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Newsletter del CISPEA Summer School Network * Numero 5 Numero speciale dedicato alla storia atlantica e transatlantica Per iscriversi alla newsletter: http://cispeanetwork.hosted.phplist.com/lists/ Indice Introduzione: La lunga storia atlantica (Cristina Bon) .......................................... p. 2 Storia atlantica e transatlantica fra età moderna e contemporanea: Una riflessione storiografica (Maurizio Vaudagna) ................................................. p. 6 I limiti cronologici della storia atlantica: Il problema della cesura rivoluzionaria (Federica Morelli) ......................................................................... p. 14 Il mondo atlantico, il lungo Ottocento e la storia contemporanea (Marco Mariano) ...................................................................................................................... p. 25 L’America e la politica di modernizzazione in Europa nel lungo Novecento (David Ellwood) ........................................................................................................ p. 37 Circolazioni transatlantiche in storia delle migrazioni: Portoricani e italiani a New York (1920–1960) (Simone Cinotto) .................................... p. 41 “Fatti e idee”: Le trasformazioni del mondo atlantico e la “disputa del Nuovo Mondo” (sec. XVIII–XIX) (Maria Matilde Benzoni) ....................... p. 51

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Newsletter del CISPEA Summer School Network*

Numero 5 Numero speciale dedicato alla storia atlantica e transatlantica

Per iscriversi alla newsletter:http://cispeanetwork.hosted.phplist.com/lists/

IndiceIntroduzione: La lunga storia atlantica (Cristina Bon) .......................................... p. 2Storia atlantica e transatlantica fra età moderna e contemporanea: Una

riflessione storiografica (Maurizio Vaudagna) ................................................. p. 6I limiti cronologici della storia atlantica: Il problema della cesura

rivoluzionaria (Federica Morelli) ......................................................................... p. 14Il mondo atlantico, il lungo Ottocento e la storia contemporanea (Marco

Ma riano) ...................................................................................................................... p. 25L’America e la politica di modernizzazione in Europa nel lungo Novecento

(David Ellwood) ........................................................................................................ p. 37Circolazioni transatlantiche in storia delle migrazioni: Portoricani e

italiani a New York (1920–1960) (Simone Cinotto) .................................... p. 41“Fatti e idee”: Le trasformazioni del mondo atlantico e la “disputa del

Nuovo Mondo” (sec. XVIII–XIX) (Maria Matilde Benzoni) ....................... p. 51

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Introduzione:La lunga storia atlanticaCRISTINA BON (Università Cattolica del Sacro Cuore)

Cos’è la “storia atlantica”? O meglio: fino a quali limiti, spaziali e cronologici può spingersi? La prima giornata del ciclo seminariale di studi atlantici –

gli altri due appuntamenti si terranno in primavera presso l’Università di Bo-logna e in autunno a Roma Tre – è stata dedicata a discutere una questione metodologica oggi assolutamente imprescindibile per chiunque intenda fare del continente americano – settentrionale o meridionale – il proprio oggetto di ricerca storica.Una questione che nasce dall’esigenza di mettere ordine in almeno un secolo di storiografia, fra studi di modernistica e contemporaneistica, che condivi-dono spesso termini e categorie comuni, pur con differenti accezioni di signifi-cato. Come ha efficacemente ricordato Maurizio Vaudagna nel suo intervento iniziale, sono infatti molti i concetti che hanno avuto differenti utilizza-zioni storiografiche, fra cui figurano quelli di impero, colonialismo, nazi-one, razza, migrazione – ma l’elenco potrebbe proseguire a lungo. Il presupposto di base da cui ha preso avvio il seminario di studi atlantici è l’idea per cui esistono fenomeni che trascendono le tradizionali barriere periodizzanti della storia, e possono essere compresi molto meglio se si è disposti ad analizzarne continuità e discontinuità storiche. In questo senso, è dunque possibile constatare che i fenomeni caratterizzanti la co-siddetta storia atlantica tradizionale, quella che associamo generalmente

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Illustrazione di Ambrosius Holbein per l’edizione del 1518 dell’Utopia di Tommaso Moro.

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alla formazione dei grandi imperi coloniali atlantici dell’età moderna – Spag-na, Portogallo, Olanda, Inghilterra, Francia – hanno trasceso i confini dell’età rivoluzionaria di fine Settecento per propagarsi nell’Ottocento, sopravvivendo dunque allo sgretolarsi dei domini imperiali nelle Americhe.Se è innegabilmente vero che esistono fenomeni meritevoli di essere analizzati in senso diacronico, senza limiti cronologici dettati da miopi ripartizioni disci-plinari, questa consapevolezza non risolve però il problema di fondo, quello cioè di capire se abbia comunque senso definire i limiti geografici e cronologici della cosiddetta “storia atlantica”. A questo quesito, i relatori della prima ses-sione dei lavori seminariali hanno risposto in modo pressoché unanime, soste-nendo, sulla base di osservazioni puntuali, che la storia atlantica continua ben oltre la rivoluzione americana, i movimenti di indipendenza nazionale del cen-tro e sud America e l’abolizione della schiavitù, prolungando la propria ombra fin oltre la metà del diciannovesimo secolo.Così, ad esempio, Federica Morelli sostiene che l’era delle rivoluzioni non abbia rappresentato una vera cesura per il mondo atlantico, e uno dei migliori esem-pi di questo fatto si troverebbe nella persistenza del sistema schiavistico ben oltre l’abolizione ufficiale della tratta. Così anche l’idea di colonia e colonial-ismo atlantico supererebbe la fine degli imperi in quanto, nel caso dei sistemi politico-sociali emersi dai movimenti di indipendenza “la storia nazionale non rappresenta che un’estensione di quella coloniale”. L’estensione cronologica del mondo atlantico alla seconda metà del dician-novesimo secolo si basa invece principalmente sull’osservazione della presenza di problemi comuni ai sistemi politici atlantici ottocenteschi emersi dalle guerre di indipendenza e dalla crisi degli imperi d’inizio Ottocento. Questioni come “la difficoltà a creare stati nazionali in contesti multietnici, il costituzionalismo e il repubblicanesimo, la delicata relazione fra federalismo e centralismo” sono indiscutibilmente tratti comuni al contesto europeo e americano ottocenteschi; e alcuni concetti, come quello di cittadinanza, mantengono nei sistemi politici americani ottocenteschi dei caratteri molto simili a quelli conservati entro i confini coloniali di età moderna. Alla luce dell’esposizione di Morelli ci si potrebbe però chiedere se la presenza di fenomeni condivisi e di una certa continuità diacronica fra categorie concet-tuali possa bastare per dichiarare di trovarci in presenza di un sistema atlantico organico, qual è stato – secondo la storiografia – il sistema economico-sociale dell’atlantico di età moderna (in particolare lo spazio atlantico dei secoli sedi-cesimo e diciassettesimo). La stessa Morelli sembra in effetti ammettere questo problema quando ravvisa che, a fronte del consolidamento degli scambi com-merciali atlantici e dell’arrivo di nuove ondate migratorie, nella seconda metà del diciannovesimo secolo lo spazio atlantico viene privato dell’Africa che era

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stata al centro della tratta degli schiavi. A questa legittima perplessità risponde Marco Mariano, secondo cui l’idea di mondo/spazio atlantico può essere certamente utilizzata come unità e stru-mento finché “l’Atlantico rimane una vitale” e “privilegiata” arena di scambio fra i continenti che la circondano. Quest’affermazione, sostenuta da studiosi come Philip Morgan e Jack Greene, è del resto ormai largamente condivisa dalla co-munità scientifica. Alcuni modernisti puri potrebbero ovviamente obiettare che parlare di “atlantic history” di fronte a fenomeni che indicano una vitalità in-terna al mondo atlantico sia cosa diversa dall’attribuire la definizione di mondo atlantico ad un sistema di relazioni politico-economiche-sociali infra-continen-tali. Il che significa che l’idea di storia atlantica dovrebbe sottendere l’esistenza di un sistema organico quale comune oggetto di studio.La risposta di Mariano a queste potenziali obiezioni consiste nel bypassare il problema prettamente geografico, partendo dall’idea per cui gli studi atlantici non debbano necessariamente presupporre uno spazio economicamente e so-cialmente integrato. Si potrebbe allora rivedere l’esigenza di associare la storia atlantica a un univoco spazio atlantico, e parlare di storia atlantica laddove ci si trovi in presenza di fenomeni di respiro atlantico, siano essi la “crescita di reti diplomatiche e consolari” fra stati-nazione, o le influenze transnazionali fra fenomeni di burocratizzazione, industrializzazione e democratizzazione. Sep-pure all’interno di un processo di globalizzazione otto-novecentesca, questi fenomeni sembrano in effetti rendere lo spazio atlantico un’unità di analisi storica coerente “in cui si intrecciano forze transnazionali e dinamiche inter-nazionali”.Lo studio di queste “forze e dinamiche” transnazionali e internazionali è per-altro al centro dell’ultima monografia di David Ellwood, che si interroga su tre momenti storici del ventesimo secolo. Lo studio di Ellwood individua un inten-so “incontro/confronto transatlantico” fra modelli di modernità; uno scontro giocato, in particolare, sulle risposte europee alle costanti sfide provenienti dal mondo americano, dal dopoguerra ad oggi, in molteplici campi: dal femminis-mo alla cultura giovanile, dalla produzione al consumo e alla comunicazione di massa; dall’omosessualità alla religione. Il taglio di questa ricerca può essere integrato e ulteriormente valorizzato dall’analisi di uno dei fenomeni che più si presta a essere letto in chiave atlantica: quello delle migrazioni oceaniche. Osservate da questo punto di vista le grandi metropoli costiere degli Stati Uniti rappresentano un perfetto bacino di studi transatlantici, capaci di trascendere i “confini e le storiografie nazionali ed imperiali per descrivere interi mercati del lavoro, reti commerciali, pratiche culturali, nozioni di razza, formazioni di classe e differenze di genere dislocate sull’ampia tela transoceanica”. Lo mostra particolarmente bene lo studio di caso di Simone Cinotto che si sofferma sulle

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progressive ridefinizioni culturali affrontate da New York fra gli anni Venti e gli anni Sessanta del Novecento, attraverso la relazione con la città di due parti-colari gruppi di migranti – portoricani e italiani – e le “molteplici connessioni transnazionali attivate dalle rispettive migrazioni, che collegarono ancora più capillarmente la metropoli con il mondo”. È evidente che molte delle questioni metodologiche poste oggi allo storico con-temporaneo di fronte al mondo o ai fenomeni atlantici derivano in parte dalle concezioni dello spazio e delle esperienze coloniali nelle Americhe costruite nel corso dei secoli dalla memorialistica e dalle vulgate storiografiche. A queste rappresentazioni storiche, spesso in conflitto tra loro, è dedicato il contributo di Matilde Benzoni, che chiude le relazioni della prima giornata di studio1 il-lustrando l’importante eredità lasciata dalle due maggiori cornici ideologiche del mondo atlantico moderno, la leyenda rosa e leyenda negra, sulle rappre-sentazioni dello spazio atlantico contemporaneo.

NOTE:1. Si informa che i testi pubblicati in questa sede, tratti dalle relazioni presen-

tate nel corso della prima giornata di studio sul tema della storia atlantica e storia transatlantica fra modernistica e contemporaneistica (Torino, 23 novembre 2012) sono work in progress e possono essere citati soltanto previo consenso dell’autore.

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Storia atlantica e transatlantica fraetà moderna econtemporanea:Una riflessione storiograficaMAURIZIO VAUDAGNA (Università del Piemonte Orientale)

La storia “atlantica” e la “storia transatlantica” hanno scritto in modi e mo-menti diversi molteplici pagine di storia della storiografia nel secondo dopo-

guerra, ma con importanti anticipazioni precedenti. Pare quasi che un segmen-to significativo della storiografia internazionale e degli intellettuali pubblici internazionalisti si siano frequentemente cimentati a rifondare la “storia atlan-tica”, a passare da una storia atlantica “vecchia” a una “nuova” nel ricostruire il rapporto tra il “Vecchio Mondo” (non solo l’Europa ma anche l’Asia e l’Africa) e quello “Nuovo”. Ed è probabile che questa ispirazione storiografica “atlantica”, come Maria Matilde Benzoni ci spiega nella sua relazione a proposito del libro di Gerbi (1945) La disputa del Nuovo Mondo, risalga in varie formulazioni fino quasi alle origini stesse del rapporto europeo col continente americano: un approccio peraltro in eterno conflitto non solo con la storia nazionale, ma an-che con altre storie sovranazionali, che, definite di volta in volta continentaliste o emisferiche (sia nord che latino-Americane), o globali, tutte insieme hanno sottolineato non solo il tentativo di comprendere “l’altro”, ma anche quello di comprendere se stessi attraverso questo “altro”.

Dagli anni Ottanta-Novanta questa terminologia è stata rinnovata sia negli studi di modernistica che di contemporaneistica: la prima ha riformulato il con-cetto di “Storia Atlantica”, costruendo tra 1492 e inizio Ottocento una unità analitica centrata sullo spazio oceanico, e riferentesi alle circolazioni tra le quattro sponde continentali che esso bagna. La seconda ha rinnovato la “storia transatlantica” (questo è il termine più frequentemente usato dai novecentisti)

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in varie direzioni. Due esempi importanti: l’influente studio di Daniel Rodgers (1998), Atlantic Crossings, ha mostrato l’importanza che la circolazione trans-atlantica di persone, di idee, e di politiche pubbliche di fronte alle sfide della “Seconda rivoluzione industriale” ha svolto nel promuovere “modernizzazioni” competitive o cooperative nel mondo atlantico: un tema quest’ultimo recente-mente ripreso con vigore dal dibattito storiografico impegnato a inserire il rap-porto transatlantico, come sottolineato dal premiato libro di Westad (2005), The Global Cold War, nelle interazioni globali (e qui credo che l’apporto di col-leghi latino-americanisti ed europeisti per arricchire questi accenni storiografici sia particolarmente prezioso).

Sullo sfondo dei precedenti tentativi di “storia atlantica”, ma con una par-ticolare attenzione ai nuovi approcci, questo seminario, che è il primo di tre incontri concordati con Colleghe e Colleghi delle Università di Roma Tre e Bo-logna e sponsorizzati dalla SISSCO, vuole mettere in relazione problematiche, concetti, approcci e risultati emersi in oltre un ventennio di nuove “storie atlan-tiche e transatlantiche” al di là delle distinzioni temporali e delle specializzazio-ni individuali. La convinzione è che una serie di categorie che vengono utiliz-zate dalle diverse scuole storiche, quali impero, colonialismo, razza, commercio internazionale, reti sovranazionali, nazione, statualità, modernità, globalità, e certo non sono tutte, possono assumere significati più ricchi e innovativi, se le loro molteplici utilizzazioni storiografiche sono sistematicamente confrontate, insistendo magari sui terreni di frontiera fra modernistica e contemporaneistica tra seconda metà del Settecento e fine Ottocento. La rottura delle barriere di periodizzazione, per quanto santificate dalla pratica scientifica e istituzionale, è un terreno complicato ma sicuramente fruttuoso. E mi viene in mente con ammirazione il vecchio testo di Macry (1989), La società contemporanea, che, organizzando l’indice per grandi tematiche socio-economiche e politiche (la famiglia, lo stato, la popolazione, l’industrialismo), superava liberamente i con-fini canonizzati di modernistica e contemporaneistica, per trovare di ogni pro-blematica una credibile origine dell’oggi.

La proposta nasce da un disagio e da un’opportunità, che accomuna (o dovrebbe accomunare) tutti i contemporaneisti, ma in particolare i cultori di cose americane. Il senso cioè che dagli anni Ottanta il grande fiorire di storie

Il seminario vuole collegare proble­matiche, con cetti, approcci e risulta­ti emersi in oltre vent’anni di nuove “storie atlantiche e transatlantiche”{ }

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transnazionali di ogni tipo abbia sì creato una grande confusione terminologi-ca e concettuale, ma abbia anche modificato o almeno eroso il paradigma sto-riografico, fondato sullo spazio dello stato-nazione “uscendo”, come ha detto Edoardo Tortarolo, “dalle secche della storia nazionale”. Questo può rendere obsolete molte delle cose che abbiamo scritto in passato, una constatazione certamente triste, ma anche una potenzialità stimolante. Se noi americanisti europei siamo tutti in un certo modo “storici transatlantici” in quanto portiamo con noi nell’affrontare quel processo temporale un patrimonio di valori, metodi, punti di vista, preferenze tematiche derivanti dalla nostra localizzazione, come va affermando un ampio gruppo americanista di ricerca con studiosi dell’ovest e dell’est, modernisti e contemporaneisti, sulla scrittura di storia nordameri-cana in Europa, la nostra collocazione alla periferia del nostro oggetto di stu-dio, che tanto ha nutrito la nostra “doppia marginalità” europea e americana, che abbiamo così spesso lamentato, diventa una risorsa in quanto il punto di vista “di fuori” dello spazio nazionale diviene una prospettiva preziosa per una storia sovranazionale. Si pensi, per esempio, al ruolo dell’australiano Ian Tyrrell nell’affiancarsi e quasi anticipare autori statunitensi nel definire criteri e con-cetti della storia transnazionale nordamericana (lo stesso discorso vale certa-mente anche per cultori di storie asiatiche, africane e sicuramente, anche per studiosi europeisti di paesi europei diversi dal proprio).

Ci sono concetti che sono di ampio uso sia dei modernisti atlantisti sia dei contemporaneisti, che sembrano avere una contiguità che manca talora di comunicazione. Prendiamo la parola schiavitù, una categoria centrale nella “storia atlantica” modernista. Tanto è vero che alcuni storici, come ad esempio Joyce E. Chaplin, fanno finire l’Atlantic History nel 1808, momento di abolizione della tratta, tassello centrale del mondo atlantico cinque-settecentesco. Ep-pure per il contemporaneista europeista e americanista l’interesse continua. Il primo può constatare, come indicato dagli studi di Pap Ndiaye sulla condizione nera in Francia, alla luce anche dell’esperienza nera nel continente americano, quanto difficile, spesso impossibile, fosse realizzare l’abolizione della schiavitù proclamata dalla rivoluzione francese nei territori coloniali appunto francesi nel mondo centro americano e caraibico, in Africa, nei possedimenti francesi dell’Oceano Indiano. D’altra parte l’esperienza della tratta o la sua memoria identificante sono centrali nel determinare comportamenti e valori delle co-munità schiavistiche nordamericane, ma certamente anche caraibiche, ed essa ipotizza continuità culturali africane, loro presunte cancellazioni, loro ibridazio-ni tra memoria, trauma e attualità. È questa condizione schiavistica così legata al trauma della tratta e ai processi di etnicizzazione e razzializzazione che si affermano nelle società coloniali modernistiche, che a sua volta condiziona comportamenti di massa dei neri nordamericani tradotti ad esempio nel di-

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battito sul perché delle grandi migrazioni nere dal sud agrario verso il nord urbano, che alcuni storici attribuiscono proprio all’eredità dello schiavismo. È in questo intreccio di continuità e rotture che travolgono i limiti periodizzanti, che è interessante confrontare come elaborano e usano il concetto di schiavitù i modernisti, soprattutto atlantisti ma non solo, e i contemporaneisti di varia specializzazione.

