Informazioni della Difesa - Supplemento 1/2012

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Supplemento al n. 1/2012 diInformazioni della DifesaPeriodico delloStato Maggiore della Difesafondato nel 1981

Direttore ResponsabileGen. B. Massimo Fogari

RedazioneCol. Valter CassarTen. Col Pier Vittorio Romano1° M.llo Mario PolverinoC° I Francesco Irde

Stampa e distribuzioneImago Editrice srlLoc. Pezze Longhe - Zona Industriale - Dragoni (CE)Tel. e Fax: 0823 866710

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Le Forze Armate, uno strumento sostenibile ed efficace 2Gen. Biagio Abrate

Afghanistan 12Marilù Lucrezio

Cosa dicono gli occhi azzurridi Silvia 24Vincenzo Sinapi

Perchè ho maturato questo rispetto 38Giampaolo Cadalanu

Quando un bambino ti tira unsasso addosso 50Lao Petrilli

Il “Tenente Drogo” è fuori tempo 60Massimo Fogari

Le principali missioni all’estero 66Pier Vittorio Romano

SOMMARIO

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Le missioni italiane all’estero

La progressiva globalizzazione delle informazioni, i grandi mutamentiavvenuti dopo la fine della “Guerra Fredda” e la grave crisi economicadegli ultimi anni hanno inciso fortemente in termini riduttivi sulloStrumento Militare e, conseguentemente, sul settore della sicurezzastrettamente legato alla stabilità del sistema internazionale.Compito principale delle Forze Armate è quello di difendere lo Statoe, alla luce del nuovo quadro geo-strategico, di operare dove ritenutonecessario per garantire pace e sicurezza, in conformità alle regoledel diritto internazionale e alle determinazioni delle organizzazioniinternazionali delle quali l’Italia fa parte. Esse, altresì, concorronoalla salvaguardia delle libere istituzioni svolgendo compiti specificiin circostanze di pubbliche calamità e negli altri casi di straordinarianecessità e urgenza. Le Forze Armate, inoltre, in concorso con gli or-ganismi internazionali competenti, vigilano sull’osservanza dellenorme di diritto internazionale umanitario; tutto ciò fa parte dellanostra quotidianità.Oggigiorno, per il mantenimento della pace e la salvaguardia dei di-ritti umani nell’ambito delle organizzazioni ONU, NATO ed UnioneEuropea, le Forze Armate operano contemporaneamente in oltre 20aree geografiche con 24 missioni internazionali, con un impegnomedio di personale dell’Esercito, della Marina, dell’Aeronautica edell’Arma dei Carabinieri pari a circa 7500 unità, senza considerarel’impegno sul territorio nazionale per la sicurezza dei cittadini.L’impegno delle Forze Armate nelle “missioni per la pace” nel mondo,che fa a pieno titolo parte della politica estera italiana, ebbe inizionegli anni ‘60 con la partecipazione a numerose missioni ONU, nelcorso delle quali l’Italia pagò anche un alto tributo in termini di viteumane, in particolare nel 1961 in Congo.Negli anni ‘80, con la missione in Libano, il coinvolgimento dell’Italiasulla scena internazionale ebbe una svolta importante che proseguìnel corso degli anni ‘90 con la partecipazione alle missioni ONU inSomalia e in Mozambico ma anche in operazioni di minore rilevanzatese all’evacuazione di cittadini italiani da zone particolarmente pe-ricolose. Nel 1996 fu la volta dei Balcani, regione per la cui stabiliz-zazione l’Italia è particolarmente interessata per ragioni geopolitiche.In Bosnia, per la prima volta, venne dispiegato un contingente inte-ramente costituito da militari in ferma prolungata, che diedero otti-ma prova di sé, confermando così quanto il nuovo modello di difesa,basato su personale volontario, fosse adeguato alle esigenze.

LE FORZE ARMATE,UNO STRUMENTO SOSTENIBILEED EFFICACE

Gen. Biagio Abrate

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Nel corso degli anni l’Italia è andata assumendo sempre maggiori re-sponsabilità per il mantenimento della pace nel mondo, portandoaiuto alle popolazioni disagiate nonché intervenendo contro il terro-rismo internazionale, come accade anche ai giorni nostri in Afghani-stan. Il contributo italiano si è sempre ispirato ad uno spirito disolidarietà, conforme alle esigenze di consolidamento della pace e diricostruzione: tutto questo è stato unanimemente e in ogni occasionericonosciuto al nostro Paese a livello internazionale. Sebbene in questomomento non si intraveda una minaccia concreta alla sicurezza delloStato nel suo insieme, la cronaca ci evidenzia come si potrebbero ra-pidamente creare diffuse e pericolose situazioni di instabilità ai mar-gini del nostro Paese con riflessi imprevedibili in ogni settore. E lastoria ci insegna la necessità di mantenere una Difesa credibile, evi-tando prudentemente di perdere capacità vitali che sarebbe poi im-possibile ricreare in breve tempo. Il quadro geo-strategico, oggicaratterizzato da discontinuità, imprevedibilità ed incertezza, eviden-zia un aumento delle minacce alla sicurezza mondiale, che si profilanonon più chiaramente definite e delineate. Minacce che risultano essereparticolarmente complesse, perché costituite da diversi fattori con-temporaneamente concorrenti e non immediatamente identificabiliprima che esse si manifestino. Minacce asimmetriche che difficilmentesono in grado di impiegare tutta la tipologia di forze, mezzi e tecno-logie a nostra disposizione, ma non per questo meno pericolose.Ciò impone che lo Strumento Militare non sia più pensato in funzionedi una minaccia specifica, bensì sia in grado di esprimere capacitàmilitari che possano essere impiegate in situazioni molto diverse,spesso nell’ambito di un più ampio impegno, anche congiuntamentea Forze Armate di altri Paesi e ad altre amministrazioni nazionali einternazionali. La caratteristica cruciale da perseguire è quindi la“flessibilità”. Caratteristica, questa, che può spiegarsi come un mixdi preparazione, di prontezza, di capacità tecnologiche avanzate, dicooperazione, di interoperabilità e di proiettabilità.È oggi, infatti, impensabile per qualsiasi Paese poter disporre di unoStrumento Militare nazionale idoneo a fronteggiare qualsiasi emer-genza e in grado di operare in modo autonomo ed isolato. La complessità, la mutevolezza e l’incertezza dello scenario presentee futuro impone, poi, una generale cooperazione sul campo. La sicu-rezza, nella sua accezione più ampia, non ha più, infatti, una dimen-sione esclusivamente militare, ma necessita di un approccio checoinvolga anche altre capacità del “Sistema Paese”, quali quelle di-plomatiche, economiche e culturali: in sintesi un “comprehensive ap-proach”. Lo Strumento Militare costituisce, quindi, ancora oggi, unadelle principali risorse attive a disposizione del Paese, segnatamenteper gli impegni in missioni internazionali assunti in ambito europeo,

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Le missioni italiane all’estero

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NATO e di coalizioni. Impegni di rilevanza strategica che hanno unruolo determinante per la definizione delle capacità militari da svi-luppare da parte dei singoli Paesi.Se l’Italia vuole esprimere assetti in grado di operare fianco a fiancoed alla pari con i propri partners euro-atlantici, come fatto finora inmaniera egregia, deve poter disporre, senza soluzione di continuità,di sistemi integrabili e di adeguato livello tecnologico.Il nuovo “Concetto Strategico della NATO”, sottoscritto a livello diCapi di Stato e di Governo, offre una ulteriore panoramica dei rischie delle sfide che saremo chiamati ad affrontare nel prossimo futuroe, conseguentemente, delle capacità che dovranno essere sviluppateper soddisfare i nuovi compiti. Al fine di conseguire gli obiettivi fis-

Herat (Afghanistan) - Il Gen. Abrate con il Gen. Allen, Comandante di ISAF

sati, il livello di ambizione dell’Alleanza Atlantica impegna le nazionia perseguire un continuo processo di riforma, modernizzazione e tra-sformazione delle rispettive Forze Armate. Dato il contesto odierno di scarsità di risorse finanziarie, è tuttaviaopportuno e necessario che tale azione, di livello strategico, sia svi-luppata rendendo compatibili il raggiungimento degli obiettivi diadeguamento ed efficienza dello Strumento Militare con le altre prio-rità che la Nazione deve perseguire. Nel concreto, ciò che serve è unulteriore e costante sforzo di razionalizzazione e di trasformazioneche consenta, nel breve termine, di garantire il mantenimento di uno

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Naqoura (Libano) - Il Gen. Abrate in visita al Comando di UNIFIL

strumento di elevate capacità militari e, nel medio-lungo termine, disviluppare un processo idoneo a preservarne, in chiave di sostenibilitàgenerale, l’operatività, l’efficienza e l’efficacia, ovviamente nell’am-bito delle direttive politico-strategiche e politico-militari che l’Ese-cutivo ha già fornito.La reale consistenza delle risorse disponibili, drasticamente ridottein questi ultimi anni ha imposto una revisione dello Strumento Mi-litare urgente e atipica, con l’inversione del tradizionale approccioconcettuale del ciclo di pianificazione della Difesa.Fino ad ora si era sempre partiti dalle missioni e compiti assegnatiallo Strumento Militare per individuare le capacità operative conse-guenti e, quindi, le risorse necessarie per assolverli.

Oggi, invece, dalle risorse disponibili dovranno definirsi le capacitàesprimibili e, in ultima analisi, calibrare il livello di impegno nazionalerealmente sostenibile, nella consapevolezza che, d’ora in avanti, ilbilancio della Difesa, e in particolare la quota dedicata alla “FunzioneDifesa”, non potrà ragionevolmente crescere rispetto a quella attuale.E questa revisione dello strumento dovrà evitare che un non correttobilanciamento tra risorse e impegni richiesti si traduca in un ecces-sivo depauperamento delle potenzialità capacitive che sono state neltempo create o, ancora, nella impossibilità per le Forze Armate di farfronte a improvvise emergenze e crisi.

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Nel Consiglio Supremo di Difesa dell’8 febbraio scorso, sono stati esa-minati i teatri di crisi e le linee evolutive della situazione internazionale,con particolare attenzione ai prevedibili sbocchi dei grandi rivolgimentisociali e istituzionali che stanno interessando aree anche di immediatointeresse per l’Europa e per il nostro Paese e ai possibili effetti della dif-ficile congiuntura economico-finanziaria globale. Ferme restando la ri-levanza dell’impegno italiano per la sicurezza e la stabilizzazione e, intale quadro, la validità dei compiti attualmente assolti dalle Forze Ar-mate, è stata confermata la necessità di proseguire nel processo già incorso volto a qualificare ulteriormente i contributi garantiti alle missioniinternazionali, in modo da accrescerne l’efficacia, contenendone, nelcontempo, gli oneri. Il Consiglio Supremo ha poi concordato sulla ne-

Pec (Kosovo) - Villaggio Italia

cessità di avviare, in tempi contenuti, la razionalizzazione del sistemadi Difesa, al fine di eliminare ridondanze e inefficienze e correggere conogni possibile urgenza l’attuale sbilanciamento delle componenti strut-turali di spesa, che penalizza fortemente i settori “dell’operatività” e“dell’investimento”. In questa fase, durante la quale dovranno comun-que essere garantite le capacità umane e tecnico-militari necessarie adassolvere i prioritari compiti nelle missioni internazionali, potrà esserenecessario rimodulare alcuni significativi programmi di investimento,laddove consentito dalla possibilità e dalla convenienza economica dimantenere in servizio i mezzi esistenti aumentandone la “vita tecnica”.

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Nel contempo, sulla base di un meditato approfondimento, si dovràprocedere alla definizione dei lineamenti per la riorganizzazione ge-nerale dello strumento militare, da avviare comunque in tempi ravvi-cinati, per adeguarlo allo scenario odierno e prevedibile nel futuro,finalizzandone la strategia, la struttura e i mezzi agli specifici compitidi prevenzione e di contrasto delle minacce emergenti e incrementan-done l’efficacia complessiva rispetto alle crisi con le quali il nostroPaese potrebbe realisticamente doversi confrontare.In tale prospettiva, il Consiglio Supremo di Difesa guarda alla pro-gressiva integrazione multinazionale delle Forze Armate nell’am-bito europeo della Politica di Sicurezza e Difesa Comune (PSDC)come ad un passaggio ormai ineludibile nel processo di riorganiz-

Trasferimento in elicottero da Herat a Kabul

zazione e di potenziamento delle capacità di intervento del nostrostrumento militare. L’auspicata profonda e ineludibile revisione dello Strumento Militare,è stata altresì oggetto di specifica audizione, avvenuta il 15 febbraio2012, da parte del Signor Ministro della Difesa, Giampaolo di Paola,che ha illustrato innanzi alle Commissioni Difesa riunite di Camera eSenato il programma di revisione in funzione delle risorse disponibilie di un loro maggiore equilibrio tra i settori del personale, dell’ope-ratività e dell’investimento. In particolare, le ridotte risorse dispo-nibili, ma anche la revisione in chiave riduttiva del personale e delle

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Shama (Libano) - Unità cinofila anti esplosivo

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capacità operative sostenibili, suggeriscono di ridimensionare gliobiettivi programmatici nell’investimento che ci eravamo posti nelpassato. L’esame fatto a livello tecnico ed operativo porta, infatti,a ritenere come perseguibile, da un punto di vista operativo e disostenibilità, un obiettivo programmatico tendente ad ottenere unostrumento militare di dimensioni più contenute ma più equilibrato,sinergico ed efficace nell’operatività, proiettabile e pienamente in-tegrato nel contesto dell’Unione Europea e della NATO, capace diesprimere e di sostenere capacità operative adeguate agli scenaridi instabilità prevedibili in prospettiva.La riforma toccherà tutti i settori: da quello del personale a quellidell’operatività e dell’investimento, dagli Organi Centrali alla com-ponente operativa, dall’organizzazione sanitaria alle infrastrutture.La trasformazione richiederà, necessariamente, tempo e stabilità pro-grammatica. Al suo compimento, la Difesa sarà evoluta in uno Strumento Militarefinanziariamente sostenibile, certamente ridotto rispetto a quello at-tuale, ma parimenti efficace, caratterizzato da un elevato livello tec-nologico, proiettabile e interoperabile con i partner internazionali, inpossesso di uno spettro di capacità in grado di renderlo sempre piùflessibile proprio per poter fronteggiare la incerta e mutevole minac-cia. Il tutto nell’ottica del conseguimento dell’obiettivo unico e im-prescindibile: la sicurezza e la difesa dello Stato.

Shama (Libano) - Il Gen. Abrate visita il comando italiano

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Provo una forte emozione ogni volta che ritorno in Afghanistan. unluogo quasi magico, paesaggio lunare, le montagne dorate, una luceaccecante.Il C-130 atterra dopo un volo cosiddetto “tattico”. Comincia il mioreportage giornalistico, “embedded” al fianco dei soldati italiani.

