INFORMAZIONE E GIUSTIZIA PENALE: ESIGENZE DI … · 2018. 9. 20. · bacheca di un social network...
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PAOLO PITTARO
Docente di Diritto Penale nell’Università di Trieste
INFORMAZIONE E GIUSTIZIA PENALE: ESIGENZE DI PROFESSIONALITÀ()
1.– Il tema in oggetto (Informazione e giustizia penale), richiama subito alla mente
fondamentali princìpi costituzionali proprio per l’elevato rango degli interessi in gioco.
Innanzi tutto il concetto stesso di giustizia e, in particolare, di quella penale. E con tale
termine alludiamo proprio alla funzione del rendere giustizia, che per costituzionalisti e teorici del
diritto è tratto caratterizzante della sovranità stessa dello Stato, intesa – assieme al territorio ed
alla popolazione – come elemento costitutivo dello stesso. Anzi, secondo certi filosofi (non solo del
diritto: e la doverosa citazione va a Vittorio Mathieu), proprio la prerogativa di effettuare la
giustizia penale rimane l’unico elemento distintivo della sovranità dello Stato: il potere della spada
accanto a quello della bilancia.
Se la giustizia (anche penale), allora, rientra nel concetto di sovranità dello Stato, risalta
con immediatezza l’art. 1, comma 2, Cost., il quale afferma che “la sovranità appartiene al popolo,
che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, ove lo Stato-apparato appare come
funzione servente dello Stato-comunità. Non a caso, dunque, l’art. 101, comma 1, Cost., sancisce
che “la giustizia è amministrata in nome del popolo”, e, al capoverso, che “i giudici sono soggetti
solamente alla legge”: legge come espressione di un ordinamento democratico e rappresentativo
come il nostro.
Peraltro, se la sovranità appartiene al popolo, questo per esercitarla adeguatamente deve
essere informato: ecco, dunque, il fondamento costituzionale dell’attività giornalistica che ha il
compito istituzionale di informare.
Possiamo anche ricordare l’aforisma della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo
(anche se la paternità di tale espressione da qualcuno viene messa in dubbio, attribuendola, forse,
a Winston Churchill) alla cui stregua “il giornalista è il cane da guardia della democrazia”. Donde,
() Relazione tenuta il 12 giugno 2017 a Trieste per i Corsi di Formazione dell’Ordine dei Giornalisti del Friuli-Venezia Giulia.
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come si vedrà, la particolare attenzione, il deciso rilievo (con linguaggio non giuridico potremmo
dire: la simpatia) rivolta dalla Corte europea all’attività giornalistica.
Ed a tale proposito si può ricordare che, secondo la definizione di Norberto Bobbio, la
democrazia è “il governo del potere pubblico in pubblico”, posto che, come già aveva acutamente
rilevato Cesare Beccaria, “il segreto è il più forte scudo della tirannia”.
Ritornando alla nostra Costituzione, si deve anche rilevare che al suo centro viene posta la
persona e non lo Stato, ove la Repubblica, ai sensi dell’art. 2, ri-conosce i diritti inviolabili
dell’uomo, e, quindi, pre-esistenti all’ordinamento giuridico. Appare, pertanto, scontato che lo
stesso esercizio della giustizia penale sia avvolto da una serie di garanzie poste a tutela
dell’individuo, espresse, schematicamente, dagli artt. 24, 25, 27 e 111 Cost.: tutte norme che qui
non interessano e sulle quali non possiamo soffermarci. Ma non solo: proprio ai sensi dell’art. 2
Cost. il sistema penale deve garantire, proteggere i diritti fondamentali dell’uomo, quali, ad
esempio, la sua libertà, la sua dignità, la sua onorabilità, e via dicendo. E, quindi, punire la loro
lesione.
I mass media, da loro canto, sono i mezzi di comunicazione, ossia attinenti ad un rapporto
fra soggetti: rapporto interpersonale ovvero diretto indifferentemente a tutti i consociati. Un
rapporto comunicativo che trova risalto nella Carta costituzionale: nella prima accezione nell’art.
15, ove afferma che “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di
comunicazione sono inviolabili” (comma 1) e che “la loro limitazione può avvenire soltanto per
atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalle legge” (comma 2), nella
duplice riserva: di legge e di giurisdizione; e nella seconda accezione nell’art. 21, laddove dispone,
al primo comma, che “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la
parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, intendendosi racchiuso in tale accezione pure il
diritto di informazione e di cronaca.
Non a caso, dunque, il capoverso dell’art. 21 afferma che la stampa non può essere
soggetta ad autorizzazioni o censure, mentre i commi successivi dispongono in caso di delitto le
modalità di un sequestro autorizzato espressamente dalla legge sulla stampa e con la duplice
riserva, anche in questo caso, di legge e di giurisdizione.
Peraltro, l’affermazione della libertà di espressione, seppur con diversa estensione, parte
da lontano, dal periodo illuministico in poi, sancita da una serie imponente di Atti, Carte
internazionali sui diritti dell’uomo, quali:
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789): art. 11;
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Primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America (1791): art. 28;
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948): art. 10;
Convenzione europea dei diritti dell’uomo (1950): art. 10, poi ripresa dalla
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (2007): art. 11.
Se, allora, ambedue i concetti (mezzi di informazione ossia attività giornalistica da un
canto, e giustizia penale, dall’altro canto) sussistono, alla fin fine, in funzione del bene persona,
intesa sia uti singolus, sia uti socius, e non possiamo rilevare, in astratto, una supremazia assoluta
dell’uno rispetto all’altro, o viceversa, è gioco-forza che, nella possibile ipotesi di un loro conflitto,
si debbano trovare dei punti di equilibrio, ove, nelle singole situazioni concrete, l’una potrà
incontrare limiti e disciplina a favore dell’altra, e viceversa, ma, insieme, sempre nel rispetto
globale della tutela dei diritti dell’individuo e della comunità.