Ancora, il rapporto modernistica-contemporaneistica sul terreno atlantico si può esplorare andando a esaminare le linee di confine tra le due specializ-zazioni, nella consapevolezza che i confini sono altrettanto linee di divisione quanto di passaggio e di porosità, per cui il problema diventa quello di cosa si perde e di cosa passa e con quali trasformazioni e modifiche. Federica Morelli afferma che la storia atlantica

“termina quando nuove sfide politiche, economiche, tecnologiche e morali incrinarono l’integrità che era emersa nel mondo atlantico tra il di-ciassettesimo e il diciottesimo secolo. I limiti cronologici non coincidono quindi con quelli delle tradizionali periodizzazioni della storia – medie-vale, moderna e contemporanea … perché i tradizionali confini tra e poca moderna e contemporanea non hanno alcun significato per la storia

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Benjamin West, “The Death of General Wolfe“ (1770). Il quadro rappresenta la morte del generale britannico Wolfe durante la Battaglia del Québec (1759) della Guerra dei sette anni.

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atlantica, in quanto né la fine degli imperi, con la conseguente nascita di nuove nazioni indipendenti, né la fine dell’epoca rivoluzionaria deter-minarono la scomparsa di alcuni elementi essenziali del mondo atlantico, come la tratta, la schiavitù, le migrazioni” (Morelli 2013). Proprio questa citazione che postula la fine della “storia atlantica”, dovuta

alla crisi degli imperi dopo la Guerra dei sette anni, al sorgere degli stati na-zione e alla fine della tratta, tutti fattori che ad avviso dell’autrice interrom-pono quell’interazione tra europei, africani e amerindi che caratterizzava le so-cietà atlantiche, sottolinea tuttavia altrettanto le permanenze e le continuità. È un’analisi che si può fare intrecciando considerazioni di periodizzazione con considerazioni di processi tematici.

Sul terreno del concetto di impero, ad esempio, l’ampio lavoro fatto dai modernisti sulla storia degli imperi e sulla storia atlantica ha già contribuito ad aggiornare la cultura storica media dei contemporaneisti: questi tendevano prevalentemente a derivare il proprio concetto di impero dall’età degli imperi mondiali della seconda metà dell’Ottocento, con controllo dei territori e am-pie amministrazioni coloniali, magari coltivando poi l’immagine che gli imperi modernisti consistevano in controlli apicali, efficaci ma rarefatti, di popolazioni fondamentalmente auto-amministrate e soggette a repressioni non solo eu-ropee ma provenienti da conflitti etnico/razziali e religiosi interni a quelle aree e dalle gerarchie interne di quelle società. Il che denunciava non solo un ac-centuato eurocentrismo, ma anche una gerarchizzazione delle stesse metropoli europee con una vocazione teleologica al Novecento, per cui c’erano imperi coloniali “seri” e di cui il contemporaneista sapeva qualcosa (quello britannico e francese), altri residuali e passeggeri (quello olandese e belga), e i “grandi malati” della storia mondiale (quelli spagnolo, portoghese, turco, magari an-che quello russo), di cui pochissimo si sapeva fuori degli specialisti e a cui venivano normalmente applicati stereotipi negativi (passatisti, antimoderni). Per il nordamericanista “medio” la presenza spagnola, francese, olandese, russa nell’emisfero nord veniva trattata come entità passeggere in attesa teleologica che il “manifest destiny” statunitense, un concetto molto vicino a motivazioni di espansione imperiale, le cancellasse, nel progressivo costituirsi degli Stati Uniti nella dimensione territoriale novecentesca.

Ora, non solo gli imperi iberici hanno fatto, grazie agli studi modernisti, un loro giusto, importante ingresso nella cultura generale dello storico, uscendo dalla sola consapevolezza dello specialista, ma alcune opinioni sostengono che, ad esempio, con la perdita delle colonie americane, si inaugura un “secondo impero inglese”, (e probabilmente un “secondo impero spagnolo”) oppure che, alla luce degli imperi di età moderna, si deve distinguere una “seconda fase”

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dell’espansione coloniale imperiale, quella più nota al contemporaneista. Se fino a vent’anni fa quest’ultimo fissava l’attenzione imperiale sull’Ottocento e poi arretrava nel tempo per analogia, adesso il processo sembra essersi capo-volto dal moderno al contemporaneo. Ma viene allora da chiedersi quali sono le fertilizzazioni concettuali reciproche che possiamo scorgere nell’utilizzazione del concetto di impero da parte di modernisti e contemporaneisti e i nessi di differenza continuità che distinguono le varie fasi dell’imperialismo.

Prendiamo ad esempio l’idea della crisi degli imperi moderni e degli spazi atlantici interdipendenti nell’“era delle rivoluzioni democratiche” del tardo Settecento, per riprendere il titolo del famoso libro di Robert R. Palmer che anch’egli negli anni Cinquanta aveva tentato di fondare una storia occidentali-sta della “civiltà atlantica”. E, tuttavia, il costruirsi di un’identità nazionale norda-mericana si accompagna a una riflessione emisferica e continentalista a forte componente espansiva e missionaria, che sembra negare una concezione di stato-nazione indirizzata a ritagliare identità più limitate e separate all’interno delle grandi dimensioni intellettuali e territoriali ereditate dal mondo medie-vale e moderno. E mi chiedo, e chiedo ai Colleghi, se per esempio le stesse ri-flessioni non valgano anche per i piani bolivariani della Gran Colombia di primo Ottocento. Il che pone anche il problema della natura dell’Ottocento che, visto frequentemente come il secolo dell’affermazione dello stato-nazione, forse porta anche con sé fermenti universalistici che possono collegare la caduta o la crisi dei grandi imperi modernisti con l’affermazione dei “secondi imperi” di metà-fine secolo.

Oppure dobbiamo vedere la svolta di inizio Ottocento con la fine dell’Atlantico del sedicesimo-diciottesimo secolo, come un passaggio verso la “modernità” o verso la “modernizzazione”, concetti molto cari ai contempora-neisti, ma di storia e uso molto problematico. Infatti essi scontano anzitutto la contraddittorietà terminologica, e non solo tale, di identificare il loro progresso con il lasciarsi alle spalle quella fase storica che viene comunemente chiama-ta “storia moderna” magari con l’ambigua distinzione anglosassone tra early modern e modern history, il che naturalmente pone il problema di contiguità e differenze di questa terminologia quando applicata a cinquecento anni di sto-ria moderna e contemporanea.

Ancora, trovo che l’insistenza sulle interazioni multidirezionali e interdi-pendenti che caratterizza la storiografia atlantica e imperiale modernistica, sia un’utile spunto di riflessione per chi tratta la relazione politica, economica e culturale tra Stati Uniti ed Europa novecentesca (ma qui mi piacerebbe cono-scere l’opinione dei colleghi latino-americanisti sull’interpretazione di Marcel-lo Carmagnani dell’America Latina come “l’altro Occidente” linguisticamente, antropologicamente e socialmente vicina all’asse Stati Uniti-Europa, in quanto,

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fin dall’epoca coloniale, parte della cosiddetta “diaspora europea” e quindi più adatta ai processi di “modernizzazione” del mondo asiatico o africano così di-versi). Che si usi o meno l’ormai apertamente criticato concetto di “americaniz-zazione”, chi parla invece, come Victoria De Grazia nel suo peraltro bellissimo libro, di un “impero irresistibile” (De Grazia 2005), non solo della potenza po-litica ma soprattutto dei consumi e delle culture di massa, lascia agli Europei uno spazio solo unidirezionale di ibridazione nell’accoglimento dell’influenza statunitense. Mi pare invece molto interessante la recentissima tesi multidi-rezionale della studiosa americana Mary Nolan, storica della Germania, nel suo recente, importante volume The Transatlantic Century (Nolan 2012) e nell’importante convegno su “Il ruolo dell’Europa nella complessa storia del mondo atlantico, 1950–1970” da lei organizzato nel giugno 2012 all’Istituto Storico Tedesco di Washington, che sostiene che:

“l’interpretazione tradizionale di una coerente comunità atlantica coe-rente del dopoguerra dominata dal potere hard e soft degli Stati Uniti, e di un modello americano di modernità che ha pervaso i discorsi sociali scientifici ed economici, necessita di una revisione. Malgrado lo spostarsi delle relazioni transatlantiche di potere dopo la Seconda guerra mon-diale a favore degli Stati Uniti, voci europee continuarono a svolgere un ruolo vivace nel costruire il concetto dell’occidente transatlantico, e nei networks sempre più mobili di esperti e professionisti che dominarono le discussioni dell’era postbellica sulla modernizzazione sociale”.

Ma su questo la relazione di David Ellwood, che ha appena pubblicato in italiano da Carocci il “concorrente” volume Una sfida per la modernità (Ellwood 2012), ha molte cose da dirci. Semmai questa storiografia contemporaneistica dedica grande attenzione al tentativo di collocare la relazione transatlantica nello spazio storico globale, un approccio a mio avviso assai utile alla rifles-sione degli atlantisti modernisti, spesso soggetti alla critica, ad esempio della Gabaccia, di trattare lo spazio atlantico delle “quattro sponde” come area con-finata che esclude apporti da altre grandi aree continentali, in un globalismo che varrebbe invece già per la dimensione modernistica.

L’incontro avrà successo solo se si focaliz zerà su un terreno di confronto tra gli strumenti metodolo gici e con­cettuali delle varie specia lizzazioni{ }

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Considerazioni in certa misura simili si potrebbero fare per il confronto sul terreno della storia delle migrazioni in epoca moderna e contemporanea – si veda la relazione di Simone Cinotto –, del colonialismo, delle società multiet-niche, della storia del “concetto di nazione (più che su quello di stato)” – dice la Morelli ispirandosi a J.-F. Schaub – “non nel senso politico moderno – la na-zione come depositaria della sovranità –, ma come appartenenza a una comu-nità più ampia di quella della città o della provincia, senza tuttavia attribuirgli il significato di nazione ‘etnica’” (Morelli 2010, 59).

Insieme a Marco Mariano, quali organizzatori di questo primo incontro della serie, sappiamo che esso avrà successo solo se praticherà un ampio spazio di dibattito che non si perda in un pur interessante confronto tra con-temporaneisti o modernisti tra di loro (o tra europeisti o americanisti del sud o del nord separatamente), ma che focalizzi l’attenzione proprio su quel terreno dove gli strumenti metodologici e concettuali delle varie specializzazioni tem-porali geografiche e tematiche si possono confrontare.

BIBLIOGRAFIA:De Grazia V., Irresistible Empire: America’s Advance through 20th­Century Eu­

rope, Cambridge (MA), Harvard University Press, 2005.Ellwood D., Una sfida per la modernità. Europa e America nel lungo Novecento,

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I limiti cronologici della storia atlantica:Il problema della cesurarivoluzionariaFEDERICA MORELLI (Università di Torino)

La Storia atlantica ha, tra i suoi molti pregi (oltre a quello di aver messo in evidenza le connessioni tra africani, amerindiani ed europei al di là delle

frontiere nazionali e imperiali), quello di aver messo fortemente in questione i limiti delle periodizzazioni tradizionali, ancora molto forti e caratterizzanti per i nostri insegnamenti, tra storia medievale, moderna e contemporanea.

Da un lato la Storia atlantica ha messo in questione l’evento della scoperta, il 1492, come uno degli elementi fondatori dell’epoca moderna. La formazione di uno spazio atlantico comincia infatti ben prima del 1492, alla fine dell’epoca medievale, grazie a un processo molto graduale, che implicò dinamiche di e splorazione, incontri e scambi, l’interazione tra percezioni geografiche e realtà. In questa ottica, il viaggio di Colombo non rappresenta tanto l’inizio di un’era, quanto piuttosto il culmine di un processo molto più ampio, che dalla costru-zione commerciale di un Atlantico europeo – che legava il Baltico al Mediter-raneo –, passando per gli sviluppi della cartografia e della navigazione, arriva sino alla conquista e colonizzazione degli arcipelaghi dell’Atlantico orien tale, tappa imprescindibile per l’espansione europea in Africa occidentale e per la conquista delle Americhe (Fernández-Armesto 1987).

Ancora più labile e incerto diventa il limite tra storia moderna e storia con-temporanea. Mentre i primi studi di storia atlantica vedevano il limite nelle ul-time indipendenze del Nuovo Mondo, ossia quelle iberoamericane degli anni Venti, oggi la questione è oggetto di un profondo dibattito. In effetti, gli studi sull’epoca rivoluzionaria hanno messo in evidenza che i movimenti di emanci-pazione, nonostante abbiano implicato l’introduzione di molti strumenti della modernità politica (come il costituzionalismo, le dichiarazioni dei diritti, il re-pubblicanesimo), non sono più considerate oggi dalle rispettive storiografie come eventi fondatori degli stati nazionali moderni.

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Inoltre, nonostante i processi rivoluzionari, ci sono delle forti continuità tra l’epoca pre- e post-indipendenza, come la continuazione della tratta (illegale), il mantenimento della schiavitù o del tributo indigeno nell’America spagno-la. Molti studiosi hanno quindi considerato che il limite della Storia atlantica vada spostato più avanti, almeno alla fine del diciannovesimo secolo (Roth-schild 2011). Personalmente, condivido questa impostazione con un distinguo: ossia, vedrei nell’epoca rivoluzionaria un “terzo momento”, un periodo che si distingue sia dall’epoca coloniale, che da quella post-coloniale mantenendo delle caratteristiche ben precise. Ad esempio, per quanto riguarda la tratta e la schiavitù, che rappresenta uno degli elementi fondamentali del mondo atlan-tico, l’era delle rivoluzioni sembra rappresentare un vero e proprio spartiacque nella storia della schiavitù atlantica. Se negli anni Sessanta del Settecento la proprietà degli schiavi era comune nelle Americhe, onnipresente in Africa e ammessa in Europa e se la tratta degli schiavi, così come i beni prodotti da-gli schiavi, guidavano l’economia atlantica, nel 1820 questo sistema era stato fortemente attaccato in alcuni contesti e messo a dura prova in altri: nelle peri-ferie del mondo schiavista, dove l’uso degli schiavi era utile ma non necessario alla riproduzione del sistema economico, la schiavitù era stata proibita, mentre quattro dei principali stati che praticavano la tratta – Gran Bretagna, Francia, Olanda e Stati Uniti – avevano formalmente abolito il traffico degli schiavi. Gli ex-schiavi di Saint Domingue, la colonia di piantagione più redditizia delle Americhe alla fine del Settecento, non solo avevano abolito la schiavitù ma avevano creato uno stato indipendente. Sembrava quindi che l’era rivoluzio-naria avesse comportato l’inizio del processo dell’abolizione della tratta e della schiavitù (Davis 2006; Brown 2006).

Eppure, allo stesso tempo, non c’erano mai stati così tanti schiavi nelle Ame-riche come nel 1820. La frontiera schiavista si era espansa drammaticamente nel corso di quegli anni, con centinaia di migliaia di acri messi a coltivazione nei Caraibi e nel Nord America. La tratta inoltre raggiunse un nuovo picco: si stima che 488 mila schiavi furono imbarcati per le Americhe tra il 1826 e il 1830. Solo una volta, in tutta la storia della tratta Atlantica, un numero maggiore di schiavi era stato imbarcato dall’Africa in cinque anni. Ciò significa che questo periodo rappresenta un’epoca di crescita straordinaria per l’istituzione della schiavitù, ma anche, dall’altro lato, dell’ethos dell’antischiavismo. L’era delle ri-voluzioni non segna dunque il termine del sistema schiavistico atlantico, ma

Molti studiosi ritengono che il limite della Storia atlantica vada sposta­to almeno alla fine dell’Ottocento{ }

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un suo profondo riposizionamento. Da un lato, si assiste a una diversificazione dell’economia schiavista, con Cuba e Brasile che ricevono la maggior parte de-gli schiavi importati dall’Africa (sviluppo delle piantagioni di zucchero e caffè a Cuba e di caffè e cotone in Brasile). Dall’altro le rivoluzioni, con le loro guerre interne e internazionali, avevano contribuito alla liberazione di numerosi schia-vi e alla loro inserzione nell’arena politica (Brown e Morgan 2006).

Le autorità imperiali, spesso, rispondevano ai movimenti ribelli invitando gli schiavi a difendere l’ordine coloniale in cambio della libertà. Gli ufficiali britannici offrirono la libertà in modo sistematico agli schiavi, specialmente durante la rivoluzione americana e la Guerra del 1812. I realisti spagnoli se-guirono l’esempio britannico contro i movimenti patriottici in Nuova Grana-da e Venezuela, ottenendo l’appoggio di molti schiavi. La maggior parte dei grandi proprietari terrieri del continente si rifiutarono di armare gli schiavi du-rante l’epoca delle rivoluzioni. Al di fuori delle economie di piantagione, in-vece, l’atteggiamento fu diverso. Nelle zone temperate del Nord America in-glese e del Sud America spagnolo, dove il numero degli schiavi era significativo ma non troppo grande, i leader coloniali spesso arruolavano gli schiavi negli e serciti ribelli. Lo stesso Bolívar, nonostante fosse un convinto sostenitore della schiavitù come istituzione e temesse gli uomini di colore, capì, specialmente dopo i tentativi falliti di istaurare delle repubbliche indipendenti tra il 1812 e il 1814, che l’unico modo per vincere gli spagnoli era arruolare gli schiavi e gli uomini di colore negli eserciti indipendentisti. Anche se spesso i suoi proclami contro la schiavitù erano puramente strumentali, molti schiavi acquisirono la libertà arruolandosi negli eserciti indipendentisti.

Le guerre, comunque, non offrirono agli schiavi solo la libertà. Molti ex-schiavi infatti non si limitarono a rivendicare la libertà ma pretesero gli stessi diritti degli altri cittadini. Coloro che avevano combattuto nell’esercito conti-nentale durante la rivoluzione nordamericana chiesero di essere riconosciuti come “patrioti americani”, così come lo chiesero coloro che avevano parte-cipato alle guerre di indipendenza nell’America spagnola. La tendenza a esalt-are l’abolizione pacifica della schiavitù ha oscurato, in effetti, per molto tempo l’importanza della violenza e delle guerre per la liberazione degli schiavi. Anche se l’era delle rivoluzioni non segna il termine del sistema schiavistico atlantico, i movimenti rivoluzionari svelarono una nuova dimensione del possibile che, da allora in poi, influenzò le aspirazioni degli schiavi e degli abolizionisti, culmi-nando, tra gli anni Trenta e Novanta del diciannovesimo secolo, nell’abolizione della schiavitù in tutto il mondo atlantico.