In questo momento è schierata la Brigata Sassari, al comando delGenerale Luciano Portolano. Vengo da diversi anni nella RegioneOvest, ho visto i cambiamenti, ho visto crescere i rapporti tra i no-stri militari e la popolazione. Gli afghani sono persone diffidenti,continuano a vivere in un clima di paura, si sentono minacciati dalritorno dei talebani, “Cosa sarà di noi quando un giorno ve ne an-drete?”, dice l’Elder, il capo di un villaggio vicino alla base avanzatadi Bala Murghab. Siamo a 200 chilometri a nord di Herat, al con-fine con il Turkmenistan. Fa molto freddo, l’uomo anziano, abitotradizionale e barba lunga, chiede coperte per gli abitanti e un ge-neratore di corrente. Manca l’elettricità. Qui, spesso, di notte i ta-

AFGHANISTANMarilù Lucrezio

Trasferimento in elicottero

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lebani scendono dalle montagne per rifornirsi, fanno razzia ditutto, sono violenti e minacciosi. La sicurezza degli abitanti vieneprima di tutto. Man mano che i militari conoscono la zona, acqui-stano fiducia tra gli afghani, nasce una collaborazione. È anche grazieal loro aiuto che vengono sventati numerosi attentati contro le nostretruppe, che vengono individuati e consegnati gli “insurgents” alleforze di sicurezza locali. Non si tratta tanto di talebani quanto di cri-minali, di bande armate che vedono la nostra presenza come un di-sturbo per i loro traffici di armi e di droga.

Vita nel villaggio

L’allargamento di una bolla di sicurezza intorno all’avamposto di BalaMurghab ha permesso alla popolazione di tornare a vivere nelle pro-prie case.Da una garitta della base vedo i bambini giocare, uomini che passanoa dorso d’asino sui sentieri polverosi, donne con il burka che traspor-tano taniche di acqua. Intorno a noi un silenzio ovattato, surreale. Èripresa la vita nei villaggi prima completamente abbandonati per laminaccia degli insorti.La Task Force North ha il controllo dell’area, ora operano gli uomini del151° Reggimento Fanteria Sassari. È emozionante vedere la bandieraitaliana che sventola accanto a quella afghana e quella americana.

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Il nemico arretra, è nascosto laggiù, in fondo, tra le montagne. Spiala base e i suoi abitanti, giorno e notte e non si arrende, continua adattaccare per riprendere il controllo del territorio, dissemina ordigni.Quella contro il terrorismo è una guerra asimmetrica, strategie e tat-tiche non convenzionali da parte di un nemico che agisce in manierasubdola. Ma gli uomini della missione ISAF hanno affinato le tecnichedi difesa, trasmettendole a migliaia di afghani arruolati nelle AfghanSecurity Forces.

Ho assistito alle attività di mentoring, l’addestramento delle forzelocali da parte delle truppe internazionali. Mi ha colpito la profes-sionalità degli italiani, ma anche il tipo di approccio sensibile eumano mentre spiegavano a giovani afghani come pulire un’arma, ocome usare mitragliatrici e lanciagranate. Non deve essere stato fa-cile entrare nella loro mentalità, senza peraltro tentare di modificaretradizioni e usanze.

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Nella F.O.B. Columbus di Bala Murghab osservo i militari italiani in trin-cea. Definire encomiabile il loro senso del dovere, il loro impegno, illoro coraggio non basta. Turni massacranti, senza mai abbassare laguardia, un freddo pungente che senti nelle ossa – d’inverno le tempe-rature scendono fino a 20 gradi sotto zero – il cibo scarseggia quandoi rifornimenti aerei non arrivano. Mai nessuno che si lamenti. Usciamodalla base. A bordo di un Lince seguiamo il convoglio, siamo in una golastretta a ridosso di un fiume che scende lungo la valle. L’acqua è mar-rone ma, nonostante questo, è pieno di persone che si lavano.

Bambini al fiume

All’interno del Lince si sente il fruscio degli strumenti di bordo, degliapparati radio, nessuno parla. Il soldato che è seduto accanto a me haun atteggiamento serio e attento. Siamo in 5, compreso l’uomo in ralla.In pattuglia con loro comprendi i rischi che corrono ogni momentodella giornata, il pericolo è ovunque e chiunque è consapevole delfatto che potrebbe non rientrare più alla base.Ogni bici, ogni motocicletta, ogni Toyota Corolla bianca viene guar-data con sospetto. Potrebbe essere imbottita di esplosivo.Ricordo il racconto del cappellano militare, salentino come me. Midisse che i ragazzi gli chiedevano di pregare per loro.Ci fermiamo in un villaggio, viene montata una tenda, cominciano

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Punto di ristoro

Militari in pattuglia

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le visite mediche alla popolazione, vengono distribuiti medicinali.Molti bambini hanno problemi agli occhi, spesso è congiuntivite, mispiega il medico italiano, colpa del vento che solleva la terra del de-serto. È sottile, s’infila dappertutto, nei capelli, nel naso, sotto gliabiti, ti entra negli occhi. Granelli di sabbia che pungono come aghi.A fine giornata rientriamo a Herat a bordo di un CH-47 “Chinook”.Camp Arena, la base del contingente italiano, si trova a 15 chilometridalla città, all’interno dell’aeroporto.È organizzata in maniera autonoma. I dormitori, una sfilza di pre-fabbricati di legno bianchi, una chiesetta, la mensa, un panificio,due PEX (Personal Exchange), gli spacci dove si compra di tutto,dal dentifricio alle sigarette.

Tempesta di sabbia

E, ancora, la pizzeria Ciano, unico punto d’incontro dei soldati, la seravende birra a partire dalle 19. Sul muro del locale le sciarpe dei tifosi,tutte le squadre di calcio italiane sono rappresentate.Appena arrivo a Camp Arena alcuni ragazzi mi passano accanto dicorsa, stanno facendo jogging intorno agli hesco bastion, le barriereprotettive riempite di sabbia e pietra, calzoncini corti e I-pod. Ac-canto al piazzale principale si intravede una palestra. È molto affol-lata, ha un’enorme sala pesi. Mi spiegano che l’allenamento deve

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mento. L’ufficio del P.I.O. Public Information Office è sempre in pienaattività, dall’alba a notte fonda. Ogni volta che torno a Herat le no-tizie sono differenti, cambia la situazione operativa sul terreno, cisono nuovi capisaldi, cambia la mappa degli avamposti, c’è una ri-sposta diversa alla minaccia del terrorismo. Sono molto orgogliosa dell’impegno dei militari italiani in questamissione di pace. Devo confessare però che, quando li vedo in filadavanti alle cabine telefoniche, a fine giornata, in attesa di chiamarela propria famiglia, mi si stringe il cuore. La maggior parte dei soldativiene dal Sud Italia, sento l’eco dell’accento campano, quello sardo,ma c’è soprattutto un’invasione salentina. Lecce, Brindisi, Taranto,un miscuglio di accenti meridionali.

Interno della base Camp Arena

essere costante per poter sopportare il peso dell’equipaggiamento –giubbotto antiproiettile, munizioni e armi – durante le attività ope-rative. Luogo più importante per i giornalisti è il P.I.O., centro operativo dovearrivano e da cui vengono diffuse tutte le notizie che riguardano ilteatro afghano.Il colonnello Vincenzo Lauro, portavoce del contingente italiano, pre-parato e paziente, è negli ultimi sei mesi il nostro ufficiale di riferi-

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Anche gli spagnoli di stanza a Camp Arena parlano italiano ormai, sidistinguono solo dalla tuta mimetica con i colori diversi dai nostri.La base di Herat è gremita di gente, 1500 soldati. Oltre agli italianici sono americani, spagnoli, albanesi e lituani.Da qui si parte a qualsiasi ora del giorno e della notte per il pat-tugliamento del territorio. Alle sei del pomeriggio è già buio pesto,le strade, i viali non sono illuminati per motivi di sicurezza e, al-zando lo sguardo verso l’alto, si scorge un cielo incredibilmentestellato.Questa base, che potrebbe sembrare una fortezza blindata, è spessosotto attacco. Dalle montagne circostanti partono razzi e colpi di

mortaio. Quando scatta l’allarme, ci si rifugia sotto i bunker, strutturein cemento armato rinforzate da sacchetti di sabbia.Gli agguati sono infiniti, ovunque. Non riesco a non pensare al ma-resciallo Mauro Gigli, 41 anni, di Sassari, che ho intervistato due annifa alla base in una tiepida giornata di primavera, sotto il cielo piùterso mai visto in vita mia. L’umore del maresciallo era sereno, nonostante un lavoro a dir pocorischioso: sminare gli ordigni segnalati lungo le strade. Il compito più

Hescobastion, moduli di difesa passiva a protezione delle basi

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pericoloso per un militare. Non per lui, a suo dire. Sapeva infatti diessere uno dei migliori artificieri presenti in Afghanistan, cosa chelo rendeva tanto tranquillo e fiducioso. Un uomo preparatissimo,sotto tutti i punti di vista. L’intervista era cominciata con una serie di sigle in gergo militare,non molto comprensibili per un pubblico televisivo. L’ho interrottopiù volte e lui, sempre con il sorriso sulle labbra e con molta pazienza,ricominciava daccapo.Tre mesi dopo, la notizia: il maresciallo Gigli era rimasto ucciso cer-cando di far brillare la seconda mina di quella giornata. Una trappola.Un’altra vita italiana spezzata. Uomini che cadono da eroi. Una de-finizione che non piace però ai nostri militari. Si tratta solo di lavoro,dicono, da svolgere con professionalità e impegno. Nient’altro. Il co-raggio non viene nemmeno preso in considerazione.

Il maresciallo Mauro Gigli

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Afghanistan - Valle di Bala Murghab

Afghanistan - I militari italiani spesso si confrontano con la popolazione civile

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Il più delle volte ti ritrovi in prima linea (o nelle sue immediate vici-nanze) per caso. Come quel giorno di tre anni fa, a Bala Murghab, inAfghanistan, quando una visita di routine ad una delle basi militariitaliane, con annessa distribuzione di aiuti umanitari, si trasformòper un gruppo di giornalisti in un’imprevista sortita sul campo di bat-taglia.In serata scrissi questo servizio per l’ANSA.Lassu’, a Mur-e-Chak, sparano tutti. I talebani con kalashnikov e Rpg,i parà usano i loro fucili, il Chinook spara dall’alto con le mitragliatricidi bordo e i due elicotteri d’attacco Mangusta fanno fuoco con l’im-pressionante cannone a tre canne rotanti che gli sporge dal muso. Uninferno. All’indomani del doppio attacco a Farah, per i militari italiani in Af-ghanistan un’altra giornata ad alta tensione. Anche stavolta nessunferito, ma un numero imprecisato di vittime tra i talebani. Doveva essere una giornata tranquilla a Bala Murghab, provincia diBadghis, la parte più a nord della regione occidentale a comando ita-liano: il generale Rosario Castellano - comandante della Folgore e delRegional command West di Isaf, la missione Nato - era venuto fin quida Herat per assistere alla distribuzione di aiuti alle scuole del villaggio.Insieme a lui il governatore della provincia, Delbar Arman, e un gruppodi giornalisti italiani. L’allarme scatta quando la cerimonia è da pocofinita e il generale si trova nella Fob Columbus, uno degli avampostiitaliani più incredibili e ad alto rischio. Sembra, davvero, un film diguerra. Parte della base è all’interno di una struttura semidistrutta,come fosse stata bombardata in tempi recenti. I militari - 200 parà del183° reggimento ‘Nembo’ di Livorno - vivono in tenda, mangiano intenda. La polvere è dappertutto, il caldo asfissiante, l’allerta continuo.‘’In due mesi, maggio e giugno, abbiamo avuto una ventina di feriti,dieci mezzi danneggiati’’, spiega il tenente colonnello Roberto Trubiani,il capo, qui alla Fob Columbus. Poi c’è stata la tregua. ‘’Una sorta di tre-gua - dice Trubiani - stipulata tra i capi villaggi e il governo centrale,da un lato, e i talebani dall’altro, in base alla quale non si sarebbe do-vuto sparare in vista delle elezioni’’. Ma ora è finita. (…) La richiesta di aiuto da parte afgana arriva alla Fob Columbus intornoalle 17 locali. Il posto di frontiera con il Turkmenistan, un check pointimportante, è sotto attacco. Due poliziotti uccisi, altri rapiti, armi emezzi portati via da un gruppo non quantificato di insorti. Subito vienedato l’ordine di decollo all’elicottero Chinook, che aveva trasportato

COSA DICONO GLI OCCHIAZZURRI DI SILVIA

Vincenzo Sinapi

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a Bala Murghab il generale e il governatore, ai due elicotteri Mangustadi scorta e a un plotone di parà, 25 ragazzi. I rinforzi arrivano in unattimo, il posto dell’attacco è a pochi chilometri. I talebani prima sela prendono con gli elicotteri, a colpi di razzi, poi sparano addosso aiparà. Questi individuano la ‘’sorgente’’ e rispondono al fuoco, passan-do le coordinate ai Mangusta, armati di cannoni e di missili. Il loro in-tervento è stato risolutivo. ‘’Il Mangusta è in assoluto il mezzo più temuto dagli insorti, ne sonoterrorizzati’’, spiega il colonnello Marco Centritto, comandante dell’‘Aviation Battalion’ italiano, uno dei protagonisti del blitz. In poco tempo ‘’la minaccia viene neutralizzata’’, per usare le paroledi Castellano. I soldati tornano alla base. Abbracci e pacche sulle spalle tra loro e dai loro compagni. I nemicisono stati sconfitti, ma il rastrellamento dell’area prosegue alla ricercadei prigionieri. Il governatore di Badghis ha parole di apprezzamentoper l’operato degli italiani: li ringrazia per quello che fanno e si augura‘’che continuino così anche in futuro’’. A suo avviso i talebani che in-festano la provincia sono manovrati dal Pakistan: ‘’C’è un legame forte- dice ai giornalisti - con Quetta. Prendono ordini da lì‘’.