Illuminante, a tale proposito, l’art. 10 della citata Convenzione europea dei diritti
dell’uomo, che, sotto la rubrica “libertà di espressione” così suona:
1. Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la
libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da
parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli
Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, cinematografiche o
televisive.
2. L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle
formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure
necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla
pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o
della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di
informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario.
2.– In tale contesto vari sono i piani su cui può operare tale possibile incontro/scontro. Si
pensi, in primis, al reato di diffamazione commesso attraverso i media: e non alludiamo solamente
alla stampa tradizionale, ma anche ai mezzi di comunicazione informatici o telematici.
Fermiamoci, dunque, sul reato di diffamazione. L’art. 595 c.p. prevede la reclusione fino ad
un anno ovvero la multa fino a 1.032 euro per chi, comunicando con più persone, offende l’altrui
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reputazione. La pena è della reclusione fino a due anni ovvero la multa fino a 2.065 euro se
l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato. Se, poi, l’offesa è recata col mezzo della
stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in un atto pubblico, la pena è della
reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516 euro.
A tale proposito, di recente la Cassazione ha affermato che inserire un commento su una
bacheca di un social network (Facebook) significa dare al suddetto messaggio una diffusione che
potenzialmente ha la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, sicché laddove
questo sia offensivo, deve ritenersi integrata la fattispecie aggravata del reato di diffamazione a
mezzo stampa (Cass. pen., Sez. I, 8 giugno 2015, n. 24431): una pronuncia che sta facendo
discutere. Parimenti, la Suprema Corte ha pure affermato (Cass. pen., Sez. I, 11 luglio 2014, n.
37596) che la piattaforma sociale Facebook di un utente deve considerarsi luogo sì “virtuale”, ma
aperto al pubblico, ossia all’accesso di chiunque utilizzi la rete e, che, pertanto, integra la
contravvenzione di cui all’art. 660 c.p. (Molestia o disturbo alle persone) l’invio di messaggi
molesti, “postati” sulla pagina pubblica di Facebook della persona offesa.
Peraltro, l’art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, recante “Disposizioni sulla stampa”,
dispone che nel caso di diffamazione commessa a mezzo della stampa, consistente
nell’attribuzione di un fatto determinato, si applica la pena della reclusione da uno a sei anni e
quella della multa non inferiore a euro 258.
Il quadro normativo si completa con l’art. 57 c.p., il quale, a proposito dei reati commessi
col mezzo della stampa periodica, recita che “salva la responsabilità dell’autore della
pubblicazione e fuori dei casi di concorso, il direttore o il vice-direttore responsabile, il quale
omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire
che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati, è punito, a titolo di colpa, se un reato è
commesso, con la pena stabilita per tale reato, diminuita in misura non eccedente un terzo. Una
non dissimile responsabilità penale viene attribuita, nell’art. 57-bis, a seconda dei casi, all’editore
ovvero allo stampatore, ove trattasi di reati commessi col mezzo della stampa non periodica.
Tale quadro normativo, specie dopo casi giudiziari di notevole risonanza (si pensi, ad
esempio, al caso Sallusti), è oggetto di svariate critiche. Da un lato, viene stigmatizzata la severità
della sanzione, richiamandosi anche all’impostazione sul tema della Corte europea dei diritti
dell’uomo, che in riferimento all’art. 10 della CEDU, aveva escluso la pena detentiva per il reato di
diffamazione: ed alcuni segnali in tal senso vengono, di recente, anche da parte della Suprema
Corte (Cass. pen., sez. V, 13 marzo 2014, Strazzacapa).
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D’altro lato, si sottolinea come la responsabilità del direttore venga ad essere tale per
“posizione” (e, quindi al limite di una responsabilità oggettiva), anche ammettendo, come in realtà
dovrebbe essere, un’indagine sull’effettiva omissione del dovuto controllo, non essendo per costui
materialmente possibile visionare le bozze di un giornale delle dimensioni attuali, specie se trattasi
di un periodico nazionale con varie edizioni con pagine locali distinte, tenuto anche conto che non
è possibile attuare, in quanto non prevista dalla legge, una delega di funzioni.
Donde le proposte di riforma. Attualmente, il d.d.l. presentato dal deputato Costa, dopo
essere stato approvato dalla Camera (17 ottobre 2013) e modificato dal Senato (29 ottobre 2014),
ritornato alla Camera ed ulteriormente modificato (24 giugno 2015), ora è nuovamente approdato
al Senato, ove è sottoposto all’esame in Commissione (16 maggio 2017), fra l’altro, elimina la pena
detentiva per la diffamazione anche giornalistica, ammette l’ipotesi di una rettifica che
estinguerebbe il reato, ed introduce la possibilità, per il direttore responsabile, di delegare ad altro
giornalista professionista il controllo a lui affidato. E, nell’insieme, la normativa viene ad
equiparare i reati commessi attraverso la stampa tradizionale con quelli delle testate giornalistiche
on line e di quelle radiofoniche o televisive.
Nell’attesa di una riforma della normativa, anche penale, sulla stampa, e mentre assistiamo
a tale palleggio della relativa proposta di legge fra i due rami del parlamento, soffermiamoci sul
reato di diffamazione di cui all’art. 595 c.p., con particolare riferimento all’attività giornalistica.
