INFEZIONI PROTESICHE 2 · Come illustrato nella Figura, il “circolo virtuoso” dell’Health...

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INFEZIONI PROTESICHE n° 2 - Gennaio 2018

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INFEZIONI PROTESICHEn° 2 - Gennaio 2018

Rivista Periodica Trimestrale “INFEZIONI PROTESICHE”

Registrazione Tribunale di Bologna: n° 8466 del 17/11/2017

Numero 2 - Gennaio 2018

SI POSSONO RICHIEDERE I NUMERI PRECEDENTI A: [email protected]

Direttore Responsabile: Pier Luigi Trombetta

Direttore Editoriale e Scientifico: Prof. Rosario Cultrera

Redazione: San Lazzaro di Savena (BO), Via Speranza n. 35

Tel. 051 461932 - e-mail: [email protected]

Sviluppo grafico: Valentina Pagani

Editore: TRX Italy S.r.l., Via Speranza 35, 40068 San Lazzaro di Savena (BO)

Stampato da: Fotolito Felsinea S.r.l., Via Speranza 37, 40068 San Lazzaro di Savena (BO)

INDICE

L’editoriale ...........................................................................................3Il problema infezioni dei dispositivi elettroci cardiaci impiantabili: la conoscenza della realtà italiana come base per la prevenzione e il trattamento. Il background dello studio RI-AIAC.......................6Il biofilm batterico...............................................................................10Le infezioni nella chirurgia protesica di anca e ginocchio...........13Le complicanze infettive nei sistemi di neurostimolazioneimpiantabili.........................................................................................17

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L’Editoriale IlBiofilmBatterico

Il Responsabile Editoriale Professor Rosario Cultrera

In questo secondo numero affronteremo uno degli argomenti più importanti inerenti le infezioni protesiche dei device medico-chirurgici: il biofilm. Per un corretto inquadramento, il tema verrà sviluppato preliminarmente con una definizione del biofilm dal punto di vista strettamente microbiologico grazie al contributo del prof. Giacometti, Clinico Infettivologo, uno tra i maggiori esperti in tale campo, e ad un approfondimento in ambito chirurgico di tre esperti, i professori Massari e Caruso, Clinici Ortopedici di Ferrara, e il Prof. Cavallo, Neurochirurgo di Ferrara. Questi primi contributi evidenziano la complessità costitutiva del biofilm e quanto complesse siano le infezioni sostenute dalla formazione di biofilm ponendo numerose questioni sia sul piano diagnostico che terapeutico.

L’isolamento microbiologico dei batteri che costituiscono un biofilm non è agevole proprio per la particolare costituzione in aggregati all’interno di una matrice polisaccaridica contenente anche proteine e acidi nucleici. E’ stato provato che utile, se non indispensabile, risulta sottoporre i device e le protesi infetti, o loro componenti, su cui si è formato il biofilm a sonicazione, cioè ad ultrasuoni di elevata potenza, per consentire la liberazione dei microrganismi dalla matrice del biofilm, favorendo, così, la loro identificazione mediante le tecniche colturali.La costituzione e la struttura del biofilm variano secondo le differenti specie di batteri, della loro localizzazione e del differente apporto di sostanze nutritive nel sito anatomico coinvolto. Tale eterogeneità di comportamento dei batteri si traduce anche nella diversa ed alterata sensibilità agli antibiotici, generandosi resistenze su base fenotipica e non genotipica. Tale comportamento nei confronti degli antibiotici fa sì che un battere costitutente un biofilm, testato all’antibiogramma sensibile ad un antibiotico, in vivo si dimostra resistente alla stessa molecola che,

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quindi, risulta ineffi cace nel trattare l’infezione.

L’impiego di neurostimolatori trova sempre maggiore impiego in ambito neurologico per il controllo e il trattamento di patologie distoniche, di cefalea, di malattia di Parkinson. Il generatore di stimoli è impiantato sottocute similmente ai generatori usati in campo cardiologico con la differenza che gli elettrodi dopo un decorso extracranico vengono impiantati nell’encefalo o nel midollo spinale. Le infezioni con la formazione di biofilm del generatore costituiscono una severa complicanza post-impianto non solo per i costi del device e del trattamento antibiotico ma soprattutto nella qualità di vita del Paziente sottoposto ad espianto del neurostimolatore, comportando una riduzione di compliance del paziente stesso per la regressione del quadro clinico e la perdita dei benefi ci che la neurostimolazione gli consente.