Afghanistan - Valle di Bala Murghab

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l generale Castellano è ‘’molto soddisfatto’’: ‘’è stata un’operazioneelitrasportata non pianificata. In 15 minuti dall’allarme siamo partiti.Tutto si è svolto perfettamente e non abbiamo avuto feriti’’. Della battaglia di Bala Murghab, l’indomani, scrissero molti giornaliitaliani. Eppure non fu un episodio eclatante, ma solo uno dei tantiinterventi che quasi ogni giorno, da anni, vedono come protagonistii nostri militari in Afghanistan. Un episodio tecnicamente “ordinario”,che però si guadagnò le pagine dei quotidiani, servizi in tv, e contribuìa rafforzare nell’opinione pubblica la consapevolezza che, là, non sol-tanto si inaugurano scuole, ma si combatte. Perchè ciò è avvenuto? Per due fattori fondamentali, che sono la chiave – a mio avviso –della corretta informazione su ciò che i militari italiani fanno nei“teatri” lontani. Il primo, è la presenza dei giornalisti sul posto. Assistere ai freneticipreparativi per la partenza, osservare le facce di chi è rimasto allabase e poi, al ritorno, vedere i parà scendere dal Chinook stravolti,stremati per la fatica e per la tensione, al punto di vomitare, fa capiremeglio di ogni altra cosa ciò che è successo ‘’lassu’, a Mur-e-Chak’’. Ma qualcuno deve pur raccontartelo, se non ti trovi proprio sulla lineadel fronte. E qui entra in campo il secondo fattore: la volontà e la ca-pacità del militare di ‘comunicare’, in modo tempestivo, puntuale,senza inutili omissioni o tentativi di indorare la pillola. Un compitoche per essere bene assolto deve partire da un presupposto che sembraovvio, ma non lo è, vale a dire che il cronista non è il nemico, ma solouna persona che cerca di raccontare alla gente cosa succede.A Bala Murghab, quel giorno, i due requisiti c’erano entrambi: i gior-nalisti si trovavano lì e quello che non hanno potuto vedere con iloro occhi gli è stato raccontato con dovizia di particolari. Insomma,ognuno ha fatto la sua parte, e alla fine credo che il diritto dei cit-tadini ad essere informati sia stato onorato. Purtroppo – e va detto, se questo articolo vuole essere anche unospunto di riflessione - non sempre è così. Per il giornalista italiano oggi non è contemplata la possibilità di es-sere embedded, cioè di venire ’’incastrato’’ nelle truppe combattentiin azione. In uno scenario di guerra, questo significa non poter co-gliere un aspetto essenziale della missione, con il serio rischio di for-marsi – e trasferire nei lettori - una rappresentazione parziale edistorta della realtà. Quello che viene proposto agli inviati, piuttosto,sono dei ‘’media tour’’ e basta il nome per capire che non c’è daaspettarsi delle scariche di adrenalina. Naturalmente conosco le (giu-ste) obiezioni – l’intralcio all’attività operativa, i problemi di sicurez-za, in primo luogo la nostra - ma sono fiducioso che, anche grazie aicorsi di formazione organizzati dallo Stato Maggiore della Difesa in-sieme alla Federazione Nazionale della Stampa, si possano creare

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Afghanistan - Una pattuglia in perlustrazione nella valle di Bala Murghab

presto le condizioni perchè i cronisti che devono raccontare le mis-sioni dei militari italiani possano essere tenuti un po’ meno lontanodai “fatti”. Perchè, come diceva il grande Robert Capa, ‘’Se la fotonon è buona, vuol dire che non eri abbastanza vicino’’. E lo stessovale per un articolo di giornale.Riguardo al secondo aspetto, cioè il flusso di informazioni, il datoche colpisce – restando ad esempio all’Afghanistan – è che quandoad ogni avvicendamento di contingente si riesce a ottenere a faticaun bilancio, si scopre che nei sei mesi precedenti i soldati italiani –oltre ad inaugurare ambulatori, pozzi, strade e ad addestrare le forzedi sicurezza locali - sono stati protagonisti di una serie impressio-nante di “eventi” (voce che ricomprende tutto: dall’attentato allasparatoria, al ritrovamento/esplosione di ordigni) la maggior partedei quali mai comunicati all’esterno. Insomma, a fronte dell’abbon-danza di notizie sulle attività umanitarie corrisponde la modestia –quantitativa e qualitativa - di quelle relative agli scontri a fuoco, agliattacchi, alle bombe sganciate. L’assurdo riserbo sui recenti raids deicaccia italiani in Libia, a proposito di bombe, è emblematico. L’auspicio è che questo duplice limite – la stitichezza della fonte ri-spetto a certe notizie e l’impossibilità per il giornalista di averne unacognizione diretta – possa essere prima o poi superato. In caso con-

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Afghanistan - I Carabinieri in pattuglia nei pressi di Herat

trario il rischio è di non rendere un buon servizio a nessuno: nè ailettori, nè agli stessi militari, delle cui attività si finisce con il parlare– e avviene spesso, purtroppo – in modo superficiale e impreciso, op-pure di non parlarne affatto. Ma torniamo al tema. Mi è stato chiesto un pezzo di testimonianza,la mia esperienza con i militari italiani “fuori area”. Li seguo ormaida molti anni e, dovendo fare adesso una sorta di consuntivo, mirendo conto che di loro mi restano soprattutto i singoli gesti, le facce- come quelle sorridenti dei carabinieri che ci invitavano a cena sulterrazzo della Base Maestrale, che di lì a qualche giorno sarebbe sal-tata in aria - oppure gli sguardi, come quello di Silvia, la lagunare. Sì, per me la missione italiana in Iraq, segnata dalla tragedia di Nas-siriya, continua ad avere soprattutto gli occhi azzurri di Silvia. L’hogià scritto. ‘’Sorridono, quegli occhi, quando un bambino per strada le chiededell’acqua, ‘water, please, water’. Scrutano l’automobile che si affian-ca lentamente al suo mezzo blindato, ma poi lo sorpassa. Si bagnanodi lacrime quando qualcuno le chiede del suo migliore amico, MatteoVanzan, ucciso mentre difendeva la base Libeccio. Ecco: la voglia didare una mano a un popolo che ha bisogno di tutto, la determinazionenell’affrontare una minaccia sempre strisciante, il ricordo commosso

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di quelli che ci hanno rimesso la pelle, ‘perchè se noi stiamo qui lo fac-ciamo anche per loro’. Tutto questo dicono gli occhi azzurri di Silvia,la lagunare, in pattuglia nelle strade polverose di Nassiriya’’. Io quello sguardo me lo ricordo, perchè in esso ho trovato l’essenzadell’impegno dei militari italiani in missione. Certo, anche se le uni-formi sono le stesse, ogni persona è diversa e la pensa come gli pare,ma l’idea che ti fai vivendo con i nostri soldati per settimane gomitoa gomito è che, in generale, lo stipendio non sia la ragione principaleper cui sempre in così tanti sono smaniosi di trascorrere sei mesi lon-tano da casa, in posti dove tornare del tutto indenni non è affattoscontato. C’è questo desiderio di aiutare la gente a vivere in modomigliore, lo vedi nell’impegno in cui tutti si buttano a capofitto inquello che devono fare. Gli esempi sono decine, a cominciare proprio da Nassiriya, dove lastrage degli italiani non ha fermato nè indebolito – nonostante tutto,e avrei potuto capirlo – lo sforzo umanitario del contingente: passanoinfatti solo pochi giorni che un convoglio umanitario parte dalla basedi White Horse con un carico di cibo, medicine e vestiario per il vil-laggio di Assab. Siamo su quel convoglio e la sensazione che si ha èche tutti siano consapevoli dell’importanza di non lasciare il lavoroa metà, di andare avanti. Senza inutili rancori verso ‘’persone chenon c’entrano niente’’ (i cittadini iracheni) e ‘’per realizzare un futuromigliore per tutti’’, come ci spiega uno di quei soldati.Voglia di aiutare, ma anche passione per il proprio mestiere: è l’altracosa che percepisci subito quando arrivi in quei luoghi, specie negliavamposti “remoti”, dove fatichi a trovare una risposta sensata alperchè qualcuno dovrebbe ‘’stare bene’’ – sono sempre le loro parole– in quel buco. Anche in questo caso mi ricordo una faccia. Ed unnome: Gianluca Simonelli, nell’agosto 2009 comandante dei “Grifi”del 187° reggimento della Folgore di Livorno e del fortino Tobruk diBala Baluk, Afghanistan, nel cuore della provincia “talebana” di Farah. Questo un pezzo dell’articolo trasmesso il 21 agosto, all’indomani diuna tornata elettorale importante per l’Afghanistan. Non facile ilcompito dei militari italiani di Bala Baluk: convincere gli abitanti adandare a votare, nonostante le minacce dei talebani.‘’Ascoltando i racconti di questo giovane capitano e visitando la base– 160 chilometri a sud di Herat, più di un’ora di volo ed un numero im-precisato di ore via terra - viene spontaneo pensare che a questa com-pagnia di parà sia capitato il peggio del peggio: vivono in otto pertenda, il caldo è infernale, dai monti lì intorno lanciano tutti i giornirazzi e proiettili di mortaio, mentre alle pattuglie che escono sparanoaddosso con una frequenza inquietante. Basti pensare che in poco piùdi quattro mesi i parà di Bala Baluk, un pugno di uomini, hanno avutoben 17 feriti in tre principali conflitti a fuoco (uno durato cinque ore)

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Afghanistan - Attività di controllo del territorio

e in due attentati con ordigni esplosivi. Una percentuale terribile. Gliultimi tre razzi sono finiti vicino alla base solo ieri, il giorno del voto.Ma questi soldati - barba lunga e provati, però sempre all’erta - nonsi lamentano. E oggi si godono quello che il capitano Simonelli defi-

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nisce, giustamente, ‘’un successo’’. ‘’Il nostro obiettivo - spiega l’uffi-ciale, 31 anni, romano - era che la gente andasse a votare. I capi deivillaggi non volevano seggi da loro, avevano paura di danneggiamentie di ritorsioni da parte dei talebani. Ma hanno assicurato che sareb-

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bero andati a votare se fossero stati allestiti da un’altra parte. Allafine, insieme alla polizia e ai militari afgani, siamo riusciti a garantirele condizioni di sicurezza in otto seggi su 30, ma lì è andata a votarequasi la metà degli elettori di tutto il distretto. In questa zona, credete,è un successo’’.Una passione per il proprio lavoro che ti fa dire ‘’voglio continuare’’,anche se sei appena uscito vivo dall’esperienza assurda e scioccantedella morte di quattro tuoi amici, tutti a bordo dello stesso tuo mezzosaltato in aria.Herat, 17 ottobre 2010 - Di quel giorno non può e non vuole parlare:‘’è stata una botta, non mi va’’. Luca Cornacchia, 31anni, di Lecce neiMarsi, in provincia dell’Aquila, era seduto davanti, accanto al con-ducente del Lince saltato in aria quel maledetto 9 ottobre, nella pro-vincia talebana di Farah. Sono morti tutti, quelli a bordo del mezzoblindato, San Lince, come lo chiamano, che stavolta però non ha fattoil miracolo. Erano tutti e quattro amici suoi. Sono morti, ma lui hafretta di ‘’guarire e tornare laggiù’’. Luca, ricoverato nell’ospedale mi-litare da campo di Herat, il quartier generale italiano, parla con i gior-nalisti per la prima volta da quel giorno. È infilato nel letto e sorridealla telecamera con gli occhi verdi che brillano. È un bel sorriso, il suo,non diresti che ha passato quello che ha passato, che ha visto quelloche ha visto. Questa è la sua terza missione in Afghanistan e il padreha detto che stavolta ‘’non era sereno come al solito’’, ma preoccu-pato: ‘’per questo ha voluto portarsi dietro a tutti i costi l’immagi-netta di Padre Pio. È lui che l’ha salvato’’. Lui, caporal maggiore scelto,di tutto questo, non parla. Uno dei suoi obiettivi è ‘’dimenticare’’. Di-menticare i corpi dei suoi compagni maciullati dall’esplosione, glispari che hanno preceduto e seguito quell’enorme boato, le grida, labattaglia combattuta nella valle del Gulistan dagli alpini del 7° reg-gimento di Belluno contro una trentina di insorti. Dei suoi amici abordo del Lince piace parlare come erano ‘prima’: ‘’erano grandi, tuttibravi ragazzi. È successo quello che è successo, ma li ricorderemosempre com’erano’’. Come va? ‘’Me la cavo, diciamo, è stata tosta’’.A chi gli chiede se si sente una persona coraggiosa risponde di no:‘’No, sono una persona normale. Normalissima’’. Le sue condizioni disalute ormai non sono più preoccupanti. Luca parla di ‘’acciacchini’’.‘’Un piede fratturato, una costola schiacciata, il fegato un po’ lesio-nato, i polmoni ristretti. Ma nell’insieme sto bene. Tutto a posto. I me-dici dicono che serviranno due-tre mesi e poi sarò come nuovo’’. ACamp Arena è stato trasferito qualche giorno fa dall’ospedale di De-laram, gestito dagli americani, dove era stato trasportato in elicotterosubito dopo l’imboscata. Ora aspetta di essere rimpatriato e di rimet-tersi in forma perchè vuole tornare quaggiu’, dai suoi compagni.‘’Aspetto di tornare in Italia, a casa dai miei, dimenticare tutta questa

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Carro armato “Ariete” impiegato in Afghanistan

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storia e ricominciare prima possibile’’, dice. ‘’Ricominciare da capo,tornare in missione coi miei ragazzi’’. Tornare in Afghanistan: sei pro-prio sicuro? ‘’Certo, è il mio lavoro. Non vedo l’ora’’. Con i suoi colleghidel 7° di Belluno, che si trovano tuttora nello sperduto e pericolosodistretto del Gulistan, Luca è in contatto ‘’ogni giorno. L’altro ieri hofatto una videochiamata, finalmente li ho rivisti. Ho voluto salutarlitutti, fargli vedere che stavo in forma. Sono stati contentissimi, sonotutti molto forti e aspettano che guarisca e che torni da loro’’. Tutti igiorni Luca parla con la moglie, che vive a Roma: ‘’ogni volta le ripetodi stare tranquilla, che presto tornerò a riabbracciarla’’. E riabbrac-

ciare, con lei, anche il piccolo Alessandro, ‘’che ogni volta mi chiama,‘papà‘. Ha 16 mesi’’. In realtà, almeno per questa missione, Luca nonpotrà raggiungere i suoi ‘ragazzi’. Ci vorrà ancora un po’ di tempo perguarire, nel fisico e nello spirito, perchè dovrà superare anche psico-logicamente i momenti orrendi vissuti. ‘’Nei prossimi giorni i medicimi faranno sapere quando potrò essere rimpatriato. Certo, io ho vo-glia di tornare dai miei prima possibile, ma soprattutto voglio rimet-termi in forma: prima farò una bella vacanza con mia moglie e miofiglio, noi tre soli e nessun altro. Poi - ripete, soprattutto a se stesso- sarà ora di tornare in missione’’.