Alla luce delle forti continuità dell’epoca indipendente rispetto al periodo precedente l’epoca rivoluzionaria, ci si è chiesto quale sia il significato del ter-mine “coloniale”. In effetti se gli diamo come limite l’indipendenza dalle rispet-

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tive madrepatrie, il termine non designa più dei rapporti socio-politici specifici, ma indica piuttosto un semplice limite cronologico. Tuttavia, ci si può doman-dare se l’abolizione tardiva della schiavitù e il crescente razzismo delle società bianche rispetto ai neri e agli indigeni, nel quadro degli stati-nazionali otto e novecenteschi, appartenga o meno alla storia coloniale. Le società coloniali di popolamento, come quelle americane dell’epoca moderna, si distinguono in-fatti dagli imperi coloniali dell’epoca contemporanea per un tratto essenziale: qui i coloni (settlers) sono sia dei colonizzatori nei confronti delle popolazioni indigene e africane che dei colonizzati in quanto dipendenti politicamente, giuridicamente e commercialmente dalle metropoli europee. Se adottiamo quindi il punto di vista delle teorie post-coloniali, la storia nazionale non rap-presenta che un’estensione di quella coloniale (Schaub 2008; Chaplin 2003).

Questa prospettiva, discussa soprattutto in ambito nordamericano, critica apertamente la subordinazione della storia coloniale americana a quella degli Stati Uniti. Afferma Jack Greene a questo proposito: “non si può più pensare al coloniale come a qualcosa di esclusivamente pre-nazionale” (Greene 2007). Tale prospettiva vuole infatti porre l’esperienza coloniale americana in un con-testo più ampio, che integri le altre esperienze coloniali inglesi nel Nuovo Mon-do e le esperienze coloniali di altri imperi. Non solo, ma Greene ci dice anche che gli Stati Uniti si sono formati all’interno di un mondo costituito da imperi. Non c’è quindi da meravigliarsi se la corsa alla terra, l’espansione verso ovest,

17John Trumbull, “The Declaration of Independence“ (1817).

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la forma federale sono degli elementi che ritroviamo nello stato imperiale da cui sono nati e negli altri imperi dell’epoca. In questo modo la storia americana non è più quella dell’eccezionalismo, ma può essere comparata ad altre regioni. Il problema dell’occupazione delle terre, dell’espansione verso zone di frontiera o la forma da dare ai nuovi stati indipendenti (federalismo o centralismo) è una caratteristica anche della maggior parte degli stati latinoamericani ottocente-schi.

Anche le interpretazioni storiografiche sulle rivoluzioni hanno contribuito a mettere in dubbio la questione del limite cronologico dell’indipendenza. Se guardiamo alla rivoluzione americana, ad esempio, fino a non molto tempo fa, essa era considerata prevalentemente da un punto di vista “nazionale”, come l’evento che aveva dato vita agli Stati Uniti d’America. Questa prospet-tiva trascurava tuttavia molte delle caratteristiche della rivoluzione americana. In primo luogo, enfatizzando lo sviluppo di un’identità americana durante la colonia, aveva ignorato le strette relazioni tra britannici e americani prima del 1776 e, soprattutto, il fatto che la maggioranza dei coloni si sentivano britan-nici a tutti gli effetti. In secondo luogo, concentrandosi esclusivamente sulle Tredici colonie, aveva separato la storia di quest’ultime da quella delle altre regioni del Nord America e dei Caraibi, che non si ribellarono ma che restarono leali alla Gran Bretagna. Le stime indicano che circa un 20 per cento della po-polazione delle Tredici colonie, ossia 500 mila persone circa, erano ancora fe-deli alla Corona alla fine della guerra: come ha studiato Maya Iasanof 60 mila di questi, a cui vanno aggiunti 15 mila schiavi, lasciarono gli Stati Uniti come parte di una diaspora globale che raggiunse il Canada, la Florida, le Bahamas, la Sierra Leone, l’India e l’Australia (Jasanof 2011; O’Shaughnessy 2000). Infine, decantando l’eroismo e il sacrificio degli eroi dell’indipendenza, ha nascosto lo spettro della violenza rivoluzionaria – si è parlato a questo proposito di “rivo-luzione pacifica” – e le tendenze anti-libertarie della rivoluzione, soprattutto per ciò che concerne gli schiavi.

La stessa cosa si può dire per gli stati ispano-americani. Il modello predomi-nante è stato, fino a una ventina di anni fa, quello della historia patria, che considerava l’indipendenza come un processo ineluttabile e necessario, cre-atore della nuova patria. L’indipendenza dalla Spagna era dunque considerata un movimento di liberazione nazionale e la volontà di emanciparsi la causa fondamentale della lotta. Quest’ultima era presentata come una guerra di de-colonizzazione, un conflitto tra liberali (gli indipendentisti) contro gli assolutisti (gli spa gnoli). Un’interpretazione, questa, che insisteva molto sull’epopea e sui grandi eroi (Bolívar, San Martín) e che, grazie anche al dibattito acceso dai pro-cessi di decolonizzazione del secondo dopoguerra, ha continuato a giocare, sul piano storiografico e dell’opinione pubblica, una grande influenza. Tale visione

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è stata ampiamente attaccata dalla nuova storia politica che, a partire dall’inizio degli anni Novanta, ha definitivamente rifiutato la prospettiva nazionalista per spiegare l’indipendenza ispano-americana (Guerra 1992; Rodríguez 1996). Gli stati sorti dalle ceneri della monarchia spagnola non sono la causa della sua dissoluzione, ma al contrario sono il risultato di un processo più ampio che inizia nel 1808 con la crisi della monarchia. In altre parole, mentre per lungo tempo si è pensato che furono le indipendenze a causare il crollo della monar-chia e del suo impero, negli ultimi venti anni si è passati a una visione opposta: fu la gravissima crisi innescata dalle abdicazioni dell’intera famiglia reale nelle mani dei Borboni a far collassare l’impero e favorire le emancipazioni delle co-lonie americane.

In questo caso, come lo era stato per i territori nordamericani, non era la separazione dall’impero che era in gioco, ma come riformarlo e ricostituirlo su nuove basi, anche attribuendogli un nuovo centro o più centri. In un’età di rivoluzioni, come dimostra Jeremy Adelman, fu la sovranità a essere contesa all’interno degli imperi atlantici (Adelman 2010). Jefferson e Wilson, ad esem-pio, avevano entrambi immaginato la ricostituzione dell’impero sulla base di una completa autonomia legislativa delle colonie e della madrepatria, cui si accompagnasse una funzione di raccordo e di garanzia dell’unità imperiale da parte della corona, secondo un modello destinato a conoscere fortuna con il Commonwealth. La stessa cosa fecero i protagonisti delle rivoluzioni ispano-americane almeno sino all’inizio degli anni Venti dell’Ottocento.

Anche nel caso haitiano, come ha dimostrato Geggus, l’indipendenza non

19Tito Salas, “Discurso en el Congreso de Angostura“ (1941).

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fu l’obiettivo principale di nessuna delle parti in gioco. Né dei bianchi e dei liberi di colore, che preferivano l’autogoverno piuttosto che l’indipendenza (il motivo di questa scelta dipendeva ovviamente dal fatto che gli schiavi dell’isola superavano di gran lunga i due gruppi), né degli schiavi ribelli, il cui obiettivo principale era l’abolizione della schiavitù. Quando la repubblica francese abolì la schiavitù, la maggior parte degli schiavi si allinearono con i francesi, poiché si sentivano maggiormente tutelati nei loro interessi. Solo il tentativo di Na-poleone di ristabilire la schiavitù sull’isola convinse gli ex-schiavi a schierarsi a favore dell’indipendenza (Geggus 2001).

Come hanno dimostrato le rispettive storiografie, furono le rivoluzio ni a pro-durre le nazioni, non il contrario. Anzi, come afferma Armitage, la vera conqui-sta di questi movimenti fu la statualità e non la nazionalità, ossia l’affermazione di stati indipendenti e concorrenti di quelli europei (Armitage 2007). Sia per gli Stati Uniti che per la maggior parte dei paesi iberoamericani, occorrerà aspet-tare almeno la seconda metà dell’Ottocento per vedere finalmente la nascita di nazioni: nel caso degli Usa, con la seconda guerra civile, la Guerra di secessione (1861–1865) e nel caso dei paesi ispanoamericani con la fine dell’instabilità politica provocata dalle numerose guerre dei caudillos, nel corso della seconda metà dell’Ottocento.

La storia della trasformazione degli imperi inglese, francese, spagnolo e portoghese in stati indipendenti condivide, quindi, molti più aspetti di quello che la separazione geografica e storiografica ha sempre lasciato supporre. Se allarghiamo l’arco cronologico dalla Guerra dei sette anni e se invece di termi-nare negli anni Venti dell’Ottocento, con l’indipendenza della maggior parte dei paesi americani dalle metropoli europee, includiamo anche tutta la prima metà del diciannovesimo secolo, ci rendiamo conto che molte questioni si pre-sentano in tutto il mondo atlantico: le guerre e la crisi degli imperi, il compli-cato rapporto tra autonomia e indipendenza, la dinamica tra guerre internazio-nali e guerre civili, la difficoltà di creare stati nazionali in contesti multietnici, il costituzionalismo e il repubblicanesimo, la delicata relazione tra federalismo e centralismo. In tutti questi casi, il passaggio dagli imperi agli stati nazionali non fu semplice e lineare, come a volte si è sostenuto. Anzi, fu molto compli-cato e niente affatto automatico, dato che alcuni elementi ereditati dall’epoca coloniale si articolarono e intrecciarono con nuove forme e istituzioni politiche (Morelli, Thibaud e Verdo 2009). Quindi, anche se analizziamo la questione dal punto di vista della formazione di nuove entità statali e nazionali, ci sembra che il limite cronologico più appropriato sia da spostarsi nella seconda metà del diciannovesimo secolo.

Oltre alla continuità di alcune pratiche e istituzioni di origine coloniale, occorre sottolineare che l’indipendenza degli Stati Uniti, di Haiti o dei paesi

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iberoamericani non implica la fine degli imperi coloniali nel Nuovo Mondo, in quanto numerose colonie inglesi, francesi, spagnole continuarono a soprav-vivere nel continente per buona parte del diciannovesimo secolo. Gli imperi quindi non scomparvero, ma sopravvissero accanto a nuove forme statuali. Tuttavia, alcuni problemi che imperi e stati indipendenti dovettero affrontare furono in realtà molto simili e legati al contesto imperiale da cui provenivano.

Due questioni in particolare, che gli stati indipendenti si ritrovarono ad af-frontare, avevano la loro origine nella forma particolare degli imperi dell’epoca moderna: la definizione del territorio e quella della cittadinanza. Per quanto riguarda il primo punto, dobbiamo considerare che il controllo del territorio non era mai stato un obiettivo fondamentale dell’espansione imperiale. Gli imperi dell’epoca moderna erano spazi politicamente frammentati, giuridica-mente differenziati e con frontiere indefinite, irregolari e porose. Nonostante gli imperi rivendicassero il dominio su vasti territori, questa rivendicazione era limitata dal controllo effettivo dello spazio, il quale si limitava generalmente a frange, corridoi o enclave strategici (Benton 2010). Spesso le potenze europee difendevano il dominio imperiale attraverso rivendicazioni limitate, strategiche e simboliche. Gli stessi conflitti inter-imperiali spesso si concentravano su di-mostrazioni simboliche di potere più che l’effettivo controllo di frontiere e la costruzione di istituzioni distribuite sul tutto il territorio.

La transizione verso lo stato decimononico non eliminò improvvisamente questa situazione. Molte delle nuove entità territoriali che sorsero dalle ceneri degli imperi non avevano infatti dei confini ben definiti, né controllavano la totalità del territorio su cui reclamavano la sovranità. Molte costituzioni ameri-cane della prima epoca repubblicana prevedevano infatti la possibilità di mu-tare il territorio nazionale federandosi, confederandosi con altre entità territo-riali, come ad esempio la Gran Colombia tra il 1819 e il 1830.

L’altro problema fu quello della definizione della nazione in società multiet-niche: come integrare l’eterogeneità che caratterizzava queste società nel con-cetto livellatore della nazione? La storiografia ha insistito molto nel dimostrare che il concetto di cittadinanza ottocentesco era estremamente escludente per ciò che riguarda le persone di origine africana e gli indigeni. Tuttavia, la que-stione non è così semplice e, come ha dimostrato la storiografia sull’America iberica, per buona parte dell’Ottocento non ci fu un’esclusione così drastica degli indigeni dalla cittadinanza (Annino 1995; Irurozqui 2005).

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L’indipendenza degli USA, di Haiti o dei paesi iberoamericani non implica la fine degli imperi coloniali in America{ }

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Negli imperi dell’epoca moderna, infatti, la costruzione dello status giuridi-co dei sudditi fu multipla e flessibile: la possibilità di appartenere a più di una corporazione o di un gruppo, di cambiare lo status giuridico, di utilizzare gli ar-gomenti giuridici in modo elastico per ampliare o limitare determinate catego-rie furono elementi importanti delle politiche imperiali. Persino una categoria apparentemente stabile, come quella di schiavo, era instabile e geografica-mente variabile.

Anche se le ex-colonie inglesi furono sicuramente più escludenti rispetto a quelle iberoamericane, i principi di allegiance e di vecindad, di origine colo-niale, furono utilizzati per stabilire linee di esclusione o inclusione anche dopo l’indipendenza. Il concetto di allegiance divideva le tribù che rientravano nella giurisdizione coloniale da quelle che invece erano fuori dalla giurisdizione co-loniale. Le prime godevano della protezione del monarca, le altre no. Ciò che occorre sottolineare è che la condizione di appartenenza o estraneità, anche nei primi decenni dell’epoca repubblicana, si decideva in modo giurisdizionale man a mano che i casi arrivavano nei tribunali (Kettner 1978; Baylin e Morgan 1991).

Nel caso spagnolo, fin dal sedicesimo secolo gli indigeni, tranne quelli di frontiera, gli indios bravos (la cui condizione fu simile a quella degli indigeni del Nordamerica), furono riconosciuti come vassalli del re. Questa tradizione includente si riflette nell’utilizzo del concetto di vecindad sia durante l’epoca liberale spagnola che durante l’epoca indipendente, attraverso il quale molti indigeni furono formalmente inclusi nella categoria di cittadino. Tuttavia, la condizione di vecino non era stabilita dall’alto (in base a parametri precisi), ma dal basso e rimandava al principio di notorietà e di appartenenza alla comu-nità. Per cui, alla fine era la comunità a decidere se una persona rientrasse o meno nella condizione di vecino, utilizzando ovviamente un certo margine di discrezionalità.

Anche se nel Nord America un’applicazione restrittiva del concetto di alle­giance limitò notevolmente le possibilità di inclusione degli indigeni nel corpo politico della nazione, quello che è importante sottolineare è la difficoltà per gli stati nati dalle ceneri di imperi multietnici di imporre una linea chiara di in-clusione o esclusione nella cittadinanza.

Le questioni della definizione del territorio e della cittadinanza possono es-sere dunque considerate il risultato della difficile e ambigua articolazione tra il vecchio e il nuovo, tra le costituzioni moderne e le antiche leggi imperiali. No-nostante tale ambiguità riguardi anche numerose istituzioni e pratiche politiche degli stati europei ottocenteschi, ci sembra che le questioni del territorio e della cittadinanza siano estremamente più complesse e difficilmente risolvibili in quegli spazi che appartenevano a ampie entità territoriali composte, come

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gli imperi dell’epoca moderna. Non solo perché si tratta di territori molto estesi e frammentati, ma anche perché si tratta di società multirazziali e multietniche.

Per tutti questi motivi, riteniamo che i limiti della storia atlantica vadano spostati molto più avanti rispetto alla cesura dell’indipendenza. Anche se il consolidamento degli scambi commerciali e l’arrivo di nuove ondate migra-torie nella seconda metà del diciannovesimo secolo confermano l’esistenza di uno spazio atlantico, tuttavia da questo spazio inizia a eclissarsi, proprio in questo periodo, uno dei protagonisti del mondo atlantico moderno: l’Africa e gli africani.

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Il mondo atlantico,il lungo Ottocentoe la storiacontemporaneaMARCO MARIANO (Università del Piemonte Orientale)

Le nostre relazioni con l’America settentrionale a prima vista sembrerebbero es­sere di tipo puramente commerciale, vista la distanza che ci separa, ma oggi le distanze si riducono a causa della moltiplicazione dei mezzi di comunicazione, e gli innumerevoli rapporti che si sono stabiliti tra il vecchio mondo e il nuovo hanno creato tra questi una tale complessità di interessi che tutti i mutamenti politici che si annunziano o hanno inizio in uno dei due mondi devono avere

necessariamente grandi conseguenze nell’altro. I trattati di commercio nascon­dono spesso mire politiche. (Solaro della Margarita 1838)

A change has now come over the affairs of mankind. Walled cities and empires

have become unfashionable. The arm of commerce has borne away the gates of the strong city. Intelligence is penetrating the darkest corners of the globe.

It makes its pathway over and under the sea, as well as on the earth. Wind, steam, and lightning are its chartered agents. Oceans no longer divide, but link

nations together. From Boston to London is now a holiday excursion. Space is comparatively annihilated. Thoughts expressed on one side of the Atlantic are

distinctly heard on the other. (Douglass 1852)

It is manifest that in seeking to separate ourselves from the great wars of Eu­rope, we cannot rely on the Atlantic ocean. It has never been a barrier to in­

volvement in wars. Our geography books are as misleading as our history books … our people have been miseducated to think that oceans are an im­pregnable barrier. Oceans are not a barrier. They are a highway. (Lippmann

1940) 25

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Ho scelto di aprire il mio intervento offrendovi queste tre citazioni perché credo siano indicative della complessità, densità e continuità dei legami

che tra Ottocento e Novecento legano l’Europa e le Americhe. In primo luogo questi tre frammenti illustrano, seppure in modo impressionistico, sia la molte-plicità delle connessioni transatlantiche, sia le interazioni tra queste connes-sioni: innovazioni tecnologiche, flussi commerciali, mobilità delle persone, e circolazione delle idee disegnano uno scenario che mette in discussione le cesure cronologiche tradizionali (tra moderno e contemporaneo, tra Ottocento e Novecento). In secondo luogo emerge il carattere bidirezionale dello scam-bio transatlantico: non si tratta (solo) di espansione del modello europeo o di americanizzazione dell’Europa, né di un rapporto unidirezionale in cui uno dei due poli è la variabile indipendente e l’altro si trova costantemente “at the re­ceiving end”. Infine, è evidente la consapevolezza da parte dei contemporanei di essere parte di un mondo atlantico, o quantomeno di una rete di relazioni economiche, politiche e culturali che univa le due sponde dell’Atlantico e aveva effetti sia sulla loro quotidianità, sia sulla loro visione del mondo. Cosa che in linea di massima non si dava per i protagonisti del periodo tra l’inizio del Cinquecento e la fine del Settecento; come ricorda Allison Games, la atlantic history come la conosciamo ora è un paradigma costruito ex post dagli storici (Games 2006).

