che l’equilibrio climatico del pianeta dipendadall’interazione tra vari elementi, nei quali anche la vegetazione gioca unruolo essenziale; e dall’equilibrio climatico dipende, ancora una volta la“faccia della Terra”.

Approccio sistemico ai problemi dell’ambienteL’approccio Thomasiano consiste nella somma di molte trasformazionilineari, come è stato discusso già nella sezione 3.1. Invece, già Mumford(p. 1148) si era reso conto della necessità di un approccio sistemico, anziegli paragona l’ambiente addirittura ad un organismo, cioè al livello piùcomplesso per un sistema. Non si tratta soltanto di una differenza di meto-do, perchè essa porta a risultati molto diversi.Nella concezione linearizzata, il mondo è articolato in sezioni distintecome struttura e funzione: riserva naturale, parco, area agricola, urbaniz-zazioni ecc. È in questo spirito che Wilson (2004) prefigura un assetto delglobo che permetta di sfamare 10 miliardi di abitanti, dividendo netta-mente la superficie in due parti: metà parchi nazionali e metà aree colti-vate, con largo uso di OGM, così da massimizzare la produzione di derratealimentari. Sembra una prospettiva piuttosto deprimente, e c’è da sperareche l’umanità non debba arrivare a tanh cerchiamo invece di svilupparel’approccio basato sulla complessità, l’ambiente va inteso nel senso usatonel celebre libro di Leopold (1949): si potrà ad es. determinare anzituttola capacità portante, ed in funzione di questo indicare i settori da desti-nare alle funzioni necessarie, ma soprattutto anche le aree nei quali man-tenere uno stato di indeterminazione, così da permettere la realizzazionedi attività di auto-organizzazione dell’ecosistema, riguardanti sia il mondovegetale che gli animali. L’importanza degli spazi aperti per la creazione diibridi ed eventualmente lo sviluppo di specie sinantropiche è stata messain evidenza anche da Anderson E. (p. 775-776). Per le aree ad elevataindeterminazione è stato recentemente (Clément, 2004) introdotto il con-cetto di “terzo paesaggio”.In un approccio sistemico divengono comprensibili idee, appena enuncia-te in Man’s Role (1956), ma che avrebbero meritato di essere maggior-mente sviluppate. Ricordiamo l’emergere di nuove qualità (Mumford, p.1143), che precorre il concetto delle “qualità emergenti”, successivamentesviluppato da Kauffman (1993). Nell’articolo di Darling (p. 779) sulla pra-

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teria americana, ed i rapporti tra questa e l’originaria popolazione di india-ni, si discute la possibilità di una coevoluzione tra uomo e specie comme-stibili nel neolitico, un argomento che in seguito noi abbiamo sviluppatoin base alle osservazioni sull’ecosistema mediterraneo (Pignatti, 1999).Anche gli accurati studi di Pfeifer (p. 240 e succ.) sull’origine dell’agricol-tura nell’Europa Centrale e di Evans (p. 217 e succ.) nell’EuropaOccidentale mettono in evidenza la stretta relazione esistente tra clima –substrato – vegetazione – piante coltivate – animali domestici e lo svilup-po delle culture locali. Manca invece in questi lavori una parallela analisidello sviluppo nella zona mediterranea , che pure è stata la culla di ungran numero di piante coltivate.

ConservazioneIn Man’s Role (1956) l’interesse si concentra sulle modificazioni dell’am-biente provocate dall’azione umana, mentre i problemi della conservazio-ne ambientale e dell’eventuale restauro sono poco presenti. Questo ci facomprendere, che cinquant’anni fa questi erano problemi ancora poco sen-titi, e di cui si occupavano soltanto pochi specialisti. Però, pochi anni piùtardi essi sono ormai arrivati alla pubblica opinione. È difficile ed arbitra-rio citare un evento preciso, ma vale la pena ricordare la pubblicazionedella “Primavera silenziosa” (Carson, 1962), che ha proposto ad un vastopubblico i problemi dell’inquinamento e della conservazione con linguag-gio semplice ed il diretto appello ai sentimenti di ognuno.Nel concetto di conservazione si ha una progressiva evoluzione: inizial-mente essa viene intesa come il salvataggio di singoli individui (ad es. unasequoia millenaria), poi a livello di specie, soprattutto per quanto riguardagli animali. È solo alla fine degli anni ’70 che ci si rende conto che per evi-tare l’estinzione è necessario che la specie minacciata possa svilupparsinella comunità vegetale o animale che le è propria e nell’ambiente alquale è adattata. Già in una osservazione di Mumford (p. 1150) comparela preoccupazione per i fenomeni che portano alla perdita di spazio diver-sificato. È chiara la convinzione che la vita può svilupparsi soltanto in unambiente che permetta processi di carattere evolutivo e di auto-organizza-zione. Oggi questo concetto è ormai di patrimonio comune, e l’oggettodella conservazione è la biodiversità nel suo complesso, come un benepatrimoniale che va conservato e trasmesso a chi verrà dopo di noi. Nellerelazioni ufficiali spesso si presentano con orgoglio le cifre dei km2 sotto-posti a tutela oppure delle specie inventariate in una singola area protet-ta. Più importante però, anche se meno appariscente, è l’obbiettivo digarantire il mantenimento delle relazioni ecosistemiche, che permettonoalle specie presenti di essere parte attiva nel plasmare l’ambiente. Così,accanto all’uomo, come trasformatore della faccia della Terra, va ricono-sciuto il ruolo insostituibile della fauna e della flora.Il problema della conservazione si presenta oggi in maniera molto diffe-rente rispetto a cinquant’anni fa. Allora, infatti, i paesi industrializzati

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erano poveri di ambienti naturali (tranne gli USA), mentre nel terzomondo lo stato naturale era ancora molto diffuso. Oggi, la situazione si ècapovolta. Grazie ad un forte sforzo, nei paesi industrializzati gli ambientiprossimo-naturali sono in ripresa. Ad es., in Italia la superficie forestaleraggiunge quasi il 30 % del territorio. I paesi della fascia tropicale, inve-ce, hanno in gran parte perduto le cospicue risorse forestali di cui untempo disponevano.Questo è il motivo per cui, quando un bene ambientale viene distrutto ètanto difficile (e spesso impossibile) rigenerarlo. A questo pensava giàMumford. La possibilità di rehabilitation viene sperimentata a cominciarecon gli anni ’70. Sembrerebbe soltanto un problema di trovare i metodiadatti per la coltivazione delle piante e l’allevamento degli animali, manon è così. Può esser facile anche da noi fare una piantagione di eucalip-ti, ma questa resterà sempre una cosa ben diversa dalle foreste australia-ne di eucalipti. Per ricreare l’ambiente è necessario curare un’infinità diparticolari, e non è un caso che i risultati migliori siano stati ottenuti fino-ra in Giappone, con il programma per la ricostituzione di foreste vergini inambiente urbano (Miyawaki, 1987). Si possono ancora ricordare i primiesempi di ricostruzione della laurisilva nell’isola di Gran Canaria, e da noiil salvataggio dell’Abies nebrodensis in Sicilia, una specie arborea endemi-ca, ridotta a soli 23 individui, ed ora in fase di ripresa.

ConclusioneL’uomo trasformatore del paesaggio vegetale oggi lavora per eseguireinterventi che sono fondati sulla tecnologia. La tecnologia a sua volta èfondata sulla fisica newtoniana. La fisica newtoniana è il prodotto, nell’e-vo moderno, della cultura occidentale. La cultura occidentale deriva dalpensiero giudaico-cristiano, sistematizzato secondo i principi dell’ideali-smo greco. Allora andiamo a vedere cosa sta alla base del pensiero giu-daico-cristiano e se qui si possa trovare una causa.Il pensiero giudaico-cristiano è basato sulla rivelazione (Bibbia) che tutta-via è una redazione posteriore (III sec. av. C.) di conoscenze precedenti. Sipuò comprendere di più se si tiene conto che la cultura del popolo ebrai-co si è sviluppata quando gli ebrei erano un popolo nomade del deserto,prima di andare in Egitto. Il nomade durante il giorno bada agli animali,raccoglie eventuali piante commestibili o caccia i pochi animali presenti.Alla sera accende un fuoco (se ha combustibile) e si prepara al riposo,coprendosi bene perchè nel deserto durante la notte fa freddo. Si disten-de, sopra di lui il cielo stellato, di una straordinaria limpidezza (atmosferaa basso tenore di umidità). Da qui – io credo – nasce l’idea di un mondosopra di noi, fisso ed infinitamente ordinato, che regola le cose umane, eda questo l’idea del Dio perfetto ed eterno. Questa credo sia la radice dellareligione monoteista, che quindi si dirama tra ebraismo, cristianesimo edIslam e trova un supporto logico nella filosofia greca.La visione monoteista è intrinsecamente dualistica, perchè basata sulla

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netta distinzione tra spirito e materia, anima e corpo, dio e natura. In que-ste dicotomie, al secondo termine va sempre un connotato negativo. Lanatura dopo la cacciata dal paradiso terrestre è considerata nemica edoggetto di sfruttamento, secondo il precetto “rendetela vostra schiava”(Genesi, 21). Da qui deriva la libertà di saccheggiare tutto ciò che è natu-rale, per le esigenze dell’uomo. Questo entra fra i primi concetti della reli-gione monoteista e si mantiene in tutta la cultura occidentale. Quella cul-tura che ha creato il pensiero scientifico, la tecnologia, ed ora si espande intutto il mondo. Quella cultura che noi consideriamo “la cultura” tout court,con inaudita arroganza. Perchè al mondo ci sono culture alternative, chenon possono essere considerate secondarie, né come profondità, né comeconsistenza delle popolazioni di riferimento, basti pensare alla culturaindiana ed a quella cino-giapponese-sudest-asiatica. Il buddismo, ad es., èuna religione che si proclama atea e materialista, con una unitaria visionedel mondo: la distinzione tra uomo e natura è considerata grave errore con-cettuale. Teniamo presente, che il buddismo è nato nella foresta tropicaledel subcontinente indiano, ma lì si dorme sotto il fogliame della giungla, edil cielo è generalmente nuvoloso, le stelle si vedono raramente.Dunque, con l’espansione dell’uomo bianco su tutti i continenti, l’insedia-mento dell’uomo bianco negli spazi liberi o poco popolati (marginalizzan-do le popolazioni aborigene) e l’egemonia sui popoli troppo numerosi pervenire distrutti, la convinzione della totale disponibilità per i propri biso-gni ha portato alla modificazione permanente del paesaggio vegetale.Non è soltanto una strategia tecnologica, ma un’idea con radici culturaliben più profonde. Però ora ci rendiamo conto di questo tipo di svilupponon potrà continuare all’infinito. Siamo di fronte ad una scelta epocale:correzione di rotta, oppure metanoia?

BibliografiaCarson R, 1962, Silent Spring, Houghton Mifflin, Boston.Clément G., 2005,Manifesto del terzo paesaggio, Quodlibet Ed., Macerata,87 pp.

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PrologoCondividendo appieno il pensiero di Kuhn (1962), la ricerca scientificacome altre attività umane elargisce un servizio che è appropriato per iltempo, il luogo e la cultura. Questo in altre parole significa che la ricercascientifica coglie i bisogni della società e cerca di descrivere i processi cheli accompagnano.Il mio contributo al lavoro Man’s Role vuole essere più di tipo epistemolo-gico che descrittivo dei cambiamenti che si sono verificati nei paesaggicosì come mi era stato suggerito dal coordinatore Virginio Bettini.Infatti il paesaggio, negli anni ‘50, non era certamente considerato dallescienze ecologiche così come lo è oggi, e sarebbe praticamente impossibi-le pensare di ricostruirne i processi evolutivi attraverso una semplice inter-pretazione di foto aeree. Un altro limite di tali scienze, che mi ha forte-mente scoraggiato, è quello della conoscenza geografica.Oggi una adeguata revisione delle dinamiche dei paesaggi richiederebbeuno sforzo gigantesco che nessuna agenzia di ricerca potrebbe sostenere.Pertanto l’analisi di un paesaggio potrebbe correre il rischio di diventareun modello fisso applicabile ad ogni tipo di paesaggio, inducendo ad erro-ri a dir poco grossolani.Come ebbe modo di sottolineare Robert MacArthur (1972), ogni luogodella terra ha una sua ecologia e come tale è necessario tenere bene amente che al di fuori dei progetti organismici, ecosistemi e paesaggi diven-tano sistemi funzionanti sotto costrittori locali sebbene alla fine le lorocomponenti biologiche (virus, batteri, piante e animali) rispondano a rego-le metaboliche (allometriche) generali (Brown et al. 2004). Aggiungo chedai tempi di MacArthur (anni ‘60 e ‘70) il paesaggio non era ancora unelemento ecologico ma solamente un concetto estetico o tuttalpiù geo-grafico. Oggi sappiamo che il paesaggio è il risultato di processi materiali(meta-ecosistemici) e di processi cognitivi (nel caso dell’uomo a forte con-notazione culturale) dove energia, informazione e meccanismi ciberneticisi intersecano e si integrano.Più volte gli ecologi hanno cercato di categorizzare problematiche, neces-sità ed urgenze ambientali creando in questo modo elenchi di problemi,sotto-problemi derivati, indici, priorità, azioni e raccomandazioni(Lubchenco et al. 1991). Encomiabile fu lo sforzo fatto da Rapport e col-

CAMBIAMENTI AMBIENTALI ED EVOLUZIONE DEL PENSIERO SCIEN-TIFICO NEGLI ULTIMI 50 ANNI: DALL’ECOLOGIA ECOSISTEMICAALL’ECOLOGIA COGNITIVA

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laboratori (Rapport et al. 1998) per poter considerare l’ecosistema comeelemento unitario capace di essere osservato con quelle tecniche che sonoproprie della medicina umana introducendo il concetto di “salute ecosi-stemica” in quelle fasi di valutazione di tali sistemi. Questo attraversoagenzie internazionali in un tentativo di globalizzare il problema, ottenen-do rare volte l’effetto desiderato.Certamente la pubblicazione di articoli o inserti speciali destinati alle varieproblematiche, come recentemente hanno fatto le riviste più importanticome Science e Nature, hanno sicuramente sortito dei risultati, ma purnella globalizzazione e nella continua informazione, questi sforzi nonhanno inciso più di tanto nel panorama mondiale (p.e. Myers et al. 2000).Infatti oggi solo i meccanismi economici possono modificare funzioni evelocità degli ingranaggi del sistema terra, anche perché solo l’economiadispone di una “macchina” completamente costruita dall’uomo. L’ecologiasi occupa dello studio della macchina naturale di cui non dispone, se nonper funzioni specifiche, né del progetto, né tanto meno degli strumenti percambiarne volutamente il funzionamento. In genere l’uomo contribuisce a“rompere” questa macchina semplificandone, attraverso la distruzionedelle forme biologiche, i funzionamenti.Pur avendo la stessa base etimologica, ecologia ed economia hanno bendifferente peso (Costanza 1991). La prima è solo conoscenza, la seconda èazione immediata, soprattutto per la messa in rete dei relativi processi adat-tativi. Basti pensare ai comportamenti dei mercati, che pur geograficamen-te remoti sono in grado di reagire come fossero parti dello stesso corpo.Potremmo dire che l’effetto di autoregolazione della biosfera descritto daLovelock (1979) come effetto GAIA è paradossalmente estendibile e veri-ficabile proprio all’economia.

Dal concetto di ecosistema al concetto di paesaggio: ragioni stori-che e ragioni scientificheDa quando l’ecologo inglese Arthur Tansley introdusse il paradigma dell’e-cosistema all’inizio del secolo scorso alla scienza dell’ecologia, si sono aper-ti nuovi e fortunati orizzonti per un’attiva integrazione con le societàumane. Questo percorso, non sempre facile e tutt’ora incompleto, è statoben illustrato da Frank Golley con perizia e profonda padronanza in un librointitolato A history of the ecosystem concept in ecology (Golley 1993).Un ruolo significativo per lo sviluppo dell’ecologia ecosistemica fu gioca-to da Raymond Laurel Lindeman che affrontò con grande spirito innovati-vo per quei tempi (1940) nella sua tesi Cedar Bog Lake: The Ecosystem orthe Trophic Dynamic-Viewpoint in Ecology il tema dell’ecosistema comesistema organizzato con caratteri che Frank Golley molto più tardi descri-verà come cibernetici in una sezione del capitolo dedicato alle conclusio-ni. Per oltre mezzo secolo le scienze ecologiche hanno posto al centro delpensiero ecologico l’ecosistema. Questo concetto consente di individuaree descrivere il motore che muove la vita sulla terra che la contestualizza e

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nel contempo è in grado di collegare il mondo fisico (energia, materia,informazione) con il mondo biologico (i processi della vita) come hannobene messo in evidenza Oward Odum in System Ecology (Odum 1983) eRamon Margalef in Our Biosphere (Margalef 1997).Negli ultimi 50 anni la tecnologia ha dotato l’uomo di nuovi strumenti dimanipolazione dell’energia che hanno reso possibile l’accesso a nuove risor-se ma hanno anche ridotto le interazioni scalari con i processi naturali. Ilfuori scala energetico sta determinando cambiamenti climatici con effettisugli ecosistemi che si manifestano con un preoccupante crescendo.A questo quadro di criticità ambientale deve essere associato il disagiosociale avvertito sia nei paesi più ricchi come in quelli più poveri: i primicondizionati da una “disumanizzazione” della società retta da regole basa-te sul profitto, i secondi incapaci di mantenere la struttura sociale conta-minati dagli stili di vita dei paesi ricchi. Il modello di “sviluppo” diventaglobale ma non è funzionale per nessuna componente dell’umanità perchénel frattempo viene perduto il contesto.L’ecologia come scienza non è stata certo a guardare, anzi ha cercato intutti i modi possibili di avvertire i decisori di sensibilizzare l’opinione pub-blica sui rischi di un uso eccessivo di energia ma il messaggio è andato ingran parte a vuoto per una molteplicità di motivi e cause che vanno ricer-cate sia nelle politiche nazionali che in quelle sovra nazionali. Non è nostrointendimento entrare in questo argomento ma ci serve come premessaindispensabile per poter descrivere il passaggio epistemologico che ha gui-dato l’ecologia dal concetto di ecosistema a quello di paesaggio.Il termine paesaggio è oggi a dir poco inflazionato, utilizzato per esprime-re il concetto legato alle belle arti è diventato concetto portante di quellaecologia che considera l’uomo non un soggetto estraneo all’ambiente maal contrario parte in causa.Se consideriamo l’uomo specie chiave negli ecosistemi che occupa, diven-ta palese che, come ogni altra specie di vita, anche l’uomo tenda a modi-ficare il proprio intorno e quindi a costruire la propria nicchia ecologica(vds. per esempio Odling-Smee et al. 2003).Da quando Ludwig von Bertalanffy pubblicò il suo discusso libro GeneralSystem Theory nel 1969 (von Bertalanffy 1969) nel quale introduce inno-vative idee circa il funzionamento dei sistemi e getta le basi per una scien-za che accomuni saperi spesso incapsulati in “universi privati”, l’idea siste-mica ed il concetto di complessità sono diventati baluardi di una ecologiasempre più allineata a cogliere la sfida dei tempi moderni (Levin 1999).Con l’emergere del paradigma della complessità e la sua spendibilità inambito biologico, il quadro epistemologico dell’ecologia moderna viene acompletarsi. Ritenuta questa una frontiera importante, viene rapidamenteaffiancata dalla nascente disciplina dell’ecologia del paesaggio nelmomento in cui lo studio dei sistemi e della complessità con cui interagi-scono viene esteso alla dimensione spaziale, cioè al contesto geografico.Nell’arco di un ventennio l’ecologia del paesaggio da disciplina diventa

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una quasi scienza (Farina 2005). Questo grazie al poderoso contributo dimolti ecologi, geografi, architetti, agronomi ed antropologi che hannocompreso la necessità di contestualizzare i fenomeni naturali e di conside-rare la dimensione spaziale cioè la loro forma.

Linee ispiratrici dell’ecologia attualeEsistono due tendenze nella ricerca ecologica attuale che potremmo rias-sumere in questo modo: una ricerca sempre più di dettaglio che porta all’e-cologia molecolare da un lato e che tanto contribuisce alla conoscenza deipercorsi chimici di molte sostanze che vengono considerate pericolose perl’ambiente e in primis per l’uomo.Un secondo filone porta direttamente verso lo studio dei macroprocessi,verso la comprensione dei fenomeni emergenti (vds. per esempio Morowitz2002). Fra i due approcci sembra esistere un grosso gap di informazione econoscenze solo in parte mitigato da tentativi di portare verso il versanteecologico le evidenze delle proprietà non lineari della materia e dei suoicomportamenti. In particolare, dopo un proliferare di ricerche e pubblica-zioni che hanno seguito la scoperta dei comportamenti caotici nella mate-ria (p.e. Kauffman 1993, Prigogine 1993) importanti tentativi sono statifatti per verificare la presenza di fenomeni caotici nei processi ecologici(p.e. Cushing et al. 2003).

I paesaggi dell’ecologia del paesaggioVerso la metà degli anni ‘80 abbiamo assistito allo sviluppo di nuove ideein ecologia basate sul riferimento geografico del paesaggio. Furono quellianni di intensa attività editoriale dove i fondamenti dell’ecologia del pae-saggio furono messi in chiaro e presentati in tutti i più importanti con-gressi di ecologia. Da Naveh (Naveh & Lieberman 1984) a Forman(Forman & Godron 1986), da Risser (Risser et al 1984) a Turner (Turner etal. 2001) il paesaggio fu descritto in gran parte come sistema spazialeesplicito dove i fenomeni ecologici dovevano fare i conti con attributiambientali prima negletti o poco considerati. Ci riferiamo a pattern comei margini ed alle loro caratteristiche (Wiens et al. 1985, Wiens 1992), allaeterogeneità ambientale ed a processi di disturbo come la frammentazio-ne (p.e. Pickett & White 1985).Nel 1987 Frank Golley fonda la rivista Landscape Ecology che diventa ilgiornale più importante per lo sviluppo concettuale e di verifica empiricadi questa disciplina.La nascente disciplina ben presto si articolò su due principali filoni: ilprimo portato avanti dalla scuola europea (p.e. Isaac Zonneveld, WolfgangHaber, Zev Naveh) e l’altro assai più consistente in termini di visibilità edi-toriale da quella americana (p.e. Paul G. Risser, Monica G. Turner, RobertH. O’Neill).La scuola europea vedeva il paesaggio come artefatto, come spazio gesti-bile dalle azioni dell’uomo, elemento ecologico integrato con i processi

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umani: per questo si veda il libro edito da Bastian & Steinhardt (2002).La scuola americana considera il paesaggio una sorta di meta-ecosistemadove certi processi emergono per l’associazione di elementi ecosistemici.Così un ecosistema lacustre inserito in un ecosistema forestale diventa unpaesaggio. Potremmo quindi dire che il paesaggio, secondo questa visio-ne, nasca proprio dalla contiguità di ecosistemi differenti.Da queste due differenti visioni ne scaturisce un quadro dell’ecologia delpaesaggio non certamente di facile interpretazione ma che nel primo casovede l’uomo con i suoi processi culturali elemento di spicco. Nel caso dellavisione americana del paesaggio, il paesaggio diventa il “range”, l’areagrande dalla quale emergono processi e pattern che non si vedrebbero sel’area di osservazione fosse ridotta. Ovviamente quest’ultima appare unavisione estremamente semplificata delle problematiche che ruotano attor-no al paesaggio. Ma è pur vero che anche quando vengono consideratiambienti urbani (americani), l’approccio resta quello dell’ecologia a gran-de scala, una ecologia tenuta distinta dai fenomeni culturali.Come ebbe a sottolineare Wolfgang Haber (2004), l’ecologia del paesag-gio dovrebbe servire da ponte tra l’ecologia ecosistemica e l’ecologiaumana e non meramente un ulteriore modo di studiare le dinamicheambientali ed i processi collegati (Allen & Hoekstra 1992, p. 54-88).Infatti sebbene si viva in piena emergenza ambientale legata al globalchange, alle conseguenze di spostamenti repentini di popolazioni nellearee più povere della terra e nel contempo alla sconvolgente emancipa-zione industriale ed energetica del continente asiatico, l’ecologia non haancora trovato i mezzi e le modalità di trasferire alla società tutte le cono-scenze che ha acquisito nel secolo appena trascorso.Per questo nella sezione che segue proveremo a presentare una “nuova”ecologia più adatta a recepire le istanze delle società umane. È questo unpunto cruciale che se non affrontato in maniera adeguata rischierà di por-tare questa scienza fuori dal contesto sociale isolandola culturalmente.

L’ecologia come meta-teoria: verso il paesaggio cognitivoProviamo ora a descrivere il paesaggio in maniera da poter considerare siagli aspetti ecosistemici che quelli organismici ed infine le regole che sonoalla base del funzionamento di questi domini.Possiamo quindi avanzare l’ipotesi che il paesaggio sia una entità formatada tre componenti:- una matrice ambientale (meta-ecosistema);- gli organismi (uomo compreso);- le regole.La matrice ambientale viene rappresentata in questo modello da quellaparte di terra che è posta come interfaccia tra il sottosuolo e la biosfera.È quindi costituita da suolo e dalla vegetazione che vi cresce sopra. Questamatrice risponde in varia misura ai processi ecosistemici ed è profonda-mente influenzata da costrittori climatici e biologici. Usando il termine

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matrice si vuole intendere una entità complessa che possiede una struttu-ra verticale (ecosistemica sensu stricto) ma anche orizzontale, cioè spazia-le esplicita e tale da determinare aggregazioni meta-ecosistemiche.Gli organismi (siano essi piante o animali) occupano questa matrice, la uti-lizzano ed al tempo stesso la modificano. La matrice determina la distri-buzione degli organismi ed una sua modificazione produce effetti consi-derevoli su abbondanza e tipologie di diversità di popolazioni e comunità.Per regole si intendono tutti quei meccanismi che stabiliscono i rapportiall’interno della matrice e tra la matrice e gli organismi. Le regole nei pae-saggi dominati dall’uomo possono essere rappresentate sia da convenzio-ni economiche che da convenzioni culturali.Le interazioni tra matrice, organismi e regole determina il paesaggio nelsenso più completo del termine, ma vedremo tra breve che possono esi-stere altre tipologie concettuali di paesaggio.Quando la matrice ambientale viene modificata dall’uomo per esempioattraverso la semplificazione della struttura dei campi coltivati, la matriceassume aspetti che non riescono più ad interagire con gli organismi.Questo può portare alla scomparsa degli organismi senza che apparente-mente esistano cambiamenti di habitat così come siamo abituati a defini-re su basi geo-botaniche o climatiche. Infatti spesso viene trascurato chele dinamiche di popolazione interagiscono non con l’habitat della speciebensì con la matrice ambientale. In altre parole forma e dimensioni deglihabitat e loro rapporti all’interno della matrice sono elementi che condi-zionano la presenza di una specie espressa attraverso la numerosità dellesue popolazioni, geograficamente distinte.Parimenti quando su di una matrice ambientale vengono ad inserirsi spe-cie nuove per quella conformazione, queste specie possono non interagirecon la matrice e determinare o la loro estinzione oppure un profondo cam-biamento della matrice stessa. Pensiamo alla sostituzione delle pecore coni cavalli sulle montagne appenniniche. Le pecore sono animali di dimen-sioni medie mentre i cavalli hanno una biomassa almeno 5 volte maggio-re di quella delle pecore. Ugualmente accade con la diffusione del cin-ghiale, specie che è in grado di cercare il cibo anche scavando e quindimodificando profondamente il contesto in cui vive.

Il paesaggio cognitivo e gli strumenti eco-semioticiIntendiamo per paesaggio cognitivo il risultato della percezione che unorganismo ha con l’intorno fisico. In ecologia il termine “cognitivo” non èmolto popolare e resta ancora oggetto di discussione (e.g. Real 1993,Bennett 1996, Allen & Bekoff 1997, Dukas 1998, Shettleworth, S.J. 2001)ma non vi è dubbio che la cognizione rappresenti il meccanismo più evo-luto con cui gli organismi si rapportano con l’ambiente. Per esempio imodelli casuali risultano inadeguati per descrivere le strategie impiegatedagli organismi per intercettare le risorse che sono distribuite con discon-tinuità spazio temporale (Gautestad & Mysterud 2005). L’ipotesi che la

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maggior parte degli organismi abbia capacità di “paesare” e quindi facciauso di complessi meccanismi di apprendimento-memoria-creatività èragionevole ed è stata verificata in diversi gruppi di animali (e.g.Benhamou & Poucet 1996, Edwards et al. 1996, Beecham 2001).Il paesaggio quindi diventa un oggetto della percezione e non una entitàfisica con caratteristiche fisico-chimico-biologiche specie-invarianti. Tantoper intenderci il paesaggio non può essere inteso come un meta-ecosiste-ma se si utilizza il paradigma della cognizione, ma diventa il risultato diprocessi percettivi ed a sua volta strumento di meccanismi semiotici comespiegheremo fra breve.Per parlare di paesaggio cognitivo dobbiamo necessariamente introdurrealcuni principi teorici a sostegno di questo (Farina et al, 2005) tra cui ilconcetto di eco-field, termine coniato da Farina (Farina & Belgrano 2004,2006). L’eco-field è definito come una configurazione spaziale portatricedi significato. Con questa ipotesi si assume che ad ogni funzione che unorganismo svolge, venga associata una percezione differente dell’intorno.In questo modo esisteranno tanti eco-field quante sono le funzioni e lasomma di tutti gli eco-field di un organismo diventano il “suo” paesaggio.Ovviamente questa non è tutta la storia e come sempre quando si analiz-za un fenomeno complesso le comprensioni delle parti non sono sufficientise non se ne comprendono le interazioni.Ogni funzione, una volta attivata, richiama un template cognitivo la cuicomparazione con la realtà percepita consentirà all’organismo di saperecon quale grado di probabilità e quindi di efficacia può avere accesso allarisorsa richiesta per quella determinata funzione. In questo modo il soddi-sfacimento di ogni singola funzione diventerà il “misuratore” della qualitàambientale in cui un organismo opera ed al tempo stesso assumerà il ruolodi costrittore ambientale. A seconda del livello di “performance” di ciascu-na attività funzionale, i costrittori ambientali producono differenziazionisomatiche all’interno di una popolazione.Il modello dell’eco-field è molto vicino al concetto di Umwelt presentatooltre un secolo fa dal proto-etologo e semiota von Uexkull (v. Uexkull1940 (1982)) ma fornisce molti più dettagli circa i meccanismi attuatividella percezione dell’intorno soggettivo.Le differenze comportamentali (p.e. dialetti) e di tratti morfologici (lun-ghezza tarso, colorazione pelle) sono la conseguenza del successo nel rag-giungere le risorse (tramite meccanismi cognitivi).Va inoltre detto che la configurazione spaziale portatrice di significatodiventa parte integrante di un meccanismo semiotico che vede la stessaconfigurazione come segno espresso per un determinato oggetto (risorsa).Questo passaggio è fondamentale per comprendere come si sviluppa l’i-potesi dell’eco-field e le sue profonde implicazioni evolutive. La semioticaintesa come teoria del segno (e.g. Peirce 1955, Eco 1975) entra quindi apieno titolo nell’ecologia cognitiva sebbene solo di recente questa disci-plina abbia richiamato l’interesse di biologi ed ecologi (Nöth 1998, Kull

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1998, Barbieri 2003, Hoffmeyer 2005, Nöth 2005, Favareau 2006).A questo punto dobbiamo considerare nuovamente la risorsa come puntoessenziale del nostro ragionamento. Intesa come un oggetto necessario alcompletamento di una funzione, può essere considerata sia un bene mate-riale (cibo, acqua) sia un bene psicologico (per es. amicizia) e spirituale(per es. senso dei luoghi). Potremmo chiamare “teoria delle risorse” unateoria che veda ogni funzione organismica tesa al raggiungimento di unaspecifica risorsa.L’universalità di questo ragionamento lo rende per converso banale ma altempo stesso apre la strada ad un migliore collegamento tra l’ecologia edi processi sociali (dell’uomo) che come vedremo nella prossima sezionediventa la nostra novità epistemologica rispetto ai principi ecologici che altempo di Man’s Role erano su ben altra sponda immersi in una “hard eco-logy” poco disposta a confrontarsi con l’universalità dei fenomeni legatialla sfera umana (p.e. Ehrlich 2002).Le risorse sono criptiche, molte evitano la predazione, altre richiedono unnotevole dispendio energetico per poter essere utilizzate. Per questo mecca-nismi semiotici che consentono la loro intercettazione con il minor dispen-dio energetico sono stati nel corso dell’evoluzione perfezionati a tal puntoche oggi la dimensione biologica della comunicazione (verbale, olfattiva,visiva, acustica, linguistica) appare il primo meccanismo relazionale.Tornando ai meccanismi con i quali le risorse possono essere intercettate,il paesaggio (cognitivo) assume il ruolo di interfaccia tra queste e gli orga-nismi. Il paesaggio cognitivo è quindi un processo di percezione di segna-li che provengono dall’intorno (il meta-ecosistema dell’hard ecology) e chevengono decodificati attraverso un meccanismo semiotico. L’approcciocognitivo non è negazionista del paesaggio “meta-ecosistemico” ma unmodo alternativo di affrontare il tema della complessità ecologica in cuitutti i pattern e processi, comunque osservabili, sono inseriti. Il vero con-testo non è quello geografico ma quello della complessità cioè di una pro-prietà dell’organizzazione dei sistemi che assicura tra l’altro la continuitàbiologica grazie alla resilienza fenomenologica ed alla diversità di mecca-nismi in atto (p.e. Merry 1995, Cilliers 1998, Bradbury et al. 2000).

Una nuova frontiera dell’ecologiaAbbiamo ormai tutti gli strumenti per affrontare i nuovi paradigmi cogni-tivi legati all’ecologia e non solo all’ecologia del paesaggio. Assumendoche ogni organismo ha come obiettivo l’accesso alle risorse che è il solomodo di ridurre la “differenza di potenziale”, usando una metafora fisica,che viene a generarsi tra bisogni (fisici e/o cognitivi) e loro soddisfaci-mento (fisico, psicologico, spirituale) e che questo accesso avviene attra-verso un processo di decodificazione semiotica, il quadro conoscitivo chene risulta diventa veramente assai più intelligibile.L’ecologia quindi può essere vista come una scienza superiore in grado dirapportarsi con tutte le altre scienze fisico-naturali e con quelle sociali ed

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economiche. Che l’ecologia abbia queste enormi potenzialità è stato benevidenziato da Paul Ehrlich (2002) quando parla di evoluzione culturale(extragenic information) come motore dei rapporti tra umanità edambiente. È recente questa nuova visione dell’ecologia ma questa idea sista rapidamente diffondendo e crediamo valga la pena di considerarla congrande attenzione anche se in prima battuta come ha ammesso lo stessoEhrlich l’ecologo deve abbandonare posizioni troppo rigide.Se da un lato l’ecologia celebra l’ecologia metabolica (metabolic ecology)dedicando ampio spazio allo studio dei rapporti allometrici che legano gliesseri viventi agli ecosistemi (Enquist et al. 1998, Brown et al. 2004,Marquet et al. 2004, Tilman et al. 2004, Cottingham & Zens 2004), dal-l’altro si fa strada una ecologia basata sulla cognizione e sulla dimensio-ne sociale dove l’uomo è visto come “key species” e come maggiore modi-ficatore degli ecosistemi.

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L’Ecologia del Paesaggio (Landscape Ecology) ha aggiunto un nuovo livel-lo nella gerarchia dei sistemi noti in ecologia. La definizione del paesag-gio come nuova unità funzionale, ha consentito di ampliare la scala d’in-dagine, strutturando nuovi paradigmi di riferimento e facendo emergerefattori e processi evidenziabili solo a questo livello.L’ecologia spaziale si è sviluppata enormemente negli ultimi decenni e larilettura degli argomenti secondo questo approccio ha consentito l’avan-zamento di altri settori disciplinari. Per esempio nella ecologia di popola-zioni la teoria della metapopolazione nasce proprio dall’integrazione dellacomponente spaziale con la definizione classica che vede “un gruppo diindividui interfecondi” occupare un ambito spaziale, apparentemente con-siderato come sistema chiuso.Per una determinata scala di riferimento, un ecomosaico è caratterizzato dasub-unità collocate in un definito ambito territoriale. Queste sub-unità, defi-nite patches, sono in genere disperse all’interno di una ‘matrice’ ambienta-le con caratteristiche ecologiche molto diverse. L’analisi di un ecomosaicopermette di evidenziare il grado di frammentazione di origine antropica el’eterogeneità naturale (patchiness). A determinati gradi di frammentazio-ne e livelli di eterogeneità sono strettamente collegati processi e funzioniche determinano, a cascata, le relazioni fra le componenti ecosistemiche(individui, popolazioni, comunità, flussi di energia e materia, etc.).La patchiness naturale è la risultante dell’effetto sulla diversità biologicae i flussi biogeochimici di gradienti ambientali distribuiti, nel tempo enello spazio, ad una determinata scala d’indagine; la frammentazione èinvece il risultato dei processi antropici sulla distribuzione e collocazionespaziale di risorse e sui tipi e caratteristiche degli ambienti.Esistono numerose definizioni di questo processo (Andrén, 1994;Spellerberg & Sawyer, 1999; Bennett, 1999; Villard et al., 1999; Debinski& Holt, 2000; Farina, 2001). Ciò, oltre a sottolineare l’interesse scientificoper questo settore, ne evidenzia anche la complessità. Secondo alcuniautori la frammentazione può essere definita come un’alterazione dei pat-tern spaziali di paesaggio. In questa definizione viene evidenziato l’aspet-to legato alla configurazione spaziale (pattern) degli elementi costituentiil mosaico ambientale. La frammentazione ambientale viene anche defini-ta come un “processo dinamico di origine antropica attraverso il qualeun’area naturale subisce una suddivisione in frammenti progressivamente

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DAL CONCETTO DI DISTRUZIONE A QUELLO DI FRAMMENTAZIONE

Corrado Battisti e Carlo Scoccianti

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più piccoli, isolati e di minor qualità”. Questa accezione focalizza invecel’attenzione sui singoli elementi del mosaico (patches) e sulle loro trasfor-mazioni in seguito al processo.La multiscalarità (scala di frammento, scala del paesaggio) è uno degliaspetti caratterizzanti nello studio di questo processo e la distinzione trapatchiness naturale e frammentazione antropogenica riveste un grandeinteresse per le implicazioni in termini di conservazione della biodiversità.Il processo scientifico si avvale di approcci, di volta in volta, analitici e sin-tetici. Un approccio analitico allo studio del processo di frammentazioneprevede una disamina delle singole componenti del processo.Generalmente molti Autori (cfr. le revisioni in Fahrig, 1997) sono concordinel definirne quattro:- distruzione di habitat;- riduzione in superficie dei frammenti residui;- incremento del loro grado di isolamento;- riduzione in qualità degli stessi.Più recentemente però Fahrig (2003) sottolinea la necessità di considerarein modo separato il processo di frammentazione da quello di distruzione.Infatti quest’ultimo è un processo a sè (“Habitat loss should be called habi-tat loss”) e ha importanti effetti sulla diversità biologica indipendentemen-te da quelli derivanti dalla frammentazione degli habitat. L’Autore proponeinvece che quest’ultimo processo debba indicare specificatamente gli effet-ti derivanti dal cambiamento di configurazione, di rapporto e di qualità deiframmenti di habitat, indipendentemente dalla scomparsa dello stesso.La frammentazione è comunque un processo a scala di paesaggio, cioè disistema complesso. Il suo studio dovrà pertanto prevedere oltre a un’ana-lisi degli effetti strutturali presi singolarmente (e in gran parte rilevabili ascala di patch) anche una sintesi degli effetti complessi, e a volte molti-plicativi, rispetto alle componenti ambientali. Tali effetti sono determinatidalle relazioni tra queste ultime (individui, specie, comunità) e le variabilispaziali alle diverse scale di frammento e di paesaggio.Per fare un esempio il numero di specie presenti in un frammento foresta-le, inserito in una matrice trasformata dall’uomo (ad esempio aree a con-duzione agricola), può essere influenzato dalla superficie della patch resi-duale, dal suo grado di isolamento, dalla sua forma e dalla intrusione difattori negativi dalla matrice ambientale circostante. Sono tutte variabiliche possono essere ricavate attraverso un’analisi a scala di frammento(area, forma, isolamento dal più vicino frammento residuo, etc.). Variabilia scala di paesaggio possono essere, per esempio, la superficie forestalecomplessivamente presente nel mosaico, la media delle distanze fra tuttele patches forestali residue, l’estensione totale dei margini (ecotoni fram-mento-matrice). Molti lavori, avvalendosi di approcci di statistica multiva-riata sono risaliti al predittore principale alle due scale (frammento ematrice). Esiste tuttavia un generale accordo sul fatto che, il più delle voltee per gran parte dei gruppi biologici, la superficie di habitat disponibile a

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scala di paesaggio sia la variabile indipendente di larga misura più impor-tante nel predire alcuni parametri di popolazione e comunità (per esempionumero di specie, abbondanza di individui, indici di diversità). Frank &Battisti (2005), in un recente studio finalizzato a valutare gli effetti del-l’area su comunità di specie di uccelli nidificanti in un arcipelago foresta-le frammentato (litorale sud di Roma, Anzio-Nettuno), hanno sottolineatoun effetto isolamento sull’intero sistema che assumeva, per il gruppo fau-nistico indagato, le caratteristiche di un vero arcipelago (il coefficienteangolare della retta specie/area si collocava in un range caratteristicodelle isole ecologiche).Analoghi risultati sono stati ottenuti per un altro sistema forestale fram-mentato collocato in settore compreso tra l’area appenninica e l’areametropolitana di Roma (Lorenzetti & Battisti, 2006). Al di là della relazio-ne specie/area, che pur evidenzia un effetto di isolamento indotto dallaframmentazione su sistemi forestali terrestri, un dato allarmante derivadall’analisi condotta su singoli gruppi di specie caratterizzati ecologica-mente (o guild, cfr. Verner, 1984). In realtà con la riduzione progressivadella superficie dei frammenti residui si assiste ad una riduzione propor-zionalmente differente tra specie sensibili (specialiste o stenoecie) e spe-cie generaliste/antropofile, favorite dalla frammentazione: le prime sonoquelle che subiscono un declino più rapido con il diminuire della superfi-cie dell’habitat a disposizione.In Ecologia della Conservazione con il concetto di frammentazione si è ini-ziato a dare molta enfasi anche al concetto di connectivity, cioè al gradodi connessione fra i frammenti di habitat residui o, per definirlo in altri ter-mini, il grado con il quale il sistema ambientale (landscape) facilita oimpedisce i movimenti delle specie fra le patches (Taylor et al., 1993).Fare conservazione in modo scientificamente corretto significa oggi man-tenere sistemi di habitat caratterizzati da un buono stato di conservazionee da un’ampia capacità di ‘scambio’ (Scoccianti, 2001a). Questo è possibi-le soltanto se si pianificano azioni in un’ottica vasta (cioè riferibile al ter-ritorio nel suo complesso) e se si agisce contemporaneamente su differen-ti livelli, dalla scala più bassa (azioni puntuali) a quella più ampia (azionisul sistema). Da un lato si deve quindi tentare di arginare il fenomenodella frammentazione in sè dall’altro si deve agire per migliorare le carat-teristiche (fra cui anche l’estensione) delle patches e per mitigare i fattoriche interagiscono negativamente sulla capacità di interscambio del siste-ma (connectivity).Il fatto che la connectivity stia divenendo uno dei concetti base per la cor-retta pianificazione/gestione del territorio è senza dubbio una importan-tissima conquista. Prima di ragionare in termini di funzionalità dei sistemiinterposti è comunque sempre importante considerare quale irrinunciabi-le punto di partenza l’individuazione e la conservazione dei frammenti dihabitat (patches). Il rischio infatti, come suggerisce Fahrig (1997), è che intaluni ambiti si tenti poi solo di ‘rincorrere’ una presunta connectivity a

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1 Jared Diamond è l’autore direcenti pubblicazioni (Armi,acciaio e malattie, Einaudi,1997; Collasso, BollatiBoringhieri, 2005), che ripren-dono molti dei temi affrontatida “Man’s role”.2 In questo lavoro, i frammentivengono fatti coincidere connature reserves. Tale abbina-mento non è formalmente cor-retto trattandosi di ‘oggetti ter-ritoriali’ fra loro differenti comeorigine (istituti di tutela versusaree naturali). Nella letteraturascientifica aglosassone tuttaviaesso viene molto spesso ripro-posto.

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fronte di poter però ridurre o cancellare gli ultimi habitat (patches). Tuttoquesto può avvenire non tanto a seguito di un’errata interpretazione dei‘nuovi’ concetti quanto per una precisa scelta di tipo politico che con l’ali-bi di tutelare esili fasce di territorio in realtà sceglie di non opporsi alladistruzione del territorio. Questo pericolo è comunque riscontrabile perfi-no nella pianificazione ordinaria delle aree protette, dove nelle fasi di sele-zione degli ambiti da proteggere accade talvolta di veder nascere unimproprio ‘meccanismo di compensazione’ che curiosamente prevede ilsacrificio di altri ambiti territoriali (Contoli, 2001).

‘Distruzione’ dell’habitat già intesa come ‘frammentazione’ in“Man’s role”Il testo curato da William L. Thomas Jr. (“Man’s role in changing the faceof the Earth”) contiene un’enorme mole di informazioni proposte da unnumero elevato di professionalità differenti che, grazie alla diversa ango-lazione e modalità di interpretazione dei processi, arricchiscono il lavoro dicontenuti e di chiavi di lettura differenti. L’epoca di stesura di quest’operacollegiale si colloca in un periodo precedente alla formalizzazione concet-tuale dell’Ecologia del Paesaggio che avviene all’incirca a metà degli anni‘80 con l’opera di Forman e Godron (1986). In realtà la strutturazionedisciplinare affonda le sue radici nei decenni precedenti e in particolarel’analisi della frammentazione ambientale come processo a sé e delle sueconseguenze sui sistemi ecologici può essere fatta risalire, almeno per lecomponenti area e isolamento, agli anni sessanta del secolo scorso (siveda Farina, 2001, per una sintesi storica).L’area, intesa come componente spaziale quantitativa, veniva comunqueindicata già da Arrhenius nel 1921 e molti anni dopo da Preston (1962)come il determinante principale del numero di specie in un ambito terri-toriale (per un’analisi storica della relazione area-specie cfr. Margules &Usher, 1981). Negli anni ‘60 la Teoria della Biogeografia Insulare (Theoryof Insular Biogeography, TIB; MacArthur & Wilson, 1963 e 1967) aggiun-se il concetto di ‘isolamento’ come variabile in grado di determinare ilnumero di specie su isole oceaniche. Più specificatamente la superficie diqueste ultime e la distanza che le separava dalla terraferma, influenzandodue processi determinanti (estinzione nel primo caso, immigrazione nelsecondo), potevano ritenersi i predittori principali del numero di specie suun’isola. Con Diamond nel 19751 fu possibile trasferire il concetto dellaTIB sulla terraferma e quindi ai frammenti residui di habitat (‘arcipelaghi’)inseriti in un ‘mare’ costituito dalla matrice antropizzata.2

Il quadro riportato da “Man’s role” assume un rilevante interesse nell’evo-luzione disciplinare afferente a questo settore una volta contestualizzatostoricamente rispetto alle date sopra riportate. In molti contributi, conanni di anticipo rispetto alla formalizzazione della disciplina, si fa esplici-to riferimento al termine landscape come entità riconoscibile, monitorabi-le nel tempo e soggetta a forti disturbi indotti dall’uomo.