Militari in pattugliamento

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Ci sono stati altri militari che ho conosciuto che non sono stati cosìfortunati. Ne ricordo uno, tra gli altri. Si chiamava Marco Briganti,elicotterista dell’Esercito in missione in Iraq. Il 31 maggio 2005,quando il suo AB 412 è precipitato nel deserto di Nassiriya, aveva 33anni ed il grado di capitano. È stato promosso maggiore dopo lamorte, che si è portata via anche gli altri tre membri dell’equipaggio,tutti del 7° “Vega” di Rimini: il colonnello Giuseppe Lima, il mare-sciallo capo Massimiliano Biondini e il maresciallo ordinario MarcoCirillo. Briganti l’avevo conosciuto l’estate dell’anno prima e me loricordo non tanto per le sue doti di pilota - un eccellente pilota –quanto per la grande passione che si era portato laggiù, quella perl’archeologia. Aveva la tenda piena di libri sulla storia e l’arte dellaMesopotamia e quando parlava delle sue ricognizioni su uno degli800 siti di interesse archeologico della provincia irachena affidata alcontrollo degli italiani, la terra di Abramo e di Ur dei Caldei, ti la-sciava a bocca aperta per la passione e la competenza. Ho scritto diuna di quelle missioni, il pezzo cominciava così.‘’L’archeologo prestato all’Esercito sorvola oggi il sito di Tel Yukhan, anord, uno dei più importanti. Com’era facile prevedere, c’è folla. Allavista dell’elicottero una trentina di persone si danno alla fuga su trepick up. Ci sono anche donne e bambini: sono piccoli e si infilano me-glio nei buchi. Compito del capitano Briganti e dei soldati italiani (cheper quest’attività si sono guadagnati anche un ampio servizio sulleprestigiose pagine del New York Times) è di dare una mano alle pochee disarmate guardie archeologiche locali affinchè non proprio tuttovada saccheggiato e perduto’’.Anche di questo giovane ufficiale mi ha colpito, soprattutto, lo sguar-do: uno sguardo luminoso, curioso, che si illuminava quando ti par-lava del suo lavoro. Proprio come Mauro Gigli e Pierdavide De Cillis,gli sminatori, uccisi il 28 luglio 2010 in Afghanistan da un ordigno,poco dopo averne neutralizzato un altro. Gigli aveva due figli piccolie, parlando con i giornalisti, insisteva sull’importanza che la gentedel posto, soprattutto i bambini, fossero i primi ad essere istruiti sullaminaccia dei famigerati “LED”. Parlava e bastava guardarlo negliocchi per capire quanto ‘sentisse’ ciò che diceva.Ecco, questi sono i militari che ho conosciuto in missione. In moltiarticoli ho raccontato quello che so di loro, quello che ho visto, quelloche mi hanno insegnato. È gente per bene, che fa seriamente il pro-prio dovere e lo fa fino in fondo. È giusto che la gente lo sappia. Anzi,più che giusto è doveroso. È per questo, e per il rispetto che si deve a gente come Gigli e Bri-ganti, che l’operato dei militari italiani deve essere raccontato sempreper intero, non solo quello che viene ritenuto, di volta in volta, poli-ticamente corretto.

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Vent’anni fa ho cominciato a seguire le Forze armate in diverse mis-sioni. Pian piano ho imparato a distinguere gli elicotteri dalle por-taerei, qualche volta sono persino in grado di ricordare i gradi, anchese continuo a rifiutarmi di imparare gli infernali acronimi che piac-ciono tanto ai comandi.

PERCHÈ HO MATURATOQUESTO RISPETTO

Giampaolo Cadalanu

Afghanistan - Pattuglia Bala Murghab

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In compenso ho imparato a rispettare la professionalità e la dedizionedei soldati italiani. Non è tanto una questione di capacità militari insenso stretto: è una questione di approccio più rispettoso, di minorearroganza, di motivazione reale, radicata. Qualche collega, scherzo-samente, dice che a forza di frequentare le stellette mi sono inna-morato del mondo militare. Non è così. Faccio il giornalista, raccolgo fatti, che a volte sono si-gnificativi. Stavolta vorrei proporre tre episodi, uno divertente e duetragici, che forse sono in grado di ricostruire “perché” ho maturatoquesto rispetto.

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Il primo approccio con le Forze armate italiane capitò quasi per caso.Era la fine di marzo del 1992, l’Albania cercava un futuro diversodalla dittatura paranoica di Enver Hoxha. Ero a Tirana per seguire leprime elezioni libere e avevo registrato il trionfo del partito demo-cratico di Sali Berisha. La sua vittoria aveva avviato nuove speranze,ma la realtà era dura. Il “paese delle aquile” era uno dei più poveridel mondo, un angolo di Europa che la follia stalinista aveva ridottoai livelli del Corno d’Africa, ma senza nemmeno la scusa delle siccità.I primi sbarchi di disperati sulle rive dell’Adriatico avevano spintol’Italia a lanciare un piano di soccorsi e aiuti umanitari battezzatoopportunamente “operazione Pellicano”.La popolazione era ormai allo stremo. In tutta l’Albania erano spa-riti persino gli alberi, che la gente disperata usava come legna daardere per riscaldarsi e cucinare. L’unico pezzetto di strada asfal-

tato, fra Tirana e l’aeroporto di Rinas, era costellato di crateri. Manon importava, perché in tutta l’Albania, garantivano gli stessi abi-tanti di Tirana, circolavano appena sei automobili private, aggiu-state materialmente con il fil di ferro. Sulla pista di Rinas, iviaggiatori potevano assistere a una scena grottesca e forse oggiincredibile: un paio di buoi che facevano andare su e giù il relittodi un cacciabombardiere MIG, palesemente inabile a volare, ma

Afghanistan - Attività di ispezione ai mezzi civili

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forse considerato dal regime un elemento di dissuasione adeguatoper eventuali programmi di aggressione. E tutto il paese era costel-lato di piccoli bunker: si dice che fossero seicentomila, fortementevoluti da Enver Hoxha che temeva un’invasione e nella sua folliaaveva allestito un piano per resistere alle potenze straniere. Chefosse solo frutto delle sue ossessioni, non lo dimostrava solo l’inu-tilità pratica dei bunker, che senza rifornimenti non avrebbero po-tuto offrire resistenza a nessun invasore. La prova definitiva eranoi trenta centimetri di ferro acuminato che spiccavano al di sopra diogni paletto di sostegno alle viti, nelle poche vigne sopravvissute:agli stranieri increduli gli albanesi giuravano che secondo Hoxha ei suoi consiglieri lo spunzone doveva servire a infilzare gli incautiparacadutisti durante l’invasione.La paranoia del regime, raccolta in parte anche dal successore diHoxha, Ramiz Alia, aveva ridotto l’intera Albania alla fame: bisognavadar da mangiare alla gente, gli italiani erano lì per quello. Sapevoche erano schierati a Durazzo: subito dopo aver seguito le elezioni,proposi al mio caporedattore di restare qualche giorno in più per rac-contare il lavoro dei soldati ed ebbi il via libera.Non posso negare che la prima impressione fu positiva, ma per motiviesclusivamente egoistici: dopo una decina di giorni di pranzi e cenein perfetto stile albanese, costituite da carne stopposa bruciacchiata,pane che sembrava sughero e solo ogni tanto un pezzo di formaggiountuoso, sarei stato disposto a uccidere per un’arancia. La mensa delcampo di Durazzo mi sembrò paradisiaca: ricordo ancora che nonsolo c’era frutta, ma per primo c’erano tortellini, un’esperienza quasimistica in quel contesto.Volevo seguire la distribuzione degli aiuti, non mi interessava racco-gliere cifre ma raccontare quello che i soldati avrebbero fatto. Mimisi d’accordo con l’ufficiale di Pubblica informazione, potevo saliresu un camion del convoglio che andava a Korca, poco lontano dallago di Ocride, la mattina dopo. Ma era faticoso: sei ore di stradebianche dissestate, una notte nella cittadina sui monti, altre sei oreper rientrare. Ero disposto? Certamente.Ero ospitato da un alberghetto molto modesto, sulla costa di Durazzo.Non c’era corrente elettrica, non c’era acqua calda. Nella hall la trou-pe italiana di una tv francese cercava di ammazzare il tempo liberogiocando a carte. Quando seppero che ero deciso a partire il mattinodopo alle sei, cercarono di farmi cambiare idea. «Che te ne importadi andare?», chiedeva l’operatore: «Ti fai raccontare tutto dagli uffi-ciali quando tornano. Resta, ché ci facciamo una partita». Quasi noncapivano come mai per me l’idea di scoprire l’Albania fosse più at-traente della scalaquaranta.La mattina dopo, partimmo per Korca. Si viaggiava molto lentamente,

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la media era attorno ai trenta chilometri orari. Ma il mio posto sulcamion era comodo, l’autista era un ragazzo timido e simpatico, ilpaesaggio era straordinario. La strada serpeggiava fra le colline, ve-devo fiumi e cascatelle. Sulla cima delle montagne erano posate stel-le di cemento, a segnalare la fedeltà del regime — provvisoria,naturalmente — al grande fratello cinese. Vedevo (poco) bestiame ra-chitico e molti contadini stracciati. Più o meno ogni ora e mezzo sifaceva una sosta, c’era persino un maresciallo che riusciva nel mira-colo di organizzare un buon espresso con un fornello a gas portatile.Anche a me, come ai militari della spedizione, il servizio della mensaaveva fornito un pranzo al sacco: una busta con panini, carne in sca-tola, yogurt, bottiglia d’acqua, una mela, una merendina. L’aria frescametteva appetito, ma aspettai: volevo mangiare insieme agli altri.Poi, all’improvviso, successe. I camion grigioverdi stavano salendolentamente su una serie di tornanti sterrati, quando dalle colline co-minciarono a sentirsi voci gioiose. «I bambini», sorrise l’autista delmio camion. Scendevano di corsa, sporchi, stracciati, sdentati. Chia-mavano, salutavano, qualcuno faceva il cenno di portarsi qualcosaalla bocca. Volevano da mangiare. Pensai: «Dovranno aspettare la di-stribuzione regolare degli aiuti, a Korca». Sbagliavo.Quando ci fermammo, prima dell’ultima tappa, cambiai veicolo. Erosul mezzo dell’ufficiale medico del contingente. Il dottore mi mostròla sua scatoletta di Simmenthal. «Vedi quel ragazzino, quello bruno,con la maglietta rossa? Adesso glie la lancio, lo centro proprio intesta, vuoi vedere?». Mentiva, naturalmente. Non aveva nessuna in-tenzione di colpire i bambini. Soltanto si vergognava un po’ ad am-mettere che aveva tenuto da parte il pranzo ed aveva intenzione didigiunare, per poter cedere panini, carne e merendina a quei ragazzinidisperati. E come lui, tutti. Quel giorno nessuno fra i soldati italianiconsumò il suo pranzo al sacco. C’erano dei bambini da sfamare, ma-gari recitando scherzosamente la parte del duro, perché, chissà, forseun soldato non vuole ammettere di avere un cuore tenero.Merendine, panini, mele, tutto volava dal finestrino e finiva nellemani dei ragazzini. «Bidona, bidona», gridava uno dei più laceri. Vo-leva una bottiglia: ricevuta l’acqua minerale, la svuotò per terra, per-ché a lui interessava solo il recipiente di plastica, merce raranell’Albania di quei giorni. A Korca un ragazzo più intraprendentedegli altri gridava: «Italiano, baterì cufio!», voleva le batterie per lacuffia, per il lettore di cassette cinese che sfoggiava con orgoglio. Glialtri si accontentavano di merendine, mele e sorrisi.Era una scena indimenticabile. Ragazzi italiani sorridenti, sani, vita-minizzati, che distribuivano barrette di cioccolata ai bambini laceridell’Albania. Era come un fotogramma di Sciuscià, il capolavoro delcinema neorealista, solo che le parti erano invertite. Gli italiani sta-

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vano aiutando gli altri. Facevano quello che gli americani avevanofatto con noi. Il mio paese stava pagando il suo debito con la Storia.Non ricordo se quel giorno del 1992, nella polvere di Korca, la scenasembrava commovente. Lo è sicuramente ancora oggi, conservata frai ricordi più belli del lavoro accanto alle Forze armate.

Non c’erano grandi notizie da seguire in quei giorni del novembre2003. L’occupazione americana dell’Iraq cominciava a mostrare isegni dell’usura, le mine stradali contro gli Hummer facevano un paiodi vittime al giorno, ogni tanto la guerriglia riusciva persino ad ab-battere con granate RPG un elicottero dei marines che volava troppobasso. Il 10 novembre l’agenzia Associated Press aveva diffuso un di-spaccio interessante, l’intervista a un ex alto ufficiale di Saddam Hus-sein che spiegava la struttura militare dei guerriglieri. Era citato pernome, e nell’intervista si diceva che abitava a Balad, un piccolo centronel “triangolo sunnita”, non troppo lontano da Bagdad.«Si può fare», aveva detto il mio traduttore. Partimmo verso Nord,passando vicino a Falluja, a Ramadi... Ma a Balad la ricerca dell’exmilitare si rivelò più difficile del previsto. Nessuno lo conosceva, ementre giravamo a vuoto respiravo un’atmosfera non del tutto ras-sicurante. Sarà stato il fatto che sia il traduttore che l’autista eranosciiti, in piena zona sunnita... A un certo punto, il traduttore trovòun ragazzo che diceva di conoscere l’ufficiale. Salì in macchina, mivide, capì che ero un occidentale e aprì di corsa lo sportello, buttan-dosi giù senza nemmeno aspettare che la macchina si fermasse.C’erano tutti i buoni motivi per covare una certa inquietudine.Eravamo nella periferia del paesino, il traduttore scese ancora una

Logo della Delegazione Italiana Esperti in Albania

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volta per chiedere informazioni. E il mio telefono si mise a squillare.Era la radio del mio gruppo editoriale. «C’è stata una bomba a Nas-siriya. Ne sai qualcosa?». Non ne sapevo nulla, chiamai subito la cel-lula di Pubblica Informazione. Mi confermarono che c’era stataun’esplosione, che c’era qualche ferito. Per qualche motivo oggi in-comprensibile, decisi di tornare subito. Via, via, andiamo a Bagdad,per l’ufficiale di Balad sarà la prossima volta.Uscendo dal paesino, il telefono riprese a squillare. Stavolta era ilmio caporedattore, in grande agitazione: «Ci sono dei morti, deimorti! Ce la fai ad andare a Nassiriya?», Nemmeno per sogno. Comefacevo? Eravamo 150 chilometri a nord di Bagdad, Nassiriya era altri600 chilometri più a sud. Avremmo dovuto volare. «Va bene, dirò aun altro collega di provare lui. È arrivato in Giordania, vediamo sepuò noleggiare un elicottero». Un elicottero a noleggio in Iraq? Senzanessun preavviso, in piena zona di guerra? Mi morsi la lingua, tennile considerazioni per me e cercai di chiarirmi le idee con il traduttore.Alla quarta chiamata di radio che chiedevano informazioni, fui co-stretto a spegnere il satellitare, per non fermare la macchina.A Bagdad il traffico era quello di sempre, soffocante, lentissimo. Misentivo friggere. Ma sapevo già che cosa dovevo fare. Arrivai all’al-bergo, afferrai la borsa del computer e scesi di corsa. Il traduttoregarantiva che avremmo fatto in tempo. Quando telefonai in redazio-ne per dire: «Allora, forse posso farcela, vado a Nassiriya?», in realtàla macchina era già in viaggio. Il caporedattore gridava: «Sì, vai, vai». All’uscita da Bagdad un ragazzino più intraprendente degli altri ven-deva banane agli automobilisti di passaggio. Ne comprammo qual-cuna, ma il traduttore e l’autista non vollero mangiare. Eravamo inpieno Ramadan, dopotutto. Fuori dalla capitale, la macchina comin-ciò a volare. Centosettanta chilometri all’ora fissi. Dentro di me rin-graziai il cielo che Saddam Hussein aveva fatto costruire autostradelisce come un biliardo per gli spostamenti suoi e dei funzionari, chein quei giorni erano praticamente vuote.Il viaggio fu lungo. Per ogni palma che vedevo in lontananza, mi mor-devo la lingua, per non ripetere di continuo: «È Nassiriya?». Arrivatiin città, chiesi all’autista di portarmi direttamente sul luogo del-l’esplosione. Era buio, ovviamente la strada era sbarrata. Non si po-teva passare. A guardia c’era un paio di ragazzi italiani, con l’ariasconvolta. «Mi potete dire qualcosa, sapete che cosa è successo?».«Eh, se non lo sai lei che è giornalista...», rispose in modo surrealeuno dei due. Era ormai buio fitto. Bisognava andare alla base, con la massima ur-genza. E per fortuna la differenza con il fuso orario italiano mi per-metteva di avere ancora un po’ di tempo. Ma il traduttore e l’autistafurono irremovibili: «Adesso dobbiamo mangiare». «Ma io ho solo un