3.– Il bene giuridico tutelato dalla norma è la “reputazione”, la quale altro non è che
l’onore inteso in senso oggettivo ovverosia l’opinione e la valutazione dei consociati rispetto alla
personalità morale e sociale di un individuo.
Ora è vero che la cronaca, specie quella giudiziaria, potrebbe offendere la reputazione di
un soggetto, potendo così ricadere nella fattispecie dell’art. 595 c.p., ma è altrettanto vero che il
diritto di cronaca è tutelato dall’art. 21 Cost. e dalla legge sulla stampa, per cui il giornalista
esercita un suo diritto garantito dall’ordinamento: per cui la sua condotta è scriminata, ossia
ricade nella causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p.
In ogni caso, ed è questo il punto, devono essere rispettate alcune condizioni che vanno a
reggere l’esercizio del diritto di cronaca, individuate a suo tempo dalla giurisprudenza (Cass. civ.,
18 ottobre 1984) ed oramai consolidate e riconosciute.
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Innanzi tutto, se trattasi di cronaca giudiziaria, vale il dettato dell’art. 27, comma 2, Cost., in
forza del quale l’imputato non è considerato colpevole fino alla condanna definitiva. Alla stregua,
pertanto, di siffatta presunzione di innocenza, il cronista deve astenersi da affermazioni che
anticipino la condanna o che comunque possano pregiudicare la posizione dell’indagato o
dell’imputato.
Ciò posto, le condizioni che regolano l’esercizio del diritto di cronaca sono tre: la verità, la
pertinenza e la continenza, ossia la verità del fatto, l’interesse pubblico alla notizia e correttezza
espositiva.
La verità. Il fatto deve essere vero ossia con rigorosa corrispondenza fra l’accaduto ed il
narrato. La verità non è la mezza verità, ossia tacendo, anche colposamente, altri fatti che
potrebbero mutare il significato di quelli, pur veri, riferiti.
L’esigenza di verità comporta l’oculato controllo delle fonti. Vero che esistono le c.d. fonti
privilegiate, quali gli atti ufficiali, come, nel nostro caso, quelli giudiziari, ma, in tale caso, il
resoconto dev’essere fedele al contenuto del provvedimento, senza illazioni, allusioni,
ricostruzioni o ipotesi giornalistiche che, peraltro, verrebbero a ledere la presunzione di non
colpevolezza sino alla condanna definitiva. Qui, fra le opposte tesi di accusa e difesa, vengono in
luce le “accortezze semantiche”, quali l’uso del condizionale o l’avvertenza sulla natura
progressiva e provvisoria degli accertamenti giudiziari fino alla condanna definitiva.
E qui viene in gioco la professionalità del cronista di giudiziaria, concetto sul quale
ritorneremo più volte. Alcuni casi con le relative sentenze della Cassazione.
a) Un cronista pubblica che un sindaco era stato indagato nei cui confronti era stato chiesto
il rinvio giudizio. Non vero: era solo indagato e nei suoi confronti non era stata esercitata l’azione
penale.
b) Un cronista pubblica notizia che un soggetto era stato imputato di atti sessuali a
pagamento con una minorenne, definendolo come sfruttatore della prostituzione minorile. Non
vero: il reato di sfruttamento della prostituzione non gli era stato contestato e la fattispecie
attribuitagli dal giornalista era diversa e più infamante di quella reale.
c) Un cronista pubblica che nei confronti di un avvocato era stata emessa la richiesta di
rinvio a giudizio. Non vero: gli era stata notificato, invece, l’avviso di chiusura delle indagini
preliminari, atto ben diverso dal rinvio a giudizio.
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Sin da ora possiamo già arrivare ad una prima conclusione. Il cronista di giudiziaria deve
conoscere le scansioni processuali e la corretta terminologia giuridica, che deve far parte del suo
necessario bagaglio culturale.
Mi sia consentita una parentesi. È abitudine nel contesto di tutti i mass media usare
l’espressione “reato penale”. Per il giurista e specie per il penalista suona quasi come una
bestemmia. Il reato è, necessariamente, l’illecito penale. Non esiste il reato civile o il reato
amministrativo. Dire reato penale è come dire il sole solare, la luna lunare, la terra terrestre, il
vetro vetroso e via dicendo. Una vera assurdità. Il reato è reato. Punto e basta.
Ancora alcune puntualizzazioni sulla “verità”.
a) Il caso dell’intervista. Sorge il caso ove l’intervistato usi espressioni diffamatorie verso
terzi. Secondo la giurisprudenza della Cassazione bisogna valutare l’interesse pubblico a tale
intervista, ossia se l’intervistato abbia una posizione di rilievo nella vita politica, sociale, culturale,
economica ecc. In tal caso la notizia va ad investire l’opinione, anche se diffamatoria del
personaggio intervistato. Parole diffamatorie, pertanto, da riportare in virgolato, in un
atteggiamento imparziale, e non, per usare l’espressione corretta, come un “dissimulato
coautore” dell’intervista diffamatoria.