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E. A. Gutkind (Our world from the air: Conflict and Adaptation: 1-44)parla, nella parte introduttiva, di paesaggio come nuova unità funzionale.Il suo capitolo enfatizza il cambiamento di percezione dell’Uomo moder-no, reso possibile grazie alla disponibilità di compiere voli aerei periodici equindi di osservare dall’alto il territorio e i cambiamenti da esso indotti. Lapossibilità di disporre di immagini aerofotogrammetriche del territoriosuggerisce la necessità di sintetizzare informazioni e di analizzare unnuovo oggetto di riferimento fornito dal mosaico di paesaggio. Secondoquesto autore, la periodicità dei voli consente un monitoraggio continuodei cambiamenti indotti dall’uomo. Questo ha, quasi in modo naturale, sti-molato la necessità di indagare questa nuova unità di riferimento. Altempo stesso, l’osservazione dall’alto ha avviato una ricerca su quegliaspetti non visibili all’osservazione da terra: tutto ciò accompagnato dallanascita e dallo sviluppo di discipline ambientali e territoriali sempre piùcomplesse. L’autore giudica rivoluzionario tale salto percettivo e lo collocatra i momenti storici più rilevanti per la nostra specie: (pag. 1) “Today wecan look at the world with a God’s eye view, take in at a glance the infini-te variety of environmental patterns spread over the earth, and appreciatetheir dynamic relationship” (“Oggi abbiamo la possibilità di guardare ilmondo con gli occhi di Dio e raccogliere in un solo sguardo modelli e con-figurazioni ambientali diffuse ampiamente sulla Terra, apprezzandone leloro relazioni dinamiche; (pag. 2) “We are at one of decisive turning pointsin the history of humanity comparable to the domestication of animals, theinvention of earliest tools,(…)., and the conception of the heliocentric uni-verse” (“Siamo in un momento storico decisivo per la storia dell’umanità,comparabile all’addomesticamento degli animali, all’invenzione dei primistrumenti ,…, alla definizione del concetto di universo eliocentrico”).E.A.Gutkind così riporta (pag. 2): “If we want to find out the optimumstructure of an individual human work and its optimum relation to otherworks, we must investigate not merely the conditions of the immediateenvironment in which the work actually takes place but also its relationsand reactions to the world at large” (“Se vogliamo scoprire la struttura eorganizzazione spaziale del lavoro e la relazione delle opere umane, noidobbiamo indagare non solamente le condizioni fisiche e ambientali deisiti che l’uomo occupa ma anche le relazioni e le risposte territoriali ad unascala più ampia”). Con ciò suggerendo la necessità di cambiare la scala dianalisi (da puntuale a ‘vasta’, di paesaggio) per la valutazione dell’impat-to dei disturbi antropogenici.La sintesi storica di F. M. Heichelheim (Effects of Classical Antiquity on theLand: 165-182) riporta una descrizione della distruzione in tempi classicidelle foreste nel Mediterraneo riferendosi al concetto di paesaggio (pag.166) “Some forests were transformed into more open park landscapes foraesthetic reasons” (“Alcune aree forestali erano trasformate in paesaggicomprendenti zone aperte, per ragioni estetiche”). AnalogamenteH.C.Darby (The Clearing of the Woodland in Europe: 183-216) parla di

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(pag. 191) “effects of Anglo-Saxon and Scandinavian pioneering upon thelandscape of England (…) ”(“effetti dei popoli anglosassoni e scandinavisul paesaggio inglese”).Secondo C. D. Harris, l’urbanizzazione innesca marcati cambiamenti ascala di paesaggio, non comparabili a quelli provocati da altre tipologie diuso/copertura del suolo (The Pressure of Residential-Industrial Land Use:881-895, (pag. 885) “Cities transform the landscape more drastically thanother types of land use, (…)”(“Le aree urbane trasformano il paesaggio inmodo più marcato rispetto ad altre tipologie di uso/copertura del suolo”).Le economie legate a processi di urbanizzazione portano ad effetti deva-stanti nei paesaggi rurali (A. Glikson Recreational Land Use: 896-914(pag. 896): ”This expansion of urban political and economic power into thecountryside and urban methods of production and commerce led first to agrowing economic utilization of rural resource and later to a gradual dete-rioration of the rural and indigenous landscape by deforestation, mechani-zation of agriculture, parcellation,(…)”(“L’aumento dell’influenza urbana, ditipo economico e politico, nelle aree agricole e i nuovi metodi di produ-zione e commercio hanno, dapprima, portato aduna crescente utilizzazio-ne economica delle risorse rurali e, più tardi, ad un graduale deteriora-mento dei paesaggi non urbanizzati attraverso la deforestazione, la mec-canizzazione dell’agricoltura, la frammentazione”).La distruzione di alcuni macroscopici sistemi ambientali (fasce costiere,foreste temperate e tropicali, praterie) è un argomento ampiamenteaffrontato nel testo curato da Thomas Jr. dove si sottolinea la vastità delfenomeno, avviato fin dal Neolitico e poi nell’età classica con impatti dif-ferenti in funzione dei contesti geografici, dei periodi storici e di altrevariabili (clima, tipi di ecosistemi sottoposti a impatto; cfr. Glacken“Changing Ideas of the Habitable World”).3

Dalla lettura dei contributi il paesaggio emerge come un’unità funzionaledi riferimento per l’analisi di queste trasformazioni, anche se è forse possi-bile parlare più di Geografia Ecologica che non di Ecologia del Paesaggio.Vari Autori indicano già chiaramente i sistemi ambientali maggiormentesoggetti alle trasformazioni indotte dall’uomo. Per esempio Davis(“Influences of Man upon Coast Lines”) parla estesamente delle coste einoltre fa anche specifico riferimento agli impatti derivanti da modificheambientali che avvengono a grande distanza dal luogo oggetto d’indagi-ne citando il caso dell’erosione e indicandone come cause la costruzionedi dighe sui fiumi, la deforestazione, le bonifiche, l’urbanizzazione, etc.Più in generale moltissimi contributi parlano di bonifica delle zoneumide, di trasformazioni negli agroecosistemi, di sovrasfruttamento delleriserve idriche (come all’opposto di irrigazione in aree desertiche), disovrapascolo, di deforestazione (vedi oltre), di inquinamento, etc., pren-dendo in considerazione vari ambiti geografici ove queste trasformazionihanno avuto effetti evidentissimi e spesso devastanti. Emerge chiara-mente già in gran parte di questi contributi anche la necessità di lavora-

3 Si veda anche il contributo diFritz M. Heichelheim “Effects ofClassical Antiquity on the Land”

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re a politiche di conservazione4, argomento che ormai oggi può esseredefinito di dominio pubblico, almeno nel Mondo occidentale, anche se aciò non sembra corrispondere ancora una reazione concreta e una volon-tà politica seria per invertire la tendenza.Il vasto fenomeno legato al termine ‘urbanizzazione’ viene trattato danumerosi Autori sotto molti aspetti, dalle modifiche ambientali gravissimeprovocate sul territorio ai cambiamenti sul tipo e sulla qualità della vitadelle popolazioni umane.In particolare Mumford, in “The Natural History of Urbanization” descri-ve il fenomeno e sia Ullman, in “The Role of Transportation and the Basesfor Interaction”, sia Harris in “The Pressure of Residential-Industrial LandUse” parlano del problema ponendo l’accento sul ruolo che i nuovi mezzidi trasporto hanno avuto nel permettere e, allo stesso tempo, nel deter-minare l’allargamento improvviso e sregolato delle città a discapito dellezone agricole circostanti. I risultati di questo cambiamento socio-econo-mico-culturale di vastissima portata le cui radici (e ripercussioni) eranogià allora chiaramente visibili in molti diversi ambiti territoriali portanoHarris a sottolineare anche come gli esseri umani una volta inurbati ten-dano a perdere completamente il contatto con la natura e il senso di affi-nità con essa, mentre fino ad allora questo rapporto si manteneva ‘natu-ralmente’ proprio perchè la vita della maggior parte della popolazione sisvolgeva nelle campagne5.Molto interessante a questo proposito è anche il contributo di Glikson(“Recreational Land Use”). Attraverso questa attenta disanima dei ‘nuovibisogni’ di spazi per ricrearsi (“recreation as biological need, an ingredientof the rhythm of life”, pag. 896), cioè di aree dove ricostituirsi per allen-tare lo stress e la pressione determinata dal vivere nelle nuove realtà arti-ficiali cittadine dai ritmi innaturali, l’Autore prende in considerazione lanecessità dell’uomo moderno di ricostruire un rapporto con il paesaggio econ gli ecosistemi e ne esamina gli aspetti positivi e quelli negativi, comead esempio la pressione turistica sugli habitat. Di particolare importanza,per i risvolti sempre molto attuali dell’argomento, sono anche le conside-razioni dell’Autore sul doppio significato che il termine ‘ricreazione’ neiriguardi dell’uomo e del suo bisogno di nuovi spazi ove ‘ricrearsi’ e nei con-fronti dell’habitat che, specie nei dintorni delle zone densamente abitate,necessita fortemente di essere ricreato (ripristinato secondo precisi criteridi ricostruzione del paesaggio originale).Tornando al testo di Thomas, i contributi sulla distruzione delle foreste edelle praterie nel Nord America e in Europa (Curtis, Darby, Glacken,Graham) sono particolarmente illuminanti per le modificazioni indotte dal-l’uomo nell’arco di due millenni6.Attraverso il fuoco e il taglio, i sistemi forestali hanno subìto trasforma-zioni progressive che hanno portato al cambiamento fisico e climatico diintere aree geografiche. In particolare Sears (“The Processes ofEnvironmental Change by Man”) riporta che, fatta eccezione per le riserve

4 In tal senso molti sono i riferi-menti al lavoro di George P.Marsh (“Man and Nature”) del1864 (cfr., ad esempio,H.C.Darby, “The Clearing of theWoodland in Europe” (pag.183): “The woods, their destruc-tion and its consequences andthe need for a policy of conser-vation, was one of the mainthemes of George P. Marsh (…)”(“La distruzione delle foreste, lesue conseguenze e la necessitàdi una politica di conservazionecostituivano i temi principaliaffrontati da George P. Marsh”).5 (pag. 890) “The rational,interdipendent, market eco-nomy which underlies Westerneconomic developement standsin contrast to the tradition-bound subsistence peasant wayof life. To a certain extent manloses contact with nature; hissense of close affinity with theearth as his home is numbed.He becomes social-consciousinstead of nature-conscious”(“L’economia di mercato, razio-nale e indipendente, che è allabase dello sviluppo economicooccidentale contrasta con l’eco-nomia tradizionale contadina, allimite della sussistenza”).6 Si vedano i contributi diClarence J. Glacken (“ChangingIdeas of the Habitable World”:70-92); H.C.Darby (“TheClearing of the Woodland inEurope”: 183-216); Edward H.Graham (“The Re-creative Powerof Plant Communities”: 677-691); J. T. Curtis (“TheModification of Mid-latitudeGrasslands and Forests byMan”: 721-736). .

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di caccia, le foreste originarie dell’Europa occidentale erano già stateampiamente distrutte nel Medio Evo (materiale da costruzione, legna daardere, etc.) e che il processo di distruzione sia poi proseguito senza inter-ruzione nei secoli. Dati aggiornati su questo argomento indicano che iframmenti forestali con caratteristiche di forte naturalità sono ormai pre-senti soltanto nell’Europa Centro Orientale e nella Penisola Scandinava eche la loro estensione non eccede il 2% dell’attuale copertura forestaleeuropea (WWF, 1994; Wolynski, 1999).I processi collegati ai cicli dell’acqua, di erosione-sedimentazione e di suc-cessione vegetazionale sono stati alterati da deforestazione, pascolo, agri-coltura e incendi con modalità differenti in relazione ai contesti geografi-ci e alla cultura della locale popolazione umana (Graham). Darby a pro-posito delle foreste mediterranee parla di taglio delle piante, sovrapasco-lo (con modalità complesse, si pensi alla transumanza), incendi (facilitatidal periodo di subardidità e aridità estiva che caratterizzano il clima diquest’area) e indica la strutturazione del paesaggio come frutto di tali ripe-tute trasformazioni e la macchia mediterranea come una testimonianzaestremamente impoverita delle antiche foreste. L’analisi di questi fenome-ni resta ancora oggi particolarmente valida e vari Autori hanno continua-to ad approfondire questi temi negli anni sia a livello di analisi storica(Piussi, 1991) e storico-geografica (Scossiroli, 1991), sia di studio delle

Fig. 1 Cambiamenti in un'areaboscata di Cadiz Township,Green County, Wisconsin,durante il periodo dell'insedia-mento europeo. Il territorio èbagnato dal Pecatonica River.Le aree più scure rappresentanoil territorio che è rimasto o staritornando allo stato boschivonegli anni 1882, 1902 e 1950.

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Fig. 2 Foresta nell'area intornoa Hofgeismar nell'Upper WeserBasin

Tab. 1 Cambiamenti nell'areaboscata di Cadiz Township,Green County, Wisconsin, dal1831 al 1950

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comunità relegate nei frammenti (Farina, 1995; Lorenzetti & Battisti2006). Anche la gestione del patrimonio forestale mediante il taglio puòessere causa estremamente grave di frammentazione dell’habitat. Le com-plesse relazioni fra questo tipo di operazioni, gli impatti generati sullecaratteristiche degli habitat residui e le alterazioni sulle popolazioni sonostate discusse in dettaglio da Scoccianti (2001a).

Fig. 3 Europa centrale: forestac. 900Fig. 4 Europa centrale: forestaca. 1900

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In generale si può dire che in Man’s role in changing the face of the Earthil concetto di ‘frammentazione ambientale’ appare già in modo evidentein alcuni contributi, per quanto generalmente si continui a indicare il pro-cesso sotto il termine generico di ‘distruzione’. Estremamente chiare a que-sto proposito sono le immagini riguardanti i drastici cambiamenti interve-nuti sui sistemi forestali e di prateria in diverse aree geografiche. In parti-colare Glikson parla già di “parcellation” del paesaggio e Curtis (“TheModification of Mid-latitude Grasslands and Forests by Man”) introduceper la prima volta una terminologia (fragmented woodlots, contiguity,matrix, dissection of the landscape) e una serie di misure abbinate a para-metri quali: area dei frammenti, superficie totale di foreste a scala di pae-saggio, “periphery”. Con questo ultimo termine, che accenna al perimetrodei frammenti, l’Autore introduce la problematica relativa all’ecotonoframmento-matrice. Curtis quindi è forse il primo che accenna alla fram-mentazione come processo a sé (ma vedi anche Brown & Curtis, 1952,citato nel lavoro in oggetto). In un’approfondita disamina delle trasforma-zioni avvenute nel Michigan e nel Wisconsin durante l’arco di circa unsecolo l’Autore quantifica in 90% la superficie di foreste scomparse rispet-to all’attuale e parla delle caratteristiche della matrice che si è sostituitaad esse, sottolineando la riduzione della qualità dei frammenti forestaliresidui, l’alterazione dei parametri fisico-climatici e l’effetto margine indot-to dalla matrice. Lo stesso accenna anche agli effetti della matrice sui

Fig. 5 Francia: foresta ca. 1920(dall'atlante di Francia, 1935)

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frammenti introducendo i concetti di ‘dissection of the landscape’, fram-mentazione, contiguità, superificie residua, margine forestale (‘periphery’),matrice. La sua storia della distruzione/frammentazione viene contestua-lizzata cronologicamente con le date che hanno segnato l’avvio di un pro-cesso irreversibile di trasformazione coincidente, nel Nord America con l’i-nizio della deforestazione per il taglio del legname (Maine, tardo 1700,New York 1850, Michigan 1870, Wisconsin 1880, Minnesota 1890). Il pro-cesso di trasformazione in molte fra queste aree si è svolto in tempi bre-vissimi: l’Autore riporta che solo lo 0.8% delle foreste presenti nel 1831nel Wisconsin appariva allora ancora in uno stato seminaturale. Le conse-guenze a livello ecologico si inquadravano in un ‘collasso’ delle comunitàbiotiche legate a questi ecosistemi come anche, parallelamente, a quelli diprateria che avevano subìto anch’esse la quasi totale scomparsa. Il turno-ver di specie, gli effetti a livello genetico, la stocasticità/imprevedibilitàcui le popolazioni isolate sono sottoposte e molti altri aspetti del proble-ma accennati da Curtis, sono ormai concetti largamente riconosciuti inlandscape Ecology e temi di approfondimento continuo degli studiosi del-l’argomento sia dal punto di vista teorico che applicativo7. Oggi ad esem-pio, a seguito dell’enorme sviluppo delle infrastrutture lineari (strade, fer-rovie, canali, etc.), la rete viaria è considerata uno degli elementi maggio-ri di ‘crisi’ degli ecosistemi (Jones et al., 2000; Trombulak & Frissell, 2000;Scoccianti 2001a). Ciononostante ancora la quasi totalità delle nuove stra-de viene progettata senza tener conto di questi problemi. Al momentodella stesura dei contributi di Man’s role in changing the face of the Earth,pur se la rete viaria non era allora così capillarmente distribuita e pur se iltraffico veicolare che vi poteva scorrere non era nemmeno lontanamenteparagonabile all’attuale, già molti Autori indicavano questo tipo di svilup-po come una delle maggiori cause di trasformazione in atto nel territorio.In particolare Ullman (The role of transportation and the bases for inte-raction) riporta che l’adozione in quegli anni di nuove tecniche di costru-zione e di un’ampia meccanizzazione per l’esecuzione dei lavori, permette-va per la prima volta di realizzare a grande scala opere che fino ad alloraerano assolutamente proibitive a causa dei costi. Ecco che, come indical’Autore, con questo nuovo processo le “ferrovie e (le) autostrade stannoriallineando il loro percorso; esse stanno creando nuovi e nitidi segni sullasuperficie del pianeta.”.Esiste oggi tutta una vasta bibliografia in riferimento alle varie forme diimpatto generate dallo sviluppo delle infrastrutture viarie. In particolarel’effetto barriera rispetto alla libera circolazione delle specie sul territorio(e per alcuni tipi di infrastrutture addirittura per l’uomo stesso) apparequanto mai grave e dalle proporzioni enormi (per una vasta trattazionedell’argomento cfr. Scoccianti, 2001a). Con uno studio compiuto inToscana da Scoccianti et al. (2001) fu preso in considerazione un campio-ne di strade che attraversavano aree con differenti tipi di ambiente. I risul-tati di questo studio portarono a una stima del numero di Vertebrati che

7 (pag. 729): “The small sizeand increased isolation of thestands tend to prevent the easyexchange of members from onestand to another. Such a localcatastrophe under natural con-ditions would be quickly healedby migration of new individualsfrom adiacent unaffected areas.In the isolated stands, however,opportunities for inward migra-tion are small or noexistent. Asa result, the stands graduallylose some of their species, andthose remaining achieve unu-sual position of relative abun-dance. The lack of interchangeof plant individuals also appliesto plant pollen. It is probable,therefore, that opportunities forevolution of deviant types byrandom gene fixation will beincreased in the future, as theisolating mechanisms have lon-ger times in which operate”(“La dimensione in superficie el’aumento del grado di isola-mento rende difficili gli sposta-menti di individui da un fram-mento ad un altro. Così, se glieffetti di una catastrofe natura-le a scala locale possono esseremitigati dalla immigrazione dinuovi individui da aree limitrofenon interessate dall’evento, neipiccoli frammenti isolati dihabitat ciò può non avvenire.Come risultato le comunità bio-logiche perdono alcune specie equelle rimaste cambiano i lororapporti numerici in termini diabbondanza. Ciò si applicaanche alle specie vegetali: isola-mento e ridotta superficie ridu-cono l’interscambio dei pollinitra frammenti. È’ probabile chesi verranno a determinare con-dizioni tali da rendere possibilifissazioni geniche casuali”).

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in un anno potevano morire in seguito ad investimento sulla rete viariadella Toscana (21.611 km): 282.908 Anfibi, 17.682 Rettili, 62.475 Uccellie 76.228 Mammiferi. Molti sono gli Autori che hanno esaminato questoproblema in altre aree geografiche (Reh & Seitz, 1990; Fahrig et al., 1995;Findlay & Houlahan, 1997; Vos & Chardon, 1998; Findlay & Bourdages,2000) e gli effetti negativi indotti sugli ecosistemi (Forman & Alexander,1998; Forman, 2000). Quest’ultimo Autore, analizzando la rete viaria pub-blica degli Stati Uniti (6,2 milioni di km su cui scorrono 200 milioni di vei-coli) ha stimato pari a circa 1/5 della superficie totale degli Stati Uniti l’a-rea interessata dagli effetti negativi delle strade.Ragionando in termini di territorio è particolarmente importante richiama-re anche il significato del termine ‘punto focale di attraversamento’ (sensuScoccianti, 2000 e 2001) cioè ‘un tratto stradale dove ogni anno si ripeto-no fenomeni migratori di massa che coinvolgono molte decine o anche cen-tinaia di individui’. Si tratta generalmente di tratti di modesta lunghezzadove gli eventi migratori si compiono in determinati periodi ogni anno: sitratta perciò di fenomeni ben definibili come luogo e come tempo. Perquanto riguarda ad esempio gli Anfibi, che costituiscono fra i Vertebrati laclasse maggiormente soggetta a questo tipo di impatto, i punti focali diattraversamento riguardano i movimenti di massa compiuti in corrispon-denza dei siti riproduttivi (o dei siti svernamento/estivazione).Nel solo territorio della provincia di Firenze uno studio effettuato tra il 1996e il 1997 permise di individuare 35 punti focali di attraversamento di que-ste specie su altrettante strade (Scoccianti, 2000), con l’accertamento dimigliaia di individui morti per investimento. I punti focali di attraversamen-to sono in genere i tratti stradali dove, mediante specifici progetti di miti-gazione (barriere antiattraversamento, sottopassi, aree riproduttive alterna-tive, etc., cfr. Scoccianti 2001a), è possibile ‘riequilibrare’ ed anche elimina-re completamente la causa d’impatto. Non è di poca importanza sottoli-neare che gran parte degli interventi di mitigazione realizzati in Italia comein altre nazioni europee è partita dall’interesse locale di gruppi di volontariche hanno studiato il problema e in seguito coinvolto le amministrazionipubbliche. Questo fatto, oltre che essere meritevole in sè per sè, è anchetestimonianza di una nuova e sempre più diffusa presa di coscienza da partedella popolazione degli effetti della trasformazione (frammentazione) delterritorio e degli impatti che tale processo ha sulle specie e sulla qualitàdegli habitat.

Il processo di frammentazione e le nuove implicazioni per la pianifi-cazioneDalla fine degli anni ‘80 e, in modo esponenziale negli anni ‘90, la piani-ficazione territoriale ha iniziato ad acquisire le basi teoriche dell’Ecologiadel Paesaggio e della Teoria della Biogeografia Insulare applicata alla ter-raferma. I concetti di eterogeneità, frammentazione, contiguità, connetti-vità sono entrati sempre più parte integrante della Biologia della

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Conservazione come scienza (Soulé, 1986) e nelle strategie di pianifica-zione ambientale, rientrando anche negli indirizzi formulati in Convenzioniinternazionali e Direttive comunitarie (per una revisione storica cfr.Romano, 1996 e 2000; Battisti, 2004) e, sia pur in modo semplificato, nellinguaggio comune. Questo passaggio di conoscenze tra discipline natu-ralistiche e urbanistico-pianificatorie è avvenuto in modo naturale. Conl’Ecologia del Paesaggio l’unità funzionale di riferimento dei processi eco-logici a livello territoriale veniva infatti a coincidere, di fatto, con le unitàdi pianificazione territoriale a diverse scale amministrative (Comuni,Province, Regioni). In questo modo il dialogo tra urbanistica ed ecologiaviene favorito dalla individuazione dello stesso oggetto di riferimento (ter-ritorio-paesaggio). Il salto disciplinare, avviato comunque già qualchedecennio prima da Diamond (1975) e in Italia da Bullini et al. (1980), èstato anche favorito dal cambiamento della scala con cui urbanisti ed eco-logi osservavano le componenti di riferimento (Uomo e componenti ecosi-stemiche). Dove questo processo è andato a compimento si è passati daun approccio per sistemi chiusi a un approccio olistico con un’unica unitàdi riferimento (territorio da pianificare, paesaggio funzionale). In praticaprima di arrivare a questo ‘salto di qualità’, se pure in alcune sedi urbani-stiche veniva già spesso citato il concetto di ‘conservazione dell’ambiente’,quest’ultimo veniva inteso in modo assolutamente limitativo. Infatti veni-vano prese in considerazione solo quelle che erano considerate vere e pro-prie emergenze ambientali del territorio e alla fine si riconduceva il tuttoalla tutela di parchi a ‘isola’, cioè aree protette disperse in un territorio(necessariamente di superficie molto maggiore) che veniva inteso di prin-cipio come assolutamente non correlato. Le restanti parti venivano quindidimenticate o comunque non si attribuiva loro alcun valore nè intrinseconè, tantomeno, funzionale alla conservazione dell’insieme.Chi si è interessato fino ad oggi di queste tematiche e ha tentato di proiet-tare queste nuove nozioni in sede di pianificazione si è quindi trovato acontatto, almeno nella maggior parte dei casi, con una visione assoluta-mente semplicistica secondo la quale tutte le zone di minor ‘interesse’ambientale e tutta la matrice dovevano rimanere sulla cartografia noncolorate (bianche) e quindi libere da qualsiasi vincolo, in altre parole desti-nabili a qualsiasi tipo di trasformazione. La nuova visione del territorio,ponendo come necessaria la conservazione della funzionalità ecologica delsistema di paesaggio, ribalta completamente il primitivo tipo di approccioe quelle che prima erano intese come ‘semplici’ aree bianche senza valorevengono ad assumere oggi potenzialmente una nuova, forte e autonomadignità. In questo modo ai gruppi interdisciplinari di lavoro cui è delegatala pianificazione è di fatto oggi affidata la responsabilità della scelta sulladestinazione futura dell’insieme delle aree che compongono il territorio,cioè delle differenti tessere del mosaico ambientale, senza escluderne piùalcuna a priori e senza prescindere dal concetto di ‘conservazione dell’am-biente’ = ‘tutela della funzionalità ecologica complessiva’.

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Fondamentale per la possibilità di far conoscere questi nuovi temi è statolo sviluppo e la diffusione del concetto di ‘Rete Ecologica’ in campo inter-nazionale (Bennett, 1997 e 1999) e nazionale (Malcevschi et al., 1996;Malcevschi, 1999; Romano, 2000; Malcevschi, 2001; si veda il ProgettoPLANECO in Filpa & Romano, 2003) e parallelamente l’elaborazione dispecifici testi-guida per studiosi e tecnici riguardanti l’Ecologia delPaesaggio e l’Ecologia della Conservazione (Farina, 1993; Scoccianti,2001a; Battisti, 2004).L’entrata in scena di questi nuovi concetti e quindi la nuova consapevo-lezza del ruolo del territorio è un evento certamente molto recente incampo urbanistico e a maggior ragione la sua trasformazione in azio-ni/decisioni concrete fatica ad avvenire in modo omogeneo su tutto terri-torio per l’assenza ancora di leggi/direttive sull’argomento.Allo stato attuale esistono comunque in Italia numerosi tentativi di piani-ficazione di Rete Ecologica promossi da Enti territoriali (Province, Regioni,Comunità montane, Enti parco) attraverso la pianificazione di settore. Inparticolare le Province, nell’ambito dei Piani Provinciali Generali, si sonomostrate particolarmente attive (in taluni casi sono anche specificata-mente indicate come soggetti attuatori dalle leggi regionali in materia cfr.Regione Toscana - Legge 56/2000), favorite da una estensione territoria-le e da una scala di riferimento compatibile per analisi di ecosistemi, fram-menti ambientali, matrici ambientali, mosaici ambientali.Negli anni 2000 si delineano così vari differenti approcci alla definizionedi Reti Ecologiche come strumento di pianificazione. Di seguito sono rife-riti alcuni esempi:- approccio ‘ecosistemico generale’ (Malcevschi, 1999) che focalizza l’at-tenzione sulle componenti di base (flussi di materia, energia, organismi) esulla necessità di definire uno ‘scenario ecosistemico polivalente’ che inte-gri gli aspetti ecologici con quelli fruitivi, percettivi, culturali ed economi-ci legati alla sfera umana;- approccio ‘prevalentemente faunistico’, seguito per la definizione dellaRete Ecologica Nazionale (REN; Boitani et al., 2002). In esso si focalizzal’attenzione sui modelli d’idoneità ambientale delle specie faunistiche(Vertebrati) su base potenziale, al fine di rilevarne i pattern spaziali ascala nazionale. Allo stesso tempo i modelli di idoneità faunistica posso-no essere di grande utilità nella pianificazione ambientale e di rete eco-logica perché essi possono consentire l’individuazione di aree critiche (adesempio, a livello di singole specie, aree con transizione ‘severa’ tra alta ebassa idoneità, ove è presumibile la presenza di un effetto margine sullapopolazione target) e, a livello di comunità, la definizione di aree a ele-vata ricchezza faunistica (hot-spots, in termini di numero/densità di spe-cie) ottenute dalla stratificazione dei modelli di idoneità complessiva digruppi di specie;- approccio ‘urbanistico-insediativo’ con uso di indici specifici IFI (diFrammentazione Infrastrutturale), UFI (di Frammentazione Urbanistica), di

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sprawl insediativo (Romano, 2000). Questo approccio focalizza l’attenzio-ne sui fattori di minaccia (cartografabili come insediamenti e infrastruttu-re) presenti nella matrice (più che nei frammenti residui) e forniscono uninteressante valutazione sulla ‘severità’ di quest’ultima. Recentemente èstato tentato un approccio valutativo complessivo di tipo ecologico-urba-nistico confrontando indici ecologici classici (Diversità di Shannon,Equiripartizione, Ricchezza di specie) sia tra loro sia con un set di parame-tri urbanistici (Battisti & Romano, 2005);- approccio ‘territoriale’ che, definendo Reti Ecologiche Territoriali, per-mette di individuare macrounità ambientali sulla base di un indice di landconservation (Blasi, 2006). Questa prevede un’analisi dell’eterogeneitàreale e potenziale8 e una valutazione dello stato di conservazione.Ognuno di questi approcci focalizza l’attenzione su aspetti differenti chein realtà andrebbero sempre affrontati in modo integrato. La novità e l’at-tualità del concetto di Rete Ecologica riguarda in ogni caso il nuovo signi-ficato che viene dato agli ‘oggetti territoriali’ distribuiti nello spazio (fram-menti ambientali, matrice trasformata dall’uomo, transizioni matrice-mar-gini-frammento) e alle implicazione collegate in termini di conservazionedella diversità biologica e delle componenti ecosistemiche (aria, acqua,suolo, energia).

Reti ecologiche: paradigma, slogan o non-concetto?Se oggi siamo arrivati al riconoscimento pubblico di temi un tempo patri-monio solo degli ecologi e dei biogeografi e se quindi i problemi relativiad esempio alla sensibilità dei sistemi ambientali isolati e ai processi diestinzione e/o ricolonizzazione delle specie sono ora conosciuti da un grannumero di tecnici, professionisti, ricercatori afferenti a settori disciplinarianche classicamente lontani dal mondo delle scienze naturali (urbanisti,ingegneri, economisti, etc.), tuttavia resta un aspetto problematico costi-tuito dai molti linguaggi tecnici, spesso lontani fra loro, che possono osta-colare il reale trasferimento dei significati e dei concetti da una disciplinaall’altra. Ciò è particolarmente evidente quando, sul piano metodologico,si parla di distinguere il livello ‘strutturale’ di Rete Ecologica (individua-zione degli ambiti territoriali a diverso grado di sensibilità, indipendentedal loro ruolo ecologico per specifici target ecologici), da quello ‘ecologi-co-funzionale’ (individuazione del modello territoriale e dei processi checonsentono di mantenere la vitalità delle popolazioni e attivi i flussi fra gliecosistemi; Battisti, 2003). Questa distinzione, lungi dall’essere accademi-ca, è assolutamente determinante per la riuscita del processo di definizio-ne di una Rete Ecologica e deve prevedere l’acquisizione da parte di urba-nisti e progettisti di nuovi importanti concetti e metodologie di lavoro,come ad esempio l’uso di indicatori di funzionalità (a livello di specie, dicomunità, di ecosistema). In effetti nell’ambito della pianificazione urba-nistica ordinaria, e molto spesso addirittura nell’ambito degli uffici cui èdelegata specificatamente la conservazione della biodiversità territoriale,

8 Eterogeneità valutata in ter-mini reali mediante la coperturae l’uso del suolo su un mosaicoterritoriale ottenuto prima sullabase dell’integrazione di para-metri climatici e lito-morfologici(eterogeneità potenziale e sot-tosistemi di paesaggio) e quindisulla base di unità territoriali dicarattere anche geografico epaesaggistico delimitate sullabase dei sottosistemi di paesag-gio e su caratteri fisici quali(clima, litologia, morfologia eduso del suolo prevalente) (Blasi,2006).

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il concetto di Rete Ecologica viene frainteso completamente. Innanzituttoil termine che viene più comunemente utilizzato non è quello di RetiEcologiche ma di ‘Corridoi Ecologici’ e questo appare sintomatico in quan-to si tende a concepire questi ultimi in modo assolutamente errato esclu-sivamente come fasce di territorio lineari a ponte fra le aree protette giàistituite (un insieme di linearità geometriche da tracciare su carta) secon-do un approccio meramente strutturale che non tiene conto delle basi diEcologia del Paesaggio, delle dinamiche delle popolazioni, della comples-sità delle relazioni ecologiche, etc. Accade così spesso che gli incarichi distudio che vengono affidati sono volti alla semplice valutazione (se nonaddirittura alla sola raccolta) dei dati già noti sulla presenza/assenza dialcune specie nel territorio (o tutt’al più alla valutazione delle aree ‘voca-te’ a determinate specie) con produzione finale di carte territoriali fatte dibanali strisce/macchie colorate a seconda delle specie senza alcun appro-fondimento sullo status degli ecosistemi e sulla funzionalità ecologicadelle varie zone nè tantomeno indicazioni puntuali su quelle che possonoessere le aree a maggior rischio (cioè quelle dove sono localizzati possibili‘ostacoli’ che inficiano il funzionamento d’insieme del sistema) e le even-tuali soluzioni di mitigazione adottabili.In molti altri casi poi la discussione verte semplicisticamente su quali por-zioni di territorio inserire nella rete, indipendentemente dalle loro caratte-ristiche e dalla loro funzionalità ecologica, sulla base soltanto delle desti-nazioni d’uso già presenti o al fatto di essere zone cui non viene attribui-to alcun valore dal punto di vista economico. Si assiste allora a produzio-ni di cartine che mostrano un insieme composto da aree protette, corsi flu-viali (il più delle volte ormai quasi completamente artificializzati), giardinipubblici all’interno delle città, cime dei rilievi montuosi e perfino istitutifaunistici a conduzione venatoria (aree palesemente incongruenti in quan-to sottoposte ad azioni di manipolazione delle popolazioni, come prelievi,ripopolamenti, etc.). Il risultato di tutto questo è una ‘presunta’ rete eco-logica che appare da un lato già individuata e strutturata (in quantoappunto preconfezionata a tavolino) e dall’altro molto comoda da spen-dere sul piano politico perchè di fatto non ‘infastidisce’ nessuno. È chiaroinfatti che una simile situazione diviene ingestibile per principio perchènasce senza alcuna base di tipo ecologico e perchè va a interessare uninsieme estremamente eterogeneo di habitat, ciascuno con le propriedestinazioni e i propri vincoli afferenti a diverse normative.Se quelli poco sopra riferiti possono essere additati fra gli esempi menoedificanti, vi sono invece situazioni dove, grazie alla precisa volontà diaffrontare e studiare i problemi della frammentazione proprio in rapportoalla pianificazione dell’area vasta, sono stati raggiunti risultati di forteinteresse nell’ambito della ricostruzione di una rete ecologica nel territo-rio. A livello nazionale uno dei casi pilota riguarda la pianura alluvionalesituata a nord-ovest di Firenze, area che appare ormai estremamente fram-mentata per la presenza di numerose infrastrutture lineari (strade, auto-

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strade, canali, ferrovie, etc.) e per l’occupazione di vaste superfici conagglomerati industriali e residenziali (Scoccianti & Cigna, 1999). Ad ini-ziare dal 1993 in quest’area venne organizzato un complesso programmadi studi che da un lato ha permesso l’individuazione degli habitat residuidi maggior interesse ambientale e delle specie indicatrici ad essi legate(Scoccianti, 2001a, 2001b e 2001c; Scoccianti & Scoccianti, 1999;Scoccianti & Cigna, 2000) e dall’altro ha portato alla pianificazione, pro-gettazione e realizzazione di numerosi interventi di miglioramento, di recu-pero e di ricostruzione ambientale e anche di mitigazione/compensazioned’impatto rispetto sia alle infrastrutture già presenti sia a quelle nuove incorso di progettazione/realizzazione (Scoccianti, 2001a, 2002° e 2002b).Questa vasta serie di opere, cui si aggiungono molti altri interventi digestione e tutela degli habitat che vengono svolti ogni anno sotto lo stes-so coordinamento all’interno dei vari frammenti della pianura, sonocostantemente monitorate nel tempo. La grande quantità di dati raccolticostituisce oggi un patrimonio conoscitivo che è a disposizione di tutticoloro che studiano questi problemi e che desiderano applicare questestesse tecniche in altre situazioni simili.Un altro caso di studio, per molti aspetti simile a quello sopra descritto,riguarda il Monumento naturale “Palude di Torre Flavia”, presso Ladispolie Cerveteri lungo il litorale nord della Provincia di Roma. Anche quest’a-rea, che è ormai completamente isolata e molto distante da analoghi eco-sistemi, è divenuta una zona elettiva dove si analizzano gli effetti dei varifattori di disturbo/minaccia antropogenici (per una definizione puntualedi questi termini si vedano Hobbs & Huenneke, 1992 e Salafsky et al.,2003) su una serie di target conservazionistici (a livello di specie, comu-nità, ecosistemi) e dove si adottano sperimentalmente soluzioni permigliorare, mitigare o compensare tali fattori/processi al fine di disporredi dati utili anche per la gestione di situazioni analoghe in altre aree(Battisti, 2006). Dagli studi condotti nell’arco di cinque anni di gestione èemerso che la quasi totalità dei disturbi è da ricondurre a un eterogeneoe complesso effetto margine fisico-chimico-biologico dovuto alla matricelimitrofa. Tutto ciò indica fortemente che la gestione delle aree residualinon può essere condotta a scala di frammento: la pianificazione a scala dipaesaggio e la gestione ordinaria dei disturbi a scala di singolo sito (fram-mento) devono quindi sempre andare di pari passo e scambiare più infor-mazioni possibile, pur mantenendo la loro specificità di scala.A parte questi esempi resta comunque il fatto che il trasferimento nellapratica di questi nuovi concetti è in genere sempre piuttosto complesso,necessita di confronti molto approfonditi con le diverse realtà territorialie implica anche una certa capacità decisionale ripetto alla scelta dellepriorità da perseguire per la tutela del territorio. Nell’ambito dei gruppiinterdisciplinari che discutono questi temi nelle amministrazioni quelloche invece sembra spesso mancare è proprio la volontà di comprendere glielementi di base dell’argomento in questione. Di conseguenza il successi-

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vo passaggio alla pianificazione concreta diviene impossibile. A questoproposito non si può non ricordare le gravi carenze che purtroppo caratte-rizzano ancora oggi in molti casi perfino la preparazione di base dei tec-nici che curano all’interno dei gruppi di lavoro la caratterizzazione ambien-tale del territorio. Infatti questi professionisti (indipendentemente dall’es-sere biologi, naturalisti o forestali), anche se teoricamente possono appa-rire come esperti del ‘settore ambientale’, in pratica quasi sempre si dimo-strano ancora troppo legati ad uno schema sistematico-nozionistico, avul-so da ogni corrispondenza con l’ecologia del sistema territoriale. Si trattaquindi unicamente di ‘puri zoologi’ o ‘puri botanici’, magari perfettamen-te preparati in materie come la sistematica delle specie e il riconoscimen-to delle stesse su campo, ma certo non capaci di ragionare in termini diecologia e ancor meno esperti di landscape ecology e di Ecologia applica-ta alla Conservazione. Questo è un forte limite e su questa base è ovvioche mai potrà essere fatta una reale pianificazione di una Rete Ecologicadato che gli altri membri dei gruppi di lavoro (in genere architetti o inge-gneri) a maggior ragione non dispongono di adeguate basi conoscitive.Non ci si può meravigliare quindi che in molti casi la Rete Ecologica siastata (e venga tuttoggi) percepita semplicisticamente come una strategiacon finalità specie-specifiche (Rete Ecologica ‘per zoologi’), quando talestrumento di pianificazione dovrebbe invece coincidere con un action plandiretto ad una o poche specie. In realtà, se citate, le specie (o altre com-ponenti ecosistemiche) dovrebbero solo svolgere un ruolo di indicatore difunzionalità del sistema di paesaggio: il compito degli ecologi partecipan-ti ai gruppi di lavoro dovrebbe quindi essere proprio quello di chiarire cheesse devono quindi essere considerate unicamente un mezzo e non unfine, analogamente all’uso di altre metodologie standard come ad esem-pio l’indice di qualità delle acque IBE (Indice Biotico Esteso) o altri simili.D’altro canto all’interno degli stessi gruppi di lavoro anche la figura del‘paesaggista’ (generalmente un architetto o un agronomo), così come nelcaso delle professionalità sopra ricordate, molto spesso non appare ingrado in alcun modo di studiare il paesaggio in termini di conservazioneo mantenimento-ricostruzione dei suoi caratteri tipici, ecologicamente estoricamente attestati. Addirittura spesso la pianificazione o la progetta-zione di una certa area diviene esclusivamente un’occasione per ridise-gnare il profilo del territorio secondo un personale gusto estetico non dirado contrastante con la conservazione degli habitat caratteristici e dellespecie ad essi legate. Si spiega così la nascita di ondulazioni collinari nellepianure (spesso curiosamente e erroneamente definite ‘dune’, come se fos-sero costituite da sabbia), di gradoni o spianate lungo le pendici dei rilie-vi, di piantagioni di specie non autoctone, etc. Viene da domandarsi il per-chè di questi ‘sforzi di fantasia’ e del rifiuto da parte di queste persone dianalizzare in modo serio, sereno e sostenibile i rapporti fondamentali chelegano ogni territorio alla sua natura e alla sua storia.Tornando brevemente alla semplicistica considerazione del concetto di

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Rete Ecologica come strumento volto ad esclusivo vantaggio di una o piùspecie faunistiche, è interessante infine ricordare anche che tali erratiapprocci di Rete Ecologica possano talvolta non essere risolutivi (o addi-rittura essere controproducenti) per certe specie in determinati contestiove la frammentazione ambientale ha innescato effetti irreversibili sudeterminate popolazioni biologiche e/o comunità. Ad esempio nel casodelle aree urbane sarebbe opportuno valutare con un certo criticismo larealizzazione di ‘Aree di collegamento ecologico’ per popolazioni di speciesensibili alla frammentazione inserite nel tessuto urbanizzato (Battisti etal., 2002). Tali popolazioni, infatti, appaiono nella maggior parte dei casiisolate in modo irreversibile fra di loro e con scarse/nulle possibilità discambaire individui, consentendo così il mantenimento di una vitalità nellungo termine (cfr. Zapparoli et al., 2004, per alcune specie di mammiferisensibili nella città di Roma). Pertanto le aree residuali che ospitano lepopolazioni sensibili possono non rivelarsi funzionali per quelle dinamichedispersive che si vogliono mantenere o ristabilire, in particolare perchèessendo inserite in una matrice ‘severa’ possono rivelarsi inadatte (a causaad esempio dell’effetto margine) e addirittura ‘trappole ecologiche’ per gliindividui in dispersione (Soulé, 1991). Le aree di collegamento ecologicocosì pianificate verrebbero quindi ad assumere una funzione di aree sink(‘gorgo’) nell’ambito della dinamica generale delle popolazioni locali conpossibili ripercussioni negative sulla sopravvivenza a medio-lungo termine.Infine non va dimenticato che la Rete Ecologica è uno strumento di pia-nificazione che si pone l’obiettivo di mitigare gli effetti della frammenta-zione ambientale. Proprio in quest’ottica le basi teoriche che sono stateaccennate nei precedenti paragrafi devono assolutamente essere acquisi-te con i loro corretti significati dai pianificatori. In mancanza di questo, laRete Ecologica rischia di divenire uno slogan alla moda nel settore.Parallelamente la molteplicità di approcci differenti, senza un serio coor-dinamento, rischia di trasformare questo strumento in un non-concetto,interpretabile in modo differente secondo le diverse ottiche disciplinaricoinvolte nel processo di pianificazione, e di portare ad un risultato che,se da un lato potrà soddisfare un determinato gruppo di progettazione,dall’altro non raggiungerà mai quei requisiti minimi necessari alla conser-vazione della funzionalità ecologica del paesaggio, che è ormai oggi rite-nuta l’essenza di una pianificazione corretta.Quando invece un gruppo di lavoro multidisciplinare è formato da profes-sionisti ben preparati, capaci di ‘scambiare’ fra loro informazioni e cono-scenze sulle diverse materie di competenza e infine disposti a trovare lesoluzioni che meglio si adattano alle peculiarità e ai problemi del territo-rio, la Rete Ecologica diviene il ‘tema unificante’ delle discussioni e dellescelte. Tutela concreta del paesaggio e della diversità biologica, previsionedi interventi di recupero/ripristino/ricostruzione di habitat, ricostruzionedelle ‘connessioni’ mancanti, interventi di compensazione/mitigazioned’impatto (sensu Cuperus et al., 1996; Cuperus et al., 1999), etc. divengo-

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no allora aspetti di un unico progetto scientificamente fondato, comples-so e al tempo stesso anche estremamente affascinante. Dalla esperienzapersonale degli Autori del presente contributo che da molti anni hannocominciato a trasferire a livello pratico (‘su campo’) questi concetti realiz-zando interventi concreti e monitorandone i risultati in termini di conser-vazione di habitat e di specie, emerge con chiarezza quanto la collabora-zione intersettoriale con pianificatori, ingegneri, economisti, storici del ter-ritorio, etc. sia non solo sempre auspicabile ma senza dubbio estrema-mente utile proprio per una compiuta comprensione di tutti gli aspetti euna maggiore incisività delle scelte e delle soluzioni adottate. Ad esempioparte degli interventi di ripristino ambientale descritti precedentementeper la Piana Fiorentina sono il prodotto finale di una lunga opera di dis-cussione e di confronto in sede di pianificazione urbanistica locale, graziealla quale è stato infine approvato il disegno complessivo di rinascita ericostruzione del paesaggio mediante una serie di interventi di ecologiaapplicata alla conservazione da realizzarsi all’interno delle nuove aree dilaminazione idraulica previste dagli strumenti urbanistici. In altri casi lalunga concertazione in sede urbanistica può avere come scopo la realizza-zione anche solo di interventi puntuali che però rivestono un significatoindiscutibile per la conservazione del patrimonio ambientale presente sulterritorio. Un interessante esempio a questo proposito è il successo otte-nuto presso la Riserva Naturale Oasi WWF Orti Bottagone (Piombino, LI)con la progettazione di un tratto di strada completamente rialzato su via-dotto (per una lunghezza complessiva di 215 metri) finalizzato a ristabili-re la connessione fra gli habitat palustri presenti sui due lati stradali(Scoccianti, 2006). La stretta collaborazione fra uno degli Autori del pre-sente contributo e alcuni ingegneri dell’Ufficio tecnico del SettoreViabilità della Provincia di Livorno, ha portato alla fine a un’opera che perdimensioni e caratteristiche è oggi una delle più importanti nel panoramamondiale di questo tipo di interventi e rappresenta di fatto l’esempio con-creto di un completo ripristino della connessione ecologica fra due fram-menti di habitat.

ConclusioniLa pianificazione di una rete ecologica è un processo che persegue speci-fiche finalità: conservare determinate componenti ambientali in contestiterritoriali frammentati, definendo criteri di priorità e riferendosi a model-li eco-biogeografici. Per attuare questi scopi esistono strategie fondate subasi teoriche afferenti a varie discipline (ecologia del paesaggio, biogeo-grafia insulare, ecologia e genetica di popolazioni, ecc.). Queste basi sonoormai universalmente riconosciute. L’argomento tuttavia è complesso per idiversi livelli ecologici interessati (popolazione, comunità, ecosistema epaesaggio), per le risposte differenti delle specie e delle altre componentiecosistemiche nonché per i modi con i quali i diversi sistemi paesistici rea-giscono quando sono sottoposti a livelli differenti di frammentazione.

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I tempi generalmente molto brevi che sono a disposizione per le fasi di stu-dio prima che la pianificazione vera e propria abbia inizio, richiedono unosforzo disciplinare enorme per sintetizzare questa complessità attraversostrumenti opportuni che, tuttavia, non sembrano ancora riconosciuti dallediverse discipline e gruppi di lavoro. Il filone di ricerca relativo allo svilup-po e al trasferimento nella realtà del territorio delle strategie per contra-stare il processo di frammentazione è quindi ancora ad uno stadio, per cosìdire, embrionale (almeno nella stragrande maggioranza delle aree geogra-fiche) ed è proprio verso questo obiettivo che gli sforzi di ecologi applica-ti, pianificatori ambientali e biologi della conservazione dovranno esserediretti nei prossimi anni.

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IntroduzioneIniziare un testo sulle acque è come trovarsi di fronte a una grande telabianca o a una grande lastra di rame: intaccare queste superfici vergini,significa rompere un’armonia esistente e cercare di costruirne un’altra,altrettanto completa del vuoto che comprende il tutto.Le acque sono un universo profondo, vitale e di una tale complessità cherisulta difficile descrivere con poche parole il mondo materiale ed imma-teriale che esse rappresentano ed accolgono.Persino Leonardo Da Vinci “...si propone di scrivere un Libro sulle acque,nel quale, ogni argomento sarebbe stato trattato in ordine e ogni casosarebbe stato seguito da una prova; ma evidentemente quando era lì conla penna in mano questi propositi svanivano, e il suo spirito veniva porta-to altrove: sembra che lui stesso sia stato consapevole di questo stato dimente particolare, poiché tante volte si annotava Scrivi..., Ricordati...Descrivi... , e dopo elencava ciò che nel suo libro sulle acque non dovevaassolutamente dimenticare, oppure si appuntava il cominciamento dellibro sulle acque o alcuni temi da trattare o un metodo da applicare.”1

In questo contesto, affrontare il tema dei cambiamenti sulla qualità equantità delle acque sulla terra a 50 anni dall’analisi e osservazioni fatteda Thomas2, impone il superamento di una lettura delle acque nella soladimensione tecnico-scientifica. Significa andare oltre una serie di dati, dipubblicazioni e di elementi fisico-chimici che descrivono il tema ma nonabbracciano tutte le declinazioni legate alla profondità del soggetto-oggetto. È necessario un approccio diverso, che tenga conto degli aspettimateriali e scientifici, ma che si apra ai modelli percettivi simbolici e imma-teriali che l’acqua porta con sé facendo dell’acqua il luogo privilegiato perripensare i nessi tra la biologia e la cultura. Credo che a questo pensassegià Lewis Mumford nella sua parte conclusiva di Man’s Role quando si rife-risce all’Amore in senso totale, cosmico, come vera ed unica forza per sal-vare la vita e la terra. Amore in senso totale, nella componente di agape,fattore primario per la libera creatività3. Le dimensioni del problema siamplificano, si complicano ed appare necessario superare l’interdisciplina-rietà – che sembra aver preso finalmente piede – per aprirsi a nuovi dia-loghi tra tecnica e umanesimo verso un processo di intercomunicazioneindispensabile per superare l’ubriacatura della tecnica, dell’”efficientismo”e della specializzazione di cui siamo stati e siamo ancora vittime.

1 Dalle acque, Leonardo daVinci, Sellerio Editore Palermo,2001, Dai libri mai conclusisulle acque, pag. 432 Changes in quantities e quali-ties of ground and surfacewater, Harold E. Thomas inMans’Role in changing the faceof the earth, The Univerity ofChicago Press, 1956, vol. 2,pag. 542-5633 vedi la Spiritualità di JosephBeuys, Lucrezia de DomizioDurini, Silvana editore 2002,Joseph Beuys - La difesa dellaNatura, Skira, 2001

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UOMINI E ACQUE DALL’OLOCENE ALL’ANTROPOCENE

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4 Acqua, Storia e destino diuna risorsa in pericolo, Marc DeVillliers, Sperling & KupferEditori, 20035 Per un’antropologia dell’ac-qua, Nadia Breda,, inAntropologia dell’Acqua, ErreffeLa ricerca Folklorica, numero 51,2005, pag. 56 Storia dell’acqua, Mondimateriali e universi simbolici,Donzelli, Roma 20037 Il respiro delle acque, raccon-ti, articoli, saggi di RenzoFranzin, Centro Civiltàdell’Acqua, nuova dimensione,20068 Mans’Role in changing theface of the earth, The Univerityof Chicago Press, 1956, vol. 2,pag. 542-563

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Tornando alle acque dolci, va detto che nel corso di questi ultimi anni – inparticolare nel corso del 2003 anno internazionale delle acque dolci – viè stato un gran dibattere, informare, pubblicare attorno a questo tema.Molti libri hanno descritto le acque da più punti di vista, alcuni dei qualihanno pure cercato di fare una sintesi.Tenuto conto della complessità dell’argomento e delle implicazioni diretteed indirette legate all’acqua, mi sembra giudizioso rimandare il lettore adalcuni testi piuttosto che inoltrarmi in un complicato esperimento di sin-tesi, che risulterebbe sempre insoddisfacente per i motivi già definiti sopra.In particolare, vorrei segnalare il libro Acqua, storia e destino di una risor-sa in pericolo di Marc De Villiers4 “un camminatore delle acque, un fre-quentatore di tutti i tipi di acqua , dai fiumi più famosi alle umide pozze.Il suo libro può essere letto come un’etnografia e come un libro di meto-do, che ci allena a passare di acqua in acqua”.5

De Villiers riesce, con il suo occhio di giornalista giramondo, a fornire,comprensibile e semplice, una visione a 360 gradi delle problematichelegate all’acqua partendo da esempi e fatti concreti.Un altro testo che merita attenzione è quello curato da Vito Teti6, cheaffronta con un taglio antropologico il rapporto con le acque nel suddell’Italia e nel Mediterraneo in generale.Infine rimando alla recente pubblicazione Il Respiro delle acque7, che rac-coglie i testi di Renzo Franzin, fornendo al lettore una lettura multidimen-sionale dell’universo anfibio veneto, ma facilmente trasbordabile ancheoltre le frontiere locali.