Queste considerazioni mi portano a (ri)formulare un’ipotesi sul rapporto tra atlantic history e storia contemporanea articolata in tre parti. In primo luo-go, non vi è una rottura, ma piuttosto una trasformazione dei legami atlantici tra storia moderna e contemporanea; in secondo luogo questa trasformazio ne prende le mosse da processi che hanno inizio nei decenni immediatamente successivi alla Restaurazione e dispiegano pienamente i loro effetti tra la se-conda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento; infine, questo nuo-vo mondo atlantico si distingue da quello dell’antico regime principalmente, ma non solo, per il suo rapporto con il quadro più generale delle connes-sioni globali che caratterizzano la contemporaneità. È un’ipotesi non nuova, già avanzata nelle sue linee principali da Donna Gabaccia in un saggio del 2004 che argomentava la possibilità e anzi la necessità di riconcettualizzare un “Atlantico lungo” nel quadro globale (Gabaccia 2004); qui viene rivisitata e in alcuni punti messa in discussione (ad esempio con riferimento al tema del presentismo) nelle considerazioni che farò in conclusione.

Non vi è una rottura, ma piuttosto una trasformazione dei legami atlantici tra storia moderna e contemporanea{ }

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Interrogarsi sul rapporto tra atlantic history e storia contemporanea è rile-vante alla luce di due elementi. Da un lato, gli studi sulle relazioni euroameri-cane tra Ottocento e Novecento anche recentemente hanno offerto contributi importanti (Rogers 1998; De Grazia 2005; Ellwood 2012; Nolan 2012), ma sem-brano stretti tra la pervasività di temi come l’americanizzazione e la globaliz-zazione e il timore che problematizzare le specificità di medio-lungo periodo delle relazioni euro-americane contemporanee possa prestarsi a nostalgie del “primato dell’Occidente” o dell’ideologia dell’atlantismo; e in ogni caso non sono espressione di un paradigma scientificamente e istituzionalmente forte e strutturato come quello della atlantic history.

Dall’altro, quest’ultimo ha continuato a strutturarsi, e a imporsi come ten-denza dominante negli ultimi dieci anni soprattutto nel mondo anglosassone, attorno a tre cardini. In primo luogo, il mondo atlantico come unità di analisi storica verrebbe meno tra fine Settecento e inizio Ottocento in seguito alle “rivoluzioni atlantiche”, al crollo degli imperi europei, alla conseguente ascesa degli Stati nazionali nelle Americhe, e all’emarginazione dell’Africa legata al declino della schiavitù e della tratta. Ad esempio l’International Center for the History of the Atlantic World fondato da Bernard Bailyn all’Università di Har-vard nel 1995 copre l’arco di tempo 1500–1825 e la lista di discussione on-line H-Atlantic fa riferimento a una periodizzazione analoga. In secondo luogo, questo termine ad quem segnerebbe un mutamento del rapporto tra mondo atlantico e dimensione globale: dopo la prima metà dell’Ottocento, le relazioni tra Europa, Americhe e Africa perdono coerenza e specificità in quanto diven-gono parte di una rete globale di scambi e connessioni che è il vero tratto di-stintivo della contemporaneità. Infine riaffiora anche qui una preoccupazione legata al presentismo: parlare di un mondo atlantico contemporaneo implica in qualche misura piegarsi a una pratica storiografica che sarebbe un contribu-to all’ideologia della guerra fredda più che allo studio scientifico del passato. Nelle pagine seguenti vorrei mettere in discussione questi tre assunti, facendo riferimento a un’ampia letteratura frammentata in vari sotto-settori che pos-sono dialogare proficuamente tra loro.

1. PERIODIZZAZIONI ATLANTICHE

Il primo di questi assunti è in realtà messo in discussione con frequenza cre-scente anche all’interno di questo settore di studi. Tra gli altri, Rothschild

(2011) nel saggio Late Atlantic History ha rilevato che alcune delle strutture por-tanti del mondo atlantico non cessano improvvisamente di esistere con l’inizio del’Ottocento. Come hanno affermato Morgan e Greene (2009, 22), “wherever the Atlantic remains a vital, even privileged arena of exchange among the four continents surrounding it, Atlantic history can still be a useful tool of analysis”.

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L’esempio più significativo è la permanenza della schiavitù in aree impor-tanti delle Americhe (Stati Uniti, Cuba, Brasile), con tutte le implicazioni del caso in termini economici, culturali, demografici, ecc. Il cosiddetto “Atlantico nero” sicuramente non segue la periodizzazione prevalente, anzi continua a informare le relazioni transatlantiche contemporanee, come ci mostrano Fre-derick J. Douglass a metà Ottocento oppure, un secolo più tardi, le relazioni e conta minazioni tra il movimento per i diritti civili negli Stati Uniti e la decolo-nizzazione africana. Un altro esempio importante di continuità è dato secondo alcuni dai limiti e ritardi del processo di nation building in America Latina, che per buona parte dell’Ottocento perpetuerebbe una condizione di dipenden-za delle nuove repubbliche dalle vecchie capitali imperiali europee, come di-mostrerebbe l’influenza commerciale e finanziaria britannica.

La prevalente periodizzazione del mondo atlantico, che di fatto ricalca la partizione tra storia moderna e contemporanea più spesso di quanto si sia disposti ad ammettere, è quindi minata da queste continuità. Ma soprattutto va rivista alla luce di un nuovo sguardo su quel “lungo Ottocento” in cui nuove connessioni economiche, politiche, culturali, demografiche, geopolitiche pren-dono forma, in parte come riconfigurazione delle precedenti, e danno vita a un “nuovo Atlantico”, cioè a una rete di rapporti transatlantici che pur essendo parte di uno scenario ormai globale si distingue e acquisisce una natura pecu-liare in quanto particolarmente densa, multidimensionale e multidirezionale.

2. IL “NUOVO ATLANTICO” NEL QUADRO GLOBALE

Partiamo dagli anni Venti dell’Ottocento, che ritengo essere un decennio cruciale, uno snodo tra vecchio e nuovo mondo atlantico. Gli studi sulla

storia della globalizzazione economica (O’Rourke e Williamson 2002) colloca-no le sue origini negli anni Venti e Trenta, quando la “rivoluzione dei trasporti” (G.R. Taylor 1951) provocata soprattutto dalla creazione di linee transatlantiche regolari tra i porti del Nord Est degli Stati Uniti (Boston, New York) e quelli bri-tannici (Liverpool) abbatte i costi del trasporto di merci e persone, regolarizza e abbrevia tempi di percorrenza, con conseguenze dirompenti per l’integrazione di un nuovo mondo atlantico all’interno del quadro globale.

Già dalla fine del decennio precedente, in realtà, coesistevano fattori di in-tegrazione e di disintegrazione del mondo atlantico; si intrecciavano da un lato l’apogeo della Restaurazione e dall’altro i segnali del superamento della rigida divisione tra l’Europa e il Nuovo Mondo che era implicita nell’ordine del 1815. Ad esempio nel 1818 da un lato le potenze europee al Congresso di Aix-la-Chapelle rinnovavano la Quadruplice Alleanza e l’agenda legittimista del Con-gresso di Vienna – tra l’altro contribuendo a una reazione da parte americana che porterà alcuni anni dopo alla Dottrina Monroe – dall’altro la prima nave

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della Black Ball Lines partiva da New York per Liverpool, inaugurando l’era dei liners nel Nord Atlantico.

Ma in che misura è possibile perimetrare un mondo atlantico a partire dalla prima metà dell’Ottocento? L’obiezione proveniente dal campo della world his­tory è duplice. In primo luogo, questa rivoluzione dei trasporti si globalizzerà con la diffusione di reti navali e ferroviarie al di fuori del bacino atlantico nel corso dell’Ottocento. In secondo luogo, è stato rilevato, i volumi di traffico commerciale e dei flussi migratori in altre regioni del mondo (l’oceano Indiano e Pacifico, l’Estremo Oriente) erano significativi già in età moderna, gli scambi euro-asiatici erano importanti almeno quanto quelli euroamericani, e queste tendenze non vengono meno a partire dall’Ottocento (Coclanis 2002; Frank 1998; Pomeranz 2000; Wong 1997).

Tuttavia, per buona parte dell’Ottocento le comunicazioni navali e tele-grafiche, grazie all’introduzione della navigazione a vapore a partire dagli anni Quaranta e alla posa del primo cavo telegrafico transatlantico nel 1867, perimetrano uno spazio nordatlantico (con l’America latina e l’Europa mediter-ranea integrate in chiave spesso subordinata e l’Africa emarginata) che sarà a lungo il nocciolo duro e il motore della futura globalizzazione. La navigazione tra Europa e Americhe rimane più veloce ed economica che in altre aree del mondo (anche dopo l’apertura del canale di Suez), e la rete telegrafica più fitta, almeno fino alla fine del lungo Ottocento e alle soglie di quella che Hobsbawm ha definito l’“età della catastrofe”. Ma soprattutto l’avvio di questa globaliz-zazione economica si sovrappone a, e alimenta, connessioni di altra natura che denotano il campo delle relazioni tra Europa e Americhe come uno spazio a tlantico collegato al quadro globale, ma connotato da forti specificità non solo

29La Britannia (1840), il primo transatlantico della Cunard Steamship Company.

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economiche, ma anche sociali, culturali e politiche. Elementi qualitativi, più che quantitativi, circoscrivono lo spazio atlantico all’interno della globalizzazione otto-novecentesca e gli attribuiscono una coerenza che ne fa un’unità d’analisi storica in cui si intrecciano forze transnazionali e dinamiche internazio nali. Per precisarne meglio contorni e contenuti separiamo schematicamente due livelli, quello relazionale e quello comparativo.

2.1 La dimensione relazionale

Per quanto riguarda le relazioni tra Europa e Americhe, la citata “rivoluzione dei trasporti” e la conseguente espansione del commercio aprono la strada

a flussi tra loro interconnessi. Studi di storia economica e delle migrazioni hanno mostrano da tempo le sovrapposizioni tra reti commerciali e rotte migratorie a partire dall’Atlantico settentrionale a metà Ottocento e poi nel Mediterraneo nella seconda metà del secolo. I “trattati di amicizia, commercio e navigazione” che regolano la ripresa del commercio tra gli Stati Uniti, le nuove repubbliche latinoamericane e gli Stati europei a partire dagli anni Venti sono anche i primi tentativi di regolare la circolazione transatlantica delle persone (Ph. Taylor 1971; Gabaccia 2012). Nel caso italiano si ha evidenza di questo nel trattato siglato tra gli Stati Uniti e il Regno di Sardegna nel 1838. Questi trattati comportarono la crescita di reti diplomatiche e soprattutto consolari, che fu esponenziale in quei decenni, a partire dal caso britannico (Anderson 1993). Era questo il primo passo, dopo la cesura delle rivoluzioni atlantiche e delle guerre napoleoniche, verso un altro potente fattore di integrazione transatlantica: il riconoscimento tra soggetti – tra monarchie europee, repubbliche americane e, in misura as-sai minore, soggetti statuali in altre aree del mondo – dotati di una nozione

30Mappa del primo tentativo di cavo telegrafico transatlantico (1858).

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diversa di sovranità, e verso la costruzione di una comunità internazionale che non è più solo europea ma euroamericana (Benton 2010; Carmagnani 2003; Scully 2001).

È importante tuttavia evitare forme di determinismo economico se si vuole cogliere la complessità e specificità di questo nuovo spazio atlantico. L’integrazione commerciale – poi rafforzata dalla circolazione di capitali, da investimenti in infrastrutture (è il caso degli investimenti britannici nelle fer-rovie in America Latina) e dalla diffusione di servizi finanziari – è parte di un’accelerazione della circolazione di persone e di merci che ha conseguen-ze molteplici, ad esempio nella diffusione, e spesso nella ibridazione, di idee economiche e politiche. Si pensi alla ripresa dell’influenza delle teorie libero-scambiste. Il vangelo del “libero commercio”, che già era stato un tema delle indipendenze americane, conosce una nuova spinta con gli anni Trenta, come dimostra il successo della critica di Richard Cobden alle politiche mercantiliste nell’Europa continentale, inclusi gli Stati italiani, e nelle Americhe. Le conse-guenze politiche di questo dibattito sono rilevanti: l’enfasi sul commercio come tessuto connettivo tra i popoli è una delle forze di una più ampia critica liberale al “balance of power” scaturito dal Congresso di Vienna. Questa critica liberale all’ordine delle autocrazie europee era a sua volta parte di un più ampio pro-cesso di nation building e di ricerca di autodeterminazione che è un altro tratto del lungo Ottocento euro-americano, in cui l’opposizione al colonialismo eu-ropeo nelle Americhe si salda all’avvento, o alla riconfigurazione, di stati liberali tra anni Cinquanta e Settanta in Canada, Argentina, Messico, Stati Uniti, Ger-mania e Italia (Anderson 2003; Gabaccia 2004; Howe e Morgan 2006).

Infine, per chiudere questo quadro molto sintetico della dimensione re-lazionale come forza di integrazione tra Vecchio e Nuovo Mondo, l’approccio transnazionale alla storia politica e delle idee ci sta mostrando che questi pro-cessi di costruzione dello Stato nazionale sono stati possibili anche grazie a reti transnazionali animate da intellettuali, esuli, comunità di migranti che attra-verso le loro associazioni e la carta stampata costituirono un’“internazionale” repubblicana o liberale che è un’altra connessione caratteristica del rapporto transatlantico. Anche questa non era connessione unidirezionale, non si trattava di un ennesimo capitolo dell’europeizzazione del mondo. Ad esempio Maurizio Isabella ha mostrato come l’esperienza delle indipendenze latino-americane sia stata importante per la creazione di un’“internazionale liberale” di natura forte-mente transnazionale che dà vita ai moti in Piemonte, Napoli e nella penisola iberica nei primi anni Venti (Isabella 2009). Un decennio che, come si diceva in apertura, è rilevante a molti livelli per la riconfigurazione economica, politica e culturale dei legami tra le due sponde dell’Atlantico (Blaufarb 2007; Brown e Paquette 2011) e si pone come snodo, termine a quo di un lungo Ottocento

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che ridisegna lo spazio atlantico affondando le origini nelle rivoluzioni di fine Settecento e dispiegando i suoi effetti almeno fino alla Prima guerra mondiale.

Naturalmente molte di queste connessioni, soprattutto di tipo transnazio-nale, se considerate singolarmente non sono esclusivamente atlantiche. È sufficiente pensare all’ovvia importanza dell’India nel quadro dell’economia dell’Impero britannico, o dell’Africa e dell’Asia nel quadro di quello portoghese; o all’afflusso di servi a contratto dalla Cina e dall’India ai Caraibi dopo lo Slav­ery Abolition Act del 1833, che illustra con efficacia la portata globale delle connessioni. O ancora si consideri la circolazione globale, e non solo atlantica, del liberalismo ottocentesco messa in evidenza da studi recenti (Baily 2011). E tuttavia pare difficile negare che solo nello spazio atlantico si ha in primo luogo la compresenza di tutti queste connessioni, che si rafforzano reciprocamente tanto da delimitare un perimetro variabile nel tempo, ma sufficientemente net-to, al cui interno eventi e processi hanno spesso ripercussioni in altre parti del sistema. E, in secondo luogo, si ha una spiccata bidirezionalità e reciprocità, che quindi differenzia questa concettualizzazione da modelli basati sulla dicotomia centro/periferia, o da determinismi economici o culturali funzionali a vecchi disegni di europeizzazione/civilizzazione del mondo.

2.2 La dimensione comparativa

Il mondo atlantico otto-novecentesco è anche caratterizzato da analogie si-gnificative nei percorsi di modernizzazione socio-economica e politico-isti-

tuzionale; gli studi comparativi su questo tema aggiungono un’altra dimen-sione a quella relazionale, e arricchiscono quanto accennato precedentemente circa le analogie nei processi di nation building in Europa e nelle Americhe. Rifacendoci a un modello delineato da Hans-Jürgen Puhle, possiamo affermare innanzitutto che lo spazio atlantico delineato da questi convergenti percorsi di modernizzazione coincide con l’Europa e le Americhe, ha limiti non stretta-mente definiti ed è parte integrante del “sistema-mondo”, ma è caratterizzato dal fatto che al suo interno si sono avviati, a partire dall’Europa, processi di modernizzazione con specificità e differenze nazionali e regionali ma con forti analogie (Puhle 2002).

In primo luogo esisterebbe un retroterra culturale comune: la società oc-cidentale costruita sulla tradizione giudeo-cristiana, che si differenzia da al-tre società in quanto pluralista, pluricentrica, competitiva. È facile scorgere in questa premessa una dimensione “orientalista” volta a costruire la propria identità sulla base di una contrapposizione con l’Altro che è stata al centro di un’intensa critica a partire dagli studi di Edward Said. In secondo luogo, questi percorsi di modernizzazione avrebbero tre ingredienti comuni, sarebbero cioè la combinazione, variabile a seconda dei casi, di burocratizzazione, industria-

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lizzazione e democratizzazione. Le specificità nazionali o regionali sono date dal diverso dosaggio di questi ingredienti; ad esempio negli Stati Uniti vi è forte democratizzazione e bassa burocratizzazione, in America latina il con-trario, mentre in Europa si danno varie combinazioni nei diversi casi nazionali. In terzo luogo, le differenze sarebbero rilevanti soprattutto all’inizio del proces-so di modernizzazione, segnato dalla formazione di un’economia capitalistica industriale e dello Stato-nazione, mentre nel lungo Ottocento e soprattutto nel Novecento prevarrebbe la tendenza alla convergenza, dovuta anche al peso dell’americanizzazione soprattutto nella sfera economica (il Nord America è il primo caso in cui si avvia un percorso autonomo, che rompe con la dipendenza dal modello europeo). Infine, se la modernizzazione così definita interesserà anche aree extra-atlantiche, nel mondo atlantico questo processo è caratteriz-zato da un’interazione bidirezionale: le connessioni transatlantiche non sono a senso unico, esiste un “transatlantic learning” per quanto non tra eguali; si può parlare quindi di una molteplicità di modernizzazioni “atlantiche” o “occidenta-li”. E il mondo atlantico, in questo quadro, non è una singola entità storica ma, nella definizione di Puhle, una “community of experience”, uno spazio segnato da molteplici relazioni, interazioni, interdipendenze, e scambi.