Da questa giurisprudenza si deduce che ove l’intervista non presenti un interesse pubblico
(e ci si domanda a che scopo poi pubblicarla) e nei confronti di un personaggio non pubblico, ove
l’intervistato usi espressioni diffamatorie, l’intervistatore se ne deve apertamente dissociare, e se
questa si riferisca ad un fatto determinato, questo vada verificato.
b) Il caso della critica giudiziaria. La critica, ovviamente, è lecita come diritto all’espressione
del proprio pensiero ai sensi dell’art. 21 Cost. Tuttavia la critica, la non condivisione, deve avere
per oggetto il provvedimento giudiziario e non la persona del magistrato che lo ha emesso, nel
qual caso può ben strutturarsi il reato di diffamazione.
c) Il caso del giornalismo investigativo o d’inchiesta. Per certi versi è uno dei profili più
elevati del giornalismo, ma anche uno dei più delicati. Il richiamo della giurisprudenza, in questo
caso, è di riportare fatti (quelli scoperti nell’indagine o nell’inchiesta) dopo averli bene verificati
(specie nelle fonti). La valutazione degli stessi deve esprimersi facendo attenzione ad un corretto
linguaggio giuridico, al principio della presunzione di innocenza, e a non diffamare alcuno.
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4.– Dopo la verità: la pertinenza, ossia l’interesse pubblico alla diffusione della notizia
potenzialmente diffamatoria. Interesse pubblico nel senso che il pubblico deve essere
esattamente informato ed avere la possibilità di orientarsi, di esprimere il proprio giudizio sugli
avvenimenti, sulle persone che sono protagoniste e di trarne le debite valutazioni e conclusioni. La
notizia, insomma, contribuisce a formare l’opinione pubblica, ed ha una funzione sociale (si ricordi
l’art. 1, comma 2, Cost., ove si afferma che la sovranità appartiene al popolo, e che essa può
esercitarla se correttamente informato).
Il comporta che
a) sicuramente riferibile ad avvenimenti nazionali, ma anche
b) di portata locale o, perfino,
c) un categoria sociale
d) che esiste anche un diritto all’oblio, ossia che l’interesse deve essere attuale, anche se
connesso, ad esempio, ad un avvenimento del passato.
e) che necessariamente tutti i provvedimenti giudiziari, i procedimenti penali, sono di
pubblico interesse, posto che il rendere giustizia è una primaria funzione dello Stato e la sentenza
viene emessa in nome del popolo italiano
f) che l’homo publicus è oggetto particolare di interesse pubblico e non solo nella sua vita
ed attività pubblica, ma anche nella sua vita privata, se espressa in luogo pubblico, o se di rilievo in
quanto conflittuale con quella pubblica.
5.– Infine, dopo la verità e la pertinenza, la continenza, ossia la correttezza espositiva. Ci si
riferisce alla modalità di esposizione dei fatti (ovviamente: veritieri e di interesse pubblico).
Correttezza espositiva che impone un linguaggio limpido, senza sottintesi sapienti, accostamenti
suggestivi, tono sproporzionalmente scandalizzato o sdegnato, insinuazioni, drammatizzazione di
notizie neutre, e via dicendo.
A tale proposito la Cassazione afferma che la continenza concerne non solo il testo
letterale, ma il complesso dell’informazione, comprensivo del titolo, la veste grafica, la
presentazione.
Il che vale soprattutto in riferimento alla cronaca giudiziaria.
In definitiva, è scontato rilevare che i tre requisiti (verità, pertinenza e continenza) vanno
assieme e, anzi, si intrecciano quali parametri (e, di converso, come limiti, del diritto di cronaca).
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6.– Vogliamo ora soffermarci sugli effetti che il diritto di cronaca, esercitato dai mass
media, quale espressione della libera manifestazione del pensiero, possa avere sulla giustizia
penale, nella sua fase procedimentale, più marcatamente investigativa, ed in quella processuale:
in altri termini, se e quali limiti siano posti e penalmente sanzionati in ordine alla rivelazione degli
atti connessi e del loro contenuto, posto che tale pubblicizzazione potrebbe condizionare l’esito
delle indagini e/o del processo, influenzare il giudice del dibattimento, favorire la fuga
dell’indagato/imputato ovvero l’inquinamento delle prove, oppure ancora vulnerare i terzi nel loro
fondamentale diritto alla privacy.
Si tratta, insomma, di chiederci, in primo luogo, quali siano le norme del diritto penale
sostanziale che puniscano la violazione del segreto investigativo (tempo addietro veniva definito
come “segreto istruttorio”) e di quello processuale.
La prima disposizione da prendere in esame è l’art. 684 c.p., rubricato Pubblicazione
arbitraria di atti di un procedimento penale (come modificato dall’art. 48 della legge 24 novembre
1981, n. 689), in forza del quale “chiunque pubblica, in tutto o in parte, anche per riassunto o a
guisa d’informazione, atti o documenti di un procedimento penale, di cui sia vietata per legge la
pubblicazione, è punito con l’arresto fino a trenta giorni o con l’ammenda da euro 51 a euro 258”.
Da suo canto, la norma successiva, l’art. 685 c.p., rubricato Indebita pubblicazione di notizie
concernenti un procedimento penale, punisce con l’arresto fino a quindici giorni o con l’ammenda
da 25 a 103 euro “chiunque pubblica i nomi dei giudici, con l’indicazione dei voti individuali che ad
essi si attribuiscono nelle deliberazioni prese in un procedimento penale”.
Trattasi, pertanto, di contravvenzioni: punibili, ex art. 42, comma 4, c.p., sia a titolo di dolo
che a quello di colpa, mentre non solo la sanzione è particolarmente mite, ma essendo prevista la
pena alternativa fra l’arresto e l’ammenda, è pure possibile l’oblazione facoltativa, di cui all’art.
162-bis c.p.
Fermandoci sulla fattispecie base dell’art. 684, si noti come la struttura del precetto rinvia,
per il suo completamento, alle disposizioni del codice di rito che vietano la pubblicazione di atti o
documenti di un procedimento penale: tant’è che parte della dottrina la situa nell’ambito delle
c.d. norme penali in bianco piuttosto che in quelle meramente sanzionatorie.
