Inizio Arendt - Daddabbo

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Annali dell'università di Ferrara, Nuova serie, Sezione III, Filosofia, Discussion paper, n. 35 Leonardo Daddabbo Many beginnings. Forme dell’inizio in H. Arendt

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Annali dell'università di Ferrara, Nuova serie, Sezione III, Filosofia, Discussion paper, n. 35

Leonardo Daddabbo

Many beginnings. Forme dell’inizio in H. Arendt

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INDICE

Elenco delle abbreviazioni 3

Premessa 4

Capitolo primo 6

natalità 6 1.1 Nachdenken 6 1.2 Massa e movimento 11 1.3 «Initium ut esset…» 17

capitolo secondo 23

agire 23 2.1 Il cerchio e la retta 23 2.2 L’antipolitico 26 2.3 «Many beginnings but no end» 30

capitolo terzo 37

Polis e urbs 37 3.1 Le rovine di Ilio 37 3.2 Anstrengung 43 3.3 «una rifondazione in terra straniera» 48

capitolo quarto 52

rivoluzione 52 4.1 Desire for freedom 52 4.2 Fondazione della libertà 57 4.3 Il patto 61

Riassunto 70

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 71

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ELENCO DELLE ABBREVIAZIONI

I brani tratti dai testi citati con maggiore frequenza saranno indicati nel testo dalla sigla dell’opera, seguita rispettivamente dal numero di pagina dell’edizione originale e da quello della traduzione italiana

BPF

Between Past and Future, Penguin Books, New York, 1993 (I ed. Viking Press, 1961) ; tr. it. Tra passato e futuro, Garzanti, Milano, 1991

HC

The Human Condition, The University of Chicago Press, Chicago-London, 1989 (I ed. 1958) ; tr. it. Vita activa, Bompiani, Milano, 19913

LM

The Life of the Mind, Harcourt Brace Jovanovich, New York, 1978; tr. it. La vita della mente, Il Mulino, Bologna, 1987

OR

On Revolution, Penguin Books, New York, 1990 (I ed. Viking Press, 1963); tr. it. Sulla rivoluzione, Edizioni di Comunità, Milano, 1996

OT

The Origins of Totalitarianism, Harcourt Brace & Co., New York, 1979 (I ed. 1951) ; tr. it. Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano, 19962

OV

On Violence, Harcourt Brace & Co., New York-London, 1969 ; tr. it. Sulla violenza, in Politica e menzogna, SugarCo, Milano, 1985

P Was ist politik?, Piper, München, 1993; tr. it. Che cos’è la politica?, Edizioni di Comunità, Milano, 1985

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PREMESSA

È ormai un’affermazione di senso comune sostenere l’illusorietà di un

tempo continuo e progressivo. La temporalità si è rivelata percorsa da fratture, interruzioni, insorgenze e svolte improvvise. La direzione univoca del processo storico ha lasciato posto a ritmi differenti, disomogenei, spesso stridenti gli uni con gli altri. Tempi, ritmi, irruzioni, eventi: un lessico plurale della discontinuità ha sostituito quel «tempo omogeneo e vuoto» che era già oggetto del disprezzo di Benjamin.

Eppure, spesso si prova l’impressione di trovarsi di fronte a una superficiale mutazione di vocabolario. Le nuove parole vengono usate in maniera relativamente indifferente. Servono a dire – continuando a parlare dall’alto – che ciò che prima si credeva continuo e indifferenziato appare ora frammentario e multiforme. Raramente si percepisce una variazione profonda del luogo teorico, per cui non si argomenta sulle discontinuità, ma si sposta il discorso nelle fratture, negli inizi.

H. Arendt ha elaborato una di queste variazioni, ponendo la sua ricerca su un piano di assoluta radicalità ontologica. Per lei l’inizio non è un argomento di cui si parla, ma una condizione nella quale ci si trova, un potere che muove ad agire, un desiderio che spinge a costituire la libertà. Che cosa significa essere un inizio? In quali forme questo “essere” si articola? Con quali problemi deve misurarsi? Ecco le domande fondamentali che danno impulso al suo pensiero.

L’orizzonte dunque è questo: fare dell’inizio una potenza ontologica e ricercarne forme e possibilità di sviluppo. Non in astratto, ma all’interno di condizioni storiche come il totalitarismo, la rivoluzione, la violenza.

L’ipotesi che propongo distingue, all’interno della riflessione arendtiana, tre forme d’inizio: la nascita, l’azione e la rivoluzione. Chiarire che cosa siano queste tre forme e in quale modo si rapportino tra loro è il

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compito delle pagine che seguono; ma ciò che vorrei subito rendere esplicito è la ragione del loro succedersi.

Nessuna evoluzione le congiunge, né sono completamente derivabili l’una dall’altra in un rapporto di filiazione lineare. Per rendere ragione del loro alternarsi e incrociarsi bisogna intendere le tre forme d’inizio come risposte a problemi che si trasformano esse stesse in questioni che esigono risposta.

Ogni forma è perciò uno spostamento, un differente campo nel quale una questione dell’ “essere un inizio” può essere fatta valere come significativa. Questa ipotesi mi pare adeguata a rendere conto del differire delle forme e a sottolineare che la nascita, l’azione e la rivoluzione si comprendono assai meglio se vengono considerate a partire dallo scarto, dalla differenza che le separa piuttosto che da una similarità che le riunisce per ricondurle all’unità.

Molti territori verranno attraversati nel tentativo di seguire i percorsi della potenza ontologica di iniziare: grandi eventi storici, narrazioni epiche, le forze della corporeità, le capacità del soggetto singolo, l’azione collettiva. Non si tratta di dispersioni, di mescolanze gratuite, ma di prove della crucialità e della difficoltà del problema. Gli stessi punti ciechi nei quali a volte si spegne la tensione che H. Arendt ha impresso alla sua ricerca ne sono una testimonianza.

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CAPITOLO PRIMO

NATALITÀ

1.1 Nachdenken

In una intervista, rilasciata nel 1964 a Günter Gaus, H. Arendt offre una efficace definizione della propria figura intellettuale e delle caratteristiche del proprio processo di pensiero. «Io non appartengo alla cerchia dei filosofi»1 chiarisce in apertura, e più avanti aggiunge: «Io non credo che possa esistere qualche processo di pensiero senza esperienze personali. Tutto il pensiero è meditazione (Nachdenken), pensare in seguito a una cosa»2.

Nonostante la semplicità della formulazione che le esplicita, si tratta di enunciazioni abbastanza complesse e dense di implicazioni. La nozione di Nachdenken, in particolare, racchiude una serie di significati che possono illuminare il modo in cui, nell’opera della Arendt, gli oggetti, le esigenze teoretiche e le urgenze etiche si intreccino profondamente, così da poter rispondere su molteplici piani alle sfide che il tempo sottopone a chi non voglia accettare senza resistere la necessità di ciò che accade.

Un primo strato di significazione di queste autodefinizioni rimanda evidentemente alla formazione dell’allieva di Husserl e Heidegger. L’impresa fenomenologica imponeva infatti un atto deciso e senza compromessi di riscoperta delle cose al di sotto delle sedimentazioni culturali che le occultavano e le distorcevano: “andare alle cose stesse” era l’imperativo categorico di questa riscoperta.

1 H. ARENDT, Che cosa resta? Resta la lingua materna, in AUT-AUT, n.239-40,

p.11. 2 Ivi. p. 28.

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Ma al di sotto degli echi giovanili vi è un secondo strato, più profondo, che invece afferma nozioni non più derivate, ma procedenti da uno stile di pensiero del tutto originale. Il pensiero, dice H. Arendt, non dev’essere inteso come un’attività vuota e generica (un Denken); esso è invece qualcosa di più caratterizzato e specifico: un «pensare in seguito a una cosa», un Nachdenken.

L’assonanza linguistica con le varie declinazioni heideggeriane del movimento del pensiero (Andenken, Vordenken) non deve qui indurre in errore. Non è questo l’ambito al quale il Nachdenken arendtiano dev’essere riportato. Esso rinvia invece a un’altra nozione, quella di Selbstdenken, che la Arendt stessa ha ritrovato in Lessing: «L’Illuminismo ha innalzato la ragione ad autorità e ha riconosciuto al pensare e al ‘pensare da soli’ (Lessing – Selbstdenken) di cui ciascuno autonomamente è capace – il carattere più elevato tra le facoltà dell’uomo»3. Selbstdenken, “pensare da sé”, è dunque una parola che concentra il senso comune illuministico. Autonomia del processo di pensiero dalle imposizioni della tradizione e dalle costrizioni dell’autorità, affrancamento della ricerca da ogni timore reverenziale, dispiegamento dei poteri della ragione di investigare ogni aspetto del reale: questo significa, in sintesi, Selbstdenken, e la capacità di pensare da sé sarà direttamente proporzionale alla forza con cui il pensiero saprà liberarsi da ciò che pretende di asservirlo.

Ma nella liberazione si nasconde un pericolo. Il pensiero, distaccandosi bruscamente dai suoi ambiti consueti e sfuggendo ai suoi limiti, può sciogliersi perfino dalla realtà e rinchiudersi nel cerchio autoriferito del solo pensabile. «Il pensare da soli libera dagli oggetti e dalla loro realtà, crea uno spazio del solo pensabile e un mondo che, senza sapere e senza esperienza, è accessibile a ogni creatura razionale. Libera dall’oggetto, come l’amore romantico riscatta l’amante dalla realtà dell’amata»4. Il Selbstdenken è sempre minacciato dal pericolo di muoversi in circolo e, ritornando su se stesso, riflettere null’altro che la propria immagine.

Se il pensiero ritorna su se stesso e trova come unico oggetto la propria anima, se diventa riflessione, allora conquista comunque, nella misura in cui rimane razionale, un’apparenza di potere illimitato perché si isola dal mondo, se ne disinteressa, e proteggendolo si pone di fronte all’unico oggetto «interessante»: la propria interiorità. Si fa illimitato nell’isolamento prodotto dalla riflessione; poiché l’esterno non lo turba più, non è richiesta

3 H. ARENDT, Rahel Varnhagen. Storia di una ebrea, Il Saggiatore, Milano, 1988,

p. 17. Su Lessing cfr. anche On humanity in Dark Times: Thoughts about Lessing, in Men in Dark Times, Harcourt & Co., New York, 1968; tr. it. L’umanità in tempi oscuri. Riflessioni su Lessing, in “La società degli infividui”, n.7, 2000.

4 H. ARENDT, Rahel Varnhagen, cit., p. 17.

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nessuna azione, le cui conseguenze limiterebbero anche la persona più libera. L’autonomia dell’uomo diventa la vittoria della possibilità che respinge ogni realtà. La realtà non può portare niente di nuovo, la riflessione ha già anticipato tutto.5

Se questo è il rischio del Selbstdenken, il nach ne costituisce la neutralizzazione. Il Nachdenken, senza abolirne la libertà conquistata, restituisce il pensiero al rapporto con la “cosa” e blocca la deriva che poteva portare a una conoscenza illusoria e vuota di oggetti. In questo stesso senso la Arendt ritiene di non far parte della cerchia dei filosofi. La cerchia, andando un po’ oltre la lettera del termine, va intesa anche come “cerchio”, ossia come processo circolare che fa ricadere l’attività di pensare sempre su se stessa. Il cominciamento, il primo impulso del pensiero filosofico, non è nella filosofia; non si inizia a pensare criticando i punti deboli dei propri predecessori, sviluppando le proprie idee e difendendole poi dalle obiezioni. Ciò che spinge a pensare è la necessità, l’urto con qualcosa, con una “cosa” fuori del cerchio della filosofia. Una delle espressioni più significative che si possano impiegare per esprimere il Nachdenken è «contraccolpo»6.

Ora, la “cosa” che obbliga a pensare è l’esperienza del totalitarismo. Il totalitarismo, in quanto dato di realtà, accadimento storico, grava con la pesantezza cupa di un fatto irreversibile. La Arendt parla a questo proposito di «fardello» e di «peso». «Comprendere non significa negare l’atroce, dedurre il fatto inaudito da precedenti o spiegare i fenomeni con analogie e affermazioni generali in cui non si avverte più l'urto della realtà e dell'esperienza. Significa piuttosto esaminare e portare coscientemente il fardello che il nostro secolo ci ha posto sulle spalle, non negarne l’esperienza, non sottomettersi supinamente al suo peso.»(OT,viii; LII)

La semplice e brutale effettualità del totalitarismo obbliga (e vedremo tra poco il duplice senso di questa obbligazione) a comprendere. Ciò che rimane in questione – una volta affermati l’urgenza e il dovere – è il metodo che permette la comprensione. Comprendere non è solo conoscere, cioè raccogliere e selezionare dati riguardo a un oggetto determinato. La conoscenza è un elemento necessario del comprendere, ma non lo esaurisce

5 Ivi, p. 18. 6 Riprendo questa felice espressione da L. BOELLA, Hannah Arendt. Agire

politicamente. Pensare politicamente, Feltrinelli, Milano, 1995, p. 99. «Se il pensiero è la “cosa”, - scrive L. Boella - nel senso tremendo e radicale dell’esperienza del dolore, della catastrofe del nostro secolo, per arrivare alla realtà, una volta scartate le mediazioni concettuali tradizionali, sarà necessario qualcosa di molto più violento del procedimento fenomenologico, soprattutto non di un metodo ma di un atto, un gesto: un urto mor(t)ale, uno strappo, un colpo d’ascia, un contraccolpo» (p. 103).

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nelle sue descrizioni perché essa tende sempre a riportare l’ignoto al noto. Comprendere, per H. Arendt, va inteso invece come dare un significato ritrovando la natura o l’essenza propria che rendono un fenomeno inassimilabile agli altri.7 Comprendere consiste nell’operazione che attribuisce un significato a un fenomeno, ma la comprensione è propriamente raggiunta quando viene individuato ciò che rende ragione dell’unicità del fenomeno. Ma attraverso quali strumenti tale comprensione singolarizzante può essere portata a termine? La comprensione arendtiana non ha connotazioni storiciste; non si tratta quindi di trasferirsi nell’individualità altrui per comprendere rivivendo. In realtà, nessuna delle categorie storiografiche disponibili può fornire metodologie o piani di confronto. La tradizione culturale è resa inutilizzabile dall’assoluta novità che contraddistingue il totalitarismo. «…la saggezza del passato svanisce, per così dire, nelle nostre mani non appena cerchiamo di usarla onestamente nelle esperienze politiche fondamentali della nostra epoca. Tutto ciò che sappiamo del totalitarismo dà prova di una tremenda originalità che nessun confronto storico approssimativo può attenuare»8. La difficoltà maggiore è data dal fatto che il totalitarismo non è il compimento di una lenta costruzione, e solo entro certi limiti può essere inserito in catene causali. Pur essendo composto da elementi noti in precedenza (antisemitismo, imperialismo ecc.), esso non è in alcun modo interpretabile secondo canoni tramandati perché i suoi elementi si sono aggregati in una formazione assolutamente nuova, irriducibile a forme politiche già apparse. Arendt non si stanca di sottolineare la novità dei regimi totalitari, novità talmente intensa ed estesa che comporta incommensurabilità e difficoltà di analizzare. Le due forme autentiche di dominio totalitario – la Germania nazista dopo il 1938 e l’URSS dopo il 1930 - non possono essere ritenute accrescimenti e sviluppi di precedenti sistemi similari: «Tali forme differiscono radicalmente da altri tipi di regime dittatoriale, dispotico o tirannico; e benché si siano sviluppate, con una certa continuità, da dittature di partito, i loro aspetti essenzialmente totalitari sono nuovi e non possono essere derivati da sistemi monopartitici» (OT,419;574). Il totalitarismo, infatti, non si limita ad essere un nuovo tipo di potere, ma crea una sconosciuta forma di realtà: «La politica dei regimi totalitari non è la vecchia politica di potenza, sia pure spinta a un estremo di brutalità; dietro la loro politica di potenza, come dietro la loro Realpolitik, si nasconde una concezione radicalmente nuova della potenza e della realtà»(OT, 417;572).

7 Cfr. su questo H. ARENDT, Comprensione e politica, in La disobbedienza civile e

altri saggi, Giuffrè, Milano, 1985, pp. 95-9. 8 Ivi, p. 93.

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Non solo la complessità del totalitarismo non può essere spiegata da una categoria, ma sembra che nessuna categoria possa avvicinarlo. «Quando i sistemi monopartitici, da cui esso si è sviluppato, sono diventati veramente totalitari, hanno cominciato a operare secondo una scala di valori così radicalmente diversa da ogni altra che nessuna delle categorie tradizionali, giuridiche, morali o del buon senso, poteva più servire per giudicare, o prevedere la loro azione.»(OT, 460;630) Tuttavia, non ci si può sottrarre all’obbligo di comprendere. Sottrarsi non è solo una rinuncia epistemologica, ma è anche un fallimento etico; vuol dire farsi schiacciare e annientare dal «fardello». Ma come prendere la parola a partire da questo dilemma che impedisce di parlare e impedisce di tacere?

Di certo, H. Arendt non può scrivere per rendere testimonianza di ciò che è stato. Essendo stata sfiorata ma non ferita dall’esperienza diretta, sa bene che la sua comprensione non può fondarsi sulla memoria e che le è quindi impossibile occupare il posto - che sarà di Primo Levi - di colui che è forzato a scrivere perché ciò che è inconcepibile possa essere ascoltato e creduto dal mondo9. La comprensione non si avvale della memoria – intesa come racconto che proviene dal contatto diretto – ma dell’immaginazione, ossia di una distanza che non neutralizzi.

Solo l’immaginazione ci permette di vedere le cose sotto il loro vero aspetto, di porre a distanza ciò che è troppo vicino in modo da comprenderlo senza parzialità né pregiudizi, di colmare l’abisso che ci separa da ciò che è troppo lontano in modo da comprenderlo come se ci fosse familiare. Questo «prendere le distanze» da certe cose, questo ponte lanciato fino agli altri, fa parte di un dialogo instaurato dalla comprensione con gli oggetti con i quali la sola esperienza stabilisce un contatto troppo stretto e che la pura conoscenza ci chiude con barriere artificiali.10

Se il centro di gravità della comprensione non può situarsi nella rimemorazione del passato, è allo stesso modo preclusa la facile via del monito rivolto al futuro. Le origini del totalitarismo non si protende sull’abisso per ammonire che in esso si può ancora e sempre sprofondare. Una simile tonalità, anche se talvolta sembra emergerne la tentazione, mi sembra del tutto estranea all’asse centrale dell’opera e al tentativo che la sua costruzione cerca di compiere.

9 «…molti sopravvissuti […] ricordano che i militi delle SS si divertivano ad

ammonire cinicamente i prigionieri: “In qualunque modo questa guerra finisca, la guerra contro di voi l’abbiamo vinta noi; nessuno di voi rimarrà per portare testimonianza, ma se anche qualcuno scampasse, il mondo non gli crederà. […] La storia dei Lager, saremo noi a dettarla» (P. LEVI, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 199811, p. 3).

10 H. ARENDT, Comprensione e politica, cit., pp. 110-1.

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L’intreccio fra oggetto, metodo e tensione etica non riposa sul piano della edificazione ad uso delle generazioni future, ma è stabilito nella prospettiva stessa da cui si comprende. Il totalitarismo, per quanto inaudito orrore, non è insondabile, ma agisce in base a un «segreto meccanismo»(OT, viii;LII), e di questo si tratta di scoprire non solo i modi di funzionare, ma soprattutto ciò che lo rallenta e può arrestarlo.

L’urgenza etica e l’esigenza teoretica sono dunque radicate in un unico, immanente fondamento: comprendere il totalitarismo a partire da ciò che gli resiste. Nemmeno la dominazione totalitaria si dispiega senza che qualche cosa in qualche modo le resista.

1.2 Massa e movimento

I regimi totalitari non hanno precedenti e non possono venire derivati da altre forme politiche, ma è possibile rintracciare nella storia degli antecedenti, ossia delle condizioni, preliminari ma non necessarie, del loro avvento. Una di tali condizioni risiede nel processo di estinzione della società classista e del sistema di partiti degli stati nazionali, che tocca il culmine nel periodo seguente alla prima guerra mondiale.

Ciò che esattamente si dissolve è il legame tra l’appartenenza a una classe e l’orientamento politico degli individui. Prima del conflitto mondiale, infatti, il sistema politico era retto dalla corrispondenza tra classi, interessi e rappresentanza. Ogni classe (alla quale si apparteneva quasi sempre per nascita) esprimeva degli interessi che venivano sostenuti da un partito e quindi rappresentati in parlamento da un selezionato e ristretto gruppo di professionisti.