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paio d’ore per raccogliere le notizie e scrivere, devo fare un pezzolungo...». Non ci fu niente da fare. Alla fine, concordammo per ventiminuti di sosta, pollo e Coca-Cola in un ristorantino, una sosta nel-l’albergo e poi di corsa a Camp Mittica.Avevamo prenotato le stanze nell’albergo Al Janoob, non esattamenteuna sistemazione da raccomandare ma era l’unico di Nassiriya. Nellahall una fotografa dell’Associated Press selezionava le immagini, e siera fermata su quella che poi sarebbe diventata il simbolo della stra-ge: un caporale con l’elmetto sollevato e la mano sulla testa, sullosfondo della palazzina sventrata di White Horse. L’accoglienza della Brigata Sassari fu cordiale, persino in quelle cir-costanze. In qualche modo riuscii a scrivere l’articolo, sapevo che sa-rebbe diventato il pezzo più importante del giorno dopo, e i ragazzidella Pubblica informazione si fecero in quattro per aiutarmi. Avevano

gli occhi lucidi. Uno dei militari uccisi era l’amico insieme con il qualelavoravano fino alla sera prima. Alla fine, non mi andava di rientrarenell’albergo. I soldati mi offrirono quello che potevano: una brandinad’emergenza nell’ufficio, acqua minerale e due bustine di cracker.Passai tre giorni in quell’ufficio, raccogliendo spezzoni di raccontoqui e lì, cercando di comprendere quello che era successo. Il funerale

I nostri soldati attirano l’attenzione dei bambini

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doveva essere celebrato in Italia, doveva essere un funerale di Stato.Avrei scoperto più tardi che il paese si stava raccogliendo a rendereomaggio ai caduti, davanti alla camera ardente di Roma c’erano chi-lometri di cittadini in fila. A Nassiriya si celebrò una cerimonia reli-giosa, non saprei come definirla se non forse come un saluto aicompagni, prima della partenza delle bare sull’Hercules C-130 direttoa Ciampino.Ma ci fu qualcosa, in quei momenti, che non sarà facile dimenticare.L’immagine di un ufficiale inginocchiato a singhiozzare, senza nes-suna vergogna, davanti alla bara dell’amico, me la porterò dentro persempre. E non sarà possibile cancellare il ricordo degli stessi irachenicommossi e intimiditi, che venivano anche loro a rendere omaggio.Era un ringraziamento. Lo scrissi: quell’attentato era stato un colpocontro «i soldati dal volto umano», e a qualcuno la frase non piacque.Eppure anche oggi, dopo aver seguito tante altre missioni e aver vistotante stellette, la riscriverei nello stesso modo. Erano i soldati rispet-tosi del paese in cui operavano, capaci di portarsi nello zaino un’au-tomobilina o una bambola per fare amicizia con i bambini. Erano isoldati, a mio avviso, spediti in una missione nata male, per obiettiviconfusi, in una guerra sbagliata. Ma loro erano militari di cui il miopaese poteva andare fiero.

Iraq - Macerie dopo l’attentato di Nassiriya

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Ero appena rientrato da un periodo in Afghanistan, quando dal gior-nale mi chiesero di ripartire d’urgenza: a Kabul un’autobomba avevaucciso sei militari che passavano sulla strada dell’aeroporto, ferendonealtri quattro e facendo strage anche fra i civili afgani. Riuscii ad arri-vare nella capitale il giorno dopo l’attacco. In quelle condizioni il la-voro non era difficile, conoscevo già molte persone, a Camp Invictapotevo dire di essere tra amici. E i risultati arrivarono subito, sottoforma di una notizia che non era stata ancora divulgata: subito dopol’attentato c’era stata una sparatoria. «Dopo la bomba i Taliban hannosparato sui nostri, i superstiti hanno dovuto rispondere al fuoco».Era una tattica ancora poco conosciuta, che poi sarebbe diventatamarchio di fabbrica di Al Qaeda. Si chiama attacco complesso: nonsi usa solo una bomba, ma anche i kamikaze, commandos votati allamorte e pronti a uccidere chiunque prima di farsi saltare in aria. Main quel settembre del 2009 la tecnica non era ancora nota. Quandone scrissi, ci fu anche chi non voleva crederci. E in verità qualcunodall’Italia mi suggerì un’ipotesi non gradevole, anzi, molto molto sco-moda. «Senti, abbiamo sentito tutti le voci su quello che succededopo gli attentati, quando l’obiettivo sono militari di alcuni paesi. Siparla di rappresaglie, in Afghanistan come in Iraq c’è chi giura chedopo la bomba i militari superstiti abbiano sparato sui passanti. Provenon ce n’è. Potrebbero essere solo bugie, naturalmente. Ma potrebbeessere successo qualcosa del genere anche con i nostri. E magari l’at-tacco subito potrebbe essere solo una scusa, così da “coprire” le vit-time civili fatte solo per la rabbia del momento».Brutta, brutta ipotesi. Non bastava a giustificarla nemmeno la fama“muscolare” della Brigata Folgore, considerata meno propensa alladiplomazia e più “decisa” durante le missioni all’estero. No, l’ipotesinon mi convinceva, perché semplicemente non credevo capaci di ne-fandezze i militari che avevo conosciuto, nemmeno in momenti distress terribile come quelli dopo l’attentato. Però le mie convinzioninon contavano nulla. Bisognava lavorare, controllare, verificare. La bomba era esplosa su una corsia della strada che portava all’ae-roporto, all’angolo dell’ospedale costruito dall’Urss e usato dai militariafgani, a due passi dalla “rotonda Massud”, un importante svincolodedicato all’eroe della resistenza antisovietica ucciso da Al Qaeda.Cominciai a esaminare il terrapieno che dominava la strada, un postoideale per sparare sulle auto di passaggio. Non c’era traccia di niente,lassù. Non orme significative, nemmeno un bossolo. È vero, si diceche i Taliban se li portino via per riutilizzarli, ma persino quando at-taccano in città? In più, dietro il terrapieno c’era un cantiere: pilastri,mucchi di sabbia, macchine da costruzione. Insomma, il posto sba-gliato per fuggire a piedi e impossibile per fuggire in auto. Possibileche avessero scelto quella posizione per l’attacco? Mah.

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Passai a intervistare i testimoni. Sotto il muro di cinta dell’ospedalemilitare c’era una dozzina di carretti con uva, mele, verdure. Conl’aiuto dell’interprete, cominciai a intervistare i venditori, uno peruno. Poi toccò ai sarti, che avevano la loro piccola bottega proprio lìaccanto. Qualche passante, qualche sfaccendato. C’era chi mostravaferite da scheggia, chi aveva la testa coperta da bende, chi tenevaun braccio fasciato appeso al collo. Tutti quanti raccontarono la stes-sa versione, nessuno escluso. «È vero, gli italiani hanno sparato, manon contro la gente. Hanno sparato in aria, forse credevano di essereassaliti, ma non c’erano Taliban qui. Comunque nessuno ha sparatosulla gente, tutti i feriti sono stati colpiti da schegge».Gli amici di Kabul mi avevano detto: vedrai, entrare nell’ospedale nonsarà possibile. Ti fermeranno, ti chiederanno ogni genere di autorizza-zione, non ti diranno nulla. Si sbagliavano. Grazie forse all’atteggia-mento cortese dell’interprete, che ispirava gentilezza, nell’ospedale cifecero entrare senza problemi. Intervistai il personale dell’accettazione,quello del pronto soccorso, quello del reparto Medicina, quello dellaChirurgia. Tutti, nessuno escluso, mi dissero: abbiamo ricoverato feritida schegge, nessun segno di pallottole. Intervistai l’uomo della morgue,che aveva da poco finito di pulire i corpi dei civili uccisi nell’attentato.Anche lui mi disse: «Non ho trovato nessuna traccia di pallottole, tuttisono rimasti uccisi dalle schegge». Intervistai i feriti, quanto menoquelli che erano in grado di rispondere. Erano concordi: «Siamo rimastiferiti dalla bomba. Nessun italiano ha sparato su di noi. Quelli che sonoscesi dall’auto hanno sparato in alto». Solo uno, un ragazzo con la spal-la fasciata e una benda sulla testa, diede una versione differente: «Gliitaliani hanno sparato nella mia direzione». Come? «Sì, sì, hanno spa-rato verso di me. Ero stato buttato a terra dall’esplosione, stavo cer-cando di rialzarmi. Mi gridavano qualcosa, poi mi hanno sparato vicino,prima a destra, poi a sinistra. Mi facevano cenno di restare giù, ho ob-bedito». Che cosa era successo? L’autobomba, come avrebbero poi di-mostrato i rilievi, era parcheggiata sul lato della strada, con un autistasuicida a bordo. Era la consueta Toyota Corolla bianca, la macchinapiù comune dell’Afghanistan, adoperata per tanti attentati al puntoda diventarne quasi il simbolo. Aveva raggiunto i due Vtlm “Lince” edera saltata in aria. Il primo blindato era stato scaraventato via dall’im-patto. Il Lince è una macchina da sette tonnellate: per farla volar via,la carica doveva essere enorme. Il secondo Vtlm era stato rovesciato,e la bomba aveva ucciso il mitragliere, in piedi sulla “ralla”.In parole povere, i militari superstiti che erano a bordo del secondoLince avevano visto sparire la macchina davanti alla loro e cadere senzavita il corpo del loro compagno, lo stesso con cui fino a pochi momentiprima parlavano e scherzavano. Avevano subito messo in posizioneprotetta, sotto la macchina il passeggero, un militare di Marina che

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era a bordo. E poi avevano cominciato a “mettere in sicurezza” l’area,con la convinzione, probabilmente sbagliata, di essere ancora sotto at-tacco. Molto probabilmente a dare quell’idea era stata la polizia afga-na, che arrivava sparando in aria per farsi largo nel traffico.Insomma, quei soldati erano rintronati dalla bomba, erano coperti delsangue del collega appena ucciso, erano convinti di essere ancora sottol’assalto dei Taliban. Eppure quei soldati - raccontava il mio testimone- avevano avuto il sangue freddo e lo straordinario autocontrollo persparare “vicino” al ferito afgano, per fargli capire di stare giù, perchéaltrimenti avrebbero dovuto considerarlo una minaccia, almeno fino acapire bene che cosa stava succedendo. Non volevano fargli del malesenza ragione. Quei soldati erano soldati italiani, erano professionisticon un sistema nervoso eccezionale, ma soprattutto erano esseri umani,dotati di rispetto per gli altri esseri umani, disposti persino a rischiareun filino in più pur di non uccidere senza motivo un civile. Nei momentisuccessivi alla bomba, raccontava una collega della France Presse, lazona dell’attentato era piena di confusione. A un certo punto, i soldatiche controllavano l’accesso hanno visto arrivare una donna con il velo.Sotto il suo cappotto spuntavano dei cavi: si vedevano chiaramente.Immediatamente i militari sono intervenuti e la donna si è trovata nelmirino dei mitragliatori, paralizzata dal terrore. Ma non era un altro at-tentatore: era una inesperta cronista della radio locale. Non aveva pen-sato quale effetto avrebbero fatto i cavi del suo registratore sui militari,subito dopo un attentato. Quella donna se l’è cavata con un grosso spa-vento e una lezione indimenticabile. E dice a tutti: «Se quei soldati nonfossero stati italiani, adesso non sarei qui a raccontare questa storia».

Afghanistan - Elicottero bipala CH47 e due Mangusta A129

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Afghanistan, tardo autunno. Tramonto mozzafiato su questo lembosperduto di mondo. Sembra, beffardamente, che la natura si facciapiù bella dove una vita costa meno.Ricordo lo stupore del capitano Gabriele Lucci mentre, in volo tatticofra le gole di Gorazde, si stropicciava continuamente gli occhi davantialle montagne bosniache. Le paragonava all’amato Appennino abruz-zese, a casa sua, dove oggi - sono abbastanza sicuro - ripensa spessoa quei Balcani un po’ privati, quelli delle emozioni più personali. Anche i militari più esperti, quelli col ceffo da duro consumato: avolte con malcelato pudore, ma si commuovono tutti in missione, secapita loro davanti un albero maestoso, un ruscello rigoglioso, unalba pulita. “Guarda che bello!”. Solo questo. Poi magari un caffè evia di nuovo a lavorare. Per esempio era uomo di poche sentenzeMauro Gigli, uno di quei sottufficiali che danno lustro alle Forze ar-mate italiane. Professione sminatore - “il più bravo”, secondo un col-lega - Mauro era amuleto e santo protettore, per i fratelli in armi.Faccia a terra e pinze in mano, ha salvato chissà quante vite umanefino a che, un brutto giorno, una trappola esplosiva ha spezzato lasua. Gigli ne aveva viste di tutti i colori; era un veterano delle missioniall’estero che - mi disse una volta - lo avevano fatto soldato e uomomigliore. Per chi prende lo zaino e va c’è la “big picture”, l’essereparte, anche infinitesimale, però di un grande e complicato ingra-naggio. Poi ci sono le storie laterali, forse più intime. Ho imparatoche sono soprattutto quelle che contano. Perché, certo, ai piedi i“boots on the ground”, ma è l’uomo, alla fine, a fare la differenza. Colsuo nome e col suo cognome.Ho visto militari consumarsi addossandosi responsabilità. Il problema - confidano - è spiegare ai propri cari cose che si capi-scono davvero solo se si vivono: “per certe sensazioni - dice uno diloro - non ci sono tante parole”. Marco Briganti, pilota della Caval-leria dell’aria caduto in Iraq, ricorreva allora al sorriso, col quale il-luminava ogni incontro, ogni racconto. Una serenità che apriva ilcuore di chiunque. Briganti perse la vita poco lontano da Nassiriya,assieme a Giuseppe Lima, Massimiliano Biondini e Marco Cirillo. L’eli-cottero dei quattro precipitò mentre tornavano dal Kuwait, dove gliitaliani avevano accompagnato un collega costretto ad un rimpatriourgente da un grave lutto famigliare. In Italia ho poi conosciuto il papà e la mamma di Marco Briganti.Persone forti, coraggiose e gentili, come lo era il figlio. Ho una foto

QUANDO UN BAMBINOTI TIRA UN SASSO ADDOSSO

Lao Petrilli

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del capitano, da allora, fra le cose care. Marco ride alla cloche delsuo elicottero. “Vola sopra di noi”, c’è scritto.Mi piace pensare che, come angeli custodi, i caduti italiani guardinole spalle ai loro compagni rimasti a faticare e rischiare quaggiù. Equaggiù in Afghanistan, adesso, poco lontano da Shindand, il sole èuna grande palla di fuoco che fa per sparire dietro le alture mentreil vento solleva sabbia e la polvere danza attorno alle ombre. Sembraun film di Antonioni.