Dall’Olocene all’AntropoceneL’articolo di Harod E. Thomas8 esamina il tema dei cambiamenti di quan-tità e qualità delle acque sotterranee e superficiali in modo razionale, dis-cutendo dapprima le condizioni naturali ed i vari metodi di misura per poitrattare il ruolo dell’uomo nelle modifiche di parti o dell’intero ciclo idro-geologico.Thomas introduce il tema della variabilità dei fattori naturali e delle con-seguenze sul regime idrologico e idrogeologico delle acque, preoccupan-dosi degli aspetti quantitativi e qualitativi delle acque dolci a disposizio-ne per l’uomo.Vale la pena ricordare l’importanza di questo aspetto tenuto conto che leacque che ricoprono il 71% della superficie terrestre sono per la stragran-de maggioranza salate. Appena il 2,5% per cento è acqua dolce e solo unterzo è in forma liquida; il resto è intrappolato nelle calotte polari e neighiacciai. Gran parte dell’acqua liquida, poi, è inaccessibile perché nasco-sta nelle viscere della Terra. Quel che resta disponibile per gli usi umani,nei laghi e nei fiumi, è appena lo 0,1% del totale, distribuita per di più inmodo molto ineguale. Secondo le stime della Banca Mondiale e OMS oggi1.4/1.8 miliardi di persone non hanno accesso all’acqua potabile, 2 miliar-di di persone non godono di nessun sistema sanitario domestico e si stima

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che per il 2020 (UNESCO) vi saranno 4 miliardi di persone che non avran-no accesso all’acqua potabile.Il tema dell’accesso all’acqua, del bene comune acqua, della lotta alla pri-vatizzazione, il tema delle guerre dell’acqua è evidentemente centrale intutta la discussione. Questi aspetti vengono trattati nel testo di EmilioMolinari riportato nella scheda 1.L’approccio di Thomas è di stampo scientifico-ingegneristico: dapprima lacomprensione dei modelli naturali per definire i parametri di riferimentocon cui confrontare nuove situazioni. Poi, nel caso in cui se ne ravveda lanecessità, separare le cause antropiche da quelle di variabilità naturale. Irisultati delle analisi di Thomas danno molto peso alla grande variabilitànaturale e alle difficoltà di disporre di modelli di riferimento chiari perdefinire delle reali modifiche, statisticamente rilevanti.L’autore, senza negare l’impatto delle attività umane, l’irreversibilità dialcune azioni e la reversibilità di alcuni impatti in particolare per la quali-tà delle acque, mette in guardia sulla difficoltà di separare in modo chia-ro le cause naturali da quelle antropiche e pertanto di definire con certez-za gli impatti antropici sui sistemi naturali. Thomas termina coerentemen-te con la propria impostazione culturale, confidando nel futuro della ricer-ca e della tecnica per la soluzione ai problemi.In questi 50 anni ne è passata di acqua sotto i ponti e molto è cambiato.A livello scientifico le possibilità di spiegare i fenomeni passati si sonoaccresciute grazie a nuove modalità di ricerca, a nuovi modelli interpreta-tivi, allo sviluppo di scenari, a grandi sforzi compiuti nella raccolta di datidi base e di riferimento.Alcune sfide sono state vinte, in particolare per la questione della qualitàdelle acque in alcune aree ricorrendo a sistemi di depurazione, ma i pro-blemi ambientali e sociali legati all’acqua sono aumentati e lo stato qua-litativo e quantitativo delle acque è certamente peggiorato in questi 50anni, malgrado i grandi passi in avanti delle tecnologie. Il ciclo idrogeolo-gico è intimamente connesso alle condizioni climatiche; proviamo a parti-re proprio dal clima per la lettura dei nuovi parametri di riferimento.In questo settore si può oggi fare riferimento all’IPCC, “IntergovernmentalPanel on Climate Change” (Gruppo intergovernativo di esperti sui cam-biamenti climatici), creato nel 1988 dall’Organizzazione mondiale dimeteorologia e dal programma UNEP dell’ONU per raccogliere e valutarele informazioni scientifiche e socio-economiche disponibili, connesse aicambiamenti climatici globali. Il primo rapporto elaborato dell’IPCC nel1990 è servito da base per la Convenzione sul clima conclusa nel 1992. Ilterzo rapporto scientifico dell’IPCC è stato pubblicato nel 2001. Il docu-mento, che conta più di 3000 pagine, riassume le conoscenze più aggior-nate in materia di cambiamenti climatici9.Da circa 250 anni, ossia dall’inizio dell’era industriale, l’uomo sta incenti-vando l’effetto serra naturale. Soprattutto l’utilizzazione di vettori energe-tici fossili – quali il carbone, il petrolio e i gas naturali – utilizzati nella pro-

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Fig. 1 Evoluzione della tempera-tura negli ultimi mille anni nel-l’emisfero nord. Misurazionieffettuate nel XX secolo e rico-struzioni basate sull’analisi deglianelli degli alberi, dei coralli,delle carote di ghiaccio e degliarchivi storici. L’aumento dellatemperatura degli ultimi tredecenni è particolarmente pro-nunciato. Vista la scarsità deidati che permettono di ricostrui-re le temperature del periodoantecedente il 1600, l’incertezzaè grande (area in grigio). Lacurva nera rappresenta l’evolu-zione più probabile della tempe-ratura, mentre per il futuro l’a-rea grigia rappresenta lo spettrodi evoluzione della temperaturain base a diversi modelli ritenutiattendibili. (fonte: IPCC, adatta-to da Mann et al 1999)

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duzione industriale, nel riscaldamento di edifici e nei trasporti, genera nel-l’atmosfera notevoli emissioni di CO2. Ulteriori emissioni di gas serra sonoda attribuire al disboscamento delle foreste tropicali, all’agricoltura eall’impiego di gas tecnici nell’industria.L’atmosfera contiene attualmente circa un terzo di CO2 in più rispetto all’i-nizio dell’industrializzazione (1750). Le concentrazioni di metano (CH4),usato principalmente nell’agricoltura, sono aumentate del 150%, quindipiù che raddoppiate. Gli studi di paleoclimatologia sulle carote di ghiacciodel lago Vostok in Antartide hanno evidenziato come le concentrazioni deidue gas appena menzionati segnano livelli mai registrati nel corso degli ulti-mi 420.000 anni. Da almeno 20.000 anni non si registrava un aumentocosì rapido delle concentrazioni di CO2 come quello degli ultimi decenni.Una volta liberati, i gas serra salgono nell’atmosfera, dove rimangono attivia lungo. Il tempo di permanenza del CO2 nell’atmosfera, ad esempio, variada 50 a 200 anni. La conseguenza è che l’effetto delle attuali emissioni siprotrae sull’arco di decenni o addirittura di secoli e che l’effetto dei provve-dimenti volti a ridurre le emissioni sarà visibile solo con molto ritardo10.Il terzo rapporto di valutazione del Gruppo di esperti intergovernamentalisull’evoluzione del clima11 indica come, malgrado le incertezze ancora pre-senti, le emissioni di gas responsabili dell’effetto serra e di aerosol da partedelle attività umane modificano l’atmosfera in una misura tale da averedelle ripercussioni sulle modifiche climatiche.Basta guardare l’incredibile somiglianza tra i grafici che indicano la con-certazione di CO2, CH4, N20 e la temperatura media annuale per vedereche tra questi fattori sembra esserci ben più di una correlazione causale(vedi figure 1,2,3).

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Fig. 3 Il riscaldamento dellatemperatura negli ultimi 50anni non può essere simulatoquantitativamente senza il con-tributo di gas serra e aerosol.I cambiamenti globali medi sibasano su 4 modelli di simula-zione (area grigia) in confrontocon la curva reale misurata(rossa). Tre influssi sul bilancioglobale sono stati ricercati : a)fattori naturali (ciclisolari eatti-vità vulcaniche), b) fattoriantropici (aumento gas serra eaerosol), c) abbinamento deifattori antropici e naturali (daOcCC). Das Klima ändert - auchin der Schwiez, OcCC Berna2004

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Fig. 2 La concentrazione di ani-dride carbonica (CO2), metano(CH4), ossido di azoto (N2O)nell’atmosfera crescono in modosignificativo a partire dall’iniziodell’era industriale (ca. 1750).(fonte: occc.ch, adattato)

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Paul Crutzen, premio Nobel per la chimica per le sue ricerche sull’ozono nel1995, sostiene la tesi secondo la quale siamo entrati nell’ Antropocene12,era geologica caratterizzata dall’avere come forzanti climatiche principalile attività umane (industriali, agricole e di allevamento di bestiame).Secondo Crutzen, l’antropocene ha inizio nella seconda metà del diciotte-simo secolo (convenzionalmente si sceglie il 1784, anno dell’invenzionedel motore a vapore) e quindi è l’era geologica nella quale stiamo viven-do. Questa definizione non è universalmente accettata dal mondo scienti-fico in quanto non tutti gli studiosi ritengono ancora rilevante l’influenzadell’Umanità sul clima (scheda 2).Malgrado la difficoltà di determinare in quale misura il clima sia alteratodall’azione dell’uomo, sembrano essere oggi disponibili molte indicazioniscientifiche che correlano i cambiamenti climatici alle azioni antropiche. Ilcosiddetto forcing, vale a dire il contributo dell’uomo all’effetto serra èormai oggetto di monitoraggio (stima forcing netto 1.5 watt /m2), il che staa significare, al di là delle cifre più o meno precise, che siamo di fronte adun fenomeno ormai “misurabile”. Rispetto a 50 anni orsono, malgrado leincertezze siano ancora grandi “ci sono nuove prove più consistenti chegran parte del riscaldamento globale osservato negli ultimi cinquant’annisia attribuibile alle attività umane”13.Ormai possiamo dire che il ruolo dell’uomo è determinante nei mutamen-ti climatici, ma pure per diversi fenomeni correlati con il clima e con il cicloidrogeologico delle acque. Thomas analizzava i cambiamenti correlati acause naturali, i cambiamenti correlati con l’uso delle acque e quelli lega-ti all’uso del suolo: diminuzione e aumenti delle precipitazioni, abbassa-mento delle falde freatiche, riduzione dei ghiacciai, salinizzazione, subsi-denza, inquinamento delle falde, diminuzione delle acque potabili dispo-nibili, drenaggi di aree umide, perdite di specie vegetali e animali legatea zone umide o alluvionali.Le osservazioni fatte da Thomas, in questi ultimi decenni si sono acutizza-te ed i fenomeni in atto stanno assumendo proporzioni impressionanti.Molti autori, ricercatori, studiosi e intellettuali si stanno occupando di que-sti fenomeni e ormai non passa giorno in cui l’acqua non diventi sinonimodi emergenza. Si pensi ad alluvioni, tsunami, siccità, frane, ghiacciai scom-parsi, inquinamenti di falde, difficoltà di accesso alle acque potabili, ecc.La lista è lunga e verosimilmente si allungherà ancora nei prossimi giorni,settimane, mesi anni (scheda 3).Siamo di fronte a una nuova situazione: il carattere biunivoco delle acque,che ha caratterizzato il nostro rapporto con le acque sta vieppiù bilan-ciandosi verso il polo delle negatività. Questo grazie alla nostra presunzio-ne di poterci staccare dalla storia, di poter dimenticare le cose apprese insecoli di fatica, di poter fare affidamento sempre e solo sulla tecnica perrisolvere i problemi provocati dalla nostra cecità.

12 Benvenuti nell’Antropocene,Paul J. Crutzen, SaggiMondadori, 200513 vedi nota 11

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14 vedi nota 715 V. Teti, opt. cit.16 vedi nota 7

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Per un nuovo approccio, per una nuova Civiltà dell’AcquaL’avvento della macchina a vapore ha segnato pure altre modifiche nel rap-porto tra uomini e acque: “all’apparire delle avanguardie dell’industrializ-zazione, nell’epoca in cui il telaio diventò la turbina, l’acqua fu la prima vit-tima del progresso nel cui nome si sacrificò, non solo per necessità, ogniprudenza. Subito imprigionata, intubata e nascosta, l’acqua fu declassataa matrice invisibile di un dio nuovo e splendente che dalla centrale elet-trica dispensava benessere, in luce, calore e lavoroomissis...L’acqua è scomparsa da quasi ogni piazza di paese o città per far posto aiparcheggi, intubata per sostituire i fossati, ridotta a rumoroso incidentedalle briglie in montagna o dentro le forre dell’alta pianura, governata pergli usi civili attraverso misteriose reti di distribuzione o sfruttata nellesplendenti turbine in caverne sotterranee.Eppure l’acqua resta ancora l’elemento più misterioso e incontrollabile del-l’universo, la dimensione ancestrale dell’uomo che l’umanità non è riusci-ta completamente a declinare con la parte peggiore della propria filosofiadello sviluppo a ogni costo, un “luogo” indefinito e incerto la cui assenzaè una tabe insostenibile non solo per la vita biologica, ma per quellosguardo interiore che, a volte, ci fa desiderare la perfezione dell’equilibrioe l’armonia con la natura.”14

Le modifiche che sono intervenute negli ultimi secoli sono profonde,hanno cambiato in modo intimo il nostro rapporto con gli elementi natu-rali, con gli elementi primari tra i quali l’acqua.Il rapporto degli uomini con l’acqua non è mai stato scontato, dato, acqui-sito15. Ogni generazione in ogni luogo al mondo deve reinventarsi il mododi rapportarsi all’acqua ed attraverso l’acqua definire le relazioni con il pro-prio territorio determinando nuovi paesaggi. Le nostre società “progredite”hanno perduto il legame con gli aspetti immateriali dell’acqua. Le acquetendono ad essere marginalizzate, perdendo la storica centralità chehanno sempre avuto e con essa la sacralità16. La perdita del rapporto coni luoghi e con la sacralità legata all’acqua, comporta l’affermarsi della cul-tura materialistica e con essa di quella dello spreco o della privatizzazione.Da qui, i problemi legati all’accesso all’acqua potabile, delle difficoltàodierne e future per assicurare il valore di bene comune.Occorre segnalare come parallelamente al generale degrado culturale emateriale dell’acqua, negli scorsi decenni si è potuto assistere alla nascitadi movimenti di pensiero diversi, che si avvvicinano al tema dell’acquaattraverso un percorso nuovo, recuperando uno sguardo più intimo volto ariassumere l’acqua nel nostro universo quotidiano.In tal senso, vanno ricordate la dichiarazione europea per una NuovaCultura dell’Acqua firmata a Madrid il 18 febbraio 2000, ma soprattutto illavoro il Centro Internazionale Civiltà dell’Acqua, nato a Treviso dalla lun-gimiranza di alcuni pensatori che hanno ritenuto importante accompa-gnare la presa di coscienza mondiale sul tema dell’acqua ad un processo

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17 Mauro Varotto, Le terre dellaTergola, Vicende e luoghi d’ac-qua in territorio vigontino,Comune di Vigonza - Cierre edi-zioni, 200518 Walkscapes, camminarecome pratica estetica diFrancesco Careri, Einaudi 2006

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culturale e antropologico profondo, fatto di dinamiche globali ma anchedi quotidianità, di conoscenza intima dell’equilibrio che regola l’universocomune dell’uomo e della natura.La presenza sul territorio di queste nuove sensibilità rappresenta un fatto-re fondamentale per la crescita di una nuova coscienza e capacità diaffrontare il tema dell’acqua in chiave olistica, recuperando il senso diarché, principio del tutto intrinseco all’acqua e già riconosciuto da Taletedi Mileto nel IV sec. a.C.

Camminare lungo le acque quotidiane - pratica indispensabileRiportare le acque al centro del nostro quotidiano significa ricostruire le pre-messe per la multifunzionalità legata alle acque restituendo loro la dimen-sione biunivoca, ridando loro dignità, riportando in luce le tratte tombate,restituendo ai corsi d’acqua il ruolo fondamentale di corridoio ecologico pri-vilegiato, a fronte delle sempre maggiore frammentazione territoriale.È un processo di presa di coscienza che deve interessare ogni persona, nonsolo i tecnici, i pianificatori, gli specialisti. Vanno sviluppati nuovi stru-menti anche di scoperta, di conoscenza, di comunicazione.Uno mezzo particolarmente efficace ritengo sia il camminare lungo i corsid’acqua che accompagnano la nostra quotidianità.“È il camminare lungo gli argini che ci conduce verso l’Atlantide, verso ipaesaggi nascosti e perduti, verso le misteriose geografie quotidiane allequali, fino a pochi anni fa, non era possibile attribuire alcuna legittima-zione accademica”, dice Francesco Vallerani nell’introduzione a un testo suun fiume minore.17

Diversi autori negli ultimi anni hanno affrontato il tema del camminocome elemento di conoscenza del mondo e di scoperta di geografie inte-riori e la pratica del camminare ha vieppiù assunto un valore conoscitivo,simbolico fino ad estetico.18

Il camminare lungo i fiumi, lungo le acque è una pratica indispensabilealla conoscenza del sistema fiume in chiave olistica. Il cammino può esse-re inteso come visita di paesaggi reali o interiori: ai bordi di un fiume leacque che scorrono possono portarti ovunque anche stando fermo.Anche i più piccoli corsi d’acqua, i rivoli, i canali possono diventare il fat-tore scatenante per la lettura del mondo, possono dare il “la” a passeg-giate reali e virtuali interminabili.Vallerani ci parla dell’importanza di leggere l’idraulica minore anche inchiave accademica, riportando la discussione sull’importanza dei gesti quo-tidiani quale fattore primario per la costruzione di paesaggi coerenti.Aprirsi a tale pratica significa uscire dalla contraddizione (forse voluta...) dichi preferisce parlare dei massimi sistemi ben sapendo di non poterli mini-mamente influenzare e restando pertanto su un piano prettamente acca-demico e teorico. La strada del quotidiano è quella corretta, certamentepiù impegnativa perché ci pone di fronte alla responsabilizzazione deinostri gesti di tutti i giorni, obbligandoci alla verifica del senso del nostro

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fare in chiave collettiva e dunque di costruzione di un paesaggio coerente.Passeggiate, deambulazioni, derive, cammini sono strumenti necessari allacrescita del senso di collettivo, di bene comune, di scoperta e anticipazio-ne. Il cammino come atto necessario, indispensabile alla presa di cono-scenza e coscienza del nostro agire e delle nostre responsabilità.Provate a risalire un fiume da foce a sorgente non un fiume qualunque,ma quello più prossimo a casa vostra, quello che pensate di conosceremeglio e poi vedrete come il vostro mondo, quello che immaginate diconoscere così bene, apparirà diverso.Il fiume a me più vicino si chiama Maggia, è un corso d’acqua a caratteretorrentizio che nasce sui ghiacciai del Basodino e sfocia nel lago Maggiore,formando un delta a Locarno.È un fiume complesso sul quale si potrebbe parlare a lungo, sul qualemolti hanno scritto e studiato, ma è pure una palestra di osservazione chepermette anche in modo semplice di verificare che quanto accade nelmondo accade anche vicino a casa nostra, vicino al nostro quotidianosenza che noi ce ne rendiamo conto (scheda 4).L’Acqua rappresenta uno dei temi più importanti per il prossimo secolo, lesfide sono globali e locali; vanno dall’accesso all’acqua, alla salvaguardiadegli aspetti qualitativi e quantitativi, all’affermazione del principio dibene comune, all’affermazione del ruolo primario degli ecosistemi legatialle acque.La dimensione globale ed intima dell’acqua impone una presa di coscien-za e di conoscenza a più livelli, dove il quotidiano diventa luogo privile-giato per la libera creatività.A 50 anni di distanza i problemi sono gli stessi di quelli segnalati in Man’sRole, le loro dimensioni maggiori grazie anche alla nostra accresciuta vul-nerabilità e la vera soluzione rimane quella già identificata allora daMumford.

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SCHEDA 1

La negazione del diritto all’acquaEmilio Molinari (Presidente del Comitato Italiano per un ContrattoMondiale sull’Acqua) 1.10.2006

Prima di tutto perchè la questione acquaL’acqua è l’indicatore principale della crisi ambientale entro cui ormai cidibattiamo, e di come questa crisi è diventata sociale, politica, geostrate-gica, di civiltà.Dal 1960 ad oggi i consumi di acqua si sono triplicati. Dal 1996 stiamousando più della metà delle acque di superficie che restituiamo inquinatedalle nostre attività.Nel mondo, le falde fossili non rinnovabili sono pressoché all’esaurimento.In Arabia Saudita lo sono completamente, mentre nel Magreb l’esauri-mento è previsto entro 40 anni.L’acqua è più scarsa, l’acqua è più inquinata, l’acqua è più sprecata.La parte del leone nel prelievo dell’acqua la fa l’agricoltura con il 70% delprelievo, il 20% va all’industria e il 10% alle attività domestiche e di svago.In definitiva, l’acqua potabile giornaliera pro-capite disponibile è passata,negli ultimi 40 anni, da 17.000 metri cubi a 7.500 metri cubi. È ancora suf-ficiente per tutti gli abitanti della terra (si considera che 1.700 metri cubiè il minimo oltre al quale una società entra nello stress idrico, dopo 1000metri cubi si entra in un regime di conflitto idrico) ma a condizione che siaffermino in fretta principi diversi da quelli dominanti oggi. E non bastaregistrare la diversa distribuzione territoriale delle risorse idriche sul pia-neta; ancora una volta occorre fare i conti con l’iniqua distribuzione deiconsumi e la totale assenza di una cultura e di una politica solidale e col-lettiva tra e verso tutti gli abitanti della Terra. Occorre ricordare che il 20%della popolazione, quella che detiene l’86% delle ricchezze del pianeta,consuma anche l’88% dell’acqua disponibile. Una automobile necessitadi 400.000 litri d’acqua per la sua fabbricazione e il 70%, più o meno,del parco automobili è concentrato nel Nord del mondo.Una tonnellata di cereali necessita di 1.000 tonnellate d’acqua ed è benericordare che il 60% delle terre irrigate nel mondo serve per alimentarel’11% della popolazione più ricca, ed il 70% della produzione agricolaserve all’alimentazione animale, per fornire carne alla tavola dei ricchi.L’acqua è perciò un problema, un problema moderno e non più eludibileda uomini, donne e istituzioni mondiali, nazionali e locali.È un problema che in forme diverse coinvolge tutti i paesi.Se nei paesi del sottosviluppo è la carenza d’acqua o la sua potabilizza-zione il problema di fondo, nei paesi sviluppati i problemi sono quelli del-l’inquinamento, della contaminazione, dello sperpero e del prelievo abusi-vo d’acqua sia di falda che di superficie, per effetto di una agricoltura chi-mico-intensiva, dell’industria e delle discariche più o meno abusive di rifiu-ti tossico nocivi gestite dalla criminalità organizzata in un quadro di inte-

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ressi e connivenze con le istituzioni e le imprese.Nel nostro paese sono più di 3000 i siti da bonificare censiti ed altre deci-ne di migliaia sono del tutto sconosciuti, una vera e propria bomba atempo per il patrimonio idrico.Si pensi che in Italia solo il 20% delle acque di superficie risulta non inqui-nato. Le acque di prima falda utilizzate negli anni ‘50 negli acquedotti muni-cipali di molte città, come Milano, ricche di risorgive (fontanili), sono stateda tempo abbandonate perché irrimediabilmente inquinate. Oggi a Milanosi pompa in terza falda, a 120 metri circa, e si corre il rischio che un prelie-vo eccessivo comporti il richiamo di acqua inquinata dalle falde superiori.A questi problemi strutturali, legati agli insostenibili modelli produttivi econsumistici, si aggiungono gli incredibili sprechi di un’amministrazionedella cosa pubblica piegata ai più disparati interessi privati e clientelari ead una propensione consumistica dei cittadini, ancor più esasperata rispet-to ad altri paesi.L’Italia preleva il 32% delle proprie disponibilità idriche, contro il 20%della media europea; è, con 980 metri cubi di prelievo annuo pro-capite, laprima consumatrice d’acqua in Europa e la seconda nel modo dopo gli USA.L’Italia detiene il primato anche nel consumo per uso domestico, 250 litripro-capite al giorno, contro i 160 della Germania, ed è la maggior consu-matrice di acqua minerale della comunità Europea. L’acqua dei rubinetti sipuò imbottigliare e mettere sul mercato, cosa che la Parmalat si è subitoaffrettata a fare con la dicitura “acqua da bere”. Il risultato è semplice: lastessa acqua del rubinetto, quella dell’acquedotto pubblico che normal-mente paghiamo, depurazione compresa £. 1,3 al litro, la beviamo in regi-me privato e in bottiglia a 1- 2 euro al litro, con buona pace delle multi-nazionali come la Nestlè e la Danone che controllano il 35% delle acqueminerali. È solo questione di pubblicità. Poi si riesce a far bere ciò che sivuole al prezzo che si vuole.E poi c’è Coca Cola che controlla le acque purificate, le acque per i poveriche non hanno l’accesso all’acqua potabile, che costano care, carissime perchi vive in una favellas, ma che è l’unica soluzione se non si vuole morire.L’acqua come il petrolio, ha le sette sorelle del servizio idrico: già esistonoe già sono all’opera, si chiamano Suez des Eaux, Vivendi, Thams Water,RWE, Agua de Barcelona; ACEA di Roma (51% del Comune), che deter-minano i negoziati GATS della OMC, le direttive Europee come laBolkestein, le leggi come la Galli e il famigerato art. 35 che rende obbli-gatoria la privatizzazione dei servizi idrici in Italia e in generale detemina-no tutta la politica delle privatizzazioni.

La seconda questione è: chi governa il mondo?Pensate a quanto successo dal 16 al 22 di Marzo 2006: 148 governi ditutto il mondo, molti dei quali occidentali, evoluti, giudaico - cristiani comesi usa dire oggi, sono accorsi a Città del Messico su invito del ConsiglioMondiale dell’Acqua, un organismo internazionale PRIVATO, presieduto da

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un esponente delle maggiori multinazionali dell’acqua PRIVATE e per 7giorni hanno discusso su come definire l’accesso all’acqua potabile.Ebbene, hanno deciso che non è UN DIRITTO UMANO.Terribile no? Da rimanere senza parole, dal punto di vista religioso potreb-be essere addirittura blasfemo.Eppure questo è il segno del degrado cui è giunta nel nostro tempo la poli-tica mondiale: annullata, disumanizzata e corrotta dentro le compatibilitàneoliberiste. La politica non esiste più, si piega alle volontà di AcquaFed,l’associazione delle multinazionali PRIVATE dell’acqua, alla BancaMondiale, al WTO. E lo fa dichiaratamente, perché gli stessi commissaridella UE presenti a Città del Messico, che pure erano vincolati da una riso-luzione del Parlamento europeo, hanno dovuto ammettere che gli interes-si in gioco erano troppo forti. Hanno ammesso di aver subito forti pressio-ni dalle corporations. Altrettanto esplicito è stato il ricatto dell’accesso aifinanziamenti da parte della Banca Mondiale sui paesi poveri, proprioquelli ai quali l’accesso all’acqua viene negato da simili decisioni.Guardate che non è stata questa una disquisizione metafisica. Se in quel-la sede si fosse riconosciuto all’acqua lo status di diritto umano, tutte leistituzioni pubbliche, dall’ONU ai 148 governi presenti a Città del Messico,fino all’ultimo dei municipi di questo nostro mondo, sarebbero statiOBBLIGATI a garantire tale diritto a tutti i 6 miliardi di persone che lo abi-tano, compreso quel miliardo e quattrocento milioni al quale è negato everso il quale proprio questo Forum ha dichiarato di non poter mantenerenemmeno l’impegno preso nel 1° Millennio (1995 - 2005) di portare lorol’acqua, e quello più modesto preso nel secondo millennio (2005 - 2015)di portare l’acqua ad almeno la metà degli esclusi.Se si fosse deciso per il diritto umano, il Forum non avrebbe dichiarato ilproprio fallimento, sostenendo che, per realizzare gli obbiettivi fissati nel2005, mancano 200 miliardi di dollari all’anno, perché i governi dei paesiricchi hanno destinato solo il 5% del necessario, perchè i privati non dirot-tano i loro capitali a questo fine se non viene loro garantito di poter farelauti guadagni e quindi far pagare cara l’acqua a cittadini e campesinos.Se si fosse deciso per il diritto umano, il Dott. Slim rappresentante messi-cano, nelle sue conclusioni, non avrebbe potuto dichiarare:” il dirittoumano all’acqua non è un problema.... basta che lo si paghi”.Ecco questa potrebbe essere la risposta su chi comanda il mondo: le cor-porations. E la partita che giocano è la mercificazione della vita.Ma è anche la dimensione della crisi politica in cui siamo precipitati edalla quale rischiamo di essere travolti.Siamo tutti chiamati ad una grande riflessione, non solo i partiti, ma tuttinoi e ancor più se penso in quale disperante situazione sembra esserecaduto il mondo quando in qualunque paese si va a votare.Quale dimensione della politica suscita le nostre passioni? Per quali pro-blemi o diritti ignorati ci agitiamo, ci indignamo? Per cosa votiamo?Per le tasse! Non c’è candidato che non prometta di diminuirle.

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Quale concezione del diritto e dei doveri abbiamo, cosa mettiamo oggi incima alla scala delle nostre priorità?...il nostro particolare, legato al nostroessere occidentali, presunti sazi e presunti colti, al nostro concetto di cul-tura di progresso, di modernità, al nostro stile di vita? O il loro, quello deglialtri? Quello degli esclusi, quello di tutti?Oggi nel tempo dell’esaurimento delle risorse, la questione dell’accesso aibeni comuni fondamentali come l’acqua, l’aria, la terra, l’energia, la cono-scenza, come idea di accesso ai diritti umani universali, o è assunto dallapolitica e dalla cultura giuridica e costituzionale, o mette profondamentein discussione il nostro stesso vivere civile.Da decenni la questione dell’accesso all’acqua potabile per 1,4 miliardi el’accesso ai servizi sanitari per 2,5 miliardi di persone sta in cima alle emer-genze planetarie indicate dalle Nazioni Unite.Da decenni l’ONU indica nella soluzione di queste emergenze l’ordine deiproblemi che deve affrontare questo nostro mondo.Da anni il ridursi drammatico della disponibilità di acqua dolce non inqui-nata nel mondo, assieme all’aria, ai mutamenti climatici e alla fine deicombustibili fossili, è l’indicatore principale della crisi ambientale dentrola quale già ora stiamo affondando.Da anni i rapporti ufficiali sullo Stato del Pianeta ci parlano di più di 100milioni di profughi idrici in fuga dalla sete, dall’impossibilità di produrrecibo e di lavorare per mancanza d’acqua, di desertificazione, di 30000morti giornaliere, la maggioranza dei quali bambini, per cause risalentiall’acqua insalubre. Ci parlano di conflitti endemici come quello israelo -palestinese che rischiano di incendiare il mondo, di acqua conquistata,comprata e venduta sulla testa delle comunità.La stessa questione dell’energia, nel tempo della fine del petrolio, ponecon l’urgente violenza della guerra, la necessità di definire nuove regoledel diritto all’accesso per tutti, di nuovi modelli energetici, di gestionidemocratiche e partecipate dalle comunità, ma anche di ridistribuzioneuniversale della risorsa. Ma se questo vale per le risorse energetiche, pen-sate all’acqua. Pensate quale livello di democrazia e di partecipazionenecessita questo bene dal momento che diventa raro. E pensate a qualeprofonda rivoluzione culturale della politica ci chiama.Chiediamoci: come risponde la politica a questi problemi? Escludendo ildiritto umano e mercificando universalmente i beni comuni stessi, conse-gnandoli al mercato, alle corporations, ai loro brevetti, svendendo tutto:acqua, aria, sole fossile e quote di emissioni inquinanti, materiale geneti-co, gas, carbone, petrolio, spiagge, foreste, fiumi, territorio, saperi, forma-zione, ricerca.La mercificazione di questi elementi fondamentali della vita ci da un po’ ilsenso di un capolinea della possibilità del vivere assieme, cosa determina ilconsegnare tutto nelle mani del privato, di colui che priva...che priva gli altri.Questo irrompere del culto delle privatizzazioni nella testa delle persone èdevastante, ci fa perdere ogni nozione di riconoscimento dell’altro, ci fa

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dimenticare che l’altro siamo noi, che ognuno di noi è quel custode e quelcustodito che è nella domanda di Caino a Dio: sono forse io il guardianodi mio fratello?Ed è la domanda implicita nel contratto sociale che si scrive per poter vive-re assieme, per non dilaniarci.Pensiamo a noi stessi e al fatto che tutta la nostra passione politica, tuttala nostra capacità di indignarci, tutti i nostri scontri elettorali non sannoguardare più in là dei nostri desideri e dei nostri hobby che scambiamo perdiritti. Non guardiamo più in là della nostra ricchezza, delle nostre tasse,dei problemi delle nostre (occidentali) coppie di fatto, delle nostre fecon-dazioni eterologhe e dei nostri pacs. Cose Importantissime, ma forse nonci rendiamo conto di quanto anche noi e non solo la politica, siamo lon-tani dai problemi del mondo, quanto dobbiamo rifondare la nostra cultu-ra politica, quanto dobbiamo interrogarci su quale “mission” per i partiti eper la politica, oggi nel XXI secolo.Il secolo che ci lasciamo alle spalle è stato un secolo di orrori, di guerremondiali, di Gulag e di campi di sterminio, ma è stato il secolo della demo-crazia, della partecipazione di grandi masse alla politica, dei grandi parti-ti di massa, è stato il secolo di grandi sogni collettivi e delle grandi mis-sion” della politica, le mission dei diritti sociali, dello stato sociale, dellostato di diritto, della sanità pubblica, della scuola pubblica, della riformaagraria, della casa popolare, della nazionalizzazione dell’energia.È stato il secolo delle “grandi opere” dello stato che portava pubblica-mente nelle case quel piccolo aggeggio che si chiama rubinetto, e porta-va il gabinetto, la rete idrica, la rete fognaria il servizio idrico o elettricopubblico, e con questo la luce, l’acqua sana, i bambini che non morivanopiù di gastroenterite, portava la responsabilità locale, quella del sindaco,del suo controllo; un grande passaggio di civiltà, una grande affermazio-ne non dichiarata ed esplicitata nel diritto umano all’acqua e ai serviziigienici, ma comunque assunta da tutta la politica di destra o di sinistra.Nel 1960, con il primo centro sinistra, la missione fu quella di nazionaliz-zare l’energia elettrica e portare anche nel più piccolo e sperduto villaggiola rete e il servizio elettrico pubblico, controllato, municipale, sotto laresponsabilità del sindaco. Oggi qual’è la mission della politica? Quella disuicidarsi, svendendo tutto questo al privato, ad una Multinazionale mul-tiutility, consegnando tutti gli sforzi della collettività al mercato e al profit-to di una SPA, giustificando tutto questo con l’ammissione di una propriaincapacità a gestire la cosa pubblica e di una propria propensione alla cor-ruzione.

Anche questo è un terribile segno dei tempiEppure sono questi gli argomenti con i quali in tutto il mondo la politicamotiva oggi la privatizzazione dei servizi idrici, la messa in bottiglia del-l’acqua degli acquedotti, la svendita delle reti elettriche telefoniche, delgas, degli ospedali, dei treni, degli aerei, dello smaltimento dei rifiuti, dei

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servizi cimiteriali, delle refezioni scolastiche, della scuola, della ricerca, del-l’informazione, la superiorità del privato, dell’interesse individuale su quel-lo collettivo, che porta la politica a privatizzare il territorio a dare in con-cessione per decenni il patrimonio storico ed artistico di un paese, monu-menti, musei, isole, fiumi, sorgenti, foreste. Tutto da consegnare a multi-nazionali-multiutility, quotato in borsa, immesso nel tritacarne della spe-culazione finanziaria.Il diritto umano? Basta che si paghi! Il Sud del mondo non ha servizi idri-ci? Basta applicare il principio di condizionalità, ovvero ti portiamo il ser-vizio idrico a condizione che lo privatizzi.La politica, il bene pubblico? Basta che si quotino in borsa, basta che ilcomune, la provincia, l’ATO ( ambito territoriale ottimale) divengano azio-nisti di maggioranza di una SPA, in una parola basta che la politica e leistituzioni, diventino consigli di amministrazione, si privatizzino loro stessie con essi privatizzino la democrazia. Basta che il pubblico, la res pubbli-ca, si ritirino dalla società, per lasciare sempre più spazio al PRIVATO.Oggi non meravigliamoci se 148 governi negano che il diritto all’acqua siaun diritto umano e accorrano ad un Forum promosso non dalle NazioniUnite, ma da multinazionali private e sottostiano senza vergogna alle suedecisioni. Il nodo stà quasi tutto qui.Oggi attorno al nesso dei diritti umani fondamentali, dei beni comuni edel loro esaurirsi, si gioca la grande partita della rifondazione della politi-ca o della sua fine.Sono due campi che si delineano, dove i termini destra e sinistra perdonoi vecchi connotati e hanno bisogno di essere riscritti attorno al nuovo para-digma dei beni comuni.Quando i contendenti alle elezioni si rimproverano di non avere fattoabbastanza privatizzazioni o fusioni tra SPA e di non essersi sufficiente-mente ritirati dall’economia...ebbene entrambi si collocano nel campodella non politica, si affidano alle decisioni di organismi e istituzioni eco-nomiche e finanziarie, al mercato privato, svuotano le istituzioni elettivedella democrazia, delle quali sono i rappresentanti: i parlamenti, i consiglicomunali, provinciali regionali, le stesse Nazioni Unite. La politica a comin-ciare da quella urbana (dai piani regolatori, su fino alle leggi, le direttiveeuropee e gli obbiettivi del millennio), risulta già vincolata e decisa.Viviamo il tempo dell’esaurimento delle risorse e dei beni fondamentali equesto è il dato da cui dobbiamo partire.Tutta la nostra società, il nostro stile di vita, la nostra crescita economicaillimitata, si è basata e si basa sul petrolio e non posso non interrogarmi.Di petrolio non ce n’è più, di gas quasi, il carbone non può sostituirli, ètroppo inquinante per l’aria e influenza i mutamenti climatici. L’idrogenonecessita di energia, che non c’è, per poter essere utilizzato e necessita digrandi quantitativi di acqua, che scarseggia, e necessita della manomis-sione dei sistemi idrogeologici.Il recente Forum di Stoccolma sullo stato dell’acqua nel pianeta, ha messo

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la parola fine all’idea dell’acqua dolce come “risorsa rinnovabile”, ne haevidenziato la scarsità. Ha affermato che i ghiacciai si ritirano non soloalle calotte polari, ma anche sulle Alpi. Ci ha dipinto scenari di falde pro-sciugate o irrimediabilmente inquinate, di fiumi che non arrivano più almare e ci segnala in particolare il disastro idrico dei due colossi delmodello di sviluppo liberista nel mondo: la Cina e gli Stati Uniti. Ci diceche in Europa i paesi a rischio sono la piovosa Gran Bretagna e la superagrochimicizzata Spagna.Ma anche l’Italia del Nord non sta bene: questa estate la città di Varese èstata rifornita d’acqua con le autobotti perché i pozzi erano asciutti, ilgrande Po era in secca e il presidente della regione Lombardia si è trova-to nel dilemma di dover scegliere se aprire le chiuse degli invasi delle cen-trali idroelettriche per rifornire gli agricoltori della Lombardia o tenerlichiusi per fornire energia alle aziende lombarde.Esaurimento e mercificazione - privatizzazione dei beni comuni e della vita,di nuovo i due campi, da una parte creano una nuova geografia, con nuoviconfini: la geografia dei conflitti e dell’esclusione. Creano la geografia deimuri, quello di Israele con la Palestina, degli USA con il Messico assetatocui hanno scippato il Rio Grande e il Colorado, il muro di Johannesburg,elettrificato e armato che chiude le cittadelle dei ricchi separandole dalleorrende bidonvilles dei neri senza acqua potabile. Dall’altra il campo dellatutela dei beni comuni, del loro risparmio nei consumi, del loro recupero,della loro equa ridistribuzione, della loro gestione partecipata e solidale.Delineano un nuovo salto nella civilizzazione umana.Il diritto all’acqua, all’aria, al cibo, come difesa dei bacini, dell’aria, dellaterra, devono entrare nelle costituzioni. Il diritto umano a questi beninecessita che il soggetto UMANITÁ venga definito giuridicamente e rico-nosciuto universalmente, che questo soggetto e il conseguente DIRITTOdel quale è portatore, entri anch’esso nelle costituzioni e nella cultura giu-ridica, abbia istituzioni che lo rappresentino, tribunali che lo amministrino.Oggi i diritti sono quelli riconosciuti ai cittadini di uno stato. Siamo soloall’inizio di questo salto culturale. Si pensi che solo nel Belgio alcuni cri-mini contro l’umanità vengono perseguiti ovunque vengano commessi eda chiunque vengano commessi.I movimenti cominciano solo ora a dotarsi di tribunali che esemplarmenteperseguono crimini sulla povertà, l’accesso all’acqua, la nuova schiavitùecc... Il Tribunale Latinoamericano dei crimini contro l’acqua, è un buonesempio.Il paradigma del Diritto umano e dei Beni Comuni, ci obbliga nel campodefinito dal limite delle risorse, ci obbliga a prendere in mano collettiva-mente, e quindi pubblicamente, la politica del territorio, dei servizi essenzia-li, della sicurezza in tutti i campi, da quella alimentare a quella dei disastriambientali, delle infrastrutture necessarie all’insieme della società. Di qualigrandi opere ha bisogno il mondo? La TAV o le reti idriche?Ci obbliga a definire la sfera dell’economia pubblica, cioè di quale fiscali-

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tà comunitaria generale ed universale ci dobbiamo dotare e delle istitu-zioni condivise e rappresentative che la governano, i criteri di solidarietà ele leggi che li devono sorreggere. I diritti umani e i beni comuni ci obbli-gano a guardare la comunità attorno a nuovi confini, magari a quelli deibacini idrografici da cui tutti dipendiamo per vivere, al di là della lingua,della religione e dei confini politici, al di là del se abitiamo a monte o avalle, o su una riva o l’altra di un fiume.Ecco, rifondare la politica oggi, riempire di azioni il cammino dei dirittiumani, non è la fine del capitalismo e la presa del potere, non è l’assaltoal Palazzo d’Inverno dei nuovi zar, è però una rivoluzione che dobbiamofare prima di tutto su noi stessi, figli del tempo della competizione, del-l’autoreferenzialità, e poi la dobbiamo fare sui partiti, sul personale-politi-co, le istituzioni. La dobbiamo fare scoprendo che si può vivere anche da“generosi”, ci si può tirare anche indietro dalla corsa alle cariche, si puòlavorare per spirito di servizio.Lo dobbiamo fare scoprendo che si può partecipare e che partecipare nonè una noia, ma è bello e rende più appassionata la nostra vita.D’altronde abbiamo forse alternative?Credo di no. O ci mettiamo d’impegno a scrivere il CONTRATTO PER VIVE-RE assieme su questo pianeta o temo che siamo destinati a dilaniarci atempi brevi nella GUERRA INFINITA.

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SCHEDA 2

“Benvenuti nell’Antropocene! L’uomo ha cambiato il clima. La Terraentra in una nuova era”

Si chiama Antropocene ed è la prima era geologica in cui una sola speciegoverna l’evoluzione e modifica in modo radicale il ciclo dell’acqua comequello del carbonio, la concentrazione dell’ozono come quella del piombo.Questa specie è l’homo sapiens, abbastanza tecnologico da modificare ilpianeta ma non abbastanza saggio da pilotare il cambiamento: buonaparte delle modifiche è involontaria e minaccia il futuro dell’umanità. È latesi sostenuta in un libro uscito per i tipi della Mondadori: “Benvenutinell’Antropocene!”, con il sottotitolo “L’uomo ha cambiato il clima. La Terraentra in una nuova era”. Lo firma Paul Crutzen, che nel 1995 ha vinto ilNobel per la chimica per le sue ricerche sull’ozono.“Nel secolo scorso la popolazione è quadruplicata fino a raggiungere i 6miliardi di individui attuali”, scrive Crutzen. “La superficie coltivata è rad-doppiata, quella irrigua è quintuplicata, la produzione industriale èaumentata di 40 volte, mentre diminuivano le foreste e le specie dei gran-di animali”.Il prezzo pagato per quest’espansione è stato pesante: l’attività umana haaccresciuto di una o due volte l’erosione del suolo rispetto ai ritmi natura-li degradando circa due miliardi di ettari, una superficie che equivale allasomma di Stati Uniti e Canada.In poco più di due secoli, l’Antropocene ha lasciato un’impronta deva-stante sull’equilibrio del pianeta. Ad esempio nel 1970 la quantità diazoto fissata dall’uomo, attraverso l’uso di fertilizzanti, era pari a circa 90milioni di tonnellate l’anno (un intervento analogo a quello della natura):oggi si è arrivati a 120 milioni di tonnellate. Buona parte di questi ferti-lizzanti va a inquinare le falde idriche e ad esasperare i processi di eutro-fizzazione di laghi e fiumi.Se l’azoto abbonda, l’acqua scarseggia in 80 paesi che ospitano il 40 percento della popolazione mondiale. Il consumo globale di acqua è triplica-to dal 1950 ed è previsto un aumento del 40 per cento nei prossimi ven-t’anni. Il corso dei fiumi è stato stravolto con 45 mila dighe che tratten-gono 7 volte più acqua di quella che si trova nei bacini idrici naturali, mamolti rubinetti continuano a restare a secco.La minaccia più grave, tuttavia, viene dal clima. La quantità di gas serraemessi dall’uomo “ha superato i livelli dell’intero Quaternario e nessuno saquali potranno essere le conseguenze. Il cambiamento, inoltre, è statodecine di volte più rapido dei cambiamenti più bruschi avvenuti negli ulti-mi 740 mila anni (...) I livelli di anidride carbonica e metano sono i più altimai registrati negli ultimi 15 milioni di anni”.L’aumento di temperatura, inoltre, incide anche sul vapor acqueo: “Stiamorendendo il pianeta nel suo complesso più umido e nuvoloso e l’umiditàaggiunta partecipa anch’essa al riscaldamento globale”.

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Il premio Nobel ritiene che nei prossimi decenni il caldo aumenterà e pro-vocherà feedback positivi, cioè reazioni che moltiplicano l’effetto serra:durante l’ultimo periodo interglaciale, circa 100 mila anni fa, il mantellodi ghiaccio che copriva la Groenlandia “si è presumibilmente sciolto.Se il riscaldamento globale raggiungerà i 5 gradi centigradi entro la finedel ventunesimo secolo, come prevedono i calcoli più pessimistici dell’Ipcc,ciò accadrà di nuovo e l’umanità sarà davvero in pericolo: il livello delleacque si alzerà di circa 7 metri, come fece allora, e sommergerà gran partedelle aree abitate”.http://italy.peacelink.org/ecologia/articles/art_10462.html

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SCHEDA 3

Estratto da “Il clima è nelle mani dell’uomo”, UFAFP, Berna, 2005

Nel suo terzo rapporto, l’IPCC ha classificato le previsioni relative all’evolu-zione dei cambiamenti climatici in base al loro grado di probabilità.Si va dalle ipotesi “praticamente certe” (la cui probabilità supera il 99%) aquelle “estremamente improbabili” (la cui probabilità è inferiore all’1%). Leevoluzioni molto probabili hanno un tasso di probabilità tra il 90 e il 99%.Concentrazione di CO2: aumento dal 50 al 170%, rispetto al 2000. Tuttigli scenari prevedono un aumento della concentrazione di CO2; è pratica-mente certo che l’aumento sarà causato principalmente dall’utilizzazionedi combustibili e carburanti fossili.Temperatura: aumento di 1.4-5.8°C rispetto al 1990. L’aumento delletemperature nel XXI secolo risulterà raddoppiato (o addirittura decuplica-to) rispetto ai valori registrati nel XX secolo. Si tratta molto probabilmen-te dell’aumento più elevato mai registrato dalla fine dell’ultima glaciazio-ne.È molto probabile che le temperature massime aumenteranno e che visaranno più giorni caldi e più ondate di calore su quasi tutta la superficieterrestre. È molto probabile che le temperature minime aumenteranno, chevi saranno meno giorni di gelo, giorni freddi e ondate di gelo su quasitutta la superficie terrestre.Precipitazioni: è probabile un aumento delle precipitazioni nelle medie ealte latitudini dell’emisfero settentrionale. Molto probabilmente le preci-pitazioni annuali faranno registrare oscillazioni più pronunciate, con unaumento della tendenza ad inondazioni o siccità. È molto probabile chenumerose regioni verranno investite con sempre maggiore frequenza daforti precipitazioni.Innalzamento del livello del mare: dal 1990 al 2100. Il riscaldamento cli-matico provoca l’innalzamento dei mari, a causa del fenomeno di espan-sione termica delle acque oceaniche. Globalmente, l’innalzamento medioannuo del livello del mare registrato nel XX secolo è stato di 1,8 millime-tri. Poiché lo scambio tra le acque di superficie più calde e le acque pro-fonde fredde è molto lento, l’innalzamento del livello del mare si protrar-rà ancora per diversi secoli. I modelli climatici e i scenari dell’evoluzioneglobale della nostra società prevedono fino al 2100 un ulteriore aumentodel livello del mare da 20 a 70 cm. In concomitanza con le insicurezze con-cernenti l’afflusso di acqua dolce, le previsioni indicano un aumento da 9a 88 cm. (fonte: IPCC)Ritiro dei ghiacciai: nelle regioni alpine, il riscaldamento ha effetti note-voli sulle masse di ghiaccio e sulla copertura nevosa. Da qualche tempo, ighiacciai si stanno ritirando. Negli ultimi 20 anni hanno perso addiritturada un quarto a un terzo del loro volume. Si prevede inoltre che una parteimportante delle masse glaciali ancora esistenti dovrebbe fondere entro lametà di questo secolo. L’aumento delle temperature deteriora anche il per-

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mafrost, ovvero il suolo perennemente ghiacciato che si trova ad altaquota. Negli ultimi cent’anni, il limite inferiore del permafrost è salito di150-250 metri. A seguito dello scioglimento dei ghiacciai e delle masse dighiaccio che si trovano sotto il terreno, vi è il rischio crescente che i pendiie le zone rocciose, finora stabili, si destabilizzino e comincino a franare.Nelle zone in cui il ghiaccio si è ritirato possono formarsi frane di disgrega-zione, che si riversano a valle sotto forma di smottamenti o colate di fango.In caso di scomparsa dei ghiacciai il ricarico delle falde diventerà proble-matico e le sorgenti di acque potabili potranno subire gravi perdite.

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SCHEDA 4

Carta di Monastier, Centro Internazionale Civiltà dell’Acqua

Perché l’acquaL’acqua è simbolo eterno della vita, luogo della indispensabile riconcilia-zione tra l’uomo e la natura, materia primigenia, forza di evoluzione, domi-nio della ricerca scientifica, della sperimentazione dell’ingegno umano edell’ispirazione artistica, condizione per ogni insediamento umano. Eppureoggi è soprattutto merce.Nel mondo “sviluppato” le forme dell’acqua libera sono state sostituite daimeccanismi economici, sociali e urbani dell’acqua intubata. Nel mondodelle povertà, le forme dell’acqua libera vanno drammaticamente spe-gnendosi. L’acqua, fonte di vita, bene indispensabile ad ogni essere viven-te, è sempre più carente e di scarsa qualità. Oltre alla siccità quantitativasi affaccia una “siccità qualitativa”, che può diventare oggetto di graviconflitti, fra diversi utenti a livello locale, fra diverse nazioni a livello inter-nazionale, quando il comune pacifico uso di una risorsa transfrontalieradiventa impossibile. L’evoluzione di tali conflitti, anche nei casi più attua-li, dipende essenzialmente da fattori culturali, dalle diverse percezioni delvalore dell’acqua nei vari contesti etnici e sociali. Lavorare perché questiconflitti si risolvano, non è perciò un compito puramente tecnico; anzi,appare sempre più necessaria una autentica battaglia di idee per unanuova civiltà dell’acqua.