Come si vede, il meccanismo comportava, passando dalla classe ai rappresentanti, un elitarismo crescente. La società classista era indubbiamente una società elitaria, che funzionava sulla tacita esclusione dalla politica attiva della maggioranza dei cittadini; ma ciò nonostante essa era ancora capace di assolvere ai suoi compiti fondamentali: produrre una differenziazione sociale e contemporaneamente tenere legato il popolo al corpo politico (Cfr. OT, 313-5;433-7).

Le enormi difficoltà della situazione post-bellica, in cui alla sconfitta militare si aggiungono gli effetti della disoccupazione e dell’inflazione, recidono tutti i legami che avevano tenuto insieme le diverse componenti della società classista. Le «maggioranze addormentate» e politicamente

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passive, non più ancorate ai partiti e differenziate secondo interessi, formano ora un’unica, immensa massa di individui, accomunata solo dall’ostilità verso il sistema partitico. Motivi e posizioni sociali eterogenei danno origine a un indifferenziato sentimento negativo: «Non contava poi molto che tale temibile solidarietà negativa derivasse dai più diversi motivi, che il disoccupato odiasse lo status quo e le potenze dominanti sotto la forma della socialdemocrazia, il piccolo proprietario espropriato sotto quella dei partiti di centro, e gli ex appartenenti alla media e alta borghesia sotto quella della destra tradizionale»(OT, 315;436). La cosa essenziale è infatti la saldatura, non importa in nome di quali rivendicazioni, avvenuta tra gli strati sociali prima distinti o conflittuali. Ricombinandosi in un conglomerato nuovo, la decomposizione delle classi forma e rende disponibile per il totalitarismo una materia da organizzare.

«I movimenti totalitari mirano a organizzare le masse, non le classi» (OT, 308;427); e non potrebbe essere altrimenti, poiché i riferimenti classisti dell’orientamento politico si sono disgregati, facendo confluire tutte le classi in una massa. «L’orientamento dell’uomo di massa non è determinato soltanto, o principalmente, dalla specifica classe a cui un tempo apparteneva, ma piuttosto dalle diffuse influenze e convinzioni che formano il bagaglio inarticolato di tutte le classi della società» (OT, 314;435). La presenza di un fondo comune, fatto di ostilità quanto di convinzioni, non deve però far ritenere la massa un’unione cosciente di forze protese alla sovversione violenta. Al contrario, essa è composta da atomi: «La principale caratteristica dell’uomo di massa non era la brutalità e la rozzezza, ma l’isolamento e la mancanza di normali relazioni sociali» (OT, 317;439).

Costituitasi negativamente, per dissoluzione di altre forme, e composta da individui sradicati, senza un preciso posto nel mondo e privi di relazioni che diano significato all’esistenza, la massa non ha progetti, ma vive di un ansioso bisogno di rassicurazione, talmente acuto da trasformarsi in desiderio di evasione dal reale. La pulsione essenziale della massa è «l’ansia di un mondo fittizio» (OT,352;486), ossia l’aspirazione a vivere in un mondo perfettamente comprensibile e controllabile: «Le masse sono ossessionate dal desiderio di evadere dalla realtà perché, senza patria come sono, non possono più sopportarne gli incomprensibili aspetti accidentali» (OT, 352;486).

Il totalitarismo risponde a questo bisogno vitale attraverso la forma di rassicurazione costituita dall’ideologia. L’ideologia, intesa, nella definizione arendtiana, come «logica di un’idea» (OT, 469;642), presuppone che l’intera realtà sia da sempre governata, segretamente ma ineluttabilmente, da leggi naturali o storiche. Non è essenziale il contenuto

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delle leggi, ma solo l’imperatività del loro movimento e il pericolo di rimanere estranei o avversi al loro principio vitale. Storia o natura, razza o edificazione di una nuova società sono perfettamente intercambiabili. «Il pericolo prospettato dai bolscevichi era quello di perdere il treno della storia, di rimanere irrimediabilmente in ritardo rispetto alla propria epoca, di consumare la propria vita inutilmente; il pericolo prospettato dai nazisti era invece quello di vivere contro le leggi eterne della natura e della vita» (OT, 345;476). Dietro le apparenze caotiche della comune esperienza quotidiana agiscono dunque immani forze, destinate ad avere il sopravvento su tutto ciò che tenta di contrastarle o negarle. Ogni loro sconfitta o contraddizione non è che un arresto temporaneo, l’ostacolo provvisorio nel compiersi di un destino. Ecco allora che sono stati prodotti tre effetti: rassicurazione, creazione di un mondo fittizio e istituzione di un principio di movimento.

L’ideologia rassicura manifestandosi sotto l’aspetto di un inconfutabile processo dimostrativo. Partendo da una premessa accettata, ne deduce in modo logicamente concatenato e perfettamente coerente ogni ulteriore aspetto della realtà (cfr. OT, 471;645). Se l’affermazione di una razza è la legge fondamentale, allora tutto ciò che è storico – tutto ciò che è accaduto o deve ancora accadere – non può che dipendere dall’inflessibilità con la quale il principio viene condotto alle sue ultime conseguenze. Chi «riconosceva che il diritto alla vita era legato alla razza senza trarre la conseguenza dell’eliminazione delle “razze inadatte”, era semplicemente uno stupido o un codardo» (OT, 472;646). Poiché la premessa non viene mai sottoposta a discussione – essendo una immutabile legge della natura o della storia – la stretta cogenza con la quale il procedimento deduttivo può svilupparsi riporta ordine e comprensibilità nel mondo. La salvezza è di nuovo possibile, ora perfino certa: «Il linguaggio della scientificità profetica corrispondeva ai bisogni delle masse che non avevano più una patria nel mondo ed erano ora pronte ad abbandonarsi a forze eterne, dominatrici di tutto, che avrebbero da sole condotto l’uomo, il nuotatore in balia delle onde delle avversità, al lido della salvezza» (OT, 350;484).

Sottrarsi definitivamente ai flutti dell’incertezza e del caso comporta inoltre la trasmigrazione in un mondo che non è più quello reale. Non solo gli individui di massa sono privi del mondo inteso come insieme di relazioni, ma, barattandolo con la rassicurazione, perdono anche il mondo come realtà percepita comunemente dai sensi: «la propaganda totalitaria crea un mondo capace di competere con quello reale, il cui principale svantaggio è di non essere logico, coerente e organizzato»11 (OT, 362;500).

11 Non si tratta affatto, per H. Arendt, di mettere in luce la stupidità delle masse, ma

di individuare i termini e le ragioni di uno scambio, cioè di un problema e della risposta

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Il «mondo fittizio» non ha bisogno di sensi per essere percepito, ma di un unico supersenso ideologico, che mette in grado di cogliere, dietro le confuse apparenze, la “realtà vera” delle forze profonde. «Mentre distrugge tutte le connessioni di senso con cui normalmente si calcola e si agisce, il regime impone una specie di supersenso, che in realtà le ideologie avevano in mente quando pretendevano di aver scoperto la chiave della storia o la soluzione degli enigmi dell’universo» (OT, 457;626).

Ora, la logica dell’ideologia dà vita a un principio di movimento incessante. La formulazione «logica di un’idea» non deve far pensare a rigidità metafisiche o significati trascendenti. L’idea delle ideologie è sempre applicata alla storia, sviluppata e portata alle sue estreme conseguenze da un processo. «Le ideologie – scrive Arendt – non si interessano mai del miracolo dell’essere. Sono storiche, si occupano del divenire e del perire, dell’ascesa e del declino delle civiltà» (OT, 469;642). Una delle ragioni di incommensurabilità del totalitarismo risiede proprio in questa coazione al movimento, che capovolge ogni valore di stabilità e autorità: «tutte le leggi sono diventate leggi di movimento. La natura e la storia non sono più fonti stabilizzatrici di autorità per le azioni dei mortali, ma esse stesse dei movimenti, dei processi» (OT, 463;634).

Il fatto che il regime si identifichi con l’essenza del processo implica che il movimento è inarrestabile, pena la fine del regime stesso.

Né il nazismo né il bolscevismo hanno mai proclamato una nuova forma di stato, o affermato che i loro obiettivi erano raggiunti con la conquista del potere e il controllo dell’apparato statale. La loro idea di dominio concerne qualcosa che né uno stato né un semplice apparato di violenza, ma soltanto un movimento in marcia può conseguire: cioè il dominio permanente di ogni singolo individuo in ogni aspetto della vita. la conquista del potere mediante gli strumenti di violenza non è mai fine a se stessa, bensì soltanto il mezzo per il conseguimento di un fine; in qualsiasi paese essa è soltanto una gradita fase transitoria, mai il fine del movimento. L’obiettivo pratico di questo è organizzare il maggior numero possibile di persone nelle sue file e farle marciare (to set and keep them in motion); un obiettivo politico, che costituirebbe la fine del movimento, semplicemente non esiste. (OT,326;451)

che viene offerta per risolverlo o rimuoverlo: «Di fronte all’alternativa di vegetare in mezzo all’anarchia e all’arbitrarietà della decadenza o di inchinarsi alla rigida fittizia consapevolezza di un’ideologia, le masse sceglieranno sempre probabilmente la seconda soluzione, pronte a pagare per essa con sacrifici individuali; e ciò non perché siano stupide o malvagie, ma perché nel disastro generale, questa fuga sembra garantir loro un minimo di rispetto di sé e di dignità» (OT, 352;487).

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Non avendo, e non potendo avere, un obiettivo politico riconoscibile, la dominazione totalitaria trova inutile e limitato il diritto positivo, che sostituisce col terrore quale mezzo per realizzare le leggi di movimento (cfr. OT, 464;636). «Vera essenza del regime totalitario» (OT,344;475), il terrore assicura che il movimento prosegua indefinitamente e che al suo interno non possano sorgere deviazioni o contromovimenti non previsti, di natura differente e autonoma.

Si potrebbe continuare a seguire ancora per molto l’analisi arendtiana del totalitarismo, che presenta alcuni versanti – come la questione dei campi e le «incertezze dei diritti umani» - per nulla spenti dalla distanza temporale, ma resi ancora più ardenti dall’attualità12. Tuttavia, già i pochi elementi che ho rapidamente tratteggiato mi sembra siano sufficienti, nel loro complesso, a raffigurare in negativo un’immagine del politico. Come scrive A. Enegrén, «il totalitarismo disegna in cavo tutto ciò che conferisce rilievo al politico arendtiano»13: al dominio assoluto si oppone uno schema isonomico, all’unico supersenso risponde la pluralità di punti di vista degli uomini; alla coazione al movimento sospinta dal terrore fa argine l’autorità del diritto positivo; alle leggi destinali profonde e segrete si contrappone la visibilità aperta delle esperienze umane. Accanto a questi, vorrei sottolineare altri due elementi che contribuiscono ad aumentare i contrasti dell’immagine negativa. Il primo, di evidenza palmare, attiene alla “mondanità”: una massa di individui sradicati e isolati, privi di rapporti che possano formare un mondo condiviso e ansiosi di trasferire la propria esistenza in un rassicurante cosmo immaginario, rappresenta una assoluta negazione del politico inteso come costruzione di relazioni e scambio tra eguali. Il secondo carattere che permette di vedere nel totalitarismo il rovescio del politico consiste nel fatto che il movimento sostituisce l’azione.

Il terrore, secondo la Arendt, svolge una duplice funzione: è innanzitutto «essenza del governo» perché attualizza e rende operanti le forze segrete, ed è anche «principio, non già d’azione, bensì di moto (motion)» (OT,467;640, corsivo mio). L’azione, ossia la capacità di creare e inserire nel mondo l’imprevedibile, non può in alcun modo trovar posto all’interno del movimento, poiché questo «non ha bisogno, e neppure può fare uso, di un principio d’azione in senso stretto, dato che elimina appunto la capacità di agire» (OT,467;640). Dominazione totale spinta fino alle pieghe più individuali della vita - «L’unica persona che in Germania ha

12 Mi limito a indicare, in questa direzione, G. AGAMBEN, Homo sacer, Einaudi,

Torino, 1995. 13 A. ENEGRÉN, Il pensiero politico di Hannah Arendt, Edizioni Lavoro, Roma,

1987, p. 25.

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ancora una vita privata è qualcuno che dorme» (OT,339;469), si vantavano i nazisti dopo qualche anno di regime) -, cancellazione della pluralità nella fabbricazione di «un unico uomo di dimensioni gigantesche» (OT,466;638), trasformazione di ogni singolarità in un «fascio di reazioni» totalmente prevedibile e infinitamente sostituibile, il totalitarismo è l’impossibilità dell’azione. L’agire vi sopravvive sfigurato in una deformazione grottesca: «come così spesso è avvenuto nella storia e nella tradizione dell’occidente, viene definito come impartire ed eseguire ordini» (OT, 325;450).

Ci troviamo qui di fronte a uno dei punti di svolta del pensiero arendtiano. La posta in gioco non riguarda più gli strumenti di analisi di un regime, ma la determinazione delle residue possibilità di resistergli. Se l’azione è impossibile, la creazione di imprevedibilità è definitivamente cancellata dal mondo? Nulla si oppone alla distruzione della spontaneità, cioè della «capacità dell’uomo di dare inizio coi propri mezzi a qualcosa di nuovo che non si può spiegare con la reazione all’ambiente e agli avvenimenti»? (OT, 455;623)

Una risposta si può trovare riconoscendo innanzitutto la profondità della lotta. Il totalitarismo non ha veri e propri obiettivi politici, si impadronisce dell’apparato statale senza accontentarsene e non mette l’utilità economica alla base dei suoi moventi14. Lo scopo, ben più radicale, che esso cerca di raggiungere consiste nella modificazione della natura umana. «L’ideologia totalitaria non mira alla trasformazione delle condizioni esterne dell’esistenza umana né al riassetto rivoluzionario dell’ordinamento sociale, bensì alla trasformazione della natura umana» (OT, 458;628). «È in gioco la natura umana in quanto tale» (OT,458;628) perché nel fondo del suo essere vi è qualcosa che costitutivamente resiste al dispiegarsi della dominazione. È questo il vero bersaglio del potere totalitario, ed è anche la chiave di comprensione delle sue procedure più accanite, altrimenti destinate ad essere ritenute irrazionali o disutili.

14 «I campi di concentramento come istituzione non sono stati creati in vista di una

possibile prestazione produttiva, dato che la loro unica funzione economica permanente è stata quella di finanziare l’apparato di sorveglianza; quindi, per quanto concerne l’economia, essi esistono principalmente per se stessi» (OT,444;608). Economicamente neutri in una prima fase, i campi diventano poi manifestamente anti-economici: «L’incredibilità degli orrori è strettamente legata alla loro inutilità economica. I nazisti portarono questa inutilità all’estremo, fino alla aperta anti-utilità quando, nel bel mezzo della guerra, malgrado la scarsezza di materiale edilizio e rotabile, costruirono enormi e costose fabbriche di sterminio trasportando milioni di persone avanti e indietro. Agli occhi di un mondo rigorosamente utilitarista l’evidente contrasto fra queste azioni e le necessità militari dava all’impresa un’aria di folle irrealtà» (OT, 445;609).

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Ora, la natura umana in quanto tale (as such) è creatrice di incalcolabilità: «No ideology which aims at the explanation of all historical events of the past and at mapping out the course of all events of the future can bear the unpredictability which springs from the fact that men are creative, that they can bring forward something so new that nobody ever foresaw it» (OT,458; brano non compreso nella tr. it.). La natura umana, iniziando sempre nuove sequenze, introduce nel mondo differenze che liberamente ne producono la molteplicità. Questo potere non viene cancellato dal totalitarismo ma, impossibilitato a esprimersi nella forma dell’azione, rimane attivo nell’evento della nascita.

Tale movimento [quello delle forze superiori naturali o storiche] che procede secondo la propria legge, non può alla lunga essere impedito; perché alla fine si dimostra più potente di qualsiasi forza prodotta dalle azioni e dalla volontà degli uomini. Ma può essere rallentato, e lo è quasi inevitabilmente, dalla libertà umana, che neppure i governanti totalitari sono in grado di negare, perché questa libertà – per quanto irrilevante e arbitraria possano reputarla – si identifica con la nascita degli uomini, col fatto che ciascuno di essi è un nuovo inizio, comincia, in un certo senso, il mondo da capo. (OT,466;638)

1.3 «Initium ut esset…»

La nascita appare nel mondo semplicemente come un evento tra altri. Nessun particolare privilegio sembra a prima vista distinguere il nascere dagli altri accadimenti che incessantemente si susseguono nel tempo. Al contrario, molteplici relazioni e condizioni lo precedono e lo delimitano, aggiungendo alle demarcazioni proprie dell’evento altre costrizioni, dipendenti dalla sua particolare natura di processo vitale.

In quanto evento, la nascita è sottomessa a determinazioni spaziali e temporali. Ogni nascere accade in un “qui” e “ora”, cioè all’interno di coordinate spazio-temporali che lo identificano rigidamente. È perfino un truismo ricordare che tempo e luogo della nascita non fanno che inchiodare gli individui alla loro identità da stato civile.

Altre condizioni limitanti provengono dalla natura biologica del nascere. La nascita compie un processo biologico non solo determinato, ma anche completamente deterministico e che, come tale, non permette

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nessuna possibilità di variazione o imprevedibilità. «La natalità, la nascita, l’essere-già-nato - osserva P. Ricoeur – sono termini che derivano dalla biologia, mentre il pensiero politico proviene da un fenomeno supremamente umano»15.

Determinazione spazio-temporale, dunque, raddoppiata da un determinismo biologico. A questi, si può aggiungere un’ulteriore determinazione di tipo genetico, costituita dall’ovvia antecedenza cronologica e causale della coppia parentale.

La nascita è un evento che sembra non avere mai in se stesso il proprio centro; da qualunque lato si provi ad esaminarlo non rivela la libertà che dovrebbe animarlo dall’interno, ma manifesta soltanto le condizioni e le determinazioni che lo limitano dall’esterno. Eppure, Le origini del totalitarismo affida alla nascita il ruolo e il potere di opporsi a una forza sovrumana?16 Da dove viene allora l’energia straordinaria, che nessun altro evento pare possedere, di rallentare il movimento totalitario opponendo l’estrema resistenza alla distruzione della spontaneità perseguita dal regime?

In realtà, la nascita possiede una duplice natura: è da un lato un evento, comparso tra altri in una serie temporale, dall’altro, apparendo temporalmente, esso attualizza una «suprema capacità» non meramente storica. «L’inizio, prima di diventare avvenimento storico, è la suprema capacità dell’uomo: politicamente si identifica con la libertà umana. “ Initium ut esset, creatus est homo”, “affinché ci fosse un inizio è stato creato l’uomo”, dice Agostino. Questo inizio è garantito da ogni nuova nascita; è in verità ogni uomo» (OT,479;656). Il «prima» dell’orizzonte storico non indica qui un ambito sovratemporale, ma una potenza ontologica che non è mai completamente risolta nelle circostanze che la determinano. L’uomo è costituito, nel suo stesso essere, come capacità di iniziare. La nascita apre al tempo, e quindi alle circostanze storico-politiche, questa «suprema capacità»17.

I due lati dell’intreccio cominciano ora a manifestarsi: senza l’ancoraggio ontologico la nascita, in quanto semplice accadimento al pari

15 P.RICOEUR, Pouvoir et violence, in AA.VV, Ontologie et politique, Éd. Tierce,

Paris, 1989, p. 147. 16 «La forza sovrumana della natura o della storia ha un proprio principio e un

proprio fine, di modo che viene ostacolata soltanto dal nuovo inizio e dal fine individuale che è la vita di ciascun uomo» (OT, 465;637).

17 Sulla doppia natura della nascita e sui riferimenti arendtiani ad Agostino si veda P. BOWEN-MOORE, Hannah Arendt’s Philosophy of Natality, MacMillan, London, 1989, pp. 26-30. L’utilità complessiva di questo studio è tuttavia viziata dalla sua tesi di fondo, che individua un’unica forma d’inizio – la natalità – che si prolunga, sostanzialmente identica a se stessa, attraverso l’intera parabola teorica di H. Arendt.

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di altri, verrebbe assorbita e fagocitata dal meccanismo totalitario; la capacità d’inizio, a sua volta, diventa fattuale e può esplicare i suoi effetti solo in quanto nascita di qualcuno – un iniziatore - che entra nel mondo.