La principale disposizione cui fare riferimento è l’art. 114 c.p.p., rubricato Divieto di
pubblicazione di atti e di immagini, più volte integrato e modificato (art. 14, legge 16 dicembre
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1999, n . 479; art. 10, legge 3 maggio 2004, n. 112), il quale dispone, nel dettaglio dei suoi otto
commi, il divieto di pubblicazione degli atti coperti dal segreto ovvero del loro contenuto.
Accanto a tale disposizione, l’art. 13 del D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, attinente al c.d.
processo penale minorile, vieta “la pubblicazione e la divulgazione, con qualsiasi mezzo, di notizie
o immagini idonee a consentire l’identificazione del minorenne comunque coinvolto nel
procedimento”, a meno che il Tribunale per i minorenni non proceda ad udienza pubblica dopo
l’inizio del dibattimento.
Ci si può chiedere, in ogni modo, quali siano gli atti coperti dal segreto relativamente alla
fase delle indagini preliminari. La risposta la troviamo nell’art. 329 c.p.p., rubricata, per l’appunto,
Obbligo del segreto, articolate nelle distinte ipotesi dei suoi tre commi.
7.– Di non poco conto, quindi, la complessa articolazione delle norme integrative del
precetto di cui alla fattispecie incriminatrice dell’art. 684 c.p., da cui avevamo preso le mosse, e
non solo per il gioco dei continui richiami, ma, anche e soprattutto, perché riferibile alle varie
scansioni processuali di cui agli artt. 114 e 329 c.p.p, sulle quali non possiamo soffermarci
ulteriormente, essendo già state ampiamente illustrate, nel suo intervento, dal prof. Giorgio
Spangher.
In effetti, solo tenendo presente il quadro nel suo complesso è possibile individuare il bene
protetto di tale disposizione penale. Infatti, non può più trattarsi della mera tutela del segreto
istruttorio, come evidenziato nella stessa Relazione ministeriale, ma, più esattamente, come
peraltro sostenuto dalla Corte costituzionale (sentenza 3 dicembre 1987, n. 457), di un reato
plurioffensivo. Ed alludiamo non solo alla tutela della riservatezza di determinati soggetti “deboli”,
quale il minore o l’arrestato, quanto al netto riferimento alla disciplina del c.d. “doppio fascicolo”,
che impedisce al giudice di conoscere quanto contenuto nel fascicolo del pubblico ministero,
dovendo egli formare il suo convincimento da quanto gli viene proposto dalle testimonianze, dalle
perizie e da ogni genere di prova esperita nel contraddittorio dibattimentale
In definitiva, allora, accanto al segreto investigativo in ordine alla genuinità della prova, la
norma viene a tutelare la terzietà ovvero, se si preferisce, la “naturalità” del giudice, nell’ambito
della presunzione di non colpevolezza dell’imputato. Ecco, dunque, il ritorno ai principi
costituzionali (qui nelle vesti degli artt. 25, comma 1, e 27, comma 2) che si pongono come limite
equilibrato al diritto di cronaca, di cui all’art. 21 Cost.
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8.– A fronte del complesso quadro che finora è andato delineandosi in ordine alle norme
processuali richiamate, cui non sono, forse, da escludere aporie tecnico-giuridiche, e tenendo
sempre presente la nostra chiave di lettura, che è quella del diritto penale sostanziale, è bene
tornare alla norma base incriminatrice: id est, allo stato, all’art. 684 c.p., che punisce l’autore della
pubblicazione degli atti processuali così come già variamente individuati.
Il reato è comune, potendo essere commesso da “chiunque”; tuttavia, tale fattispecie deve
coordinarsi con quella di cui all’art. 326 c.p., relativa alla Rivelazione di segreti d’ufficio, il quale
dispone che “il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio che, violando i
doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie di
ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza, è punito
con la reclusione da sei mesi a tre anni” (comma 1). Peraltro, “se l’agevolazione è soltanto colposa,
si applica la reclusione fino a un anno” (comma 2). È, dunque, a tale fattispecie che deve ricondursi
la divulgazione di notizie relative al processo coperte dal segreto da parte di magistrati, ufficiali ed
agenti di polizia giudiziaria, cancellieri, periti, interpreti, altri ausiliari del giudice: ossia, in altri
termini, tutti coloro che, a causa della loro qualifica soggettiva pubblicistica sono tenuti al segreto.
Sfuggono, ovviamente, a tale casistica i difensori, le parti private, i consulenti tecnici delle
parti, i testimoni e le persone informate dei fatti, nei cui confronti non può operare l’art. 326 c.p.
A tale proposito, tuttavia, deve richiamarsi un’ulteriore disposizione: trattasi dell’art. 379-
bis c.p., rubricato Rivelazione di segreti inerenti a un procedimento penale, in forza del quale,
“salvo che il fatto costituisca più grave reato [ad esempio: Rivelazioni di segreti di Stato (art. 261
c.p.); Rivelazione di segreti d’ufficio (art. 326 c.p.)], chiunque rivela indebitamente notizie segrete
concernenti un procedimento penale, da lui apprese per avere partecipato o assistito ad un atto
del procedimento stesso, è punito con la reclusione fino ad un anno”. Reato proprio, dunque, di
chi, protagonista o spettatore, a qualsiasi titolo, di un atto del procedimento penale, e così
apprendendo notizie coperte dal segreto e concernenti il procedimento stesso, le riveli. Ed anche
in tale ipotesi, peraltro, sarà sempre possibile il concorso, se effettuato in distinte condotte, fra
tale norma e l’art. 684 c.p.