Perché la civiltà dell’acquaPer civiltà dell’acqua intendiamo quell’insieme di conoscenze e di com-portamenti che non solo approfondiscano e allarghino la coscienza criticadegli sprechi e degli abusi dell’acqua in quanto risorsa, ma contribuiscanoa trasformare la scala di valori in uso nella nostra civilizzazione e nell’at-tuale fase storica, e a costruire un nuovo sistema di riferimenti etici e cul-turali necessari ad un uso e ad un governo lungimirante delle acque, e, piùin generale, del territorio, dell’ambiente e del paesaggio. Si tratta di con-tribuire a cambiare radicate consuetudini individuali e collettive, lavoran-do ad una nuova “antropologia dell’acqua”, nella quale emergano il valo-re della natura e il valore della memoria. Tale cambiamento va traguarda-to, nella lunga durata, tra la conoscenza di un passato plurimillenario e lapropensione verso un futuro che assuma la civiltà dell’acqua come pilastroindispensabile di una nuova qualità della vita.L’acqua, la più potente e duratura testimonianza della storia della naturae della storia dell’uomo, diventa così una delle “questioni” attuali piùdrammatiche e una delle sfide più ricche di tensioni immaginative e diimplicazioni economiche politiche sociali.

Perché un centro internazionale per la civiltà dell’acquaOccorrono molte energie, molti investimenti e uno specifico motore di ini-

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ziative per innescare questo processo culturale e ideale, denso di conse-guenze anche nella vita pubblica, nel governo delle città, nella gestionedel territorio, nella cura dell’ambiente e del paesaggio.Il centro non va immaginato come un istituto universitario o un centrostudi, e non si prefigge di occupare spazi già occupati dalle comunitàscientifiche. Il centro va piuttosto immaginato come medium tra cono-scenze specialistiche e loro divulgazione in larghi strati della società. Ilsapere degli specialismi è impotente se non si trasforma in consapevolez-za diffusa della drammatica complessità che la “questione acqua” haassunto nel mondo, così come nel nostro microcosmo. Intendiamo dunquerispondere all’esigenza imperativa di mutamento dei comportamenti econtribuire alla diffusione di una nuova alleanza tra l’uomo e la natura,tesa verso le sfide di oggi e di domani.Il centro va perciò costruito come crogiuolo vivo di attività culturali, capa-ce di:- raccogliere ed elaborare informazioni e documentazioni (libri, riviste, dos-sier, inediti, carte, nastri, ...) scientifiche, culturali e progettuali, che sianoutili per approfondire e diffondere la civiltà dell’acqua;- raccogliere e catalogare testimonianze delle civiltà materiali legate all’ac-qua, salvaguardare e valorizzare la loro memoria, anche attraverso esposi-zioni permanenti, in spazi acquei adeguati, tali da costituire nel tempo unvero e proprio museo dell’acqua;- erogare informazioni scientifiche e normative utili a cittadini e a comu-nità, ad amministratori e legislatori;- diffondere nuovi comportamenti e attitudini verso il patrimonio delleacque, a partire dall’infanzia attraverso la scuola;- segnalare esperienze esemplari, casi emblematici, lavori meritevoli anchericercando sostegni idonei alla loro diffusione;- incentivare studi e organizzare riflessioni su “questioni di confine”, loca-li, internazionali, oltre la rigidità degli statuti universitari, all’incrocio tradiscipline scientifiche, tecnologiche, amministrative, ambientali e paesag-gistiche;- promuovere concorsi, pubblicazioni, progetti sui temi della civiltà dell’ac-qua;- contribuire a riportare l’acqua nell’alfabeto compositivo della città (piaz-ze, spazi aperti, edifici pubblici, scuole, chiese) e della casa (parchi e giar-dini privati);- organizzare manifestazioni culturali, seminari, conferenze, convegni,eventi, esposizioni, campagne mirate tendenti ad approfondire e diffonde-re temi e aspetti locali e internazionali della civiltà dell’acqua;- partecipare a programmi, iniziative e incontri pertinenti promossi daorganizzazioni internazionali.

Monastier, 8 maggio 1996

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SCHEDA 5

Immagini sparse sulle acque della Maggia, dal locale al globale,dalla sorgente al delta

Lungo i circa 50 km di fiume si incontrano situazioni molto eterogenee egli argomenti di discussione sono innumerevoli: paesaggi idroelettrici,deflussi minimi, antropologia dell’acqua, agricoltura, selvicoltura, ecosiste-mi, ecc..

Il ghiacciaio del Basodino, una sorgente del fiume Maggia, è in forte riti-ro. La variazione di lunghezza dal 1892 è di 637m, con una variazioneannua di 5.6m (da Dati, www.ti.ch/usat).Il fenomeno del ritiro dei ghiacciai interessa tutto il globo e, in Europa,otto delle nove regioni glaciali. Si prevede che nelle Alpi svizzere entro il2050 vi sarà la scomparsa di circa 75% dei ghiacciai.

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Foto tratta da: “Introduzione alpaesaggio naturale del CantonTicino”, Museo Storia NaturaleCantone Ticino, 1990

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Nel suo corso medio la Maggia ospita un paesaggio alluvionale dichiara-to di importanza internazionale, grazie alla presenza di un ecosistema atti-vo molto raro a sud delle Alpi. Questi ambienti accolgono una ricchissimaquantità di specie floristiche e faunistiche: in solo lo 0.25% del territoriosvizzero si trovano oltre 1200 specie floristiche, pari al 40% della floraelvetica. Si tratta di territori preziosissimi e sempre minacciati da arginatu-re o correzioni fluviali. Nel corso degli ultimi anni, si assiste a un’inversio-ne di tendenza e si parla di rivitalizzazione e rinaturalizzazione del corso

d’acqua. Si riscopre il ruolo degli ecosistemi naturali anche in chiave disicurezza, di paesaggio, di valenza ambientale e naturalistica. Forse è unsegnale di speranza.

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Golene del fiume Maggia, (fotoP. Gianoni)

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L’immagine a destra riporta uno schizzo di come veniva visto il fiume nellasua parte deltizia prima della correzione e della bonifica. È interessantevedere come vi sia una restituzione figurativa antropomorfa, quasi ariprendere il carattere femminile in senso fondante, generante che carat-terizza l’acqua. A sinistra invece la linea diritta, dominate e razionale datadalla tecnica, dall’annullamento della complessità legata a un corso d’ac-qua attraverso la sua costrizione in argini. Si tratta di recuperare anche nel-l’atto del progetto la dimensione profonda legata alle acque, le sue dimen-sioni immateriali e vitali che purtroppo la tecnica ha annullato.

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Le due figure sono tratte da: “Learginature del fiume Maggia”,Alfonsito Varini, 1971.

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PremessaNel primo volume del Man’s Role, editato 50 anni fa negli Stati Uniti conl’obiettivo di evidenziare il ruolo dell’uomo nella modificazione del pae-saggio, un brillante capitolo sull’evoluzione o involuzione dei suoli vienerealizzato da tre autori: Slope and soil changes through Human Use è iltitolo, e Arthur N. Strahler cura il paragrafo The nature of induced erosionand aggradation; si deve poi a Luna B. Leopold Land use and sedimentYield, mentre William A. Albrect cura la stesura del contributo Phisycal,chemical, and biochemical changes in the soil community. Con gli stru-menti del periodo, viene tracciato un quadro delle conoscenze sugli aspet-ti della degradazione, ma soprattutto diffusi i metodi di analisi e valuta-zione dei suoli, tuttora validi.Non è un caso che l’esigenza di un volume come il Man’s Role sia statasentita 50 anni fa: spiriti illuminati avevano già la percezione dell’attivitàparticolarmente disastrosa che l’Uomo iniziava ad avere sugli ecosisteminaturali e quindi anche sui suoli.In effetti, a partire dalla comparsa dell’Uomo sulla terra, il suolo ha pazien-temente svolto le sue funzioni di ecosistema naturale destinato a produr-re beni e servizi per tutta l’umanità. Ma, come è accaduto per le altre risor-se primarie, i guasti per l’ecosistema suolo sono divenuti particolarmenteevidenti a partire dalla seconda metà del XX secolo, quando in quasi tuttigli angoli del mondo, l’incremento delle necessità dell’uomo, sospinto dauna società sempre più tecnologica, ha determinato uno sviluppo agrico-lo, industriale ed urbano che ha fortemente inficiato la capacità dei suolidi produrre beni e servizi in quantità e qualità. In molti casi la pressionedell’uomo sui suoli è stata di intensità tale da trasformare l’ordine pedo-logico, che per i suoli rappresenta la norma, in una totale disorganizzazio-ne, nel Caos pedologico e, di conseguenza nell’annullamento della diver-sità dei suoli (Dazzi, 2002, 2005).Il dibattito scientifico che si è sviluppato in questi ultimi anni sugli aspet-ti relativi al ruolo dei sistemi-suolo negli equilibri ambientali, ha consenti-to di attribuire ai suoli proprietà e concetti che comunemente, vengonoattribuiti agli esseri viventi, quali ad esempio quello di erosione genetica(Dazzi, 1995) e quello di pedodiversità (Dazzi, 1995; Dazzi e Monteleone,1999, 2002; Ibañez et al., 1995).Ciò è avvenuto in concomitanza con l’accresciuta consapevolezza che il

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I SUOLI ANTROPOGENICI. NUOVA FRONTIERA DELLA PEDOLOGIA

Sergio Vacca, Andrea Buondonno, Carmelo Dazzi, Gian Franco Capra

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suolo non è più un ambito esclusivo dell’agricoltura. Espletando funzionisia biotiche che abiotiche (Blum & Aguilar Santelises, 1994), il suolo èdivenuto una componente vitale dei processi e dei cicli ecologici, l’utile fil-tro delle nostre acque sempre più inquinate, la base su cui poggiano lenostre infrastrutture, il ricettacolo dei nostri rifiuti, il mezzo attraverso cuigli archeologi, con l’aiuto dei pedologi, leggono la storia dell’Uomo.Purtroppo, l’homo tecnologicus, discendente dell’homo sapiens, costretto avivere in città sempre più grandi ed a lavorare a velocità sempre maggiori,ad alimentarsi fisiologicamente nei “fast food” ed intellettualmente dalweb ed a respirare air conditioned in uffici ipertecnologici e loft semprepiù impersonali, quasi mai si ferma a riflettere su quanto il suo benesseresia fondamentalmente connesso al suolo: lo usa ma soprattutto ne abusa,marcando ogni angolo della terra con la sua impronta (Dazzi, 2006).

Dinamiche e diversità del sistema suoloComunemente l’Uomo considera il suolo come uno dei componenti piùstabili ed immutabili dell’ambiente. Esso è invece, un sistema dinamico ei suoi studiosi, i pedologi, lo concepiscono come tale: un sistema aperto,in continua trasformazione, a volte veloce, di regola molto lento, che rice-ve e cede materia e quindi energia, originando nuove dinamiche e orga-nizzandosi in nuove strutture (Smeck et al., 1983).Il suo modello genetico più noto ed utilizzato è un modello fattoriale(Jenny, 1941), che considerando i suoi agenti di formazione, indica che isuoli (S) sono funzione di cinque fattori: clima (cl), organismi (o), morfolo-gia (r), substrato (p), e tempo (t), che ne definiscono lo stato e la storia.Questi fattori, definiti pedogenetici, non rappresentano cause, forze o pro-cessi (Amundson & Jenny, 1991) ma costituiscono delle variabili che con-trollano le caratteristiche del sistema suolo e sono pertanto considerati“fattori di stato”.La considerazione di tale modello su base più ampia, consente di limitar-lo a tre soli fattori: lo stato iniziale del sistema (Lo), i potenziali di flussoesterni (Px) e l’età del sistema stesso (t). Così, per i suoli, l’equazione gene-rale dei fattori di stato assume la forma: S = f (Lo, Px, t).I flussi esterni sono essenzialmente determinati dal clima e consideranotra gli altri la radiazione solare, il trasferimento di calore, i flussi idrici, lacolluviazione, la presenza di bioti. Lo stato iniziale del sistema, oltre chedalla morfologia, è definito dalla composizione chimica, fisica, mineralogi-ca e dalle caratteristiche della roccia originaria.L’evoluzione del suolo e la sua perfetta organizzazione dipende pertantoda una ininterrotta circolazione di flussi di energia all’interno del sistemastesso, ove si svolgono fenomeni di autoregolazione interna e di equilibriocon l’ambiente esterno molto delicati e governati dalle immutabili leggidella Natura.Si intuisce pertanto come non esiste “il suolo” ma “tanti e diversi tipi disuolo” in dipendenza delle molteplici azioni, reazioni e trasformazioni di

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1 In effetti, essendo il suolo unsistema aperto, l’entropia flui-sce verso i sistemi circostanti, eciò, in sintonia con la secondaLegge della Termodinamica.

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energia che avvengono in essi per addizione, perdita, trasformazione etraslocazione di materia (Dazzi, 1995).I differenti tipi di suolo rappresentano degli esemplari unici (come unicisono gli esseri viventi) ciascuno caratterizzato da una perfetta organizza-zione, un ben definito ordine, frutto della infinita possibilità di combina-zione dei fattori della pedogenesi e dei processi di evoluzione del suolo.Il concetto di differenza, di diversità applicato al suolo, è probabilmentetanto vecchio quanto lo è la stessa Pedologia come scienza (Ibañez, 1996)ed è stato, ed è implicitamente impiegato nelle fasi del rilevamento pedo-logico. Il pedologo rilevatore infatti, nell’identificare e rappresentare idiversi tipi di suolo che compongono il paesaggio, riconosce che certiambienti sono pedologicamente più ricchi e diversificati rispetto ad altried i suoli al loro interno hanno peculiarità e caratteristiche anche moltodiversificate, così come accade per l’insieme degli esseri viventi.Ciononostante, mentre in difesa della diversità delle specie viventi, negliultimi decenni sono stati lanciati vari gridi di allarme, la salvaguardia delladiversità dei suoli e dei paesaggi ha ricevuto e continua a ricevere scarsaattenzione da parte dei ricercatori di tutto il mondo. Ciò per molti versi sor-prende, poiché occorre considerare che per ogni variazione delle caratteri-stiche dei suoli si determinano profonde ripercussioni qualitative e quan-titative nel paesaggio che sono sempre di segno negativo. È per tale moti-vo che nella definizione e stima del valore ecologico del territorio, occor-rerebbe sempre considerare la diversità del suolo che, su base temporaleumana, rappresenta una risorsa naturale non-rinnovabile (Dazzi, 2001).

L’Ordine nel sistema suoloIl suolo va quindi considerato come un sistema aperto che, in un’ottica ter-modinamica, si sviluppa mediante scambio di materia e di energia conl’ambiente esterno. La lenta, ordinata trasformazione del substrato pedo-genetico in un “pedon” orizzontato, determinata dai flussi di energia e dimateria, conduce concettualmente ad un decremento dell’entropia e quin-di ad un aumento dell’ordine nel sistema suolo.In modo meramente speculativo (Smeck et al., 1983), è possibile conside-rare il contributo dei processi di formazione per ciascuno degli Ordini disuoli previsti dalla Soil Taxonomy (Soil Survey Staff, 2006), ognuno deiquali presenta una caratteristica e ordinata configurazione. Così, ad esem-pio, il processo della lisciviazione che comporta la traslocazione di alcunicostituenti (argille, sostanza organica, ossidi e sesquiossidi) da un orizzon-te ad un altro favorendo l’orizzontazione, si traduce in un aumento del-l’ordine nel suolo e quindi in una variazione netta dell’entropia negativa1.Allo stesso modo contribuiscono ad organizzare l’ordine nel sistema suoloi processi di evoluzione della materia organica mediante la sua diversifi-cazione e distribuzione nel profilo o ancora i processi di flocculazione,aggregazione e sviluppo della struttura.In questo senso, e globalmente considerati, i processi pedogenetici produ-

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cono per tutti gli Ordini di suolo previsti dal sistema della tassonomia delsuolo (Soil Survey Staff, 2006), cambiamenti netti dell’entropia di segnonegativo e quindi, conducono ad una organizzazione dei suoli ben defini-ta (Fig. 1). Solo la formazione dei Vertisuoli e dei Gelisuoli viene interpre-tata come il risultato di un cambiamento netto positivo dell’entropia:infatti, alla argillo-pedoturbazione ad ed alla crio-pedoturbazione cheaumentano la casualità spaziale dei componenti del suolo, compete uncambiamento netto dell’entropia di segno positivo (Smeck et al., 1983). Siintuisce pertanto come nel campo della Pedologia la norma sia rappre-sentata dall’ordine, cioè dalla perfetta organizzazione che ciascun suolopresenta, e che determina quella diversità che svolge un ruolo di primariaimportanza negli equilibri naturali.

Il concetto di diversità è stato ampiamente utilizzato negli studi ecologicisebbene quasi esclusivamente in relazione alle componenti biotiche. Se siconsidera tuttavia, che esse non sono le sole presenti nell’ambiente, che laloro esistenza dipende anche da un sistema, il suolo, impropriamente con-siderato abiotico, si intuisce come il concetto di diversità, tipico degli esse-ri viventi, possa essere esteso all’ecosistema suolo e possa essere metodo-logicamente misurato in modo simile.Pertanto, così come accade per i tipici regni della diversità (il regno ani-male e il regno vegetale), anche per la stima della diversità del suolo, ilquarto regno della natura secondo la definizione del padre della pedolo-gia Dokuchaev (citato da Boulaine, 1989), occorre tenere conto della rela-tiva abbondanza degli oggetti, considerata dal duplice punto di vista della“ricchezza” (numero degli oggetti presenti cioè, tipi di suolo) e della “equi-ripartizione” (abbondanza relativa di ciascun oggetto che riferita al mondodei suoli ne considera l’area occupata da ciascun tipo).L’indice di Shannon, oltre che in campo ecologico è stato utilmente impie-gato anche come indice di pedodiversità (Ibañez et al., 1995, Dazzi, 2002;Dazzi et al., 2002).

Fig. 1 Cambiamenti relativi del-l’entropia in funzione di specificiprocessi pedogenetici per gliOrdini di suolo del sistemaUSDA (modificato da Smeck etal., 1983)

EluviazioneIlluvuazioneAccumulo disost. organicaFormazione diminerali second.Lisciviazione

PedoturbazioniAlterazione deiminerali primari

Variazioni nettedell’entropia

Neg

ativ

oPo

siti

vo

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2 La stima della pedodiversitàpuò essere condotta con scalecartografiche anche moltodiverse ma, i migliori risultati, siottengono nel caso di rileva-menti a grande scala.

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Esso viene comunemente espresso come:i=n

H’= - ∑ pi x log pii=1

ove “H’” rappresenta l’entropia negativa o diversità della popolazione e“pi” la proporzione degli individui trovati nell’i-esimo oggetto.Per la Sicilia, ad esempio, una delle regioni d’Italia per le quali è disponi-bile una cartografia pedologica a scala regionale (1:250.000)2 il minimovalore dell’indice di Shannon H’ (H’=0,23) che corrisponde ad un valore diequiripartizione E pari a 0,21, si ha per l’associazione n° 19 costituita daTypic Chromoxererts e Typic Pelloxererts, con inclusioni di VerticXerofluvents, mentre il valore massimo di H’ (H’=1,42) che corrisponde adun valore di E pari a 0,88, si ricava per le associazioni n° 3 (LithicRhodoxeralfs, Typic e Calcixerollic Xerochrepts con inclusioni di LithicXerorthents) e n° 21 (Calcixerollic Xerochrepts, Lithic Xerorthents, TypicXerorthents, con inclusioni di Typic e Lithic Rhodoxeralfs) (Dazzi, 2002).L’applicazione di questi metodi ai sistemi pedologici fornisce risultati simi-li a quelli ottenibili dalle applicazioni ai sistemi biotici: la complessità tendead aumentare con la dimensione degli areali pedologici cartografati e conl’eterogeneità spaziale (Ibañez e De Alba, 2000). Tale similarità suggeriscel’esistenza di una possibile legge comune che regola sia i sistemi biotici chei sistemi pedologici (Alvarez et al. , 1998), e consente di riaffermare, anco-ra una volta, la considerazione del suolo come essere vivente.

Il Caos nel sistema suoloL’Ordine che per i suoli rappresenta la norma e costituisce la base della pedo-diversità, può trasformarsi in disordine, nel Caos, in una completa disorga-nizzazione dei suoli con totale annullamento della pedodiversità ad operadell’uomo, elemento di dinamicità negativa della pedogenesi (Dazzi, 2006).Numerose aree del mondo sono oggi interessate da un processo di “enti-solizzazione” (regressione involutiva da suoli complessi a suoli più sempli-ci) alla cui base è l’attività dell’uomo (Fanning & Fanning, 1989).Il problema ovviamente non è da imputare al puro e semplice “boomdemografico” ma, soprattutto, alle diversità nelle spinte consumistiche cheportano circa un miliardo di individui a fruire di un super benessere basa-to su stili di vita che esercitano una fortissima pressione sull’ecosistemaglobale. Questo consumismo è a sua volta legato all’ampliamento delleconoscenze tecnologiche e delle disponibilità energetiche che consentonodi usare ed abusare di sempre maggiori quantità di risorse naturali, fino alpunto di portarle all’estinzione.Ogni anno numerose aree di terreno produttivo dal punto di vista agrico-lo, vengono cementificate o assegnate allo sviluppo. I nostri paesaggi ven-gono deturpati con montagne sempre più alte di rifiuti, alcuni dei qualitossici. Aree vergini vengono rivoltate con l’aratro, anche se, nel miglioredei casi, la maggioranza di esse ha importanza solo marginale.

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Dal punto di vista della pedogenesi la distruzione e/o la creazione delsuolo operata dall’uomo attraverso la manipolazione fisica di “materialiterrosi” sono eventi catastrofici che riportano il suolo al tempo “t0” e, quasisempre, l’area di Entisuoli (suoli di neoformazione) di nuova creazioneottenuta tramite movimenti di terra è all’incirca uguale all’area di suoli piùsviluppati, che viene distrutta (Fanning & Fanning, 1989).Sono questi gli eventi più appariscenti che avvengono durante la costru-zione di strade e autostrade, ma vi sono esempi meno appariscenti maaltrettanto pericolosi per la salvaguardia della pedodiversità: é il caso deisuoli “creati” per seppellire rifiuti di varia origine e natura (Foto 1).Il sistema tassonomico dell’USDA (Soil Survey Staff, 2006) non ha ancorarecepito questo problema anche se sono state avanzate alcune proposte(Sencindiver, 1977; Fanning & Fanning, 1989; Kosse, 1990, ICOMANTH,1995-2006). Maggiore attenzione, invece, é stata posta al problema dallaFAO che, nella Revised Legend della Soil Map of the World (FAO-UNESCO,1990) e, recentemente nell’ultima edizione del World Reference Base forSoil Resources (IUSS-WRB, 2006), ha introdotto il gruppo degli Anthrosolse dei Technosols.In diversi casi, tuttavia, sono proprio le attività agricole che minacciano lapedodiversità e conducono ad una “entisolizzazione” dei suoli cioè ad unaomogeneizzazione spinta delle loro caratteristiche che può, a tutti gli effet-ti, essere considerata alla stessa stregua dell’erosione genetica che restrin-ge il campo di variabilità ed omogeneizza gli esseri viventi. Vaste areedell’Europa mediterranea, ove si è molto diffusa la coltivazione della vite,sono state e sono interessate da un processo di questo tipo (Dazzi et al.,2004, 2006; Pla Sentis et al., 2004). Splendidi esempi di Alfisuoli,Inceptisuoli, Mollisuoli ed Entisuoli, sono stati così profondamente edintensamente rimaneggiati con potentissimi mezzi meccanici per esseremessi a coltura da non potere più distinguere in essi alcun frammentodegli orizzonti originari (Dazzi et al., 2006). In queste condizioni è chiaroche non c’è resilienza del suolo che tenga, poiché nei suoli così ottenutinon si nota più alcuna logica distribuzione degli elementi organici e mine-rali ed ogni connessione fra questi, legata allo svolgersi nel suolo dei flus-si di energia endogeni, viene completamente perduta. Si originano cosìsuoli ma, sarebbe più corretto parlare di masse terrose che rappresentano,secondo il sempre valido assioma di Glinka (citato in Boulaine, 1989), deisubstrati pedologici che hanno bisogno di tempi molto lunghi per orga-nizzarsi in una nuova configurazione pedologica.Tutti quei suoli che, a seguito di un intervento dell’uomo si discostanodalla loro naturale evoluzione o che vengono profondamente modificati oanche “costruiti” per soddisfare esigenze particolari dell’uomo sono consi-derati genericamente “antropogenici” e costituiscono una nuova frontieradi studio e di ricerca della Pedologia, sia perché le modificazioni morfolo-giche, grandemente diffuse sulla superficie del pianeta, comportano lariattivazione dei processi pedogenetici portando nel tempo alla costituzio-

Foto 1 Rifiuti solidi urbanisepolti sotto “materiale terroso”.Oggi è sempre più frequente la“creazione” di “suoli” con profilidi questo tipo (foto Dazzi).

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ne di suoli diversi attraverso una sequenza di protorizzonti e quindi di pro-tosuoli, sia perché la produzione e la diffusione su vaste superfici disostanze di sintesi e di manufatti di varia natura ed origine affianca ai pro-cessi pedogenetici noti e classificati, modifiche e possibili alterazioni, le cuicaratteristiche e dinamiche sono ovviamente ancora sconosciute.

I suoli antropogeniciNell’accezione comune, l’espressione “suoli antropogenici” indica queisuoli formati su paesaggi alterati dalle attività umane, nei quali il profilooriginale è stato modificato e/o distrutto fino ad una profondità di alme-no un metro e nei quali il materiale originale è stato spesso completa-mente sostituito da materiali differenti (Soil Survey Staff, 1994).Tali suoli quindi si originano come risultato del disturbo dei pedopaesag-gi o la deposizione attraverso varie attività umane quali (Sencindiver J. C.,Ammons J. T., 1997):- l’attività mineraria di varia origine e natura;- gli scavi per l’asportazione di sabbia, ghiaia e calcare;- il dragaggio di corpi d’acqua;- la costruzione di strade o altre attività strutturali o infrastrutturali;- la creazione di discariche.Tra i suoli antropogenici, i suoli delle aree urbane (chiamati suoli urbani -urban soils) sono tra i più studiati ed indagati negli ultimi tempi, a causadella loro stretta relazione con l’uomo e con gli ecosistemi antropici.L’interessamento da parte dei pedologi alle problematiche legate a questaparticolare categoria di suoli antropogenici, si manifesta agli inizi deglianni ‘80 del secolo scorso (Wolf, 2000), muovendo dalla ricerca“Conservazione del Suolo” (Aru et al., 1983) promossa dal CNR, seguitadal lavoro di Vacca (1985) nell’ambito più specifico della programmazio-ne territoriale con riferimento anche agli ambienti urbani e periurbani.Negli ultimi tempi a questi studi si sono aggiunte ulteriori ricerche spe-cialmente nel territorio campano, toscano e sardo. Esempi di quanto dettosono i lavori eseguiti da Rutigliano et alii (1993), Di Gennaro et alii(1996), Buondonno et alii (1998) nel territorio metropolitano di Napoli, lericerche di Bretzel che affrontano a più riprese il problema generale dellaqualità dei suoli in ambiente urbano (Bretzel, 1997; Bretzel et alii, 1997a;Bretzel et alii, 1997b). Ulteriori contributi sono nei lavori di Vacca et alii(2003) e Buondonno et alii (2003) rispettivamente inerenti i suoli antro-pogenici di discarica e le alterazioni delle proprietà fisico-meccaniche, chi-miche e mineralogiche in un suolo contaminato da scorie di fonderia. Variesono le attività svolte dall’uomo in ambito urbano che modificano le carat-teristiche fisiche, chimiche o biologiche del suolo. Tali modifiche possonoriguardare (Wolf, 1999):- la compattazione del suolo;- la riduzione degli scambi di gas;- l’eccessiva umidità del suolo ed i problemi di drenaggio;

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- la presenza non adeguata di nutrienti;- la contaminazione del suolo;- le temperature estreme;- l’erosione e il deposito di materiale terroso.

La classificazione dei suoli antropogeniciNei vari sistemi di classificazione pedologica, per indicare i suoli che invaria misura sono influenzati dalle attività dell’uomo vengono utilizzatitermini differenti, a volte equivalenti tra loro e che tendono a privilegiareo l’aspetto genetico o quello naturalistico o quello tecnologico.La dizione suoli antropogenici, attualmente accettata da gran parte dellacomunità scientifica, assume letteralmente il significato di “suoli la cuigenesi è riconducibile alle azioni svolte dall’uomo” (Bryant e Galbraith,2003); la dizione suoli antropogenetici equivale sostanzialmente alla pre-cedente; suolo antropico può essere una variante delle due predette, masembra più adatto ai suoli modificati, piuttosto che “generati” dall’uomo;la dizione suolo antropomorfo viene utilizzata in qualche sistema tassono-mico in analogia ai termini litomorfo, automorfo, calcimorfo e appareambiguo ed improprio; la qualifica di suoli antropizzati (neologismo signi-ficante colonizzato, trasformato, degradato dall’azione umana) segnala inmodo forse troppo generico ed estensivo la presenza nel suolo di segnilasciati da attività umane, senza esprimere una necessaria valutazione delgrado di intensità dei processi; con il termine di suoli tecnogenici si indicainvece un suolo costruito e costituito, o notevolmente caratterizzato dallapresenza di materiali di scarto o residuali, di provenienza prevalentemen-te industriale o mineraria, variamente frammisti a relitti di suolo o di sedi-menti pedologici.L’adozione di una terminologia unificata sembra essere ancora sostanzial-mente lontana nonostante i diversi tentativi effettuati (FAO, 1990; AFES1995; IUSS-WRB, 2006; ICOMANTH, 1997-2006) per proporre alla comu-nità scientifica criteri universalmente validi.In diversi sistemi di classificazione pedologica si è cercato di trovare unpunto in comune tra le visioni prettamente genetico/evolutive o preva-lentemente morfologiche/quantitative con le esigenze tecnico pratiche, inmodo da dare a tali sistemi un impiego sia negli studi scientifici e carto-grafici squisitamente di ricerca, che nelle procedure di valutazione ai finidella gestione dei suoli e del territorio in ottica eco-sostenibile.Diversi sistemi hanno posto in evidenza la definizione precisa di valorisoglia (morfologici, chimici, fisici, biologici), al di sotto dei quali un profi-lo pedologico viene considerato ancora naturale o semi-naturale, al fine dievidenziare le distinzioni fra suoli ad evoluzione pedogenetica influenzata(con modi e gradi diversi), dall’intervento dell’uomo e, suoli completa-mente artificiali o totalmente trasformati. Nel primo caso l’antropizzazioneviene considerata un processo secondario, sovrimposto, epigenetico; nelsecondo, viene considerata un processo decisamente antropedogenetico.

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È evidente infatti, come fra i diversi vantaggi di una classificazione checonsideri dettagliatamente la categoria dei suoli antropogenici, vi siaanche quello concernente la possibilità di attuare una distinzione oggetti-va fra suoli debolmente, parzialmente o, completamente modificati ovve-ro totalmente prodotti dall’uomo.Fra le diverse classificazioni pedologiche utilizzate in campo scientifico,alcune risultano essere a carattere prettamente nazionale o locale, altremostrano una valenza internazionale. Il peso che viene assegnato al fatto-re antropico, nella genesi di tipologie pedologiche, è relativamente diver-so sia come numero di classi tassonomico/antropogeniche contemplate,sia come livello sistematico assegnato. Classificazioni come quelle russa,tedesca, cinese, slovacca, gallese, conferiscono un peso notevole a tale fat-tore con implicazioni che si ripercuotono direttamente sulla tassonomia. Inaltre, e tra queste le classificazioni pedologiche più usate a livello interna-zionale (World Reference Base for Soil Resources; Référentiel Pédologique;Soil Taxonomy), è possibile individuare una diversa considerazione delruolo e degli effetti dell’opera dell’uomo sulla modifica delle caratteristi-che del suolo e sulla costruzione di nuove coperture pedologiche.Per un approfondimento sulle tassonomie internazionali relative ai suoliantropogenici si veda l’appendice di approfondimento a fine capitolo.

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Riflessi della presenza di suoli antropogenici sulla qualità del terri-torio: casi di studio

1° caso: Suoli antropici nell’agricoltura su vasta scalaUn esempio significativo delle conseguenze che la realizzazione di suoliantropogenici nell’agricoltura su vasta scala può avere sulla diminuzionedella pedodiversità e sulla qualità del paesaggio viene da una indaginealquanto recente svolta entro i confini territoriali del comune diMazzarrone, un piccolo centro ad economia agricola posto nella Siciliasud-orientale (Dazzi & Monteleone, 2002; Dazzi et al., 2005).Mazzarrone, comune di 3.347 ettari posto in una zona collinare (115-335m.s.m.) al confine fra le province di Ragusa e Catania, nel decennio com-preso fra il 1970 e il 1980, ha vissuto una rapida riconversione colturaledel suo territorio che ha consentito un notevole incremento del reddito pro-capite dei suoi abitanti (Lo Verde, 1995). Si è particolarmente diffusa lacoltivazione dell’uva da tavola, tanto che, attualmente, le aziende presentinel territorio comunale sono quasi esclusivamente aziende viticole. L’annodi maggiore sviluppo fu il 1977, quando a Mazzarrone “tutti”, oltre a svol-gere la propria attività, iniziarono a coltivare l’uva “Italia” poiché consenti-va di ottenere lauti guadagni (Lo Verde, 1995). La riconversione colturaleavviene nel breve volgere di pochi anni: gli impianti viticoli sorgono conuna frequenza sempre maggiore, determinando, sulla spinta del notevoletornaconto economico, una visibile trasformazione del paesaggio agrario.Si procede, anche su superfici acclivi, operando attraverso sbancamenti,livellamenti, scassi. In diversi casi per il miglioramento della morfologia, siricorre al trasporto di terreno con costi assai elevati (Lo Verde, 1995).I suoli presenti in origine, costituiti da tipi anche molto diversificati affe-renti agli Entisuoli, agli Alfisuoli, agli Inceptisuoli ed ai Mollisuoli (Dazzi &Monteleone, 2002), con l’intervento dell’uomo vengono trasformati in“Suoli Antropogenici” che risultano così profondamente ed intensamenterimaneggiati con potentissimi mezzi meccanici e costruiti con notevolemovimento di materiali terrosi che in essi non è più possibile distinguerealcun frammento di orizzonte diagnostico. Appaiono come masse terroseche non mostrano alcuna logica distribuzione degli elementi costitutivi eche vengono arricchite con scheletro calcareo per migliorare le caratteri-stiche organolettiche dell’uva.In pochi anni tutte le superfici che non ponevano limiti all’impiego di mezzimeccanici per l’esecuzione di nuovi impianti per la messa a coltura dellavite, comprese le aree a morfologia tendenzialmente acclive, sono stateinteressate da un intenso processo di entisolizzazione che ha comportato ilquasi totale annullamento della pedodiversità nel territorio di Mazzarrone.I benefici sociali e soprattutto economici sono stati notevoli ma, sono statiottenuti con una profonda azione sul pedopaesaggio: suoli di diverso tipo,su morfologie molto variabili e con caratteristiche anche notevolmentediverse, (Calcic, Inceptic, Mollic e Typic Haploxeralfs, Calcic, Humic e Typic

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Haploxerepts, Entic Haploxerolls, Typic Xerorthents), sono stati così profon-damente ed intensamente rimaneggiati per essere destinati a vigneto, danon potere più distinguere in essi alcun frammento degli orizzonti originari!Questa enorme pressione esercitata sull’ecosistema suolo, porta a scon-volgimenti di altra natura: il suolo così violentato si offre indifeso all’ero-sione. Sotto questi vigneti infatti, ogni anno tonnellate di suolo vengonoportate via dal vento o finiscono a valle attraverso ampi solchi d’erosioneche, a mano a mano che si formano, vengono riempiti con materiale ter-roso trasportato da altri luoghi ove sono suoli che presentano ancora unapropria configurazione. In queste condizioni è chiaro che l’elasticità delsuolo cioè la capacità di riprendere la propria configurazione a seguito diuna azione di disturbo (Szabolcs, 1994) è minima e, sovente nulla, poichéi flussi di energia esogeni, a seguito dell’intervento umano, superano digran lunga ogni soglia critica.Accanto a questi, occorre considerare anche gli aspetti legati alla gestioneagronomica della coltura e che derivano dall’impiego di film plastici, dipesticidi e di fertilizzanti. Infatti, per lasciare il frutto sulla pianta ed effet-tuare la raccolta in prossimità delle festività natalizie, i vigneti vengonocoperti, tra la seconda e la terza decade di agosto, con film plastici dellospessore di 2-4 mm che vengono utilizzati solo per due anni. Sulle piantecosì coperte si interviene con massicce dosi di anticrittogamici e con trat-tamenti che, in dipendenza dell’andamento climatico, vengono effettuatianche ogni 2/3 giorni. I film plastici, anche se la legge impone il loro rici-clo, spesso vengono abbandonati nell’ambiente e, bruciati, rilasciano com-posti tossici che, insieme ai pesticidi usati così massicciamente, possonopermanere nell’ambiente per un periodo di tempo più o meno lungo.

2° caso: Recupero dei suoli degradati. Applicazioni di pedotecnicaÈ opinione diffusa, sostenuta da frange allarmiste e tendenzione del movi-mento ambientalista, che l’uomo sia sempre e comunque responsabile,consapevole o meno, dei disastri ambientali in generale, e della degrada-zione del suolo in particolare. Tale convincimento può portare a valutazio-ni scorrette e pericolosamente affrettate, dal momento che disconosceall’uomo la sua intrinseca capacità di modificare l’ambiente in modo cor-retto e produttivo. La nascita della stessa agricoltura, che ha segnato ilfondamentale passaggio dalle società tribali nomadi dei cacciato-ri\raccoglitori alle civiltà stanziali degli allevatori e degli agricoltori, haimplicato il primo intervento consapevole dell’uomo sul pedoambiente.Nei tempi correnti, se sono purtoppo numerosi i casi di alterazione edegrado del suolo connessi con uso improprio e\o illecito del suolo, deri-vanti ad esempio da attività malavitose interessate allo smaltimento abu-sivo di rifiuti pericolsi, altrettanto numerosi, ma di fatto poco noti, sono icasi in cui l’uomo gestisce correttamente e preserva la risorsa suolo. Unmagnifico esempio di pedotecnica ingegneristica è rappresentato dalleantichissime e tutt’ora attive risaie dell’Indonesia, nelle quali l’uomo ha

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rimodellato la morfologia dei rillievi ottimizzando l’utilizzazione dell’acquae, nello stesso tempo, creando paesaggi di innegabile bellezza, coerenticon la natura del pedoambiente. Un esempio analogo è rappresentato, inCampania, dai terrazzamenti ad agrumeti ed oliveti della PenisolaSorrentino\Amalfitana. Qui i pedosistemi sono particolarmente fragili, consuoli sviluppati su piroclastiti imposte su carbonati. La vulnerabilità di talipedosistemi è dolorosamente nota: la frana della collina di Sarno del 1998ha causato centinaia di vittime. Nel 1997, una relazione sul rischio frane ealluvioni segna chiaramente che “le colate detritiche sono tipiche della col-tre vulcanica dei versanti della penisola amalfitana, che costituiscono learee a maggior rischio, come testimoniano gli eventi catastrofici del 1899,1910, 1924 e 1954”. In questo caso l’uomo è duplicemente colpevole: perignoranza, dal momento che non ha avuto consapevolezza del rischio, equindi non ha predisposto studi ed interventi finalizzati alla difesa delsuolo, e per incoscienza, dal momento che ha consentito la costruzione distrutture abitative a valle, senza peraltro ottimizzare e manutenere canalie linee di drenaggio. Per altro, nello stesso ambiente, con intelligenza econsapevolezza, l’uomo ha da sempre modificato e quotidianamente ispe-zionato e manutenuto i fragili suoli della Penisola, trasformando quelloche per propria natura sarebbe stato destinato inevitabilmente a franare,ponendo a nudo le superfici decorticate ed inospitali dei carbonati, in unpedositema conservato, difeso, di grande valore estetico-paesaggistico e,soprattutto, di grande rilevanza socio-economica, considerando i positiviriflessi sulla bilancia commerciale locale e nazionale grazie anche al note-vole indotto nel settore turistico-gastronomico.In altre situazioni l’uomo incide ancor più profondamente sulla genesi edevoluzione del suolo, dando origine ai suoli ”antropogenici” propriamentedetti – pur se, di fatto, è sempre più difficile individuare il confine tra suoli“naturali” e suoli influenzati dalle attività umane. Talvolta l’uomo hainconsapevolmente contribuito alla nascita di nuovi suoli, favorendo lagenesi di antroposuoli sviluppati su materiali ed in ambienti inconsueti,sostanzialmente estranei al concetto comune di evoluzione del suolo daparent material normalmente costituito da residui di materiali organici edi rocce a vario stato di alterazione: è questo il caso dei suoli sviluppatisinell’area della ex acciaieria ILVA di Bagnoli (Napoli). In tale area, dismes-sa dopo circa ottanta anni di attività, dai depositi di minerali ferriferi, pre-valentemente olivine, mescolati in vari rapporti con materiali terrosi, sisono sviluppate formazioni che a tutti gli effetti possono essere conside-rate suoli, anche se non immediatamente e perfettamente inquadrabili intassonomie ufficiali quali la Soil Taxonomy (Buondonno et al., 1998).In altri casi, la nascita di nuovi suoli deriva da strategie progettuali dipedotecnica finalizzate alla ricomposizione e recupero funzionale di areedegradate e a rischio di desertificazione, quali i siti contaminati o quellirelativi alle attività estrattive dismesse. Nel caso dei siti contaminati inaree agricole, in cui di fatto già esistono suoli destinati alle colture vege-

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tali e\o alla zootecnia, gli interventi di pedotecnica sono mirati essenzial-mente al recupero funzionale dei suoli stessi tramite, ad esempio, l’appor-to di idonei ammendanti e conditioners organo-minerali (Coppola et al.,2002, 2003; Buondonno et al., 2005).In altri casi, quali quelli relativi alle aree di cava dismesse, dove la coltrepedologica è stata totalmente asportata, gli interventi di pedotecnicasono mirati alla ricostruzione ex novo, o ricostituzione -soil rebuilding-, deisuoli (Bucci et al., 2005; Buondonno et al., 2002; Dè Gennaro et al., 2004;Glorioso et al., 2005). Riportiamo, come caso-studio, l’analisi di un pro-getto multidisciplinare di ricostruzione di un suolo antropogenico per laricomposizione ed il recupero funzionale di una cava dismessa in provinciadi Caserta (Glorioso et al., 2005).Infatti, le problematiche di recupero funzionale delle aree di cava sono for-temente sentite in Campania, dove sono presenti oltre 600 cave, di cuicirca 260 dismesse o abbandonate. L’impatto ambientale è particolar-mente elevato in provincia di Caserta (Buondonno, 2001; Rigillo et al.,2001), dove insiste la maggior parte delle cave della regione (260, oltre il30%), sia attive che abbandonate, e vengono estratte le maggiori quanti-tà di inerti, soprattutto calcare (20% del fabbisogno nazionale) dei com-plessi carbonatici che circondano la Piana Campana. Le tecniche estratti-ve, tutte “a cielo aperto”, e le modalità di estrazione e gestione, in tutti icasi illecite o illegali per uno o più aspetti, hanno da tempo determinatogravissime situazioni di dissesto territoriale e degrado del paesaggio, condanni ambientali elevati (Santangelo, 1996; Buondonno, 1997).La normativa in tema di attività estrattive in Campania, definita sostan-zialmente dalle LL. RR. 54/85 e 17/95 è piuttosto complessa e, per moltiaspetti, controversa (Buondonno A., 1997). In ogni caso, quali che siano lecondizioni di esercizio e la legittimità dei titoli, le norme impongono cheall’attività estrattiva seguano interventi di ricomposizione ambientale deiluoghi. L’art. 9 della L.R. 54/85, al comma 1, precisa: “Per ricomposizioneambientale si intende l’insieme delle azioni da realizzare di norma conte-stualmente alla coltivazione della cava, …., aventi lo scopo di realizzare sul-l’area ove si svolge l’attività di cava un assetto dei luoghi ordinato e ten-dente alla salvaguardia dell’ambiente naturale ed alla conservazione dellapossibilità di riuso del suolo”. Il comma 2 del medesimo art. 9 specificache “La ricomposizione ambientale deve prevedere: a) la sistemazione idro-geologica, cioè la modellazione del terreno atta ad evitare frane o ruscel-lamenti e le misure di protezione dei corpi idrici suscettibili di inquina-mento; b) il risanamento paesaggistico, cioè la ricostituzione dei caratterigenerali ambientali e naturalistici dell’area, in rapporto con la situazionepreesistente e circostante, attuata sia mediante un opportuno raccordodelle superfici di nuova formazione con quelle dei terreni circostanti, siamediante il riporto dello strato di terreno di coltivo o vegetale preesisten-te, eventualmente insieme con altro con le stesse caratteristiche, seguitoda semina o da piantumazione di specie vegetali analoghe a quelle pree-

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sistenti, anche commiste con altre a rapido accrescimento; c) la restituzio-ne del terreno agli usi produttivi agricoli, analoghi a quelli precedente-mente praticati, anche se con colture diverse”.Gli stessi principi sono stati recentemente recepiti e ribaditi dal recentePiano Regionale delle Attività Estrattive (P.R.A.E.) della Regione Campania(2003, 2006), con particolare riferimento all’art. 5.2 delle “Linee Guida”,dove si sottolinea che la ricomposizione ambientale va eseguita contem-poraneamente allo svolgimento dell’attività di coltivazione. La prima fasedella ricostituzione dei luoghi è quindi necessariamente la ricostituzione disuoli che, per le peculiari genesi e modalità di messa in posto, saranno difatto suoli antropogenici. Va ricordato che il gestore dell’attività estrattivaè formalmente tenuto ad accantonare il materiale terroso derivante dal-l’asportazione della coltre pedologica per poterlo riutilizzare nelle succes-sive operazioni di ricomposizione ambientale. Tale prescrizione è di fattodisattesa, dal momento che non solo le attività di recupero non vengonoeffettuate contestualmente alle attività di estrazione, come invece previstodalla normativa, ma nella maggior parte dei casi sia le modalità di colti-vazione, a strapiombo, sia il frequente sconfinamento su superfici nonautorizzate fa sì che venga a mancare lo spazio fisico su cui predisporre inmodo ordinato l’accantonamento del materiale terroso stesso. Occorrequindi fare ricorso ad altri materiali terrosi, o comunque a matrici inorga-niche ed organiche pedogenizzabili, reperibili sul territorio, per poter pro-cedere alle attività di pedotecnica per la progettazione e ricostituzione diun suolo antropogenico idoneo allo specifico ambiente pedoclimatico(Koolen e Rossignol, 1998). Sotto il profilo giuridico, tale opzione è sanci-ta dalle norme vigenti (D.M. 22/97 e s.m. e i., D.M. 5/2/98) che, nell’ot-tica del recupero degli scarti, individuano le matrici inorganiche ed orga-niche ammissibili per la ricomposizione ambientale. Si tratta peraltro dialcuni dei materiali identificati dal WRBSR (FAO-ISRIC-ISSS, 1998, 2006)come “anthropogeomorphic materials” diagnostici dei Regosols antropo-genici (Anthropic Regosols), in particolare dei materiali Garbic (residuiorganici), Spolic (materiali terrosi da sterro, dragaggio, residui di cava),Urbic (inerti da edilizia, manufatti). Non sono invece ammissibili i materialiReductic, in quanto rappresentati da residui organici non stabilizzati. Lapossibilità concreta dell’utilizzo di uno o più di tali materiali per la ricom-posizione ambientale rappresenta certamente un’interessante opportunitàsia dal punto di vista tecnico-pratico sia ai fini del riequilibrio ambientale(Brown et al., 1998). Per altri versi, le linee guida di ricostituzione dei suoli,e quindi le relative opzioni di scelta dei materiali e delle modalità di messain posto, devono basarsi, anche in accordo con il dettato normativo, su unavalutazione integrata che identifichi l’ottimale scenario di ricostituzioneanche sulla base di considerazioni di carattere socio-economico oltre chepedoambientale. In tal senso, particolarmente efficaci e idonei sono imodelli di stima del valore ambientale sviluppati sulla teoria della UtilitàStocastica (Quandt, 1956; Luce, 1959), ovvero i choice models, che con-

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sentono di risalire alla variazione di benessere collegata alla presen-za/assenza del bene ambientale, espressa sotto forma di utilità monetiz-zata. Il Choice Set è stato pertanto strutturato in modo da sottoporre allascelta quegli scenari che, tra le diverse opzioni possibili, risultassero esse-re i più idonei sia in termini di coerenza con l’ambiente pedoclimatico pre-sente e di concreta fattibilità in riferimento agli interventi di pedotecnicada eseguire, sia in funzione del ritorno socio-economico per la cittadinan-za. L’alternativa finale scelta rappresenta dunque il modello di paesaggiosu cui basare la definizione degli interventi di pedotecnica.L’area di cava oggetto di studio, di circa 150.000 m2, ricade nella fasciacollinare a nord del territorio del Comune di Casagiove (CE) (Fig. 1). Inbase al PRG comunale, essa è soggetta a vincolo paesaggistico, ed è clas-sificata come “territorio agricolo collinare” e “territorio destinato al recupe-ro pedemontano”, ovvero al risanamento paesaggistico ed al rilancio del-l’economia. Dal punto di vista geologico la dorsale collinare è costituita dadolomie e calcari dolomitici saccaroidi del Giurassico e da calcari microcri-stallini bianchi del Cretacico a Diceratidae e rare Radiolitidae, mentrenella fascia pedemontana si ritrova il “Tufo grigio” costituito dalla fase del-l’ignimbrite trachitica-trachifonolitica del Roccamonfina-Piana Campana.Il bilancio termopluviometrico (∑T = 187°C e ∑P = 818 mm) presentapunte di piovosità in aprile e novembre, con deficit nel periodo giugno-ago-sto. Alle quote più elevate della fascia collinare si ritrovano i CalcaricLeptosols. Nella fascia pedemontana si ritrovano gli Haplic Andosols, pro-fondi, sviluppati sull’ignimbrite, mentre nelle aree urbane e periurbanesono frequenti gli Anthropic e gli Urbic Regosols. Nella aree di cava, primadell’avvio delle attività estrattive, erano presenti prevalentemente gli HaplicAndosols caratteristici della fascia pedemenontana; attualmente, sullesuperfici interessate dalle attività estrattive i suoli mancano del tutto; siriscontrano occasionalmente solo fasi iniziali di sviluppo di Lithic Leptosols.Il patrimonio agroforestale, pur se fortemente depauperato per le gravicondizioni di degrado ambientale, è sostanzialmente rappresentato da for-mazioni di latifoglie decidue (Quercetalia pubescentis) e di quelle dellamacchia mediterranea (Quercetalia ilicis), con prevalenza, tra le essenzearboree, di roverella, leccio, castagno, nocciolo, frassino, carpino, acero,insieme con coltivazioni di olivo e, più sporadicamente, di vite. Frequentel’ampelodesma nelle aree danneggiate da incendi.Una volta individuate le tipologie pedologiche e vegetazionali arboreeconnaturate all’ambiente di studio è stato possibile procedere all’identifi-cazione dei possibili scenari da proporre come alternative di scelta nelChoice Set cui conformare il progetto di ricomposizione ambientale. Finoagli anni 1950-60, il territorio di Casagiove esprimeva una tradizionale econsolidata vocazione alla ruralità, tipicamente localizzata, ed in parte tut-tora presente, nelle fasce pedemontane/collinari caratterizzate dalla pre-senza dei fertili Andosols; successivamente, l’asse degli interessi economi-ci si è maggiormente spostato verso la fascia urbanizzata di pianura a

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ridosso delle maggiori vie di comunicazione, in particolare la SS 7 Appia,dove si è innestato un nuovo sviluppo economico orientato verso il setto-re commerciale. Pertanto, in considerazione dei risultati derivanti dallacaratterizzazione delle risorse pedologiche ed agro-forestali, delle destina-zioni d’uso previste dal PRG, nonché della valutazione delle peculiarità sto-rico-socio-economiche del territorio, si sono individuati quattro principaliscenari di scelta per la compilazione del Choice Set e, quindi, per il suc-cessivo indirizzo del progetto di ricomposizione ambientale. In accordo coni criteri del Choice Model, ai quattro scenari va aggiunto lo scenario dibase costituito dall’opzione “zero” di riferimento, nella quale l’area di cavaè sottoposta ad interventi di sola stabilizzazione, e l’eventuale ripristinovegetazionale è lasciato ai processi naturali. Le altre opzioni prevedonorimodellamenti ed interventi di pedotecnica ad hoc per la ricostituzionedei seguenti differenti paesaggi: specie della macchia mediterranea conprevalenza di leccio e roverella; parco pubblico con essenze ornamentali;oliveti; oliveti commisti ad orti. I risultati hanno individuato nell’oliveto,associato a prato pascolo, lo scenario/alternativa ottimale. La figura 2riporta il Digital Elevation Model (DEM) di una delle due cave principalidell’area in oggetto.