Ogni nascita è così sempre natalità, cioè simultaneità, coincidenza di una struttura ontologica e di un evento esistenziale/mondano. Ogni nascita «è la realizzazione (actualization) della condizione umana della natalità» (HC,178;129). Tale doppia natura – che è la forza che permette alla nascita di opporsi come resistenza – viene continuamente riaffermata e moltiplicata dal susseguirsi delle nascite. La proliferazione numerica è intensificazione ontologica della natalità, poiché viene sempre di nuovo alla luce «un essere la cui essenza è di essere un inizio»18. In un passo di Comprensione e politica, che vale la pena di citare per esteso, tutti i temi vengono enunciati, riuniti e talora sovrapposti. L’importanza fondamentale del concetto di inizio – argomenta la Arendt – è stata scoperta per la prima volta da Agostino che, anche lui, «scrisse sotto il pieno impatto di una fine catastrofica».

Agostino, nel suo De civitate Dei, disse :Initium ut esset, creatus est homo, ante quem nullus fuit («perché ci fosse un inizio l’uomo fu creato, prima del quale non vi fu nessun altro»). Qui l’uomo non solo ha la capacità di iniziare, ma è questo stesso inizio. Se la creazione dell’uomo coincide con la creazione di un inizio nell’universo (e cosa altro significa questo se non la creazione della libertà?) allora la nascita dei singoli uomini, che sono nuovi inizi, riafferma il carattere originale dell’uomo in modo tale che l’origine non può mai diventare interamente una cosa del passato; mentre, dall’altro lato, il solo fatto della continuità memorabile di questi inizi nella successione delle generazioni garantisce una storia che non può mai finire perché è la storia di esseri la cui essenza è l’inizio. Alla luce di queste riflessioni il nostro sforzo di comprendere qualcosa che ha distrutto le nostre categorie di pensiero e i nostri criteri di giudizio appare meno penoso.19

Oltre a riaffermare il legame attraverso cui “avere inizio” ed “essere inizio” si rafforzano reciprocamente, H. Arendt rivendica qui apertamente la provenienza agostiniana dei propri concetti. Il punto centrale è la distinzione ritrovata (ma sarebbe meglio dire enfatizzata, o interpretata creativamente) in Agostino tra principium e initium. «Per Agostino i due inizi erano così diversi che egli usò una parola per indicare quell’inizio che è l’uomo (initium) e un’altra per indicare l’inizio del mondo: principium, che è la traduzione tradizionale del primo versetto della Bibbia»

18 H. ARENDT, Comprensione e politica, in La disobbedienza civile e altri saggi,

Giuffrè, Milano, p.109. 19 Ivi, pp. 108-9.

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(HC,177;267). Tra i due tipi di inizio si interpone una gerarchia di assoluto e relativo. Il principium riguarda la pienezza dell’atto di creazione divina; vale a dire che il creatore «omnia in sapientia fecit , quod est Verbum eius et ipsum Scriptura principium nominavit» (De civitate Dei, XI, 32); l’ initium è invece la creazione, nel tempo, di un essere temporale. L’uomo, in questo ordinamento gerarchico, non possiede un proprio principium per il semplice fatto che non deve a se stesso la propria apparizione nel mondo. In quanto creatura e non creatore, la luminosità della sua comparsa non è che il riflesso di una luce proveniente dall’alto. Inizio relativo, l’uomo consiste nell’assoluto, ricevendone fondamento e durata.

I concetti agostiniani qui schematicamente richiamati non vengono ripresi senza una trasposizione secolarizzante delle loro implicazioni teologiche. Per formulare l’intreccio tra natalità e nascita, la Arendt riutilizza, modificandone il piano gerarchico e la semantica, la connessione tra la coppia concettuale di principium e initium. La sostituzione di una potenza ontologica e della sua espressione al principium/initium elimina il rapporto di subordinazione e permette all’inizio di guadagnare un diverso e molteplice orizzonte. Il creazionismo cristiano si dissolve, risolvendosi in una pluralità sempre rinnovata di nascite e liberando così l’initium dalla sua dipendenza dall’orizzonte teologico.

Disposto su un diverso piano e declinato secondo una differente significazione, l’initium è, nel senso proprio della parola, affrancato. Ciò significa che, reciso il rapporto con la sfera del divino che ne garantiva la stabilità, l’inizio deve ora misurarsi con se stesso, vale a dire fronteggiare le forze laceranti che pure lo abitano e cercare all’interno del proprio orizzonte ciò che potrebbe consolidarlo e sorreggere durevolmente il suo agire.

In conclusione, il concetto arendtiano di natalità appare composto da tre

principali elementi: a) una metodica di comprensione del totalitarismo che conduce ad identificare nell’inizio un estremo potere di resistenza; b) la coincidenza, nella nascita dell’iniziatore, di un evento esistenziale e di una potenza ontologica; c) la laicizzazione del creazionismo agostiniano e la conseguente emancipazione dell’initium. La forza e i confini della prima forma d’inizio dipendono entrambi dal suo essere prodotta sotto l’urto di «circostanze eccezionali». È ciò che H. Arendt spiega parlando della gratitudine che si deve a “tutto ciò che è così com’è”: «Esiste una sorta di gratitudine di fondo per tutto ciò che è così com’è: per tutto ciò che è stato dato e non è, né potrebbe essere, fatto; per le cose che sono physei e non nomō. Indubbiamente un simile atteggiamento è pre-politico, ma in

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circostanze eccezionali […] è destinato ad avere anche conseguenze politiche»20.

La potenza ontologica della natalità ha conseguenze politiche perché difende e prosegue la capacità di iniziare, impedendo quel dominio totale consistente nella trasformazione della natura umana in un fascio di reazioni. Tuttavia, la “politicità” proviene dall’esterno, è un carattere acquisito a causa delle inaudite circostanze del totalitarismo. La natalità in quanto physei è pre-politica perché immette in un mondo (inteso come semplice insieme di esseri e di cose o come società desertificata della massa) ma non ancora nel mondo in quanto spazio isonomico di relazioni. Con le parole di Lyotard, si può dire che la nascita fa essere senza ancora far diventare qualcosa o qualcuno: «La nascita non è solamente il fatto biologico del parto, ma sotto l’apparenza e nell’apparire di questo fatto, l’evento di una possibile radicale alterazione nel corso che spinge le cose a ripetere lo stesso. L’infanzia è il nome di questa facoltà, in quanto nel mondo di ciò che è, essa provoca lo stupore di ciò che, nell’istante precedente, non è ancora nulla. Di ciò che è già, pur non essendo ancora qualcosa.»21

Si può diventare qualcuno solo agendo e parlando nel mondo, ma nel mondo inteso come scambio inesauribile e pubblico, pluralità e ricchezza delle forme di vita e di identità; nel mondo, insomma, che appare come la faccia luminosa che il totalitarismo lasciava scorgere solo in una raffigurazione rovesciata e negativa. Se il totalitarismo è l’impossibilità dell’azione, il mondo sembra promettere, per converso, la gioia dell’agire. E a leggere molti interpreti della Arendt, le cose sembrerebbero stare proprio così. Dopo il totalitarismo, il pensiero arendtiano non esprimerebbe che affermazione gioiosa della multilateralità dell’esistenza, felicità del nascere, dell’iniziare, dell’agire libero che crea e ricrea le identità22.

Il problema, al di là di ogni facile ed edificante ottimismo del cominciamento, consiste ora proprio in questo. Si tratta di vedere quali

20 H. ARENDT, Ebraismo e modernità, Feltrinelli, Milano, 19932, p. 222. 21 J.-F. LYOTARD, Sopravvissuto, in AA.VV., Hannah Arendt, Edizioni Bruno

Mondadori, .Milano, 1999, p. 76. 22 Cito un solo brano, esemplificativo del genere: «For her […] politics is primarily

concerned not with death, coercion or preventing people for harming one another, but with birth wich to her signifies uniqueness, human plurality, joy, appearance, new beginning, hope, creativity und unpredictability. For her, political activity comes into being not because men are phisically vulnerable and need protection, but because they are unique, creative, think differently, are capable of unpredictable actions and need public spaces of appearance.» (B. PAREK, Hannah Arendt and the search for a new political philosophy, MacMillan, London, 1984, p. XI).

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processi e quali forze muovano il mondo, e quale differente forma d’inizio corrisponda al loro dispiegarsi.

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CAPITOLO SECONDO

AGIRE

2.1 Il cerchio e la retta

Nella letteratura critica si incontra spesso un’immagine di H. Arendt ormai divenuta un luogo comune. La pensatrice che si mostra da quest’immagine ha il principale merito di compiere un’intransigente difesa del mondo e del politico. Contro ogni tentativo di riduzione e omogeneizzazione della multilateralità, la Arendt erge la realtà incoercibile della pluralità e una distinzione delle singolarità che non si lascia appiattire in nessuna unificazione astratta. Allo stesso modo, contro l’impoverimento del politico ad amministrazione o la sua traduzione in sistema di forze si oppongono l’esaltazione della novità iniziata dall’azione e la rivendicazione di uno spazio politico costruito a partire dalla relazione isonomica che i partecipanti condividono.

Un’immagine che si potrebbe dire “ben temperata”; formata da un pensiero costitutivamente aperto alla novità radicale dell’agire e da una salutare inclinazione a difendere le differenze dalle filosofie della storia o dai processi di massificazione sociale. Il mondo vi appare come un intreccio inesauribile di prospettive e di azioni, un gioco sempre ricominciato da uomini che imprevedibilmente costituiscono e modificano le linee del divenire storico, facendo prevalere l’inaspettato sulle regolarità e sulle costrizioni. Un mondo di eguali ma non di simili, di differenze ma non di disiecta membra, di relazioni ma non di forze, di potere ma non di violenza.

Un’immagine fin troppo oleografica? Non v’è dubbio. Tuttavia essa si fonda su elementi reali del pensiero della Arendt. Il problema è che si tratta

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di elementi distaccati dal loro sfondo, di positività che appaiono totalmente luminose perché allontanate dal contesto buio da cui provengono. Ogni concetto messo in gioco dalla riflessione arendtiana è infatti una distinzione, cioè una separazione o una reazione rispetto a qualcos’altro. «Tutte le nostre definizioni sono distinzioni, per cui non riusciamo a dire ciò che ogni cosa è senza distinguerla da ogni altra». (HC,176;128)

Se le nozioni di inizio, azione, politico, vengono riportate a questo processo di determinazione e negazione, l’immagine “ben temperata” lascia vedere al suo fondo l’aspro contrasto da cui provengono.

Partiamo da una questione elementare: che cosa intende H. Arendt per

“realtà”? La risposta è formulata senza alcuna incertezza: è realtà solo ciò che appare come pubblico e può essere visto e ascoltato.

Per noi, ciò che appare – che è visto e sentito da altri come da noi stessi – costituisce la realtà. Raffrontate con la realtà che proviene da ciò che è visto e udito, anche le più grandi forze della vita intima – le passioni del cuore, i pensieri della mente, i piaceri dei sensi – caratterizzano un tipo di esistenza incerta e nebulosa fino a quando non vengano trasformate, deprivatizzate e deindividualizzate, per così dire, in una configurazione che le renda adeguate all’apparire in pubblico. (HC,50;37)

La realtà non è affatto qualcosa di immediato, che semplicemente e senza mediazioni di alcun tipo si offre alla percezione dei sensi, ma è il risultato di un processo di trasformazione, che rende pubblici e quindi reali forze e modi di esistenza originariamente eterogenei alla configurazione pubblico-mondana. La realtà in quanto spazio pubblico umano, «presenza simultanea di innumerevoli prospettive e aspetti in cui il mondo comune si offre» (HC,57;42), emerge da uno sfondo cosmologico disperatamente opaco e governato da un principio che si potrebbe metaforicamente definire entropico. «Se lasciate a se stesse le faccende umane possono solo seguire la legge della mortalità, che è la più certa e implacabile legge di una vita spesa tra la nascita e la morte» (HC,246;182).

Senza che nulla ne interrompa e capovolga il corso, la vita non può che ritornare allo stato indifferenziato da cui proviene. È la «malinconia ontologica»23 che Lyotard ha visto racchiusa e implicata all’interno del pensiero della Arendt. Una «normale, “naturale” rovina» (HC,247;182), un ciclo che spegne ogni vita nella dissipazione delle sue energie: sono queste

23 Cfr. J.-F. Lyotard, Sopravvissuto, in AA.VV, Hannah Arendt, op. cit., p.74 e sgg.

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le leggi portanti che regolano la cosmologia sottesa all’architettura della vita activa. La realtà molteplice e viva, intesa come «somma totale degli aspetti offerti da un oggetto a una moltitudine di spettatori» (HC,57;43), non può che costituirsi a partire dallo sfondo monotono e indifferenziato del principio entropico.

È proprio qui, in opposizione al ciclo negativo della dissoluzione, che la Arendt introduce la grande immagine che sintetizza l’intera problematica dell’inizio inteso come capacità di agire.

La mortalità degli uomini dipende dal fatto che la vita individuale, con una storia riconoscibile, dalla nascita alla morte, emerge dalla vita biologica. Questa vita individuale si distingue da tutte le altre cose per il corso rettilineo del suo movimento, che, per così dire, taglia (cuts through) quello circolare della vita biologica. la mortalità è questo: muoversi lungo una linea retta in un universo dove ogni cosa dotata di movimento si muove in un ordine ciclico. (HC,19;15, corsivo mio)

La mortalità, che nelle pagine iniziali di Vita activa identifica gli uomini in opposizione agli dei immortali, si rovescia e si precisa, alla fine dell’opera, come capacità di cominciare e agire.

È la facoltà dell’azione che interferisce con questa legge perché interrompe l’inesorabile corso automatico della vita quotidiana, che a sua volta abbiamo visto interferire col ciclo del processo vitale biologico, e interromperlo. Il corso della vita umana diretto verso la morte condurrebbe inevitabilmente ogni essere umano alla rovina e alla distruzione se non fosse per la facoltà di interromperlo e di iniziare qualcosa di nuovo, una facoltà che è inerente all’azione, e ci ricorda in permanenza che gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare. (HC,246;182)

L’immagine dell’inizio è data dal rapporto tra il cerchio e la retta. Più esattamente, dalla retta, o dal cuneo, che taglia il cerchio interrompendone la figura ed evitando che ricada perpetuamente su se stesso. L’inizio è quindi, prima di ogni altra cosa, interruzione e taglio, opposizione stridente di due figure e due movimenti che sembrano inconciliabili.

La potenza salvifica che si manifesta nell’azione di iniziare - la Arendt ripete spesso il detto platonico secondo cui «l’inizio […] può assicurare la salvezza del tutto24» - sottrae l’umanità al destino di inesorabile annullamento che il principio entropico le riserverebbe, ma la salvezza avviene attraverso una lacerazione, un atto distruttivo e violento che introduce aspetti di pericolosa duplicità in ogni atto di cominciamento. La

24 Leggi, 775 e.

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figura propone già qui, alle soglie di Vita activa, il problema che la Arendt tormentosamente prolungherà fino alle sue ultime pagine: come può darsi un inizio senza violenza? come può l’inizio redimere senza lacerare e senza perdersi? come possono convivere senza annullarsi e senza assorbirsi nell’una o nell’altra la distruzione e la salvazione?

La figura dell’inizio – a leggere più analiticamente i passi già citati – condensa l’intera architettura dell’opera. Infatti, essa esemplifica due passaggi, o due cesure, fondamentali. La prima, appena evidenziata, è quella che separa e oppone il cosmologico e l’antropologico. La vita, in quanto semplice modo di esistenza del vivente umano, è già un’interruzione introdotta nell’universale movimento ciclico che procede ciecamente verso l’inerzia entropica. Vi sono qui evidenti motivi per rimproverare alla Arendt una direzione umanista, ovvero un privilegiamento dell’umano che tende a trasformarne in valore l’esistenza fattuale, ma non è questo il piano di discorso che ora ci interessa sviluppare25.

Una seconda discontinuità, e secondo il medesimo modello del cerchio e della retta, si produce nell’ambito antropologico. È la frattura che divide il politico, inteso come cominciamento prodotto dall'azione, dalla ciclicità del corpo, dei bisogni e del lavoro. L'opaco movimento circolare abita anche la condizione umana, e pervade interamente ciò che parrebbe invece rappresentare quanto di più proprio – come il corpo e i suoi bisogni – contraddistingue ogni singolo essere umano. La seconda forma d’inizio, l’agire, si presenta come interruzione dei processi circolari specificamente umani. Infatti, l’azione acquista senso, differenziandosi dalla nascita e ponendosi come essenza del politico, solo sullo sfondo dell’antipolitico.

2.2 L’antipolitico È ben nota la tripartizione fondamentale della vita activa che H. Arendt

pone e sviluppa in The human condition. L’azione, l’opera e il lavoro vi

25 «La direzione presa qui dal pensiero di Arendt – osserva Lyotard – è

esplicitamente umanista […] E la mia riserva verte evidentemente su questo assenso non critico che viene data al concetto di una umanità degli uomini definita come vocazione a innovare» (J.-F. LYOTARD, Sopravvissuto, in AA.VV, Hannah Arendt, op. cit., p.75.

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rappresentano le attività fondamentali attraverso le quali gli uomini, e non l’Uomo, possono abitare in modo duraturo la terra e mantenersi in vita.

Ora, il lavoro, e l‘animal laborans che ne è la figura antropologica derivata, vengono immediatamente sottratti a ogni definizione produttivistica. «La produttività della forza-lavoro - afferma l’autrice - produce oggetti solo incidentalmente e in primo luogo si occupa dei mezzi della propria riproduzione; [...] non “produce” mai altro che che vita» (HC,88;63, corsivi miei). La produzione, dunque, non spiega il lavoro. Per quanto socialmente pervasiva, essa è un elemento accessorio, una conseguenza secondaria e non un fine primario. Il lavoro, attraverso gli oggetti, non fa che produrre e riprodurre la vita; e sappiamo già quale processo venga denominato vita:

Ciclico è anche il movimento dell’organismo vivente, non escluso il corpo umano, per il tempo in cui può resistere al processo che ovunque impedisce alle cose di durare, le logora, le fa scomparire, finché la materia morta, risultato di limitati processi vitali singolari e ciclici, ritorna nel gigantesco circolo universale della natura stessa, dove non esiste inizio né fine e dove tutte le cose naturali si svolgono in un’immutabile, immortale ripetizione. (HC,96;69)

Dietro lo schermo della produzione di oggetti riappare, in tutta la sua disperata ineluttabilità, il processo entropico che domina l’universo. Questa volta, però, il processo presenta uno specifico concatenamento, cioè un punto d’aggancio che gli permette di ricomparire in un ambito specificamente umano. Il corpo è la struttura vivente che riproduce e particolarizza la malinconia ontologica del «gigantesco circolo universale». Il problema del lavoro è dunque il problema del corpo.

L’attività lavorativa corrisponde allo sviluppo biologico del corpo umano, il cui accrescimento spontaneo, metabolismo e decadimento finale sono legati alle necessità prodotte e alimentate nel processo vitale dalla stessa attività lavorativa. La condizione umana di quest’ultima è la vita stessa. (HC,7;7)

Tutto è inscritto nel registro di un movimento cieco e meccanico. Il corpo si accresce, vive e decade spontaneamente, per la necessità indotta da un processo biologico. L’attività lavorativa è così presa in un circolo vizioso senza fine: in rapporto al corpo essa soddisfa dei bisogni, ma ugualmente ne produce, in modo che il ciclo debba sempre avvolgersi su se stesso e non trovare via d’uscita. Il corpo è, di conseguenza, ciò che incatena gli uomini al circolo sempiterno della necessità. Si è «soggetti alla necessità per il fatto di avere un corpo». (HC,73;53)

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Nulla può essere più lontano dalla sfera politica. Le forze corporee non possono che eseguire il loro movimento obbligato nella «rigida e anche crudele dimensione dell’esperienza privata dei processi corporei in cui la vita manifesta se stessa» (HC,117; 83). La connotazione negativa che sempre accompagna in H. Arendt il termine “privato”26 raggiunge qui il massimo grado di intensità. L’esperienza dei processi corporei priva non di qualcosa in particolare, ma causa una separazione completa dalla realtà.

Nulla infatti è meno comune e meno comunicabile, e quindi più sicuramente protetto dalla visibilità e dalla udibilità della sfera pubblica, di ciò che avviene nell’ambito dell’attività corporea: i suoi piaceri e le sue sofferenze, il suo lavorio e il suo consumo. Nulla, allo stesso modo, allontana più radicalmente dal mondo di una concentrazione esclusiva sulla vita del corpo (HC,112;81).