Rimane sempre aperta la possibilità, peraltro altamente frequente, che distinte siano le
persone, e, di converso, le responsabilità penali, in ordine a chi rivela ed a chi pubblica la notizia
destinata a rimanere segreta. Ovviamente, non può escludersi il concorso di persone nei due reati.
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Così, non solo il rivelatore, ricorrendone le fattispecie, come si è visto, potrà rispondere in
concorso dei reati di cui agli artt. 326 e 684 c.p., ovvero di cui agli artt. 379-bis e 684 c.p., ma,
parimenti, colui che pubblica la notizia risponderà dei reati propri del rivelatore ove lo abbia
determinato o istigato a commettere tali delitti; e, in quest’ultima ipotesi, trattandosi di reati
propri, varranno le note regole che disciplinano il concorso dell’extraneus nel reato dell’intraneus.
L’orizzonte normativo, peraltro, non può ancora dirsi completo. In tema di indagini
difensive (legge 7 dicembre 2000, n. 397), l’art. 391-quinquies c.p.p. prevede il Potere di
segretazione del pubblico ministero, disponendo che, “se sussistono specifiche esigenze attinenti
all’attività d’indagine, il pubblico ministero può, con decreto motivato, vietare alle persone sentite
di comunicare i fatti e le circostanze oggetto dell’indagine di cui hanno conoscenza” e tale “divieto
non può avere la durata superiore a due mesi”. Peraltro, ai sensi del capoverso, il pubblico
ministero, nel comunicare tale divieto, “alle persone che hanno rilasciato le dichiarazioni, le
avverte delle responsabilità penali conseguenti all’indebita rivelazione delle notizie”. Il riferimento
va rapportato al citato art. 379-bis c.p., il quale, dopo aver previsto la cennata fattispecie di
Rivelazione di segreti inerenti a un procedimento penale, conclude affermando che “la stessa pena
si applica alla persona che, dopo aver rilasciato dichiarazioni nel corso delle indagini preliminari,
non osserva il divieto imposto dal pubblico ministero ai sensi dell’art. 391-quinquies del codice di
procedura penale”.
Siamo, dunque di fronte ad un’ulteriore ipotesi, ristretta a quei soggetti che, nel contesto
delle indagini effettuate dal pubblico ministero, abbiano reso le richieste dichiarazioni, le quali
siano state poi oggetto dell’ordine di segretazione da parte del pubblico ministero stesso.
9.– A questo punto pare indispensabile chiedersi se il reato di Pubblicazione arbitraria di
atti di un procedimento penale, di cui all’art. 684 c.p., sia pur nella complessa casistica effettuata,
ove commesso da un giornalista, possa venir scriminato dal c.d. diritto di cronaca, riconducibile al
più generico art. 51 c.p. (la causa di giustificazione dell’Esercizio di un diritto) ed inteso nello spirito
dell’art. 21 Cost.
La risposta, finora, è sempre stata negativa. In primo luogo, perché, come già visto, le
norme penali citate sono poste a garanzia del regolare andamento della giustizia, bene parimenti
di rilevanza costituzionale, in modo da costituire un delicato bilanciamento tra esigenze di corretta
informazione dell’opinione pubblica sulle vicende giudiziarie e quelle volte a non compromettere
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lo svolgimento di procedimenti giudiziari in corso a causa delle diffusione di determinate notizie.
In secondo luogo, perché, come affermato dalla giurisprudenza sul tema, l’esistenza di un diritto
attribuito da una determinata norma non è sufficiente per escludere automaticamente la
punibilità di ogni condotta dell’agente, occorrendo anche che la condotta sia prevista e permessa
o dalla stessa norma che costituisce la fonte del diritto o da altra norma: che qui, invero non
sussisterebbe.
Più di recente, tuttavia, viene richiamato un diverso orientamento che, seppur sorto in
ordine ai rapporti fra diritto di cronaca e delitto di diffamazione a mezzo stampa (art. 595, comma
3, c.p.), afferma che un punto di equilibrio nella tutela di queste due posizioni soggettive
potenzialmente confliggenti può trovarsi, nel senso che il c.d. diritto di cronaca può essere
esercitato anche quando ne derivi una lesione all'altrui reputazione, ma l'esistenza di altri diritti di
pari dignità costituzionale impone che vengano rispettati precisi limiti, che vengono ricondotti
nelle finalità sociali della cronaca, e nella sua specifica funzione di informare il pubblico, di
orientarlo e comunque garantire la trasparenza della vita sociale. Viene così esclusa la sussistenza
del reato di diffamazione, ai sensi dell'art. 51 c.p., che prevede la scriminante dell'esercizio di un
diritto, nell'ipotesi in cui sussistano la verità del fatto narrato, l'interesse attuale e pubblico alla
divulgazione del fatto (la c.d. pertinenza), e la continenza della forma espressiva, ossia che
l'esposizione dei fatti e della loro valutazione sia improntata a "leale chiarezza", evitando forme di
offesa indiretta e senza superare il limite di correttezza del linguaggio, evitando un tono
sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato (specie nei titoli) o comunque l'artificiosa e
sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre perché insignificanti o
comunque di scarsissimo valore sintomatico.
Ed è, dunque, a questi criteri (verità, pertinenza, continenza) che la più recente dottrina fa
richiamo, rilevando che le norme le quali proibiscono la divulgazione di notizie inerenti ai
procedimenti penali non sempre costituiscono un limite insuperabile all’esercizio del diritto di
cronaca.