Il DEM consente di analizzare preliminarmente con ottima approssimazio-ne la superficie tridimensionale della cava, scendendo a grande dettaglio,e quindi di delineare in tempo reale il riadeguamento morfologico in fun-zione della destinazione d’uso. Considerato che lo scenario prescelto è l’o-liveto, è necessario conformare il progetto ai requisiti che definiscono l’at-titudine ottimale dei suoli a tale coltura (Tabella 1).I requisiti climatici ed idrologici sono intrinsecamente soddisfatti in quan-

Fig. 1 Ortofoto del territorio diCasagiove interessato dalle atti-vità estrattive. L’area cerchiata(150 000 m2) evidenzia la cavaoggetto di studio. La frecciaindica il Nord.

Fig. 2 Ricostruzione tridimensio-nale (DEM) della cava oggettodi studio allo status quo.Passo = 1 m. La freccia indica ilNord.

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Tab. 1 Condizioni ottimali diattitudine dei suoli alla colturadell’olivo (da Cremaschi eRodolfi, 1991)

Pendenza: 52 0 % Profondità: > 1.00 m Tessitura: da F a FLA

Erosione: debole - moderata Drenaggio: buono AWC: 150 200 mm

Pietrosità: 0 3 % Scheletro: < 35 % Lavorabilità/Trafficabilità:buona – media

Rocciosità: 0 10 % pH: 7.4 8.4 Falda temporanea: > 0.75 m

Inondazione: assente - occasionale C.E.: 0 2dS m1 Falda permanente: > 1.00 m

Clima: favorevole CaCO3: 1 20 % Prof. Orizzonte k: > 0.60 m

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to connaturati al pedoambiente studiato; quelli relativi a giacitura, erodi-bilità e quelli gestionali vanno acquisiti in fase di realizzazione del pro-getto, anche in accordo con il dettato normativo regionale concernente icriteri di ricomposizione (LL.RR. 54/85, 17/95; PRAE 2003, 2006). Loschema di rimodellamento prevede: a) un idoneo terrazzamento (Figura 3)per la messa in sicurezza idrogeologica dei siti; b) una opportuna rete diinfrastrutture, servizi e accessi; c) lo scavo di buche per la messa in postodel suolo antropogenico. Le dimensioni della buca, l’orizzontazione delsuolo, le sue caratteristiche pedochimiche, e quindi la scelta dei materialiutilizzabili si dovranno conformare ai requisiti indicati nella tabella 1.

Praticamente, verrà ricostituito un suolo antropogenico con i caratteri diuno Spolic-Garbic Anthropic Regosol, realizzato con differenti strati dimateriali spolici e garbici. Tali strati possono essere considerati diagnosti-ci, dal momento che in essi si ritrovano materiali diagnostici; tuttavia nonpotrebbero, a rigor di termini, essere considerati come orizzonti pedoge-netici, dal momento che la loro presenza e allocazione non deriva da pro-cessi pedogenetici sensu stricto ma esclusivamente dall’azione intenziona-le dell’uomo. Per altro, taluni materiali spolici eventualmente già pedoge-nizzati, quali i materiali terrosi da scavo, si sono differenziati ed evolutisotto la spinta di fattori e processi operanti in altri tempi ed in altriambienti pedoclimatici, comunque estranei alla situazione attuale “hereand now”. Pertanto, per superare tale contraddizione formale, denomine-remo convenzionalmente tali strati come “proto-orizzonti”, identificatidalla lettera M (Man-Made), per indicarne la peculiarità di materiale antro-pogeomorfico potenzialmente pedogenizzabile, messo in posto dall’uomo.L’orizzontazione iniziale sarà del tipo M1-M2-M3-2M4-2R, con gli specifi-

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Fig. 3 Proposta di rimodella-mento e terrazzamento dellacava oggetto di studio

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ci caratteri riportati in tabella 2.Quanto ai materiali da utilizzare, la scelta si dovrà basare sui criteri di:

- massima sicurezza ambientale;- massima pedocompatibilità;- massima economicità in termini di disponibilità sul territorio.

In tal senso, le matrici inorganiche più idonee appaiono essere in primaistanza le terre da scavo, abbondanti sul territorio e costituite prevalente-mente da materiali ignimbritici, geneticamente affini ai substrati dei suoliasportati dall’attività di cava, o anche i residui delle attività di estrazionedel tufo. Di questi ultimi sono già state studiate le caratteristiche chimi-che e chimico-fisiche e la capacità di interagire con la sostanza organica aformare aggregati organo-minerali stabili, precursori dei ped (Buondonnoet al., 2002). La componente organica va individuata nei compost o neiletami pellettati. In ogni caso i materiali dovranno essere vagliati allaopportuna granulometria.

3° caso: I suoli sulle discariche di rifiuti urbaniUn contributo alla conoscenza sugli Antroposuoli artificiali (AFES, 1995) oAnthrosols (IUSS, WRB, 2006) viene da una ricerca realizzata su una dis-carica di materiali prevalentemente di origine domestica, ma utilizzata perlo stoccaggio anche di altri materiali di varia natura ed origine.L’apertura della discarica avvenne a Nuoro (Sardegna), in localitàTuccurutai, intorno agli anni ’70 con un primo progetto di massima data-to 1967. Nel 1973 entrò in funzione l’impianto di incenerimento per varietipologie di rifiuti, compresi quelli di tipo ospedaliero. Le conseguenticeneri residue venivano smaltite direttamente in discarica. A seguito delD.P.R. n° 915 del 1982 arrivarono i primi finanziamenti per l’adeguamen-to del sistema di incenerimento (tra le altre cose abbattimento polveri eceneri mediante filtri). Tutto ciò non impedì che l’impianto risultasse spes-so inadeguato ai forti carichi di rifiuti che giornalmente dovevano esseretrattati. Questo portava spesso allo smaltimento diretto in discarica deirifiuti senza nessun trattamento preliminare. L’inceneritore rimase operati-vo fino al 1990, quando avvenne la sua definitiva chiusura. Da allora l’a-

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Protoorizzonti Caratteri principali

M1 0 ÷ 20 cm Spolic-Garbic, drenaggio buono, scheletro comune, franco, neutro-alcalino, C organico = 20 g kg-1

M2 20 ÷ 40 cm Spolic-Garbic, drenaggio buono, scheletro comune, franco, neutro-alcalino, C organico = 15 g kg-1

M13 40 ÷ 80 cm Spolic-Garbic, drenaggio buono, scheletro comune, franco, neutro-alcalino, C organico = 10 g kg-1

2M4 80 ÷ 120 cm Spolic da residui calcarei, drenaggio rapido, scheletro molto abbondante, ghiaioso grossolano, alcalino

2R > 120 cm Roccia carbonatica

Tab. 2 Organizzazionedell’Anthropic Regosol (Spolic-Garbic)

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rea viene utilizzata come piattaforma di carico dei rifiuti che devono esse-re trasportati verso altri siti di discarica.Durante l’intera attività non vennero effettuate ne pesate, ne tanto menodelle cernite sui materiali smaltiti ovvero inceneriti. Non è dunque possi-bile allo stato attuale delle conoscenze sapere ne la qualità ne tanto menola quantità dei materiali mandati in discarica (Vacca et alii, 2004).Con questo lavoro si è voluto affrontare il problema dei “suoli di discarica”(Burr ow Soils o Spoil Bank Soils) sotto differenti aspetti: (a) problemati-che connesse ai suoli antropogenici, con particolare riferimento ai BurrowSoils; (b) analisi delle principali caratteristiche chimico-fisiche; (c) analisiqualitative e quantitative di alcuni metalli pesanti presenti nel suolo e dis-criminanti nella qualità dello stesso con particolare riferimento alla nor-mativa sui siti inquinati (DM 25.10.1999, n. 471); (d) classificazione deisuoli di discarica.Dai risultati ottenuti nelle analisi risulta che la componente “non facil-mente o per nulla degradabile” (vetro, metallo, ceramica e plastica) incidaquantitativamente in maniera piuttosto rilevante.L’inevitabile conseguenza di questo aspetto è la difficoltà di un possibilesviluppo pedogenetico dei materiali, che, nel caso in specie, mostra esserequasi del tutto bloccato. Si può dunque osservare la formazione di un oriz-zonte A3, poco profondo (0-20/30 cm), le cui caratteristiche (quali aggre-gazione grumosa debolmente sviluppata, scheletro medio-grossolanoabbondante, ecc.), evidenziano uno sviluppo molto lento, sicuramenteimputabile ai rilevanti quantitativi di materiali di origine antropica pre-senti lungo il profilo.Comunque, le analisi hanno mostrato come la componente minerale (< 2mm), ovvero la parte più facilmente alterabile, è comunque ben presentein tutto il profilo.Dal punto di vista tassonomico il suolo indagato è stato classificato comeGarbic e Urbic Anthropic Regosols (WRBSR, World Rference Base for SoilResources, 1999), si tratta dunque di un suolo antropogeomorfico, dove ilmateriale minerale ed organico non consolidato risulta per lo più da riem-pimenti di terra, riempimenti urbani, depositi di immondizie, dragaggi, ecc.Materiale che, in ogni caso, non ha avuto abbastanza tempo per dare unasignificativa espressione ai processi pedogenetici.Le analisi condotte su alcuni metalli pesanti, hanno mostrato come inquasi tutti gli orizzonti le forme totali analizzate superino spesso in manie-ra rilevante i limiti previsti dalla normativa vigente all’epoca della ricerca(Dm 471/99) (tabella XX).In particolare:- elementi come As, Cr tot., Hg e Ni si mantengono sempre al di sotto dellimite accettabile sia per aree con destinazione d’uso a verde pubblico, pri-vato e residenziale e sia per i siti ad uso commerciale e industriale;.- il cadmio (Cd) risulta sempre al di sopra del limite accettabile per le areead uso verde pubblico (spesso il doppio del limite soglia con un picco nel-

3 Le più note classificazioni(Soil Taxonomy, WRB, ecc.), purse forniscono chiavi interpretati-ve sui materiali di risulta, nondanno indicazioni univochecirca la nomenclatura degli“orizzonti” formati da questimateriali. Pertanto, per comodi-tà’, in questo testo viene utiliz-zata la nomenclatura di riferi-mento convenzionalmente adot-tata per la descrizione dei suoli.

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l’orizzonte IIIC nella quale si evidenzia un valore cinque volte superiore),rimanendo comunque sempre al di sotto dei limiti soglia per quelle desti-nate ad uso industriale e commerciale;- elementi come Cu, Pb e Zn risultano sempre notevolmente al di sopra deilimiti soglia indicati dalla normativa sia per quanto attiene ai siti a verdepubblico, sia per quelli destinati ad uso commerciale ed industriale.Comunque deve essere rilevato come le analisi dei metalli solubili in acquaacidula per CO2 hanno mostrato l’assenza di quasi tutti i metalli o una pre-senza in tracce al limite della rilevabilità. Questo fa pensare che i metallianalizzati siano in gran parte in forma immobilizzata e dunque questo por-terebbe a considerare meno rilevante il pericolo di contaminazioni future,pur non escludendo che le forme solubili siano già state dilavate in pas-sato. Questa possibilità è attualmente suffragata dalle caratteristichepedologiche dell’area, con accentuata permeabilità, scarso contenuto inargilla e materiali umici capaci di trattenere ioni.Infine, le analisi condotte ad ampio spettro per la ricerca di inquinanti diorigine organica (idrocarburi, IPA, alifatici clorurati, bromurati, nitrobenze-ni, nitroclorurati, clorobenzeni, fenoli, fenoli clorurati, ecc.) hanno mostra-to come non vi sia presenza di detti elementi e composti all’interno delprofilo indagato fatta eccezione per l’orizzonte VC ed, in minore rilevanza,per l’orizzonte IIC1, dove comunque la presenza si riduce ai soli idrocarbu-ri ed I.P.A.Conclusioni

Lo sviluppo della società tecnologica, tipico di questo ultimo secolo,accompagnato dal continuo aumento della popolazione, ha accentuatoquel fenomeno di distruzione delle risorse naturali cui tanta attenzioneponeva la cosiddetta società contadina.Maggiormente esposte a questo fenomeno, sono state e sono le specievegetali e animali il cui numero si è drasticamente ridotto fino a toccare ilimiti oltre i quali non bisogna assolutamente avventurarsi. Risulta questo

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A II C1 II C2 III C IV C V C Verde pub. Industrialee comm.

As 0 0 0 2 0 0 20 50

Cd 4.98 2.99 2.99 9.8 4.98 4.99 2 15

Cr tot. 29.88 45.82 69.79 85.29 111.44 81.84 150 800

Cu 697.2 298.8 598.2 980.4 995 598.8 120 600

Hg 0.1 0.174 0.075 0.05 0.025 0.025 1 5

Ni 119.5 59.8 59.8 78.4 189.1 59.9 120 500

Pb 1628.49 1135.46 1485.54 1901.96 1721.39 8757.49 100 1000

Zn 3037.85 846.61 1395.81 2058.82 2985.07 1996.01 150 1500

Tab. 3 Analisi sui metalli pesan-ti (mg/Kg) e confronto con ivalori soglia (mg/Kg) stabilitidal Dm 471/99.

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uno dei grandi problemi della biodiversità per la cui soluzione sono impe-gnati scienziati, tecnici e politici ma, solo dopo avere preso consapevolez-za del fatto che, a causa della attività antropica, sono già scomparsenumerose specie, animali e vegetali, che esistevano all’inizio del secoloscorso e che diverse altre potrebbero andare perdute entro i prossimi anni.Più recentemente, il concetto di diversità è stato esteso anche al suolo(pedodiversità) ma, pure in questo caso, solo dopo avere preso consape-volezza del fatto che il suolo deve essere considerato alla stessa stregua diun essere vivente ed avere realizzato che ad ogni variazione delle caratte-ristiche dei suoli corrispondono profonde ripercussioni qualitative e quan-titative nei paesaggi che risultano tanto più pericolose per l’ambientequanto più è incisiva l’azione di disturbo sul suolo.È chiaro che lo sviluppo sociale ed economico non può essere arrestatoma, questo deve avvenire nel rispetto dell’ambiente e delle sue risorse. Inparticolare, nelle procedure di valutazione di impatto delle attività del-l’uomo sul territorio, occorrerebbe sempre considerare la salvaguardiadella diversità del suolo, che rappresenta una risorsa naturale non-rinno-vabile. Le scelte devono coinvolgere tecnici e politici e devono assoluta-mente poggiare sul concetto di sviluppo sostenibile.Invece, lungi dall’usare con cautela la risorsa suolo, la stiamo consuman-do come se avessimo un pianeta di riserva parcheggiato nello spazio.Occorre allora fare di tutto per fare emergere dal profondo della nostracoscienza quell’antico vincolo che ci unisce al suolo e che, in occasione delWorld Summit di Johannesburg (settembre 2002) faceva dire a KofiAnnan, segretario generale dell’ONU: “La prosperità costruita saccheg-giando l’ambiente naturale non è affatto prosperità. è soltanto un rinviotemporaneo del disastro futuro”.

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APPENDICEI suoli antropogenici nelle tassonomie internazionaliI sistemi di classificazione pedologica soddisfano fondamentalmente lanecessità di facilitare lo scambio delle conoscenze sull’universo pedologi-co, organizzando in un sistema logico-gerarchizzato la quasi infinita varie-tà di suoli presenti sulla superficie della biosfera. Nella trattazione e clas-sificazione dei suoli naturali (sia forestali che agrari), ciò risulta relativa-mente semplice ma, diviene difficile, quando si tratta di considerare i suoliantropogenici.La difficoltà nel considerare i suoli antropogenici all’interno di un sistemadi classificazione, risiede nella ampia gamma e variabilità di azioni e pro-cessi che l’uomo può svolgere sul suolo. L’attività umana può condurre, peresempio, alla distruzione o alla rimozione degli orizzonti del suolo; al sep-pellimento di suoli con materiali concreti o con altri materiali terrigeni,rifiuti o scorie di vario tipo; alla contaminazione dei suoli o alla alterazio-ne permanente delle loro caratteristiche.Recentemente, nella consapevolezza della sempre maggiore importanza ediffusione mostrata dai suoli influenzati o costruiti dall’uomo, i più noti ediffusi sistemi di classificazione dei suoli hanno considerato anche gliaspetti ad essi relativi. Gruppi di tipologie di “suoli antropogenici sono giàconsiderati negli ambiti del Référentiel Pédologique (RP) e del WorldReference Base for Soil Resources (WRB) mentre il sistema della SoilTaxonomy (ST) introdurrà un nuovo ordine di suoli che considererà gliAnthrosuoli nella edizione del 2007 (ICOMANTH, 1995-2006).

Il Référentiel Pédologique (RP)Il Référentiel Pédologique (AFES, 1995) presenta, fra i Grandi Insiemi diRiferimento (Grands Ensembles de Référence), che in questo sistema rap-presenta il più alto livello categorico, quello degli Anthroposols, distin-guendovi tre “Referenti”.Antroposuoli trasformatiIl profilo naturale è talmente modificato da attività umane, da non esserepiù riconoscibile, oppure ha acquistato nuove morfologie e proprietà chenon consentono più un soddisfacente collegamento tassonomico con altriReferenti. Ad esempio, nell’areale di Mazzarrone in Sicilia, a causa dell’in-tervento antropico i suoli destinati a vigneto, sono stati così profonda-mente ed intensamente rimaneggiati con potentissimi mezzi meccanici edinteressati da notevole movimento di materiali calcareo-marnosi che inessi non è più possibile distinguere alcun frammento di orizzonte diagno-stico (Dazzi, 2002).Antroposuoli artificialiSono prodotti completamente da attività umane, tramite la messa in postodi materiali non pedologici (detriti minerari, rifiuti domestici, fanghi, sco-rie, macerie, ecc.). Per poter essere identificato come Antroposuolo artifi-ciale il profilo deve essere costituito, nella sua parte superiore e per uno

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spessore di almeno 50 cm, da tali materiali. Eventuali orizzonti naturalisottostanti saranno allora considerati come “sepolti”.Antroposuoli ricostituitiSono il risultato di interventi tecnici, effettuati nei contesti urbani e periur-bani, e consistenti nei riporti di materiali terrosi, rimaneggiati e messi inposto nei giardini, nei parchi e negli spazi verdi. Generalmente sono pre-senti degli orizzonti lavorati, talvolta mescolati alla parte superiore dell’o-rizzonte sottostante. Per poter essere considerato come Antroposuolo rico-stituito un profilo dovrà essere composto nei suoi primi 50 cm, da mate-riale terroso trasportato.Accanto i referenti, il sistema individua alcuni processi antropopedogene-tici che comprendono:- lavorazioni profonde o scassi, talvolta coinvolgenti anche la roccia sot-tostante;- fertilizzazioni sovrabbondanti con apporti ripetuti di composti organici esenza significativo apporto di sostanze minerali;- sconvolgimento dei profili pedologici causati da sistemazioni e livella-menti agrari, aggiunte ripetute di materiali terrosi o di inerti di riporto;- irrigazioni ripetute con acque contenenti quantità significative di sedi-menti in sospensione e, talvolta, sali solubili, fertilizzanti, materia organi-ca, inquinanti, ecc.;- terrazzamenti con completo rimodellamento dei versanti e sconvolgi-mento delle coltri pedologiche naturali.Molti dei processi antropedogenici avvengono in aree urbane e periurba-ne, ed interessano la troncatura della parte superiore del profilo, il com-pattamento provocato dal passaggio dei veicoli o dai lavori di preparazio-ne delle fondazioni, le impermeabilizzazioni della superficie stradale, l’in-quinamento con metalli e acidi prodotti da combustioni, gas di scarico edemissioni industriali nonché l’uso del suolo come discarica spesso non anorma di legge.

Il World Reference Base for Soil Resources (WRB)Il WRB si propone come sistema di correlazione fra i diversi sistemi di clas-sificazione dei suoli. Nella sua ultima edizione (IUSS-WRB, 2006) comesuoli modificati o costruiti dall’uomo ha introdotto e distinto il gruppodegli Anthrosols e quello dei Technosols.Vengono classificati come Anthrosols, suoli con caratteristiche preminentiche derivano dalle attività umane e che risultano profondamente modifi-cati ad esempio per addizione di materiali organici o di rifiuti domesticima, anche per effetto delle irrigazioni o delle operazioni colturali. Tutti itipi pedologici possono essere ovviamente interessati dalle suddette ope-razioni che, normalmente, influenzano solo gli orizzonti di superficie men-tre gli orizzonti più profondi possono anche riscontrarsi intatti.Diagnostici degli Anthrosols sono un orizzonte hortic, irragric, plaggic oterric spessi 50 cm o più oppure un orizzonte anthraquic che sormonta un

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orizzonte hydragric con uno spessore combinato maggiore di 50 cm. Per ladefinizione e descrizione delle caratteristiche di questi orizzonti si rimandaovviamente al sistema originale (IUSS-WRB, 2006).Vengono classificati come Technosols suoli costruiti dall’uomo e le cui pro-prietà e caratteristiche pedogenetiche risultano dominate dalla presenzadi materiali di origine “tecnica”. Contengono infatti significative quantitàdi artefatti o materiali concreti induriti sempre di origine antropica. Fra essicono compresi “suoli” costruiti con rifiuti (riempimenti, fanghi, ceneri, dis-cariche minerarie), rivestimenti con i loro sottostanti materiali inconsoli-dati, suoli con geomembrane e suoli costruiti con materiali di origineantropica (foto 2).Diagnostici dei Technosols sono la presenza del 20 percento (in volume ocome media pesata) di artefatti nei primi 100 cm o sulla roccia; o la pre-senza continua di una geomembrana impermeabile o quasi impermeabilenei primi 100 cm dalla superficie; o la presenza di roccia dura tecnica(materiali concreti come i cementi) che inizia ad almeno 5 cm di profon-dità e che caratterizza il 95 % o più dello sviluppo orizzontale del suolo.Da quanto sopra emerge che i Technosols si rinvengono prevalentementenelle aree densamente popolate e a notevole impatto tecnologico come adesempio le aree urbane e periurbane, le aree minerarie e le aree industria-li, che le loro “caratteristiche” risentono fortemente dei materiali di origi-ne e che spesso, risultano contaminati.È da sottolineare che nel WRB alcuni altri gruppi pedologici di riferimen-to possono presentare il qualificatore technic (che esprime la presenza dipiù del 10% di artefatti nei primi 100 cm di suolo) e il qualificatore trans-portic (presenza di uno strato di 30 cm o più intenzionalmente trasporta-to dall’uomo con mezzi meccanici).

La Soil TaxonomyIl sistema organizzato dal Soil Survey Staff del Dipartimento di Agricolturadegli Stati Uniti per la classificazione dei suoli, presentata con il titolo di“Soil Taxonomy”, Soil Survey Staff (1999), costituisce indubbiamente losforzo maggiore compiuto fino ad ora sia dal punto di vista scientifico cheapplicativo per la classificazione dei suoli. La sua formulazione, iniziata findal 1951 sulla base del materiale raccolto a partire dal 1938, é stata viavia precisata attraverso una numerosa serie di “approssimazioni” fatte cir-colare entro un numero ristretto di pedologi di tutto il mondo fino a chesi pervenne alla prima pubblicazione del sistema con il nome di “7aApprossimazione” nel 1975.L’ampia rassegna critica, effettuata attraverso l’applicazione del nuovosistema di classificazione nelle più varie condizioni ambientali di numero-si paesi, permise di pubblicare numerosi supplementi alla 7aApprossimazione, nei quali vennero riportati i numerosi cambiamentiapportati a seguito dei suggerimenti ricevuti dagli studiosi di tutto ilmondo. Questo minuzioso lavoro di aggiornamento é continuato fino alla

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Foto 2 Esempio di“Technosuolo” in un’area forte-mente urbanizzata ad est diPalermo (Foto Dazzi).

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pubblicazione della 2a edizione della “Soil Taxonomy” che risale al 1999in cui sono riportate tutte le modifiche e le innovazioni che nel tempo sisono rese necessarie. Fino a quel momento (ed ancora oggi) nella ST laconsiderazione dell’influenza umana sul suolo si limitava alla sola presen-za degli “Arents” come suoli modificati per scopi antropici ma contenentipiù del 3% di frammenti dei preesistenti orizzonti diagnostici: di conse-guenza il suolo continua a mantenere un certo livello di organizzazioneapparendo fortemente rimaneggiato ma non completamente disorganiz-zato o ricostruito. Al momento è in corso un ampio lavoro di studio e col-lezionamento operato dall’ICOMANTH (International Committee for theClassification of Anthropogenic Soils ) per giungere nel 2007 ad una ulte-riore edizione della Soil Taxonomy nella quale saranno considerati anche isuoli influenzati o costruiti dall’uomo e saranno specificate le modalità didefinizione e descrizione degli orizzonti dei suoli antropogenici.

Le nuove proposte per la Soil TaxonomyGli studi condotti sui suoli antropogenici, ne hanno messo in evidenza l’u-nicità e la peculiarità della genesi oltre che delle proprietà e caratteristi-che (Ciolkosz E. J. et alii, 1985; Indorante S. J., Jansen J., 1984; SencindiverJ. C., 1977; Schafer W. M. et alii, 1979; Dazzi e Monteleone, 2006).Per la loro definizione e cratterizazione da più parti sono stati segnalativari problemi pratici e teorici, come l’impiego di nuove e più modernemetodologie di analisi e l’adozione di criteri per il rilevamento e la rap-presentazione cartografica. Alcune proposte utilizzano il criterio tradizio-nale di classificare le nuove pedo-morfologie in base alle proprietà delsuolo osservate e misurate. Tra questi alcuni esempi particolarmente espli-cativi sono i seguenti:- il sottordine Spolents (Sencindiver J. C., 1977). Utilizzato per classificarele discariche minerarie attraverso l’identificazione di alcune delle seguentiproprietà: presenza di artefatti (vetro, metalli, ecc.); distribuzione irregola-re della sostanza organica al variare della profondità; orientamento disor-dinato dei frammenti grossolani;- i sottogruppi Urbic (suoli minerari contenenti artefatti), Scalpic (suolinaturali affioranti su superfici troncate da azioni antropiche), Spolic (suoliminerari costituiti da materiali terrosi smossi e privi di artefatti), Garbic(suoli con materiali organici) e Dredgic (suoli su materiali derivati da dra-gaggio) di Entisuoli ed Inceptisuoli (Fannning D.S. et alii, 1983; FanningD.S., Fanning M.C.B., 1989), da utilizzare per l’identificazione dei suoli for-temente influenzati dall’attività umana.- i sottordini Garban e Urban di Antrosuoli (Kosse A. 1990; Strain R., EvansC. V., 1994), da utilizzare per i suoli modificati da precedenti attività col-turali (proposta questa che in origine includeva anche suoli descritti in sitiarcheologici);- il sottogruppo Foundric di Entisuoli (Buondonno C. et alii, 1998) da uti-lizzare per l’identificazione dei suoli in siti industriali;

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- il sottogruppo Miscic Geofragmexerant (Foto 3), per indicare Anthrosuoli,in ambiente xerico, formati su o con materiali minerali che sono statirimossi dai luoghi originali e profondamente rimescolati con macchinaripesanti per scopi agricoli (Dazzi e Monteleone, 2006).

Le ultime proposte di nuove inclusioni tassonomiche nella SoilTaxonomy

Criterio morfogeneticoAnthrosols suoli modificati da attività colturaliSpolents suoli di discarica minerariaUrbans e Urbic suoli contenenti artefatti e lateriziGarbans e Garbic suoli con rifiuti organiciFoundric suoli industriali

Criterio basato sulle proprietàrelazionaliSpolic suoli di riporto privi di artefattiScalpans e Scalpic suoli su superfici troncate dall’uomoDredgic suoli su materiali di dragaggioSpolans suoli di riporto privi di artefattiAnthraquept e Anthraquic suoli con condizioni di saturazione anthraquica

L’“ICOMANTH” (International Committee for the Classifiction of theAnthropogenic Soil), è stata incaricata di indicare appropriate classi nellaSoil Taxonomy per suoli le cui principali proprietà derivino dalle attivitàumane. Compito della commissione è quello di definire i criteri che riflet-tono in maniera più appropriata le attività umane e quando le proprietàdel suolo sono il risultato prevalente di queste attività.Dal 1995 sono state inviate dalla commissione sei differenti circolari conl’obiettivo di raccogliere i pareri e l’esperienze dei pedologi di tutto ilmondo sui suoli antropogenici. I principali punti dibattuti sono i seguenti:- la legittimità dell’introduzione di suoli e materiali antropogenici nellaSoil Taxonomy;- l’inclusione di materiali antropogenici nei parent materials;- l’adattamento del principio guida del sistema della ST dell’osservabilitàdelle proprietà e delle morfologie, per poter classificare anche mediantel’uso della memoria storica.Al momento attuale le più recenti proposte (ICOMANTH, 2006) riguarda-no: la definizione degli Human Transported Materials (HTM), come mate-riali costituiti da artefatti, materiale organico, materiale terroso, trasporta-ti entro o su di un suolo da un ambiente ad esso esterno, solitamente conl’iuto di mezzi meccanici; la definizione delle Anthropogenic Features comeprova di ogni tipologia di intervento umano sul suolo derivante dalle sueattività, quali movimento terra, scassi, rippature, scavi, terrazzamenti, ecc.;la definizione dei Manufactured Layers, cioè di strati orizzontali costruiti

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Foto 3 Miscic Geofragmexerant,suolo antropico “costruito” dal-l’uomo per la coltivazione dellavite da tavola (Foto Dazzi)

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dall’uomo e posti entro o sul suolo e che possono essere costituiti da asfal-ti, cementi, plastiche, geotessili, gomme, artefatti. I Manufactured Layersvengono ulteriormente distinti in base alla loro influenza sulla saluteumana, alla loro dimensione ed alle diverse tipologie. Quando tali mate-riali costituiscono uno o più “orizzonti” del suolo, per la loro designazionesi propone di utilizzare la lettera maiuscola M, mentre il simbolo ^ dovreb-be servire ad indicare orizzonti del suolo costituiti da HTM.

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Man’s Role in Changing the Face of the Earth ha rappresentato una pietramiliare nella cultura scientifica del secolo scorso, con le sue molte chiavidi lettura a livello disciplinare, interdisciplinare e sistemico, le quali hannoconsentito e consentono di comprendere ed approfondire i molti effettidell’azione dell’uomo sui complessi processi geobiofisici e biogeochimicidel pianeta.I contributi di Man’s Role hanno in particolare messo a fuoco temi e para-metri sia nei processi dipendenti dall’uomo che in quelli indipendenti dal-l’uomo:- gli effetti sui mari e sulle acque interne- le alterazioni climatiche- i cambiamenti del suolo- le modifiche avvenute al livello delle comunità biotiche- le dinamiche dell’ecologia dei rifiuti- le ipoteche sul territorio dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione.Man’s Role evidenzia anche, per la prima volta ed in maniera del tuttogenerale, i limiti dell’umanità nell’uso del pianeta ed il suo ruolo nel cam-biamento globale, sia a livello climatico che di tessitura del paesaggio, pro-ponendo una linea di lettura corretta e ben definita che si struttura anchesulla base del modello precursore di alcune analisi cui anche le giovanigenerazioni dovrebbero attingere e sulla quali sarebbe opportuno riflettere.Nella rivalutazione di alcuni dei contributi più innovativi che si possonotrovare in Man’s Role, a 50 anni dalla sua pubblicazione, non si può infat-ti prescindere da alcuni degli autori che hanno avuto una grande influen-za su questo modello di cultura ambientale, non definita in termini mono-culturali, come George Perkins Marsh e il suo The Earth modified byHuman Action (1864) o Antonio Stoppani e il suo Corso di Geologia (vol.II, 1874), dove, per la prima volta nella storia, l’azione antropica è defini-ta "nuova forza tellurica”, come pure da Alexander von Humbolt e il suoAnsichten der Natur mit wissenscaftlichen Erläuterungen (1908).Di un certo spessore e significato sono anche i contenuti delle lezioni cheVladimir I. Vernadsky tenne alla Sorbona nel 1924, (raccolte poi con il tito-lo “Biosphère" in un testo del 1926), nelle quali definì l’uomo “fattore bio-geochimico", quindi agente dei cambiamenti planetari.A conclusione di questo ciclo, che occupa lo spazio di quasi un secolo, sicolloca Man’s Role e, ad oltre 50 dalla sua apparizione per i tipi della

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ANALISI DEI SISTEMI E DEI PROCESSI AMBIENTALI NELLA VERIFI-CA DEI CAMBIAMENTI LOCALI E GLOBALI

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University of Chicago Press, possiamo affermare che l’umanità è divenutauna forza significativa a livello globale in grado di ridisegnare e ridefinireil volto del pianeta, con probabili sconvolgimenti di una certa gravità, cheavranno forti ripercussioni sulla società (Hösle, 1993).L’uomo è diventato a tal punto fattore di cambiamento a livello planeta-rio che l’era geologica in cui viviamo è stata definita Antropocene(Crutzen, 2002) e non mancano i lavori che, sulla linea di Man’s Role,fanno specifico riferimento al ruolo dell’uomo nei cambiamenti cui è sog-getto il pianeta (Steffen et al., 2004; Schelinhuber et al., 2004).Un filone di ricerca specifico, che potremmo considerare il portato delleipotesi di lavoro di Lewis Mumford, riguarda la società globale, avendol’uomo allargato la noosfera ad una struttura globale delle idee, attraver-so un’organizzazione a rete in una società globalizzata, la quale ha sosti-tuito l’impostazione verticale di burocrazie separate (Borja e Castels,1997), consentendo, al tempo stesso, centralizzazione e decentralizzazio-ne, con il passaggio di scala dal locale al globale, mutando la percezionedello spazio geografico, il mondo stesso in quanto spazio e realtà. Unarisposta al legame che esiste tra mondo della noosfera e mondo della bio-sfera si può forse trovare nel cambiamento dei modelli di urbanizzazione.Grandi città crescono e competono tra loro (Bettini, 2004), quasi ripor-tandoci al modello medioevale della città-stato, che oggi si struttura adimensione planetaria. In questa città la forza economica della conoscen-za porta ad una crescita urbana che si svincola completamente dal con-cetto di stato-nazione (Farinelli, 2003), dipendendo in maniera quasi asso-luta dalla nuova economia mondiale. Il paesaggio, come vedremo, sta pro-fondamente trasformandosi, senza che si faccia appello alla sua memoria,che è anche la nostra cultura (Schama, 1995).Queste condizioni, appena accennate alla metà degli anni ‘50 del secoloscorso, si sono ulteriormente consolidate. Se nel 1956 si potevano intuire,oggi possono essere indagate, approfondite, conosciute nella loro com-plessità frattale e caotica, anche se non possiamo dare per acquisita, com-pletamente, la possibilità di indagine circa gli intrecci che esistono traGeosfera, Biosfera e Noosfera, tra dinamiche locali e globali, nell’integra-zione sempre più forte tra economia ed ecologia.Oggi possiamo comunque misurare, cartografare, modellizzare il sistematerra e le grandi regioni geografiche, tenendo presenti i parametri dellabioeconomia, dell’economia ecologica, dell’ecologia dei sistemi e dell’eco-logia del paesaggio.

BioeconomiaLa bioeconomia è uno dei parametri di valutazione emersi negli anni ‘70grazie al lavoro di Nicholas Georgescu-Roegen sulle relazioni tra fisica eprocessi economici.Georgescu-Roegen riuscì là dove molti ricercatori avevano fallito, formu-lando una teoria "entropica" dell’economia e della società, per quanto

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egli stesso non considerasse utile la definizione di una metateoria (teoriadi teorie, modello generale in grado di inquadrare una o più disciplinescientifiche) in un ambito fortemente caratterizzato dall’incertezza.L’elaborazione fu comunque importantissima dal punto di vista scientificoe vivacizzò tutti gli anni ‘70. Per comprenderlo basta tener conto di unadelle più significative affermazioni di Georgescu-Roegen (Fitoussi, 2006):“L’evidenza millenaria che la vita va sempre in una sola direzione dovreb-be bastare, quale prova dell’irreversibilità della vita, per la cultura chedomina lo spirito corrente, ma non per la scienza....La termodinamica clas-sica, fornendoci la prova valida, sulla base del codice ufficiale della proce-dura scientifica, che esistono processi irreversibili anche nell’ambito fisico,ha saputo conciliare la scienza con il buon senso".Il significato di questa impostazione è stato successivamente confermato:la bioeconomia diventa madre di ogni integrazione ecologico-economica,proponendo una nuova chiave di lettura dei sistemi complessi. (Clevelande Ruth, 1997; Daly, 1997)

Economia ecologicaIl premio Nobel Paul Crutzen pubblicava su Nature, nel 2002, un brevearticolo dal titolo "Geology of mankind - The Anthropocene", dimostra-zione che la Scienza Normale, ovvero l’insieme delle Scienze Ufficiali, accet-tava i dati relativi al ruolo dell’uomo nel cambiare la faccia del pianeta.L’intervento di Crutzen è successivo di molti anni alla formulazione, daparte di James Lovelock, nel 1979, della teoria/idea di Gaia, massimascala del sistema terra come entità unitaria. Per quanto la teoria di Gaiasia stata successivamente, in parte, falsificata, essa è stata sostituita dateorie relative ai sistemi autorganizzati in grado di adattarsi, che non neinficiano la portata, ma che ne ribadiscono il concetto fondamentale: laterra è un sistema complesso, evolutivo (Lenton e van Oijen, 2002).La geochimica, a sua volta, da scienza di nicchia, si va definendo comestrumento di integrazione di processi e scale diverse.Le scienze del clima sono diventate, a loro volta, una grande frontiera dellafisica contemporanea.Sono questi i parametri che, a livello scientifico, dovrebbero fare da baseal concetto di sostenibilità strutturato sulla base di tre pilastri fondamen-tali: il mantenimento dell’integrità degli ecosistemi, la costruzione di unasocietà equa, un’economia efficiente. Pilastri che si traducono nei dueconcetti di Daly: economia in stato stazionario e valutazione della capa-cità di carico. I limiti biofisici, in realtà geo-bio-fisici, dipendono da tre con-dizioni interconnesse: risorse esauribili, entropia, interdipendenza ecologi-ca (Daly, 1996). Si tratta di limiti interdipendenti, interagenti.L’esauribilità non sarebbe limitante, se tutto potesse essere riciclato, ma aquesto si oppone l’entropia che non consente il completo riciclo.L’entropia, a sua volta, non sarebbe poi tanto limitante se le possibilità discarico dei rifiuti fossero infinite.

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L’interdipendenza ecologica, a sua volta, implica che, quando il sistemaeconomico occupa fisicamente il geo-ecosistema che lo ospita, si sostitui-sce ad esso e ne rende difficile, se non impossibile, il funzionamento.Questo però non basta. Se coniughiamo i limiti che abbiamo individuatocon la seconda legge della termodinamica, ci rendiamo conto che l’ordinedella struttura economica in crescita è sostenuto da un flusso di disordinenei confronti del resto del sistema terra.Se a tutto questo si aggiunge la capacità di carico, cioè il numero massi-mo di persone che un territorio può supportare, il quadro è completo.L’evoluzione di questi concetti ci porta ad una necessaria transizione, chepassa, dalla minimizzazione del danno, al ripristino delle funzioni ecosi-stemiche, nella direzione di un’utopia concreta che ci piace ipotizzarepossa essere realizzata tra qualche lustro, seguendo le indicazioni forniteda Lewis Mumford in Man’s Role: l`uomo deve rendersi conto delle dina-miche organiche, ovvero della biosfera e dell’importante ruolo che svolgesul pianeta.Per avere un ruolo, l’uomo deve essere in grado di fare ricerca e, al tempostesso, costruire scenari, informare e comunicare, nello spirito indicato daMumford. La ricerca applicata fino ad oggi, in generale, a parte pochi esem-pi relativi ai cambiamenti climatici (Rahman, Robins, Roncerel, 1994;Kandel, 1998; Godrej, 2003; Visconti G., 2005; Jouzel, Debroise, 2007;Schlesinger, Kheshgi, Smith, de la Chesnaye, Reilly, Wilson, Kolstad, 2007)ha attentamente evitato la problematica ambientale a favore di quella eco-nomica, in nome di un’impossibilità predittiva o cognitiva, confermata daimodelli. L’approccio possibile che vorremmo formulare è quello di teorie, datie modelli, originatesi da diverse discipline che consentano almeno di rileva-re "l’ombra della complessità", seguendo le indicazioni di Paul Fayerabend,il quale sosteneva che non esistono né teorie migliori né verità assolute.Alcuni autori hanno indicato alternative ai modelli scientifico-decisionaliin uso. Fra questi, riteniamo che l’indicazione più significativa sia venutadalla scienza post-normale (Funtowicz e Ravetz, 1992, 1993, 1994), defi-nibile come produzione di conoscenza in condizioni di normalità, disac-cordo, incertezza ed urgenza, la quale suggerisce l’applicazione di alcuniprincipi generali, quali l’approccio di sistema complesso, la partecipazionedei cittadini a decisioni inerenti i rischi e la ricerca ambientale, la valuta-zione e la memoria degli errori del passato.

Sistemi ambientali: scale spaziali e temporali, approccio ecosistemicoIndubbiamente, a 50 anni dalla pubblicazione di Man’s Role, dobbiamorilevare una forte evoluzione della teoria dei sistemi e delle scienze dellacomplessità, che hanno portato a sviluppare idee fondamentali, non anco-ra definite alla metà degli anni ‘50 del secolo scorso, o solo parzialmentecomprese nei modelli scientifici dell’epoca. Fra questi i concetti di retroa-zione e autoregolazione applicati alle scienze della terra, all’ecologia edalle scienze sociali, le dinamiche non lineari dei sistemi, i concetti di rela-

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zioni intrecciate sul piano delle scale spaziali, le dinamiche dei processievolutivi che coinvolgono l’autorganizzazione, la crescita dell’informazionee la memoria dei sistemi.Insisteremo in modo particolare sull’analisi e la valutazione delle scalespaziali e temporali del cambiamento.I sistemi ambientali sono sistemi gerarchici e la delimitazione di un parti-colare livello comporta, in parte, una presa di posizione arbitraria, legataalla scelta della scala di osservazione o all’utilità per l’analisi-gestione.La decisione arbitraria risulta parziale in quanto la divisione dell’insiemein sottoinsiemi deve corrispondere a livelli funzionali di integrazione(tabella 1).

Un ecosistema è un sistema complesso, dinamico, evolutivo, con un’orga-nizzazione che tende ad una situazione in cui l’informazione, il riciclo dellamateria e l’efficienza nell’uso dell’energia sono limitate da fluttuazionilocali e da un livello gerarchico che sfugge ai meccanismi di selezione e dico-evoluzione (Margalef, 1993).Gli ecosistemi si estendono in dimensione spazio-temporale, essendo iltempo una loro caratteristica interna e lo spazio un fattore condizionanteesterno, imposto dal mondo fisico, sul quale si costruisce un’organizzazio-ne in strutture che crescono, acquisendo complessità ed informazione, conalcune limitazioni da parte delle perturbazioni locali.La biosfera, come sistema di ecosistemi, influenza notevolmente il pianetaterra, interagendo e modificando le proprietà della litosfera, dell’idrosferae dell’atmosfera. Dal punto di vista chimico questo porta al predominio dimateria organica che si caratterizza per la sua varietà, come biomassa(espressione ponderale della materia viva) e necromassa (espressione pon-derale della materia morta). Proprietà che si ritrovano in unità funzionali,fino al livello più basso, cioè il livello degli ecosistemi.

Tab. 1 Scale spaziali e temporalidei sistemi ambientali

Ecosistemi Geosistema

Livello di

organizzazione

ambientale

Livello di

organizzazione

ecologica

Unità di

organizzazione

biologica coinvolta

Unità

geomorfologica

corrispondente

Unità climatica

corrispondente

Scala spaziale

(km2)

Scala temporale

(anni)

- Ecosfera Biosfera Crosta terrestre Clima planetario 108 106÷107

- - Bioma Sistema continentale Macroclimi 106 104÷106

Mosaico di sistemi

ambientale

(macrochore)

Regione ecologica - Sistema regionale Macroclima

regionali

102÷104 103÷104

Sistema ambientale

o paesaggio

(mesochore)

Sistema Insieme di unità

connesse

Sistema

morfologico

Mesoclima 10÷102 10÷103

Land/Sea faciet

(microchore)

Ecosistema

Ecotone

Comunità Formazione marina o

terrestre, Unità locale

Microclima 1÷10 10÷103

Ecotopo Ecosistema

Ecotone

Popolazione

Comunità

Geotopo Microclima 1 10-1÷10

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Una struttura gerarchica unica, in generale, non esaurisce la complessitàdi un sistema: di regola si incrociano diverse gerarchie. Le organizzazioniecosistemiche comprendono sempre diverse funzioni distinte, interattive,ciascuna gerarchizzata per proprio conto (Frontier, 1999).Dalla definizione di ecosistema possiamo passare ad una descrizionemodellistico-qualitativa, valutando l’ecosistema come un sistema com-plesso Ω, aperto, non in equilibrio termodinamico, caratterizzato daretroazioni (Odum, 1983; Margalef, 1993).Lo stato di Ω (dove omega è funzione di alcuni parametri, ovvero Ω •,può essere descritto in modo simbolico (Pignatti, Trezza, 2000):

Ω = x,λ,µ (1)

dove xx esprime la diversità interna del sistema e misura la strutturazionedel sistema, λλ rappresenta l’insieme dei vincoli che mantengono il siste-ma lontano dall’equilibrio ed in generale è costituito da un flusso ener-getico che agisce nel senso di ordinare il sistema, µµ rappresenta le costri-zioni per le attività del sistema, di tipo chimico o fisico, in pratica condi-zioni di contorno.Le condizioni di stato del sistema variano per effetto degli operatori traparentesi quadra [•] e si indica con l’operatore che prevale nell’identi-ficare la dinamica, con quello, o quelli, che l’influenzano scarsamente.Ed ancora: l’evoluzione di un sistema da uno stato a, ad uno stato b, assu-mendo x come operatore trainante, si esprime:

Ω <a[x, λ, µ]>b (2)

Ωj • è un sistema aperto, quindi in relazione con i suoi vicini Ω1•,....., Ωj-1•, un cambiamento di stato di Ω<a[•]>b darà luogoad una dinamica dell’intero insiemeΩj•∪Ω1•,.....,Ωj-1•.

L’uso operativo di questo modello di analisi è sviluppato, in linea del tuttogenerale, nell’appendice I di questo capitolo.Se diamo grande valore alla modellistica emersa con chiarezza dalla colla-borazione tra un botanico, il prof. Pignatti (il quale contribuisce con unospecifico e ben definito contributo a questo libro) ed un economista, ilprof. Trezza, nello splendido "Assalto al pianeta, attività produttiva e crol-lo della biosfera" (2000), altrettanto significativa è l’individuazione delpaesaggio quale scala superiore all’ecosistema nella biosfera.Non abbiamo qui il tempo e la spazio per affrontare ed approfondire la pro-blematica della biodiversità legata ai diversi livelli strutturali del paesaggio,ma sarebbe bene che il lettore ne tenesse conto, considerato che, a lungo,il "rift over biodiversity" ha diviso e posto in disaccordo molti esponentiscientifici nel campo della ricerca ambientale, alcuni scettici, altri ottimisti.

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Una disputa acrimoniosa è infatti in corso, dall’inizio di questo secolo, circal’attendibilità e la sufficiente robustezza dei dati sulla biodiversità, in fun-zione di interventi di pianificazione, gestione e politiche. (Kaiser, 2000)

Scienza del paesaggio e modelli culturaliIl paesaggio è un "sistema di ecosistemi interagenti che si ripetono in unintorno" (Forman, Godron, 1986), ma anche "un’entità al tempo stessofisica e culturale, realtà semiotica ed informativa, sistema autopoietico esistema ecologico non teleonomico. Come realtà fisica il paesaggio coin-cide con le descrizioni che sono date dalla geografia. Come entità cultu-rale il paesaggio è caratterizzato da un insieme di fenomeni che possonoessere percepiti e quindi compresi unicamente attraverso la conoscenzapregressa dei fattori concorrenti e con l’applicazione di filtri paradigmati-ci" (Farina, 2004).Il paesaggio può essere descritto come "una sensazione, un’immagineinstabile, un’esperienza fuggevole ed incerta" (Vitta, 2005) ed al tempostesso come sistema strutturato, complesso e pluridimensionale.Resta la parte funzionale del paesaggio con i suoi flussi di materia, ener-gia, informazione, movimenti di specie, interazione tra ecosistemi, basatasu processi che avvengono grazie ai fattori citati ed allo scorrere del tempo,ovvero l’insieme di relazioni tra organismo ed ambiente, il suo ecofield,(relazioni trofiche, fisiologia e processi percettivi, vincoli e condizioni dilivello gerarchico superiore che stanno al contorno dell’ecosistema).Le azioni umane permeano gli aspetti sia funzionali che strutturali, crean-do alcuni dei paesaggi culturali che arricchiscono le funzioni dei paesagginaturali ed altri che le semplificano ed impoveriscono. Le trasformazioni inatto creano processi imprevedibili, mai del tutto recuperabili.Diamo molta importanza ad un modello scientifico come la landscape eco-logy in quanto l’approccio della scienza del paesaggio, a lungo propostodalle scuole geografiche, corologiche, matriciali ed olistiche, è stato orasuperato attraverso la definizione di "tessuto di ecocenotopi interagenti inun intorno geografico riconoscibile, da intendersi come sistema comples-so adattativo, autoorganizzantesi, autoregolantesi, dinamico e gerarchico,costituito da sistemi ecologici del livello biologico comunemente cono-sciuto come livello dell’ecosistema; paesaggio che rappresenta uno deifondamentali livelli di organizzazione della vita" (Ingegnoli, Giglio, 2005)Se teniamo conto di quanto sia evoluta la scienza dell’ecologia del pae-saggio, (parliamo di scienza, non di strumento o metodo come alcuni urba-nisti sostengono), ci rendiamo conto di disporre di strumenti adatti allavalutazione del ruolo dell’uomo nel cambiare la faccia del pianeta.L’approccio della scienza del paesaggio ci consente di integrare attivitàumane ed ambiente, di comparare lo stato di salute ambientale ed il qua-dro della geografia economica, ponendoci nelle condizioni di valutare lasostenibilità dei paesaggi quali sistemi coevolutivi e di relazione tra uomoed ambiente (Farina, 2000).