Corpo, vita, lavoro, ciclo, non sono, in questa luce, che sinonimi della esperienza di ripiegamento sul sé corporeo che estranea dal mondo e si pone come antitesi del politico. La tripartizione della vita activa viene allora riformulata nei termini di politico, impolitico e antipolitico. Al politico, che può trovare espressione solo nell’agire, si affianca l’impolitico dell’operare, vale a dire un’attività che, essendo orientata alla produzione di cose durevoli, è proprio per questo almeno capace di uscire da se stessa. Lo scambio economico che consegue alla produzione è certamente una figura degradata della sfera pubblica che contraddistingue il politico, ma testimonia comunque un avvenuto oltrepassamento. La circolazione di merci è un processo che si trova già al di là del ciclo chiuso del metabolismo corporeo. «L’homo faber è pienamente in grado di avere una sua sfera pubblica, anche se non sarà politica, propriamente parlando. La sua sfera pubblica è il mercato di scambio, dove può mostrare i prodotti delle sue mani e ricevere la considerazione che gli è dovuta» (HC,160;115). Antipolitico, e senza nessuna possibilità di mediazione, è invece il corpo.

L’attività dell’operare, per la quale è necessario requisito l’isolamento dagli altri, anche se può non riuscire a stabilire una sfera pubblica autonoma in cui gli uomini appaiono in quanto uomini, è tuttavia connessa in molti modi con questo spazio dell’apparire; per lo meno rimane legata al mondo tangibile delle cose che produce. L’operare, quindi, è forse un modo impolitico di vita, ma certamente non antipolitico. Questo è invece proprio il

26 Gli individui privati sono tali perché «sono stati privati della facoltà di vedere e

di udire gli altri, dell’essere visti e dell’essere uditi da loro. Sono tutti imprigionati nella soggettività della loro singola esperienza, che non cessa di essere singolare anche se la stessa esperienza viene moltiplicata innumerevoli volte» (HC,58;43).

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caso del lavoro, un’attività in cui l’uomo non è presente al mondo, né con altre persone, ma è solo col proprio corpo, occupato a far fronte alla nuda necessità di rimanere in vita (HC,212;156).

Una catena perversa di conseguenze si genera e conduce dall’antipoliticità del corpo alla produzione di violenza. I bisogni vitali, il cui soddisfacimento non può essere evitato né differito, spingono infatti gli uomini verso quella forma di comunità chiusa che è l’ambiente domestico. La casa ha una mera funzione di sopravvivenza; il legame che domina al suo interno è la costrizione a unirsi per poter meglio provvedere al sostentamento primario. «Il tratto distintivo della sfera domestica era che in essa gli uomini vivevano insieme perché spinti dai loro bisogni e dalle loro necessità. La forza che li spingeva era la vita stessa - i penati, gli dei della casa, erano, secondo Plutarco, “gli dei che ci fanno vivere e nutrono il nostro corpo” - che, per la sua conservazione individuale e la sua sopravvivenza come vita della specie, ha bisogno della compagnia di altri» (HC,30;22-3).

Una comunità ristretta, nata sotto la cattiva stella della necessità che ne domina tutti gli aspetti e conduce, per suo sviluppo interno, a produrre comando, gerarchia e violenza. Il rapporto familiare, e i rapporti servili che lo affiancano e lo completano, sono tutti ricalcati sullo schema del comando e dell’esecuzione. Vivere insieme in quest’ambito presenta le uniche alternative del comandare o dell’obbedire. Ciò che è del tutto assente è proprio la condizione politica per cui «essere liberi significava sia non essere soggetti alla necessità della vita o al comando di un altro sia non essere in una situazione di comando. Significava non governare né essere governati»(HC,32;24) «Ciò che tutti i filosofi greci, anche se contrari alla vita della polis, tenevano per certo è che la libertà risiede esclusivamente nella sfera politica, mentre la necessità è soprattutto un fenomeno pre-politico, caratteristico dell’organizzazione domestica privata, e che la forza e la violenza sono giustificate in questa sfera perché sono i soli mezzi per aver ragione della necessità»(HC,31;23).

Nella prospettiva arendtiana, il corpo è l’assoluto antipolitico proprio

perché la sua natura impedisce di porre qualsiasi problema del cominciamento. «Il lavoro, assorbito nel movimento ciclico del processo vitale del corpo, non ha né un inizio né una fine» (HC,144;102). La fabbricazione è racchiusa «tra un inizio definito e una fine definita e prevedibile» (HC,143;102), l’azione comincia senza mai conoscere un termine delle sue ripercussioni, solo il corpo è del tutto estraneo a ogni possibilità d’inizio.

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Vita activa cerca di affermare che «la politica non è mai subordinata (for the sake of) alla vita» (HC,37;27). È in vista di questo scopo che la Arendt “scarnifica” il politico, ossia lo separa nella maniera più netta dalle forze, dalle passioni, dai desideri, dai piaceri, da tutto ciò che può conservare una parentela con un paradigma vitale senza residui assimilato con l’antipolitico. Tra corpo e politico può esservi rapporto – lo vedremo più avanti – solo nella forma del body politic, laddove il corpo è solo un’immagine che serve a raffigurare l’unitarietà dell’ordine politico.

Una volta compiuta questa purificazione, che la Arendt ritiene una radicalizzazione, torna ad imporsi la figura del cerchio e della retta. Se il corpo è antipolitico perché mosso unicamente dalla ripetizione ciclica, ossia da un movimento privo di inizio e fine riconoscibili, il politico potrà darsi solo come retta che taglia la circolarità e introduce per questo il cominciamento nel mondo. Ecco affermata l’identificazione tra l’inizio e il politico: «poiché l’azione è l’attività politica per eccellenza, la natalità e non la mortalità può essere la categoria centrale del pensiero politico» (HC,9;8).

Il ricorrere della nozione di natalità non tragga in inganno, facendo presupporre una continuità inesistente. Il problema è qui completamente spostato verso un territorio differente. Non siamo più nel pre-politico, nella nascita/natalità che, in mezzo al terrore totalitario, deve limitarsi ad affermare una presenza, un “c’è” irriducibile al dominio. Il discorso della Arendt si muove ora all’altezza dell’initium che può interamente dispiegare la sua potenza di innovazione perché introdotto da un agente libero in un mondo plurale.

2.3 «Many beginnings but no end»

Con la parola e con l’agire ci inseriamo nel mondo umano, e questo inserimento è come una seconda nascita, in cui confermiamo e ci sobbarchiamo (take upon ourselves) la nuda realtà della nostra apparenza fisica originaria. Questo inserimento non ci viene imposto dalla necessità, come il lavoro, e non ci è suggerito dall’utilità, come l’operare. (HC,176-7;128)

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Parola e azione inseriscono non semplicemente nel mondo, ma nel mondo umano, vale a dire nell’orizzonte propriamente politico dell’esistenza.

Il suo impulso [all’inserimento nel mondo umano] scaturisce da quel cominciamento che corrisponde alla nostra nascita, e a cui reagiamo (we respond) iniziando qualcosa di nuovo di nostra iniziativa. (HC,177;128)

L’azione non è un semplice prolungamento della nascita, ma qualcosa di diverso rispetto ad essa. Agire significa rispondere alla nascita. Il verbo to respond, oltre a indicare la risposta reattiva a uno stimolo, ha un’accezione giuridica che indica la responsabilità legale di un soggetto. Nel testo arendtiano questi due significati sono fusi, in modo che si risponde pienamente alla nascita solo prendendo su di sé la responsabilità dell’essere nati e agendo in modo conseguente. Non si tratta perciò di reiterare l’inizio già dato della nascita, ma di raccogliere la sfida, iniziando a nostra volta la novità di cui siamo personalmente capaci: «Il miracolo della libertà è insito in questo saper cominciare» (P,34;26, corsivo mio). La «seconda nascita» è un altro inizio.

Gli uomini nascono una seconda volta e si inseriscono in un mondo umano rendendo udibile e visibile agli altri la propria identità. «Agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono, rivelano attivamente l’unicità della loro identità personale, e fanno così la loro apparizione nel mondo umano» (HC,179;130). Mentre la nascita imponeva al mondo una presenza, un “c’è”, ma non ancora una identità, l’azione e il discorso rivelano un “chi”, la singolarità di colui che agisce o parla. È questa rivelazione a costituire uno dei sensi fondamentali dell’agire. Senza far apparire nel mondo un’identità, agire equivale a fabbricare non importa che cosa: «Senza il rivelarsi dell’agente nell’atto, l’azione perde il suo carattere specifico e diventa una forma di realizzazione tra le altre. Allora è un mezzo rivolto a uno scopo proprio come il fare è un mezzo per produrre un oggetto» (HC,180;131).

Ciò che si rivela nell’atto non è l’esistenza fisica di un corpo, un insieme di «meri attributi dell’animale umano come le sensazioni, i desideri e i bisogni» (HC,168;121), ma un “chi”, ossia un agente che appare agli altri come un individuo unico, un essere umano che si è affrancato dal giogo dei processi biologici di esistenza. «Discorso e azione sono le modalità in cui gli esseri umani appaiono gli uni agli altri non come oggetti fisici, ma in quanto uomini. Questo apparire, in quanto è distinto dalla mera esistenza corporea, si fonda sull’iniziativa, un’iniziativa da cui nessun essere umano può astenersi senza perdere la sua umanità» (HC,176;128).

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Ora, l’apparire è possibile solo a condizione che esso avvenga alla presenza di una pluralità di altri uomini. «Data questa sua inerente caratteristica di rivelare l’agente mentre agisce, l’azione ha bisogno per il suo completo manifestarsi della luce splendente che un tempo era chiamata gloria e che è possibile solo nella sfera pubblica» (HC,180;131). Dove vi sono individui isolati non vi può essere azione. Come si è già visto nell’analisi del totalitarismo, l’isolamento e l’atomizzazione rendono impossibile l’azione in quanto tale e la costringono ad assumere una diversa forma per farsi avanti in qualche modo. Questo rapporto necessario tra azione e sfera pubblica viene ora ripreso in Vita activa: «L’azione, diversamente dalla fabbricazione, non è mai possibile nell’isolamento; essere isolati significa essere privati della facoltà di agire. Azione e discorso necessitano della presenza degli altri […] sono circondati dall’intreccio e dalle parole di altre persone con cui sono in costante contatto» (HC,188;137).

La diversa trama di relazioni che circonda il tema dell’inizio inteso come azione e lo differenzia dalla nascita/natalità è a questo punto ben nitida. All’esserci fisico del nascere si sostituisce un’identità liberatasi completamente dal biologico; al mondo spazio-temporale subentra la sfera pubblica del mondo umano; la coppia parentale è moltiplicata nella pluralità; compare, infine, il discorso come modalità fondamentale del rivelarsi dell’identità.

Infatti, a seguire fedelmente le pagine arendtiane, la rivelazione avviene tramite il discorso, e in nessun altro modo. Le parole rendono manifesta l’azione e, di conseguenza, rivelano l’attore che l’ha iniziata. Sarebbe comunque possibile percepire l’azione come puro gesto, cioè come atto o movimento che dà luogo a una serie di stati di cose, ma una simile percezione corre il rischio di far apparire il gesto non un’azione, ma un’esecuzione relativamente spersonalizzata, priva di un attore definito27. La Arendt stabilisce per questo gradi di affinità tra discorso e rivelazione da un lato e tra inizio e azione dall’altro.

27 «… senza essere accompagnata dal discorso, non solo l’azione perderebbe il suo

carattere di rivelazione, ma anche il suo soggetto; non uomini che agiscono, ma robot che eseguono realizzerebbero ciò che, umanamente parlando, rimarrebbe in comprensibile. L’azione senza discorso non sarebbe più azione perché non avrebbe più un attore, e l’attore, colui che compie gli atti, è possibile solo se nello stesso tempo sa pronunciare delle parole. L’azione che egli inizia è rivelata agli altri uomini dalla parola, e anche se il suo gesto può essere percepito nella sua nuda apparenza fisica senza accompagnamento verbale, acquista rilievo solo l’espressione verbale mediante la quale egli identifica se stesso come attore, annunciando ciò che fa, ha fatto o che intende fare» (HC,178-9;129-30)

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Il rivelarsi del proprio essere è implicito sia nelle parole sia nelle azioni; tuttavia è evidente che l’affinità fra discorso e rivelazione è molto più stretta di quella tra azione e rivelazione, proprio come l’affinità tra azione e cominciamento è molto più stretta di quella fra discorso e cominciamento. (HC,178;129)

Per affinità elettiva, dunque, il discorso rivela un “chi”? Ma a chi lo rivela? A se stesso? Agli altri? Agli altri molto più che a se stesso:

… è più che probabile che il “chi”, che appare in modo così chiaro e inconfondibile agli occhi degli altri, rimanga nascosto alla persona stessa, così come il daimōn della religione greca che accompagna ogni uomo per tutta la sua vita, sempre presente dietro le sue spalle e quindi solo visibile a quelli con cui egli ha dei rapporti. (HC,179-80;130-1)

La rivelazione (disclosure) non apre una padronanza, ma mostra, al contrario, una «costitutiva impadroneggiabilità del chi»28. L’identità non è un possesso, un “qualcosa” trattenuto dal suo proprietario, ma una apparenza offerta ed esposta agli altri. Offerta correndo dei rischi, affrontando cioè sia il pericolo del non riconoscimento che quello del misconoscimento. Se, come verrà in chiaro in La vita della mente, «Essere e Apparire coincidono» (LM,19;99) e l’apparire dipende dalla pluralità («Non esiste in questo mondo nulla e nessuno il cui essere stesso non presupponga uno spettatore. In altre parole, nulla di ciò che è, nella misura in cui appare, esiste al singolare: tutto ciò che è è fatto per essere percepito da qualcuno» (LM,19;99), allora l’identità può solo essere esibita, messa a repentaglio nel sottoporla allo sguardo e all’ascolto degli altri. «Ci si svela senza mai conoscersi o essere in grado di calcolare in anticipo chi si rivela» (HC,192;141).

L’identità come rischio è il risultato teorico dell’affinità di discorso e rivelazione. «Sebbene nessuno sappia chi egli riveli quando si esprime con gesti e con parole, tuttavia deve correre il rischio della rivelazione» (HC,180;131).

28 A.. CAVARERO, Tu che mi guardi tu che mi racconti. Filosofia della

narrazione, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 36. A questo studio rimando anche per lo sviluppo di un tema che esula qui dalla mia direzione di lavoro, ma è vitalmente connesso nel testo di Vita activa a quello della rivelazione del “chi”, vale a dire il rapporto dell’identità con la narrazione – e la narrabilità – che ne sono aspetti costitutivi. Un ulteriore, e obbligato, riferimento è naturalmente alle pp. 372-80 di P. RICOEUR, Tempo e racconto III. Il tempo raccontato, Jaca Book, Milano, 1988, dove viene discussa la nozione di identità narrativa.

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Che cosa produce, invece, la seconda affinità tracciata dalla Arendt,

quella tra azione e cominciamento? L’azione, come il discorso lo è per la rivelazione, è l’atto fondamentale che introduce nel mondo l’inizio. « Senza un’azione che possa immettere nel gioco del mondo il cominciamento di cui ogni uomo è capace in virtù della sua nascita, “non c’è nulla di nuovo sotto il sole» (HC,204;150). Il cominciamento è identificato, ancora una volta, con l’interruzione salvifica dei processi cosmologici e di quelli biologici.

È nella natura del cominciamento che qualcosa di nuovo possa iniziare senza che possiamo prevederlo in base ad accadimenti precedenti. Questo carattere di sorpresa iniziale è inerente a ogni cominciamento e a ogni origine. Così l’origine della vita dalla materia inorganica è un’infinita improbabilità dei processi inorganici, proprio come la nascita della terra dal punto di vista dei processi dell’universo, o l’evoluzione della vita umana dalla vita animale. Il nuovo si verifica sempre contro la tendenza prevalente delle leggi statistiche e della loro probabilità, che a tutti gli effetti pratici, quotidiani, corrisponde alla certezza; il nuovo quindi appare sempre alla stregua di un miracolo. Il fatto che l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile (HC,177-8;129).

Ciò che importa sottolineare, anche al di là di questa riaffermazione e variazione a tutti i livelli della figura del cerchio e della retta, è il fatto che il cominciamento viene ora immesso «nel gioco del mondo». “Mondo” significa qui, ancora una volta, pluralità: «l’attore si muove sempre tra gli altri esseri agenti, e in relazione con loro» (HC,190;139). La conseguenza è la pluralizzazione della nozione di inizio. Non ha più alcun senso, una volta determinata la relazione discorso-pluralità-rischio, parlare dell’inizio al singolare. Nel “mondo” possono darsi solo inizi molteplici, moltiplicazione continua di inizi:

… l’azione […] agisce in un medium in cui ogni azione diventa una reazione a catena e dove ogni processo è causa di nuovi processi. Poiché l’azione riguarda esseri capaci a loro volta di agire, la reazione, oltre che una risposta, è sempre una nuova azione che inizia qualcosa di proprio, e influisce autonomamente sugli altri (HC,190;139).

L’azione non si svolge tra due partners. Non funziona secondo lo schema elementare dello stimolo-risposta ma, al contrario, percorre una rete diffusiva di incrementi. All’agire non segue una reazione che lo soddisfa e lo esaurisce, ma una nuova azione che riapre il processo e lo

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conduce in direzioni lontane dall’impulso originario. La Arendt va ancora oltre una concezione estensiva della pluralità, e giunge a pensare la molteplicità non come una grandezza numerica, ma come una qualità ontologica dell’agire, presente anche nel più piccolo numero o nell’unità. L’interazione illimitata non è affatto «il risultato dell’illimitata moltitudine delle persone implicate – a cui si potrebbe sfuggire limitandosi ad agire in un ambito limitato e controllabile di circostanze; anche il più piccolo atto nelle circostanze più limitate ha in sé il germe della stessa illimitatezza, perché un solo atto, e qualche volta una sola parola, basta a mutare ogni costellazione di atti e di parole» (HC,190;139).

La concezione dell’inizio come molteplicità è il primo, e maggiore risultato, dell’affinità tra azione e inizio. Negato, attraverso una laicizzazione delle concezioni agostiniane, l’Inizio, la Arendt respinge ora anche la possibilità di un inizio. Si potrà parlare solo di una costellazione di inizi, dell’inizio come costellazione: «many beginnings».

Il molteplice dell’inizio comporta due ulteriori conseguenze di grande importanza. La prima consiste nella impossibilità di una derivazione lineare della fine dal cominciamento. «Many beginnings but no end»29. Nell’inizio non è contenuta nessuna direzione temporale che orienti il futuro secondo l’impronta del passato. «Dell’inizio, la via per prevale, e quasi l’assorbe, sulla via da. L’arrivo sulla partenza, il percorso sulla radice, il divenire sull’essere»30. La seconda riguarda il ritmo di espansione della molteplicità. Nemmeno questo è inscritto nella struttura degli inizi, né risulta padroneggiabile dalla scienza degli iniziatori. L’imprevedibilità dell’azione riguarda sia la sua direzione che il suo andamento temporale. Ne risulta una temporalità irreversibile e a più velocità, un tempo di fratture, interruzioni e creazioni

Queste caratteristiche dell’azione delineano uno dei movimenti più espansivi e creativi del pensiero arendtiano. Affermare l’azione per se stessa richiede infatti in primo luogo un complessivo rovesciamento della tradizionale gerarchia che subordina l’azione al pensiero. Liberato dalla sua posizione di dipendenza, l’agire cessa di apparire come un grado inferiore del contemplare o come l’applicazione di un sapere teorico che gli preesiste e lo guida31. In secondo luogo, l’affinità tra azione e inizio permette

29 H. ARENDT, Unterstanding and politics, in Essays in Unterstanding, Hartcourt

Brace & Co., New York, 1994, p. 320. 30 R. ESPOSITO, Politica e tradizione. Ad Hannah Arendt, in “Il Centauro”, n.13,

1985, p. 115. 31 Cfr., su questo, A. ENEGRÉN, Il pensiero politico di Hannah Arendt, Edizioni

Lavoro, Roma, 1987, p.37 e sgg.

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all’agire di svilupparsi secondo un movimento inesauribile di costituzione del novum e di moltiplicazione delle prospettive.