Differente è il comportamento delle infezioni di protesi ortopediche che meritano una valutazione particolare. Le infezioni protesiche hanno un’evoluzione che varia da paziente a paziente oltre che essere sostenute da una più ampia popolazione microbica, dovuta sia al tipo di intervento che necessita di tempi lunghi, che al sanguinamento che ogni intervento protesico ortopedico favorisce, insieme al particolare distretto anatomico che rappresenta un vero e proprio compartimento anatomofunzionale osteoarticolare. Vi è netta differenza tra una protesi di ginocchio e una protesi di anca o un mezzo di sintesi per ridurre una frattura. Per tali particolarità, le infezioni di protesi ortopediche possono manifestarsi nel tempo più o meno precocemente dall’impianto, pur essendo determinate alla produzione e formazione di biofilm. Questo si forma sempre nel tempo immediatamente successivo all’impianto protesico e a seconda del battere o dei batteri responsabili, del tipo di intervento, della sede anatomica, del tipo di protesi impiegato, l’infezione si manifesta in tempi successivi alla formazione del biofilm. Bisogna anche tener conto che le protesi ortopediche sono costituite da differenti componenti e materiali: polietilene, titanio, materiale cementizio che spesso, seppur antibiotato, è una delle sedi peferenziali per la formazione del biofilm. L’ineffi cacia dell’antibiotico presente

nel cemento, sul cui uso mancano evidenze in letteratura, è dovuta a diversi fattori, come l’instabilità della molecola alle alte temperature necessarie per la polimerizzazione del cemento e il rilascio di dosi tissutali inadeguate per inibire la formazione del biofilm. Il trattamento richiede spesso terapie antibiotiche di associazione per favorire l’azione antibatterica con sinergie farmacologiche e capaci di raggiungere il sito anatomico con concentrazioni adeguate per l’azione battericida, evitando la selezione di ceppi resistenti all’antibiotico stesso.

Possiamo certamente affermare che il biofilm, una volta formatosi, è di diffi cile trattamento ed eradicazione e la migliore strategia è quella preventiva con lo scopo di evitare la sua formazione. Questo porterebbe, come detto altrove, ad una netta riduzione della spesa sanitaria legata alla necessità di estrazione dei device o all’espianto protesico, ai rischi conseguenti per la salute del paziente, e alla riduzione di una pressione selettiva antibiotica che favorirebbe l’insorgenza di antibioticoresistenza.

Il prof. Boriani, Presidente dell’Associazione Italiana Aritmologia e Cardiostimolazione, inaugurerà il 12 di Aprile il “XV Congresso Nazionale AIAC”. Per questo motivo ci è sembrato appropriato ospitarlo in questo numero della rivista per conoscere come si sta affrontando il problema infettivo nei CIED in un settore, quello della cardiostimolazione, fra i più colpiti da questa problematica.

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Professor Giuseppe Boriani Cattedra di Cardiologia, Università di Modena e Reggio Emilia, Policlinico di Modena, Modena

Presidente Nazionale dell’AIAC (Associazione Italiana di Aritmologia e Cardiostimolazione) 2016-2018

Il problema infezioni dei dispositivi elettrici cardiaci impiantabili: laconoscenza della realtà italiana come base per la prevenzione e iltrattamento.IlbackgrounddellostudioRI-AIAC

Sulla base di quanto riportato in letteratura la prevalenza e incidenza del rischio infettivo associato alle procedure di impianto, sostituzione o revisione di dispositivi cardiaci impiantabili (CIED) risultano variabili a seconda della casistica, modalità di rilevamento (studio clinico o valutazione amministrativa) e contesto geografico. In una sintesi dei dati emerge che il problema coinvolge una percentuale tra l’1% e il 2% delle procedure totali CIED, tuttavia con importanti differenze secondo il tipo di procedure.