A tale proposito, va evidenziata l’impostazione della Corte europea dei diritti dell’uomo, da
sempre favorevole ad un’ampia estensione del diritto di cronaca giudiziaria e processuale, in base
al fondamentale asserto secondo il quale “il giornalista è il cane da guardia della democrazia”.
Tuttavia, dobbiamo ricordare come l’art. 10, comma 2, delle CEDU, ammetta esplicitamente
possibili limitazioni a tale diritto necessarie in ordine “alla protezione della reputazione o dei diritti
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altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e
l’imparzialità del potere giudiziario”.
A tale proposito, si deve anche notare che la questione sorge, con la relativa presa di
posizione mediatica e da parte dell’intellighentia nell’eccezionale caso del giornalista condannato
a pena detentiva e non negli eventuali altri casi, ove le fattispecie che hanno violato le relative
norme, come si è visto, sono contravvenzioni oblazionabili, ossia con la possibilità di derubricarle
ad illecito amministrativo, con conseguente estinzione del reato, previo il pagamento di minima
somma di denaro (apri alla metà del massimo dell’ammenda ivi prevista).
10.– Facciamo un rapido cenno ad un ulteriore profilo sui rapporti fra mass media e
giustizia penale. Alludiamo a quello che è stato definito come “il circo mediatico giudiziario”, ossia
quelle trasmissioni (siano esse dedicate ad hoc ovvero frammenti, parti di talk show o di svariate
rubriche o format televisivi), ove si discute di delitti, di casi giudiziari, di processi in atto o perfino
conclusi, con la partecipazione del più composito pubblico: giornalisti, giuristi, medici legali,
criminologi o esperti sedicenti tali, forze dell’ordine, indiziati, persone offese, difensori delle
diverse parti, magari con il pubblico in ascolto che interviene via telefono, via mail, via sms, e
quant’altro. Paradossalmente, come la trasmissione “Porta a porta” viene definita “la terza
Camera parlamentare”, così sembrerebbe che le indagini ed i processi si facciano fuori dalle aule di
giustizia. Ed il tutto nel nome della audience.
Invero, con tutto il rispetto nei confronti del c.d. giornalismo investigativo di nobili
tradizioni, le perplessità che tale meccanismo televisivo suscita sono molte. Per fortuna nel nostro
ordinamento giuridico non è prevista l’istituzione della giuria: in caso contrario, sulla base di
esperienze anglosassoni, ci interrogheremmo sulla possibilità delle scelte e delle esclusioni dei
giurati in ordine alla loro (im)parzialità a seguito della visione di tali trasmissioni.
Al di là di queste considerazioni, è ovvio che anche in tale contesto debbono essere
osservate le disposizioni del diritto penale poste, da un lato, a tutela dell’onore e della reputazione
del singolo e, dall’altro lato, della segretezza (ove prevista) delle investigazioni ovvero degli atti
nelle varie fasi procedimentali o processuali in corso: ed il tutto nel rispetto della presunzione di
non colpevolezza (o di innocenza) di cui all’art. 27, comma 2, Cost.
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11.- Infine, un’ultima questione che ritengo di rilievo e sulla quale mi sono soffermato in
varie occasioni: avviene con una certa frequenza che i mass media riportino in modo del tutto
erroneo una pronuncia della Cassazione, criticando ed enfatizzando quanto questa avrebbe
affermato e suscitando, di conseguenza, la vivace reazione dell’opinione pubblica.
È successo anche di recente, in riferimento ad una sentenza della Suprema Corte, che
avrebbe – sempre nella visione dei mass media – concesso un'attenuante al marito che aveva
stuprato la moglie, in quanto ubriaco al momento del fatto.
Perfino in una trasmissione televisiva di grande audience della domenica sera, dopo
l’intervento del Presidente del Consiglio, ospite del conduttore, una nota attrice ha concluso la sua
consueta performance, ironica sulle notizie correnti, in modo estremamente serio, riferendosi alla
citata sentenza, ed affermando che mai una situazione del genere dovrebbe costituire
un'attenuante per lo stupro, esecrabile sempre e richiamando le donne ad una costante
attenzione e denuncia.
Tutto da condividere in assoluto, se non ci fosse un "ma"...
Il punto è che la Cassazione non ha affatto sostenuto quello che i media le avevano
attribuito.
L'imputato era stato condannato per il reato di violenza sessuale (art. 609–bis c.p.) e
chiedeva l’attenuante ivi prevista (pena diminuita fino ai due terzi “nei casi di minore gravità”),
affermando di essere stato ubriaco nel momento dal fatto. Ebbene, la Corte d’Appello non è
entrata nel merito di tale richiesta, ma ha sostenuto, in via preliminare, che essendosi trattato di
un rapporto sessuale completo non può raffigurarsi nessun caso di “minore gravità”, sostenendo,
pertanto, che solo nell’ipotesi di un rapporto sessuale incompleto possa in astratto ammettersi
una violenza sessuale meno grave.
La Cassazione censura – e correttamente – tale ragionamento, riconducibile alla disciplina
originaria del codice Rocco, quando si faceva distinzione fra violenza carnale (con penetrazione) ed
atti di libidine violenti (senza penetrazione), ove la seconda ipotesi era considerata meno grave
della prima. Un quadro profondamente mutato dalla successiva legislazione ora vigente, ove il
delitto di violenza sessuale è raffigurabile sempre e comunque, indipendentemente dall’atto
sessuale più o meno completo, in quanto viene a violare in ogni caso la libertà sessuale della
donna. Se, pertanto, è quest’ultima il bene giuridico tutelato, la circostanza attenuante prevista
della minore gravità "deve ritenersi applicabile in tutte quelle fattispecie in cui – avuto riguardo ai
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mezzi, alle modalità esecutive ed alle circostanze dell'azione – sia possibile ritenere che la libertà
sessuale personale della vittima sia stata compressa in maniera non grave".