Si tratta naturalmente di una razionalizzazione ex post ad opera dello stori-co. I contemporanei non avvertivano questa convergenza, ma, al contrario, co-glievano spesso le diversità, se non addirittura l’alterità, tra Vecchio e Nuovo Mondo anche in momenti in cui molte delle forze di integrazione transatlantica citate in precedenza erano in azione. Ad esempio, il lavoro di Timothy Roberts sull’impatto e le letture del Quarantotto europeo negli Stati Uniti mostra come quell’ondata rivoluzionaria suscitò al di là dell’Atlantico una notevole attenzio-ne, che rifletteva anche la speranza della diffusione delle istituzioni repubbli-cane e dei principi liberali in Europa continentale. Quando però fu chiaro che gli esiti – reazione autocratica oppure “degenerazione” rivoluzionaria – furono assai diversi da quelli auspicati, l’opinione pubblica e le classi dirigenti ameri-cane videro confermata la loro convinzione dell’eccezionalità degli Stati Uniti e della profondità del solco che divideva l’Atlantico: in quel frangente America ed Europa tornarono a definirsi in termini oppositivi. E tuttavia anche questo era un legame forte, un fattore di disintegrazione che intrecciandosi ai molteplici

È lecito chiedersi se oggi sia possibile problematizzare le relazioni transa­tlantiche senza necessariamente fare un’apologia della “civiltà occidentale”{ }

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fattori di integrazione visti finora contribuiva a caratterizzare il rapporto trans-atlantico, come mostrano gli studi sulle categorie di identità e alterità applicate recentemente agli studi storici e alle relazioni internazionali e transnazionali (Bonazzi 2004; Campbell 1992; Murphy 2005; Ryan 2000).

3. IL PRESENTISMO. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE.

Infine, nel delineare uno spazio atlantico otto-novecentesco come unità di analisi storica dotata di senso, uno dei nodi da sciogliere è il tema del pre-

sentismo. È lecito domandarsi se sia possibile finalmente problematizzare le relazioni transatlantiche nel mondo contemporaneo senza necessariamente fare un’apologia della “civiltà occidentale” che, per dirla con David Armitage, “owed more to NATO than it did to Plato”. Per vari studiosi infatti un’atlantic history in chiave contemporanea rischia seriamente di essere in qualche modo strumentale all’ideologia della Guerra fredda e dell’atlantismo che le è soprav-vissuto, così come la storia atlantica degli anni Cinquanta era stata vista come “a historically illuminated manifesto for the creation of a strong North Atlantic treaty … and a continued American presence in Europe” (Allitt 1997, 266).

Questo timore è comprensibile e giustificato alla luce di una lunga traduzio-ne novecentesca che – dalla comparsa dei corsi di “Western civilization” nelle università americane degli anni Venti all’atlantismo storiografico degli anni Cinquanta – ha in effetti costruito l’Atlantico bianco e cristiano, depurato di e lementi conflittuali e presenze altre al suo interno, come la culla della civiltà tout court. Ad esempio, questo timore era all’origine della freddezza con cui furono accolte le tesi di Robert Palmer e Jaques Godechot sulle “rivoluzioni atlantiche” che a metà anni Cinquanta costruivano un paradigma storiografico fortemente inserito nel solco della costruzione di una “civiltà”, e di un primato, occidentale. (Armitage 2002; Bailyn 1996; O’Reilly 2004).

Tuttavia, e queste sono le mie conclusioni, ad alcuni decenni di distanza da quella stagione, in un quadro storiografico e politico-culturale radicalmente mutato, è possibile fare due considerazioni. In primo luogo, l’emergere di un paradigma storiografico atlantico negli Stati Uniti del secondo dopoguerra, che era parte di un processo di ricollocazione del paese nel contesto internazionale in chiave anti-isolazionista e di ridefinizione della stessa identità nazionale in senso anti-eccezionalista precedente la Guerra fredda, ha logiche interne e in ogni caso non è riducibile semplicemente agli imperativi dello scontro ideo-logico di quegli anni. In secondo luogo, ora che il clima della guerra fredda si è dissolto e i richiami a “provincializzare l’Europa” stanno avendo da tempo i loro salutari effetti negli studi storici, invero altrove più che in Italia, è lecito e forse doveroso riconsiderare le connessioni atlantiche nel mondo contempo-raneo come “a slice of world history” (Games 2006), o come una regione che,

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come afferma Gabaccia, nell’era contemporanea si trasforma al suo interno, si riposiziona all’interno delle relazioni globali, e quindi va situata in questa pro-spettiva più ampia (Gabaccia 2004), ma non per questo perde la sua specificità e coerenza.

Sappiamo che determinate unità di analisi storiche e geografiche acquista-no significato non in astratto, ma in base alle domande che lo storico si pone, e in base al suo punto di osservazione. Un “mondo atlantico” depurato dalle incrostazioni ideologiche del passato può essere un’unità di analisi significativa soprattutto se ci si libera definitivamente dei fantasmi della Guerra fredda e si superano alcuni steccati (tra dimensione transnazionale e internazionale, tra storia politica e sociale) e si assume uno sguardo sintetico sulle relazioni tra Europa e Americhe nel lungo Ottocento e nel secolo scorso.

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L’America e la politicadi modernizzazione in Europa nel lungo NovecentoDAVID ELLWOOD (Università di Bologna)

Seguendo le indicazioni degli organizzatori, in queste righe vorrei proporre alcuni suggerimenti “teorici” venuti fuori dalla lunga esperienza di ricerca,

lettura e riflessione che ha prodotto il mio saggio La sfida della modernità (Ell-wood 2012).1

Questo testo offre essenzialmente la storia politica di un confronto di mo-delli ed esperienze di modernità. Una modernità di tipo occidentale, evidente-mente: razionale, tecnologica, più o meno capitalista, più o meno democratica, in continua ricerca di un equilibrio stabile tra crisi ed espansione, tra Stato e mercato, tra individuo e collettività, tra conservazione e innovazione. Ma per la maggior parte del tempo, suggerisce il libro, non è stato un confronto tra pari, poiché gli Stati Uniti hanno dimostrato nel corso del Novecento una capacità ineguagliabile di inventare istanze di modernità e allo stesso tempo la capacità e la volontà di proiettarle nel mondo. Questa forma di “volontà di potenza” l’ha conosciuta per prima l’Europa. Dall’epoca della globalizzazione in poi tutto il mondo ha dovuto fare i conti con questa dinamica espansionista (evidente-mente la stessa “globalizzazione” – come parola, mito e realtà – non è altro che uno degli esempi più visibili di uno di questi modelli di modernità americana). Da Buffalo Bill a Google, gli europei e gli altri hanno dovuto fare i conti con questa forma di sfida americana: non una forma tradizionale di imperialismo, e nemmeno di egemonia (punto discutibile), ma una convocazione o incitazione, una provocazione che richiede una risposta, un invito a una competizione con minaccia: se non accettate la sfida sarete travolti – basti vedere la storia di Hol-lywood in Europa o di Google.2

Fare i conti allora… ma quali conti? Definiti da chi? In quali contesti? Con 37

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quali modelli alternativi da proporre? È semplicemente una questione di trova-re quel “modo o formula di vita che sappia congiungere le vecchie tradizioni e il nuovo mondo che ci assale da ogni parte”, come ha scritto il noto romanziere e commentatore irlandese Sean O’Faolain nel lontano 1940?

Come ho scritto nel testo:

In realtà naturalmente il potere americano in tutte le sue manifestazioni ha generalmente interagito con i processi di cambiamento in corso in Europa (come in qualunque altro luogo) in un modo turbolento, gene-rando spesso attriti e addirittura manifestazioni di “antiamericanismo”. Ovunque, come ha sostenuto Federico Romero, i protagonisti locali in questo processo d’adattamento si sono adeguati come meglio potevano “alle opportunità e alle difficoltà derivanti da mutamenti tecnologici che non erano solamente o unicamente americani, e si sarebbero probabil-mente verificate – benché in tempi e in forme differenti – anche senza l’influenza americana”. Al tempo stesso, ogni gruppo, generazione, co-munità, settore produttivo e culturale si è adoperato per venire a patti con ciò che l’America offriva, esattamente come era successo con tutte le altre fonti d’innovazione in ogni tempo: gli sviluppi sociali come il femminismo, l’economia, la scienza, la tecnologia, la comunicazione di massa, l’integrazione europea e così via. Tuttavia, era necessario scegliere con tutta la forza di volontà e le risorse culturali disponibili, se si voleva rimanere nella corsa per la modernità così come ispirata dalla maggiore potenza dell’epoca.

E in queste ultime righe il testo fa riferimento indiretto al lavoro di tutti quei colleghi, su entrambe le sponde dell’Atlantico, che hanno voluto indagare l’impatto/ricezione in Europa della cultura di massa americana in tutte le sue forme negli ultimi cento e più anni: Mary Nolan, Victoria de Grazia, Rob Kroes, Reinhold Wagnleitner, Richard Kuisel, Richard Pells, Jessica Gienow-Hecht, Volker Berghahn e altri ancora.

Il testo si sofferma sulle tre fasi storiche in cui, secondo me, l’incontro/confronto transatlantico di esperienze e modelli di modernità è stato parti-

Gli USA nel Novecento hanno di­mostrato una capa cità unica di inven­tare istanze di modernità e la capacità e la volontà di proiettarle nel mondo{ }

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colarmente intenso, cioè nei tre dopoguerra del ventesimo secolo in Europa. Ma nell’intervento al convegno CISPEA ho cercato di segnalare alcuni terreni dove si poteva – e si può ancora in alcuni casi – vedere in azione la questione americana nelle politics of modernization in Europa. Sono terreni dove sono in gioco fattori quali la democrazia di massa, la produzione e il consumo di massa e, inoltre, la comunicazione di massa: quell’“empire of fun”, identificato da Wagnleitner. Vanno dagli scontri sulle grandi catene di retailing all’inizio del Novecento fino a quelli attorno a McDonald’s e Starbucks oggi; dai con-fronti sul fordismo nel primo dopoguerra a quelli sulla produttività dell’epoca del Piano Marshall; dalle diverse idee di cos’è un canale televisivo degli anni Cinquanta al ruolo dello Stato nello sviluppo di internet oggi, dai vari concetti di welfare state alla sfida ideologica del “Washington consensus” – deregula­tion, privatisation, globalization – degli anni Novanta e Duemila. Va molto di moda in certi settori storiografici oggi la questione dei consumi, e in effetti il nuovo libro di Logeman (2012), Trams or Tailfins?, è un ottimo esempio di come si può esplorare the politics of Americanization in un determinato settore (concludendo ovviamente che i tedeschi occidentali si sono sforzati massiccia-mente per non emulare l’America).

39A sinistra: Manifesto pro­americano (Italia, 1948). A destra: Manifesto anti­americano (Francia, ca. 1950).

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Il rischio di un tale approccio è che si trascurino certe grosse questioni presentate dalla sfida americana nel suo senso storico più ampio: l’ascesa e il declino dell’idea di sviluppo o crescita venuto fuori così prepotentemente dall’America della Seconda guerra mondiale; l’evoluzione comparativa delle industrie creative, compresa, ultimamente, internet; il contrasto/combinazio-ne su tante questioni di stili di vita: dal femminismo alla cultura giovanile, dall’omosessualità alla religione. Di sicuro la necessità di rispondere alla sfi-da americana ha diviso gli europei molto più che riunirli: basti vedere il con-trasto stridente tra i modi francesi e inglesi di considerare l’utilità dei riferi-menti d’oltreatlantico. Ma nel suo insieme, è il carattere e il destino di tutta l’Europa che è stato forgiato in una certa misura dalla necessità del confronto con l’America, nella misura in cui gli europei, anche loro, volevano essere – ciascuno a modo suo, naturalmente – moderni.

NOTE:1. Si noti che la versione inglese del libro – The Shock of America. Europe and

the Challenge of the Century (Oxford, Oxford University Press, 2012) – con-tiene elementi non presenti nell’edizione italiana. Oltre a una maggiore attenzione all’esperienza britannica, vi si trova in più soprattutto un’analisi della dimensione cinematografica dei rapporti transatlantici.

2. Per i tentativi degli europei di sviluppare un’alternativa a Google, Andriolo et al. 2012.

BIBLIOGRAFIA:Andriolo D. et al., Les Misérables. L’imprenditoria in Europa, GoWare, http://www.

goware-apps.com/index.php?option=com_content&view=article&id=143.Ellwood D., La sfida della modernità. Europa e America nel lungo Novecento,

Roma, Carocci Editore, 2012.Logeman J.L., Trams or Tailfins? Public and Private Prosperity in Postwar Wesdt

Germany and the United States, Chicago, The University of Chicago Press, 2012.

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Circolazioni trans-atlantiche in storiadelle migrazioni:Portoricani e italiani aNew York (1920–1960)SIMONE CINOTTO (Università di Scienze Gastronomiche)

Il 4 novembre del 1946 la rivista Time scriveva: “Il cuore del diciottesimo di-stretto elettorale di Manhattan è un ghetto infestato dal crimine e dai topi

chiamato East Harlem. Le orde di italiani, portoricani, ebrei e negri che ci abi-tano hanno sempre votato repubblicano. Ma nell’ultimo decennio ha preso il potere una nuova forza: la variopinta macchina elettorale di Vito Marcantonio, il deputato deforme, dagli occhi iniettati di sangue e dalla voce stridula amico dei comunisti. I gangster, i magnaccia e gli spacciatori di droga che lo sosten-gono lo chiamano l’‘Onorevole Fritto Misto’” (National Affairs 1946).

Al di là del linguaggio violento, nel suo attacco contro il politico italo-americano che per primo mobilitò i portoricani di New York fino a diventare un acceso sostenitore dell’indipendenza di Porto Rico nel Congresso degli Stati Uniti, Time coglieva comunque un aspetto essenziale. Nell’immediato secondo dopoguerra la parte nordorientale di Manhattan era un mosaico di comunità immigrate con pochi equivalenti al mondo che prometteva (o minacciava) svi-luppi politici inediti e incontrollabili (Meyer 1989). Particolarmente problema-tica era la coesistenza dei due gruppi citati in cima alla lista di Time: gli italiani e i portoricani. A quella data, East Harlem rappresentava allo stesso tempo la più grande comunità portoricana fuori dall’isola (circa 50.000 persone) e la più grande enclave italiana nell’emisfero occidentale (circa 70.000 tra immigrati di prima e seconda generazione).

I motivi di scontro tra i due gruppi abbondavano. Le gang giovanili delle due fazioni si davano battaglia per le strade del quartiere in difesa di quello che ritenevano essere il loro territorio (Schneider 1999). Le operaie italiane erano

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risentite per l’entrata in massa delle portoricane nel settore tessile, di cui dete-nevano l’egemonia. Le donne portoricane – impiegate come forza lavoro de-qualificata – protestavano la loro esclusione dai sindacati dominati dagli italiani (Ortiz 1996). Portoricani e italiani competevano poi per l’accesso alle risorse messe a disposizione dalle politiche sociali del New Deal, e in particolare per l’assegnazione delle case popolari, un tipo di edilizia per cui alla fine degli anni Cinquanta East Harlem avrebbe avuto la più alta concentrazione di tutti gli Stati Uniti (Zipp 2010).

In generale, come ultimi arrivati nel quartiere, i portoricani trovarono il potere politico locale saldamente nelle mani degli italiani (Thomas 2010); gli italiani lottavano per riaffermare la loro identità di americani bianchi, appena conquistata ed ancora incerta, prendendo violentemente le distanze dai por-toricani – dalla pelle più scura, più poveri e più incapaci di parlare inglese di loro, ma con cui dovevano condividere sempre più spesso le strade, le case, le scuole e le chiese di East Harlem. Come rivela chiaramente l’articolo di Time, vista dall’esterno la vicinanza fisica tra portoricani ed italiani suggeriva inequi-vocabilmente una loro vicinanza razziale (Guglielmo e Salerno 2003; Roediger 2002).

Tra il 1920 e il 1960, in sostanza, i portoricani e gli italiani di New York costru-irono le loro identità razziali, di classe, di genere, politiche e culturali in gran parte per attrito gli uni con gli altri. A uno snodo cruciale nella trasformazio-ne della città, la stessa New York venne a ridefinirsi attraverso la relazione dei due gruppi con la città e le molteplici connessioni transnazionali attivate dalle migrazioni portoricane e italiane, che collegarono ancora più capillarmente la metropoli con il mondo.

Su questa tematica ho appena cominciato un percorso di ricerca in co-erenza con la mia specializzazione di storico delle migrazioni negli Stati Uniti tra tardo Ottocento e Novecento. Le storie dell’immigrazione negli Stati Uniti che prendono in esame più gruppi immigrati in maniera sia comparativa che relazionale sono a tutt’oggi sorprendentemente poche. Per quanto riguarda la città di New York si è fermi ad un vecchio classico di Bayor (1988), Neighbors in Conflict, che ha raggiunto la seconda edizione nel 1988. L’unico libro che prende in esame le relazioni tra immigrati italiani e latini è la storia sociale delle

La parte nord­est di Manhattan era un mosaico di comunità immigrate che prometteva (o minacciava) svi­luppi politici inediti e incontrollabili{ }

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comunità di sigarai cubani e siciliani in Florida al torno del Novecento – The Immigrant World of Ybor City (Mormino e Pozzetta 1987). Di converso, il poco che è stato pubblicato di recente in termini di storia dell’immigrazione “mul-tigruppo” ha dimostrato la grande fertilità di questo tipo di approccio nello svelare panorami etnici e razziali della storia statunitense prima sconosciuti (gli esempi comprendono The White Scourge [Foley 1997] sui lavoratori del co-tone bianchi, neri e messicani in Texas; The Shifting Grounds of Race [Kurashige 2008] su giapponesi e neri a Los Angeles; e Coolies and Cane [Jung 2006] sui lavoratori dello zucchero cinesi e afroamericani in Louisiana). La mia ricerca promette quindi di per sé di costituire un contributo significativo a un filone importante e ancora poco praticato nel mio specifico settore storiografico di appartenenza.