Il noto ed evidente effetto benefico dei dispositivi CIED è purtroppo gravato da un evento avverso grave e pericoloso, il verificarsi di infezioni. In effetti, l’infezione di un sistema CIED è una complicazione seria, alla luce dei costi molto elevati per il sistema sanitario e l’alta mortalità. La effettiva incidenza del problema infezioni da CIED è stata finora oggetto di ampio dibattito, con risultati condizionati da differenze nelle popolazioni valutate nonché differenze nella tipoogia di dispositivi e di procedure.

In un ampio studio di coorte danese, l’incidenza stimata di infezione è stata stimata pari a 1.82 / 1.000 anni-dispositivo nei pazienti impiantati con pacemaker, con rischio superiore entro i primi 12 mesi dall’impianto. Nel complesso il rischio di infezione dopo un impianto di pacemaker è stimato intorno al 0,5-1,0% entro i primi 6-12 mesi. Con tipi di CIED più complessi, i tassi di infezione sono risultati più alti: 0,7-1,2% nei pazienti impiantati

con un defibrillatore (ICD) e 1,7-9,5% in pazienti con resincronizzazione cardiaca (CRT), in particolare con defibrillatori (CRT-D). Dopo procedure di sostituzione e di upgrade dei sistemi CIED, i tassi di infezione sono risultati 2-4 volte più alti che dopo un primo impianto.

In linea con questi risultati, un recente studio nazionale condotto negli Stati Uniti ha mostrato un’incidenza annuale di infezioni CIED (tra il 1998 e il 2008) nel range dell’1,6%. Inoltre un’indagine europea ha mostrato grandi variazioni nei tassi di infezione CIED riportati da diversi centri. In particolare, il 27% dei centri ha riportato un’incidenza di infezione <0,5%, mentre il 22% di essi ha riportato un’incidenza >2%. Occorre sottolineare che finora non sono stati prodotti dati specifici per descrivere le dimensioni “reali” del problema nel contesto attuale della pratica clinica italiana.

In generale, comuque, diverse analisi hanno evidenziato un drammatico aumento dell’incidenza dell’infezione da CIED negli ultimi anni. Recenti dati statunitensi, riportati nel 2016, indicano che di fronte ad un aumento del 12% degli impianti CIED, l’incremento rilevato nelle infezioni CIED è risultato del 57% nello stesso periodo. Potenziali spiegazioni per questo aumento sproporzionato includono un crescente carico di comorbidità tra i riceventi CIED, una migliore sopravvivenza dei pazienti dovuta a trattamenti contemporanei, la realizzazione di procedure più complesse e una maggiore consapevolezza e indiciduazione delle infezioni CIED. Dopo l’insorgenza di un’infezione CIED, i pazienti sono gravati da un alto rischio di morte, che è rislutato essere da 2 a 3 volte superiore rispetto ai pazienti CIED senza infezione.

Uno studio realizzato da Olsen e colleghi presentato nel 2017 con dati derivati dal Registro Danese di Pacemaker e ICD ha coinvolto 83.974 pazienti sottoposti tra il 1979 e il 2015 a una procedura di primo impianto. Tra questi, 18.095 pazienti aveano subito un’ulteriore procedura di sostituzione o di up o down-grading, per un totale di 108.509 procedure. Durante il follow-up, a seguito del primo impianto, si sono verificati 881 infezioni, con un’incidenza di 1,3 su 1.000 devices l’anno. Quando correlato con il tipo di dispositivo, il rischio univariato di infezione è risultato maggiore nei

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dispositivi ICD VVI e DDD e in caso di impianti CRT-P e CRT-D. Tuttavia, l’analisi multivariata del rischio ha messo in evidenza come il rischio non fosse più alto nei pazienti impiantati con dispositivi ICD VVI e DDD rispetto ai pacemaker, con un HR di 1.02 (0.87-1.20), mentre rimaneva più alto per la CRT-P e CRT-D, con un HR di 1.44 (1.12-1.85, p<0.001) e 1.73 (1.39-2.14, p<0.001), rispettivamente. Dall’analisi multivariata è inoltre emerso un rischio maggiore in caso di sostituzione e procedure di up- o down-grading rispetto ai primi impianti, con un HR rispettivamente di 7.37 (6.23-8.71, p<0.001) e 6.32 (5.16-7.74, p<0.001). Inoltre, l’età inferiore ai 50 anni (P<0.001) e il sesso maschile (HR 1.48(1.31-1.66), p<0.001) sono risultati essere fattori di rischio indipendenti di infezione.