In maniera generale, si può dire che la sovversione di una gerarchia consolidata ha per effetto una positiva indeterminazione degli elementi che la componevano. Spezzata la subordinazione al theorein, l’azione può esprimere libertà, autonoma capacità di cominciamento; interrotto il legame tra inizio ed esito, la sorpresa dell’inatteso si riverbera e si moltiplica nella pluralità degli inizi; cancellata la continuità, il tempo si arricchisce di ritmi imprevedibili e di eventi extra-ordinari.

L’inizio sembra davvero essere una potenza infinitamente e felicemente espansiva.

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CAPITOLO TERZO

POLIS E URBS

3.1 Le rovine di Ilio

La concezione dell’agire elaborata in Vita activa, nonostante l’enfasi sul nuovo inizio contenuta al suo interno, è spesso apparsa come la proposta o il vagheggiamento di un ritorno. Il modello dell’azione, ricavato da un’idealizzazione della polis, è parso costituire la soluzione che H. Arendt si sforza di opporre al conformismo delle società di massa, che hanno smarrito ogni senso dell’agire e dell’individualità per sostituirlo con comportamenti gregari.

Questo modello riproposto pare inoltre colorarsi di venature aristocratiche. Poiché l’agire è distaccato da ogni rapporto mezzo-fine, esso appartiene al novero delle attività che sono ateleis, per nulla orientate a a conseguire uno scopo (Cfr. HC,206;152). Inoltre, l’agire, rigidamente separato dall’operare e dal lavoro, non può riflettere, senza per ciò stesso immediatamente degradarsi, alcun contenuto economico o sociale. Ciò che è in gioco è unicamente un rapporto agonale con i propri pari, ugualmente spinti da un desiderio di grandezza e di eccellenza. Si potrebbe forse qui istituire un parallelo esplicativo con quella categoria di giochi che Caillois definisce appunto agon. Si tratta di giochi che avvengono tra eguali, all’interno di uno spazio esattamente definito e hanno come obiettivo l’attribuzione di un merito. «L’agon – scrive Caillois – si presenta come la forma pura del merito personale e serve a manifestarlo»32. Un atto compiuto entro tali condizioni, e che ha come unico fine se stesso, diventa

32 R. CAILLOIS, I giochi e gli uomini, Bompiani, Milano, 19952, p. 31.

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virtuosismo dell’esecuzione e finisce per estetizzarsi. La molteplicità inerente all’azione è allora solo apparente, o almeno estremamente ristretta. Non la proliferazione degli inizi, ma un chiuso gioco da iniziati.

Utopia della polis, quindi, e per di più utopia regressiva, che mette capo all’autoselezione di un governo degli aristoi33.

Il fatto è che il riferimento di H. Arendt al mondo greco si presenta in forme più complesse di una semplice idealizzazione riattualizzante. In Vita activa, accanto a molte pagine di indubbia enfasi ellenizzante, compare un avvertimento decisivo: il popolo dotato di autentico genio politico non è quello greco, ma quello romano. «Anche se è vero che Platone e Aristotele elevarono il legiferare e la fondazione di città al più alto rango della vita politica, ciò non significa che estendessero le fondamentali esperienze greche dell’azione e della politica fino a comprendere ciò che più tardi si rivelerà come il genio politico di Roma: la legislazione e la fondazione di città» (HC,195;142-3).

P. Ricoeur sostiene, a tale proposito, che H. Arendt appoggia tutto il suo percorso teorico sul riconoscimento di un «fallimento filosofico dei Greci»34 . I filosofi, infatti, hanno : 1) riformulato «la teoria delle Idee nel vocabolario della tirannia: sotto l’egida del filosofo-re le Idee diventano misure, con tutte le implicazioni di condanna e di repressione che ne conseguono»; 2) trasferito «nella sfera politica dei modelli di dominazione presi a prestito dalla sfera privata: il pastore, il pilota, il medico, il capofamiglia»; 3) utilizzato a scopi politici la paura dell’al di là, mettendo in circolazione «miti con funzione dissuasiva, essenzialmente il mito di un inferno riservato alla punizione dei malvagi »35.

Nulla, dunque, di più fuorviante che attribuire alla Arendt letture idealizzanti e nostalgiche della grecità. Al contrario, il suo riconoscimento di un fallimento greco mi sembra ancora più esteso della misura che Ricoeur le attribuisce. Lo scacco filosofico è il versante teorico di una incapacità ancora più profonda. Il mondo greco non è per nulla armonioso e compiuto, ma è invece tormentato da scissioni che non riuscirà mai a congiungere. Il fallimento filosofico – lo vedremo tra breve – si duplica in un fallimento politico.

33 Si vedano, sul complesso di questi temi, P.P. PORTINARO, Hannah Arendt e

l’utopia della polis, in “Comunità”, XXXV, 1981 e La politica come cominciamento e la fine della politica, in AA.VV, La pluralità irrappresentabile, QuattroVenti, Urbino, 1987.

34 P.RICOEUR, Pouvoir et violence, in AA.VV, Ontologie et politique, Éd. Tierce, Paris, 1989, p.155.

35 Ivi, pp. 154-5.

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Nel seguire la concezione dell’agire che Vita activa espone è venuto

finora in risalto soprattutto il versante luminoso dell’inizio, la sua capacità di innovare e propagarsi liberamente. Ma neppure la presenza del dio del cominciamento, apparentemente in grado di salvare ogni cosa finché dura il suo soggiorno sulla terra, può cancellare la figura dominante del cerchio e della retta e la duplicità di significati che essa introduce nella problematica dell’inizio. Come quasi sempre accade in H. Arendt, la massima espansività di un concetto coincide con il suo punto di inflessione e di ripiegamento. Dopo essersi spinta con decisione in avanti, la riflessione sui caratteri che formano la natura dell’inizio prende a guardarsi indietro, e valuta i pericoli e i timori connessi a una posizione così avanzata36. Vediamo come questo contromovimento si determini all’interno della concezione dell’agire.

L’inizio è novità radicale che si costituisce, molteplicità che imprevedibilmente si intensifica, discontinuità che avviene. Questi tre caratteri, nell’insieme dei loro effetti, tracciano un campo di differenze. La scena dell’inizio ha l’unità di un territorio di contesa, dove i discorsi e le azioni di ogni “chi” non possono creare innovazione senza affrontare l’energia che proviene da altri discorsi e altre azioni. «L’attore […] non è meramente “uno che fa” ma sempre e nello stesso tempo “uno che subisce” (a sufferer)» (HC,190;139). L’affermarsi di un inizio decide l’impossibilità di altri, così come la propagazione delle azioni comporta la cessazione o la modificazione, secondo nuove linee, di serie già esistenti. Di conseguenza, l’inizio è un evento patico e temibile, davanti al quale si devono erigere difese. L’altra faccia del «saper cominciare» è il sapersi difendere dagli inizi, ed è questo lo scopo delle leggi negli stati di diritto: «Le leggi positive negli stati di diritto sono intese a erigere limiti e a istituire strumenti di comunicazione tra gli uomini, la cui convivenza è continuamente messa in pericolo dai nuovi uomini che nascono» (OT,465;637).

La stessa diffusività dell’inizio, quella che la Arendt definisce interazione illimitata o boundlessness, può rivelarsi uno spaventoso processo di amplificazione e alterazione dell’impulso originale, che travolge ogni limite nella sua proliferazione accelerata e incontrollabile.

36 Su questo meccanismo di pensiero si veda È. TASSIN, L’azione “contro” il

mondo. Il senso dell’acosmismo, in AA.VV, Hannah Arendt, Edizioni Bruno Mondadori, Milano, 1999, che individua nella Arendt la presenza di un «paradosso costitutivo dell’agire: l’azione attraverso cui soltanto si istituisce un mondo comune tra gli uomini è anche ciò che minaccia di distruggerlo» (p.136).

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The boundlessness of action is only the other side of its tremendous capacity for establishing relationship, that is, its specific productivity; this is why the old virtue of moderation, of keeping within bounds, is indeed one of political virtues par excellence, just as the political temptation par excellence is indeed hubris (HC, 91)37.

Ma in quali circostanze l’inizio è trasportato al di là dei suoi confini dalla hybris che se ne impadronisce? Quando la sua energia di fondazione del nuovo si impone come violenza.

La definizione che H. Arendt fornisce della violenza - e che consiste,

nell’essenziale, nell’assimilazione a un particolare tipo di forza – si avvale di uno sfondo contrastivo. Violenza è, innanzitutto, assoluta antitesi del potere. Cerchiamo di seguire questo processo definitorio incrociato. Il potere si realizza laddove l’unicità e la pluralità degli uomini sussistono entrambe in un ambito comune. «Il solo fattore materiale indispensabile alla generazione di potere è il vivere insieme delle persone» (HC,201;147), e pertanto «il potere scaturisce tra gli uomini quando agiscono assieme, e svanisce non appena si disperdono» (HC,200;147). Si profila, a partire da questa comunità, una concezione comunicativa e armoniosa del potere.

Il potere è realizzato solo dove parole e azioni si sostengono a vicenda, dove le parole non sono vuote e i gesti non sono brutali, dove le parole non sono usate per nascondere le intenzioni ma per rivelare realtà, e i gesti non sono usati per violare e distruggere, ma per stabilire relazioni e creare nuove realtà (HC,200;146).

Il potere è, sintetizzando le definizioni appena viste, la capacità di agire

all’interno di una molteplicità senza che le azioni provochino conflitti e lacerazioni che conducano alla fine del gruppo. «Potere corrisponde alla capacità umana di non solo di agire, ma di agire di concerto. Il potere non è mai proprietà di un individuo; appartiene a un gruppo e continua a esistere soltanto finché il gruppo rimane unito» (OV,44;196).

Questo potere relazionale e rivelativo trova una prima antitesi nella forza. Per forza si deve intendere «la qualità naturale di un individuo isolatamente preso» (HC, 200;147). Ma di quale qualità naturale si tratta?

37 Preferisco citare dall’edizione inglese perché la traduzione italiana rende

“tremendous” con “straordinario” (cfr. p.140), falsando completamente il senso del passo.

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La Arendt lo spiega ancora una volta per contrasto: «il potere, come l’azione, non è soggetto a limiti, non ha alcuna limitazione fisica nella natura umana, nell’esistenza corporea dell’uomo, diversamente dalla forza» (HC,201;148). Questa formulazione identifica e separa rigidamente due piani: da un lato la boundlessness dell’azione è avvicinata a quella del potere; dall’altro, e questa mi pare la cosa più importante nel movimento della definizione, dispone su un unico piano di corrispondenza natura umana, corpo e forza. La forza è allora l’energia che non si crea nel rapporto con gli altri, ma proviene dal corpo di ogni singolo individuo. Non avendo legami essenziali se non con la natura dell’organismo, la forza è una potenza conflittuale nei limiti della capacità corporea di affermarsi su altri corpi.

La violenza è una variazione, o una complicazione della forza. Come quest’ultima, è «un fenomeno del singolo o di pochi» (P,73;57), e comunque di una parte opposta ad altre, si muove in vista di un fine specifico e cerca di conseguirlo attraverso la coercizione, mette in opera «strumenti […] creati e usati allo scopo di moltiplicare la forza naturale» (Cfr. OV 44-7;196-7).

La violenza è la forma fondamentale del “cattivo inizio”, cioè di quel cominciamento che invece di trascendere le forze corporee elevandosi al di sopra dei loro processi, si appoggia completamente su di esse e si lascia trascinare dal loro movimento dispotico e aggressivo. Ricompare il tema che innerva sotterraneamente l’intera concezione arendtiana del politico: il “corpo antipolitico”, l’oscuro centro - una sorta di buco nero del politico – che esercita su tutto ciò che gli si avvicina troppo un’attrazione distruttiva. «La violenza può distruggere il potere; è assolutamente incapace di crearlo» (OV 56;205). Nessun rapporto è di conseguenza possibile tra i termini di questa assoluta antitesi. «Il potere e la violenza sono opposti; dove l’una governa in modo assoluto, l’altro è assente» (OV 204-5;56); «… la violenza non può essere derivata dal suo opposto, che è il potere» (OV 56;205).

Una parte opposta a un’altra, corpi che confliggono, strumenti che

accrescono la forza. Sembra la descrizione di una guerra. E in effetti non si tratta di nulla di diverso: è la guerra di Troia. La storia della civiltà occidentale si apre sulla scena di una guerra, di un conflitto totale, talmente estremo da provocare la distruzione di una città e di un popolo.

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Nell’antichità, almeno per quanto riguarda il politico (das Politische) puro, il principale oggetto di quelle immagini esaltanti [delle immagini che celebrano le imprese eroiche ed educano così le generazioni future] era la guerra di Troia, i cui vincitori e vinti erano considerati rispettivamente gli avi dei greci e dei romani. Così questi popoli divennero, come usava dire Mommsen, i «gemelli» dell’antichità, poiché entrambi ponevano la stessa impresa all’inizio della propria esistenza storica. E questa guerra dei Greci contro Troia, conclusa con una distruzione così completa della città che fino in epoca recente si è potuto credere non fosse mai esistita, può considerarsi ancora oggi il primo esempio di guerra totale (Vernichtungskrieg) (P,91;71).

L’inizio dell’esistenza storica, riconosciuto nella guerra, è un’impresa collettiva e violenta. La fondazione di una civiltà non avviene attraverso l’armonia di relazioni consensuali, ma si stabilisce sulle macerie incendiate e in mezzo al fumo della città distrutta rievocati da Enea: «… ceciditque superbum Ilium / et omnis humo fumat Neptunia Troia» (Eneide, III, 2-3).

La constatazione di un inizio che si manifesta come violenza collettiva obbliga a uno spostamento decisivo il pensiero della Arendt; non solo perché introduce nuovi temi di ricerca, ma soprattutto per il fatto che spinge a riformulare le linee lungo le quali si muoveva Vita activa.

Infatti, Vita activa erigeva, contro il lato oscuro e violento dell’energia dell’azione, gli argini del perdono e della promessa. Perdonare e promettere, argomenta la Arendt, sono «rimedi intrinseci all’azione» (HC, 238;176), vale a dire non condizioni necessitanti o esterne che ne spengano la spontaneità, ma potenzialità che già si danno al suo interno (inherent remedies).

Il rimedio (remedy) contro l’irreversibilità e l’imprevedibilità del processo avviato dall’azione non scaturisce da un’altra facoltà superiore, ma è una delle potenzialità dell’azione stessa. La redenzione possibile dall’aporia (predicament)38 dell’irreversibilità – non riuscire a disfare ciò che si è fatto anche se non si sapeva, e non si poteva sapere, che cosa si stesse facendo – è nella facoltà di perdonare. Rimedio all’imprevedibilità, alla caotica incertezza del futuro, è la facoltà di fare e mantenere delle promesse. Le due attività si completano poiché una, il perdonare, serve a distruggere i gesti del passato, i cui “peccati” pendono come la spada di Damocle sul capo di ogni nuova generazione; e l’altra, il vincolarsi con delle promesse, serve a gettare nell’oceano dell’incertezza, quale è il futuro per definizione, isole di sicurezza senza le quali nemmeno la continuità, per non parlare di una durata di qualsiasi genere, sarebbe possibile nelle relazioni tra gli uomini (HC, 236-7;175).

38 La Arendt fonde qui due significati del termine: oltre ad avere un’accezione

filosofica, predicament indica anche una situazione di pericolo e di difficoltà.

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Gli atti del perdonare e del promettere presuppongono entrambi la presenza di altri, «dipendono dalla pluralità, dalla presenza e dall’agire degli altri, dato che nessuno può perdonare se stesso e sentirsi legato da una promessa fatta solo a se stesso; perdonare o promettere nella solitudine e nell’isolamento è atto privo di realtà, nient’altro che una parte recitata davanti a se stessi» (HC, 237;175).

Questa soluzione si rivela ora limitata e parziale. Nonostante l’invocazione della pluralità, il perdono non è in grado di reggere l’urto della nuova forma di inizio perché rimane comunque legato a relazioni individuali. Si tratta sempre di un rapporto personale ed estremamente specifico, riguardante qualcosa e un chi: «Il perdono e la relazione che esso stabilisce sono sempre questioni eminentemente personali (anche se non necessariamente individuali o private) in cui ciò che fu fatto è perdonato a (for the sake of) chi lo ha fatto» (HC, 241;178). Si perdona sempre qualcuno, cioè unicamente in suo nome e per suo amore. Il perdono è impossibile senza «l’esperienza della persona per amore della quale (for the sake of whom) si può perdonare» (HC, 243;179).

La guerra, dunque, rende debole e inadeguato l’appello al perdono, mentre la promessa, pur muovendosi in un contesto plurale, è concepita in forma negativa. La sua essenza è di essere «remedy», contenimento e limite più che vera e propria innovazione. Si comprende bene, a questo punto, la necessità di un salto in un diverso dominio. La strategia arendtiana farà perno – lo vedremo tra poco – su una riformulazione della promessa. Si tratterà cioè di evitare che la guerra distrugga anche la promessa ricercando nella guerra stessa una forma del promettere. La posta in gioco di questa strategia che cerca il rimedio nel male è evidente: impedire che la guerra si impadronisca dell’inizio, che la lacerazione che oppone due parti in conflitto sia l’inizio. Nella guerra di Troia, e nelle circostanze più critiche come la fondazione di città o le rivoluzioni, sembra infatti prodursi una identificazione tra violenza e inizio: «la violenza è stata l’inizio, e nessun inizio ha potuto esistere senza usare violenza» (OR 20;13).

3.2 Anstrengung

La guerra troiana, evento fondatore della storia dell’Occidente, racchiude in sé un duplice paradigma. Per un verso, è la manifestazione prima di una forma di conflitto animata da una distruttività senza limiti, che

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mette in gioco non la vittoria o la sconfitta, ma la «nuda esistenza di un paese o di un popolo» (P,87;68). È una guerra rivolta alla Vernichtung, all’annientamento della stirpe o della nazione nemica. L’identità di un popolo, l’inizio della sua esistenza storica, vengono alla luce e si formano nella cancellazione dell’intero mondo di un altro popolo.

Nelle gesta dei guerrieri achei la Arendt – che scrive queste pagine in anni gravati da minacce di un conflitto nucleare - vede nascere una tendenza destinata a prolungarsi fino alle distruzioni della contemporaneità. La guerra troiana, «primo esempio di guerra totale» (P,91;71), ha trovato nella scienza moderna la forza che le permette di replicarsi. I bombardamenti e le armi atomiche della seconda guerra mondiale ripetono, con una nuova potenza, l’antica guerra e l’incendio della città distrutta.

Quando le prime bombe atomiche caddero su Hiroshima, ponendo bruscamente fine alla seconda guerra mondiale, il mondo fu scosso da un sentimento di orrore […] Il fatto che la guerra potesse di nuovo, come nell’antichità, non soltanto decimare i popoli coinvolti ma trasformare in un deserto il mondo in cui abitavano, era noto a tutti gli esperti dal bombardamento di Coventry e a tutti dai massicci bombardamenti delle città tedesche. La Germania era già una distesa di rovine, la capitale del paese un cumulo di macerie, e la bomba atomica così come ci è nota dalla seconda guerra mondiale, pur rappresentando nella storia della scienza un fatto assolutamente nuovo, non costituiva nell’ambito della guerra moderna, e dunque nella sfera delle faccende umane o meglio interumane di cui tratta la politica, più del punto culminante, raggiunto per così dire con un balzo o con un cortocircuito, verso il quale il corso degli eventi tendeva a un ritmo sempre più frenetico. (P,80-1;63)

Si snoda così, a partire dalla guerra troiana, una filiazione della violenza, che congiunge lungo una stessa linea le città distrutte: Troia, Coventry, Hiroshima.

Tuttavia, si diparte dallo stesso inizio un cammino assai diverso, che dà forma alla seconda faccia del paradigma. Accanto alla linea che procede da Troia fino a Hiroshima, la Arendt dispone una differente filiazione, che non cancella la prima, ma vi si intreccia. Si tratta della linea di eventi che, muovendo ugualmente dalle macerie di Ilio, conduce alla fondazione di Roma e alle rivoluzioni dell’età moderna. Anche qui Troia è un modello, ma di segno opposto. Non rappresenta più la guerra iniziale, ma il primo «sforzo (Anstrengung) di tramutare la guerra di sterminio in una guerra politica» (P,93;72). La variazione è già evidente: partendo dalla città distrutta e incendiata, la Arendt non imbocca più quella via dello sterminio che trova Hiroshima al suo punto d’arrivo, ma legge anche nel conflitto

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inaugurale uno sforzo politico, ovvero la presenza di una dimensione che in qualche modo può sottrarre l’inizio al dominio esclusivo della violenza.