Il silenzio è rotto dalla radio gracchiante dei ragazzi della terzacompagnia dell’82° reggimento Torino di Barletta che, dopo lungheore di pattuglia, si dirigono verso il quartier generale della TaskForce Centre di Salvatore Patanè, comandante del glorioso 11° Ber-saglieri, qui da mesi. “Ci sarebbe un’altra cosa da fare”, comunicanodalla sala operativa della base. Accade che da giorni i mezzi chepassano vicino ad Adraskan finiscono sotto sassaiole, a volte fittea volte meno. “Se capita vi fermate”, è l’ordine. E capita. Uno, due,tre lanci sui blindati. Il capocolonna dispone lo stop del convoglio.I militari scendono dai mezzi. Per chiedere, capire. Poco lontanosono stati costruiti pozzi, distribuiti aiuti. Perché? “Chi è stato? Vo-

Mangusta A129

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gliamo saperlo e vogliamo parlarci”, chiede calmo ma fermo il te-nente alla testa del plotoncino. La domanda viene rivolta a parec-chie delle persone raccolte davanti alle catapecchie in cui, lungola strada, si vendono bibite, gomme e batterie. Le risposte sono eva-sive. C’è un gruppo di giovani che, con aria di sfida, ride, sfotte isoldati, urla loro contro. Abiti immacolati e denti bianchissimi de-notano il rango delle famiglie di questi ragazzi: sono figli di personeimportanti, di certo ricche per le latitudini. Continuano a provocarema i militari non raccolgono. Ottengono invece di parlare con leautorità del posto, con i capi dei servizi di sicurezza, che arrivanoin qualche minuto. Sono persone che parlano abitualmente con gliitaliani. Ne sono referenti e interpreti presso clan e cittadini. Esanno che cosa succede a casa loro. Conoscono pure i messaggi chevogliono mandare i “cattivi” della zona, oggi manovrati dal mullahJabbar: “questa è casa nostra, noi non vi vogliamo”. Presi da unaparte i punti di contatto italiani confermano ciò che era già sem-brato a qualche militare di passaggio pigliato a sassate: sono deibambini - “degli sbandati”, viene detto, e già sarebbe terribile così- a tirare pietre ogni volta che passano i mezzi blindati dell’ISAF.“L’Afghanistan del domani”, si dice con le poche speranze che itempi consentono quando li si vede correre forte per le vie di questoo quel villaggio. Ora: il generale Masiello, come da sua abitudine, era stato chiarissimoe onesto, ricevendomi nel posto-comando da numero 1 dell’ISAFnell’Afghanistan occidentale, a Herat. Pur esaltando i numerosi e in-dubitabili successi conseguiti - allargamento della bolla di sicurezzadi Bala Murghab in primis - il comandante della Folgore aveva am-messo: “problemi e rischi ne restano sicuramente”.Sì. C’è qualcosa che non va, qualcosa che deve essere andato stortose adesso ci sono dei bambini in cenci sporchi e sandali slabbrati chefanno a gara a chi colpisce un italiano. È una immagine che cozzacon quella di tanti reportage trasmessi dal mondo: i soldati accoltida bimbi in festa con tripudi di sorrisi. E salti di gioia. E zuffe per chiarriva prima a fare il pollice in su davanti al nostro tricolore. Piccolecreature sfortunate che chiedono acqua e caramelle. Che fanno ungoffo e bellissimo saluto militare, copia infedele ma così pura di ungesto che devono aver visto fare a qualcuno, da qualche parte. Ecco,“se anche i bambini ci tradiscono il mondo gira al contrario”, dicetriste un veterano. È un mondo sempre più dannatamente complica-to. Un mondo allo stesso tempo vicino e lontano, in cui a piccoli coe-tanei dei nostri figli in grembiule fanno imbracciare un fucile,mettono una bomba nella merenda. Un mondo in cui, però, il benepuò farcela ancora se si prova amarezza quando un bambino ti tiraun sasso addosso.

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Non siamo soli, noi italiani. Ho visto militari di altri paesi stringersia vecchine in lacrime e piangere assieme a loro; compiere gesti eroiciper poche taniche d’acqua da consegnare a poveri cristi intrappolatiin vite da guerra perpetua. E combattere lealmente.Vero, come tutti ho visto anche qualcuno degli alleati incappucciareil nemico. E letto di gravissime vendette senza alcuna giustizia nèumanità e per questo da punire e punite. Ma, per brutale, impopolaree perfino amorale che possa apparire, bisogna metterla così: è nellanatura delle cose che una mela marcia possa finire in grande cestodi frutta fresca. Non dovrebbe succedere, non è giustificabile e oc-corre fare di tutto e di più perché non succeda. Ma succede. È quasiinevitabile e, con tutti i dovuti distinguo, anche noi, fra mille paginestraordinarie, abbiamo scritto righe da cancellare.Noi, occorre perciò essere chiari quando si usa la ormai famosaespressione della “via italiana” alle missioni internazionali, non siamogeneticamente migliori dagli altri. Siamo italiani, questo sì. E la no-stra caratteristica sensibilità resiste all’imbarbarimento dei giornid’oggi. Anche fra i militari. Ne ho conosciuti alcuni che hanno aiutatoconcretamente quando non adottato proprio intere famiglie, racco-gliendole dallo stato di disperazione in cui le avevano trovate negliangoli peggiori della faccia della Terra. Hanno fatto studiare i lorofigli, li hanno ospitati in vacanza. Sarà, forse, un fatto culturale. Sot-tolineò una sera a Nassiriya Pietro Costantino: “con tutti i nostri di-fetti, abbiamo però duemila anni di storia che ci aiutano”. Forsedovremmo farli pesare di più nel mondo. In questa era di grandi stravolgimenti, quando tutti siamo chiamati aripensarci come individui e come attori sociali, dovremmo dare il giustopeso ai nostri militari. Abbiamo imparato a voler loro bene, a stimarli.Non c’è praticamente italiano che non conosca almeno un veteranodel Libano, della Bosnia, del Kosovo, dell’Afghanistan, dell’Iraq. È bene allora che si sappia che molto da lì, da quelle esperienze al-l’estero, arriva la capacità di rispondere signorsì anche in Italia, quan-do servono soldati per soccorrere popolazioni colpite da calamitànaturali o per pulire certe strade dalla neve o addirittura dai rifiuti.Da molto tempo i militari italiani non sono più chiusi in caserma. Chiha il privilegio di fare il mestiere del giornalista è testimone anchedei loro successi. Quelli evidenti e quelli meno.Personalmente ho visto i bersaglieri di Mauro Del Vecchio, Carminede Pascale, Giulio Carletti, Giancarlo Mignone, Giuseppenicola Totae Francesco Tirino stupire il famoso generale Jackson, allestendo inmezza notte una tendopoli sterminata per i rifugiati del Kosovo.Giovan Battista Borrini stringere mani per le vie di Nassiriya senzaelmetto né protezioni. Antonio Satta diventare punto di riferimentodi celebrati papaveri a Baghdad, come poi Giorgio Battisti e Car-

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melo Burgio a Kabul. Ricordo Adriano Santini e Donato Marzanorappresentare superlativamente l’Italia a Tampa. Paolo Nardone fareamicizia con soldati di ogni ordine, grado e nazionalità, pur restan-done comandante: si sarebbero gettati tutti nelle fiamme di un gi-rone infernale se solo l’avesse loro ordinato. E ancora ClaudioCappello lavorare con passione e tenacia e poi organizzare impa-reggiabili bicchierate internazionali a successo ottenuto. ClaudioBerto ed Emmanuele Aresu raccogliere i complimenti di David Pe-traeus per la gestione del PRT di Herat. Ho visto Stefano Izzo rad-doppiare la durata della missione afghana perchè “qui c’è ancora

tanto da fare”. E i suoi dietro a lui. Poi Angelo Panebianco sfoggiaredoti diplomatiche, delle quali, sbagliando, molti non sospettereb-bero mai il capo del Battaglione “San Marco”. Giulio Armando Luciafar notte dentro i Dardo con i suoi. Massimo Biagini dare spessore- anche umano - ad un lavoro d’altri tempi, fra le trincee nella Valledel Murghab. Ad Abu Dhabi, nella fondamentale base avanzatadell’Aeronautica di Al Bateen, ho visto fra gli altri Claudio Icardi,Marco Marini e Claudio Raponi sudare tutto quello si può per farviaggiare nel migliore dei modi - da e per i “Teatri operativi” - uo-

Afghanistan - Riunione con i capi villaggio dell’abitato di Quibchaq

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mini in divisa, politici, diplomatici, imprenditori e rappresentantidella stampa.Io faccio parte di quest’ultimo mondo. E devo ringraziare chi ha age-volato il mio lavoro nel corso degli anni. Militari con i quali non sonomancate, non mancano e credo non mancheranno divergenze. Hosempre trovato che questo fosse salutare. Giancarlo Rossi, Massimo Fogari, Riccardo Cristoni, Roberto Tomsi,Lorenzo Falferi, Roberto Lanni, Emiliano Biasco, Bartolo Causarano,Adriano Graziani, Massimo Carta, gli ammiragli Parisi e Camerini,Carlo Cellerino, Federico Mariani, Francesco Barontini, Amedeo Ma-gnani, Achille Cazzaniga, Erminio Englaro, Marco Mele, VincenzoLauro, Gianfranco Linzi, Vincenzo Conte, Carlo Felice Corsetti, Pie-rangelo Iannotti, Paolo Piccinelli, Ubaldo del Monaco, Guido Braman-te e Alessandro di Gruttola sono solo alcuni fra coloro che hannospeso del tempo per aiutarmi a capire meglio le cose della Difesa. È anche grazie a loro che ho potuto verificare quanto i militari ab-biano esportato un pezzo d’Italia rispettabile e che funziona. Sonostati e sono ambasciatori di professionalità e capacità in tutti i campi,anche quelli meno scontati e immaginabili. Ecco, queste capacità, elo sappia soprattutto chi ha le stellette addosso, non vanno tenutesegrete o nascoste. Queste capacità, ne prendano atto le istituzioni,vanno esaltate e valorizzate; messe meglio a sistema. Per continuarea difendere meglio l’Italia, anche quando questo vuol dire farlo lon-tano dai confini nazionali. “Siamo militari, niente piagnistei o celebrazioni. Quando la Patriachiama noi ci siamo”, mi dice un marò. Un alpino, mesi fa, prima ditrovarvi la morte, scrisse da desolate province afghane una bellissimalettera che - pubblicata dal Gazzettino - commosse l’Italia. Parolesemplici ma profonde, che ancora oggi ci dicono dei militari moltedelle cose che dobbiamo sapere:“Voglio ringraziare a nome mio, ma soprattutto a nome di tutti noimilitari in missione, chi ci vuole ascoltare e non ci degna del suo pen-siero solo in tristi occasioni come quando il tricolore avvolge quattroalpini morti facendo il loro dovere. Corrono giorni in cui identità e valori sembrano superati, soffocatida una realtà che ci nega il tempo per pensare a cosa siamo, da doveveniamo, a cosa apparteniamo...Questi popoli di terre sventurate, dove spadroneggia la corruzione,dove a comandare non sono solo i governanti ma anche ancora icapi clan, questi popoli hanno saputo conservare le loro radicidopo che i migliori eserciti, le più grosse armate hanno marciatosulle loro case: invano. L’essenza del popolo afghano è viva, le lorotradizioni si ripetono immutate, possiamo ritenerle sbagliate, ar-caiche, ma da migliaia di anni sono rimaste immutate. Gente che

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nasce, vive e muore per amore delle proprie radici, della propriaterra e di essa si nutre. Allora riesci a capire che questo strano po-polo dalle usanze a volte anche stravaganti ha qualcosa da inse-gnare anche a noi.Come ogni giorno partiamo per una pattuglia. Avvicinandoci ai nostrimezzi Lince, prima di uscire, sguardi bassi, qualche gesto di rito sca-ramantico, segni della croce... Nel mezzo blindo, all’interno, non unaparola. Solo la radio che ci aggiorna su possibili insurgents avvistati,su possibili zone per imboscate, nient’altro nell’aria... Consapevoliche il suolo afghano è cosparso di ordigni artigianali pronti ad esplo-dere al passaggio delle sei tonnellate del nostro Lince.Siamo il primo mezzo della colonna, ogni metro potrebbe esserel’ultimo, ma non ci pensi. La testa è troppo impegnata a scorgerenel terreno qualcosa di anomalo, finalmente siamo alle porte delvillaggio...Veniamo accolti dai bambini che da dieci diventano venti, trenta,siamo circondati, si portano una mano alla bocca ormai sappiamocosa vogliono: hanno fame...Li guardi: sono scalzi, con addosso qualche straccio che a occhio hagià vestito più di qualche fratello o sorella... Dei loro padri e delleloro madri neanche l’ombra, il villaggio, il nostro villaggio, è un viavai di bambini che hanno tutta l’aria di non essere li per giocare...Non sono li a caso, hanno quattro, cinque anni, i più grandi massimodieci e con loro un mucchio di sterpaglie. Poi guardi bene, sotto lesterpaglie c’è un asinello, stracarico, porta con sé il raccolto, stannolavorando... e i fratelli maggiori, si intenda non più che quattordi-cenni, con un gregge che lascia sbigottiti anche i nostri alpini sardi,gente che di capre e pecore ne sa qualcosa...Dietro le finestre delle capanne di fango e fieno un adulto ci guarda,dalla barba gli daresti sessanta settanta anni poi scopri che ne hamassimo trenta... Delle donne neanche l’ombra, quelle poche che tar-dano a rientrare al nostro arrivo al villaggio indossano il burqa inte-grale: ci saranno quaranta gradi all’ombra...Quel poco che abbiamo con noi lo lasciamo qui. Ognuno prima diuscire per una pattuglia sa che deve riempire bene le proprie taschee il mezzo con acqua e viveri: non serviranno certo a noi... Che dicanopoi che noi alpini siamo cambiati...Mi ricordo quando mio nonno mi parlava della guerra: «brutta cosabocia, beato ti che non te la vedarè mai...» Ed eccomi qua, valle delGulistan, Afghanistan centrale, in testa quello strano copricapo conla penna che per noi alpini è sacro. Se potessi ascoltarmi, ti direi«visto, nonno, che te te si sbaià...»“Matteo Miotto, 24 anni di Thiene, venne ucciso da un cecchino men-tre montava di guardia alla base “Snow”. Era l’ultimo giorno del 2010.