Questi dati indicano come sia assolutamente indispensabile disporre di dati raccolti in modo prospettico, relativi a specifi ci contesti geografi ci e assistenziali. Ciò costituisce la base per una valutazione intermini di Health Technology Assessment, cioè in termini di valutazione multidisciplinare mirata a defi nire gli aspetti epidemiologici, organizzativi, regolatori, assistenziali ed economici di una patologia e dei trattamenti proposti per prevenirla e curarla. Come illustrato nella Figura, il “circolo virtuoso” dell’Health Technology Assessment, prevede, oltre alla raccolta delle evidenze scientifi che, incorporate nelle linee guida, una serie di valutazioni economiche nonché la valutazione sul campo, nel “mondo reale” delle strategie di prevenzione e trattamento, quale base per ogni valutazione relativa alla implementazione su larga scala e alle pratiche di rimborso delle nuove tecnologie e dei nuovi trattamenti.

In Italia ogni anno vengono impiantati circa 90.000 dispositivi CIED: 65.000 pacemaker di cui 13.000 per sostituzione e 25.000 ICD, di cui 10.000 per sostituzione. Considerando un 7% di mortalità generale annua della popolazione CIED si può stimare in circa 600.000 pazienti la popolazione italiana portatrice di CIED. Questi 600.000 pazienti sono esposti al problema delle infezioni CIED, che ha conseguenze molto negative sia per il paziente (nuovi interventi per espiantare il sistema CIED + Elettrocateteri) sia per il Sistema Sanitario Nazionale (costi molto elevati). Per approfondire la tematica infezioni CIED nello specifi co contesto dell’Italia, l’AIAC (Associazione Italiana di Aritmologia e Cardiostimolazione) ha ideato e sta attuando lo studioRI-AIAC (Ricerca sulle Infezioni Associate a ImpiAnto o sostituzione di CIED), un progetto proposto a tutti i centri di elettrostimolazione italiani. Lo scopo è valutare la prevalenza dei fattori di rischio infettivo nei pazienti impiantati con un dispositivo CIED in Italia, valutare il tipo di profi lassi antibiotica pre-operatoria ed intra-operatoria attualmente utilizzata in Italia, e valutare la percentuale di infezioni CIED nei 12 mesi successivi all’ultima procedura CIED.

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antibiotica).

La formazione di un biofilm inizia con l’ancoraggio di microrganismi liberamente fluttuanti su una superficie naturale o artificiale. I primi “colonizzatori” facilitano l’ancoraggio di altre cellule mettendo a disposizione siti di adesione cellulare e iniziando la formazione di una matrice che contribuisce all’architettura della comunità. Una volta che la colonizzazione ha avuto inizio, il biofilm cresce sia tramite divisioni cellulari, sia mediante apporto di batteri esterni, a volte appartenenti anche a specie microbiche differenti.

Sebbene la matrice extracellulare sia elemento indispensabile ed universale, essa tuttavia può differire fortemente per composizione e per tempi di sintesi. I componenti della matrice sono prevalentemente esopolisaccaridi, proteine, acidi nucleici ed altre sostanze che, aggregandosi grazie a vari tipi di legami molecolari, offrono vantaggi alle cellule inglobate rispetto alle forme planctoniche. E’ stato, peraltro, dimostrato come nel biofilm possano formarsi canali di acqua allo scopo di permettere ai principi nutritivi di entrare negli strati più bassi del biofilm ed ai prodotti di scarto di essere eliminati.

La struttura del biofilm può variare con la localizzazione, la natura dei microrganismi e la disponibilità dei nutrienti: può infatti essere costituita da densi strati confluenti di cellule, da microcolonie disperse o da cumuli di cellule che fuoriescono da uno strato basale sottile.