Il primo elemento di questo sforzo di trasformazione consiste nell’imparzialità della narrazione omerica. L’Iliade rende testimonianza ad entrambe le parti in lotta perché canta il vincitore senza tacere il valore dello sconfitto. Poiché racchiude in una stessa scena e pone su uno stesso piano sia Achille che Ettore, l’epica omerica non ha nulla a che vedere con una corriva lode del vincitore: per essa la vittoria non è un valore, ma un fatto (o un fato), e come tale non rende «più giusta la causa dei greci né più ingiusta la difesa di Troia» (P,92;72). L’imparzialità del racconto, proiettando sul vincitore e sul soccombente un medesimo fascio di luce, può rappresentare «la guerra di sterminio vecchia di secoli in un modo che in un certo senso, e cioè nel senso della memoria poetica e storica, annulla lo sterminio» (P,92;72). Omero mette i morti al sicuro dal vincitore, impedendo che la violenza e la distruzione si estendano fino alla memoria. In questo senso, egli compie il «salvataggio poetico e storico-rammemorativo dei vinti» (P,93;72).

L‘intera politicità dello sforzo greco di trasmutazione della violenza riposa sulle caratteristiche della narrazione omerica e sulle sue capacità di propagazione storica. Infatti, dai versi dell’Iliade deriva anche la promozione e la legittimazione di uno stile di vita attivo nella polis. «L’aspetto propriamente omerico della rappresentazione della guerra di Troia si espresse appieno nel modo in cui la polis inserì nella propria organizzazione il concetto di combattimento, quale forma di convivenza umana non soltanto legittima ma in un certo senso superiore» (P,94;73-4). La derivazione istituisce non un modo di comportamento tra molti altri possibili o reali, ma dà origine a quello spirito di competizione tra gli uomini liberi che permette alle città greche di ospitare una fioritura intellettuale prodigiosa.

Quello che è comunemente detto lo spirito agonale dei Greci, e che senza dubbio contribuisce a spiegare (per quanto è possibile spiegare questo genere di cose) perché nei pochi secoli della loro fioritura si trovi in ogni ambito intellettuale una concentrazione di genialità ben più grande e significativa che in qualunque altro luogo, non è affatto solo l‘aspirazione a dimostrarsi sempre e dovunque il migliore, di cui parla anche Omero e che in effetti possedeva per i greci tanta importanza da formularla con un verbo specifico, quell’aristeuein (essere il migliore) che poteva appunto intendersi non solo come una aspirazione ma come una attività in piena regola. Questo gareggiare gli uni con gli altri trovava il suo modello originario nel combattimento tra Ettore e Achille, che a prescindere da vittoria e sconfitta offre a entrambi l’opportunità di mostrarsi così come realmente sono, di

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rivelarsi nella loro reale apparenza e dunque di divenire pienamente reali. (P,94;74)

Il combattimento, già diventato linguaggio, è ora trasformato in uno stile sociale e in una forma dell’apparire39.

Un terzo passaggio caratterizza lo sforzo greco: l’apparire, il mostrare e imporre agli altri la piena realtà della propria presenza, dà luogo al vedere, ossia alla capacità ricettiva di accogliere l’alterità all’interno del proprio orizzonte. L’imparzialità omerica è ancora la matrice della trasformazione. All’interno della polis – argomenta la Arendt – vi è «un incessante dialogare», un confronto tra soggetti che ha come posta in gioco differenti aspetti degli oggetti. Anche questo modo di relazione può esser fatto risalire al poema omerico, poiché non fa che riprendere e amplificare l’uguale dignità e la simultanea presenza del vincitore e dello sconfitto: «L’ambivalenza con cui Omero potè narrare la guerra di Troia nel suo complesso, qui si traduce in una infinità pluralità di oggetti della discussione, i quali, essendo discussi da così tanti in presenza di tanti altri, vengono trascinati alla luce della sfera pubblica, dove sono per così dire costretti a rivelare ogni loro aspetto» (P,96;75). Il dialogo che risuona incessantemente in ogni angolo della città non è la ripetizione attraverso le parole della lotta di Ettore e Achille. Ciò che importa non è rovesciare e distruggere gli argomenti avversi, ma diventare pienamente consapevoli di ciò che significa vedere. «Decisivo non è che si potessero rivoltare gli argomenti e capovolgere le affermazioni, ma che si acquisisse la facoltà di vedere realmente le cose da diversi lati, e cioè, sul piano politico, che si fosse capaci di assumere le tante possibili posizioni, presenti nel mondo reale, da cui la stessa cosa può essere osservata rivelando, a prescindere dalla sua entità, gli aspetti più disparati […] La facoltà di osservare la stessa cosa dai punti di vista più disparati permane nel mondo dell’uomo, ma alla propria posizione determinata naturalmente sostituisce quella degli altri con i quali si condivide lo stesso mondo» (P,96-7;76).

L’acquisizione della facoltà di vedere è la capacità che spinge più lontano lo sforzo greco di annullamento dello sterminio, che ora possiamo valutare in tutta la sua estensione. L’integrazione della guerra nell’orizzonte della politica è ottenuta a prezzo di una triplice traslazione

39 È forse opportuno ricordare ancora una volta il valore ontologico che l’apparire,

coincidendo con l’essere, assume in H. Arendt. Tale coincidenza è, se possibile, ulteriormente rafforzata dal fatto di essere posta in riferimento al campo politico:«In politica più che in qualsiasi altra sede non abbiamo la possibilità di distinguere fra l’essere e l’apparire. Nel campo delle faccende umane effettivamente l’essere e l’apparire sono la stessa cosa» (OR,98;105).

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neutralizzante: un conflitto mortale tra due popoli, e un duello tra due guerrieri che non si è acquietato nemmeno davanti al corpo senza vita dello sconfitto, sono trasformati progressivamente nelle forme, completamente politiche, del narrare, dell’apparire e del vedere. Si può ben dire che la guerra iniziale sia stata urbanizzata e sdrammatizzata. La politica che, attraverso Omero, la Arendt deriva dalla guerra di Troia, può alla fine presentare «l’agonismo senza l’antagonismo, la competizione senza la violenza, l’immortalità senza la morte40».

E tuttavia, l’esperienza politica della polis resta una Anstrengung, uno sforzo difficile, penoso e incompiuto, che non ha nulla delle vittoriose aspirazioni di uno Streben. Per quali ragioni? Essenzialmente perché la polis continua a essere percorsa da una serie di dualità non suturate. La prima è la più brutale e irrimediabile delle contrapposizioni: quella tra i vivi e i morti. «Nello sforzo di tramutare la guerra di sterminio in guerra politica, i greci non sono mai andati oltre quel postumo salvataggio poetico e storico-rammemorativo degli sconfitti e dei vinti, inaugurato da Omero» (P,93;72-3, corsivo mio). La salvezza memoriale del nemico non può cancellare il fatto che la città si edifica su una massa di morti41. È questa massa a tenere inevitabilmente aperti i lembi della lacerazione originaria.

Se i morti ossessionano la città dal passato, nemmeno il presente dei viventi è libero da spaccature. La guerra è esclusa dall’agora, dove gli uomini liberi si incontrano e parlano, ma continua a infuriare nei rapporti con altri stati o altre città-stato. Aver precluso alla guerra lo spazio interno della città comportava «solo che le guerre continuavano a essere combattute secondo il principio che il più forte fa quello che può e il più debole patisce quello che deve» (P,94;73). La Arendt parafrasa qui Tucidide e il discorso degli Ateniesi ai Meli (cfr. Storie,V, 84-116) per mostrare un altro aspetto, forse il maggiore, del fallimento politico dei Greci. Infatti, la polis concepisce l’accordo come una forma della guerra. I patti che essa stringe non mettono fine al conflitto; al contrario, lo continuano con mezzi subdoli e prolungano la guerra fin dentro la pace. «Non era la guerra il proseguimento della politica con altri mezzi, erano

40 R. ESPOSITO, L’origine della politica.Hannah Arendt o Simon Weil?, Donzelli,

Roma, 1997, p. 50. 41 Riprendo qui alcune nozioni di E. Canetti, che vede la guerra essenzialmente nei

termini di un rapporto tra la massa dei vivi e la massa dei morti: «… la massa pericolosa di avversari vivi dovrebbe trasformarsi in un gruppo di morti […] La conduzione della guerra è dunque nei particolari l’esatta immagine di ciò che accade nel complesso: si vuole essere la maggiore massa di vivi. Dalla parte opposta sia dunque il maggior gruppo di morti. In tale gara di masse crescenti sta la ragione essenziale, potremmo dire la più profonda ragione, delle guerre» (E. CANETTI, Massa e potere, in Opere, vol. I, Bompiani, Milano, 1990, pp. 1052-3).

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piuttosto i negoziati e gli accordi che erano sempre intesi solo come un proseguimento della guerra con altri mezzi, con i mezzi dell’astuzia e dell’inganno» (P,93-4;73).

Dualità tra salvezza memoriale e morte reale del nemico, tra greci e barbari, tra polis e altre città-stato, tra accordi dichiarati e malvagità dissimulata. Considerato in questa luce, l’orizzonte greco si rivela tutt’altro che un modello del politico.

3.3 «una rifondazione in terra straniera»

I romani erano il popolo gemello dei greci in quanto facevano risalire l’origine del proprio popolo allo stesso evento, la guerra di Troia; come i greci si consideravano discendenti degli Achei, i romani si consideravano discendenti «non di Romolo ma di Enea», dunque dei troiani. In tal modo essi attribuivano consapevolmente la propria esistenza politica a una sconfitta, cui aveva fatto seguito una rifondazione in terra straniera; ma non la fondazione di qualcosa di totalmente nuovo bensì la rifondazione in nome di qualcosa di antico, la fondazione di una nuova patria e di una nuova casa per i penati, gli dei del focolare della reggia di Troia che Enea aveva tratto in salvo (P,102;80-1).

Un altro luogo e un diverso inizio. La città romana è un inizio che si pone all’interno di una più antica origine, un cominciamento che riprende ciò che già è stato inaugurato e lo fa durare. È il tema romano dell’augmentum, dell’accrescimento che costantemente “innalza” la fondazione.

Non si tratta dunque di un inizio lacerante, improvviso e «totalmente nuovo», ma di una rifondazione. È una variazione essenziale, perché la rifondazione è l’inizio che ripara e ricostruisce, il cominciamento che sana le ferite aperte. Prima di ogni altra, è la dualità tra vivi e morti ad essere cancellata. Omero aveva salvato la memoria dei vinti, ma «ben più inaudito appare che la stessa cosa avvenisse nella realtà» (P,104;82). La salvezza reale, fisica, degli sconfitti, la possibilità di ricostruire una patria e riprendere un’esistenza storica, sono «uno dei fenomeni più notevoli ed emozionanti della storia occidentale. È come se all’ambiguità e imparzialità

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intellettuale e poetica del poema omerico si affiancasse una realtà piena e compiuta» (P,103-4;81).

La «rifondazione in nome di qualcosa di antico» rovescia così l’Iliade: «Se Enea discende da Paride e insieme da Ettore, le fiamme che egli riattizza per una donna non sono per Elena, un’adultera, ma per Lavinia, una sposa, e al pari di Ettore egli affronta l’inesorabile furore e l’ira irrefrenabile di un Achille, Turno […] ma al momento del duello Turno, cioè Achille, si dà alla fuga» (P,103;81).

Ma la portata ricostruttiva della fondazione di Roma si spinge ancora più lontano. Non si limita a capovolgere l’esito della guerra troiana, innalzando alla vittoria gli antichi sconfitti, ma permette di scorgere nella guerra e nell’incendio qualcosa di inatteso e sorprendente: un nuovo esito. «Non si trattava affatto di riattizzare le fiamme con l’unico scopo di capovolgere l’esito, ma di pensare un nuovo esito per un incendio di tali proporzioni» (P,106-7;84). Ma come può un incendio avere un esito diverso dalla distruzione? Come può la guerra sottrarsi alla propria natura? La risposta è proprio nell’esatta percezione di questa natura.

Già il mondo greco, sostiene la Arendt tendendo fino alla massima intensità la sua strategia di neutralizzazione, ha avuto «consapevolezza che anche l’incontro più ostile tra gli uomini fa nascere qualcosa di collettivo, poiché – come ebbe a dire Platone – “qual è l’azione dell’agente, tale è appunto ciò che il paziente patisce”» (P,107;84 – la citazione interna si riferisce a Gorgia,476 d). Se di questo elemento collettivo si matura una chiara percezione, «l’avvenimento in sé non è più un combattimento ma un’altra cosa» (P,107;84).

La guerra, ogni guerra, anche quella che si è conclusa con l’incendio di Troia, è una forma di incontro perché traccia un campo comune di eventi e definisce uno spazio di potenziale reciprocità dell’agire e del patire. Ma è sufficiente questa elementare condivisione a garantire la novità dell’esito? Certamente no. Riguardando l’agire e il subire, la reciprocità è ancora troppo esposta alle forze corporee e alle loro mutevoli dissimmetrie per poter essere politica nel senso arendtiano. Altri elementi devono intervenire a completarla: «l’incontro che avviene nel combattimento può restare un incontro solo se il combattimento si interrompe prima della distruzione del vinto, e ne nasce una nuova forma di concerto» (P,107;84). Pertanto, «in termini politici, il trattato che unisce due popoli crea tra loro un nuovo mondo, o più precisamente garantisce la continuità di un nuovo mondo che ora li accomuna, e che era nato quando si erano incontrati in battaglia, e con l’agire e il patire avevano prodotto una cosa uguale» (P,108-9;85).

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Salvezza fisica del nemico, trattati e alleanze. Ecco gli elementi che permettono ai romani di creare una nuova forma del politico e di riunire i lembi aperti delle dualità greche.

Ciò che accadde quando i discendenti di Troia giunsero in terra italica, non fu né più né meno che la creazione della politica nel punto esatto in cui per i greci aveva termine e fine: nella relazione non tra cittadini di pari grado di una stessa città, ma tra popoli estranei e dissimili che solo il combattimento aveva riunito […] Per i romani lo stesso combattimento divenne l’elemento che consentiva loro di riconoscere se stessi e il partner; perciò alla fine del combattimento non si ritiravano in se stessi e nella loro gloria, tra le mura della loro città, ma avevano acquisito qualcosa di nuovo, una nuova sfera politica garantita per contratto, nella quale i nemici di ieri diventavano gli alleati di domani (P,108;85).

I Greci sono sempre rimasti un popolo rivolto a chiudere lo spazio esistente tracciando confini. La civiltà romana, invece, crea uno spazio nuovo tra popoli diversi. È questo che la fa essere l’autentico inizio – non storico, ma politico – dell’Occidente. La «politicizzazione romana dello spazio tra i popoli segna l’inizio del mondo occidentale, e anzi ha creato il mondo occidentale qua mondo» (P,121;95).

L’essenza della fondazione romana è perfettamente espressa dalle parole che Enea pronuncia prima del duello con Turno: «Sin nostrum adnuerit nobis Victoria Martem/ […]/ non ego nec Teucris Italos parere iubeo/ nec mihi regna peto: paribus se legibus ambae/ invictae gentes aeterna in foedera mittant» (Eneide, XII, 187-91). La vittoria violenta, dovuta al favore di Marte, non dà origine alla dominazione di un popolo su un altro, o di un sovrano su tutti gli altri uomini, ma genera un’unione indissolubile tra uguali. Pronunciate prima del duello, le parole di Enea hanno il valore di una promessa, la promessa di un singolo che si fa patto collettivo. Ma in questo passaggio si è prodotta anche una nuova forma del cominciare, non più interamente riconducibile alle categorie precedenti della nascita e dell’azione. L’inizio è ora foedus, è «qualcosa che unisce» (P,109;86).

Questa esperienza romana della fondazione non è storicamente inerte,

ma continua a risultare decisiva sia sul piano teorico che su quello storico. Nonostante possa sembrare lontana e dimenticata, «nella nostra storia c’è almeno un genere di evento per il quale l’idea di fondazione è decisiva, e la nostra storia registra l’opera di un teorico politico incentrata sul concetto di fondazione, se non dominata da questo. Si tratta, rispettivamente, delle rivoluzioni dell’età moderna e dell’opera di Machiavelli» (BPF,136;185).

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Nessuna delle nostalgie ellenizzanti che si attribuiscono alla Arendt trova qui minimamente luogo: «il grande modello, il grande precedente, nonostante tutta la retorica occasionale sulle glorie di Atene e della Grecia, fu per loro […] la repubblica romana e la grandezza della sua storia» (OR,197;227).

Ora, perché l’esperienza romana può ancora avere un senso, e anzi risultare decisiva, prolungando il suo significato fin dentro la rivoluzione? Perché quest’ultima è un evento nel quale le molteplici forze dell’inizio, della violenza, della fondazione e del patto tornano a intrecciarsi e a confliggere.

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CAPITOLO QUARTO

RIVOLUZIONE

4.1 Desire for freedom

Ciò che costituisce la storia non è la continuità del suo flusso temporale, ma sono le interruzioni, le fratture che instaurano nuove serie e creano configurazioni inedite dell’orizzonte storico. «La natura della storia – dice la Arendt – è in queste interruzioni, in queste fratture: lo straordinario.» (BPF,43;72). Il normale corso dissolutivo delle forme, le leggi entropiche e i processi di consumazione vengono arrestati e capovolti da eventi che hanno il potere di rigenerare l’energia del movimento storico. La costellazione rappresentata dal polemos-polis e dall’urbs-foedus appartiene indubbiamente a questo tipo di accadimenti, ma è la rivoluzione ad essere in questa luce l’evento più potente e radicale, quello che crea il tempo senza far già parte del suo corso. A partire dal XVIII secolo, le rivoluzioni, essendo caratterizzate da un «elemento di assoluta novità» (OR,27;22), «ci pongono direttamente e inevitabilmente di fronte al problema di un nuovo inizio» (OR,21;15).

La dislocazione del problema non potrebbe essere espressa con parole più chiare e in modo più netto. Non esiste nessuna possibilità di comprendere l’inizio al di fuori della rivoluzione, poiché «il cominciamento, prima dell’era della rivoluzione è sempre rimasto avvolto nel mistero» (OR,204;234). E dell’inizio le rivoluzioni, oltre a mostrare la natura autentica, rivelano la totalità degli aspetti. La potenza costitutiva del cominciare, infatti, si presenta minacciata da pericoli involutivi e circondata da equivoci falsificanti.

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Uno dei pericoli maggiori – lo sappiamo – risiede nel nesso tra cominciamento e violenza, apparso storicamente attraverso i duelli e gli scontri della guerra troiana. Questa concatenazione viene ripresa già nelle prime pagine, ma aggravata da un valore negativo supplementare. Non solo l’inizio si radica nella violenza, ma questa, non più esercitata sul nemico, spezza un legame apparentemente inalterabile e colpisce nella forma del fratricidio. Un duplice pericolo, dunque, una doppia, inaccettabile derivazione: l’inizio dalla violenza e la fratellanza dal fratricidio.

L’importanza del problema del cominciamento o genesi del fenomeno della rivoluzione è ovvia. Che tale cominciamento debba essere intimamente connesso con la violenza sembra confermato dalla leggendaria genesi della nostra storia sia nella tradizione biblica che in quella classica: Caino assassina Abele e Romolo assassina Remo; la violenza è stata l’inizio, e nessun inizio ha potuto esistere senza usare violenza, senza una violazione […] Il racconto parla chiaro: qualsiasi fratellanza di cui gli esseri umani siano capaci nasce dal fratricidio, qualsiasi organizzazione politica che gli uomini abbiano costruito ha le sue origini nel delitto (OR,20;13).

Il secondo, grande pericolo che stringe dappresso l’inizio consiste nella sua associazione con la nozione di irresistibilità. Originariamente connessa alla semantica astronomica di revolutio ( nel cui ambito serviva a indicare il carattere cosmologico – e quindi non umano – delle forze che muovono i corpi celesti) l’irresistibilità passa a indicare un movimento politico che sfugge al controllo degli uomini e «diviene legge per se stesso» (OR,48;47). Torrent révolutionnaire, marche de la Revolution, tempête revolutionnaire (cfr. OR,48-9;48-9): la terminologia coniata dai rivoluzionari francesi per rappresentare la forza inarrestabile del movimento degli eventi indica semplicemente, secondo la Arendt, la degradazione della libertà dell’inizio a necessità storica. Non più un’azione umana, ma una forza storica o sociale occupa la scena del cominciamento e se ne impadronisce completamente, lasciando vedere non iniziatori consapevoli ma «uomini trascinati volenti o nolenti dal turbine delle rivoluzioni» (OR,56;57).