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Le Forze armate innegabilmente hanno avuto un ruolo molto impor-tante nella nascita e nello sviluppo del nostro Paese. La sua stessaunificazione, avvenuta 150 anni fa, pur se ha trovato il suo avvio daimoti popolari è stata poi frutto delle campagne combattute dall’Eser-cito piemontese, prima, e italiano, poi. Anche la guerra di liberazione,che ha ridato libertà e democrazia al nostro popolo, ha visto comeprincipali attori i militari che hanno combattuto nel Corpo di Libe-razione Nazionale e nelle formazioni partigiane. Parafrasando Fran-cesco II di Borbone, si può dire senza timore di smentita che l’Italiadi oggi è anche “frutto della punta delle sue baionette”.Io sono nato e cresciuto in una città di confine, Gorizia, la cui storiaè fittamente intrecciata con le vicende belliche e post belliche delnostro Paese. Teatro di aspri combattimenti durante la 1^ guerramondiale, il suo territorio è profondamente segnato da quegli episodiche hanno visto migliaia di combattenti fronteggiarsi aspramenteper tre anni. Ruderi di vecchie postazioni e trincee, residuati bellici,monumenti eretti a ricordo di chi si immolò su entrambi i fronti perla propria patria, hanno segnato la mia adolescenza dandomi quellaspinta emotiva che, una volta maturata, mi ha portato a frequentarel’Accademia Militare. Il mondo di allora era caratterizzato dalla con-trapposizione dei due blocchi: quello occidentale e quello orientale.La letteratura dell’epoca era ricca di storie, saggi e romanzi che fa-cevano sentire l’immanenza di un conflitto mondiale ma che con-temporaneamente, descrivendone gli effetti catastrofici per l’interaumanità, lo relegavano ad un ipotetico futuro che mai si sarebbe rea-lizzato. Ciò nella mia mente era ancor più accentuato dal fatto che,nel mio girovagare per le campagne circostanti la città, spesso miimbattevo nei militari che presidiavano permanentemente le posta-zioni poste a difesa della pianura friulana. Erano giovani soldati dileva che passavano le proprie giornate a manutenzionare armi edequipaggiamenti che avrebbero dovuto utilizzare qualora l’invasoresi fosse materializzato alle porte di casa. Una sorta di Fortezza Ba-stiani. Con queste premesse nel 1978 sono partito per Modena e, nel corsodei primi anni di carriera, mi sono sentito un po’ “Tenente Drogo”.Mi addestravo per difendere il mio Paese ma, in cuor mio, sapevo chei “Tartari” non sarebbero mai arrivati.Da allora molte cose sono cambiate. Dopo la cosiddetta caduta delMuro di Berlino molte certezze sono venute meno. Non è più chiaro

IL “TENENTE DROGO”È FUORI TEMPO

Massimo Fogari

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chi è il buono e chi il cattivo, chi sta con chi. E lo scenario interna-zionale, oggi, presenta grande incertezza a causa di una profondalinea di discontinuità fra i Paesi. Terminata ogni forma di tensione inEuropa con la fine della guerra fredda e con l’adesione di gran partedei suoi stati all’Unione, si è determinata la necessità di garantireuna sufficiente condizione di legalità nel mondo. La sicurezza e ladifesa delle società e dei cittadini tendono a porsi più che in terminidi protezione delle frontiere, in termini di proiezione di stabilità inaree dove si originino rischi diretti o indiretti per il Paese e per le al-leanze, o le organizzazioni a cui esso ha aderito e delle quali condi-vide valori e finalità. In questo contesto, si rende sempre più spessonecessario l’uso di una forza militare che, agendo sotto l’egida delleorganizzazioni internazionali, riporti pace e sicurezza nelle aree dimaggiore crisi. Per dirla con le parole di Dino Buzzati, oggi i Tartarisi sono materializzati.Il nuovo scenario mondiale, caratterizzato non solo dalla globalizza-zione economica ma anche da quella del terrorismo e della crimina-lità organizzata, vede l’Italia coinvolta in prima linea per le suecaratteristiche geografiche ed economiche. Infatti, il nostro Paese hauna prevalente economia di trasformazione che dipende dall’afflussodelle materie prime dall’estero, ed è immerso nel mare Mediterraneoattraverso cui passano le principali linee di comunicazione. Inoltre,per la sua posizione geografica, l’Italia si trova su una vera e proprialinea di frattura tra mondo globalizzato e reso stabile nelle propriestrutture statuali e mondo in via di sviluppo, reso instabile da tensionidi carattere etnico, storico ed economico. È quindi interesse primariodell’Italia intervenire a fianco della comunità internazionale per pre-venire lo scoppio di nuovi conflitti, ovvero di ricomporre quelli esi-stenti, ed evitare che terrorismo internazionale e criminalitàglobalizzata mettano in pericolo lo sviluppo e l’esistenza stessa dallanostra nazione. In tal senso ogni tipo di intervento di questo genereall’estero è coerente con l’articolo 11 della nostra Costituzione. L’Italia ha oggi circa 7.500 militari impiegati in azione. Ma in taluneoccasioni se ne sono contati anche più di 10.000 in difficili teatrioperativi che vanno dai Balcani, al Libano, dall’Afghanistan all’Iraq,dall’Africa sahariana, al Medio-Oriente, dal Caucaso al Kashmir, sulconfine tra India e Pakistan, attraversando il Mediterraneo e il MarRosso fino al Corno d’Africa.Le moderne missioni di pace e sicurezza vedono partecipare contin-genti composti da personale e mezzi di Esercito, Marina, Aeronauticae Arma dei Carabinieri, che agiscono di concerto e in cooperazionecon personale del Ministero degli Affari Esteri, della Guardia di Fi-nanza, delle Capitanerie di Porto, del Corpo Militare e del Corpo delleInfermiere Volontarie della Croce Rossa e di altre istituzioni civili,

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in attuazione di una strategia globale che rappresenta la rispostapiù efficace alle sfide da affrontare. La missione, in questo caso, èquella di creare le condizioni di sicurezza a premessa dell’assunzionedei pieni poteri da parte di un’autorità locale legittimamente rico-nosciuta. Per la sua natura e per la tipologia delle crisi che si svi-luppano nelle diverse aree del mondo le moderne missioni richiedonoil ricorso ad azioni integrate: politiche, economiche, diplomatiche,di cooperazione con un alto grado di coordinamento multidiscipli-nare, che sempre più spesso hanno bisogno di un intervento dellacomponente militare, quale indispensabile cornice di sicurezza ecome fattore abilitante. Si tratta di operazioni sempre a connota-zione multinazionale nell’ambito delle strutture di sicurezza inter-nazionali (ONU, UE, NATO). Operazioni che sono caratterizzate dauna spiccata multidisciplinarietà e da una spinta connotazione in-terforze e multinazionale.Gli attuali scenari internazionali conferiscono alle operazioni militariconnotazioni “nuove”, non riscontrabili in quelle del passato. Essi ri-chiedono alle Forze Armate di confrontarsi con realtà del tutto di-verse rispetto a quelle tipiche del confronto tra blocchi contrapposti.I militari, oramai, non operano più tanto “contro” qualcuno ma piut-tosto “a sostegno” o “in favore” di qualcuno. L’obiettivo oggi è con-tenere le violenze, proteggere gli insediamenti civili, assicurarne ibisogni primari e garantire sufficiente sicurezza per consentire diriaffermare la presenza dello Stato.Il focus delle moderne operazioni è costituto dalla popolazione. Senzail suo appoggio, o quantomeno senza la sua neutralità, non è possi-bile conseguire il controllo stabile del territorio che consenta di crea-re le premesse per la ricostruzione del Paese.Nel nuovo contesto che si è venuto a delineare, le Forze Armatehanno saputo con celerità individuare le nuove esigenze di sicurezzadel Paese e, di conseguenza, promuovere la riformulazione di unnuovo Modello di Difesa ora incentrato sul reclutamento professio-nale. Quelle di oggi sono Forze armate configurate per l’assolvimentodi un’ampia tipologia di missioni a varia intensità, caratterizzateanche da elevate capacità expeditionary ed addestrate ad operare inun contesto internazionale. La professionalità, la dedizione, lo spiritodi sacrificio e l’elevata umanità sono gli elementi che caratterizzanoin ogni circostanza l’operato dei suoi componenti. Uomini e donneche, come dimostrano i numerosi attestati di riconoscenza a livellointernazionale, con il loro operato salvaguardano gli interessi nazio-nali del nostro Paese e forniscono alle popolazioni presso cui operano,la speranza di un futuro migliore.Oggi l’immagine che scorre davanti ai miei occhi non è più quella delTenente Drogo ma quella di un Capitano della Brigata “Sassari” che

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ho conosciuto a Herat. L’Ufficiale era stato ferito ad una spalla nelcorso di un combattimento a Bala Murghab e si trovava da poco ri-coverato presso il “Role 2”. Raccontandomi la sua esperienza, avevaconcluso con un accorato appello perché io, generale, “parlassi conqualcuno” per non farlo rimpatriare. Voleva ritornare dai propri uo-mini e continuare a servire il nostro Paese in quel lontano lembo diterra. Credeva nella sua missione, sentiva il peso delle proprie re-sponsabilità e avvertiva forte il senso di appartenenza al Corpo. Èquesto il Tenente Drogo di oggi: un militare che non attende più cheil nemico si materializzi alle porte di casa ma lo va a combattere lon-tano dai confini nazionali, prima che la nostra sicurezza venga messain pericolo.

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Il quadro internazionale di riferimento continua ad essere saturodi una elevata instabilità dovuta a numerose crisi regionali. Allostesso tempo il quadro non può definirsi consolidato a causa dellanatura mutevole delle situazioni di tensione interstatuale, accen-tuate da una probabile interazione con gli effetti ancora persistentiderivanti da una crisi finanziaria a livello globale. Alcune aree diparticolare importanza per la Nazione, sia per vicinanza geograficasia per interessi specifici, presentano notevoli criticità, in partico-lare nell’area del Mediterraneo allargato, comprendente i Balcani,l’Est Europeo, il Caucaso, il nord Africa, il Corno d’Africa, il Vicinoe Medio Oriente e il Golfo Persico. La globalizzazione e l’intercon-nessione geo-economica fanno sì che situazioni di crisi e di insta-bilità in queste aree abbiano effetti diretti ed indiretti sullasicurezza, anche interna, e sugli interessi vitali del Paese. Pertanto,il compito prioritario di difesa dello Stato assume una connotazionepiù estensiva, ovvero a più ampio raggio, che si integra con il com-pito assegnato alle Forze armate di operare al fine della realizza-zione della pace e della sicurezza in conformità alle regole deldiritto internazionale e alle determinazioni delle organizzazioni in-ternazionali cui l’Italia fa parte; è in questo contesto che la capacitàdi proiettare le forze al di fuori dei confini nazionali assume unruolo di fondamentale importanza. Le missioni multinazionali incorso sono operazioni gestite direttamente dalle Nazioni Unite o,su suo mandato, dalla NATO o Unione Europea (EU), oppure opera-zioni multilaterali o di cooperazione internazionale di assistenzatecnica come illustrate nella foto di apertura. Di seguito verrannodescritte alcune delle più importanti.

ISAF INTERNATIONAL SECURITY ASSISTANCE FORCEEUPOL AFGHANISTANLa missione ha lo scopo di condurre operazioni militari in Afghani-stan secondo il mandato ricevuto, in cooperazione e coordinazionecon le Forze di Sicurezza afgane ed in coordinazione con le Forzedella Coalizione, al fine di assistere il Governo Afgano nel mante-nimento della sicurezza, favorire lo sviluppo delle strutture di go-verno, estendere il controllo del governo su tutto il Paese edassistere gli sforzi umanitari e di ricostruzione nell’ambito dell’im-plementazione degli accordi di Bonn e di altri rilevanti accordi in-ternazionali. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha

LE PRINCIPALI MISSIONI ALL’ESTERO

Pier Vittorio Romano

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Herat (Afghanistan) FSB – Forward Support Base - sx CH 47 Chinook e dx A129 Mangusta

Mazar i Sharif (Afghanistan) -Tornado IDS in linea volo

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approvato in data 20 dicembre 2001 la Risoluzione n. 1386 con laquale ha autorizzato il dispiegamento nella città di Kabul ed areelimitrofe, sotto il Cap. VII della Carta delle Nazioni Unite, di unaForza multinazionale denominata International Security AssistanceForce (ISAF). Dall’11 agosto 2003, la NATO ha assunto la responsa-bilità della condotta dell’operazione. Nell’ambito della rotazionedei comandi NATO nella condotta di ISAF, l’Italia, dal 4 agosto 2005al 4 maggio 2006, ha assunto la leadership dell’ISAF VIII, schierandoin Afghanistan il Comando NRDC-IT (NATO Rapid Deployable Corps-Italy) ed i relativi supporti tattico-logistici. Dopo il periodo di co-mando dell’operazione da parte del Regno Unito (ISAF IX), dal 4

febbraio 2007 la leadership di ISAF X è stata assunta da un Coman-do “composite”, formato da personale di staff proveniente dagliStanding HQ della NATO (NRDC e ARRC) nonché da personale delleNazioni che contribuiscono all’operazione. Il Comando di ISAF X, apartire da tale data, è stato assunto da un Generale statunitense.A giugno 2009, con il Generale USA McChrystal, quale Comandantedi ISAF, viene adottata la Counter Insurgency Strategy che rivolu-ziona l’approccio della NATO nella lotta al terrorismo e nella stabi-lizzazione dell’Afghanistan. Il successo dell’operazione si misura in