Tuttavia il mio progetto vuole andare al di là di questo. La mia ipotesi di ricerca è infatti che la storia della New York portoricana e italiana tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta del Novecento configuri in tutto e per tutto una “storia atlantica,” che non si snoda soltanto lungo il triangolo New York-Porto Rico-Italia, ma, più ampiamente, all’interno di un sistema di interconnessioni economiche, politiche, sociali e culturali che è venuto a formarsi dal 1500 in poi tra i diversi lati dell’oceano.

Da un punto di vista metodologico, credo pertanto che per studiare que-sta “storia atlantica” (con la S minuscola) occorra utilizzare gli strumenti della Storia Atlantica (con la S maiuscola): in particolare, come sottolineato nel più volte richiamato articolo di Alison Games su American Historical Review, la ca-pacità della Storia Atlantica di trascendere i confini e le storiografie nazionali ed imperiali per descrivere interi mercati del lavoro, reti commerciali, pratiche culturali, nozioni di razza, formazioni di classe e differenze di genere dislocate sull’ampia tela transoceanica (Games 2006; v. anche Games 2004, 4). La history without borders evocata da Alison Games è l’unico approccio che può dare fino in fondo conto del perché, in un determinato momento storico, dei migranti dalle aree rurali di un’isola caraibica si siano scontrati con i figli dei braccianti del latifondo meridionale nelle strade della più grande e moderna città del mondo; del dove originassero i concetti e i vissuti di razza attraverso i quali i portoricani e gli italiani di New York guardavano l’altro da sé, costruendo così la propria identità sociale e idea di cittadinanza; di quali fossero le nozioni e le pratiche di genere che si scambiavano le donne portoricane e italoamericane in fabbrica e nel quartiere; di quali fossero le fonti politiche e discorsive dei rispettivi nazionalismi diasporici; eccetera.

La metodologia della Storia Atlantica si configura inoltre come un apporto fondamentale per la mia ricerca (e per ricerche analoghe alla mia), per il suo carattere sistemico, di analisi delle interdipendenze all’interno di un contesto

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geografico e storico di ampia estensione ma relativamente integrato. Come ha notato un’altra praticante della Storia Atlantica applicata alla storia locale, Lara Putnam, “per comprendere le cause e valutare le conseguenze dei mutamenti osservabili in una determinata località dobbiamo considerare eventi e feno-meni in luoghi a questa direttamente connessi, così come anche le tendenze e i processi che influenzano il sistema nel suo complesso” (Putnam 2006, 615).

Dal punto di vista della periodizzazione, la mia ricerca sugli immigrati por-toricani e italiani a New York (una storia locale e contemporanea) si rapporta con la Storia Atlantica (cioè, nella sua accezione più cogente, la storia di un oceano e tre continenti nella prima epoca moderna) in due modi. Innanzitutto, riconoscendo alla circolazione di persone, capitali, cose e idee attraverso e all’interno dell’Atlantico tra 1500 e 1800 un ruolo imprescindibile di sfondo e precedente alle dinamiche tardo ottocentesche e novecentesche oggetto cen-trale della ricerca, che sono altrimenti impossibili da comprendere. In secondo luogo, sottolineando – come hanno già fatto Donna Gabaccia e altri commen-tatori – che i processi storici e le interconnessioni che crearono un “mondo a tlantico” tra Cinquecento e Settecento non si sono bruscamente interrotti dopo le rivoluzio ni borghesi e la fine della tratta schiavista, ma sono evoluti in una genealogia di eventi e dinamiche successive che è possibile e utile con-tinuare a tracciare nello stesso contesto atlantico – sebbene si tratti di un At-lantico più “piccolo” e sempre più “globale” (Gabaccia 2004).

La mia ricerca intende svolgere questo lavoro di incorporazione metodolo-gica e di periodizzazione estesa su tre piani in particolare: 1) quello della storia delle migrazioni atlantiche; 2) quello dell’integrazione dei cosiddetti Atlantici bianco, nero e rosso; e 3) quello della storia di genere e dell’intimità.1

STORIA DELLE MIGRAZIONI ATLANTICHE

La storia delle migrazioni atlantiche è stata tipicamente articolata in tre di-stinti periodi. Il primo, che è anche l’unico di cui si occupa la Storia Atlantica

nella sua accezione più stretta, è quello della “migrazione organizzata” che vide come principali protagonisti alcuni milioni di africani e alcune centinaia di migliaia di servi a contratto, marinai e soldati europei tra il 1500 e il 1819. Il secondo periodo è quello della “migrazione autonoma” che vide come princi-pali protagonisti alcuni milioni di europei che rispondevano volontariamente alle attrattive economiche transatlantiche tra il 1820 e il 1914. Il terzo periodo è quello della “migrazione per quote”, tra il 1915 e il 1965, frutto della regolazio-ne selettiva dei flussi da parte di diversi stati americani che, con il concorso di due guerre mondiali e della Grande depressione, ridusse drasticamente i movi-menti transatlantici favorendo quelli infracontinentali. Si è trattato complessi-vamente di un fenomeno altamente significativo e non solo dal punto di vista

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quantitativo (più di tre quarti della popolazione dell’emisfero occidentale di-scende da persone che vi arrivarono attraversando l’Atlantico). La solita Alison Games ha sostenuto che le “migrazioni hanno plasmato il mondo atlantico più di ogni altro tipo di connessione e interazione all’interno della regione” (Games 2004, 5). Il mio punto di vista è che questa osservazione rimanga valida per tutti e tre i periodi e che questi siano legati da un rapporto di concatenazione e causalità piuttosto che di alterità.

Per buona parte del periodo della “migrazione organizzata” (1500–1819) Porto Rico e l’Italia meridionale fecero insieme parte dell’Impero spagnolo, al cui interno andrebbero quindi compresi i flussi della mobilità umana che inte-ressarono tanto africani in stato di schiavitù quanto soldati mercenari, missio-nari, marinai, servi e forza lavoro in genere, nel grande quadro dello slittamen-to del fulcro dell’attività economica dell’impero dal Mediterraneo all’Atlantico. Peraltro molti contributi di storia delle migrazioni (in particolare quelli di Jan e Leo Lucassen) hanno confutato l’idea di un’Europa della prima modernità statica e sedentaria che si mette in movimento solo nell’Ottocento con la rivoluzione industriale. Europei e africani mostrano livelli di mobilità comparabili tra 1500 e 1800, anche se i flussi europei rimangono prevalentemente all’interno del con-tinente e del Mediterraneo e si svolgono sull’asse campagne-città (Lucassen e Lucassen 2009). Le migrazioni europee transatlantiche, in altre parole, decol-lano e conoscono un boom nell’Ottocento non perché avvenga un cambio di

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Rappresentazione della nave negriera Brookes (1788), usata dagli abolizionisti della tratta degli schiavi per sottolinearne la disumanità.

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paradigma “europeo” rispetto alla mobilità, ma perché cresce rapidamente la sicurezza e l’economicità dei trasporti attraverso l’Atlantico (Nugent 1992).

Le continuità tra la fase della migrazione organizzata e la fase della mi-grazione autonoma 1820–1914 non si esauriscono nel fatto che la tratta di a fricani proseguì oltre il 1800 e che l’abolizione della schiavitù avvenne ovunque più tardi (a Porto Rico solo nel 1873). Esattamente a cavallo tra le due fasi (nel 1815) la Corona spagnola emise la Real Cedula de Gracias, concedendo terra e incentivi ai coloni europei cattolici che avessero voluto immigrare a Cuba e Porto Rico. La conseguenza fu l’ingente arrivo a Porto Rico di spagnoli, por-toghesi, francesi e soprattutto corsi di etnia italiana che contribuirono, oltre che a una riconfigurazione razziale della popolazione, allo sviluppo della pro-duzione di caffè nell’isola.

Le migrazioni italiane costituirono naturalmente un elemento centrale del-la fase 1820–1914. I migranti della penisola si diressero attraverso l’Atlantico seguendo certosinamente le fluttuazioni del mercato del lavoro; prima soprat-tutto verso l’America Latina e poi soprattutto verso gli Stati Uniti.

L’interdipendenza dei vari “pezzi” di mondo atlantico per quanto attiene alla divisione internazionale del lavoro risulta di nuovo evidente nel trapasso alla fase della “migrazione per quote”, 1915–1965. L’esclusione per legge degli italiani e degli altri europei dal sud e dall’est del continente dall’immigrazione negli Stati Uniti (1924) è coeva alla concessione della cittadinanza statunitense

46Migranti lasciano Ellis Island (1900).

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agli abitanti di Porto Rico (1917) che iniziarono a quel punto, insieme agli afro-americani di diversi stati del sud degli USA, la migrazione intensiva verso le occupazioni nei servizi e la manovalanza a New York.

Anche quella che negli anni Cinquanta gli italiani di Harlem percepirono come l’“invasione finale” del loro quartiere da parte dei portoricani è legata a dinamiche squisitamente atlantiche. La migrazione portoricana a New York as-sunse dimensioni di massa non solo per l’introduzione di voli di linea tra l’isola e la metropoli, ma perché il governo degli Stati Uniti promosse l’accoglienza dei portoricani espulsi dal mercato del lavoro nel corso dell’Operation Bootstrap (o Operación Manos a la Obra), l’industrializzazione dell’economia portoricana il cui successo rappresentava un fiore all’occhiello della strategia propagandistica terzomondista americana nei primi anni della Guerra fredda.2

RICOMPOSIZIONE DELL’ATLANTICO BIANCO, NERO E ROSSO

Una simile rete di genealogie e successioni è riscontrabile nelle suddivisioni tematiche che ha assunto la storiografia della circolazione umana, cultura-

le e ideologica nel teatro atlantico – l’Atlantico bianco, nero e rosso.Per quanto riguarda la formazione transatlantica di modelli politico-

intellettuali di radice europea e angloamericana (che insieme con la storia dell’imperialismo atlantico va sotto il nome di Atlantico bianco), bisogna no-tare come entrambi i nazionalismi, portoricano e italiano, si appropriarono si-

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Vignetta “The High Tide of Immigration – A National Menace“, apparsa sulla rivista umoristica Judge (1903). Essa rappresenta la paura di alcuni americani per il crescente numero di immigrati prove­

nienti dall’Europa meridionale e orientale.

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gnificativamente del vocabolario e dell’immaginario nazionale e repubblicano delle rivoluzioni francese e americana. Molti dei primi immigrati portoricani e italiani a New York nella seconda metà dell’Ottocento erano rifugiati dei rispet-tivi movimenti per l’indipendenza nazionale.

Alla fine del secolo, la stampa italoamericana guardò alla guerra imperia-lista del 1898 che portò all’invasione di Porto Rico da parte degli Stati Uniti con un caratteristico mix di sostegno alla missione americana di civilizzazione di popoli inferiori e di comprensione per la causa indipendentista portoricana, basata sulla propria recente esperienza risorgimentale.

Altrettanto se non più significativa nello sviluppo delle due comunità a New York fu la mobilità delle ideologie politiche di riforma sociale attraverso il Nord Atlantico tra la fine dell’Ottocento e la Seconda guerra mondiale. Le applica-zioni in termini di politiche sociali che ne derivarono plasmarono in profondità l’esperienza portoricana e italiana a New York e i modi in cui le due comunità si rapportarono reciprocamente. Un esempio specifico riguarda l’edilizia sociale, nell’ambito della quale la visita di Le Corbusier a New York nel 1935 fu molto influente nel seguente sviluppo architettonico dell’edilizia popolare, di cui East Harlem rappresentò il più importante laboratorio del Nord America.

Nella discussione dell’Atlantico nero operato dalla mia ricerca devono ovviamente trovare posto la peculiare storia dello schiavismo a Porto Rico, l’alto grado di intermatrimonialità che favorì la costruzione ideologica di un’immaginaria assenza del razzismo nell’isola, lo shock socio-culturale pro-vocato dall’esperienza del razzismo a New York, in particolare nella relazione triangolare con gli afro americani, e l’eccezionale valenza del retaggio cul-turale africano, soprattutto per quanto riguarda la musica e il ballo, nel pla-smare l’esperienza diasporica portoricana. Ma un legame significativo connette l’esperienza di razzializzazio ne di portoricani e italiani anche prima del loro incontro-scontro a New York e risiede nella formazione delle rispettive iden-tità imperiali prima e post-imperiali poi. Come parte del processo di nation building italiano, i meridionali vennero razzializzati, anche dall’antropologia scientifica, come appartenenti a una razza degenerata dai significativi apporti levantini e africani. Non solo questo retaggio di “comprovata” inferiorità dettò i termini delle relazioni degli italiani con i gruppi di migranti di colore a New York (con il terrore dell’identificazione), ma fu incorporato nel dibattito sulla restrizione dell’immigrazione che portò all’introduzione della legge del 1924. Infatti, come ha spiegato Jacobson (2000) nel suo libro Barbarian Virtues, il problema dell’immigrazione interna e il pro blema delle popolazioni coloniz-zate in Asia e Centro America (entrambe razzial mente “inferiori”) costituivano due temi inseparabili della tensione tra costruzione nazionale e imperialismo che occupò gran parte del dibattito pubblico americano tra fine Ottocento e

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inizio Novecento.Posso solo accennare a come la costruzione relazionale dell’identità razziale

tra portoricani e italiani sia stata plasmata da dimensioni transatlantiche diverse come l’incontro tra religiosità popolare cattolica e santeria e dall’influenza del fascismo e del colonialismo italiano in Africa, in risposta ai quali a metà degli anni Trenta si scatenarono violente rivolte nel cuore di Harlem.

Analoghi incroci e successioni si possono individuare per quanto riguar-da l’Atlantico rosso – ribelle, egualitario e proletario. La comune esperienza di dominazione imperiale crea un filo rosso tra le rivolte degli indiani Tainos e degli schiavi africani a Puerto Rico e le rivolte per il pane nell’Italia meridio-nale. Dalla fine dell’Ottocento, l’anarchismo, il marxismo e infine il leninismo si sovrapposero coerentemente al ribellismo rurale e coloniale preindustriale in entrambe le esperienze migratorie, talvolta combinandosi con il nazionalismo diasporico. Il movimento indipendentista portoricano, in particolare, sposò tipicamente visioni politiche socialiste. L’esperienza di coalizione interetnica e interrazziale creata ad Harlem da Vito Marcantonio tra la metà degli anni Trenta e il 1950 si può assumere a originale punto di confluenza di tradizioni di lunga data e ampio respiro.

CONCLUSIONE

Concludendo, ritengo che l’incontro/scontro locale che vide protagonisti gli italiani e i portoricani di New York attorno alla metà del Novecento sia

una “storia atlantica” tra le tante che potrebbero essere narrate e che vada interpretata con gli strumenti della Storia Atlantica. Il mio obiettivo è di scri-vere una storia dell’immigrazione negli Stati Uniti che incorpori esplicitamente metodologie, teorie e risultati della Storia Atlantica, contribuendo così facendo non solo alla revisione della storia nordamericana dell’immigrazione, ma anche al proseguimento del recupero della storia ottocentesca e novecentesca negli studi atlantici.

NOTE:1. Questo terzo punto non può essere sviluppato in questa relazione, ma sarà

parte integrante della ricerca che qui viene esposta.2. Il Partito Democratico Popolare di Luis Muñoz Marín, fondato nel 1938 su

una piattaforma di opposizione agli interessi dell’industria dello zucchero, vinse le lezioni locali nel 1940, e con capitali e incentivi americani dopo la guerra lanciò un programma di riconversione industriale incentrata sui prodotti di consumo (vestiti, scarpe, elettrodomestici, ecc.) Il problema della forza lavoro rurale e urbana eccedente fu gestito attraverso l’emigrazione.

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BIBLIOGRAFIA:Bayor R., Neighbors in Conflict: The Irish, Germans, Jews, and Italians of New

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Press, 1997.Gabaccia D., “A Long Atlantic in a Wider World”, in Atlantic Studies, 1, 1, 2004.Games A., “Atlantic History: Definitions, Challenges, and Opportunities”, in

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“Fatti e idee”:Le trasformazioni del mondo atlantico e la “disputa delNuovo Mondo” (sec. XVIII–XIX)MARIA MATILDE BENZONI (Università degli Studi di Milano)

Il contributo riprende e sviluppa temi e motivi presentati a Torino il 23 novem-bre 2012 nell’ambito del seminario “Storia atlantica e storia transatlantica: pe-

riodizzazioni, confini e concettualizzazioni tra modernistica e contemporanei-stica.” Ringrazio gli organizzatori per l’occasione, e i colleghi convenuti a Torino per le osservazioni e le critiche, che hanno costituito uno stimolo prezioso nella stesura di questo scritto.

I. IL MONDO ATLANTICO E IL DIBATTITO SUL NUOVO MONDO NEL-LA PRIMA ETÀ MODERNA

La “disputa del Nuovo Mondo”, trasformata in anni ormai lontani da Antonel-lo Gerbi in un oggetto storiografico a tutto tondo,1 non nasce affatto nel

Settecento. Sin dai primi viaggi colombiani, com’è ben noto, sullo sfondo della graduale e frastagliata formazione di un mondo atlantico all’interno del quale circolano intensamente, e nel segno di un’evidente asimmetria a favore degli Europei, uomini, beni, idee, modi di sentire, il problema dello statuto, spaziale e antropologico, delle Americhe e del destino dell’espansione verso Occidente si impone agli uomini del tempo, alimentando la formazione di un ricco corpus di immagini, giudizi e pregiudizi ora a favore ora contro il “nuovo continente” e gli insediamenti coloniali in quelle regioni.2

La vocazione atlantica della nascente Europa moderna,3 segnata dalla frat-tura in seno al Cristianesimo latino, e da un antagonismo nei confronti delle aspirazioni egemoniche degli Asburgo di Spagna destinato ad assumere una proiezione virtualmente planetaria all’epoca dell’unione delle corone iberiche (1580–1640), favorisce la formazione di due vere e proprie cornici ideologiche, convenzionalmente denominate leyenda rosa e leyenda negra.4 Due “imma-gini-guida”, le possiamo anche definire, che si strutturano a partire da una

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lettura di segno opposto, e orientato sul piano confessionale, delle esperienze e delle fonti a disposizione sul Nuovo Mondo. Così, la meraviglia e la ripulsa, gli interessi concreti e le aspirazioni politico-economiche, l’imperialismo cul-turale e lo slancio religioso del mosaico di attori operante al di qua e al di là dell’Atlantico che alimenta simile circolazione di notizie e saperi si sarebbero tradotti ora nella tenace rivendicazione dei “giusti titoli” della conquista spa-gnola e del carattere provvidenziale della scoperta del Nuovo Mondo, assurto, grazie alla missione evangelizzatrice, a nuova frontiera di un cattolicesimo in ripiegamento in Europa. Ora, invece, nel suo ancipite contrario.5

Attraverso la traduzione nei principali idiomi europei della Brevísima re­lación de la destrucción de las Indias di Bartolomé de las Casas, e la campagna iconografica che accompagna la versione in latino del testo indirizzato dal do-menicano al re di Spagna perché ponga fine alle violenze dei suoi indegni vassalli, apparsa a Francoforte nel 1598 (Casas 1598), la conquista castigliana si staglia agli occhi degli ambienti espansionistici e dei lettori lato sensu prote-stanti come la “guerra ingiusta” per antonomasia: impresa disordinata, arbi-traria e predatoria, condotta da individui che Las Casas ha a suo tempo parago-nato a tigri e leoni, rei dei peggiori atti di crudeltà nei confronti di un mondo indigeno che, a causa della ricezione “letterale” della fonte lascasiana, e della sua fortunatissima resa iconografica, viene cristallizzandosi nell’immaginario dell’Europa ostile agli Asburgo di Spagna nel segno del tutto prevalente del primitivismo.