A queste due forme del “cattivo inizio” si affiancano due tipi di “falso inizio”, nei quali è in gioco uno scambio più che un fatale pervertimento. L’inizio rivoluzionario, cioè, può essere confuso con i mutamenti politici che costellano la storia e che la tradizione, da Platone a Polibio, ha nominato in vario modo: στάσις, µεταβολαί, mutatio rerum, άνακύκλωσις (cfr. OR,21;15). Gli accadimenti indicati da questi vocaboli, anche se sono improvvisi e violenti, non riescono mai a instaurare qualcosa di interamente

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nuovo: ricadono, con un movimento prevedibile, all’interno del ciclo storico di cui sono semplicemente una fase. E per quanto possa apparire scenograficamente grandiosa, anche la liberazione è un “falso inizio”, un’intenzione vuota e indeterminata.

«È forse ozioso precisare che libertà e liberazione non sono la stessa cosa; che la liberazione può essere una condizione della libertà, ma è assolutamente da escludere che vi conduca automaticamente; che il concetto di libertà implicito nella liberazione può essere solo negativo, e quindi l’intenzione di liberare non si identifica col desiderio di libertà (desire for freedom)» (OR,29;25, corsivo mio).

Uno scambio logico tra fine e inizio sta alla base di questa errata equivalenza, che ritiene l’instaurazione del nuovo già derivabile dall’interrompersi di ciò che lo precede. Al contrario, «freedom is no more the automatic result of liberation than the new beginning is the automatic consequence of the end»42 (OR,205).

Le prime mosse teoriche di Sulla rivoluzione consistono così nel

respingere il “cattivo inizio” e nel confutare il “falso inizio”. Ma con ciò siamo ancora distanti dall’essenziale, ossia dall’individuare «l’aspetto più sfuggente e tuttavia più significativo delle rivoluzioni moderne, ossia lo spirito rivoluzionario» (OR,46;45). Un primo impulso è dato dall’emergere della nozione di “desiderio di libertà”. Il desiderio che muove la rivoluzione ne esprime infatti la tensione a costituire un orizzonte nuovo e libero. Il desiderio non esprime ciò che già è, e tanto meno vi obbedisce, ma si muove verso uno spazio di libertà, non ancora esistente, ma che può essere inaugurato e fondato dall’azione innovativa. Alla violenza e alla necessità dei cattivi inizi, e all’equivoco e alla negatività dei falsi inizi, la Arendt contrappone ora un movimento positivo, una linea virtuosa formata dalla relazione dell’inizio con il desiderio e la libertà.

È uno dei punti più alti, e più radicali, della riformulazione del problema dell’inizio, perché qui la Arendt rifiuta di interpretare l’inizio secondo le spinoziane passioni tristi o la rivalsa del ressentiment, e vi legge invece l’espressione di un desiderio che vuole creare il proprio spazio pubblico. I Padri Fondatori americani, scrive, sono riusciti a «pensare alla passione in termini di desiderio e [a] bandirne ogni connotazione del suo significato originale, che è παθειν, soffrire e

42 Riporto il testo originale perché la tr. it., che recita semplicemente «la libertà non

è conseguenza automatica della fine» (p.235), cancella completamente il rapporto di equivalenza che la Arendt vuol far valere.

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sopportare» (OR,95;101-2). L’opposizione tra la passione-desiderio, che è libertà gioiosa del proprio agire innovativo, e la passione-sofferenza, costretta e bloccata nella sopportazione, regge il rifiuto arendtiano della rivoluzione francese e dell’esperienza dell’inizio che vi è sottesa. Ciò che attiva e sospinge il processo rivoluzionario francese, infatti, non è il desiderio, ma il bisogno: «con il crollo dell’autorità politica e legale e lo scoppio della rivoluzione […] il popolo non solo penetrò, ma fece violentemente irruzione nel campo politico. Il bisogno che lo spingeva era violento, e per così dire prepolitico; pareva che solo la violenza potesse essere abbastanza forte e rapida da portargli veramente aiuto» (OR,91;97, corsivo mio). Il bisogno non è una forza espansiva come il desiderio, ma è un legame regressivo, che costringe l’azione politica innovativa nello spazio della necessità corporea. La rivoluzione francese è interamente dominata, in ogni fase del suo svolgersi, dalla dinamica della povertà e del bisogno:

La povertà è qualcosa di più della privazione: è uno stato di costante bisogno e di acuta miseria la cui ignominia consiste nella sua forza disumanizzante. La povertà è abietta perché costringe gli uomini a sottostare ai dettami assoluti del loro corpo, ossia ai dettami assoluti della necessità, nel senso in cui tutti gli uomini li conoscono dalla loro intima esperienza e al di fuori di ogni speculazione. Sotto la stretta appunto di tale necessità, la moltitudine si scagliò in appoggio alla rivoluzione francese, la ispirò, la spinse in avanti e infine la trascinò alla rovina e ciò proprio perché era la moltitudine dei poveri […] la libertà dovette arrendersi alla necessità, all’urgenza del processo vitale in se stesso. (OR,60;61)

Nella rivoluzione dei malhereux acquista rovinosa concretezza storica «la dottrina politicamente più dannosa dell’età moderna, ossia che la vita è il bene supremo e che il processo vitale della società è il centro stesso di ogni sforzo umano» (OR,64;65). Ora, quando la rivoluzione consiste nel «liberare il processo vitale della società dai ceppi della miseria» (OR,64;65) il bisogno prevale sul desiderio e il sociale si impadronisce del politico, imponendogli i suoi ritmi e la sua necessità: «Poiché la rivoluzione aveva aperto le porte del mondo politico ai poveri, questo mondo era effettivamente divenuto “sociale”» (OR,90-1;96). Si inserisce qui il ruolo immenso affidato alla tecnologia, senza nessuna esitazione considerata del tutto neutrale e benefica: «la tecnologia […] è politicamente neutrale» (OR,65;67) e «solo l’avvento della tecnologia, non le idee politiche moderne in quanto tali, ha liquidato l’antica e terribile verità che solo la violenza e il dominio sugli altri possono dare ad alcuni uomini la libertà. Nulla, diremmo noi oggi, potrebbe essere più obsoleto che tentare di

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liberare l’umanità dalla povertà con mezzi politici: nulla potrebbe essere più vano e dannoso» (OR,114;122-3).

La rivoluzione francese è dunque un caso storico del “cattivo inizio”. Cattivo perché presenta in tutti i suoi punti un’inversione di ciò che l’inizio dovrebbe essere: vi si trovano, infatti, il bisogno al posto del desiderio, il sociale al posto del politico, l’identificazione al posto dell’individuazione, la compassione per l’altro al posto della passione per l’agire, il terrore invece che la libertà 43. L’insieme di questi capovolgimenti può essere espresso in un’unica enunciazione: nella rivoluzione francese il bisogno è prima dell’inizio. Al di là del truismo, l’anteriorità significa che il bisogno (e tutti i significati che vi sono connessi: corpo, sociale, compassione ecc.) predetermina l’inizio e lo obbliga a muoversi lungo le linee della necessità. È un inizio illusorio e impossibile, che non può mai darsi perché già preceduto e condizionato dalla terribile necessità del processo vitale. «La nuova repubblica – osserva brutalmente la Arendt - nacque morta (was stillborn): la libertà dovette arrendersi alla necessità, all’urgenza del processo vitale in se stesso» (OR,60;61). La violenza e il terrore che avvolgono ben presto questo cominciamento rivoluzionario indicano tutt’altro che la sua radicalità; al contrario, sono il segno della sua innata debolezza, cioè dell’incapacità di principiare facendosi realmente constitutio. La rivoluzione francese non è una rivoluzione di eccessi, ma di mancanze; o, per dir meglio, di un unico grande vuoto che la violenza corre a colmare: quello di un inizio che instauri la libertà contenendo in se stesso il proprio principio di validità.

43 La compassione, troviamo in On revolution, «abolisce la distanza, ossia quello

spazio terreno tra gli uomini in cui si svolgono gli affari politici» ed «è rivolta soltanto, e con appassionata intensità, verso il singolo uomo che soffre» (OR,86;91). Quando essa diventa azione «respinge i logori e noiosi processi della persuasione, del negoziato e del compromesso, che sono i processi della legge e della politica, e presta la sua voce agli stessi uomini che soffrono e che devono pretendere un’azione veloce e diretta, ossia l’azione per mezzo della violenza» (OR,86-7;92).

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4.2 Fondazione della libertà

È quindi d’importanza cruciale per la comprensione delle rivoluzioni dell’età moderna che l’idea di libertà e l’esperienza di un nuovo cominciamento coincidano (OR,29;25).

Solo là dove è presente questo pathos della novità, e la novità è connessa con l’idea di libertà, possiamo legittimamente parlare di rivoluzione (OR,34;31).

L’analisi della rivoluzione francese, a volerne rigorosamente tirare le

conseguenze, conduce non solo a sminuire drasticamente il suo valore storico, ma perfino a negarne la verità di evento rivoluzionario. Rivoluzione può dirsi legittimamente solo l’evento che inizia, costituisce e fonda: «rivoluzione da una parte e costituzione e fondazione dall’altra sono congiunzioni correlative» (OR,126;136).

l’idea centrale di rivoluzione [...] è l’instaurazione (foundation) della libertà, ossia la fondazione di uno stato (body politic) che garantisca lo spazio in cui la libertà può manifestarsi. Nel mondo moderno l’atto di fondazione si identifica con la formulazione di una costituzione e la convocazione di assemblee costituenti è diventata a buon diritto il contrassegno di ogni rivoluzione, da quando la Dichiarazione di indipendenza ha dato il via alla stesura di costituzioni per ciascuno stato americano, processo che culminò nella Costituzione dell’Unione, ossia nella fondazione degli Stati Uniti (OR,125;135).

La rivoluzione americana - l’archetipo legittimo - campeggia ormai da sola sullo sfondo storico. Attraverso il suo processo di sviluppo la Arendt approfondisce la linea virtuosa prima indicata nell’inerenza all’inizio del desiderio di libertà. La libertà, infatti, viene definita come body politic garantito da una costituzione. Ma che cosa significa qui costituzione? L’atto di un governo? I limiti fissati al potere? La difesa dei diritti dei cittadini? Nulla di tutto questo. Per costituzione la Arendt intende il potere costituente esercitato da un popolo. «Non come limitare il governo, ma come fondarne uno nuovo» (OR,148;164) è il problema che l’inizio rivoluzionario deve porsi. Limitare è un’azione puramente negativa, e mai l’inizio può assumerla come suo compito. «Il vero obiettivo della

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rivoluzione americana era evidentemente non quello di limitare il potere, ma quello di creare più potere» (OR,154;172). Riaffermata ancora una volta, ritorna qui la concezione della novità inaudita del cominciamento, ma arricchita da una determinazione assai importante. L’inizio dev’essere ora capace di fondare, cioè di aprire lo spazio della libertà e garantire in qualche modo che forze avverse non riescano a richiuderlo o a sfigurarlo.

Si tratta, in primo luogo, di affrontare l’arbitrarietà dell’inizio. Ogni cominciamento, in quanto evento non ricompreso in una catena di cause ed effetti, implica un movimento improvviso e violento che viene dal nulla e irrompe sulla scena.

È insito nella natura stessa di ogni inizio portare in sé un certo grado di completo arbitrio. Non solo un inizio non è legato in una catena fissa di cause ed effetti, una catena in cui ogni effetto si trasforma immediatamente nella causa di sviluppi futuri; ma non ha nulla a cui potersi riattaccare, è come se uscisse dal nulla, nel tempo e nello spazio. Per un momento, il momento dell’inizio, è come se l’iniziatore avesse abolito la stessa sequenza di temporalità, o come se i protagonisti fossero proiettati fuori dall’ordine temporale e dalla sua continuità (OR,206;236).

Hannah Arendt non intende affatto consentire a una concezione dell’inizio che ne esalti esclusivamente la pura forza di irruzione. La fondazione è perciò concepita come un contrappeso del terribile attimo che scaglia l’inizio fuori dalla continuità. L’inizio comincia così a mostrarsi duplice:

Poiché il maggior evento in ogni rivoluzione è l’atto di fondazione, lo spirito rivoluzionario contiene due elementi che a noi sembrano inconciliabili e persino contraddittori. L’atto di fondare il nuovo stato, di progettare la nuova forma di governo implica il serio problema della stabilità e della durata della nuova struttura: d’altra parte l’esperienza destinata a quelli che sono impegnati in questo serio compito è l’esaltante consapevolezza della capacità umana di cominciare, la gioia che sempre accompagna la nascita di qualche cosa di nuovo sulla terra (OR,222-3;256).

È il problema dell’assoluto, che fa la sua comparsa in ogni atto rivoluzionario. Il movimento della constitutio libertatis che fonda un nuovo potere richiede comunque «un assoluto dal quale derivare autorità per la legge e il potere» (OR,161;181). La comparsa della nozione di autorità complica la fondazione di un altro elemento. Inizio, libertà, ma anche autorità. Quest’ultima è intesa come una forza di legittimazione che, riconoscendo la validità di ciò che viene fondato, gli permette di durare. La difficoltà consiste nel fatto che l’autorità non può provenire dall’esterno o

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dall’alto. Se così avvenisse, l’autorità si rovescerebbe in autoritarismo e l’inizio non potrebbe in alcun modo rivendicarsi libero44. Lo spazio di libertà creato dalla rivoluzione deve, nell’unico atto del suo sorgere, istituirsi, legittimarsi, stabilizzarsi e durare.

Se questo è il problema, è immediatamente chiaro che la fondazione non può far ricorso a trascendenze sovrumane o teologizzanti, e nemmeno a forze, come il bisogno, che necessitano l’inizio e rendono il suo accadere illusorio (stillborn), ma non per questo meno sanguinario. Ma allora, dove reperire questo assoluto? Forse in una facoltà interna dell’iniziatore come la volontà?

In uno dei saggi di Tra passato e futuro la Arendt esclude molto seccamente questa possibilità, affermando che «nel suo rapporto con la politica, la libertà non è un fenomeno della volontà» (BPF,151;203). R. Esposito ha persuasivamente mostrato che, nonostante un’elaborazione teorica più sofisticata e un atteggiamento meno ultimativo, il rifiuto di un rapporto tra volontà e libertà rimane attivo anche nella seconda parte della Vita della mente45. La volontà appare in Willing - e riassumo qui fin troppo sommariamente i punti più significativi di una lunga trafila concettuale - come una facoltà scissa e contraddittoria, che riesce a superare la propria instabilità solo attraverso vere e proprie trasmutazioni, cioè attraverso modificazioni della propria natura che la conducono fuori da se stessa fino a negarsi.

In Paolo e Agostino, ad esempio, la volontà si scopre irrimediabilmente duale, insidiata al proprio interno dalla presenza del nolle. Ogni volizione, ogni Io-voglio, trova il suo limite non nella durezza oppositiva del mondo esterno, ma nel «fatto che l’Io-voglio provoca inevitabilmente il contraccolpo di una volontà negativa» (LM,69;384). «Il conflitto si svolge tra velle e nolle», non tra il volere e qualcosa che gli sia esterno. Questa dolorosa e paralizzante scissione interiore è la malattia congenita della volontà: «divisa, destinata a produrre automaticamente la propria contro-volontà, la Volontà vive nel bisogno di essere guarita, di ridiventare una» (LM,70;385). Ma come riguadagnare l’unità? Certo non attraverso una volizione, che riprodurrebbe ancora una vota la scissione. Agostino risponderà che «la Volontà è redenta cessando di volere e cominciando ad

44 Il rapporto diretto tra autoritarismo e fonti esterne dell’autorità è fissato in Che

cos’è l’autorità?: «Nel regime autoritario la fonte dell’autorità è sempre una forza esterna e superiore al potere di questa: e da questa fonte, da questa forza esterna e superiore, che trascende il campo politico, le autorità derivano la loro “autorità”, cioè la loro legittimità» (BPF, 97;137).

45 Cfr. R. ESPOSITO, Categorie dell’impolitico, Il Mulino, Bologna, 1988, soprattutto le pp.103-112, delle quali ho tenuto presente lo schema argomentativo.

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agire, e tale cessazione non può aver origine in un atto della volontà di non volontà: non si tratterebbe che di un’altra volizione» (LM,102;421). Ora, la forma di agire in grado di ricomporre ciò che è scisso è l’amore: «In Agostino, come poi in Duns Scoto, la soluzione del conflitto interiore della Volontà ha luogo mediante una trasformazione della Volontà stessa, la sua trasformazione in Amore [...] poiché, è palese, l’Amore è il fattore di congiunzione più efficace» (LM,102;421).

Variato attraverso numerosi pensatori, e con diverse conseguenze, il meccanismo rimane identico: i conflitti della Volontà si rivelano irresolubili sul suo stesso terreno, ed è sempre necessario l’intervento di qualcosa come un coup d’état (cfr. LM,101;421), che trasforma la volontà in qualcosa d’altro: in amore (Agostino), azione (Duns Scoto) o sete di dominio infine redenta nel Sì ed amen (Nietzsche). In Nietzsche, prima di essere redento in accettazione gioiosa dell’essere, il volere mostra perfino il suo lato oscuro, cioè la sua tentazione di superare la frustrazione del non poter volere il passato facendosi risentimento, aggressione, dominio (cfr. LM,168;492).

A queste ragioni di rifiuto di una possibile fondazione della libertà sulla facoltà del volere si aggiunge un altro, potente motivo. È l’incommensurabilità che separa il singolare del volere dalla fondazione collettiva della libertà. L’analisi della volontà può, senza alcuna difficoltà, muovere dal presupposto di un Io; vale a dire che «l’evidenza interna di un Io-voglio» è «attestazione sufficiente della realtà del fenomeno» (LM,5;317). La libertà e la sua fondazione, al contrario, presuppongono, per essere reali, il piano della pluralità. «La libertà filosofica, la libertà della volontà, si applica solo a persone che vivono fuori dalle comunità politiche, come individui solitari» (LM,199;527). La solitudine di questi individui è volontaria, cioè direttamente prodotta dal volere stesso. «L’individuo plasmato dalla volontà […] tende sempre ad asserire un “me stesso” contro un indeterminato “essi”, tutti gli altri che io, in quanto individuo, non sono» (LM,195;523). La libertà politica, poiché «non può manifestarsi che nelle comunità» (LM,200;528), esclude ogni derivazione dall’Io-voglio e ammette unicamente il piano del “Noi”. Ma la costituzione del Noi non può avvenire senza rimandare a un inizio: «... in un dato punto del tempo e per qualche ragione un gruppo di persone devono essere giunte a rappresentarsi come un “Noi”. Indipendentemente dal modo in cui questo “Noi” sia stato sperimentato e articolato per la prima volta, si direbbe proprio che ad esso sia sempre necessario un inizio» (LM,202;529-30).

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4.3 Il patto

La volontà racchiude dunque non un potere, ma una forza individuale, espressa nell’atto del singolo di volersi affermare contro gli altri. Degli altri, la volontà sa solo che essi sono non-io, e in nessun caso riesce a superare il confine di questo rapporto ostile e negativo. È la promessa che invece si dimostra in grado di fondare la pluralità, cioè di compiere l’atto di un novum che coniughi azione e potere, in modo tale che l’energia dell’iniziare non venga esercitata in vista di un rapporto di comando, ma valga a istituire e tenere aperto uno spazio comune di relazioni egualitarie. «La grammatica dell’azione – l’azione è l’unica facoltà umana che esige una pluralità di uomini – e la sintassi del potere – il potere è l’unico attributo umano che si esplica solo in quello spazio terreno fra gli uomini per mezzo del quale gli uomini sono reciprocamente collegati – confluiscono nell’atto della fondazione, grazie alla facoltà di fare e mantenere delle promesse» (OR,175;199).

Lasciatasi alle spalle la limitata e impaurita dimensione di remedy, la promessa è l’elemento attivo della fondazione, il vincolo che, a contatto della pluralità, si espande in patto. È questo il «nuovo concetto di potere» (OR,166;187) portato alla ribalta dalla rivoluzione americana, ma preesistente al suo scoppio. Infatti, prima della rivoluzione, prima ancora dello sbarco sul nuovo continente, i Padri Pellegrini si erano associati nel Mayflower Compact. La loro unione non era motivata negativamente, dalla paura di trovarsi in una terra sconosciuta e in un pericoloso stato di natura, ma era sorretta dalla fiducia di poter costituire un corpo politico.