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Il contributo di Almo Farina in questo ambito è stato fondamentale, aven-do egli chiarito come e quanto l’uomo possa integrarsi nelle dinamicheambientali, essendo parte della biosfera e come possa evolvere con esse.Disponiamo di un modello di riferimento, che possiamo individuare nellastoria del bacino del Mediterraneo, dove la coevoluzione tra uomo edambiente ha creato un paesaggio culturale ed in questo caso il modello diinterazione è stato di tipo pieno (full world).In altri casi l’uomo si è contrapposto ed ha tentato di controllare le dina-miche ambientali, creando così un paesaggio tecnologico con nicchienaturali e selvagge, un modello di interazione di tipo vuoto (empty world).Vorremmo insistere anche sulle configurazioni spaziali che costituiscono lastruttura del paesaggio, le matrici, le macchie ed i corridoi, modello usatoda Forman per descrivere ogni tipo di paesaggio, dove per matrice si inten-dono gli elementi abbinati, dominanti il paesaggio, per macchia (patch)una porzione delimitata di territorio, caratterizzata da componenti che larendono differente dall’intorno e, per corridoio, una componente lineare.Tali configurazioni dipendono dagli ecotopi presenti (elementi o tesseredel paesaggio) e dalle modalità sulla base delle quali essi si distribuisco-no sul territorio. La struttura che deriva dai rapporti spaziali e funzionaliche intercorrono tra le tessere ed i corridoi forma il mosaico e dagli ecoto-pi, dal loro stato e dalle loro relazioni dipende in gran parte la resistenza(capacità di opporsi alle trasformazioni) e la resilienza (capacità di ritornoalla stato iniziale/originario del paesaggio).Vorremmo proporre un modello gerarchico di analisi spaziale, che partadal globo per passare ai continenti con i rispettivi biomi e da qui alla scalaregionale delle regioni bioclimatiche, dei paesaggi, delle unità di paesag-gio, degli ecotopi, degli ecotoni, delle patches. (figura 1)In questa modellizzazione schematica gli ecotopi sono le più piccole unitàspaziali in cui si articolano i processi della geosfera e della biosfera, carat-teristiche basi strutturali del paesaggio, corrispondenti alle unità ecosiste-miche. In pratica, come abbiamo già rilevato, le più piccole unità in cui l’o-mogeneità delle caratteristiche chimiche e fisiche da vita ad una bioceno-si quasi omogenea.

Fig. 1 Un possibile schema dellastruttura gerarchica del paesaggio

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A loro volta gli ecotopi sono divisi nelle più piccole unità delle macchie(patches), in cui i fattori locali di disturbo creano diversità.All’interno degli ecotopi agiscono disturbi diversi, che possono esserenaturali (fuoco, frane, esondazioni) o antropici (pratiche forestali, agricol-tura, pascolo, occupazione fisica del suolo), disturbi che modificano il siste-ma e creano sottoaree di paesaggio realizzate, le quali differiscono dall’e-cotopo fondamentale o potenziale. Un ecotopo fondamentale, contrapposto ad un ecotopo realizzato, cioèformato da una o più patches, può essere ipotizzato in un parallelismo conla nicchia ecologica fondamentale, cioè l’insieme di condizioni ottimali perla vita di un organismo e la nicchia ecologica realizzata.Alcune di queste modifiche/trasformazioni sono almeno parzialmentereversibili, altre non lo sono ed inducono cambiamenti irreversibili.L’ecotono rappresenta l’area tra due ecotopi, un’area di transizione in cuitrovano forma e spazio elementi caratteristici di entrambi gli ecotopi.Da non trascurare i livelli di biodiversità:- le regioni bioclimatiche differiscono per una diversità di tipo δ (delta);- i paesaggi per una diversità γ (gamma);- la diversità interna ad ogni ecotopo o patch è definita α (alfa);- la variabilità del numero di specie all’interno di un ecotopo o di unapatch è β (beta).La lettura del paesaggio si basa su teorie, misure e modelli. Noi faremoriferimento ad uno degli strumenti di integrazione più utilizzati, i sistemiinformativi geografici (GIS).A livello di ecotopo o di patch è possibile rilevare dati direttamente, conmisure sul terreno a scala locale, o tramite telerilevamento (remote sensing),calcolando alcuni indicatori o indici. Lo vedremo nelle appendici a questocapitolo, quando analizzeremo il corretto uso di applicazioni e tecnologieprincipali che ci consentono di leggere il paesaggio ed i suoi cambiamentia scala globale, con indicatori di tipo strutturali (forma, dimensione, pen-denza, piovosità, litologia), funzionali (flussi, produttività ecologica) o misti,quali la BTC, la biocapacità territoriale, un indicatore che tiene conto deltipo di struttura e dello stato di salute del sistema (Ingegnoli, 1993).

I cambiamenti del paesaggio, analisi su meso-scalaI sistemi informativi geografici ci consentono di individuare ed analizzarei cambiamenti del paesaggio, essendo i GIS in grado di acquisire, memo-rizzare, estrarre, trasformare e visualizzare dati del mondo reale (Burrough,1986), ove dati ed interpretazioni della stessa realtà divengono punti divista, i quali consentono di ricostruire, almeno parzialmente, la realtà stes-sa nella sua complessità, senza proiezioni parziali o riduttive.Le analisi su meso-scala ci consentono di analizzare i cambiamenti del pae-saggio, come gli effetti derivati dalle variazioni dell’uso del suolo, come ifenomeni di urbanizzazione, gli impatti delle infrastrutture o l’evoluzionedegli ecosistemi.

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Presentiamo un esempio di questo approccio in appendice I, esaminandoun cambiamento che sta avvenendo a scala mediterranea, ove si rileva lariduzione progressiva degli ecosistemi aperti, prati e pascoli con presenzadi poca vegetazione arbustiva, nell’ambiente montano dell’ecoregionesud-europea compresa tra Spagna e Grecia, in un paesaggio tutelato siadalla Direttiva Habitat 92/43/CEE dell’Unione Europea che dalle listerosse dell’IUCN.Nell’appendice II sono stati individuati gli strumenti più importanti diremote sensing, monitoraggio aereo e da satellite, i quali ci consentono divalutare le dinamiche ambientali analizzando scale geografiche diverse,integrando dati con un approccio spaziale e temporale, costruendo model-li concettuali in grado di migliorare la conoscenza dei processi geograficied ecologici, monitorando i cambiamenti. Strumenti implementati dallastatistica, dalla geostatistica e dalle analisi multivariate, dall’informaticaper l’analisi dei dati, dai modelli per l’analisi e la previsione degli impattiambientali (analisi multicriteria e modelli non lineari).

A che punto siamo, dove ci piacerebbe arrivareSiamo nell’Antropocene, come dice Crutzen, i flussi geochimici sono quasicompletamente controllati dall’uomo. Sono cambiati i cicli energetici ed icicli biogeochimici. In alcuni bacini idrografici il bilancio dei nutrienti, deimetalli pesanti, della materia organica e delle sostanze organiche di sin-tesi è diventato anche 100 volte maggiore di quello rilevato per alcuni ele-menti alla metà del XX secolo (Steffen et Al., 2004).L’empty world, il modello dove uomo e natura sono separati, diviene sem-pre più globale, mentre il modello integrato, il full world delle economielocali va scomparendo con esse.L’impronta ecologica dell’Europa, intesa come impatto ambientale dei con-sumi sulle risorse naturali, ai tempi della pubblicazione di Man’s Role, erapoco più della sua dimensione totale in termini di superficie. Alle diversescale, stato, regioni, lander, contee, si ripeteva in modo gerarchico.L’impronta era contenuta nella dimensione amministrativa, mentre oraregioni e province italiane hanno impronte ecologiche pari anche a 10volte la loro dimensione territoriale. Il valore dei servizi degli ecosistemiesistenti è sempre minore (Costanza et Al., 1997), mentre le politiche digestione del territorio non ne tengono conto, come dimostra il MillenniumEcosystem Assessment (MA), il programma di ricerca focalizzato sui cam-biamenti degli ecosistemi varato dalle Nazioni Unite nel 2001.I primi risultati di questo studio, pubblicati nel 2005, sono impressionan-ti: almeno il 60% degli ecosistemi è in condizione di degrado, è inquina-to almeno il 40-50% dell’acqua dolce disponibile, un quarto delle specieittiche è sovrasfruttato, il tasso di estinzione è superiore da 100 a 1.000volte rispetto al tasso naturale. I paesaggi perdono connettività, gli uccel-li cambiano le rotte di migrazione, alla ricerca di sempre più rari ecotopifavorevoli.

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Se i cambiamenti globali sono studiati ed i cambiamenti locali percepiti, siè però persa la capacità di valutare le risorse, le azioni, le capacità di cari-co del territorio, in attesa che nuovi sensori provenienti dal telerilevamen-to da satellite ci consentano di poter discriminare qualche millimetro inpiù del territorio, dimenticandoci del valore di reti fondamentali di rileva-mento, quali gli idrometri, i pluviometri, i termometri, posizionati spesso inmaniera del tutto casuale o quasi, anche se qualcosa ora si sta facendo perquanto riguarda il rilievo della temperatura, sotto la spinta dello spettrodei cambiamento climatico che si profila in questo secolo (Jouzel,Debroise, 2007).Uno dei cambiamenti più rilevanti da monitorare resta quello a scala regio-nale, in quanto la sfida non può che porsi a questa scala (Vallega, 1995).Riteniamo che questa sia la scala di base per avviare un vero programmamirato di politiche ambientali, territoriali ed economiche, misurandone glieffetti, valutandone l’efficacia e la sostenibilità.Vorremmo però ulteriormente sottolineare che, alla capacità di strutturarepolitiche, si deve anche aggiungere quella della raccolta e della gestionedei dati, sviluppando un sistema di valutazione che sia in grado di rileva-re, ed in alcuni casi di prevedere, i cambiamenti ambientali alla scala spa-zio-temporale.

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Appendice II sistemi informativi territoriali e il telerilevamentoStefano Picchio e Leonardo Marotta

Analisi su meso-scala: i cambiamenti del paesaggio nel caso dellaValle dell’AmbroL’analisi è stata strutturata attraverso la costruzione di un geodatabase dalquale è stato possibile estrarre le informazioni dello stato del paesaggio inun intervallo temporale compreso tra il 1954 ed il 2001. I risultati del con-fronto delle fotogrammetrie aeree hanno consentito di sviluppare unmodello per valutare quantitativamente e qualitativamente le variazioni ele modificazioni della struttura e delle funzioni del mosaico ambientaleavvenute in questi ultimi 50 anni, e di ipotizzare, pertanto, le future evo-luzioni alla luce del contesto socio-economico di progressivo spopolamen-to e abbandono delle attività agro-silvo-pastorali.Il paesaggio è stato suddiviso in unità scientificamente omogenee tale darealizzare un sistema gerarchico di rappresentazione del territorio e degliecosistemi, capace di fornire una base razionale per analizzare i problemiinerenti la gestione delle aree naturali, la sostenibilità e la conservazionedella natura. Le unità sono state suddivise secondo la teoria della gerar-chizzazione del paesaggio la quale prevede la scomposizione del territorio in:- regioni bioclimatiche o macroclimatiche (individuate sulla base delmacroclima regionale);- paesaggi o sistemi di paesaggio (definiti in relazione ad importanti discon-tinuità litologiche e geografiche);- unità di paesaggio o sottosistemi di paesaggio (individuati su base bio-climatica e/o geomorfologica di dettaglio);- ecotopi o unità ambientali (ognuna delle quali corrisponde ad una Seriedi Vegetazione, ovvero ad una porzione di territorio caratterizzata da un’u-nica vegetazione potenziale) a loro volta divisi in unità più piccole (patch)quando esistono dei fattori locali di disturbo.All’interno di ciascuna unità ambientale sono stati messi in luce i princi-pali trends evolutivi dei suoli, della vegetazione (come ad esempio la velo-cità di espansione del bosco in ha/anno e la relativa curva logistica), e lecaratteristiche dinamiche (aree stabili - aree source), integrando le disci-pline dell’ecologia classica, della geobotanica e dell’ecologia del paesag-gio. Sono stati individuati, pertanto, i principali trends evolutivi, gli effettibio-geochimici come l’aumento di flusso di anidride carbonica (CO2),sequestrata all’atmosfera durante la ricolonizzazione delle patch paesisti-che a bosco. Un esempio è dato dall’evoluzione di un paesaggio appenni-nico a seguito dei processi dell’abbandono Fig 1).Sono stati analizzati all’interno delle principali classi di acclività del terre-no, i trend evolutivi delle componenti del paesaggio: le praterie sono innetta diminuzione mentre il bosco ed i cespugli aumentano il loro areale(Fig 2).

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Questo porta ad un effetto positivo come l’incremento della cattura di ani-dride carbonica, CO2, ed un effetto negativo come la perdita di un habitatimportante: le praterie sub-alpine appenniniche.

Patch Ton C ha/annobosco 0,6bosco aperto 0,4pascolo aperto 0,3pascolo arborato e arbustato 0,5

La tabella mostra l’assorbimento di carbonio in tonnellate per ettaro peranno a seconda della tipologia di vegetazione nella Valle dell’Ambro(Appennino marchigiano). Ogni tonnellata di carbonio corrisponde a circa3,34 tonnellate di anidride carbonica.

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Fig. 1 Evoluzione del paesaggiotra il 1954 e il 2001 nella Valledell’Ambro (Appennino marchi-giano)

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Fig. 2 Evoluzione delle tipologiedi vegetazione (macchie paesi-stiche o patch) e del paesaggionella Valle dell’Ambro(Appennino marchigiano)

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Il contributo della tecnologia “remote sensing” ha consentito di tarare unmodello per l’analisi della diversità locale del paesaggio. È’ stata utilizza-ta la principal component analysis che consente di rappresentare più effi-cacemente l’informazione nelle immagini multibanda da satellite.L’obiettivo è stato quello di ridurre la dimensionalità nel dato e di compri-mere al massimo l’informazione contenuta nelle bande originali in un paiodi "nuove" bande che sono chiamate componenti. Questo processo cercadi massimizzare (statisticamente) l’ammontare dell’informazione (o varian-za) del dato originale in un numero minimo di nuove componenti. Nel caso precedente (Valle dell’Ambro, Appennino marchigiano) le 7bande del Thematic Mapper (TM) sono state trasformate in modo che leprime 3 componenti principali contengano più del 90% dell’informazionecontenuta nelle 7 bande originali (tavola 1). È stata pertanto prodotta lacarta rappresentante i valori della diversità locale di Shannon utilizzandouna ripresa del Ladnsat7 del giugno 2000 con il sensore ETM+. Le aree apiù bassa diversità paesistica (tavola 2) sono risultate essere aree core (oaree centrali dal punto di vista spaziale) e, allo stesso tempo, aree persi-

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Fig. 3 Evoluzione delle tipologiedi vegetazione e di comeappaiono nelle foto aeree nellaValle dell’Ambro (Appenninomarchigiano)

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stenti (confrontandole con i risultati dell’analisi multi-temporale).L’algoritmo elaborato ha consentito inoltre di individuare le aree ecotona-li, attraverso l’indice di dimensione frattale, le quali indicano la realedimensione dei bordi e la superficie di scambio tra un sistema ed un altro(tavola 3). Le aree ecotonali si sono ridotte dal 1954 al 2001 come mostrala diminuzione della dimensione frattale (indice inerente la forma dellaLandscape Ecology).In questo caso abbiamo valutato il sistema ecologico W=x, l, m: - dove x è valutato attraverso l’ evoluzione dell’uso del suolo e con l’anali-si frattale degli ecotoni (margini delle patch o macchie paesistiche); xesprime la diversità interna e la strutturazione del sistema;- dove l è valutato attraverso l’analisi delle componenti principali, PrincipalComponente Analysis, con il satellite Landsat per misurare la produttivitàe la Biopotenzialità territoriale; l rappresenta l’insieme dei vincoli che man-tengono il sistema lontano dall’equilibrio, qui flusso energetico che agiscenel senso di ordinare il sistema);- dove m è stato misurato analizzando il clima e le pendenze e le loroinfluenze sulla perdita di areali; m rappresenta le costrizioni ed i forzantiper le attività del sistema (possono essere forzanti di tipo chimico, fisico,biologico, geometrico).

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Tavola 1 L’area ripresa dal satellite LANDSAT 7 nel 2000 con il sensore ETM+. L’immagine prodotta è il risultato dell’algo-ritmo Principal Component (PCA) nella Valle dell’Ambro (Appennino marchigiano).

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Tavola 2 Il risultato dell’analisi delle aree core (in rosso) che si dimostrano persistenti dal 1954 al 2001 nella Valledell’Ambro (Appennino marchigiano).Tavola 3 Il risultato dell’analisi degli ecotoni (aree in blu a dimensione frattale più alta) che diminuiscono la superficieoccupata dal 1954 al 2001.

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Appendice IISatelliti e sensori principali per lo studio ed il monitoraggio ambien-tale: la consapevolezza dei mutamenti attraverso la lettura del ter-ritorio Leonardo Marotta, Massimo Morigi e Stefano Picchio

Il pensiero di Virginio Bettini offre una chiave di lettura dei cambiamentidel territorio rileggendo e contestualizzando il realismo di Mach1: “i piccoli ingranaggi della natura, che ha creato il nostro paesaggio e l’am-biente naturale antropizzato in cui viviamo, possono essere evidenziati eresi comprensibili se sappiamo guardare e ricercare con lucidità”.In questi ultimi decenni (dal 1980 in poi), con l’avvento dei GIS e delRemote Sensing, molti ricercatori hanno “guardato e ricercato con lucidi-tà” i metodi e gli strumenti attraverso i quali consentire un monitoraggioambientale e dinamico del territorio. Esistono ulteriori strumenti per la valutazione previsione dell’impattoambientale: modelli predittivi di tipo statistico e multicriterio (geostatisti-ca, Multi Criteria Evaluation), modelli di tipo non convenzionale (logicafuzzy, reti neurali) e metodi di analisi multivariata per un monitoraggioambientale dinamico del territorio. Questi strumenti sono capaci di gestirei parametri ambientali legati alla morfologia (modelli tridimensionali delterreno, geomorfologia), all’idrologia (acque superficiali, paleoalvei, densi-tà di drenaggio), alla litologia superficiale ed alla evoluzione dei suoli. Che cosa intendiamo per monitoraggio ambientale dinamico del territorio?Intendiamo un sistema (ancora non formalizzato né visibile sul mercato),capace di costruire dei modelli fisici e generare i “piani adattativi e capa-ci di apprendimento” (sono piani che prevedono, al nascere di una nuovapressione di impatto ambientale, la visualizzazione della nuova rispostanello scenario del paesaggio), tale da permettere una operatività in ognioccasione e condizione, sia nella fase di quotidianità (previsione e preven-zione) sia in quella della straordinarietà (emergenza). Il sistema auspicato è nel cuore di molti che come noi fomentano la nasci-ta di ricercatori, scienziati e valutatori di nuova generazione e speranonella formazione di un Gruppo di Pressione del Rispetto Ambientale, piùvolte oggetto di dialogo con Virginio Bettini.In alcune occasioni, la “forzata” normalizzazione e standardizzazione deglistrumenti e dei metodi ha comportato una perdita della capacità di ana-lizzare in modo preliminare i meccanismi base dei sistemi ambientali(visualizzazione globale priva dei parametri in funzione dello screening, inparticolare dei meccanismi di omeostasi e del sistema di equilibrio dina-mico) e quindi incapace di gestire e valutare i dati provenienti dall’analisiambientale. Tutto ciò ha generato quindi un’insieme di monopoli profes-sionali che hanno parcellizzato l’informazione geografica, la diffusione deidati provenienti dal monitoraggio ambientale, e perso la capacità di rile-vare e sottolineare i cambiamenti nel paesaggio.

1 Bettini V., Canter L., OrtolanoL., 2000. Ecologia dell’ImpattoAmbientale – Capitolo 7, pag.132

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Uno dei casi che salta subito “all’occhio attento”, per quanto attiene ilmonitoraggio dei cambiamenti ambientali a scala globale, è la modalità diparticolarizzazione dell’informazione relativa alla classificazione dell’uso delsuolo. La stratificazione dell’informazione avviene tramite diversi criteri,metodi di interpretazione e classificazione della copertura del suolo comequelli usati dalla FAO (Food and Agriculture Organization) e USGS (UnitedStates Geological Survey) e dall’Unione Europea con CORINE Land Cover.Altro caso, per “un occhio ancor più attento”, è nella modalità di inferen-ze che ritardano la disponibilità di immagini multispettrali a media risolu-zione, acquisibili anche in stereogrammi, gestite interamente nella fase diricezione negli Stati Uniti, e provenienti dal sensore Aster, realizzato dalMinistero Giapponese del Lavoro Internazionale e dell’Industria per ilsatellitare TERRA (NASA).

In altre occasioni (monitoraggio da satellite dei ghiacciai, desertificazio-ne ecc.) lo sviluppo di progetti, nati tra componenti private e statali perfinalità d’interesse comune, ha permesso di conseguire dei brillanti risul-tati in termini di gestione dell’informazione, attraverso il GIS, integrandoinformazioni provenienti da dati telerilevati multipiattaforma, multisor-gente e multitemporali e attraverso l’uso di processi quali change detec-tion e data fusion.Il paragrafo che segue mostra alcune delle missioni applicate nel conste-sto delle applicazioni relative al territorio e all’ambiente, e quelle chehanno segnato ed enfatizzato l’uso di dati telerilevati per problematiche ascala locale.

Fig. 1 Modalità di flusso dei datiASTER (Giappone-US). Ridisegnata da:http://edcdaac.usgs.gov/aster

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Analisi dei cambiamenti a scala locale con satelliti ad alta risoluzionespazialeTra tutte le varie fonti di dati utilizzate nel monitoraggio dei cambiamentidella superficie terrestre e delle opere di origine antropica, una delle piùimportanti è indubbiamente quella fornita dal telerilevamento. Grazieall’impiego dei satelliti, abbiamo oggi un programma continuo di acquisi-zione di dati per l’intero globo, con tempi che vanno da un paio di setti-mane fino all’ordine di ore. Altrettanto importante è il fatto che possiamo accedere alle immagini tele-rilevate in forma digitale, che consente una rapida integrazione dei risul-tati prodotti dalle analisi e dalle tecniche di image processing all’internodelle piattaforme GIS. Le principali caratteristiche nella scelta di un sensore montato a bordo diuna piattaforma, piuttosto che un altro, sono la risoluzione spaziale, loswath, la risoluzione temporale e quella spettrale. La risoluzione spaziale èdefinita come la capacità del sensore di distinguere tra due oggetti pun-tuali sul terreno, ovvero, la misura in metri di un pixel dell’immagine rife-rita a terra. Lo swath è definito come la dimensione di una scena registra-ta, solitamente misurata in km. La risoluzione temporale è il periodo ditempo che intercorre tra il passaggio della piattaforma ed il successivosulla stessa area di ripresa; infine la risoluzione spettrale definisce le carat-teristiche tecniche delle ottiche montate a bordo del sensore e pertanto lacapacità di leggere sul territorio determinate caratteristiche della biosferacosì come dell’antroposfera, intesa come l’insieme delle opere realizzatedagli esseri umani e considerando, oltre alle trasformazioni territoriali,anche fenomeni ambientali da esse causati, come l’inquinamento. Vari sensori sono utilizzati per indagare le trasformazioni territoriali emonitorare i processi alla scala locale e, alcuni di questi, sono utilizzatiancora in fase di sperimentazione nelle applicazioni di tipo fotogramme-trico e nella realizzazione e l’aggiornamento di cartografia. Tra i più utiliz-zati ricordiamo le piattaforme Ikonos, Orbview, Quickbird ed Eros. Il satel-lite Ikonos è stato lanciato nel settembre 1999 da Space Imaging, ed èoperativo sin dal 2000. È stato il primo satellite commerciale ad alta riso-luzione. Sulla piattaforma è montato un sensore che acquisisce immaginisia in modalità pancromatica che multispettrale (3 bande nel visibile e 1banda nell’infrarosso vicino). La risoluzione spaziale al suolo varia per ledue modalità da 1 a 4 m (Tavola 4).Il satellite Quickbird è stato lanciato nel 2001 e vola seguendo un’orbitapolare eliosincrona posta a 450 km di altezza. È caratterizzato da unaswath (area di ripresa) di 16.5 Km e monta a bordo un sensore, in gradodi acquisire sia in modalità multispettrale (tre bande nel visibile e una nell’infrarosso vicino) che pancromatica, con risoluzione di 0,61 cm.Rappresenta pertanto lo strumento che cattura immagini alla più elevatarisoluzione spaziale oggi disponibile sul mercato. La piattaforma Eros -Earth Remote Observation Satellite-, è stata lanciata nel 2000 dalla socie-

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tà israeliana Imagesat International N.V., e anch’essa rappresenta unsatellite commerciale ad alta risoluzione. Il satellite impiega, per una inte-ra rivoluzione intorno alla Terra, circa 95 minuti ed esegue approssimati-vamente 15 rivoluzioni ogni 24 ore. Si tratta quindi di un sensore ad altis-sima risoluzione temporale, utile ad esempio nel monitoraggio delle cata-strofi ambientali o di fenomeni che presentano particolari dinamicità. Ilsatellite acquisisce immagini con uno swath di 14 km ed è dotato di unsensore pancromatico con 1,9 metri di risoluzione spaziale. Il satellite Erosè costruito in modo da consentire l’acquisizione di immagini su aree diver-se in un unico passaggio, ed ottenere così immagini stereoscopiche acqui-site sulla stessa aerea. L’Orbview-3 è un satellite gestito dalla sociaetà Digitalglobe ed è operati-vo dal 2003 seguendo un’orbita circolare posta a 450 Km di altezza. Ladimensione della scena registrata è di 16,5 km mentre a bordo monta unsensore analogo per risoluzione spettrale a quello di Ikonos, ovvero con trebande nel visibile, una nell’infrarosso vicino ed un canale pancromatico. Larisoluzione a terra in modalità pancromatica è di 1 metro. Le principali applicazioni che riguardano l’impiego dei sensori ad alta riso-luzione spaziale sono la realizzazione di aggiornamenti cartografici, il moni-toraggio delle frane, la stima dei danni da fenomeni di dissesto idro-geo-morfologico, il rilievo delle isole di calore in ambito urbano, le indaginiarcheologiche, il monitoraggio e la stima dei danni da incendio, la creazio-ne di modelli digitali del terreno (DTM/DSM), l’analisi del grado di defore-stazione a scala locale, la gestione delle risorse ittiche, la stima della produ-zione e il censimento delle colture agricole, il controllo del grado di abusivi-smo urbano e il monitoraggio dei parametri di qualità delle acque interne.

Piattaforma risoluzione area di ripresa risoluzione bandespaziale (swath) temporalea

Ikonos 1 m (pan) 11 hm 3gg 1 (pan)4 m (ms) 4 (ms)

Quickbird 0,61 m (pan) 16,6 km 3gg 1 (pan)2,44 (ms) 4 (ms)

Orbview 3 1 m (pan) 8 km 3 gg 1 (pan)4 m (ms) 4 (ms)

Eros A1 1,9 m (pan 14 km 2,5 gg 1 (pan)

Analisi dei cambiamenti territoriali con satelliti a media risoluzionespazialeLe piattaforme e gli strumenti appartenenti a questa categoria di satellitioffrono la più vasta gamma di applicazioni per il monitoraggio dei cam-biamenti territoriali, ambientali e dello stato di salute del pianeta neglistudi del global change. Il satellite Terra della Nasa fa parte del programma EOS-Earth ObservingSystem, un sistema integrato di satelliti per le osservazioni della superficie

Tab. 1 La tabella mostra il con-fronto tra i satelliti e gli stru-menti oggi disponibili impiegatinelle analisi e nelle acquisizionidi dati ad alta risoluzione spa-ziale (pan = pancromatico; ms= multispettrale)

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della terra, della biosfera, dell’atmosfera e degli oceani. È stato lanciato nel1999 ed è operativo dal 2000. La quota di orbita è di 705 chilometri ed iltempo di rivisitazione temporale è di 16 giorni. I sensori più importantimontati a bordo sono l’ASTER e il MODIS. L’Aster-Advanced SpaceborneThermal Emission and Reflection Radiometer si pone l’obiettivo di contri-buire allo studio dei fenomeni globali relativi alla superficie terrestre eall’atmosfera; la risoluzione spettrale consta di 14 bande, nel visibile, nel-l’infrarosso vicino, in quello medio e nel termico. La risoluzione spazialevaria da 15 metri, nelle bande del visibile, fino a 90 metri nell’infrarossotermico. La scena acquisita misura invece 60 km. Il Modis-ModerateResolution Imaging Spectroradiometer, montato anche a bordo del satelli-te Aqua, e facente sempre parte del programma EOS, lavora in 36 bande ela sua risoluzione spaziale varia da 250 ai 1.000 metri. Le bande acquisi-scono informazioni relativamente alla forma e proprietà della superficie ter-restre, alle nuvole e aerosol, al colore dell’oceano, al fitoplacton e alla geo-chimica, al vapore atmosferico, alla temperatura di superfici e nuvole, allostrato dell’ozono e all’altezza massima delle nuvole. Il Modis è utilizzatoanche per studi su vegetazione, incendi, neve su terra e ghiacci su mare;fornisce dati e indicazioni anche sulla tipologia della superficie e della clo-rofilla degli oceani. I dati sono utilizzati negli studi per la comprensionedelle dinamiche globali e dei processi relativi alla terra, degli oceani e deglistrati più bassi dell’atmosfera e delle previsioni relative ai cambiamenti glo-bali. Con i dati provenienti dal sensore Aster è inoltre possibile realizzaremodelli digitali del terreno, effettuare analisi geologiche, monitorare ighiacciai, classificare la copertura del suolo, analizzare lo sviluppo urbano,classificare le nuvole, monitorare l’umidità del suolo, individuare le zoneumide, effettuare analisi del bilancio energetico, dello stress e dello svilup-po della vegetazione, dei vulcani e degli incendi (vedi Tavola 5).La piattaforma Envisat, progettata e costruita dall’ESA, è stato lanciata nel2002, e monta a bordo 10 strumenti, sia attivi che passivi, tra i quali ricor-diamo il GOMOS-Global Ozone Monitoring by Occultation of Stars, spettro-metro tarato mediante l’ausilio di stelle particolarmente luminose, lo SCIA-MACHY-Scanning Imaging Absorption Spectrometer for AtmosphericChartography e l’AATSR-Advanced Along-Track Scanning Radiometer. Il pro-getto “ATSR World Fire Atlas” raccoglie le mappe e le serie storiche degliincendi a livello mondiale, attraverso immagini derivate dalle missioni ERSed Envisat. Le applicazioni principali riguardano gli studi per l’osservazionedella superficie terrestre, la misurazione dei vari strati dell’atmosfera e deisuoi elementi su scala globale, lo studio delle problematiche dovute al bucodell’ozono, gli scambi termici tra troposfera e stratosfera e le concentrazionidi gas dovuti alle attività antropiche. Sono inoltre montati strumenti radarper il monitoraggio delle onde marine, dei movimenti di calotte polari e ridu-zione dei ghiacciai montani, dei movimenti tettonici e per l’osservazione dicatastrofi naturali come inondazioni e terremoti. La piattaforma ospita unospettrometro per lo studio dell’ozonosfera e un radar altimetro per misurare

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l’altitudine della superficie terrestre e della topografia marina. Envisat con-sente inoltre lo studio dell’umidità atmosferica, la stima delle tracce dei varigas che influenzano la chimica atmosferica (incendi, inquinamento indu-striale, tempeste di sabbia ed eruzioni vulcaniche). AATSR infine misura letemperature superficiali degli oceani, stima le biomasse vegetali, il loro con-tenuto di umidità e lo stato di sviluppo (vedi Tavola 5).La piattaforma SPOT-Système probatoire d’observation de la Terre, costrui-ta dal CNES-Centre national d’études spatiales francese, è stata lanciatanel 2002 (serie 5), e vola seguendo un’orbita polare eliosincrona a 832 kmdi altezza. Il satellite monta a bordo l’HRS-High Resolution Stereoscopic, el’HRG-High Resolution Geometric, che consentono la ripresa con bandepancromatiche e multispettrali ad alta risoluzione spaziale (da 2.5 a 10metri). Il sensore VGT-Vegetation 2 consente di catturare informazioni rela-tive alla vegetazione a bassa risoluzione spaziale (1000 metri). I sensori apiù alta risoluzione consentono di elaborare produzioni e aggiornamenticartografici anche in stereoscopia. La piattaforma ERS2-European RemoteSensing Satellite-2 è composta da un radar altimetro (RA), da un radio-metro multispettrale (ATSR-Along Track Scanning Radiometer), dallo stru-mento AMI-Active Microwave Instruments (SAR-Synthetic Aperture Radare SCAT-Wind Scatterometer), dallo strumento Prare-Precise Range andRange-rate Equipement, ed altri. Il satellite è l’evoluzione dell’ERS1 e, alradiometro ATSR sono state aggiunte alcune bande nel visibile. A diffe-renza di altre missioni, come il Landsat, la missione ERS2, e la precedenteERS1, prevede la ripetibilità dell’acquisizione delle scene sulla base deiprogetti in corso pianificati. Tra le applicazioni principali ricordiamo lamisura del vapor acqueo atmosferico, le rilevazioni della temperatura deglioceani, la valutazione dei versamenti accidentali in acque (chiazze di olio,inquinanti, … ), l’avvistamento e la localizzazione di scarichi abusivi di idro-carburi, il monitoraggio di esondazioni, la valutazione delle variazioni tem-porali di umidità del terreno, lo studio dei parametri dei ghiacci (misuretopografiche, tipi di ghiacci, confine ghiaccio/acqua) e lo studio dellasuperficie dei mari per le valutazioni geodetiche e relative alle correntimarine. Con l’ATSR nelle bande dell’infrarosso si possono monitorare lecoperture nuvolose e le temperature delle superfici marine. Con quest’ultimo tipo di misurazioni è possibile rilevare, per i sistemiambientali del Mediterraneo, l’indice Ω=χ, λ, µ, i fattori µ forzanti perla produttività primaria, ovvero per la crescita di alghe e batteri fotosinte-tici, che dipende dalla temperatura, dai nutrienti trasportati dalle correntie dalla capacità delle cellule di galleggiare (funzione dell’energia dellamassa d’acqua, Tavola 7).

Analisi dei cambiamenti del suolo e delle pendenzeArthur N. Strahler in “The Nature of Induced Erosion and Aggradation”(nel Man’s Role a pag. 621) effettua un distinguo tra erosione dovuta alnormale processo geologico e quella perpetrata dall’uomo, si sofferma sul-

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l’azione portata dall’acqua sulle pendenze che caratterizzano qualsiasibacino, e infine, correla le aree di sovralluvionamento e la morfologia delbacino di drenaggio. Il quesito che viene posto dall’autore è: che cosa haindotto l’uomo ad accelerare lo stato di degrado ambientale? Lo stessoautore effettua un’analisi tra due bacini di primo ordine appartenenti adue regioni aventi clima, condizioni vegetative, litostratigrafia e morfolo-gia diversi concludendo che la principale distinzione è da ricercare nelledimensioni. Le conclusioni pongono il bacino di drenaggio come un “siste-ma aperto” che risponde all’erosione e al sovralluvionamento generatodalla mano dell’uomo. Analogamente Luna B. Leopold (nel Man’s Role“Land Use and Sediment Yield” pag. 639) affronta il problema dei meto-di per la misurazione del tasso di erosione, cercando di dare una rispostaqualitativa attraverso il monitoraggio della riduzione della copertura vege-tale. L’autore ricerca gli impatti antropici, effect of human use, verificandoche l’erosione non può essere misurata accuratamente solo attraverso l’e-levazione del suolo in funzione del tempo (l’abbassamento non è unifor-me in un’area, ma differisce localmente considerando elementi su unamicro-scala), ma va ricercato nelle variazioni e catalogazioni delle aree dideposito. Nelle sue considerazioni finali l’autore considera che, a causadell’impossibilità di verificare le condizioni iniziali (stato dei suoli e tipo disedimento, tasso di sedimentazione), è particolarmente difficoltoso quan-tificare questo effetto: l’erosione sviluppata comporta la perdita di pro-duttività del suolo ed è condizionata dalla conoscenza di alcune variabilisulla formazione del suolo. Luna B. Leopold conclude che sebbene glieffetti degli alti tassi di erosione e sedimentazione siano conosciuti e pos-sano portare, in caso di eventi catastrofici, implicazioni economiche e per-dite di vite umane, meno conosciuti sono i processi di innesco dei mecca-nismi tipo quelli che generano le “colate di fango”.Strahler e Leopold evidenziarono, già nel 1956, la necessità di disporre dialcuni dati quali: il modello digitale del terreno (DTM) e/o del modello dielevazione del terreno (DEM); l’uso del suolo/copertura del suolo.A distanza di cinquanta anni si potrebbe pensare che oggi tutto questo siadisponibile, visto anche gli studi sovvenzionati, a personale specificata-mente e altamente qualificato, dal CNR (Centro Nazionale delle Ricerche)e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della ProtezioneCivile Nazionale; Enti dello Stato fortemente attenti alla tematica dei“modelli digitali del terreno”, nonché ad altri temi, legati al processo dierosione, quali l’identificazione delle aree incendiate. Gli innumerevoli strumenti, pubblicizzati a vario titolo, oggi permettono diacquisire i dati e produrre le informazioni a supporto dell’analisi dei cam-biamenti ambientali. La ricerca scientifica sta andando verso l’analisi inte-grata della conoscenza di tutti i rischi che insistono su un determinato terri-torio, ossia l’analisi multirischio. Quindi attraverso adeguate politiche di miti-gazione delle calamità naturali ed antropiche è possibile tutelare meglio lavita umana e garantire ai cittadini un ugual livello di esposizione al rischio.

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Purtroppo la realtà in cui i ricercatori e gli operatori del settore agiscono(Vigili del Fuoco, Corpo Forestale dello Stato..ecc.) non permette di poteraffermare che sia sempre possibile avere, in tempo reale, dati congrui checi permettano di monitorare e prevedere qualsiasi tipologia di evento. Spesso avviene l’esatto contrario, anche se sul sitohttp://www.protezionecivile.it, troviamo che: «ll Sistema Nazionale deiCentri Funzionali, promosso dal Dipartimento della protezione civile, dalleRegioni e dalle Province Autonome di Trento e Bolzano, si propone di rea-lizzare una rete di centri operativi per il “Sistema di allertamento” nazio-nale distribuito ai fini di protezione civile che, attraverso attività di previ-sione, monitoraggio e sorveglianza in tempo reale degli eventi e dei con-seguenti effetti relativi sul territorio, sia di supporto alle decisioni delleautorità preposte all’allertamento delle diverse componenti del ServizioNazionale di Protezione Civile e alle diverse fasi di gestione dell’emergen-za in attuazione dei “Piani di emergenza di protezione civile” provinciali ecomunali»........ ma anche questa è un’altra storia.Ad esempio oggi, la definizione delle prescrizioni tecniche del dato DTM èin mano a cultori della materia, identificabili nel Gruppo di Lavoro DTM eortofoto istituito dal Comitato Tecnico di Coordinamento sui sistemi infor-mativi geografici dell’Intesa Stato, Regioni, Enti locali. Il documento defi-nisce i requisiti di un DTM, prende in esame le diverse tecniche di produ-zione, in particolare l’impiego di dati altimetrici esistenti (proveniente dacartografia e misure fotogrammetriche), di nuova (laser scanning) e nuo-vissima generazione (radar interferometrico aviotrasportato IFSAR ) e for-nisce indicazioni relative a standard di precisione ancora più elevati, poi-ché essi sono di vitale importanza per chi effettua lo studio delle zone arischio di inondazione.Per rapportarci con il livello di precisione, dati i seguenti passi di griglia(anche per terreni accidentati) abbiamo:- precisione in quota tra 0.15 m e 1 m: passo della griglia 5 m;- precisione in quota tra 1 m e 2.5 m: passo della griglia 10 m; - precisione in quota tra 3 m ed inferiore: passo della griglia 20 m; Attualmente l’unico prodotto, a copertura nazionale, riconosciuto da tuttie da tutti molto criticato, è il famigerato DTM passo 20 metri dell’IstitutoGeografico Militare di Firenze, proveniente dalla digitalizzazione dei daticon dettami altimetrici provenienti dalle tavolette al 25.000 del periodonell’intorno del 1951, oltre ai DTM passo 40 m della Compagnia GeneraleRiprese Aeree di Parma e quello generato dai dati provenienti dallo ShuttleRadar Topography Mission-SRTM, con 30 x 30 m di risoluzione spaziale emeno di 16 m di accuratezza verticale.I dati e le informazioni relative all’uso e copertura del suolo assumonosempre più un ruolo fondamentale nel contesto delle analisi am bientali.Essi sono necessari per la pianificazione e le politica di sviluppo territoria-le, per qualsiasi metodo statistico utilizzato e rappresentano gli stati diriferimento per il monitoraggio e la modellazione della copertura del suolo

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e dei cambiamenti ambientali. Ad oggi disponibili sul mercato, comemetodi e classificazione dell’uso e copertura del suolo, troviamo i seguen-ti metodi standard:- FAO Land Cover Classification System (LCCS), attualmente utilizzato alivello sperimentale ed utilizzato in paesi quali l’Africa, lo Yemen ed altri;- USGS United States Geological Survey, non utilizzato in tutti gli statimembri;- Unione Europea, CORINE Land Cover, strettamente consigliato.I dati multispettrali e iperspettrali su cui applichiamo gli algoritmi di clas-sificazione sopra indicati sono quelli provenienti dal telerilevamento satel-litare, ossia quelli con media e alta risoluzione spettrale (Landsat TM eETM+, Aster, Spot, Ikonos, QuickBird..ecc).I sistemi di classificazione sono la rappresentazione astratta della realtàbasata sull’impiego di criteri diagnostici predefiniti, questi criteri prendo-no il nome di classificatori. Essi possono essere a priori e a posteriori. Nei sistemi di classificazione “a posteriori” effettuiamo la raccolta deglioggetti con caratteristiche somiglianti attraverso la formazione di gruppi(clustering), mentre “a priori” le classi sono definite prima dell’acquisizio-ne dei dati e ogni oggetto viene identificato e associato ad una certa clas-se del sistema di classificazione predefinito.

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Tavola 4 Immagine a falsi colo-ri dell’Ikonos che mostra la qua-lità delle acque dei laghi diEagan, Minnesota. Fonte: Nasa.

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Tavola 5 Immagini dellaMongolia nord-occidentale(confine Russo-Mongolo) ripresedal sensore Modis a bordo dellapiattaforma Terra nell’aprile2006. A sinistra un’immagine afalsi colori che mostra in rossole aree interessate da incendiattualmente in corso, mentre learee brune sono state già invasedal fuoco. Nell’immagine adestra, a colori reali, si distinguenettamente la scia del fumogenerato dal fuoco che si dirigeverso sud-est. Fonte: NASA.

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Tavola 6 Immagine della costanord-orientale del Sud-America,tra il Brasile e la GuyanaFrancese, ripresa dal satelliteEnvisat nell’ottobre 2005. Lacosta della foce del Rio delleAmazzoni è interessata da unascia di sedimenti sospesi riversa-ti dal fiume in mare. Fonte: ESA.

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!Tavola 7 L’immagine mostra ilbacino del mediterraneo ripresodal sensore ATSR-2 nell’estatedel 1996, restituendo valorirelativi alla temperatura dellasuperficie del mare e alla vege-tazione. La temperatura dell’ac-qua (skin temperature) è stataderivata combinando i dati pro-dotti dalle bande dell’infrarossotermico. La scala di colori va dalrosso (caldo) al blu (freddo)attraverso variazioni di giallo everde. La copertura nuvolosa(bianco) persiste sopra laFrancia Occidentale e la costaatlantica. Grazie al tempo dirivisita (35 giorni) della piatta-forma ERS-2 di una zona dellaTerra, si può ottenere un moni-toraggio delle temperature e leloro variazioni con alta precisio-ne. L’immagine mostra altresì lacopertura vegetativa dei paesidel bacino mediterraneo, rap-presentate dall’indice SAVI (SoilAdjusted Vegetation Index),derivato dalla combinazionedelle bande del visibile. I colorivanno dal verde (coperturadensa) al marrone (aree aride).Fonte: ESA.

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Prologo. Modelli di società e modelli di natura in Marsh e nei tra-scendentalistiIl testo di George Perkins Marsh (1801-1882) (Man and Nature, del 1864),al quale Man’s Role è dedicato, costituisce un importante elemento diinnovazione nella concettualizzazione dello “stato di natura”, in quantopone immediatamente la questione del governo dell’ambiente e dellaregolazione delle attività umane ai fini della conservazione ambientale. Inquegli anni di conquista definitiva della Frontiera (avvenuta ufficialmentesolo trent’anni dopo), la nuova Frontiera si sposta su altri temi e spazi: l’or-ganizzazione delle città, dopo l’esaurimento della fase della costruzioneurbana di tipo coloniale (Reps, 1965), e, appunto, la questione ambienta-le. Più in generale, la questione che verrà posta, soprattutto ma non solonel corso della Progressive Era (1890-1920), riguarderà il tema della formadello Stato e dell’azione pubblica (dunque, del piano e delle politiche), inrelazione con diverse idee di democrazia.In questo dibattito l’evocazione della natura come modello o anti-model-lo sociale e politico è costante, come accade peraltro fin dalla classicitàcon la metafora dell’organismo. La natura diventa lo specchio della cultu-ra e dell’organizzazione sociale, sia in senso descrittivo sia normativo.I naturalisti sono al contempo osservatori della società e proponenti ordi-ni morali e politici che sono gli stessi ordini che vengono mobilitati perinterpretare i processi naturali. Secondo Emerson (1836), la natura non ènella natura, ma nell’uomo: la “natura indossa sempre i colori dello spiri-to”. Forse nessun’altro come Peter Kropotkin (libertario, economista, socio-logo, ma anche grande naturalista) ha espresso al livello più alto (comevedremo in un’altra parte di questo saggio) questa situazione polidiscipli-nare, nella quale il discorso sulla natura serve a costruire quello sulla socie-tà e viceversa (si pensi alla biografia e all’opera di Patrick Geddes), ormaida tempo perduta nei processi di differenziazione disciplinare1.L’ipotesi di Marsh, al contempo naturalistica e politica, non è la sola auto-revole. Nello stesso periodo, si confrontano altre posizioni, ed in particola-re quelle espresse dal movimento trascendentalista di Emerson (1803-1882), Thoreau (1817-1862) e Whitman (1819-1892), che avranno un’in-fluenza notevole sui preservationists, sulla filosofia politica di Dewey esulle prospettive della pianificazione regionale secondo Lewis Mumford2.In origine (siamo alla fine del Settecento), vi è la distinzione tra le idee di

1 Su Kropoktin, cfr. Purchase(2003). Su Geddes naturalista-sociologo-urbanista cfr. Ferraro(1998).2 Su questi temi la letteratura èvastissima. Per i legami tra tra-scendentalisti e Dewey si vedain particolare Urbinati (1997);per la posizione di Mumford, inrelazione alle questioni citatecfr. ad es. Dal Co (1973) eLucarelli (1995).

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STATO DI NATURA. PROCESSI NATURALI E PROCESSI SOCIALINELLE IDEE DI PIANIFICAZIONE DEL TERRITORIOLuciano Vettoretto

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3 Per una breve descrizione diquesta posizione, cfr. Friedmanne Weaver (1979).

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Stato in Hamilton e Jefferson (Lacey, 2000). Il primo sostiene un’idea distato forte, efficiente, ordinato e organizzato, uno Stato che pianifica, apartire da una prospettiva di pessimismo sociale e di conseguenza ipotiz-zando un ruolo necessario e positivo dello Stato, per mezzo di élite illumi-nate. Per Hamilton, lo Stato è oggetto di costruzione intenzionale (unaposizione vicina all’idea europea di Stato, simile per certi aspetti alladescrizione weberiana della burocrazia moderna), in un quadro di federa-lismo cooperativo. Ed è questo, in sostanza, il riferimento all’idea di gover-no dell’ambiente che propone Marsh. Dall’altro, vi è la visione arcadicadella repubblica agraria di Jefferson, una repubblica radicalmente decen-trata e organizzata per piccole unità autonome; una forma-stato che partedalla campagna piuttosto che dalle città, e dove lo Stato coincide con lasocietà civile. Una concezione radicalmente individualista della società,che attribuisce grande rilievo agli ordinary people, e che vede l’interdipen-denza tra soggetti non come fattore di sviluppo della comunità, ma comeelemento vincolante e di subordinazione. In questa prospettiva, lo Stato èuna condizione emergente, che accade come esito non intenzionale dellalibera interazione di molti soggetti. Questa concezione, assai prossima alleprospettive trascendentaliste, sarà sviluppata in modo particolare daiSouthern Regionalist guidati da Howard Odum (1884-1954)3, per i qualiil “regionalismo” è un fenomeno naturale, esito degli “sforzi per vivereassieme e dei bisogni comuni”, lontano dalla “standardizzazione naziona-le e dall’irreggimentazione”, in un “clima di cooperazione e pace con inostri vicini”, e nella prospettiva che il “regionalismo promuove l’unione enon l’unità” (Moore, 1937).