Afghanistan - Bala Murghab

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termini di conquista del consenso della popolazione a favore delleforze della coalizione e contestuale anemizzazione di quello a fa-vore dell’insorgenza. Si procede anche alla riarticolazione di ISAFprevedendo un Comando ISAF strategico, ma schierato sul campo,un ISAF Joint Command dal quale dipendono 6 Regional Commandsin cui è suddiviso l’Afghanistan, il Comando del Kabul Afghan In-ternational Airport (KAIA) ed il Comando per l’addestramento NTM-A. Nell’ambito di tale struttura, all’Italia sono state assegnate leimportanti posizioni di ISAF HQ Deputy COS Stability e successiva-mente quello di Deputy COM IJC. Parallelamente si sviluppa anchela NTM-A con il fine di procedere alla formazione e addestramentodi forze di sicurezza (ANSF) e di polizia (ANP) afgane. Particolarerilevanza assumono i progetti “Reintegration and Reconciliation”,riguardanti l’integrazione nella comunità afgana degli ex combat-tenti dell’insorgenza, ed “embedded partnering”, mirato allo svilup-po di una maggiore professionalizazione delle forze afgane nelprossimo futuro. Infine, a luglio 2010, sono stati emanati i criteri el’articolazione del dispositivo per l’implementazione della fase 4dell’operazione ISAF - Transition - volta a concretizzare un gradualepassaggio di responsabilità e competenze dalle forze ISAF alle au-torità afgane, sino alla completa autonomia che rappresenterà lapremessa della fase 5 - re-deployment - delle forze della coalizione.Il contingente nazionale è schierato nelle aree di Kabul ed Herat.Nell’area di Kabul esso è articolato su un contingente dell’Esercito,inserito nel Regional Command Capital. Nell’area di HERAT operaun contingente nazionale interforze presso il Regional CommandWest, l’Italia detiene la leadership e ha responsabilità di Comandosui 4 PRT (Provincial Reconstruction Team) operanti nell’area Ovest,il PRT a guida italiana, e l’FSB (Forward Support Base), a guida spa-gnola. Il contingente nazionale di stanza ad Herat si compone diassetti di manovra, Force Protection, supporto, oltre ad assetti aereida trasporto C-130J/2 e C27, aerei per missioni ISR ed elicotteri.Nel quadro della riforma della Polizia afgana, l’Unione Europea hasviluppato la missione “EUPOL AFGHANISTAN” che si inserisce nel-l’ambito dell’iniziativa PSDC (Politica di Sicurezza e Difesa Comune).La missione di polizia, lanciata il 15 giugno 2007, ha lo scopo di svi-luppare le attività di training, advising e mentoring a favore del per-sonale afgano destinato alle unità dell’Afghan National Police (ANP),e dell’Afghan Border Police (ABP), essa prevede lo schieramento inTeatro di unità dell’Arma dei Carabinieri e della Guardia di Finanza.L’Italia, nell’ambito di un’iniziativa bilaterale, fornisce uomini dellaGuardia di Finanza anche per l’addestramento della Polizia di fron-tiera Afgana e dell’Arma dei Carabinieri, che opera in Herat dal no-vembre 2006, per l’addestramento dell’Afgan National Civil Order

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Police (ANCOP) in collaborazione con il Combined Security TransitionCommand Afghanistan (CSTC-A) statunitense. Allo scopo di favorirel’immissione ed il rifornimento logistico del contingente, è stata co-stituita, all’interno dell’aeroporto di Al Bateen, nei pressi di Abu Dhabi(EAU), una Forward Operating Base (FOB), gestita da un Reparto Ope-rativo Autonomo (Task Force Air Al-Bateen) con velivoli da trasportoC-130J, cui si aggiunge ulteriore personale militare di supporto allemissioni in Afghanistan ed in Iraq, impiegato a Tampa (USCENTCOM)ed in Bahrein (USNAVCENT).

UNIFILUNITED NATIONS INTERIM FORCE IN LEBANONLa missione ha lo scopo di assistere il Governo libanese ad eserci-tare la propria sovranità sul Libano, sostenere le Forze Armate li-banesi nelle operazioni di stabilizzazione nell’Area d’Operazioneaffinché non sia utilizzata per alcun tipo d’atto ostile, nonché perdare supporto al Governo libanese al fine di garantire la sicurezzadei propri confini e dei valichi di frontiera al fine di prevenire osti-lità e creare le condizioni per giungere ad una pace duratura. Lamissione, in corso dal marzo 1978, sorveglia la fascia meridionaledel Libano assicurando le condizioni di pace. A seguito di un attaccoalle Israeli Defence Force (IDF), avvenuto il 12 luglio 2006 a Suddella Blue Line, Israele iniziò una campagna militare in Libano mi-rata a colpire le milizie di Hezbollah che in risposta condussero at-tacchi contro infrastrutture civili israeliane nel Nord di Israele.L’escalation delle ostilità portò le IDF a condurre, per 34 giorni, unavasta campagna militare nel nord della Blue Line contro le miliziearmate di Hezbollah. Durante questo periodo un’intensa attività di-plomatica internazionale, tesa al conseguimento di una tregua odel cessate il fuoco per la successiva creazione di stabili condizionidi pace, culminò con la Risoluzione n. 1701 dell’11 agosto 2006,che sancì la cessazione delle ostilità a partire dal 14 agosto 2006.La Risoluzione n. 1701 ha autorizzato, inoltre, il potenziamentodell’UNIFIL, fino ad un volume organico massimo di 15.000 uominied il rafforzamento dei suoi compiti e del suo mandato che rimanesotto il Capo VI della Carta delle Nazioni Unite. Attualmente l’Headof Mission (Force Commander) è il Gen. D. E.I. Paolo Serra, che èsucceduto il 28 gennaio 2012 al Generale spagnolo Asarta, il qualesostituì il Generale Graziano il 28 gennaio 2010 che vide, per trevolte, il suo mandato rinnovato. Allo scopo di contribuire all’incre-mento del pacchetto di forze a disposizione di UNIFIL per l’assolvi-mento dei compiti assegnati, in accordo alla Risoluzione n. 1701,partì dall’Italia un Gruppo Anfibio interforze (Joint Amphibious TaskForce Lebanon – JATF-L).

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La JATF-L condusse, nei giorni 2 e 3 settembre 2006, lo sbarco dellaJLF-L, formata da 1.000 unità circa, presso la spiaggia di Tiro ed ilporto di Naqoura. Dopo le operazioni di sbarco, l’incisiva azioneitaliana attraverso il Comando della Maritime Task Force, consentìla rimozione del Blocco Navale imposto dalle Autorità israeliane.Ciò pose le condizioni di un consolidamento della fragile treguaappena stipulata tra Israele e Libano, ripristinando la libertà dellanavigazione marittima ed aerea e, di conseguenza, le normali con-dizioni di pace per la popolazione libanese. Il 15 ottobre 2006 av-venne la cerimonia di passaggio di consegne tra la interim

“Maritime Task Force”, a guida italiana (Ammiraglio di Divisione DeGiorgi) e la “Maritime Task Force” a comando tedesco. Nel corsodel 2010 il dispositivo di AOR di UNIFIL ha subito una rimodula-zione, in particolare nel settore di responsabilità nazionale (SectorWest), l’Unità francese (FRANCHBATT) è stata posta alle dirette di-pendenze del Force Commander di UNIFIL, quale Force CommanderReserve (FCR). Dal 1 novembre 2011 il contributo nazionale si è ri-dotto da 1780 a 1080 unità. La componente navale (Maritime TaskForce) è costituita da un dispositivo multinazionale comprendenteunità navali di diverse nazionalità con compiti di sorveglianza e di

Velivolo AV8B in fase di decollo dalla portaerei

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monitoraggio del traffico mercantile al largo delle coste libanesi.La missione assegnata al comando della MTF prevede la condottadi operazioni di interdizione marittima in cooperazione con la Ma-rina libanese, al fine di prevenire attività illegali, nonché il pattu-gliamento e la sorveglianza delle acque territoriali libanesi.

KFOR KOSOVO FORCEEULEX KOSOVO EUROPEAN UNION RULE OF LAW MISSION IN KOSOVOLa missione è legittimata dalla Risoluzione del Consiglio di Sicurezzadelle Nazioni Unite n. 1244 del 10 giugno 1999. È condotta da unaforza della NATO denominata KFOR (Kosovo Force), che ha il compitodi continuare a contribuire al mantenimento della sicurezza e dellalibertà di movimento (Safe and Secure Environment and Freedom ofMovement), supervisionare il MTA (Military Technical Agreement) conla Serbia in previsione della sottoscrizione di un Peace Settlement(accordo di pace), assistere lo sviluppo delle Istituzioni locali al finedi migliorare la stabilità nella regione, condurre attività di comuni-cazione a sostegno della missione, supportare e cooperare con le Isti-tuzioni Internazionali e, su ordine, passare rapidamente dalla“Deterrent Presence“ alla “Minimum Presence“.KFOR è iniziata all’alba del 12 giugno 1999. Il contingente italianoentrò in Kosovo alla mezzanotte dello stesso giorno e raggiunse Pecil mattino del 14 giugno. Il contingente era stato precedentementerischierato in FYROM già dal dicembre 1998, per assicurare, nel-l’ambito dell’operazione NATO “Joint (Determined) Guarantor” postasotto il Comando di ARRC (ACE Rapid Reaction Corps), l’evacuazio-ne in emergenza degli osservatori OSCE presenti in Kosovo. In unsecondo tempo le forze di ARRC sono state impegnate in supportodelle organizzazioni umanitarie che hanno prestato assistenza aiprofughi usciti dal Kosovo e nell’addestramento per la futura mis-sione di pace in Kosovo. Dal 01 settembre 1999 l’operazione NATO in Albania “Allied Har-bour – AFOR” è stata sostituita dall’operazione NATO “Communi-cation Zone West” (COMMZ-W) a guida italiana e dipendente dalComando di KFOR. Tale dipendenza ha avuto termine nel mese digiugno 2002, quando in Albania venne costituito il “NATO Head-quarters Tirana” – NHQT. In occasione delle elezioni per il rinnovodell’Assemblea Parlamentare svoltesi il 23 ottobre 2004, la NATOaveva previsto lo schieramento in Teatro, nel periodo 11 ottobre -6 novembre 2004, della Riserva Strategica e della Riserva Operativa(OTHF – Over The Horizon Forces; forze di riserva a disposizionedella Nato) nell’ambito della “Determined Commitment 2004“. Pertale esigenza, l’Italia aveva schierato in Kosovo un’aliquota del Reg-gimento San Marco ed il 187° Reggimento Paracadutisti per circa

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Pec (Kosovo) - Villaggio Italia

Pristina (Kosovo) - Esercitazione per il controllo della folla - Carabinieri MSU

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750 unità. Alla fine del 2004, in occasione del termine dell’opera-zione “Joint Forge” in Bosnia Erzegovina, con il passaggio delle re-sponsabilità delle operazioni militari dalle forze NATO (SFOR) aquelle della Unione Europea (EUFOR), le autorità NATO decisero diriunire tutte le operazioni condotte dalla NATO nell’area balcanicain un unico contesto operativo, definito dalla Joint Operation Area,dando origine, il 5 aprile 2005, all’Operazione “Joint Enterprise” checomprendeva le attività di KFOR, l’interazione NATO-UE, e i NATOHQ di Skopje, Tirana e Sarajevo. All’operazione “Joint Enterprise” in Kosovo, ex operazione “JointGuardian”, parteciparono 35 Paesi. Dal 1° settembre 2005 al 1° set-tembre 2006 il Generale di Corpo d’Armata Giuseppe Valotto è statoil Comandante della KFOR. Il 15 maggio 2006, a seguito della tra-sformazione della Multinational Brigade - South West in Multina-tional Task Force - South (MNTF-S) ed MNTF-West a guida italiana,è stata completata la ristrutturazione che ha visto la trasformazio-ne delle Forze militari internazionali in Kosovo da 4 MultinationalBrigades a 5 Multinational Task Forces, dotate di particolare fles-sibilità operativa ed in grado di intervenire “Kosovo wide“, rette cia-scuna da un Generale di Brigata. Le 5 MNTFs avevano base aMitrovica (NE), Pristina (C), Gnjlane (E), Prizren (S) e Belo Polje -PEC (W) con Aree di Responsabilità Informativa (AOIR) anziché Areedi Responsabilità (AOR). Al fine di accrescere la flessibilità di impiego e la capacità di rispo-sta a fronte di crisi improvvise, l’Alleanza ha completato, nell’estate2007, una ristrutturazione di KFOR che, senza prevedere riduzionidelle forze operative della missione, ha visto il passaggio dalla pre-cedente struttura, articolata su quattro Brigate multinazionaliaventi ognuna la propria area di competenza, a cinque Task Forces,di cui una a guida italiana, più una Forza di Reazione Rapida (QuickReaction Force). In relazione agli sviluppi di situazione connessi conla dichiarazione di indipendenza del Kosovo, proclamata unilate-ralmente il 17 febbraio 2008, e la successiva entrata in vigore dellarelativa Costituzione il 15 giugno 2008, la presenza delle forzeNATO è stata incrementata. Dal 10 gennaio 2010, pur rimanendo inalterati missione e compiti,il livello ordinativo delle Multinational Task Forces è stato ridottoa Multinational Battle Groups (MNBG) su base Reggimento in virtùdella graduale cessione di responsabilità e attraverso la gradualeriduzione delle forze in Teatro, da attuare in tre step successivi. Al-l’operazione “Joint Enterprise” in Kosovo partecipano attualmente31 Paesi. Il dispositivo di KFOR prevede dal 1° marzo 2011 due Mul-tinational Battle Groups, di cui uno a conduzione italiana, ed unaconsistente riserva nella quale è inserito il Reggimento Carabinieri

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Le missioni italiane all’estero

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MSU (Multinational Specialized Unit) con sede a Pristina. Allo stes-so modo sono stati costituiti degli organismi denominati JRD’s(Joint Regional Detachment) con il compito raccolta delle informa-zioni e collegamento con le autorità locali e le Organizzazioni In-ternazionali che agiranno quali Comandi Regionali impiegando iLiaison Monitoring Team (LMT). Attualmente i JRD’s presenti in Ko-sovo sono cinque.La missione European Union Rule of Law Mission in Kosovo (EULEX KO-SOVO) nasce con un’”Azione Comune” adottata dal Consiglio per gli AffariGenerali dell’Unione Europea del 4 febbraio 2008. Il Comando ha sede inPristina e l’Italia partecipa alla missione sin dall’inizio, il 9 dicembre 2008.EULEX KOSOVO ha il compito di assistere e supportare le autorità del Ko-sovo attraverso l’impiego di un dispositivo di circa 3.000 unità, di cui 1900UE e 1100 locali, prevalentemente appartenenti alle Forze di Polizia, Do-gana e settore Giustizia, impiegati per sviluppare di un sistema multi-et-nico e indipendente di Giustizia e realizzare dei comparti di Polizia eDogana in linea con gli standard internazionali. Attualmente l’Italia haautorizzato la presenza di personale dell’Arma dei Carabinieri, impiegatoin incarichi di staff, e nell’ambito della Special Police Unit (SPU), è presentepersonale della Guardia di Finanza e del Ministero della Giustizia.

Monastero Visoki Dacani (Kosovo)

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