Il fatto realmente sorprendente […] è che l’ovvia paura degli uni verso gli altri era accompagnata dalla fiducia non meno ovvia che essi avevano nella propria capacità, non garantita e non confermata finora da nessuno, e non sostenuta ancora da alcun mezzo violento, di riuscire a combinarsi insieme in un “corpo Politico civile” […] tenuto insieme soltanto dalla forza della reciproca promessa (OR,167;188-9).

E la promessa, facendosi realtà storica di un evento, aveva mostrato una nuova forma di inizio:

…si erano costituiti in “corpi politici civili”, si erano reciprocamente vincolati in un’impresa per la quale non esisteva alcun altro vincolo e avevano creato un nuovo inizio, nel bel mezzo della storia dell’umanità occidentale (OR,194;223-4).

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La rivoluzione non farà che ritrovare e rilanciare ancora più avanti

l’essenza del patto. «Senza rivoluzione quel nuovo principio del potere sarebbe rimasto nascosto, avrebbe potuto essere dimenticato» (OR,167;188). Attraverso gli eventi rivoluzionari, invece, ha potuto espandersi e prendere forza: «era come se la rivoluzione “liberasse” il potere di redigere patti e costituzioni, quale si era già presentato nei primi giorni della colonizzazione» (OR,168;189).

La natura del patto è a questo punto sufficientemente chiara per poterla ricollegare, scartando la tradizione della filosofia politica occidentale, alla sua lontana ma non spenta origine. La Arendt fa risorgere senza esitazioni la struttura del foedus romano: «il mutuo contratto col quale degli individui si uniscono fra loro per formare una comunità si basa sulla reciprocità e presuppone l’uguaglianza; e il suo contenuto pratico è una promessa e il suo risultato è effettivamente una “società” o “consociazione”, nell’antico senso romano di societas che significa alleanza» (OR,170;193). «Era, in fin dei conti, il grande modello romano che si affermava quasi automaticamente» (OR,199;228).

La connessione diretta tra il foedus e il patto ha l’effetto di elidere la sovranità dal nuovo orizzonte politico. «Il concetto di patto – stabilisce seccamente la Arendt – presuppone la non-sovranità e il non-governo» (OR,308;194 nota). Tra Enea, i Padri Pellegrini e i Padri Fondatori si tende un legame che taglia fuori Hobbes e rende inaccettabile la cessione-sottomissione che istituisce la sovranità. I contraenti non cedono potere a un sovrano, come accade nella finzione hobbesiana, ma realmente e storicamente aumentano il potere e creano nuove forme politiche senza perdere nulla della propria autonoma potenza. Se si volesse cercare un testo simmetricamente opposto alle pagine finali del quarto capitolo di Sulla rivoluzione sarebbe forse possibile trovarlo nel cap. XVII del Leviatano, che Hobbes dedica a Cause, generazione e definizione di «Stato». L’opposizione dei due processi istitutivi è infatti quasi termine a termine. Anche i Pilgrim Fathers, sbarcando sul suolo americano, vengono a trovarsi in un territorio da stato di natura, ma il loro patto contrappone al sentimento di terrore dello stato naturale la fiducia, alla difesa dall’ «aggressione di stranieri e dai torti reciproci»46 l’impresa di creare un nuovo inizio, alla spada senza la quale i «patti […] non sono che parole»47 il vincolo della promessa.

Se il sovrano non trova alcun posto nella comunità intrinsecamente repubblicana del patto, nemmeno Dio può stabilirvi una supremazia. Non si

46 T. HOBBES, Leviatano , Laterza, Roma-Bari, 1989, p. 142. 47 Ivi, p. 139.

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tratta infatti di un patto biblico, di un accordo tra la divinità e un popolo. Il patto è qui completamente privato del suo asse teologico: riguarda coloro che lo stipulano, e i rapporti che essi riescono così a creare all’interno della comunità cui danno vita48. Escludendo l’asse verticale inerente a Dio e al sovrano, il patto crea e fa circolare il potere fra gli amici che l’hanno istituito; per questo, l’unica dimensione favorevole alla sua esistenza e al suo sviluppo è quella incondizionatamente orizzontale (cfr. OR,170-1;193-4). «Il principio di una lega o alleanza tra unità separate sorg[e] dalle condizioni elementari dell’azione stessa» (OR,267;310).

La Arendt insiste sul carattere storico e reale delle sue nozioni. Il

foedus, il patto del Mayflower, la carta costituzionale che definisce il “Noi” americano, non sono finzioni della filosofia, ma esperienze della politica, ed è su questo terreno che esse possono risolvere o dichiarare privi di senso alcuni ricorrenti paradossi dell’inizio. Innanzitutto, la ricerca di un assoluto che interrompa il circolo vizioso del cominciamento rimanendo in una prospettiva immanente all’atto d’iniziare. L’orizzontalità del patto dimostra che l’assoluto non si trova né “sopra” né “prima”, ma dimora (lies) nell’inizio stesso.

Il fatto stesso che gli uomini della rivoluzione americana pensavano a se stessi come a dei “fondatori” indica la misura in cui dovevano essersi resi conto che l’atto stesso della fondazione sarebbe alla fine divenuto la fonte di autorità nel nuovo stato, e non un legislatore Immortale o una verità auto-evidente o qualsiasi altra forma trascendente e sovrumana. Ne consegue che è inutile cercare un assoluto per spezzare il circolo vizioso in cui ogni inizio è inevitabilmente prigioniero perché questo “assoluto” è insito nell’atto stesso del cominciare (OR,204;234).

Alcune determinanti garanzie sono così erette a protezione dell’inizio. Il rifiuto del meccanismo hobbesiano assicura che l’inizio sia scevro dal principio del dominio. Al contrario, il principium che si fa strada nell’inizio porta nel mondo non comando e sottomissione, ma pluralità, mutualità e «capacità umane di costituire, di fondare, di costruire» (OR,175;199). Ma con ciò è anche evitato il pericolo del fratricidio che, insieme alla violenza, incombeva su ogni cominciamento. Mi pare che senza alcuna forzatura si possa leggere nella scena del patto il rovesciamento-riparazione del

48 Sulle due fondamentali dimensioni del foedus, l’una rivolta all’ascolto di una

“chiamata” divina, l’altra alla costituzione di un’autorità storico-mondana, si veda M. MIEGGE, Sulla politica riformata: «vocatio» e «foedus», in AA.VV, Modernità, politica e protestantesimo, Claudiana, Torino, 1994, soprattutto le pp. 152-7.

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fratricidio che la Arendt aveva posto, nelle prime pagine del libro, come una delle esperienze originarie della civiltà. L’inizio storico della repubblica americana crea una fratellanza nuova: può così presentare l’accordo, e non la violenza, tra coloro che l’emancipazione dal padre-sovrano ha reso fratelli-repubblicani, impegnati reciprocamente in un’impresa comune.

La natura del patto salda tra loro anche quelli che sembravano presentarsi come due vettori contraddittori all’interno dell’unico atto di iniziare. L’atto di fondare, cioè, deve contenere in sé anche la capacità di mantenere aperto e far durare lo spazio di libertà appena dischiuso. La stabilità - per quanto possa sembrare paradossale – dev’essere racchiusa all’interno stesso dell’atto del cominciamento. Non può sopravvenire dopo; si avrebbe altrimenti un fatale sdoppiamento dell’inizio, il prodursi di due cominciamenti che rimarrebbero in tensione irrisolta tra loro o farebbero riapparire la violenza nel soccombere dell’uno all’altro. L’inerenza e la contemporaneità di principium e principio è la via di salvezza dell’inizio.

Ciò che salva l’atto dell’inizio dalla sua arbitrarietà è il fatto che porta in se stesso il proprio principio; o, per essere più precisi, che l’inizio e il principio, il principium e il principio, non solo sono correlati tra loro, ma sono coevi. L’assoluto da cui l’inizio deve trarre la propria validità e che deve salvarlo, per così dire, dalla sua intrinseca arbitrarietà è appunto il principio che fa la sua comparsa nel mondo insieme all’inizio. Il modo con cui l’iniziatore avvia tutto ciò che vuol fare stabilisce la legge dell’azione per tutti quelli che si sono uniti a lui per prendere parte all’impresa e portarla a compimento. In tal modo il principio ispira gli atti che dovranno seguire e resta evidente finché dura l’azione (OR,212-3;245, corsivi miei).

Ora, in qual modo si dà nell’inizio tale «coincidenza di fondazione e conservazione» (OR,202;232) ? Attraverso quella forma collettiva di promessa che è il patto. Se il «modo con cui l’iniziatore avvia tutto ciò che vuol fare» consiste nello stringere un patto, allora la dimensione futura è già interna all’atto inaugurale. Infatti, la dimensione temporale della promessa è l’avvenire, la durata di ciò che l’atto del promettere stabilisce. La promessa, nell’atto stesso della sua formulazione, comporta la proiezione futura dei suoi contenuti. Eseguita tra molti, la promessa assume il valore di patto; distesa sull’orizzonte futuro, diventa istituzioni, processo di revisione e di riforma che accresce la fondazione originaria. È questo il modo in cui dal principium/principio possono derivare, senza involuzioni o comando, «gli atti che dovranno seguire».

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Il “miracolo”, l’infinita improbabilità di una fondazione innovatrice, plurale e stabile, si è dunque dato? La rivoluzione ha potuto diventare constitutio libertatis senza cadere preda della compassione e del terrore? L’inizio ha trovato la sua forma più alta in una rivoluzione? La complessiva risposta affermativa della Arendt non è in dubbio. Ai suoi occhi, il successo della rivoluzione americana è tanto maggiore quanto più esso è negato e dimenticato: «La triste verità della faccenda è che la rivoluzione francese, che terminò nel disastro, è diventata storia del mondo, mentre la rivoluzione americana, che terminò nel più trionfante successo, è rimasta un evento di importanza poco più che locale» (OR,56;56). Ma rilevare un atteggiamento apologetico – peraltro tanto evidente che se ne può discutere la misura, non la presenza – non è affatto la conclusione di un’impresa critica. Bisogna porsi all’altezza dei problemi che il discorso arendtiano vuole affrontare, e solo su quel metro valutarne gli esiti. Pertanto, la domanda essenziale non verte sulla determinazione della sua posizione personale, ma sulla concezione dell’inizio che la Arendt crea attraverso l’analisi della rivoluzione americana.

Partiamo da una traccia. La fondazione viene sempre presentata come un processo luminoso, un evento avvenuto, per la prima volta, nella piena trasparenza dei suoi motivi e dei suoi atti. «La fondazione - osserva H. Arendt - per la prima volta era avvenuta in piena luce (in broad daylight), davanti agli occhi di tutti quelli che erano presenti» (OR,204;234). Si possono leggere molte cose in questa daylight. Vi si può ritrovare l’identità di Essere e Apparire, lo splendore dell’apparire sulla scena pubblica che è un tema ricorrente in quasi tutte le opere. Oppure vi si può vedere una posizione anti-heideggeriana, un rifiuto dell’oscurità remota e misteriosa che accompagna in Heidegger i gesti iniziali49. Per parte mia, avanzerò l’osservazione più semplice. L’inizio luminoso è l’inizio senza ombra, senza lati oscuri, senza nulla che rimanga escluso dal suo rischiaramento. Il patto forma il Noi - We the People of the United States, come recita il preambolo della costituzione - e nulla è nascosto dalla sua trasparenza. Il Noi satura interamente l’orizzonte politico, e il suo processo di formazione è esposto in maniera perfettamente lineare. I lati oscuri, le scissioni e gli antagonismi ne vengono sistematicamente rimossi. Infatti, ciò che si dispiega come Noi comporta la simmetrica definizione di un campo di

49 Non posso qui, ovviamente, nemmeno accennare alla complessa problematica del

cominciamento in Heidegger, che implica comunque la decisione di porre l’inizio in una relazione inscindibile con il nascondimento e l’oscurità. Per Heidegger, infatti, «Der Anfang verbirgt sich im Beginn» (Was heisst Denken?, Niemeyer Verlag, Tübingen, 1984, p.98). Si veda, sull’intera questione, M. ZARADER, Heidegger e le parole dell’origine, Vita e Pensiero, Milano, 1997.

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differenza o di esclusione rispetto al quale l’identità può riconoscersi. E l’inizio americano ha potuto darsi solo attraverso tre scissioni, tre fenditure profonde del suo tessuto. Esse non riguardano l’allontanamento definitivo da una madrepatria distante, ma smembrano l’interno stesso del Noi50.

La prima spaccatura si apre nel conflitto con i lealisti tory, che genera una vera e propria fase di guerra civile all’interno della guerra d’indipendenza51. La seconda scissione riguarda gli schiavi negri. Si tratta di una lacerazione diversa dalla precedente, perché non colpisce uomini di una parte avversa ma si esercita su una razza ritenuta sub-umana. Ma gli schiavi non possono essere semplicemente cancellati, come avverrà con gli indiani. Sono strumenti di creazione della civiltà: la loro utilità rende necessario ammetterne la presenza, ma la loro inferiorità ne impedisce l’integrazione. Lo schiavo rimane incatenato al margine esterno; presenza-assenza che permette ai liberi e uguali di concepire in positivo la propria identità e di costruire il proprio mondo52. Infine, la spaccatura più profonda e radicale, quella che mette di fronte all’Altro assoluto: gli indiani, «assimilati […] al demonio che si doveva combattere e alla natura che si doveva domare, un qualcosa di “non umano” che faceva parte dei terrori della frontiera»53.

Come si vede, un crescendo di intensità negativa: l’hostis, il sub-umano, l’inumano; oppure, in altre figure, l’avversario, lo schiavo, il selvaggio. Il patto non li riguarda, né può includerli, perché è proprio la loro esclusione a costituirne la condizione di esistenza. La luminosità dell’inizio che la Arendt celebra non è affatto un benevolo chiarore diffusivo; è piuttosto il fascio di luce accecante proiettato dall’autorappresentazione dell’inizio americano.

Quale concezione dell’inizio si profila a questo punto? Per quante pagine la Arendt abbia potuto scrivere sulla pluralità e sulla differenza, per quanti sforzi meritori abbia compiuto per affermare la molteplicità degli

50 Anche il distacco dall’Inghilterra viene presentato in Sulla rivoluzione non come

una vera e propria frattura, ma come la dissoluzione di legami già deboli: «Il conflitto tra le colonie americane da una parte e il re e il parlamento inglese dall’altra non dissolveva nient’altro che gli statuti concessi ai coloni, e quei privilegi di cui essi godevano per il fatto di essere inglesi, privava il paese dei suoi governatori, ma non delle sue assemblee legislative; e gli americani, rifiutando la loro fedeltà a un re, non si sentivano sciolti dai loro numerosi patti, accordi, reciproche promesse e “consociazioni”» (OR,180-1;206-7).

51 Cfr. T.BONAZZI, Introduzione, in AA.VV, La rivoluzione americana, Il Mulino, Bologna, 1977, pp. 72-3.

52 Cfr., ivi, pp. 92-6. 53 Ivi, p. 93.

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inizi, la sua ispirazione fondamentale rimane ancorata a una concezione dell’inizio secondo la figura dell’Uno.

Mi rendo ben conto che non si tratta di un’opera univoca, e so che altri percorsi o tracce potrebbero essere additati come segni di un atteggiamento diverso. La linea maggiore del pensiero arendtiano mi sembra però irrevocabilmente segnata da una progressiva neutralizzazione dell’inizio.

L’inizio è per lei la pacifica composizione dell’Uno, non la produzione del Due o l’affermazione del molteplice. Tutto ciò che è resistenza, corpo, forza che spinge ad emanciparsi viene squalificato come “falso inizio” della liberazione; tutto ciò che è lato oscuro, scissione, antagonismo, viene rimosso dall’evento iniziale. L’unica energia ammissibile è quella che si distribuisce in legame e rinsalda un’unità che si vuole priva di conflitti.

Si può certo dire che è nella natura di un patto generare unificazione, e

che una forma di pluralità consensuale, lungi dal neutralizzarla, radicalizza la potenza dell’atto d’iniziare perché ne istituisce il livello collettivo. Come negarlo? Tutto dipende, però, dall’estensione del dominio del patto e dal ruolo che gli viene attribuito. I valori generati dal patto (consenso, unità, accordo, creazione di potere) vanno riportati al loro statuto di decisione. L’unità di un patto è l’unità di una parzialità, un modo di modificare, ridefinire e far crescere una posizione strategica. Non implica la fine del conflitto: ne riformula i termini e induce una variazione sostanziale nel suo campo, alla quale altre non mancheranno di seguire. Se il patto – come avviene nella Arendt – pretende di assimilare l’intero orizzonte politico, l’Uno diventa il modello dell’inizio. Il cominciare si presenta allora in una forma neutralizzata, spoliticizzata, privata della dualità, della frattura prodotta dall’evento.

Una seconda obiezione può presentarsi a questo punto. La neutralizzazione dell’inizio prodotta dalla Arendt sarebbe solo apparente – o, se reale, in fondo accettabile - perché intesa a proteggere dal “cattivo inizio”. Evitando di porre l’atto di cominciare all’interno di un campo di conflittualità, e rifiutando soprattutto di situare il conflitto all’interno stesso dell’inizio, la Arendt avrebbe dato spazio e voce ai valori consensuali dell’accordo e dell’unificazione, scongiurando l’affermarsi del dominio e della violenza.

Obiezione ragionevole, ma la cui validità dipende interamente dall’accettazione degli stessi presupposti arendtiani. La violenza sembra infatti evitata solo se il puto prospettico rimane comunque ancorato all’interno dell’inizio americano. Se lo sguardo si sposta invece ai suoi margini, al confine che lo delimita, appaiono subito le parti scisse ed

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escluse, i conflitti profondi che impediscono di poter credere a un’esperienza miracolosamente armonica del cominciamento. L’inizio che rischia di rimanere prigioniero della violenza è proprio quello che crede, o mostra di credere, di averla totalmente rimossa dalla propria sfera invece di riconoscerla, di farne una presenza e un problema del proprio agire innovatore.

H. Arendt ha imposto una serie di spostamenti al problema dell’inizio.

Ha perfettamente compreso che una determinazione della sua natura può prendere forma solo nel quadro di una temporalità non lineare, discontinua ed eterogenea, ma ha contemporaneamente ritenuto insufficiente e riduttiva una prospettiva epistemologica. Iniziare mette alla prova le possibilità e le capacità di essere, più che indicare una certa configurazione del sapere sulla temporalità. Le varie forme che si sono esaminate traducono questa posizione fondamentale, in intensità crescente: il rudimentale ma irriducibile “esserci” della natalità, la molteplicità degli inizi/azioni, la possibilità di costituire una libertà collettiva.

La caduta di questa tensione è certo molto pesante. L’uso neutralizzante dei valori del patto, l’Uno presentato come figura pacifica e risolta dell’atto di iniziare, l’elezione del “Noi” americano a modello costituzionale del cominciamento politico, gettano una specie di cortina plumbea, che arresta e fa arretrare il movimento dell’innovazione. Di qui credo che abbia avuto origine il facile e “democratico” arendtismo degli ultimi anni.

Eppure, il problema mi sembra nonostante tutto ormai spostato, collocato su un piano dal quale non può più essere rimosso tanto facilmente. Ma se è così, da dove riprenderlo? Forse proprio dal buco nero del pensiero della Arendt, da quel corpo che con tanta ostinazione ha squalificato nell’abiezione dell’antipolitico. Che cosa accade se l’inizio è posto in una molteplicità di forze e di corpi, in un’ontologia delle forze e dei corpi? Ma questa è una domanda che porta già lontano dall’orizzonte di pensiero della Arendt.

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Riassunto

Il saggio prende in esame il concetto di inizio nel pensiero di H. Arendt,

individuandone tre forme differenti: la natalità, l’azione e la rivoluzione. Di tali forme viene ricostruita la configurazione e vengono analizzate le implicazioni filosofiche.

Abstract The subject of the present essay is the concept of beginning in H.

Arendt’s thought. Beginning is not a simple concept, but it reveals three different forms: natality, action and revolution.

The essay reconstructs their development and debates their outcomes from a philosophical point of view.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Una completa bibliografia critica richiederebbe un volume a parte.

Pertanto, riporto qui di seguito, senza alcuna pretesa di esaustività, gli articoli e le opere che hanno costituito materiale di riflessione per la ricerca. Rimando al testo di S. Forti per una bibliografia aggiornata fino al 1994

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