Marsh: la natura dualePer Marsh, i processi naturali sono stabili e tendono all’equilibrio di lungoperiodo. Ma questi processi sono sempre più disturbati dall’azione umana,in modi che sono spesso non intenzionali (in quanto non intesi o a causadegli effetti cumulativi), per i quali la natura, da sola, non riesce più a rag-giungere nuovi equilibri se non con l’intervento dell’uomo. La stessa azio-ne che ha disturbato spesso in modo irreversibile la natura contiene in séle virtù per un’azione di recupero. In altri termini, la natura, soprattuttoquando il suo equilibrio è stato turbato dall’uomo, va governata, ma ilgoverno deve essere intelligente. L’intervento deve avvenire entro un pro-cesso di co-working con la natura, il che implica una conoscenza profondadelle dinamiche dei sistemi naturali.Come molti suoi contemporanei, Marsh ha un’idea positiva della natura inquanto armonia e bellezza (come nel pensiero classico), così come gli eco-nomisti hanno un’idea positiva degli assetti di mercato, naturali in quantospontanei. L’armonia delle comunità botaniche, delle fasi pioniere dellecomunità naturali stabili, è lo stesso modello utilizzato per descrivere comedovrebbe essere la società umana. Ma, al contempo, Marsh rifugge da un’i-dea di natura “selvaggia” come riferimento per l’ordine morale (Lowenthal,

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1990). Questa è la posizione di molti suoi influenti contemporanei, comeWilliam James o Herbert Spencer (per i quali l’ordine naturale è un ordineindifferente alla moralità, quindi radicalmente incivile), come Tennyson(“la natura, rossa di zanne e di artigli”), o come Stuart Mill (ciò che gliuomini condannano, costituisce l’elemento quotidiano della vita in natu-ra). Secondo Marsh, “l’uomo, gli animali che lo servono, i suoi campi e giar-dini non possono esistere e arrivare al loro massimo sviluppo a meno chela natura bruta e incosciente non sia efficacemente combattuta, e, in unacerta misura, eliminata dall’azione degli uomini. Per questo, una certamisura di trasformazione della superficie terrestre e di soppressione dellanatura è necessaria. Tuttavia, questa misura è stata superata”, mettendocosì a repentaglio lo stesso sviluppo economico e sociale (Marsh, 1864, p.38), producendo desolazione, ambienti inadatti alla vita, improduttività, e(guardando alla storia degli antichi imperi) depravazione e barbarismo.Ciò che affascina Marsh, è l’idea di una nuova civilizzazione che, sotto unasapiente azione umana, ripristini ambienti che siano al contempo in gradodi salvaguardare la naturalità e che siano utili (produttivi in senso ampio)per l’uomo. Si tratta, allo stesso tempo, di un’azione di avvicinamento del-l’uomo alla natura e di una forma di civilizzazione della natura. Un nuovoequilibrio o armonia, nel quale non sia più distinguibile il dualismo uomo-natura o cultura-natura; armonia che si raggiunge attraverso un’interazionefertile tra processi economici e sociali saggi e moderati e processi naturali.Uno dei modelli di riferimento di Marsh sono le operazioni di regolazionedelle acque in Toscana e in particolare in Maremma, che considera comeuno dei più riusciti tentativi di ripristino ambientale, allo stesso tempocostruzione di un paesaggio produttivo e gradevole (ibidem, p. 350).La saggia moderazione nell’intervento dell’uomo è l’elemento chiave dellariflessione di Marsh. Saggia e prudente, perché le azioni sono spesso nonintenzionali, e gli effetti non voluti sono sempre incombenti, così comesaggia e prudente dev’essere l’azione umana nei confronti della tradizione(un’altra forma di natura, se ciò che persiste nel tempo assume un carat-tere naturale), da cui l’attenzione per il tema dell’heritage, della conserva-zione e trasmissione della memoria attraverso i musei della vita quotidia-na (un tema caro al positivismo, e portato ad un elevato livello di sofisti-cazione teorica e pratica da Patrick Geddes). Così come il linguaggio (che,come elemento primario, originario e pre-sociale della convivenza, è natu-ra; Marsh era poliglotta e cultore delle discipline linguistiche) deve essereprotetto da cambiamenti repentini, che metterebbero a repentaglio l’iden-tità sociale delle comunità. Mettere al riparo la natura (sia quella propria-mente intesa, sia la natura sociale, che si esprime tramite il linguaggio ele tradizioni) dalle azioni traumatiche è l’obiettivo di Marsh, un obiettivod’ordine e di stabilità. Così come la natura è il regno della stabilità, alme-no finché l’uomo non interviene provocando impatti irreversibili, anchel’ordine sociale deve essere stabile, e le trasformazioni devono collocarsientro un ordine evolutivo di lungo periodo. Nota Marsh: “l’amore per l’in-

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novazione è il più pericoloso, poiché può distruggere quello che solo annio secoli possono ricostruire”4.Queste prospettive hanno bisogno, per Marsh, di una grande rivoluzionepolitica e morale nel modo di pensare della gente, oltre a mezzi tecnolo-gici e finanziari (ibidem, p. 45). É per questo che Marsh enfatizza il suoesser dilettante di discipline naturalistiche, per mostrare la rilevanza di uncambiamento culturale come condizione di un rapporto diverso con lanatura. Marsh invita i suoi lettori a praticare lo “sguardo del naturalista”,quell’osservazione minuta che è alla portata di “qualsiasi persona di cul-tura” (ibidem, p. 17), come mezzo per costruire collettivamente una cono-scenza comune che induca al rispetto per la natura5. Ma l’abile ingegnereche possiede la conoscenza tecnica per ridare nuova vita e bellezza ai pae-saggi toscani della Maremma e della Val di Chiana, per regolare saggia-mente le acque, per conquistare la natura alla civiltà ma senza diminuirela sua utilità e la sua armonia, è l’eroe di Marsh. Eroe, insieme, della natu-ra e della costruzione di un nuovo ordine sociale, secondo la prospettivadell’utilitarismo benthamiano al quale sembra alludere Marsh (si noti chela pianificazione urbanistica europea, e britannica in particolare, ha radiciin questa versione dell’utilitarismo6).

La natura come diversità e sorgente di autenticitàPer Emerson, la natura non è tanto armonia quanto radicale insieme didiversità (secondo il “principio di von Humboldt”). La natura è unità nellavarietà, ed ogni particella è un microcosmo in relazione al tutto, non solonello spazio, ma anche nel tempo. I processi naturali e quelli sociali sonoparalleli e portano alla medesima conclusione, poiché ogni organizzazione(sociale o naturale) agisce sulla base dei medesimi principi. Nel contestopolitico-sociale, la diversità è indispensabile come reazione all’inerzia delleistituzioni.La posizione di Emerson, come quella di Thoreau e di Whitman, è radi-calmente anti-comunitarista7. La democrazia è un habit, un’attitudinecostante ad infrangere i vincoli delle tradizioni e dei legami di comunità,a sperimentare e praticare le differenze. Lontano dagli effetti del “com-mercio” (metafora della società urbana moderna), che crea omogeneità euniformità, la democrazia è natura (Whitman, 1871), proprio in quantosituazione e pratica della diversità, della libertà, che è libertà di “viverecon”, nota Whitman, fuori dai vincoli delle comunità che soffocano le ten-sioni individuali.Se la democrazia è natura, allora la natura ha in sé un valore intrinseco,non utilitarista. É ciò che consente all’individuo di ritrovare l’autenticitàesistenziale (e morale) attraverso la comunione solitaria con la natura, reci-dendo, come Thoreau nel suo lungo soggiorno presso il lago Walden(Thoreau, 1854), i contatti con la società. Mediante questo ritorno al séinteriore, per l’intreccio tra natura e morale (la virtù è una forza naturale,in quanto tale già costitutiva dell’essenza umana), si può sfuggire alle con-

4 Questi riferimenti sono assun-ti dall’introduzione diLowenthal all’edizione cit. diMan and Nature.5 Sul contributo di Marsh peruna morale ambientale contem-poranea, cfr. Lowenthal (2000).6 Come sostiene Eversley(1973).7 Seguo l’interpretazione diUrbinati (1997).

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8 Tra la fine dell’Ottocento e gliinizi del Novecento. La lettera-tura sull’argomento è ampia.Cfr. ad esempio Gottlieb(2001); Merchant (2002);Minteer e Manning (2003).9 Per una critica della posizionecfr. ad es. Callicot (2000).

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suetudini ed alle imposizioni della società, e fare della società un insiemedi individui liberi e morali.Per Emerson, l’ordine sociale risiede nella capacità degli individui di comu-nicare, e la comunicazione autentica si dà nell’amicizia. Osserva Urbinati(1997) che il punto di partenza di Emerson, e la sua giustificazione (anchereligiosa, con riferimento alla “teologia calvinista della salvezza attraversola vita civile”) dell’autonomia morale risiede nella pratica del confrontodialogico pubblico. Egoismo è isolamento e pretesa di non rendere pub-bliche le proprie ragioni; individualismo morale è invece partecipare alladeliberazione pubblica “sottoponendo alla prova del dialogo le proprieragioni… per trovare ragioni più solide per credere e opinare”. L’ordinesociale fondato sull’individuo morale è dunque riferito allo spazio apertodella polis democratica, nel quale si può trovare più “pienezza di vita”rispetto allo spazio chiuso delle comunità locali, “dove l’identità del sin-golo coincide con il riconoscimento di un’appartenenza” (idem).Se la posizione di Marsh, soprattutto attraverso la figura ideale dell’inge-gnere, introduce la questione della necessaria funzione della stewardshiptecnica dei processi naturali e umani in un senso che richiama l’utilitari-smo di Bentham, quella emergente dagli autori citati rinvia invece all’uti-litarismo e liberalismo di John Stuart Mill (Urbinati, 1997), il cui interessenon è tanto per il calcolo come procedura per la scelta pubblica morale,ma piuttosto per la formazione del consenso per via dialogica come mezzodel cambiamento di abitudini ed istituzioni. Sullo sfondo, vi è l’idea di unaricca diversità come motore dello sviluppo umano (Giorello e Mondadori,1981), che non può essere compressa nelle procedure “aggregative” delcalcolo utilitarista.L’idea di governo in questa prospettiva appare dunque quella che ilmiglior governo è quello che governa meno. Nella sintesi tra individuali-smo politico e religioso, nella ricerca dell’autenticità nella solitudine dellanatura e nel confronto dialogico tra amici, si delinea un modello di self-government radicalmente libertario e anti-comunitarista. Anche proba-bilmente élitario, se si pensa ai forti legami con la posizione “preserva-zionista” in particolare nell’accezione coeva e radicale di John Muir(1838-1914)8. L’interesse di Muir è, coerentemente con le posizioni esa-minate, per la wilderness, che ha il diritto di essere protetta dall’azioneumana e lasciata integra (perché “fontana della vita”), senza considerarele necessità umane. L’esposizione alla wilderness contrasta la perdita dicarattere, di virilità e di prestanza fisica e morale (doti essenziali per lacompetizione darwiniana)9 che il crescente benessere e l’espansione distili di vita da classe media urbana provocano.Ma quello trascendentalista è anche un modello in cui non vi sono media-zioni tra l’agire individuale e la formazione dell’agire collettivo in terminiistituzionali (di concezioni condivise del bene comune, di norme morali),mediazioni che rendono possibile la relazione e la comunicazione. L’ideache il soggetto sia sempre immerso in una rete di significati, e che la natu-

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10 Rinvio al mio Vettoretto(2003), e, per una ricostruzionedi lungo periodo, a Vettoretto(2006). Per un’interpretazionestorica delle vicende della piani-ficazione ambientale statuniten-se ma che interessa anche ilcaso europeo, cfr. Ortolano(2000).11 Cfr. In particolare Olmsted(1870). Tra i tanti resoconti cri-tici, cfr. Kalfus (1990); tra lebiografie critiche, cfr.Rybczynski (1999).

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ra sia un costrutto sociale piuttosto che uno spazio altro ed originario incui ritrovare l’autenticità, sarà tema sviluppato in seguito dai Pragmatisti.Ma alcuni elementi del pensiero di Emerson e Whitman saranno rilevantiper gli sviluppi futuri, in particolare nel quadro del Regionalismo diMumford e MacKaye, “una sintesi originale tra la sorgente scienza regio-nalista e la filosofia della natura del pensiero trascendentalista” (Dal Co,1973). Come vedremo, la posizione regionalista recupera la dimensioneutilitaria di Marsh entro cornici originali: il rapporto sempre critico con latradizione, l’idea di natura (e società) come unione di diversità piuttostoche come mero equilibrio statico, una concezione dialogica della pianifi-cazione.

Piano e natura, da Olmsted a MumfordDalla fine dell’Ottocento e per i primi decenni del Novecento, il discorsosul governo della natura sembra assumere due direzioni distinte. L’una, èchiaramente legata alla concezione hamiltoniana dello Stato e dell’azionepubblica, ed avrà uno sviluppo formidabile con la pubblicazione, nel 1911,dei principi dello scientific management del lavoro di Taylor. L’altra, comeabbiamo già notato, riprende, in parte, alcuni elementi della filosofia tra-scendentalista, sviluppando però una via originale del planning come“conversazione urbana” (Fisher, 2000).La prima posizione si evolve e si consolida in un’idea metodica della pia-nificazione, nella quale ciò che è rilevante è la definizione di una proce-dura (razionale, scientifica) come giustificazione della verità di un’asser-zione. Ciò che fa problema, è, essenzialmente, il collegamento tra la cono-scenza (tecnica) e l’azione, dal cui nesso virtuoso viene fatta discenderel’efficacia dell’azione di piano. L’idea della “conversazione urbana” poneinvece la questione dell’azione congiunta entro un contesto plurale, edelle possibilità di una costruzione intersoggettiva dell’azione di pianocome condizione dell’efficacia e della legittimità. L’intersoggettività, inqueste riflessioni, rinvia sia ad una dimensione cognitiva (la verità con-sensuale) che ad una dimensione etica, come possibilità di un’universalitàdelle differenze10.In questo periodo, questi orientamenti sono espressi dal taylorismoambientale e dal movimento regionalista. In questa situazione, l’opera diOlmsted assume caratteri di relativa originalità, ed influenza alcune posi-zioni del regionalismo.

Olmsted: democrazia e modernità, parco e città, conservazione natu-rale e socialeIl contributo di Frederick Law Olmsted (1822-1903) è importante per capi-re come, nella pratica concreta della pianificazione urbana, le distinzionitra conservationists e preservationists fossero meno rilevanti di quantopossa apparire11.Olmsted si chiede, retoricamente, perché, in una nazione dai grandi spazi

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aperti, la gente, in particolare gli strati sociali più poveri, si addensa nellecittà. Questa attrazione urbana, innescata dal progresso, è simile ad un’e-pidemia morale, genera malessere fisico e spirituale. Questo malesserederiva dal fatto che l’uomo ha una natura duale, è al contempo (buon) sel-vaggio e civile, ha in sé natura e cultura, e queste due anime sono in ten-sione. L’ambiente urbano soffoca la dimensione naturale (che è al con-tempo morale) dell’uomo, ed esalta quella dell’agire economico e stru-mentale. Ad esempio, la semplice interazione fisica nello spazio urbanoavviene tra soggetti che non si conoscono, ed è regolata da semplici rego-le di traffico. La moltiplicazione degli incontri casuali richiede calcolo eprevisione dei comportamenti altrui (come peraltro nel commercio e nellealtre attività economiche urbane), e ciò debilita e stanca la mente. La cittàha così profonde influenze sull’uomo, sia dal punto di vista della salute(aria, sole, attività fisica ridotta), che da quello morale, come progressivoindebolimento della communitiveness, intesa come disposizione naturalealla socialità, alla solidarietà ed alla reciprocità.Per Olmsted, l’ambiente più adatto alla vita civile è il suburbio; come nelpensiero di Emerson, il godimento della bellezza degli spazi rurali incre-menta il progresso civilizzatore, l’instaurarsi di relazioni amichevoli ed ilritorno dei quasi perduti rapporti di comunità. Ma anche la grande cittàpuò attenuare i suoi influssi negativi sulla condotta umana attraverso l’i-stituzione di parchi urbani pubblici, il cui obiettivo è fornire ai cittadini unambiente radicalmente diverso e contrastante rispetto allo spazio urbano.Olmsted enumera diversi tipi di parco, in relazione alle attività che vi sisvolgono, ma è chiaro che, in generale, il parco costituisce l’elemento diristoro della vita umana, che genera un effetto rilassante a partire dallacontemplazione collettiva, come pratica sociale, della naturalità (secondoOlmsted, la gente ha una tendenza spontanea a riunirsi, ma, nella città,questo avviene in spazi non adatti ed ostili, e questa socialità non produ-ce virtù, ma al contrario, può generare pericolo e disagio sociale, come leriunioni di giovani nelle strade, ecc.). L’ideale è un parco in cui possa espri-mersi la spazialità naturale della neighborly recreation (associazioni edattività socializzanti di piccoli gruppi in un paesaggio naturale), interclas-sista, piena di diversità e differenze sociali e culturali. Questo riunirsi didiversi uno spazio affascinante costituisce uno spettacolo in sé (Olmstedrichiama la propria esperienza di osservatore della folla nei grandi boule-vards parigini costruiti non molti anni prima sotto la guida del prefettoHaussmann). Come la natura è fatta di diversità, nelle sue componenti diflora e fauna, e come queste si riuniscono in natura producendo armonia,anche la società è fatta di diversità sociali e culturali, che, mentre compe-tono nello spazio urbano, che è spazio artificiale, e nella vita economica,possono armoniosamente riunirsi, osservarsi, condividere spazi ed attivitànella natura e grazie alla natura (che ispira sentimenti di pace, calma, tran-quillità), rivitalizzando così la disposizione individuale alla naturale com-munitiveness. La democrazia, come civile convivenza di diversi, si dà solo

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12 La concezione originariadella città-giardino di Howard(1898) attribuisce maggioreenfasi al carattere di necessariacomplementarietà tra città ecampagna (che, come l’uomo ela donna, devono congiungersiper generare le nuove genera-zioni), piuttosto che tra societàe natura. Per Howard, è comun-que la campagna, come madre-terra simbolo dell’amore di Dioe della cura degli uomini, lafonte di vita e di felicità, diogni bellezza e benessere,espressione e possibilità di unanuova vita realmente comunita-ria.13 Su questi temi rinvio al mioVettoretto (2006).14 Cfr. ad es. Lacey, 2000 (inparticolare per le vicende dellaTennesse Valley Authority);Wescoat, 2000; Gottlieb(2001); Merchant (2002);Minteer e Manning (2003);Schulman (2005).15 Su questo punto, cfr. il clas-sico Daly (1973).

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nella natura, e la natura urbanizzata (il parco) può quindi contribuire alrafforzamento degli ideali di democrazia e della stabilità sociale. Ma ilparco è anche, insieme, modernità, elemento di riorganizzazione deglispazi urbani, modello che anticipa il disegno delle strade e dei flussi di cir-colazione, diversificati e gerarchizzati, nelle città-giardino, in particolarenell’esperienza americana di Clarence Stein e di Henry Wright12. É, assie-me, elemento generatore di “vita buona” e pace sociale, di razionalizza-zione della vita urbana e di conservazione degli ordini sociali.

Dalla natura alle risorse naturali. Il taylorismo ambientaleAgli inizi del Novecento, l’azione pubblica e la costruzione dello Stato delbenessere assumono come riferimento strutture gerarchiche di governo,expertise e metodo scientifico. Il city planning diventa scientific city plan-ning, l’obiettivo è la città funzionale, l’ipotesi è che la soluzione ai graviproblemi della congestione porterà con sé anche la soluzione degli altriproblemi urbani, in particolare di quelli abitativi. In questa strutturazioneprofessionale del city planning, vi è una convergenza tra Europa e StatiUniti. Lo scientific city planning coniuga i principi tayloristi di organizza-zione del lavoro con l’idea di città efficiente dell’urbanistica tedesca e conquella weberiana dello Stato moderno13.Lo stesso accade per quanto riguarda l’idea di natura. Nel movimento deiconservationists14, la natura viene spogliata dei suoi significati simbolici edel carattere di specchio della società, per diventare risorsa economica dagestire in modo efficiente. Si recide in questo modo il legame tra natura ecultura. La natura diventa un elemento dell’economia nazionale, da utiliz-zare per via di una nuova government science (che anticiperà l’arte ciber-netica del governo), cioè di conoscenza esperta, in nome dell’interessepubblico. Per uno dei massimi protagonisti, Gifford Pinchot (1865-1946),l’arte della gestione delle risorse forestali consiste nel ricavare dalle fore-ste qualsiasi cosa si possa produrre al servizio dell’economia. L’obiettivo è,insieme, lo sfruttamento delle risorse naturali e la gestione dei progetti edei processi mediante settori indipendenti dell’amministrazione pubblica,con elevata competenza tecnico-scientifica, e forme di pianificazione razio-nale. Forse, più che le esperienze dello scientific city planning, sono statequelle della pianificazione ambientale a fornire un modello di razionalitàscientifica (ruolo della conoscenza tecnica, razionalità organizzativa nelpassaggio tra formulazione e implementazione delle politiche, analisi delleinterdipendenze funzionali e intersettoriali, ricerca dell’ottimizzazione) peril modello della pianificazione metodica e “razional-comprensiva” deldopoguerra.Questo movimento ha contribuito in una certa misura alla riproduzionedei sistemi naturali, ma entro un modello di sviluppo orientato all’effi-cienza e crescita economica che ne minava sostanzialmente le premesse15.Anche se troverà grosse difficoltà politiche a sopravvivere all’amministra-

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16 Sulle esperienze rinvio aitesti citati.17 Si pensi che per John WesleyPowell (1834-1902), la conser-vazione nei territori dell’Ovestdoveva comportare la rimozionedei Nativi dalla loro terra, perfavorire il declino delle tradizio-ni e il processo di civilizzazione(Kirsch, 2002).18 L’interpretazione diKropotkin si basa, per quantoriguarda Kropotkin naturalista,su Purchase (2003), e relativa-mente a Kropotkin regionalista-urbanista, direttamente suKropotkin (1898).19 Odum (1953) dirà, in tempipiù recenti, che le relazioni posi-tive (commensalismo, coopera-zione, mutualismo) sono impor-tanti quanto la competizionenel determinare la natura dellepopolazioni e delle comunità.

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zione Roosevelt, ha nondimeno costituito un’innovazione straordinaria.L’amministrazione Roosevelt aveva definito più di un’agenda della conser-vazione; aveva tentato di fare della questione ambientale uno degli ele-menti più rilevanti della costruzione del Welfare State ed un modelloesemplare di governo del territorio, proponendo un modello integrato dipianificazione, che riguardava al contempo l’uso delle risorse forestali, idri-che, l’irrigazione, la produzione di energia, il disegno insediativo e le poli-tiche di sviluppo economico16.La rottura con le concezioni precedenti è notevole, anche se si può consi-derare Marsh, nella sua predilezione illuministica per la figura dell’inge-gnere come figura di riferimento della progettazione di un nuovo “stato dinatura”, come un anticipatore. Ma, in Marsh, gli ambienti sono ancoratanto naturali quanto culturali. Invece, gli elementi di modernizzazionecon cui si rilegge, nel movimento conservation, la questione della naturalasciano poco spazio all’umanesimo17 e all’idea, energicamente sostenutada Patrick Geddes, che la Terra è, nel suo insieme, cultural heritage da tra-smettere alle generazioni future.

La ridefinizione del nesso natura-cultura nell’idea regionalista di pianoAl distacco tra cultura e natura, corrisponde quello tra conoscenza tecnicae conoscenza ordinaria, tra ruoli di governo e di amministrazione, tragoverno e società civile. Dal lato della pianificazione, è l’affermarsi delleprospettive metodiche. Tuttavia, nel medesimo periodo, si forma un’ideadiversa di pianificazione; si tratta, come per il city planning scientifico, diun filone di interesse che interpreta alcune esperienze europee (in parti-colare quelle di Kropotkin, Reclus, Geddes) definendo un nuovo orizzonte,il regionalismo.

La natura socievole e la società naturale: Kropotkin e ReclusPer Kropotkin18, la natura è un’unità dinamica di diversità, sempre in unasituazione di equilibrio instabile, il cui stato non è l’esito di forze esterneo di una qualche autorità superiore, ma di processi selettivi di auto-orga-nizzazione. Diversità e varietà sono elementi essenziali nel mantenimentodella stabilità. La selezione avviene sia tramite competizione tra organismi,sia mutualismo tra organismo e ambiente, ma la sopravvivenza di un orga-nismo dipende essenzialmente dalla capacità di adattamento all’ambien-te o dalla modificazione dell’ambiente o della comunità di appartenenzain forme cooperative (non dalla competizione con altri organismi)19.Contro le forme volgarizzate del darwinismo (e soprattutto del darwinismosociale), Kropotkin immagina che l’evoluzione sia l’esito di processi coope-rativi tra organismi che convivono come gruppi egualitari. Gli animalisociali sarebbero meglio in grado di modificare il proprio ambiente esoprattutto di trasmettere informazione ad altri membri; proprio l’intera-zione “comunicativa” e la capacità di apprendimento sarebbe alla base deiprocessi evolutivi. La socialità, quindi, sarebbe la condizione per lo svilup-

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20 Tra la vasta letteratura, cfr.ad es. Bookchin (1987) eGordon (1990).

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po di comportamenti intelligenti e delle più elevate possibilità di soprav-vivenza; l’affrontare in modo cooperativo le minacce ambientali condur-rebbe alla formazione di un senso morale, come codice di condotta orien-tato al bene comune.Non c’è differenza tra modello di natura e modello di società e di gover-no. Anche l’uomo ha una socialità costitutiva originaria. La situazione èdegenerata perché, nel corso del tempo, le differenze di età, genere e forzahanno condotto allo sviluppo di gerarchie e di autorità centralizzate (loStato leviatano contro lo stato di natura, secondo Hobbes), ma la dimen-sione e la tensione egualitaria e cooperativa non sono sparite, ma sonosempre presenti – in quanto naturali –, a volte sviluppando conflitti aper-ti con la componente gerarchica. La storia dell’evoluzione sociale è unastoria di confronto tra questa natura duplice dell’organizzazione sociale,dove l’evento rivoluzionario costituisce liberazione di energia creativa ini-bita dal torpore dell’inerzia autoritaria e gerarchica.In questo senso, la città appare a Kropotkin come il luogo e la forma socia-le che maggiormente contribuisce all’evoluzione poiché in grado di creareuno spazio pubblico e civico insieme cooperativo ed innovatore. Per que-sto, la città, lungi dall’essere elemento generativo e deposito dei malisociali (com’è sostanzialmente nell’idea di città-giardino di Howard),diventa il prodotto naturale dell’evoluzione, poiché rappresenta l’esito piùevidente della natura sociale e cooperativa dell’uomo.La città tuttavia per vivere ha bisogno di risorse, e queste si ritrovano nellaregione. D’altra parte, le tecnologie per la produzione agricola ed indu-striale e le tecnologie dei trasporti consentono di portare la cultura urba-na anche fuori dalla città, in “villaggi industriali” caratterizzati, come nellostato di natura che tende all’armonia e all’evoluzione, da una ricca diver-sità e varietà (agricoltura intensiva, piccola industria, ecc.), in un quadro didiversità regionali. Anche se la prospettiva di Kropotkin attribuisce moltorilievo all’idea di auto-sufficienza (secondo prospettive che richiamanoimmediatamente le concezioni contemporanee di green city e di comuni-tà auto-sostenibili)20, ciò che è rilevante è il nesso che Kropotkin istituiscetra varietà-diversità, necessaria alla stabilità ed evoluzione dei sistemi, egoverno degli stessi. Egli non indulge, da radicale libertario, ad alcunaidea di ritorno comunitario (come Howard). La comunità non è mai comu-nità di luogo, ma comunità di interessi (che produce associazioni volonta-rie piuttosto che vincoli ascrittivi). Il luogo è un contesto scelto, base mate-riale della vita della città, ma non costituisce mai un vincolo di apparte-nenza o identitario. I “villaggi industriali” sono un’estrema metafora dellavarietà, piuttosto che un dato ontologico, in una situazione di self-gover-ning, di democrazia diretta e di estrema fluidità dei confini e delle appar-tenenze (se la comunità è associazione di diversi, questi, nelle ipotesi diKropotkin, sono altresì degli eguali di fronte alle opportunità di mobilitàsociale e spaziale). Questi “comuni” non sono interi-chiusi, ma insiemi dipopolazioni diversificate, che formano comunità non-territoriali di interes-

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21 Il termine è stato introdottonelle scienze naturali da GeorgeLewis. Per una storia del concet-to di emergenza nelle scienzenaturali cfr. Purchase (2003).

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si con quelle di altri comuni; è questa situazione, che parte “dal basso”, adefinire le possibilità di un modello di governo federalista.L’idea di divisione del lavoro viene superata da quella dell’integrazione dellavoro (Kropotkin, 1898), come coniugazione di lavoro manuale e intellet-tuale. Ciò rappresenta il trionfo della diversità non solo a livello sociale,ma anche a livello individuale. E, come in natura, ciò che accade non è maipienamente prevedibile, ma è “emergenza”21, cioè evento innovativo, nonprevisto, derivante dall’interazione tra diversità, talora positivo, che intro-duce discontinuità rispetto all’uniformità del gradualismo positivista.Elisée Reclus (1830-1905), uno dei massimi geografi moderni, condivide erafforza, da un punto di vista della proposta di forme territoriali adegua-te, le ipotesi di Kropotkin. In un orizzonte radicalmente libertario dellasocietà (della natura), Reclus afferma che “la natura selvaggia è bella”(Reclus, 1866), e che la sua distruzione elimina i contrasti, che sono bel-lezza e ricchezza, in favore di un’uniformità desolante. Come perKropotkin, la natura è varietà, diversità, libertà, cooperazione. Come inMarsh, è possibile per l’uomo convivere con la natura in una “grande fami-glia” (Reclus, 1897), generando al contempo, come in Lombardia eSvizzera, maggiore produzione agricola e protezione dei paesaggi, aggiun-gendo arte e utilità alla bellezza naturale. La contemplazione della naturaè liberazione ed elemento primordiale dell’educazione, perciò l’uomomoderno deve saper coniugare i privilegi offerti dalla civilizzazione con levirtù degli antenati e le tradizioni di coloro che hanno riprodotto i pae-saggi, virtù basate sulla sapienza consolidata e sulla conoscenza minuta ediffusa dei fenomeni della natura. Come Kropotkin, anche Reclus svincolal’idea della conservazione e dell’intervento consapevole sul paesaggio dauna dimensione tradizionale di comunità. Anzi, il punto di partenza è pro-prio la liberazione dei soggetti dai vincoli di luogo e di comunità cometratto virtuoso della modernità. L’uomo è un nuovo nomade, liberato dallenecessità e socializzato nella città, che usa e percorre il territorio sulla basedei propri interessi materiali o per puro piacere, in un mondo emancipatodai vincoli della consuetudine e della tradizione, avendo riconquistato l’a-bitudine primordiale (naturale) alla mobilità (Reclus, 1866). Il nomadismo,che è carattere proprio delle società arcaiche, viene ora reinterpretato nellamodernità, come sintesi di civiltà, liberazione e naturalità.Natura e società sono quindi caratterizzati da varietà, diversità, mobilità,fluidità. La modernità non significa necessariamente declino della natura,poiché vi è una tendenza naturale alla bellezza come sforzo cooperativo,anche non intenzionale. In questo quadro, la città, anche se appare un“polipo” che invade gli spazi naturali e rurali, è motore della liberazione.Ma è anche costitutivamente associata ad un “principio di morte”, di inde-bolimento fisico, di degrado. Occorre, per Reclus, oltre che ovviare ai pro-blemi della salute urbana, permeare la regione della civilizzazione urbana,trasformare la campagna in una rete di aggregazioni urbane (salvaguar-dando gli spazi aperti dall’abbrutimento della speculazione edilizia e dal-

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22 Su Geddes naturalista e irapporti con la concezione dellapianificazione cfr. Ferraro(1998) e Welter (2002). Perun’ampia contestualizzazionedel contributo di Geddes cfr.Welter e Lawson (2000). Sugliaspetti educativi, cfr. Stephen(2004).23 Welter (2002).24 Geddes, Life, cit. in Ferraro(1998).

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l’indifferente ripetitività delle opere pubbliche che tutto uniforma), ciascu-na delle quali promuove un “centro” per la vita comunitaria, come nuovaagorà che irradia, dal centro e dalle sue istituzioni culturali e educative,civiltà e progresso. Città e campagna si fondono, ma non perché la città siruralizza (come, in sostanza, nell’ipotesi della città-giardino di Howard), maperché la campagna acquista la stessa dignità culturale, civile ed emanci-pativa della città (Reclus, 1895). La cooperazione è fattore di evoluzione,ma lo è anche il conflitto per l’emancipazione politica e sociale, secondouna prospettiva che riconcilia libertà, cultura, autonomia, civilizzazione.

Teoria e pratica del planning per una concezione cooperativa dellanatura e della società: Patrick GeddesPatrick Geddes (1854-1932) assume pienamente la visione della naturacome attività essenzialmente cooperativa, la sua funzione educativa22, leaspettative del passaggio dalla società “paleotecnica” ad una società“neotecnica” come orizzonte di riorganizzazione insediativa e delle rela-zioni sociali. Il legame con il planning si opera soprattutto in relazioneall’idea che, lamarckianamente, le trasmissioni sempre selettive dell’heri-tage (materiale) e della tradizione (la cultura) abbiano bisogno di unaguida (Ferraro, 1998), e che questa guida si costituisca, come nell’idea dinatura in Kropotkin, mediante atti comunicativi e processi di apprendi-mento sociale.Il pensiero di Geddes, forse proprio perché orientato ad un’attività colletti-va di interesse generale (il planning) non assume mai la radicalità delleposizioni di Kropotkin e di Reclus, ed appare connotato da una sorta di“radicalismo conservatore” (Law, 2005). Rispetto ad entrambi, non si ritro-va in Geddes la costitutiva dualità (insieme competitiva e cooperativa, sta-bile e rivoluzionaria) della natura e dell’individuo (siamo al contempo sel-vaggi e cittadini del mondo moderno, ed è per questa ragione che, in modo“naturale”, intratteniamo o dovremmo intrattenere un rapporto di pace edi amore con la natura, di cooperazione e non di sfruttamento, dice Reclus,1897). L’antropologia geddesiana dipinge una società di individui già pro-fondamente acculturati in un lungo processo evolutivo di cooperazione coni propri simili e con l’ambiente (per Geddes, la città è il vincolo sociale eculturale ai mali dell’individualismo23, e “tutta la Terra è heritage”24). La val-ley section (Geddes, 1905) è la rappresentazione geografica del successodell’evoluzione come adattamento delle attività umane all’ambiente(secondo le leplayane relazioni place-work-folk). La varietà di occupazionirende ricca la regione, che è regione definita dai confini naturali, una bio-regione, così come le specie rendono ricchi i contesti naturali, e la struttu-ra con forme insediative differenziate, al cui apice evolutivo si colloca lacittà, simbolicamente collocata alla foce di un fiume (il fiume è metaforadella storia, del processo, della rappresentazione del progresso evolutivo).Nella regione e nella città non vi è spazio per il conflitto sociale. Per

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Geddes, i mali della città derivano da un lato da un inadeguato adatta-mento delle attività nell’ambiente25, dall’altro da una realizzazione incom-piuta della vita civica. Vita civica non significa solo attenzione alle dimen-sioni materiali, ma soprattutto alla trasmissione evolutiva (e pertantoselettiva, curata) delle tradizioni e delle memorie (che consolidano la cono-scenza locale e l’amore per i luoghi, assieme all’amore – cooperazione –tra abitanti) che avviene nei luoghi della produzione della cultura urbana(centri civici, musei, scuole, università), in un quadro assai complesso del-l’idea di città come unità organica (Geddes, 1906).Lo scopo del planning è rendere coerente l’ambiente alle attività, avendoperò cura di saper individuare e tracciare una linea evolutiva (l’ontogene-si del luogo), in relazione a quelle degli altri luoghi (la filogenesi). É dun-que essenziale la conoscenza dei processi storici sia del luogo specifico chedi altri luoghi, come fondamento per la trasmissione selettiva dei tratti cul-turali più soddisfacenti per una vita civile avanzata, quelli che, come innatura e lamarckianamente, inducono o sostengono un percorso evolutivodesiderato ed il miglior adattamento possibile all’ambiente. E, come innatura, i processi devono essere cooperativi. La civics geddesiana non èsolo una disciplina di sintesi tra sociologia, scienze naturali, storia, geo-grafia; indica anche l’impegno dei cittadini negli affari sociali, poiché, nel-l’antropologia di Geddes, così come in quella di Kropotkin, il soggetto ècooperativo per natura, e perché non si dà evoluzione senza cooperazione,comunicazione e apprendimento.Lo strumento fondamentale di questo processo evolutivo è la survey, cheè non solo tecnica preliminare al piano, ma mobilitazione di comunità,risvegliamento delle coscienze, riconoscimento sociale dei processi evolu-tivi e conseguente assunzione di responsabilità. La survey geddesiana èpartecipazione attiva ai processi evolutivi, è modo di trasmissione dell’he-ritage culturale, del senso dei luoghi; è rinnovamento degli interessi civici(Geddes, 1906). É, come nella tradizione naturalistica (Ferraro, 1998),minuziosa, non ambisce alle grandi sintesi teoriche come quelle proposteda Comte o da Spencer, considerate da Geddes tanto eleganti quantopoco fertili sul piano operativo, ed è attività eminentemente pratica, per-ché “l’azione non può mai aspettare che una teoria sia completa”26. É sur-vey che mobilita tanto la ragione quanto le emozioni, secondo la lezionedell’Illuminismo scozzese, così vicino a Geddes, e di Hume in particolare,che ha mostrato come ciò che muove l’azione non è tanto la ragione quan-to il sentimento. La società migliora da sé, con un’evoluzione saggiamen-te guidata, che dà ampio rilievo alla dimensione dell’educazione e dellacultura come modello di una cittadinanza informata che decide per sé. Lacivics (cooperativa, educativa, pedagogica, evolutiva) sostituisce la politics(conflittuale, prodotto storico dell’interazione antagonista tra gruppi didiversi, e fondamentalmente dissipativa). La partecipazione dei cittadininon significa tanto prender parte ad una decisione, ma appartenere atti-vamente ad una cultura (nei suoi nessi inestricabili con la natura), risco-

25 Per Geddes (1906), l’eserci-zio della libera volontà consistenella scelta tra fattori disponibi-li in un insieme dato dalle con-dizioni ambientali.26 Cit. in Law (2005).

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prendola e rinnovandola continuamente nel fluire del tempo, entro unorizzonte evolutivo e di apprendimento sociale.

Naturalità, spontaneità, autenticità: Park, Mumford, MacKayeLe prospettive geddesiane trovano buona accoglienza negli Usa, in parti-colare presso alcuni protagonisti del movimento regionalista come LewisMumford (1895-1990) e Benton MacKaye (1879-1975)27. Nello stessoperiodo, agisce autorevolmente sulle idee della pianificazione la prospet-tiva della Scuola di Chicago, che presenta un’altra concezione del rappor-to uomo-natura rispetto alle posizioni regionaliste.La Scuola di Chicago introduce nel dibattito sulle forme moderne di gover-no del territorio l’idea (già largamente esplorata nel pensiero liberale e inparte dell’economia classica) che è naturale ciò che è spontaneo. L’ideadella naturalità viene essenzialmente sganciata da una critica della moder-nità (come avviene ancora in Marsh); anche i processi industriali e di urba-nizzazione possono essere considerati naturali poiché sono il prodottodella natura umana e delle relazioni sociali che, come quelle tra animali ovegetali, sono sempre di competizione e di selezione28.L’organizzazione ecologica della comunità urbana è quindi analoga a quel-la dei sistemi naturali, con la differenza che gli umani hanno il potere discegliere il proprio habitat e di modificarlo. La mobilità è il fattore atti-vante, mediante processi di invasione e successione, della formazione di“aree naturali”, spazi di relativa stabilità e di sostanziale omogeneità socia-le e culturale (delle “regioni morali”), le quali, per effetto della formazionedei valori economici dei suoli, attraggono solo individui simili. La coope-razione, la formazione di identità spaziali, la costruzione di immagini ereferenti simbolici è questione interna ai diversi gruppi, secondo una logi-ca di territorialità. Un ordine generale definito dall’alto e dall’esterno sem-bra impossibile, in una situazione fluida di conflitto e competizione; il con-trollo sociale avviene piuttosto tramite la diffusione delle notizie, dellapubblicità, dell’essere oggetto costante di osservazione da parte dell’altro.In definitiva, il controllo sociale sembra scaturire (in modo naturale) dallaprossimità spaziale, dalla densità, dalla competizione tra i gruppi. La for-mazione delle aree naturali (che, se sufficientemente stabili, possono costi-tuire “vicinati” tanto di solidarietà quanto di controllo sociale29) e di con-seguenza della struttura urbana, dipendendo così strettamente dai pro-cessi naturali-sociali di competizione, appare essenzialmente non-intenzio-nale. Il piano, quindi, ha possibilità molto modeste di trasformazione, “per-ché la città ha una sua propria vita”; deve essere fondamentalmente adat-tivo, assecondare le tendenze naturali e cercare al più di favorire la costi-tuzione di comunità parziali (le “unità di vicinato”) come forma, al con-tempo, di organizzazione spaziale, di controllo politico e sociale e di asset-to funzionale alle dinamiche spontanee dell’economia urbana. Questo èl’intento, secondo Mumford, del “metropolitanismo”30, al quale egli oppo-ne un’alternativa radicale nella forma di un regionalismo che rilegge la

27 Le interpretazioni di questomovimento sono innumerevoli.Segnaliamo, per quanto riguar-da più strettamente gli obiettividi questo scritto: Sussman(1976); Friedmann e Weaver(1979); Lucarelli (1995); Spann(1996); Fishman (2000).28 Park ed altri (1925).29 Com’è noto, una parte dellacultura urbanistica ha tentato,con successo discutibile, dicostituire per via di piano “areenaturali” e vicinati.30 L’esempio di riferimento è ilPiano Regionale di New Yorkdel 1929, diretto da ThomasAdams, con il quale Mumfordpolemizzò a lungo e aspramen-te. Per una ricostruzione di que-sta vicenda cfr. ad esempioJohnson (1996).

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posizione di Geddes alla luce delle idee sulla conservation, degli insegna-menti di Emerson e Whitman e dell’idea di survey e di democrazia in JohnDewey.Per Mumford, come per MacKaye, la natura non è solo ambiente fisico, mainterdipendenza e cooperazione “organica” tra comunità umane e naturali.Come nel co-working di Marsh, le società umane sono elementi attivi nellarestoration della natura. Ciò che è natura è al contempo cultura (come inGeddes); la sintesi tra natura e cultura si opera nella regione (ancoraGeddes), che si può considerare come un microcosmo nel quale entrano incoerenza le relazioni tra ambiente fisico, risorse naturali, organizzazionesociale ed economica, cultura e tradizioni. La regione appare anche quelcontesto nel quale opera politicamente (vale a dire attraverso forme didemocrazia partecipativa) la survey regionale come elemento non solo dirisvegliamento delle comunità e di trasmissione dell’heritage (come inGeddes) ma soprattutto come produzione e valorizzazione di conoscenzalocale (assunta come fondamentale sviluppo di un senso di appartenenzanella nuova democrazia regionale) e pratica di sperimentazione collettiva disoluzioni nella prospettiva del pragmatismo deweyano (Dewey, 1916)31.Per MacKaye32, la questione fondamentale è quella del territorio abitabile.Cultivating habitability significa rendere la Terra abitabile, così comel’hanno resa abitabile, per le specie animali e vegatali e per l’uomo pre-moderno, i processi naturali. Nell’idea di cultivating la Terra vi è l’idea dicura, ma anche e soprattutto l’idea di comprendere in una medesima cul-tura la società e la natura, dissociate nei processi della modernità.L’habitability si riferisce al contempo al contesto fisico (dove le questioni-chiave riguardano la preservazione della wilderness e la conservazione erinnovamento delle risorse naturali; ma la conservazione è anche unametafora, che allude alla conservazione dei valori comunitari minacciatidall’“alluvione metropolitana”), a quello economico (le basi di sostenta-mento della società locale) e a quello sociale (come qualità complessiva divita di un contesto). La politica di governo del territorio (che non è dis-giunta dalla pianificazione ambientale) è complessa, essendo al contempouna politica di sviluppo economico, in particolare degli spazi rurali, diorganizzazione e distribuzione delle attività e delle popolazioni in un terri-torio, di salvaguardia e ripristino delle risorse naturali33. L’esperienzadell’Appalachian Trail (MacKaye, 1928) è esemplare come modello di valo-rizzazione economica di risorse naturali che al contempo ha l’ambizione diattenuare i mali della società moderna, offrendo agli abitanti urbani lapossibilità di un nuovo contatto con la natura, che, emersonianamente,dovrebbe contribuire a ripristinare una dimensione di autenticità nell’esi-stenza individuale e collettiva. Il tema-chiave è quello della re-creation, siacome uso del tempo libero da parte degli abitanti della città, ma soprat-tutto come ripristino di un senso di comunità e di interdipendenza tranatura e cultura, che si è andato perdendo nelle vicende della modernitàe nella wilderness artificiale (l’urbanizzazione e l’industrializzazione come

31 Su questo punto rinvio, perbrevità, a Friedmann e Weaver(1979) e a Minteer (2003).32 Cfr. MacKaye (1928) e(1968).33 La distinzione tra forestmining (come puro sfruttamen-to delle risorse forestali) e forestculture (come strutturazione dicomunità stabili e auto-sosteni-bili, basate sull’integrazione trarisorse forestali e turistiche) èesemplare.

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contesti selvaggi, di competizione, alienazione, inautenticità). A differenzadi Olmsted o dei preservazionisti, MacKaye non crea parchi, ma dei siste-mi di connessione e di valorizzazione in grado di salvaguardare i grandispazi aperti, mettendoli in relazione con gli spazi urbani. Il trail non è soloun percorso tra ambienti diversi (qualcosa che unisce i vari elementi dellavalley section geddesiana), ma è un’esplorazione ed un fare esperienza dimodi diversi di vita e di legami con la natura, una metafora della civiliz-zazione e dei suoi problemi, una politica di sviluppo locale, una forma edu-cativa di riproduzione e trasmissione della tradizione nel senso geddesia-no. Sebbene la nostalgia per il modello del villaggio rurale sia forte, ealtrettanto forte il pregiudizio antiurbano, non per questo la modernità èrifiutata. Alle tecnologie, in particolare a quelle energetiche e dei traspor-ti, si attribuisce grande valore nel ridefinire in senso socialmente e ambien-talmente positivo l’organizzazione spaziale34.In questo quadro, la pianificazione deve essere intesa come una nuovaesplorazione. Se quella vecchia, dei pionieri, muoveva dalla città verso lanatura, occorre ora invertire il percorso, ripartire dalla natura per riconqui-stare città rinnovate, riportando il senso di comunità nella vita urbana.L’esplorazione è un modo di stare nel mondo, che dà rilievo alla dimen-sione esperienziale della conoscenza ed all’inatteso, alla sorpresa chegenera apprendimento (il planning è revelation, processo che può condur-re all’emergere di possibilità nascoste tramite il rapporto con la natura econ i mondi vitali non ancora colonizzati dalla modernizzazione).Esplorazione è pratica sociale, che costruisce competenza diffusa e sensi-bilità nei confronti dei processi naturali e umani. É per questa via che l’e-splorazione contribuisce ad una democrazia regionale come pratica di con-divisione di esperienze, e che radica il planning in uno sfondo comune econdiviso, contro le accezioni (di derivazione tayloristica) del planningcome specialismo. Per MacKaye, il planner e il dilettante (la conoscenzatecnica e quella ordinaria, diffusa) sono come un solo organismo, “uncorpo con un’unica testa” (MacKaye, 1928). Se il planning è “rivelazione”,nel senso della ricerca-esplorazione attiva dei meccanismi evolutivi dei ter-ritori, la tecnica del planner non è sufficiente, poiché può condurre a solu-zioni dogmatiche e lontane dalle pratiche locali che sole incorporano ilsenso dei luoghi. Per questo, vi è bisogno di un’alleanza tra conoscenzatecnica e conoscenza locale diffusa.In definitiva, il planning (che, prima di essere una tecnica, è un modo dipensare) non è tanto interessato alla conservazione delle risorse, quantopiuttosto all’esplorazione come processo di produzione di un’identità col-lettiva di nuove comunità auto-organizzate, self-sustaining e self-renewal,contro le comunità eterodirette, “accompagnate paternalisticamentedallo Stato”.Per Mumford la regione è spazio della natura e insieme spazio dell’inte-riorità. É al contempo un fatto naturale e un fatto sociale. Nelle regioninaturali si sviluppano specifici modi di vita, che evolvono e si trasformano

34 Ad esempio nella formedelle townless higways, elemen-ti infrastrutturali che scoraggia-no la dispersione di insedia-menti conseguente all’abusodell’automobile.