Non sorprende così che nelle regioni europee gravitanti nell’orbita ispano-cattolica la Brevísima relación di Las Casas, inopinatamente trasformatasi, gra-zie all’edizione a stampa sivigliana del 1552 (Casas 1552) e alle traduzioni, nella fonte par excellence della leyenda negra, venga accolta con sospetto, e data alle stampe solo in congiunture politico-internazionali del tutto eccezionali.6 Né sorprende l’adesione alla leyenda rosa da parte delle società di antico regime del mondo ispano-cattolico, in Europa e nel Nuovo Mondo. Un’adesione che bisogna sempre decostruire, per coglierne la fisionomia specifica in relazione ai contesti storici e socio-etnici, ma che comincia a essere messa in discussione soltanto fra Sette e Ottocento, al momento della frattura, psicologica e po-litica, che attraversa il mondo atlantico all’epoca delle riforme, delle rivoluzioni

La vocazione atlantica della nascente Europa moderna favorisce la forma­zione di due vere cornici ideologiche, la leyenda rosa e la leyenda negra{ }

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e delle indipendenze.7Proprio in quel frangente di tumultuoso cambiamento, e di conseguente

spettacolare intensificazione della circolazione atlantica di notizie, idee, modelli politico-economici e culturali alternativi, si registra a ben vedere la prima effet-tiva diffusione nel mondo ispano-cattolico, europeo e americano, della leyenda negra. All’epoca delle Cortes di Cadice, e in prossimità della frantumazione dell’America spagnola in un mosaico di nuovi soggetti politici, sarebbero stati in particolare i più accesi fautori dell’Indipendenza a ricorrere, non diversa-mente dai “ribelli” delle Province unite e dagli antagonisti degli Asburgo di Spagna nella prima età moderna, alla Brevísima relación di Las Casas.

Quanto agli ambienti espansionistici francesi, e soprattutto inglesi, nel Cinque-Seicento la leyenda negra esercita una considerevole influenza nel le-gittimare i processi di inserimento nel mondo atlantico e nelle terre ameri-cane di esploratori, mercanti e coloni. Una legittimazione che si fonda sulla programmatica condanna dei “metodi” della conquista spagnola icasticamente denunciati da Las Casas, e sulla rivendicazione, in alternativa, della centralità del diritto di vera occupazione e di “messa a coltura” di terre considerate vergini in quanto “deserte”,9 vale a dire non stabilmente abitate da popolazioni native la cui immagine tende così a prendere forma nel segno prevalente, ancorché ancipite, del “selvaggio”.10

Nonostante la vocazione missionaria degli ordini religiosi attivi nella Nuo-va Francia, e l’interesse suscitato dalla loro letteratura etnografico-edificante nelle culture europee coeve, né nell’America francese né, com’è più ovvio, nel mondo angloamericano, vengono intraprese campagne di evangelizzazione e di acculturazione paragonabili a quelle condotte sin dal primo Cinquecento dai religiosi al servizio della Corona spagnola. Campagne che, certo anche per le caratteristiche socio-culturali prevalenti nelle popolazioni native11 delle regioni soggette al dominio spagnolo, promuovono il radicamento della leyenda rosa nel mondo amerindiano coloniale.

Grazie alla cooptazione delle élites native, al disciplinamento, alla pedago-gia per immagini , e al riconoscimento, almeno sulla carta,12 della costumbre nel derecho indiano, l’adesione al cattolicesimo-romano e il lealismo verso il re lontano del mondo indigeno avrebbero così retto alla prova dei secoli. E ciò a dispetto di crisi spettacolari come la rivolta di Túpac Amaru II alla fine del di-ciottesimo secolo.

Nel corso della prima età moderna il carattere schiettamente multietnico e multiculturale dei processi di formazione storica delle Americhe favorisce ov-viamente l’allignare, certo con tempi e forme profondamente distinti a seconda dei diversi contesti, di un sentimento di “americanità”13 in cui si esprime, nei modi più cangianti, la valorizzazione della specificità del mosaico di esperienze

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che stanno mettendo radici nel nuovo continente.Pur nel quadro del crescente maturare di simili identità locali, che si river-

berano in un ricco corpus di fonti ormai da tempo al centro dell’attenzione della storiografia, dell’antropologia storica e della storia dell’arte,14 fino al Settecen-to il dibattito sul Nuovo Mondo sarebbe tuttavia rimasto prevalentemente espressione, in Europa, dello sforzo di integrare la nuova realtà americana all’interno delle proprie coordinate intellettuali, della propria imago mundi, dei propri modelli politico-ideologici e religiosi. Al di là dell’Oceano, tale dibattito avrebbe invece teso a dare voce alle peculiarità sempre distinte di ambienti in cui la tensione verso l’occidentalizzazione del mondo amerindiano, e di un multietnico contesto coloniale in cui coesistono Nativi, Europei e Africani, si intreccia, certo, ancora una volta in forme e con intensità sempre diverse, con l’americanizzazione dei saperi e delle pratiche europei: dalla condotta della guerra alla diplomazia, dalla demografia al diritto, dalla politica all’economia,

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Illustrazione della Brevísima relación di Las Casas realizzata da Theodor de Bry (XVI sec.) che mostra la supposta brutalità degli spagnoli nei confronti dei nativi americani.

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dalla religione alle lingue, dall’urbanistica alle arti.

II. IL RIORIENTAMENTO EUROCENTRICO DEL MONDO ATLANTICO NEL XVIII SECOLO E LE ORIGINI DELLA “DISPUTA DEL NUOVO MON-DO”

Nel corso del Settecento, sullo sfondo di una sostanziale intensificazione dei legami atlantici, il dibattito sul Nuovo Mondo evocato nelle pagine

precedenti si trasforma gradualmente, ma non meno irreversibilmente, in un serrato contraddittorio dal respiro intercontinentale. Un confronto che vede schierati, “gli uni contro gli altri armati”, i detrattori e gli apologeti dell’America: gli europeisti e gli americanisti, si potrebbe anche dire, con tutte le loro va-rianti, legate ai diversi contesti politico-culturali e alle differenti congiunture internazionali.

Depotenziato l’antagonismo più schiettamente confessionale tipico delle cornici ideologiche della leyenda rosa e della leyenda negra, che durante la prima età moderna hanno svolto efficacemente la loro funzione di “immagi-ni-guida”, a farsi strada nel diciottesimo secolo è in effetti una nuova visione dei rapporti che uniscono l’Europa al Nuovo Mondo e dell’America tout court. Una visione che, pur affondando le sue radici nel dibattito delineatosi a partire dall’epoca di Colombo, tende ad assumere un registro per molti versi inedito rispetto al passato,15 ispirato, al di qua dell’Atlantico, dalla volontà di sistema-tizzare secondo un principio di razionalità il patrimonio americanistico della prima età moderna.

Simile mutamento culturale non avrebbe tardato a sollecitare le reazioni degli americani. Al di là dell’Atlantico, a consolidarsi è così nel corso del secolo un senso di appartenenza che potremmo definire a un tempo locale ed emi-sferico (cfr. Bauer 2009), che matura grazie alla sempre più consapevole valoriz-zazione della specificità dell’esperienza americana in seno al mondo atlantico.

Nel suo costante intrecciarsi con le trasformazioni geopolitiche e politi-co-istituzionali che attraversano tale spazio intercontinentale nel diciottesimo secolo, il confronto sul Nuovo Mondo contribuisce da un lato alla maturazione del paradigma eurocentrico, con la sua visione geometrizzante e progressiva della storia del genere umano, e dall’altro all’emergere di un americanismo dai contenuti politici e “nazionali”. Un americanismo che attinge a piene mani alle culture atlantiche, rivendicando tuttavia in chiave ormai apertamente anti-eurocentrica le potenzialità dell’emisfero americano, della sua natura, della sua storia, del suo avvenire.16

L’inasprirsi dei toni del dibattito settecentesco sul Nuovo Mondo fino alla sua trasformazione in una vera e propria disputa atlantica, pronta da allora a riaccendersi ogniqualvolta le circostanze storiche sollecitino le sensibilità e le

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culture politico-ideologiche dei diversi attori del mondo occidentale,17 non si esaurisce insomma in un fenomeno erudito o in un capitolo di una storia delle idee isolata dal contesto in cui simili rappresentazioni maturano e si trasfor-mano.

Anche se è ovvio che le immagini tendono via via a cristallizzarsi, assu-mendo vita propria, e diventando per questa via importanti e autonome com-ponenti dell’esperienza storica,18 è indubbio che le concezioni, le ossessioni, gli stereotipi della “Disputa del Nuovo Mondo”, di cui Gerbi ci ha restituito un in-superato profilo e le molteplici genealogie atlantiche, emergano nel Settecento nell’ambito di un sostanziale cambio di passo nei rapporti fra l’Europa e le Americhe. Un mutamento di cui si avvertono le avvisaglie sin dalla Guerra di successione spagnola (1701–1713/1714).

Virtualmente “mondiale”, per i teatri e gli interessi in gioco, questo lungo conflitto non sancisce soltanto il tramonto della Spagna imperiale, e la con-seguente trasformazione della leyenda negra dell’espansione castigliana nel Nuovo Mondo da strumento propagandistico a patrimonio più schiettamente storiografico, la cui influenza a livello europeo, americano e poi globale è av-vertibile fino ai giorni nostri.19 Le clausole in materia economico-commerciale contenute nella Pace di Utrecht portano in effetti anche a una prima apertura “legale” dell’impero spagnolo, con l’effetto di intensificare nei decenni succes-sivi la competizione atlantica del sistema degli Stati europei.

Che al centro dell’agenda delle metropoli del Vecchio Mondo sin dalla pri-ma metà del Settecento cominci a stagliarsi il problema della sicurezza dei ter-ritori d’oltremare, dei monopoli commerciali e dei confini fra i rispettivi imperi americani non è insomma sorprendente. Anche se va osservato che, fino alla fine della Guerra dei sette anni, la volontà europea di affermare il principio dell’autorità metropolitana non travalica di norma i limiti di tolleranza del tra-dizionale “ostruzionismo” coloniale, icasticamente riassunto, con riferimento al caso ispanoamericano, nell’adagio “la ley se acata, pero no se cumple”.

Per quanto il dibattito sulla riforma dei patti coloniali si manifesti prima che la Guerra dei sette anni sovverta la geopolitica del Nord America, proiettando al tempo stesso la competizione interna al sistema degli Stati europei a livello glo-bale, è tuttavia soltanto a partire dal 1763 che il tema tende a trasformarsi in un assunto improrogabile per metropoli europee:20 in primis Londra e Madrid, che vi si accingono sull’onda della necessità di tutelare i propri (antichi o giovanis-simi) imperi, lungo i filoni, intrecciati, della difesa dei territori e dei mezzi finan-ziari per sostenerla,21 della riorganizzazione della geografia amministrativa22 e della “modernizzazione” istituzionale ed economica delle sempre più variegate società americane. Società che, da parte loro, cominciano a prendere posizione nei confronti delle politiche poste in essere dopo il 1763, rivendicando il peso

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dei propri interessi americani e accingendosi alla formulazione di strategie di autolegittimazione in nome della rappresentanza, dell’autonomismo, del ribel-lismo, dell’indipendentismo, e naturalmente anche del lealismo delle Americhe verso l’Europa. Si tratta di un processo che catalizza non solo la circolazione delle idee su scala atlantica, ma anche la rielaborazione delle culture atlantiche in chiave sempre più schiettamente americana.23

Nel quadro della riconfigurazione geopolitica indotta dalla Guerra dei sette anni, e dell’urgenza di un nuovo stile nelle relazioni con i territori d’oltremare che ne deriva, il plurisecolare confronto, ideologico e intellettuale, intorno alle “Indie” tende così ad assumere il profilo di un’infuocata polemica ricca di implicazioni lato sensu politiche. A confermarlo, è la stretta contiguità crono-logica fra l’avvio dei progetti di riforma “post-1763” nell’America britannica e nell’America spagnola e la fioritura di un’ampia produzione editoriale sul Nuovo Mondo nella quale, fra eulogia e denigrazione, i registri della scienza, della sto-riografia, delle nascenti discipline socio-economiche si intrecciano con quelli dell’ideologia, dell’utopia, dell’esotismo, della filantropia, dell’abolizionismo.

Si pensi in simile prospettiva al ruolo assunto in seno alla “Disputa del Nuovo Mondo” dai Gesuiti espulsi nel 1767 dall’America spagnola. Il provvedi-

57L’espulsione dei gesuiti dalla Spagna (1767).

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mento di Carlo III, una delle espressioni più compiute del regalismo borbonico, non soltanto suscita reazioni, anche molto violente, nei territori ispanoameri-cani, ove i religiosi della Compagnia esercitano per tradizione un’influenza pro-fonda, configurandosi da secoli come la punta di diamante degli ambienti in-tellettuali locali e come i promotori di una strategica attività missionaria lungo le frontiere dell’impero spagnolo.

Com’è ben noto, dal loro esilio italiano, i membri delle province ispano-americane dell’ordine non avrebbero tardato a costituire anche un pugnace partito “americanista”, pronto a intervenire con autorevolezza, e sulla base del-la sicura conoscenza delle posizioni ideologiche e storiografiche dei propri av-versari, nella “Disputa del Nuovo Mondo”,24 il cui casus belli è legato all’uscita nel 1768, a ridosso dell’espulsione dei Gesuiti dall’America spagnola e mentre il patto coloniale angloamericano versa ormai in crisi, delle Recherches sur les Américains di Cornelius de Pauw (1768).25

Significativamente sottotitolate Mémoires intéressants pour servir à l’histoire de l’espèce humaine, a conferma della tendenza da parte degli intellettuali eu-ropei del secondo Settecento ad accostare l’America attraverso il serrato con-fronto, ora erudito ora peregrino, con le altre parti del mondo,26 la corposa sin-tesi di de Pauw deve per molti versi la sua fortuna proprio a simile congiuntura atlantica.

Pedante più che dotto, provocatorio più che penetrante, il testo si pre-senta con sicurezza al pubblico europeo come un trattato scientifico, costruito a partire da una rilettura “raisonnable” delle fonti americanistiche sedimentate nel corso della prima età moderna. Fonti di cui de Pauw denuncia con severità la (presunta) inattendibilità.27 Guidato da un geometrizzante quanto libresco eurocentrismo, il philosophe considera simili documenti partigiani, inaffidabi-li e prodotto di un “entusiasmo” di fronte alla “scoperta” delle Americhe che avrebbe, a suo dire, ottenebrato per secoli la capacità di giudizio di viaggiatori, esploratori, colonizzatori, missionari, scienziati e trattatisti.28

Sprezzante nei confronti della consistenza dei saperi americanistici, e indif-ferente di fronte all’esistenza al di là dell’Oceano di società coloniali forgiate da una plurisecolare esperienza diretta del Nuovo Mondo, i cui componenti più engagés non avrebbero infatti tardato a rispondergli “a tono”, de Pauw apre il suo Discours préliminaire, presentando gli abitanti nativi del Nuovo Mondo come i protagonisti del “chapitre le plus curieux, & moins connu de l’Histoire de l’Homme” (de Pauw 1768, III). Un ritratto che accentua la distanza fra le due sponde dell’Atlantico, proiettando su tutti gli americani (aborigeni e non) un giudizio negativo, nel segno, inappellabile, dell’inferiorità, della degenerazione e della subordinazione rispetto a quell’Europa che, all’alba della modernità, ha, parole di de Pauw, che attinge ampiamente alla Brevísima relación di Las Casas,

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vinto, soggiogato, e come inghiottito, il Nuovo Mondo. Il philosophe difende lungo tutta la trattazione simile giudizio, ispirato alla

“superiorité de l’Europe” nei confronti dei popoli che europei non sono. Un giu-dizio che sottende tuttavia anche una sorta di ostilità verso il coevo dilatarsi su scala planetaria delle aspirazioni espansionistiche del Vecchio Mondo. “Si la génie de la désolation & des torrents de sang, précèdent toujours nos con­quérants, n’achetons pas l’éclaircissement des quelques point de géographie, par la destruction d’une partie du globe, ne massacrons pas les Papous, pour con­noître au Thermomètre de Réamur, le climat de la Nouvelle Guinée” (de Pauw 1768, VII), osserva infatti de Pauw. “Si ceux qui prêchent la vertu chez les nations policées, sont trop vicieux eux­mêmes, pour instruire des sauvages sans les tyran­niser, laissons végéter ces sauvages en paix, plaignons­les, si leurs maux surpas­sent les nôtres, & si nous ne pouvons contribuer à leur bonheur, n’augmentons pas leurs misères” (de Pauw 1768, VIII), aggiunge poco più avanti, dando voce a una vena di anticolonialismo.

Nelle pagine conclusive dell’apologia, allegata alla nuova edizione berli-nese del 1770, in risposta alle prime reazioni critiche nei confronti delle Recher­ches emerse negli ambienti intellettuali europei,29 de Pauw avrebbe ribadito proprio sulla base degli esiti della conquista e della colonizzazione del Nuovo Mondo, e di un confronto fra i (presunti) livelli di civiltà raggiunti lungo le due sponde dell’Atlantico, la superiorità a tutto tondo dell’Europa: “L’Europe a con­quise l’Amérique, & elle la tient sous le joug avec autant de facilité que l’Empire romain tenait la Corse ou la Sardigne”, afferma perentorio (de Pauw 1768, 227).

La sicurezza del dotto olandese colpisce lo studioso di oggi. Non solo de Pauw sembra indifferente nei confronti della complessità geografica ed etnico-culturale del mosaico degli insediamenti americani, che annoverano al loro interno gli immensi imperi iberici, i ricchi Caraibi francesi, le enclaves olandesi, il “nuovo” impero britannico, le grandi frontiere indiane nel Nord e nel Sud del continente. A ben vedere, egli pare altresì indifferente verso gli elementi di crisi evidenti nel mondo atlantico coevo.