Di recentissima acquisizione è il fatto che la formazione del biofilm è disciplinata dalla produzione, da parte dei microrganismi, di particolari molecole dando vita ad un impensato processo di comunicazione tra le cellule batteriche, chiamato quorum sensing. Mediante tale processo i batteri riescono ad organizzarsi, autoregolarsi, dare vita a cambiamenti fisiologici riuscendo ad accelerare o rallentare la produzione della matrice ed i processi metabolici. Fra l’altro, mediante il sistema di comunicazione-organizzazione del quorum sensing, viene regolata la produzione di biosurfactante, la sporulazione, la bioluminescenza, la

ProfessorAndreaGiacometti Ordinario di Malattie Infettive - Università Politecnica delle Marche Direttore della Clinica Malattie Infettive - Ospedali Riuniti di Ancona

IlBiofilmbatterico

Comprendere la natura e l’importanza del biofilm batterico è essenziale per cercare di prevenirne la formazione e, all’occorrenza, operare le scelte terapeutiche più opportune.

Per anni i batteri sono stati considerati organismi planctonici, ossia capaci di crescere isolatamente e senza particolari interazioni reciproche in presenza di adeguato mezzo di coltura. Verso la fine del 1600 Anton Van Leeuwenhoek, raschiando la superficie dei propri denti, osservò con un microscopio rudimentale gli “animalcules” che costituivano un aggregato microbico, ossia la placca dentale. Successivamente, studi condotti su una grande varietà di sistemi naturali e patologici hanno mostrato che la maggior parte di questi microrganismi cresce sotto forma di aggregati dei quali, nel 1999, Costerton diede la definizione di “biofilm, comunità strutturata di cellule batteriche racchiusa in una matrice polimerica autoprodotta ed adesa ad una superficie inerte o vivente”.

I batteri che costituiscono un biofilm differiscono profondamente dalle loro corrispondenti forme planctoniche: lo stato di aggregazione e l’alterato fenotipo che caratterizzano gli elementi del biofilm costituiscono un vantaggio evolutivo e, in effetti, vari studi hanno evidenziato che in natura la maggior parte dei batteri cresce sotto forma di biofilm, mentre è raro osservare singole cellule batteriche allo stato planctonico se non in ecosistemi con ridotto apporto di nutrienti, in fasi batteriemiche di infezioni o in laboratorio (ad esempio, nei comuni test di sensibilità

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Dottor Gaetano Caruso Ricercatore Universitario di Clinica Ortopedica e Traumatologia, Università di Ferrara

Professor Leo Massari Ordinario di Clinica Ortopedica e Traumatologia, Università di Ferrara

LeinfezioninellaChirurgiaprotesicadiancaeginocchio

Il sempre più crescente ricorso alla sostituzione protesica dell’anca e del ginocchio ha inevitabilmente portato ad un aumento delle complicanze legate a questo dipo di chirurgia.Tra queste la più temibile è rappresentata dall’infezione periprotesica che oggi costituisce la prima causa di revisione per le protesi di ginocchio e la terza per le protesi di anca.

Se l’infezione periprotesica è una complicanza rara nei pazienti sottoposti a primo impianto (1,5-2% per le protesi di anca e 2,5-5% per le protesi di ginocchio), il rischio infettivo aumenta invece molto nella chirurgia di revisione con una incidenza che varia tra il 3,2 e il 5,6% sia per le anche che per le ginocchia.E’ evidente l’impatto clinico e socio-economico di questa complicanza che da un lato aumenta la morbilità e la mortalità con un rischio correlato all’età, dall’altro comporta un aumento significativo dei costi complessivi per la gestione e il trattamento della infezione periprotesica.

Esistono molte classificazioni, ciascuna delle quali prende in considerazione criteri diversi. La classificazione più semplice e convenzionale è quella che da un punto di vista cronologico suddivide le infezioni in precoci, ritardate e tardive.

secrezione di polimeri adesivi, di fattori di virulenza e persino di tossine.