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a causa dello sviluppo della cultura locale e dell’interazione con altre cul-ture regionali, poiché la regione non è mai autosufficiente (Mumford,1925 e 1931). L’ambiente regionale pone vincoli allo sviluppo dei tipi diattività che possono essere svolti, e ciò influisce sugli habit e sulle istitu-zioni. Al contempo, la regione fornisce un quadro comune, un insieme dibeni comuni materiali (aria, acqua, e altre risorse naturali) e immateriali,nella forma dell’accumulazione di esperienze dell’abitare e del produrre.Caratteri fisici e vincoli alle forme dello sviluppo, beni comuni, tradizioni,conoscenza locale è ciò che unisce la regione, che le conferisce un’identi-tà. La condivisione di beni comuni in una situazione di interdipendenza ela percezione della rilevanza dell’ambiente fisico come matrice culturale,sociale ed economica è ciò che costituisce la base essenziale della demo-crazia locale regionale, come consapevolezza di un’appartenenza comunee della necessità della cura collettiva dei beni comuni.Ma la regione, che è unità organica di esistenza, è minacciata, nei proces-si di modernizzazione, da “forze universali” (come la tecnica). Un regiona-lismo consapevole e non nostalgico non deve ignorare la rilevanza di que-sti processi, che tuttavia non cancellano le identità regionali, ma piuttostole uniscono in un grande insieme di diversità (Mumford, 1931).L’antropologia di Mumford vede individui educati alla cooperazione (comeelemento naturale delle relazioni sociali), che conoscono in profondità illoro territorio, che sono uniti da un sentimento comune nei confronti delpaesaggio e dalla condivisione di beni comuni. Partendo dal rispetto di séstessi e dall’amore per la cultura regionale, essi sapranno comprendere edamare anche le altre regioni, assicurando così la possibilità di un ordinesovra-regionale.Ciò che preoccupa maggiormente è l’eccessiva mobilità e fluidità dei pro-cessi e delle persone, che possono frammentare le culture locali e metterea repentaglio le identità35. Occorre dunque stabilità; una settled life, fon-data sulla cura ambientale e su un uso equilibrato delle risorse, organiz-zata sulla base di un sistema regionale decentrato di trasporto a serviziodi un insieme di piccole new towns modellate sul principio delle città-giar-dino, come possibilità di vita in una società a tecnologia ed economiaavanzata e, al contempo, con una vita quotidiana strutturata alla scaladelle relazioni sociali di prossimità e in stretto contatto con la natura36. Ilpiano è la pratica sociale che dovrebbe consentire, oltre alla stabilità dellecomunità insediate tramite un intelligente uso delle risorse regionali, l’u-nità nella diversità (sociale e ambientale). Per questo è importanteun’“intelligente partecipazione” alla survey, alla definizione critica deibisogni ad alla “ricostruzione e progettazione creativa” di un nuovo qua-dro di vita regionale (Mumford, 1938). La survey è raccolta visiva, direttae sistematica, di fatti, “non come appaiono allo specialista ma qualiappaiono soprattutto a quanti popolano la regione” (idem, p. 392), par-tendo dalle comunità locali come centri di attività esplorativa. Le indagini,se compiute soltanto da specialisti, rimangono politicamente inerti, men-

35 Da uno scritto di Mumforddel 1926, cit. nell’introduzionea Sussman (1976).36 Vedi in particolare Mumford(1956).

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tre compiute nelle scuole e nei centri civici possono diventare il motore diuna efficace educazione alla vita politica. L’indagine è quindi un’impresacollettiva. Più che essere un’attività preliminare al piano, rappresenta,come in Geddes, un momento preliminare in senso morale37, di riscopertadel senso della vita e della cultura regionale e di un “destino comune”.In definitiva, piano e survey sono agenti di riorganizzazione e di attivazio-ne, di consolidamento dei sentimenti di appartenenza e dei legami tragruppi e individui. Il piano “deve contribuire a suscitare e rieducare queglistessi gruppi che lo porteranno all’attuazione”. Un piano dunque radical-mente anti-taylorista, che contrasta la specializzazione e la standardizza-zione, che vorrebbe lavorare per la diversità sociale e naturale, in una pro-spettiva che è assieme di conservazione (come uso intelligente delle risor-se) e di preservazione, sia dei valori e degli orientamenti culturali che dellanaturalità. Anche se Mumford è talora ambiguo rispetto al ruolo delle élitescientifiche, e anche se si possono ravvisare elementi di un comunitarismonostalgico38, l’idea di una cittadinanza regionale attiva è rilevante. Questomodello di cittadinanza, trae forza e senso dalla conoscenza locale diffusa(valorizzata nelle istituzioni educative regionali come educazione alla vitapolitica, come storia dei modi in cui, cooperativamente, la comunità regio-nale ha affrontato problemi comuni), e che partecipa alle scelte sulla basedella consapevolezza della rilevanza dei beni comuni (materiali e immate-riali, secondo l’idea geddesiana di heritage e tradizione), indica la stradaper una concezione deliberativa della pianificazione, che sarà molto rile-vante nella fase attuale.Non vi è distinzione effettiva tra indagine (conoscenza), piano (azione) eattivazione dei soggetti. Poiché i soggetti esistono in una rete di significa-ti (la cultura regionale), che definisce di volta in volta ciò che è il contestonaturale, non vi potrà mai essere una teoria o conoscenza ‘vera’ della natu-ra, ma solo la costruzione sociale di un’idea di natura, nelle relazioni evo-lutive con la cultura e l’economia regionale. Il piano e la survey, sono, inquesto quadro, modi di pensare e pratiche, prima che tecniche. Tra i modidi pensare, il riferimento alla scienza ha un valore riferito soprattutto all’i-dea delle pratiche della comunità scientifica come modello possibile dideliberazione politica e di razionalità comunicativa.Dunque, per Mumford, il nesso tra educazione e comunità locale comeoggetto e motore della social inquiry è centrale per una fertile coniuga-zione di intelligenza (guidata dal metodo scientifico) e cooperazione, sullascia della considerazione di Dewey che “a democracy is more than a formof government; it is primarily a mode of associated living, of conjoint com-municated experience” (Dewey, 1916). In quanto tale la democrazia puòessere appresa per mezzo di pratiche e di interazione sociale. Certamente,sostiene ancora Dewey, tutto ciò agisce sullo sfondo di interessi in conflit-to; la questione fondamentale è come collocare pretese confliggenti in unquadro coerente con gli interessi dei più. Il metodo della democrazia, comesorta di “intelligenza organizzata”, è quello di portare alla luce i conflitti,

37 Come osserva Ferraro(1998).38 Come nota ad esempioBlake (1990).

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fare in modo che le pretese parziali possano essere comprese, valutate ediscusse alla luce di interessi più inclusivi. Il problema del pubblico (cioèdella sua costituzione), così come definito da Dewey, riguarda il migliora-mento dei metodi e delle condizioni del dibattito, che dipende essenzial-mente dal radicamento della social inquiry nelle pratiche di vita dellacomunità.

Man’s Role, tra orizzonti ottimistici e problematizzazioni delle tradi-zioni liberali e comunitaristiche dell’azione pubblica

Il tempo di Man’s RoleÉ opinione diffusa che il New Deal, conseguente alla Grande Crisi del1929, abbia contribuito a mettere in ombra quelle tendenze del planningpiù aperte verso prospettive di democrazia locale e di “conversazione urba-na”. Si tratta di una fase complessa e contraddittoria, per gli effetti dellacompresenza di tradizioni ed orientamenti diversi, che comunque ha datoun eccezionale impulso al campo del planning, anche se ha depotenziato,come nota Fishman (2000), la leadership locale in favore di forme statalidi pianificazione, con conseguenze di rilievo sulle pratiche.Anche se la trattazione di questo delicato e controverso tema (probabil-mente essenziale per comprendere le vicende dell’istituzionalizzazione delcity e regional planning internazionali) non può essere condotto nel brevespazio di questa nota, è consuetudine distinguere una prima fase di strut-turazione di forme di planning democratico, fortemente debitrice rispettoal movimento regionalista, da una contraddittoria seconda fase del NewDeal. In quest’ultima, sembrano prevalere istanze ed orientamenti signifi-cativamente diversi, per le crescenti politiche di centralizzazione dell’azio-ne pubblica e di intervento diretto del governo federale, il peso delle poli-tiche orientate alla crescita economica ed allo sfruttamento delle risorse(più che allo sviluppo nel senso olistico della tradizione regionalista e diGeddes), l’housing come politica settoriale piuttosto che urbana e territo-riale, la nascente concezione della pianificazione regionale come regola-zione e controllo dello spazio economico in vista di una crescita e orga-nizzazione funzionale piuttosto che come progetto di territori e geografiecomplessi. Più in generale, si va formando il planning come scienza socia-le applicata, con un significativo distanziamento dal planning come prati-ca di democrazia locale e, nei termini di Mumford e del suo maestroGeddes, come “religione civica”39.Le riflessioni sull’ecologia nello straordinario testo di Odum (1953)40,segnalano un significativo avanzamento scientifico, e al contempo ripro-pongono l’analogia tra modelli di società e modelli di natura. Per Odum,ciò che conta, considerando l’ecologia dell’uomo, sono le “aree naturali” ela “naturale” suddivisione antropica tra regioni che sono al contemponaturali e culturali; nei quali il problema fondamentale è la congestione (ilsovraffollamento) (come in natura la questione è quella della carrying

39 Su questo punto, per quantoriguarda in particolare la vicen-da del city e regional planning,cfr. Fishman (2000), eFriedmann e Weaver (1979).Rispetto al campo contiguodella pianificazione economica(ma con forti contenuti territo-riali), il movimento dei cosiddet-ti “planisti” ha fin dalle originicercato una conciliazione traprogresso tecnico, pace socialegarantita da un’efficienza distri-butiva pianificata, e salvaguar-dia dei principi democratici fon-dati, per essere particolarmentespeditivi, sulla neutralità dellascienza e degli esperti comecapacità di persuasione degliattori legati ad interessi parzialie individuali, in un complessorapporto funzionale tra inge-gneri e politici. La letteratura èovviamente sterminata. Ci limi-tiamo a segnalare Noble(1977), per i caratteri generalidel rapporto tra scienza, inge-gneria e politica, ed Alchon(1985) per l’interpretazionedella pianificazione economicacome nuova fase di tecno-cor-porativismo.40 Va osservato che questotesto è il prodotto della collabo-razione di Eugene e HowardOdum jr., figli del grande “regio-nalista del Sud” Howard Odum.

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capacity) e la soluzione la ricerca di una stabilità ed equilibrio tra spazio egruppi sociali. Ciò giustifica l’azione pubblica nel nome di un interessegenerale che è “naturale”. La società offre modelli per l’interpretazionedella natura, ovvero la natura è interpretata secondo modelli sociali (inquesto caso, sostanzialmente conservativi e darwinisti), che rinviano aduna concezione dell’insediamento come prodotto della competizione terri-toriale, dove vige un modello d’ordine per cui la “nicchia ecologica” diven-ta metafora della posizione ordinata e funzionale degli individui nellasocietà e nella divisione nel lavoro (un come modello al contempo descrit-tivo e prescrittivo che avvicina la riflessione di Odum a quella del funzio-nalismo sociologico).La seconda Guerra Mondiale accentuerà ancor più, a livello internaziona-le, l’idea del planning come “metodo per decidere” (alla quale si oppon-gono prospettive radicalmente liberiste che respingono ogni forma diintervento pubblico), mettendo ancor più in ombra la concezione del plan-ning come “conversazione urbana”. Gli anni Cinquanta, nel quale si collo-ca la grande Conferenza internazionale da cui deriverà la pubblicazione diMan’s Role, appaiono come un periodo di radicalismo. L’idea di ambienteviene concepita nella sua formulazione radicalmente antropocentrica etayloristica, come elemento funzionale alla crescita economica regionale(Hansen e Perloff, 1942; Perloff e Wingo, 1961). Rispetto alle prospettivedi Pinchot, le risorse naturali interessano ora non solo come fattore di svi-luppo nazionale, rispetto al cui sfruttamento vanno praticate sagge politi-che di conservazione affidate alla mano pubblica ed alla competenza tec-nico-scientifica, ma soprattutto in quanto vantaggi competitivi regionalinel quadro di un’economia aperta. La natura, a dispetto delle ipotesi diMarsh prima e dei regionalisti poi, viene assunta a fattore di produzioneentro una concezione radicalmente competitiva, di darwinismo sociale edeconomico. La pianificazione regionale è ora concepita come organizza-zione funzionale delle attività umane in uno spazio sovra-urbano; il con-cetto di regione viene sostituito da quello di “spazio” (Friedmann, 1963).Depurato delle sue componenti simboliche e culturali, questo concetto(geometrizzato e matematizzato, funzionale alla nascente modellisticadella crescita economica e della localizzazione) appare coerente con la pro-spettiva di organizzazione efficiente dei processi di modernizzazione e dicrescita, portando a compimento le prospettive dello scientific city plan-ning. Per questo, l’enfasi si sposta decisamente, sia negli Usa che inEuropa, dalle risorse naturali al tema della città-regione (ora intesa comeunità funzionale) e a quello delle risorse metropolitane (trasporti, spazio eorganizzazione delle comunità) in luogo delle arretrate risorse deiRegionalisti. La pianificazione è pianificazione per la crescita economica eper un land use efficiente quanto esteticamente piacevole (Friedmann,1958). É la vittoria del “metropolitanismo” nella pianificazione del territo-rio; e significa il sostanziale declino dell’idea di natura embedded nellacultura ed elemento essenziale della civilizzazione e della democrazia loca-

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le (con tutta l’ipocrisia vittoriana che accompagna l’esperienza gardencities, ma anche come critica radicale all’esperienza della modernizzazionesecondo Kropotkin o William Morris).Prospettive diverse sono presenti, ma sembrano avere il ruolo di testimo-nianze di possibilità sconfitte, se non di utopie. La dimensione comunita-rista sarà ancora riproposta, a livello internazionale, negli anni Cinquanta,secondo prospettive tuttavia ambigue e forse regressive rispetto alle posi-zioni dei regionalisti americani. Un autore influente come Gutkind (chesarà autorevole partecipante alla Conferenza Man’s Role), propone un’ideadi comunità come prospettiva sociale e politica che dovrebbe emergeredalla constatazione della fine delle città come fattore dell’evoluzione edello sviluppo. Quella di Gutkind è una sorta di religione comunitarista,dove lo stato e le città lasciano il posto ad un insieme di piccole comuni-tà, in un disegno territoriale in cui domina una perfetta dispersione degliinsediamenti, un raggruppamento libero per affinità sociali, un ambientecostituito da spazi rurali e parchi continui, una struttura politica vista comeinsieme di comunità integrate funzionalmente e su base cooperativa mache dovrebbe essere realizzarsi, paradossalmente e come nell’utopismoclassico, per via di piano e d’autorità (Gutkind, 1953a e 1953b).Esiste tuttavia un’altra prospettiva, quella di Aldo Leopold (1949). Comeper i regionalisti, anche per Leopold tra società e natura esiste una forteinterdipendenza. Ma, più radicalmente che non nei regionalisti, l’esito diquesta riflessione conduce all’affermazione che la natura non può maiessere oggetto di conquista e dominazione. Piuttosto, l’idea dell’interdi-pendenza porta alla conclusione dell’appartenenza della società ad unacomunità più complessa, che include sia sistemi sia sociali.L’interdipendenza tra uomo e natura è, nell’idea di Leopold, un costruttosociale, che si forma nel tempo lungo una complessa etica evolutiva.Prima, vi è la regolazione dei rapporti tra individui; in seguito, si costitui-sce l’idea della regolazione dei rapporti tra individui e società umane; infi-ne, vi è l’etica ambientale, che integra società umane e natura e che miraalla riproduzione e stabilità della comunità biotica, la quale ha diritto allapropria vita. Lo sviluppo di quest’etica, e la salvaguardia ambientale, nonpuò avvenire tramite incentivi economici (poiché non tutte le componentidella natura rivestono valore economico), ma attraverso crescita sociale eculturale. L’orizzonte è quello di una razionalità e saggezza pratica, chesembra rileggere il rapporto uomo-natura con un forte richiamo all’eticaclassica. Anche in Leopold, nota Lowenthal (1990), la natura assume lestesse virtù e qualità ecologiche che si vorrebbero per la natura umana:armonia, stabilità, benevolenza, integrità. Come per Marsh e gli altri auto-ri, l’idea di natura rinvia sempre ad un ordine morale.

Ottimismo, progresso, modernizzazione: il clima di Man’s RoleMan’s Role costituisce un insieme molto differenziato di contributi, nelquale domina una visione ottimistica delle sorti delle società umane in

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rapporto con le trasformazioni ambientali. É forse l’ultima grande esibizio-ne del concetto di “progresso”, come miglioramento graduale, guidatodalla scienza e dalla tecnologia, che dovrebbe garantire, in un futuro inde-finito, migliori condizioni per tutti, sia per la società che per i sistemi natu-rali. Il planning, in fin dei conti, è questo: la narrazione di una possibiletransizione verso una nuova era dell’Eden.Man’s Role è un testo che, implicitamente o esplicitamente, ha come sfon-do il senso dell’azione collettiva o pubblica nei suoi rapporti con la natu-ra; in un certo senso, è un testo di planning, ma che ha avuto un impatto(diretto) estremamente modesto in questo campo, per molte ragioni: per-ché le posizioni più interessanti del planning (Mumford, MacKaye) o del-l’ambientalismo (Leopold) avevano già superato quel dualismo natura-cul-tura che i contributi di Man’s Role sembrano ribadire; o perché, comeabbiamo visto, l’affermazione di un concetto di natura come risorsa ogget-to di valorizzazione economica mette in secondo piano la questione degliimpatti ambientali rispetto agli imperativi della crescita; o, ancora, perchéi processi di modernizzazione (con il loro portato di universalità) come ele-menti di una nuova vita sociale migliore per tutti pongono in una lucesospetta le questioni dello spirito e dell’identità territoriale, che si struttu-rano tipicamente secondo schemi cognitivi di armonia tra cultura locale efenomenologia del paesaggio e del territorio, e che sembrano portare consé elementi socialmente regressivi ed anti-moderni.Non c’è dunque da stupirsi se lo spirito di Man’s Role è in generale otti-mistico, e radicalmente antropocentrico. Riportiamo di seguito alcuneposizioni esemplari.Per Michael Graham41, gli impatti delle attività umane sull’oceano sonostate modeste, e molte fonti di ricchezza sono tuttora inesplorate.Addirittura, se queste fonti fossero sfruttate in futuro, l’oceano rimarrebbenel suo stato naturale, così come lo è stato in passato. Potrebbe pertantoessere inopportuno porre limiti allo sfruttamento economico, in quanto leazioni dell’uomo non potranno mai, plausibilmente, alterare e impoveriresignificativamente l’ambiente oceanico. Per Lester Klimm42, i porti, essen-do strutture di protezione ed avendo effetti locali, devono considerarsicome azioni speciali tra le attività trasformative dell’uomo. In genere, que-ste attività possono ritenersi benefiche, e solo raramente la costruzione diporti può danneggiare l’ambiente naturale. Qualche dubbio si potrebbeinvece nutrire a proposito della costruzione di canali, ma gli eventualiimpatti negativi non sono tanto da porre in relazione ai danni ambientali,quanto agli effetti di interruzione delle comunicazioni umane ed ai pro-cessi di mobilità naturale tra luoghi. Non è tanto la modificazione ambien-tale e dei paesaggi che preoccupa, quanto l’impatto su modelli di intera-zione spaziale che una frattura geografica come la costruzione di un cana-le può indurre. L’obiettivo è primariamente quello di una crescita econo-mica che non metta a repentaglio gli ordini sociali consolidati attraversointerventi problematici sulla struttura fisica dei territori. Per John Curtis43,

41 Direttore del FisheryResearch Institute in Inghilterrae Galles.42 Geografo statunitense.43 Botanico statunitense.

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l’intervento umano sulle foreste pluviali può solo innescare processi diriequilibrio tra specie. L’immensa ricchezza della comunità biotica potreb-be essere non-sostenibile dai processi naturali, e l’azione umana potrebberisultare un fattore di equilibrio. Richard Seidenberg mostra fiducia nellapossibilità di uno sviluppo tecnologico indefinito, che migliorerà progres-sivamente la qualità della vita. Ma sono soprattutto i contributi di EdwardUllman e Chauncy Harris44, che, a proposito dei rapporti tra urbanizzazio-ne e sistemi naturali, ripropongono l’idea della superiorità morale dellacrescita economica (assunta come civilizzazione) sull’ambiente. Per questiautori, lo sviluppo richiede alterazione dei paesaggi e formazione di vasteregioni urbane, nelle quali si dispiegano le maggiori possibilità per la mas-simizzazione delle risorse umane ed economiche. Le città devono conti-nuare a svolgere la loro funzione di civilizzazione e di motore della cresci-ta e dell’innovazione; si tratta di funzioni voraci di risorse naturali, ma que-sto è il prezzo ineluttabile della civilizzazione. In questo quadro, la subur-banizzazione, con i suoi risultati negativi in termini di consumo di suolorurale e di risorse, è un processo naturale connaturato all’espansione dellecittà, ai progressi nelle tecnologie dei trasporti e alle preferenze indivi-dualistiche nella localizzazione residenziale, che, al più, va reso più funzio-nale tramite adeguate pianificazioni degli usi dei suoli.

Due modelli emergentiQuasi cent’anni dopo Marsh, la natura appare quindi una risorsa che anco-ra può essere oggetto di sfruttamento; l’orizzonte implicito o esplicito èquello di una modesta necessità di regolazione pubblica. La natura, comel’economia di mercato, si regola da sé. Vi sono tuttavia alcune posizioniche sembrano scostarsi da questo orizzonte; si tratta dei contributi di quel-li che, da un lato, pongono il problema dell’azione in un quadro pluralista;dall’altro, quelli che rinviano la questione del rapporto natura-cultura-società (ancora) in un orizzonte comunitarista.L’orizzonte pluralista viene esplorato da autorevoli contributi, sia dal latodegli scienziati sociali che da quello degli scienziati naturali. L’economistaFrank Knight mostra come i processi di modernizzazione siano connessialla crescita di una consistente area di incertezza, sia cognitiva (per ladiversità dei valori e la ridotta fiducia nella conoscenza esperta) che esi-stenziale (per la pluralità dei progetti e degli stili di vita possibili, una voltasoddisfatte le esigenze primarie), che si sovrappone ai “naturali” conflittisociali (l’uomo è animale partisan per natura). Per Knight, il problema fon-damentale, quello di una condivisione intelligente di obiettivi da perse-guire progressivamente, attraverso forme associative adeguate, non hasoluzione; richiede piuttosto condotte specifiche, basate sulla “misura”come elemento di prudenza, saggezza e moderazione unite al rispetto pergli altri. In definitiva, il modello (della tradizione liberale) di Knight è quel-lo, sostanzialmente popperiano, dell’intelligenza critica (poiché il proble-ma è quello dell’errore e del pregiudizio irrazionale) e della comunicazio-

44 Geografi economici e scien-ziati regionali.

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ne intersoggettiva come elementi chiave delle possibilità di governo. Suposizioni analoghe è Andrew Clark (geografo), il quale sostiene la preferi-bilità di un mondo in cui vi siano molte diversità; la pianificazione, a causadei suoi intrinseci caratteri unitaristici e universalistici, tende invece all’o-mologazione. I planner non dovrebbero essere dei “missionari”, tendenti afar prevalere un’idea del mondo come best way dello sviluppo. Ciò checonta, piuttosto, è la capacità di comunicazione tra diversi, come possibili-tà di generare innovazione e azione congiunta. L’idea che l’organizzazionee le gerarchie generino uniformità e conformismo è condivisa da diversiautori. Per Vicente Schaefer, la soluzione è, schumpeterianamente, unnuovo élitismo come avanguardia sociale in grado di produrre innovazione.Per l’antropologo Sol Tax, la questione è quella del rapporto tra cambia-mento e apprendimento, cioè di come individui immersi in culture diverseimparano a trattare l’ambiente in modi diversi, e come sia possibile opera-re intenzionalmente modificazioni nei sistemi di credenze. La questione,per Tax, è che migliori rapporti con la natura richiedono cambiamenti neiquadri cognitivi. Il cambiamento non può avvenire per decreto, ma deveessere interiorizzato dagli individui. Ogni pretesa di trasformazione deiquadri cognitivi richiede comprensione; e, poiché costituiscono spessoconoscenza tacita, habit, ciò implica l’osservazione concreta dei modi neiquali la gente prende decisioni (poiché i quadri cognitivi diventano espli-citi nell’azione). Per scoprire i quadri cognitivi, bisogna partecipare all’a-zione, e mettere in gioco meccanismi di auto-riflessione e valutazione45.I temi dell’incertezza e del conflitto emergono anche da diversi contributidi scienziati naturali. In particolare, è importante la posizione di HaroldThomas (geologo e idrologo) che mostra come l’approccio ingegneristicoalla regolazione delle acque sia insufficiente; non vi è solo infatti un defi-cit di conoscenza tecnica (la quale dovrebbe comunque essere interdisci-plinare), ma vi è anche la questione che i problemi derivano spesso dalfatto che l’acqua è una risorsa oggetto di competizione e conflitto. I temidei limiti della conoscenza emergono in molti altri contributi (nell’espertodi suoli William Albrecht, nello zoologo Bates, ecc.). Per il botanico PaulSears, la scienza è insufficiente a strutturare il rapporto uomo-natura, sequesto non è guidato anche da un’etica e da un’estetica. In diversi casi, ildeficit di conoscenza viene associato alla necessità di adottare qualcheprincipio di precauzione. Il grande geografo Carl Sauer, nel quadro diun’antropologia che vede la natura umana, in particolare quella femmini-le, come natura cooperativa, lamenta l’indifferenza dell’era moderna-indu-striale verso le tradizioni produttive dei luoghi e il consumismo che con-nota gli stili di vita contemporanei ed è distruttivo delle differenze cultu-rali. Come per altri autori, anche per Sauer, abbiamo bisogno di un’etica edi un’estetica nella quale l’uomo, praticando le virtù della prudenza e dellasaggezza, possa lasciare alle generazioni future una Terra abitabile.In tutti questi casi, emerge, soprattutto implicitamente, l’idea di una pia-nificazione modesta, non invasiva, prevalentemente adattiva, attenta alle

45 Si veda come esempio lostraordinario episodio della pro-cessione del ratto della peste diIndori, organizzata da PatrickGeddes come azione di pianifi-cazione urbana, secondo il reso-conto di Ferraro (1998).

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differenze e diversità sociali e culturali, che parte dalle pratiche sociali percomprenderle e trasformarle in modo collettivamente soddisfacente; il pri-mato è lasciato chiaramente all’azione (entro saggi principi di precauzio-ne), e le possibilità integrative derivano dall’interazione sociale e dalle pra-tiche comunicative.L’orizzonte comunitarista è sostenuto da Artur Glikson (architetto-urbani-sta israeliano) che ripropone in modo piuttosto fedele la prospettiva ri-creativa di Benton MacKaye. Rispetto a MacKaye, Glikson (che fa riferi-mento alle importanti esperienze comunitarie israeliane), da maggior pesoal tema della partecipazione. Il tema della ri-creazione viene visto comepratica attiva (piuttosto che come necessaria compensazione della vitaurbana) di partecipazione alla vita di comunità attraverso il lavoro con-giunto di miglioramento dell’ambiente. Per Mumford, qualsiasi ipotesi dicambiamento del nesso tra natura e società ha bisogno non solo di cono-scenza scientifica, ma soprattutto di una prospettiva etica e visionaria. Laprevisione, basata sui modelli causali, offre solo prospettive di continuitàcon l’esistente, quando c’è bisogno invece di contrastare i processi edimporre nuovi modelli. Per Mumford, il fattore più rilevante per determi-nare il futuro è l’irrazionalità, nel senso che occorre pensare ad un futuro“miracoloso”, fuori dall’ordine “naturale”. Lo scopo è quello di re-cultivatethe Earth, come ricostruzione di un nuovo rapporto tra uomo e ambiente,tra natura e cultura, attraverso l’indagine e il piano come pratiche di unanuova democrazia regionale. La ricostruzione richiede amore; più comeamicizia nel senso di Emerson, la sola relazione mediante la quale puòavvenire una comunicazione autentica perché sincera, che come aristoteli-ca concordia politica (per cui la “vita etica”, come vita buona e felice, del-l’uomo che è “animale politico” “per natura”, e per il quale quindi la par-tecipazione alla vita politica della polis è un fine in sé, ha come condizio-ne e presupposto l’attrazione mutua tra uomini come ricerca naturale dellasocievolezza); come tessuto di relazioni nella propria comunità di abitantiche condividono gli stessi beni comuni; come cura e rispetto per l’ambien-te, che deriva dal contatto con la natura. Insieme, queste tre dimensionipossono indurre ad una visione meno pessimistica della società futura.

Indizi di ripresa dell’idea del planning come conversazione urbana?Man’s Role mostra alcuni indizi di grande interesse per la ripresa di un’i-dea di planning come pratica di conversazione urbana. Innanzitutto, rico-mincia a strutturarsi, anche nel contesto delle scienze naturali e della pia-nificazione ambientale, un’idea pluralista, che rinvia ai temi del conflitto,delle differenze tra quadri cognitivi, dei limiti della conoscenza tecnico-scientifica. Dall’altro, si riproduce l’orientamento comunitarista, senza par-ticolari differenze rispetto alla grande tradizione del regionalismo d’ante-guerra. I punti chiave sono: la critica alle forme dirigiste di pianificazionee dell’organizzazione burocratica come fattori di distruzione di diversitàculturale (e, di conseguenza, anche ambientale); la rilevanza della com-

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prensione dei quadri culturali e cognitivi e delle operazioni (prudenti,modeste, rispettose) su essi, come elementi-chiave del successo delle poli-tiche ambientali; la dimensione dell’interazione sociale nella comprensio-ne degli usi delle risorse naturali (a partire dal contributo esemplare diThomas); il riconoscimento dei limiti della razionalità tecnica e scientificae il principio di precauzione; la costruzione sociale del consenso come con-dizione del cambiamento effettivo. Le due prospettive, quella che possia-mo definire pluralista e quella comunitaria, daranno evidentemente rispo-ste diverse a queste questioni. Con uno stile adattivo, realistico, prudente,non-invasivo delle sfere private e dei mondi vitali, sempre ironico e scetti-co, attento al conflitto e alla competizione come elementi al contempopositivi e problematici, con una distanza critica nei confronti delle appar-tenenze e delle tradizioni, tra le quali è sempre possibile transitare, nellaposizione pluralista; trasformativo, visionario ed incline all’utopia, glorio-samente imprudente (make no little plans!46), che entra nei sistemi edu-cativi, poco auto-ironico e sempre sostenuto dalla speranza delle possibili-tà di costruzione intenzionale di una società diversa, attento alla coopera-zione come elemento pre-sociale della politicità umana ed alle apparte-nenze (soprattutto al luogo) come elementi per la costruzione di un oriz-zonte comune e condiviso, nella posizione comunitarista.

Epilogo. Piano e natura, cinquant’anni dopoA partire dalla fine degli anni ’60, prima negli Usa e poi in Europa, la pia-nificazione sembra aver preso una strada di sostanziale distacco dalleconcezioni metodiche, per ragioni che non è possibile analizzare compiu-tamente nello spazio di questo saggio, ma che rinviano alla crisi delmodello di razionalità scientifica, ai limiti dell’efficacia della pianificazio-ne nello e dello Stato del Benessere, alle nuove percezioni dei problemiambientali, ecc.47

In questo senso, l’influente testo di Ian McHarg (1969), propone, pur nel-l’interesse dei contenuti, un’idea di pianificazione senza soggetti, o,meglio, in cui i soggetti sono il planner – come interprete privilegiato deirapporti tra natura e società - e la natura. Come la prospettiva di Leopoldè spirituale e tesa alla trasformazione interiore in senso storico-evolutivo(una prospettiva non dissimile dall’idea geddesiana di una spiritualitàregionale), così il contributo di McHarg è spostato sul piano della tecnicae delle possibilità di guida dei sistemi48. L’approccio “ecologie delle prati-che”, ha invece mostrato con grande chiarezza (oltre il determinismo cul-turale di Sauer) come vi sia un’intima, contingente e mutevole relazione tratrasformazioni culturali e sociali (sempre molteplici) e trasformazioniambientali, il che pone problemi dal punto di vista dell’efficacia dellaconoscenza tecnico-scientifica come sola guida dei processi49.Anche se non vi sono nessi diretti tra Man’s Role e questi sviluppi, alcuniindizi di trasformazione erano già percepibili in quel contesto. La pubbli-cazione di Silent Spring (Carson, 1962), contribuirà a mettere in crisi la

46 É questa la nota esortazionedi Mumford. Cfr. ad es.Mumford (1947).47 Su questi temi, rinvio perbrevità a Balducci (1991). Perquanto riguarda il ruolo delladimensione ambientale nellaridefinizione delle pratiche delplanning, con particolare riferi-mento al caso europeo, cfr.Layard ed altri (2001).48 Mentre McHarg è interessa-to in particolare ai rapporticittà-regione, Anne WhitonSpirn (1984) sviluppa la que-stione del “design with nature”a livello urbano.49 Cfr. ad es. Nyerges (1997).

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fede modernista nella scienza, nella tecnologia e nel progresso, e ad avvi-cinare ciò che in Man’s Role è distaccato, cioè l’analisi scientifica e la par-tecipazione (ed opinione) pubblica, e a porre con grande urgenza i temidei limiti e della prudenza. La nascita di movimenti ambientalisti e la lorogrande influenza segnalerà infine la rilevanza di pratiche di costruzione diazioni pubbliche oltre il planning: attente alle differenze e in grado di con-nettere i temi della vita associata con la qualità ambientale50.La continuazione ideale di Man’s Role, The Earth as Transformed byHuman Action, del 1990, mostra con grande chiarezza un passaggio fon-damentale, rispetto al senso e ruolo dell’azione pubblica. Ciò che venivasostanzialmente assunto come un dato, in Man’s Role, era il senso e lanatura delle istituzioni. Appare invece ora chiaro come lo stato dell’am-biente vada considerato sullo sfondo dell’interazione tra i modi archetipi-ci di regolazione sociale dell’economia (reciprocità, scambio, autorità); siafferma come, nell’interpretazione del rapporto tra uomo e natura, i qua-dri interpretativi debbano considerare, al contempo, la dimensione delcomportamento (come azione determinata dall’ambiente sociale e cultu-rale), delle forze attive del cambiamento (innovazione tecnologica, mobili-tà della popolazione, trasformazioni delle preferenze, ecc.) e delle forzemitigatrici, cioè dei meccanismi che, nelle loro interazioni, garantisconoqualche forma di “unità nella diversità”. L’idea della natura umana è diven-tata, com’è evidente, più complessa. Non è solo in gioco un’idea di rela-zioni e regole (naturali perché sociali, o viceversa), ma è addirittura ipotiz-zata un’idea radicale di compresenza di forme regolative; cioè, della com-presenza ed interazione non solo di soggetti, ma anche di quadri istituzio-nali. Molti e diversi sono i modi in cui avviene il rapporto uomo-natura, eciascuna delle forme di regolazione di questo rapporto ha una sua giusti-ficazione come prodotto storico-evolutivo. Tutte le relazioni società-naturapartono dalla considerazione che l’ambiente è cultura, cioè costrutto socia-le (Bennett ed altri, 1990). In questo stesso contesto, si consolida una cri-tica radicale all’efficacia ed alla legittimità di una pura azione autoritati-va per quanto riguarda le questioni ambientali (Bennett e Daheberg,1990). Emerge piuttosto la necessità di trasformare al contempo non soloun modello di sviluppo estremamente dissipativo, ma anche e soprattuttole istituzioni (quadri cognitivi, habit, consuetudini, pratiche) che lo strut-turano. In questo quadro, il grande Stato della modernità weberiana vieneconsiderato un ostacolo al cambiamento, e si ravvisa l’opportunità di strut-ture più decentrate, quindi più sensibili alle condizioni ambientali e cultu-rali locali (come segnala da tempo l’agenda dei movimenti ambientalisti),con quadri istituzionali coerenti con la ricerca di un modello di sostenibi-lità e rigenerazione ambientale. Questa prospettiva riconosce la valenzadella conoscenza locale nella gestione delle risorse, della valorizzazionedelle differenze territoriali (che sono, al contempo, naturali, culturali edistituzionali) e del nesso tra radici nei e cura dei luoghi.Come nella tradizione, e come implicitamente emergeva in Man’s Role,

50 Sul senso delle pratiche diattivazione sociale, in relazionealle trasformazioni delle teoriedel planning, cfr. Sandercock(1998); per un’analisi delle pra-tiche e degli effetti dei movi-menti sociali urbani in relazioneai temi ambientali, cfr. ad es.Evans (2001).

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queste questioni trovano ancora forma, negli anni Ottanta e Novanta,entro un orizzonte comunitarista (il quale tende a sviluppare la questionesostantiva e non solo procedurale) e pluralista (che sviluppa soprattutto laquestione della strutturazione democratica dei processi).

Varietà del neo-comunitarismo contemporaneoLa pianificazione che si struttura nell’orizzonte comunitarista presentamolte varianti. Ad un estremo, si possono individuare le pratiche di largosuccesso, sia negli Usa che in Europa, del New Urbanism51. Questo movi-mento, professionale, civile e politico, si propone di ridefinire la questionedella città regionale, in opposizione ai processi di sprawl insediativo e dideclino del capitale sociale di comunità, che viene imputato anche all’ec-cessiva mobilità residenziale e alle forme individualistiche dell’abitare.L’obiettivo è la ridefinizione delle forme urbane regionali, riorganizzate apartire dai nodi del trasporto pubblico, con limiti severi all’edificabilitànegli spazi aperti, e, soprattutto, con un disegno che riprende molto stret-tamente l’idea delle “unità di vicinato”, che dovrebbero essere abitate dagruppi sociali eterogenei, strutturate su molteplici usi dei suoli e con unaforte presenza di elementi naturali. Il vicinato, come nella tradizione,diventerebbe la cellula-base dell’organizzazione regionale; il suo disegno,che riprende modelli della tradizione architettonica ed urbanistica del vil-laggio premoderno, dovrebbe garantire ricchezza di relazioni e sicurezzasociale per via di un controllo sociale diffuso (come nell’idea della Scuoladi Chicago e dell’“unità di vicinato”), amore per i luoghi, crescita di capi-tale sociale attraverso la partecipazione civica. Un modello che, ripropo-nendo dopo molti decenni una rinnovata egemonia e rilevanza sociale del-l’urban design sulla pianificazione come processo e prodotto sociale52,riprende alcune delle ipotesi mumfordiane, ma le colloca in un quadropoliticamente neutro, aperto alle dinamiche di mercato e agli effetti dellaglobalizzazione, ove non vi è spazio per la critica radicale alla societàmoderna del movimento regionalista. New Urbanism propone un’utopiaconcreta delle forme insediative come produttrici di legami sociali e rispet-tosa della natura (come nella tradizione), quando vi sarebbe forse necessi-tà di un’utopia concreta dei processi (Harvey, 1997).Più interessanti sono quelle posizioni che costituiscono al contempo unapolitica della pianificazione territoriale e un progetto politico. Il punto dipartenza di queste esperienze si può considerare la critica radicale del pro-getto illuminista (secondo la nota formulazione di Horkheimer e Adorno),e della ragione funzionalista che, con il disincanto del mondo e la disso-luzione dei miti, ha provocato una frattura tra natura e cultura, e ridotto ilterritorio a puro spazio di supporto delle pratiche economiche. La raziona-lità strumentale, che è la razionalità della modernizzazione, induce un rap-porto tecnico orientato all’ottimizzazione dei mezzi, alienando, assieme, lanatura (che diventa pura risorsa) e i mondi vitali. Per questa ragione,occorre ritornare al territorio come forma, pratica e retorica di un possibi-

51 Cfr. in particolare Calthorpe(2001). Per un’analisi critica diqueste posizioni, nelle trasfor-mazioni delle idee di pianifica-zione, riferite agli USA ma inte-ressanti a livello internazionale,cfr. Talen (2005).52 Cfr. in particolare i saggi diPahl, Gans e Rein in Stewart(1972).

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le nuovo incantamento del mondo, riscoprendo, sotto le incrostazioni deiprocessi de-territorializzanti degli imperativi economici sempre più globalied indifferenti ai luoghi, le identità territoriali, la sapienza locale, la memo-ria sociale, le pratiche di cura del territorio e l’organicità dei rapporti socie-tà-natura-cultura. Il territorio potrà tornare ad essere un soggetto viventedi natura e cultura nella misura in cui gli individui torneranno ad essereabitanti, recuperando le radici mediante le quali si può sviluppare un rin-novato senso della Terra come essere vivente53. Il soggetto è la comunità,unita da relazioni di reciprocità e da un comune senso dei luoghi, da un’i-dentità, e dalla consapevolezza dell’esistenza di beni comuni materiali eimmateriali. L’appartenenza al luogo e alla comunità è l’elemento che con-sente di pensare alla questione ambientale nel suo significato più profon-do del legame tra terra e soggetti (per una comunità auto-sostenibile), eal governo come azione condivisa di una comunità. Il bersaglio è l’indivi-dualismo, che, recidendo i legami tra diritti individuali e responsabilitàverso i co-abitanti di una comunità e verso la natura, mette a repentagliol’appartenenza comunitaria, e con ciò anche le identità come prodotto sto-rico della vita comune in un luogo54. Ciò che siamo, lo siamo perché ciòcostituisce l’esito della storia della comunità, che ha prodotto tradizioni,norme morali, senso del bene comune; che ci dà la possibilità di esistere(in un tempo connotato da incertezza radicale, fluidità e frammentazione)come soggetti in relazione con altri, cioè di avere un’identità che è sempreun bene relazionale. La responsabilità, soprattutto verso la natura, non èquindi tanto un’obbligazione esterna di norme morali universali, quanto èinscritta entro la storia dei territori come “luoghi abitabili” di comunità checondividono il medesimo senso di appartenenza.Forse Murray Bookchin ha proposto il modello più radicale di organizza-zione politica di comunità rinnovate nel loro rapporto organico con lanatura55. Le comunità non devono essere solo sostenibili; questa formula-zione rinvia all’idea di comunità locali che si comportano come impren-ditori in competizione con altre comunità, e che presentano un senso diproprietà nei confronti delle loro risorse come vantaggi competitivi.Secondo Bookchin, le comunità non dovrebbero essere nemmeno mai pie-namente auto-sostenibili, se questo implica chiusura, provincialismo,localismo. Il progetto è quello di una federazione di comunità, basata sulprincipio concreto dell’interdipendenza e sui vantaggi della cooperazione,del mutualismo e della condivisione delle risorse. Ciascuna comunità sigoverna da sé, tramite forme di democrazia partecipativa, ritrovando ilsenso del suo rapporto con la natura, mentre le diverse comunità speri-mentano forme di coordinamento federativo che consentono di mante-nere le specifiche e differenti identità. Tutto ciò richiede un forte investi-mento da parte dei soggetti: l’adesione ad una specifica forma e stile divita ed un radicamento locale.

53 Cfr. ad es. Magnaghi(2000).54 Per un’analisi critica, cfr.Urbinati (1997).55 Cfr. ad es. Bookchin (1989).

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Natura, cultura e pluralismo: forme e procedure dell’interazione dialogicaNel planning di orientamento pluralista (che, nella contemporaneità,significa anche multiculturalismo, rispetto alle prospettive di una culturasuper-organica di Carl Sauer, che doveva determinare le condotte degliabitanti di una regione), si tende ad affermare che le migliori decisioniambientali sono più un problema di potere che un problema di analisi(Baber e Bartlett, 2005). L’attenzione viene perciò data agli attori, allerisorse, ai quadri cognitivi, ai modelli di interazione, allo scopo di orienta-re i processi verso esiti consensuali e collettivamente accettabili. Il questoquadro, il planning non è semplicemente un mezzo tecnico mediante ilquale attuare una qualche idea di sostenibilità, ma una pratica di intera-zione ed uno spazio di discussione nel quale il rapporto (ed il senso dellerelazioni) tra società e natura viene negoziato e costruito (Layard ed altri,2001). In planning è, in questa prospettiva, sia una pratica che un conte-sto istituzionale (a diversi gradi di formalizzazione) nel quale emergonoconflitti, e, assieme, le soluzioni negoziali o consensuali per l’interventoambientale.Questo orientamento pluralista, attento alle differenze, prudente nell’in-tervento esterno e tecnico sulle comunità, ha trovato un’interpretazioneinfluente, a livello sostantivo, nell’opera di Jane Jacobs (1961), che ha pro-dotto una critica radicale della pianificazione autoritativa, un’interpreta-zione della ricchezza sociale relazionale anche nell’apparente “disordine”urbanistico, il riconoscimento di “ordini complessi”, sociali, culturali e fisi-ci, che costituiscono il prodotto emergente dell’interazione e delle pratichedi vita quotidiana di innumerevoli “ordinary people”. Ciò che costituisce lacittà è l’insieme di diversità e prossimità fisica, e non è ammissibile alcu-na forma di pianificazione che riduca le differenze. La radicale messa indiscussione della conoscenza tecnico-scientifica è stata rilevante per unarivalutazione del senso del planning delle origini, con le sue parole-chiave:diversità, conversazione, condivisione, consenso. Questa impostazione è digrande rilevanza, poiché induce a guardare alle pratiche (nella loro natu-ra di azioni istituzionalizzate), sia in senso normativo che come modellodescrittivo della vita quotidiana e dei rapporti tra vita quotidiana eambiente. Le politiche sono, in questa prospettiva, pratiche, che vannocomprese in movimenti storici ed evolutivi di lungo periodo. Questa è pro-babilmente la prospettiva che mostra una maggiore continuità con le posi-zioni geddesiane, ma che, rispetto a queste, riconosce la pluralità dei modid’azione riferite alla molteplicità dei quadri cognitivi e la varietà irriduci-bile delle esperienze, delle aspettative e dei vincoli socio-culturali56.Se il problema è quello di mettere in atto migliori decisioni in campoambientale, e se queste dipendono dalla distribuzione del potere (in sensoampio e generale: come possesso di risorse, come capacità di fare, ecc.)piuttosto che dal progresso della conoscenza tecnica, si pongono duealternative: la costruzione del consenso per via deliberativa (una prospet-tiva che richiama l’orizzonte mumfordiano e che implica una certa fiducia

56 Questo prospettiva èinfluente sia nel contesto USAche in quello europeo, nel qualesegue spesso le tracce di DeCertau. Cfr. ad es. Chase edaltri (1999).

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diffusa) o la costruzione di compromessi (tra interessi o punti di vista) tra-mite processi di negoziazione.Quelle deliberative sono pratiche dialogiche tra soggetti informati, regola-te proceduralmente, orientate all’intesa e alla costruzione di visioni e azio-ni condivisi57. Si afferma che i processi deliberativi sono particolarmenteimportanti rispetto alla dimensione ambientale non solo come mezzo percostruire il consenso attorno a specifiche questioni, ma anche perché l’in-terazione dialogica sembra avere una forte componente educativa e appa-re perciò elemento rilevante per costituire o ricostituire il senso della rela-zione tra gruppi sociali e natura.Tra i vari contributi, quello di Patsy Healey (1997) presenta un particolareinteresse per i temi di questo saggio. Il soggetto della partecipazione deli-berativa è un soggetto non isolato, sempre immerso in una rete di relazio-ni, che partecipa in quanto relazione in un campo affollato di altre reti. Ilplanning si presenta essenzialmente come una pratica di connessione trae costruzione di reti, a partire da quelle che strutturano la vita quotidianain uno spazio fisico definito. Il punto-chiave è il riconoscimento del carat-tere embedded di ogni azione sociale entro quadri culturali e sistemi disignificato che danno senso all’azione. I quadri culturali sono plurimi, e rin-viano ad una pluralità di comunità di (multi)appartenenza. Senso ed iden-tità sono costruiti nell’interazione sociale. Il fine del planning comunicati-vo non è (tanto) il consenso, quanto la trasformazione dei frames e lagenerazione eventuale di capitale sociale. La condizione essenziale è lariflessività, la consapevolezza del carattere embedded delle assunzioni edelle credenze, la capacità di distacco critico. La deliberazione costituisceuna strategia disembedding.Il planning appare una sorta di laboratorio nel quale si riproducono, dia-logicamente e face-to-face, i problemi della compresenza (di soggetti, atti-vità, culture) che sono così influenti nella strutturazione delle questioniambientali. La frammentazione e la molteplicità dei quadri culturali, e lerelazioni di potere che strutturano i contesti, richiedono regole per l’inte-razione dialogica; per questo appare rilevante, per Healey, il riferimentoalla trascendentale situazione comunicativa habermasiana. Dunque, unadeliberazione collettiva, senza distorsioni, orientata all’intesa, inclusiva,può trascendere i punti di vista, e far emergere ciò che è giusto solo dallaforza del miglior argomento. Poiché il dissenso è spesso profondo, i pro-cessi dovranno costruire fiducia e relazioni (per via delle virtù civiche delladeliberazione argomentativa, ma anche per il calore e l’empatia dellostory-telling come modalità dialogica tipica), risorse che potranno essereriattivate in altre occasioni,… E, soprattutto, produrrà effetti cumulativiquando i soggetti riporteranno queste riflessioni nelle loro molte reti diappartenenza, innescando innovazione sociale e meccanismi virtuosi dipath dependance, nuovi sistemi di regole che (ri)struttureranno la vitaquotidiana, e che, in prospettiva, potrebbero produrre (dalla frammenta-zione) una comunità culturale ed un nuovo senso dei luoghi.

57 Tratto questo tema, in rela-zione al planning, nel mioVettoretto (2003).

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Queste prospettive appaiono strutturate da un’intenzione, tipicamentemoderna, pedagogica, illuminista ed unitarista, che non appartiene a quel-le pratiche che considerano la negoziazione (che è altra forma di intera-zione comunicativa)58 come elemento costitutivo della pianificazioneambientale, la quale è spesso strutturata da conflitti e da forme strategi-che di interazione che mettono a repentaglio il progetto deliberativo alme-no nella sua forma habermasiana. In questa posizione, si assume che granparte dell’efficacia del piano risieda nella capacità di costruzione di accor-di (più che di consenso), per via di mediazione (la quale può essere unamediazione con progetto, non strettamente neutrale, dove il tecnico-mediatore può portare e sostenere il proprio punto di vista) e di soluzionedei conflitti. Peraltro, in una situazione di interdipendenza conflittuale disoggetti autonomi (qual’è spesso quella ambientale), le pratiche interatti-ve assumono di norma la forma della negoziazione, e l’esito è spesso il rag-giungimento di un compromesso. Seguendo Thuderoz (2000), il compro-messo è categoria interessante, poiché, a differenza del consenso, rispettae non riduce la complessità delle posizioni, le ordina (è quindi anche unaprocedura decisionale); richiede, nella negoziazione, la comprensione del-l’altro, impegna i soggetti in una responsabilità collettiva non solo nellacostruzione del progetto, ma anche nel controllo della sua implementa-zione. Sembra creare legame sociale rispettando le diversità. L’accordosulle regole del gioco non implica infatti un consenso sul loro significato;la negoziazione ha bisogno solo di condizioni minime, e cioè di un conte-sto comune di interpretazione, dove però ciò che è comune non è l’inter-pretazione (come nei processi di consensus-building) ma il contesto, lasituazione. L’evoluzione nel tempo storico può, per le proprietà della pathdependency, eventualmente costruire significati o visioni effettivamentecondivisi. Ma come si inizia un processo non è irrilevante per il suo pro-cesso evolutivo e per i suoi esiti.Deliberative o negoziali che siano, vi è una chiara direzione di trattamen-to delle questioni ambientali per via di interazione dialogica, attraversoprocessi di confronto pubblico e trasparente, orientati all’intesa o al com-promesso, tra soggetti interessati dalle questioni e dalle politiche ambien-tali59. Mentre la prospettiva neo-comunitaria appare fondamentalmenteantropocentrica (la natura è fusa con la cultura, la nozione di ambienteviene quindi sostituita da quella di luogo e di territorio), le prospettive plu-raliste tendono a superare la distinzione tra etica ambientale antropocen-trica e non antropocentrica60, riconoscendo la radicale molteplicità di valo-ri (antropocentrici e non) ed interessi in gioco. La produzione delle politi-che avviene tramite la mobilitazione di molti tipi di argomentazioni e giu-stificazioni. I processi dialogici non garantiscono, naturalmente, la sceltadelle politiche migliori da un punto di vista ambientale, ma possono pro-durre, assieme ad un’adeguata presenza di conoscenza tecnica, effetti dirilievo sull’apprendimento, sull’ibridazione dei quadri cognitivi, sullo svi-luppo di virtù civiche che certamente hanno effetti positivi sul senso e la

58 Cfr. ad es. Susskind (2000).59 Cfr. ad es. Fischer (2000);Norton (2005).60 Su questo punto cfr. i saggiraccolti in Light e Katz (1996).

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cura dell’ambiente, oltre che sulla strutturazione della democrazia locale.In fin dei conti, questo era già il messaggio che Man’s Role ci ha conse-gnato cinquant’anni fa, in alcuni dei contributi più avanzati, e che confer-ma la forza di una tradizione di lungo periodo della pianificazione, quelladella produzione di azioni pubbliche come forme e processi di “conversa-zione urbana”, e la crisi probabilmente irreversibile delle concezioni auto-ritative e metodiche del piano.

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AREE SCIENTIFICO–DISCIPLINARI

Area 01 – Scienze matematiche e informatiche

Area 02 – Scienze ёsiche

Area 03 – Scienze chimiche

Area 04 – Scienze della terra

Area 05 – Scienze biologiche

Area 06 – Scienze mediche

Area 07 – Scienze agrarie e veterinarie

Area 08 – Ingegneria civile e Architettura

Area 09 – Ingegneria industriale e dell’informazione

Area 10 – Scienze dell’antichitИ, ёlologico–letterarie e storico–artistiche

Area 11 – Scienze storiche, ёlosoёche, pedagogiche e psicologiche

Area 12 – Scienze giuridiche

Area 13 – Scienze economiche e statistiche

Area 14 – Scienze politiche e sociali

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www.aracneeditrice.it

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Finito di stampare nel mese di settembre del 2011dalla «Ermes. Servizi Editoriali Integrati S.r.l. »00040 Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, 15

per conto della «Aracne editrice S.r.l. » di Roma