La Corte d’Appello, facendo la distinzione fra rapporto sessuale completo (con attenuante
non configurabile) ed atto sessuale non completo (con possibile attenuante) ha dunque errato.
Ora, posto che la Cassazione è giudice del diritto e non del fatto, non poteva valutare il fatto
concreto in esame: ne deriva l’annullamento della sentenza, con rinvio alla Corte d’Appello
affinché, applicando tale principio, verifichi se l’attenuante (astrattamente concedibile) possa
configurarsi nel fatto raffigurato dalla difesa, ossia nell’ubriachezza del reo. Il che difficilmente
potrà avvenire, in quanto l’attenuante deve basarsi, come stabilito dalla Suprema Corte, sulla
entità della compressione della libertà sessuale della vittima: il che nulla ha a che vedere con il
fatto che il reo fosse ubriaco o meno.
La Cassazione, pertanto, non ha affatto enunciato quello che i mass media le hanno
attribuito, e che ha suscitato la levata di scudi da parte dei mezzi di informazione.
Invero, non è prima volta che i mezzi di comunicazione di massa riportino in tono
allarmistico o polemico sentenze di organi giurisdizionali, le quali, tuttavia, approfondendo il tema,
si rivelano di ben altro tenore.
Potremmo ricordare, ad esempio, la nota sentenza che avrebbe ritenuto non configurabile
la violenza sessuale se la vittima indossasse i jeans, ovvero quella sentenza della Cassazione che,
sempre secondo i media, avrebbe sancito che i colpevoli di stupro di gruppo non debbano andare
in carcere. Invero, ed in rapida sintesi, si trattava di ben altro. Trattavasi di una misura cautelare e
non di una pena da scontare: pacifica la disposizione che per i partecipanti di una violenza sessuale
di gruppo è prevista la reclusione da sei a dodici anni (art. 609-octies c.p.); non è vero che
all’autore di una violenza sessuale di gruppo non è applicabile la misura cautelare della detenzione
in carcere; spetta, in ogni caso, al giudice di merito vagliare quale misura cautelare disporre al caso
concreto, scegliendola nella rosa di quelle previste. Donde il doveroso annullo con rinvio, posto
che la Cassazione è giudice del diritto e non del fatto. Il giudice del rinvio doveva, pertanto
motivare perché, nella fattispecie di riferimento, riteneva la custodia cautelare in carcere l’unica
misura cautelare possibile e/o efficace.
Ben diverso il tam tam dei media, secondo i quali la Cassazione aveva sancito che gli autori
dello stupro di gruppo non potevano essere ristretti in carcere e che, quindi, potevano scorrazzare
a piede libero, ovvero ancora, come riferito da una illustre penna, che lo stupratore singolo ora va
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in carcere mentre quello di gruppo no, per cui - paradossalmente - sarebbe conveniente effettuare
una violenza sessuale in compagnia e mai da soli.
Peraltro, deve segnalarsi, e con altrettanta preoccupazione, come tale travisamento
giuridico da parte dei media sia avvenuto non solo in riferimento a sentenze, specie della
Cassazione, ma anche nei confronti del legislatore stesso.
Ricordiamo, ad esempio, fra gli altri casi, perfino l’erronea lettura di una norma del codice
penale. Ci riferiamo alla novellazione della legittima difesa, quando la legge 12 febbraio 2006, n.
59, introdusse due ulteriori commi all’art. 52 c.p.
Ebbene, i media (anche televisivi) davano fiato alle trombe, denunciando il ritorno alla
legge del Far West, posto che la norma così integrata avrebbe previsto la possibilità di sparare a
vista verso chi si fosse introdotto nella propria abitazione: un’affermazione del tutto erronea, in
quanto la norma prevede anche il pericolo di aggressione e la difesa della propria incolumità.
Con il risultato che, qualche giorno dopo, un soggetto, scorgendo dalla finestra che un
estraneo si era furtivamente introdotto nel suo giardino, prendeva il fucile e gli sparava
uccidendolo sul colpo. Arrestato e contestatogli il delitto di omicidio, si stupiva affermando che
giornali e televisione avevano detto che si poteva reagire in tal modo e che lui si era comportato di
conseguenza.
12.– La conclusione è scontata: le sentenze (come le disposizioni di legge) prima di essere
divulgate e commentate devono essere lette e comprese nella loro completezza, non fidandosi del
resoconto altrui, e controllandone l’originale. Il che sta a significare non solo il rifiuto di ogni
notizia lanciata per scoop o per aumento dell’audience, ma anche la necessità di una preparazione
giuridica per il giornalista della c.d. “giudiziaria”, la cui responsabilità presenta risvolti di grande
rilievo: una questione, insomma, non solo etica, ma anche di deontologia professionale.
Ritorniamo, così, al punto di avvio: quella professionalità, quella preparazione giuridica ed
quella etico-deontologica, che possono permettere al giornalista, da un lato, di controllare sempre
accuratamente i fatti verificandone le fonti, e, dall’altro lato, di rispettare le norme poste a
garanzia del singolo e della giustizia penale per quanto nel più ampio contesto del diritto di
cronaca e di manifestazione del pensiero.
Un giornalista “cane da guardia” della democrazia, ma professionalmente preparato e
rispettoso dei limiti costituzionali che reggono la democrazia stessa.