Infine, numerosi esperimenti, alcuni dei quali condotti anche dal gruppo di ricerca che mi onoro di dirigere, hanno dimostrato quanto possano resistere all’azione dei comuni antibiotici i batteri inglobati nel biofilm. I dati derivanti dalle ricerche dimostrano che tale ridotta sensibilità non è attribuibile agli abituali meccanismi dell’antibiotico-resistenza (inattivazione enzimatica, diminuita penetrazione, alterazione del bersaglio, pompe di efflusso) poichè le modificazioni genetiche che sono alla base di questi classici meccanismi (plasmidi, transposoni, mutazioni, ecc.) non vengono generalmente rilevati nei biofilm, ma piuttosto nelle forme planctoniche. In pratica, sebbene originariamente suscettibili (come spesso evidenziato dagli antibiogrammi) i microrganismi acquisiscono una marcata resistenza sviluppandosi nel biofilm. Del resto, vari esperimenti hanno dimostrato come, una volta allontanati dal biofilm, questi microrganismi tornano rapidamente ad uno stato di sensibilità agli antibiotici.

In conclusione, la resistenza antimicrobica dei biofilm non è genotipica, ma legata alla capacità delle singole cellule di differenziarsi in uno stato fenotipico tollerante l’azione antibiotica: in tale stato, all’interno della matrice, le cellule in forma sessile mostrano accrescimento più lento delle cellule planctoniche ed un adattamento metabolico che le rende resistenti a concentrazioni antibiotiche centinaia o migliaia di volte superiori a quelle inibenti le forma planctoniche. In definitiva, la formula vincente contro il biofilm è quella di impedirne la formazione, piuttosto che combatterlo tardivamente con antibiotici ad alto dosaggio e, spesso, ad alto costo.

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Tra i patogeni più frequentemente responsabili delle infezioni periprotesiche risultano gli stafilococchi epidermidis (36%) e aureus (29%), batteri anaerobi (5%), enterococcus faecalis (4%), escherichia coli (3%), Pseudomonas spp. (2%) e altri patogeni (5%).

Momento fondamentale nella patogenesi dell’infezione periprotesica è la capacità delle popolazioni microbiche di produrre il cosiddetto “biofilm”, nel quale i microrganismi sono strutturati e coordinati in comunità funzionali idonee a garantire una efficace barriera nei confronti degli agenti antimicrobici e della risposta immunitaria dell’organismo. Il processo è innescato dalle variazioni metaboliche e strutturali del microrganismo che, rallentando la velocità di crescita, riduce la propria sensibilità intrinseca agli antimicrobici indipendentemente dal dato di chemiosensibilità in vitro; inoltre il biofilm funge anche da vera e propria barriera meccanica rispetto alla penetrazione dei farmaci, condizionando situazioni di sotto-esposizione, foriere di mancata eradicazione dell’infezione e altresì selezione di resistenze.

In questo ambiente i batteri proliferano e producono tossine ed enzimi che inducono distruzione tissutale, attivazione del fibrinogeno, perdita della vascolarizzazione e necrosi ossea. Quando questi fenomeni si verificano all’interfaccia osso-impianto si ha la mobilizzazione della protesi. Di fronte a questa complicanza l’algoritmo decisionale varia in funzione della distanza di tempo intercorsa tra l’impianto della protesi e la comparsa dell’infezione.

Nelle infezioni precoci si suppone che il biofilm sia ancora in una fase reversibile pertanto, mantenendo l’impianto si può trattare l’infezione con un approccio combinato medico-chirurgico di tipo conservativo che si avvale di un debridement delle parti molli e dei tessuti necrotici, abbondanti lavaggi e successiva terapia antibiotica long-term di massima performace.

Nelle infezioni ritardate si presuppone che il biofilm sia ormai ben strutturato. In questo caso è preferibile un approccio combinato medico-chirurgico

Un’infezione si dice precoce quando si verifica nelle prime 3-4 settimane dall’impianto della protesi o dopo la manifestazione dei primi sintomi. Queste infezioni sono generalmente acquisite durante l’intervento o, raramente, espressione di diffuzione ematogena di focolai infettivi distali non bonificati prima dell’intervento e sono causate da microrganismi ad alta patogenicità.

Un’infezione si dire ritardata quando si manifesta da 1 a 24 mesi di distanza dall’intervento chirurgico. Anche queste infezioni possono essere contratte durante l’intervento chirurgico o più frequentemente possono essere l’espressione di una diffusione ematogena da focolai infettivi distali. Sono causate da microrganismi a bassa-media patogenicità o microrganismi ad elevata patogenicità con bassa carica infettiva.

Tutte le infezioni che diventano evidenti in un periodo successivo sono dette infezioni tardive, il che significa che si possono sviluppare come infezioni ematogene, per diffusione da siti d’infezione remoti, dopo anni o anche decenni. Sono causate generalmente da microrganismi a crescita molto lenta.

La diagnosi di infezione associata ad un impianto protesico si considera confermata quando oltre ai tradizionali segni clinici della flogosi (rubor, calor, tumor, dolor) e/o deiescenza della ferita chirurgica o fistola comunicante con l’articolazione, vengono soddisfatti criteri laboratoristici (aumento della velocità di eritrosedimentazione e della proteina C-reattiva nel siero, aumento dei leucociti nel liquido sinoviale, aumento della percentuale di neutrofili nel liquido sinoviale) o individuati microrganismi fenotipicamente identici in almeno due colture positive di materiale periprotesico o nel liquido sinoviale.

Marginale è il ruolo della diagnostica strumentale convenzionale (la radiografia all’esordio è scarsamente sensibile e la TC e la RMN non sono utilizzate routinariamente). La scintigrafia offre invece un maggiore contributo diagnostico ma può dare falsi positivi.

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ProfessorMicheleAlessandroCavallo Direttore Struttura Complessa di Neurochirurgia Azienda Ospedaliero-Universitaria di Ferrara Università degli Studi di Ferrara

Lecomplicanzeinfettivedeisistemidineurostimolazioneimpiantabili

La neuromodulazione è una terapia costituita da due principali sistemi impiantabili: pompe per l’infusione di farmaci direttamente nel sistema nervoso centrale, generalmente nel liquor, ed elettrodi impiantati nel sistema nervoso centrale o periferico, che erogano particolari tipi di corrente elettrica allo scopo di modificare il segnale bioelettrico dei neuroni.

I sistemi di neuromodulazione elettrica impiantabili sono costituiti da uno o più elettrocateteri collegati ad un generatore di impulsi impiantabile sottocute. Gli elettrodi possono essere impiantati nel cervello, sulla superficie del midollo o attorno ai nervi periferici. Vengono utilizzati da oltre 20 anni per la terapia del dolore, delle cefalee, del M. di Parkinson, dei termori e della distonia, per il controllo delle crisi epilettiche e, ancora in fase sperimentale, per la cura dell’Alzheimer, di alcuni distrurbi comportamentali e psichiatrici.

L’efficacia di questi impianti può però essere vanificata da possibili complicanze, fra cui le infezioni, che in letteratura sono descritte in percentuale variabile dallo 0,2 al 13%. Le infezioni si verificano soprattutto nella tasca sottocutanea e presentano una prevalenza variabile a seconda del tipo di stimolazione: dallo 0,4% al 3% per la DBS, dal 2,5% al 13% per la stimolazione midollare (SCS), dallo 0,03% allo 0,83% per la stimolazione dei nervi periferici.

Il generatore di impulsi e gli elettrodi sono costruiti con materiale biocompatibile e sterilizzato direttamente dalla ditta fornitrice, tuttavia

non conservativo con rimozione dell’artroprotesi, posizionamento di cemento spaziatore o spaziatore antibiotato provvisorio che previene la retrazione dei capi articolari consentendo una limitata funzionalità articolare, tempo intermedio occupato da terapia antibiotica di massima performance e riposizionamento dell’artroprotesi una volta accertata l’eradicazione dell’infezione (tecnica chirurgica in due tempi).

Nelle infezioni tardive, quando la diagnosi viene posta precocemente (entro tre settimane dall’insorgenza del quadro clinico), è probabile che il biofilm non sia ancora del tutto strutturato rendendo quindi ancora possibile un approccio di tipo conservativo analogo a quello perseguibile nelle forme precosi, quando la diagnosi è tardiva si procede invece come nelle forme ritardate.

In ogni caso si tratta di procedure chirurgiche complesse e invasive il cui tasso di successo è del 87,5-90% con tasso di recidiva dello 0,6-8,3%. Non scevre di limiti e complicanze. Il lunghi tempi di recupero possono minare la riabilitazione del paziente e i risultati funzionali possono essere non ottimali a causa dei difetti ossei conseguenti ai fenomeni di rimaneggiamento, alle fratture iatrogene causate dalla rimozione delle componenti protesiche e dal danno iatrogeno muscolare e neurologico causato dai repetuti interventi chirurgici.

Le infezioni su protesi articolare di anca o ginocchio sono oggi una delle sfide di maggior complessità in chirurgia ortopedica. Spesso l’esordio di questa complicanza è subdolo e il quadro clinico che ne deriva di incerta interpretazione. La diagnosi precoce è fondamentale perchè può cambiare la storia naturale di questa patologia. E’ fondamentale un approccio multidisciplinare che prevede la stretta collaborazione tra ortopedico, infettivologo, microbiologo e anatomo-patologo perchè un tempestivo trattamento associato al miglioramento delle tecniche chirurgiche può, nella maggior parte dei casi, portare a un recupero funzionale completo con risultati soddisfacenti per il paziente e gratificanti per il chirurgo.

imbevuta di antibiotico al momento dell’impianto, procedure empiriche, queste, dimostratesi del tutto ineffi caci e prive di fondamento scientifi co. In considerazione dell’aumento di tali infezioni in occasione della sostituzione dello stimolatore scarico, stanno divenendo sempre più diffusi gli elettrostimolatori ricaricabili che, sebbene più costosi, evitano, per almeno molti anni, la necessità dell’intervento di sostituzione.

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la necessaria manipolazione durante l’intervento chirurgico, per quanto in ambiente sterile, può provocarne la contaminazione batterica, causa di successiva infezione, fi no alla erosione della cute sovrastante e alla fuoriuscita di pus e dello stesso stimolatore.

Si tratta di infezioni localizzate, generalmente a carico del sottocute e, nel caso della DBS, non si diffondono mai all’interno della scatola cranica e nel cervello. Non provocano quasi mai segni di infezione sistemica o alterazioni signifi cative negli esami di laboratorio. Queste infezioni derivano in oltre il 90% dei casi da una contaminazione chirurgica e secondo molte casistiche pubblicate aumentano in frequenza in rapporto al numero di interventi successivi per la sostituzione del generatore di impulsi che si è scaricato nel corso degli anni.

Una volta verifi catasi l’infezione è possibile eseguire una toilette chirurgica associando la terapia antibiotica con isolamento del o dei batteri responsabili, tuttavia la terapia antibiotica, anche se mirata, è spesso effi cace solo temporaneamente, perchè la maggior parte dei batteri aderiscono alla superfi cie della protesi impiantata e formano una matrice extracellulare protettiva, il biofilm, che impedisce agli antibiotici e agli anticorpi di penetrarla e di eliminare defi nitivamente le cellule batteriche. Queste infezioni, infatti, possono essere precoci, entro il mese dall’intervento (1,5% dei casi), ma spesso hanno un andamento indolente, con riacutizzazione anche a distanza di 15 mesi (6,1% dei casi). L’eradicazione chirurgica e antibiotica di queste infezioni è pertanto molto diffi cile e nei due terzi dei casi occorre rimuovere tutto l’impianto, con evidente danno al paziente per la sospensione dell’effetto terapeutico sulla malattia di base e un danno economico, considerando che mediamente questi impianti hanno un costo che si aggira sui 20.000-25.000 euro.

Sono state individuate possibili strategie per prevenire queste insidiose infezioni, come l’irrorazione con antibiotico della tasca sottocutanea durante l’intervento di sostituzione dello stimolatore prima di inserire il nuovo o l’applicazione attorno allo stimolatore di una rete riassorbibile

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