La miopia del philosophe è però sorprendente solo fino a un certo punto. Per un intellettuale eurocentrico, nello sguardo e nei valori, come de Pauw, l’America degli anni Sessanta del diciottesimo secolo si configura in effetti soltanto come una delle parti del mondo verso il quale si indirizza lo slan-cio espansivo ormai virtualmente planetario dell’Europa-civilisation. “Si à tout­

La Guerra dei sette anni segna l’inizio di un profondo riorientamento dei rapporti tra l’Europa e il Mondo{ }

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cela”, osserva, con riferimento al dominio europeo nelle Americhe, “on ajoute les conquêtes que les Européens ont faites en Afrique, en Asie, & au centre même de ce formidable empire du Mogol, alors il faut bien supposer que ces Européens surpassent autant les autres nations du Monde pour leur bravoure qu’ils les sur­passent par leur connaissances dans les arts & dans les sciences. L’Europe est le seul pays dans l’Univers où on trouve des Physiciens et des Astronomes” (de Pauw 1768, 227).

Generatrice dell’avvio di una crisi che nell’arco di tredici anni avrebbe de-terminato lo spettacolare scioglimento dei legami politici fra le colonie bri-tanniche del Nord America30 e l’Inghilterra, aprendo la strada a una stagione rivoluzionaria per il mondo atlantico coronata dalla frantumazione delle “Indie” spagnole nel primo Ottocento,31 la Guerra dei sette anni segna altresì l’inizio, certo solo l’inizio, di un profondo riorientamento dei rapporti Europa-Mondo. Un riorientamento eurocentrico, del tutto aurorale nel secondo Settecento, e cionondimeno tangibile nel nuovo slancio delle spedizioni nel Pacifico e in Oceania, e nelle prime avvisaglie del modificarsi dello stile di relazione degli Europei con i grandi attori politici asiatici: dall’Impero Ottomano alla Cina sino al Giappone dei Tokugawa,32 il cui regolato sistema di rapporti con l’esterno comincia a incrinarsi di fronte all’intensificazione dell’attivismo nel Pacifico orien tale di nuovi attori “europei”: in primis la Russia.33

La dimensione ormai planetaria in cui si esplica la competizione fra le prin-cipali potenze europee, e l’incremento delle conoscenze geografiche ed et-nografiche relative ai diversi continenti,34 contribuiscono al tempo stesso ad accreditare, come conferma il registro adottato da de Pauw nelle sue Recher­ches, nelle culture atlantiche del secondo Settecento un’immagine che abbi-amo già definito emisferica dell’America, toponimo di origine umanistica che entra nell’uso proprio in questo periodo.35 Un’immagine, nel caso di de Pauw sostanzialmente negativa, al cui interno si fa strada una rappresentazione del genere umano fondata sul criterio, così ricco di ambivalenze al di qua e al di là dell’Atlantico, di “razza”.36

Dato un simile contesto internazionale, si può comprendere perché dopo il 1763 il mondo atlantico cominci a configurarsi agli occhi degli europei dell’epoca come uno dei molteplici teatri mondiali ove si registra l’espansione del Vecchio continente. Il che non toglie che si tratti del più vicino e significa-tivo, per il respiro storico, politico-economico, religioso e culturale assunto nel corso di oltre due secoli dai rapporti Europa-Americhe.

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III. DALLE RIFORME ALLE INDIPENDENZE: PROSPETTIVE LOCALI, DIMENSIONI CONTINENTALI E ORIZZONTI GLOBALI NEL MONDO A TLANTICO.

L’immagine depauwiana dell’America non tarda a surriscaldare la “Disputa del Nuovo Mondo”. Sullo sfondo vi è l’escalation che, dalla crisi del patto

coloniale angloamericano, attraverso la Dichiarazione di indipendenza, porta da un lato alla vittoria delle Tredici colonie e alla formazione del primo attore politico indipendente oltreoceano.37 E dall’altro, all’accelerazione delle riforme in materia militare, amministrativa, commerciale ed economica nell’America spagnola, che, di fronte alla crisi britannica, dilata le sue frontiere settentrionali e meridionali.

De Pauw, lo abbiamo già sottolineato, ha costruito la sua rappresentazione del Nuovo Mondo, una rappresentazione dal respiro (pseudo)scientifico e ge-ometrizzante, passando al vaglio di un razionalismo deduttivo il ricco corpus di informazioni confluito nei secoli precedenti entro le due cornici ideologiche contrapposte della leyenda rosa e della leyenda negra, e le osservazioni rac-colte nel corso del Settecento dagli esploratori e navigatori al servizio delle grandi potenze europee.

La svalutazione da parte del philosophe dell’esperienza americana e delle tradizioni americanistiche della prima età moderna, e la tendenza a esami-nare le forme di organizzazione socio-politica e culturale del genere umano a livello planetario, favoriscono, come pure già si è osservato, una sempre più netta distinzione fra i continen-ti e i loro abitanti nonché una loro tendenziale gerarchizzazione sulla base di un etnocentrico “standard di civiltà” modellato sull’esperienza dell’Europa del Settecento.38 Con il risultato di trasformare le Americhe in un emisfero di cui, ora nel solco di de Pauw ora contro le posizioni del philosophe, gli intellettuali, i polemisti e i poligrafi europei dell’epoca, spet-tatori a distanza dei processi di rio-rientamento eurocentrico in corso nel mondo atlantico e sul piano globale, tendono a sottolineare la primordia-

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lità della natura, l’“autoctonia” degli abitanti, nativi e creoli, le prospettive e i limiti delle diverse esperienze coloniali.

De Pauw e i suoi epigoni europei avrebbero pagato a caro prezzo la propen-sione a estendere, in ragione di un apodittico determinismo climatico, anche ai creoli americani l’accusa di degenerazione e incapacità affibbiata agli Amerindi e alla storia “precolombiana”. Per il loro carattere tranchant, le Recherches non tardano in effetti a diventare oggetto di confutazioni destinate a incidere sul palinsesto della “Disputa del Nuovo Mondo” e a costituire l’humus di altrettanti topoi della nascente retorica americanistica anti-eurocentrica.

In simile prospettiva, la History of America di Robertson (1777), la Storia antica del Messico dell’ex-gesuita Clavijero (1780–1781) e le Notes on Virginia di Thomas Jefferson (1781–1782) offrono un ampio ventaglio di temi e motivi, destinati a orientare le mutue percezioni euro-americane e interamericane dei decenni e del secolo a venire.

Guidato da un atteggiamento di viva prudenza nei confronti del dirompere della Guerra d’indipendenza angloamericana, lo scozzese Robertson presenta l’America come un continente, descrivendone il profilo naturale e storico-antro-pologico a partire da una nozione schiettamente eurocentrica di refinement in cui si avverte l’eco dell’immagine depauwiana di un emisfero caratterizzato da una natura troppo spesso inospite, appena scalfita dall’azione dell’uomo, e di una visione, per quanto residuale, “alla las Casas” della conquista. Robertson tende altresì, nel solco di de Pauw, a minimizzare il rilievo delle fonti native, preispaniche e coloniali.40 Una valutazione che Clavijero non avrebbe mancato di rimproveragli aspramente.

La History of America si fa così veicolo di un’idea di una modernità eu-ropea dal respiro intrinsecamente atlantico, conferendo all’espansione casti-gliana il carattere di primo, pionieristico ancorché “arcaico”, capitolo di una storia a tlantica che nasce e si struttura attraverso l’espansione europea verso il Nuovo Mondo.

Pur essendo pronti a riconoscere il valore, di metodo e di contenuto, dell’opera di Robertson, che ha significativamente riabilitato le fonti spagnole della prima età moderna, sottraendole alla condanna della leyenda negra e alla svalutazione di de Pauw, i “creoli”, tanto nel mondo ispanofono quanto in quello angloamericano, non sono invece disposti a condividere le perplessità, di matrice depauwiana, dell’autore verso la natura del continente americano e le qualità antropologiche e culturali delle popolazioni, delle società e delle civiltà che in esso, lungo la linea del tempo, hanno messo radici.41

Al di là del suo fine più schiettamente storiografico, l’opera di Clavijero va considerata pertanto come una risposta dal forte portato “avvocatesco” alle ac-cuse mosse da de Pauw al mondo “precolombiano” e accolte, sia pure in misura

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assai minore, da Robertson. Diversamente da Thomas Jefferson, che trasforma per molti versi la Virginia nel cuore di una concezione continentale dei na-scenti Stati Uniti, Clavijero tende invece a isolare proprio una regione specifica, per tradizione e caratteristiche naturali, all’interno di un’America “preispanica” e coloniale, ch’egli pone cionondimeno sullo stesso piano storico-culturale dell’Europa e di cui, da messicano, difende con vigore la provvidenziale con-versione al cattolicesimo.

Lettore attento degli autori ispanofoni del dibattito primo-moderno sul Nuovo Mondo e della “Disputa”, anche Jefferson coglie le potenzialità di una valorizzazione in chiave anti-eurocentrica della storia “antica” del continente americano (Bauer 2009, passim). A differenza di Clavijero, tuttavia, egli stabi-lisce contestualmente una netta distinzione fra gli americani nativi e gli ameri-cani di origine europea, che diventano i depositari dell’avvenire del nuovo con-tinente.42 E ciò sulla base di una divisione razziale del genere umano che autori europei come de Pauw tendono invece a collegare all’influenza, più che del dato biologico, della natura dei diversi continenti sui rispettivi abitanti.

Tanto Clavijero quanto Jefferson hanno composto le loro opere per un destinatario elettivo: l’Europa del tardo Settecento, sensibile, al di là delle di-verse posizioni, all’influenza dell’immagine depauwiana. Un’Europa che assiste, più o meno attonita, all’Indipendenza degli Stati Uniti, e poi all’irreversibile trasformazione della Rivoluzione francese in un’imponente questione atlantica (e invero anche globale, ovviamente dal punto di vista del sistema degli Stati europei, se si tiene conto della proiezione planetaria assunta dell’antagonismo anglofrancese).

L’apertura di questo amplissimo fronte di crisi avrebbe in un breve torno di anni conferito a simili motivi anti-eurocentrici e americanistici una nuova cen-tralità nella rimodulazione delle mutue percezioni tanto in seno ad un mondo atlantico ove va delineandosi un’irreversibile frattura politica, quanto all’interno delle stesse nascenti Americhe indipendenti.

Mentre gli Stati Uniti capitalizzano gli effetti della destrutturazione prodot-ta nel Nord America da tale epocale congiuntura, guadagnando per via diplo-matica nel 179543 il diritto di accedere al Golfo del Messico, e acquistando poi, fra il 1803 e il 1819, la Louisiana e la Florida, primi decisivi tasselli di una espan-sione continentale della quale avrebbe fatto le spese il Messico indipendente,44 la dimensione tellurica, l’esaltazione del passato indigeno e la (ancipite) tutela del cattolicesimo si trasformano nei tratti fondatori del nascente americanismo politico ispanoamericano. Un americanismo, com’è ovvio, ricco di linee di ten-sione se lo si studia in relazione ai diversi contesti e ai vari momenti, che, cio-nondimeno, attinge piuttosto unanimemente al discorso della leyenda negra antispagnola e, almeno sulla carta, ai modelli politici e costituzionali di matrice

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liberale45 per suggellare la rescissione del legame con la metropoli. La rottura dei patti coloniali che hanno unito sin dalla prima età mo-

derna i vari territori del continente americano alle rispettive madrepatrie, e la formazio ne oltreoceano di un mosaico di nuovi Stati, per lo più, lo si è appena sottolineato, a regime repubblicano, costituiscono eventi davvero rivoluzionari nell’ambito della storia del mondo atlantico. E ciò a dispetto della presenza di evidenti importanti elementi di continuità con il passato: a partire dalla presen-za della schiavitù (cfr. Benzoni 2012, 167–186, passim; cfr. anche Benzoni 2008).

Basti esaminare ancora una volta il registro schiettamente “emisferico” adottato nel celebre discorso di James Monroe del 2 dicembre 1823 e, di lì a poco, nella Convocatoria per il congresso di Panamá inviata da Bolivar dal Perù alla fine del 1824. In quel biennio carico di incertezze in relazione alla condotta delle potenze europee nei confronti delle Indipendenze ispanoameri-cane, tanto gli USA, memori della recente guerra con l’Inghilterra,46 quanto il Libertador, attento di fronte al rischio di una possibile revanche di Ferdinando VII,47 presentano l’America come uno spazio geopolitico autonomo, un con-tinente “repubblicano”, posto a metà strada fra l’Asia e l’Europa, e separato da quest’ultima da un oceano, l’Atlantico, che nel corso del diciannovesimo secolo avrebbe tuttavia registrato, proprio in ragione dell’accelerazione dei processi di americanizzazione delle ex-“colonie” europee,48 una spettacolare intensificazione dei processi migratori e dei circuiti economici, commerciali e culturali. E così, nonostante l’isolazionismo degli Stati Uniti, che si trasformano gradualmente in una repubblica continentale, erede per molti versi dei progetti di espansione occidentale verso l’Asia coltivati sin dalla prima età moderna dagli imperi europei nelle Americhe, fino al (1898,49 191450) 1917,51 il mondo a tlantico avrebbe continuato a costituire un orizzonte del tutto privilegiato per l’Europa ottocentesca, che, grazie al temporaneo monopolio della rivoluzione industriale, comincia a sovvertire a proprio vantaggio gli equilibri mondiali, ar-rivando a occupare un’enorme porzione delle terre emerse.

La rescissione dei vincoli politici euroamericani, le cui più antiche radici abbiamo rintracciato negli esiti della Guerra dei sette anni a metà del diciot-tesimo secolo, segna cionondimeno una frattura non ricomponibile all’interno del mondo atlantico. Com’è ben noto, appena usciti da una spaventosa guerra

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La rottura dei patti coloniali e la formazione oltreoceano di nuovi Stati sono eventi davvero rivoluzio­nari nella storia del mondo atlantico{ }

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civile che prefigura i conflitti dell’età industriale, gli Stati Uniti appoggiano con successo in nome della vocazione emisferica della Dottrina Monroe la resisten-za dei repubblicani messicani di fronte al tentativo di rilancio di un progetto imperiale europeo nel Nuovo Mondo.52 Il che non toglie che, proprio l’ascesa degli Stati Uniti, favorisca la formazione di un’America “latina”, la quale, soprat-tutto a partire dal secondo Ottocento, si sarebbe accostata alla civilisation eu-ropea, e alla sua tradizione mediterraneo-continentale.

NOTE:1. Sull’ethos di Gerbi americanista, la genesi e la vicenda editoriale de La di­

sputa del Nuovo Mondo, mi permetto di segnalare Benzoni 2012, 208–222. Cfr. Perassi e Pino 2009.

2. La bibliografia in argomento è vastissima. Lo studio di J. Cañizares Esguerra (2007) ricostruisce in modo persuasivo il rapporto fra questa imponente tradizione americanistica e le nuove epistemologie e pratiche storiogra-fiche del diciottesimo secolo atlantico.

3. I tanti “Atlantici”, avrebbe detto Chaunu, che vengono a comporre il mon-do atlantico nel corso dell’età moderna: a partire dall’Atlantico iberico del quindicesimo secolo, che fa centro negli arcipelaghi, e si articola lungo le coste occidentali dell’Africa, per poi aprirsi inopinatamente verso Occidente a partire dal 1492 nel rispetto dei términos del Trattato di Alcáçovas (1479).

4. In merito all’influenza di queste due cornici ideologiche sulle attitudini americanistiche delle culture europee e atlantiche dell’età moderna, mi permetto di rinviare ancora a Benzoni 2012, 41–64 e 187–207.

5. Si consideri il celebre incipit della Historia general de las Indias del cronista spagnolo López de Gómara (1552): “La mayor cosa después de la creación del mundo, sacando la encarnación y muerte del que lo crió, es el descu­brimiento de las Indias; y así las llaman Mundo Nuevo”. E lo si confronti con alcuni dei punti trattati nel non meno celebre Discourse on Western Plant-ing di Hakluyt (1584): “1) That this westerne discoverie will be greately for the inlargement of the gospell of Christe whereunto the Princes of the refourmed relligion are chefely bounde amongest whome her Majestie is principall; 2) That all other englishe Trades are growen beggerly or daungerous, especially in all the kinge of Spaine his Domynions, where our men are dryven to flinge their Bibles and prayer Bokes into the sea, and to forsweare and renownce their relligion and conscience and consequently theyr obedience to her Maj­estie … 11) That the Spaniardes have executed most outragious and more then Turkishe cruelties in all the west Indies, whereby they are every where there, become moste odious unto them, whoe woulde joyne with us or any

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other moste willingly to shake of their moste intollerable yoke, and have be­gonne to doo it already in dyvers places where they were Lordes heretofore.”

6. Ben noti i casi della traduzione apparsa a Venezia all’epoca della Guerra dei trent’anni e dell’edizione catalana del 1646. Per le edizioni della Brevísima relación nel contesto delle Indipendenze ispanoamericane, v. infra.

7. V. infra.8. Il contributo dell’esule novoispano Fray Servando Teresa de Mier nella dif-

fusione atlantica del testo lascasiano è ben noto. Cfr. le edizioni in spa gnolo di Londra (1812), Filadelfia (1821) e Città del Messico (1822).

9. La declinazione dell’argomento giuridico della “res nullius” da parte inglese e francese è stato affrontato con finezza da Pagden 2005, 115–173, passim.

10. Fino allo storico tournant della Guerra dei sette anni, gli Amerindi nord-americani si configurano da parte loro ora come attori subordinati ora come partners ora come incerti alleati ora, infine, come esterni spettatori a distanza nell’ambito della complessa trama di relazioni che intercorrono fra le popolazioni native e i coloni francesi e inglesi. Per un’introduzione in merito alla formazione storica di un immaginario del nativo nel mondo coloniale angloamericano, e alle relative ambiguità, funzionali ai rapporti di forza in essere, si può partire da Jennings 1991.

11. Sugli indios bravos e le relazioni fra gli Spagnoli e il mondo amerindiano e sterno al sistema delle “due repubbliche”, si vedano gli studi di David We-ber.

12. Sui tempi e le forme dell’occidentalizzazione dell’immaginario nativo, con riferimento al caso messicano, cfr. l’ormai classico studio Gruzinski 1988.

13. “La denominazione ‘Nuovo Mondo’ deve in fondo la sua più autentica na-tura proprio all’interazione, spesso catastrofica, di norma violenta e sempre asimmetrica, fra gruppi umani costretti dalla forze delle cose a lasciarsi alle spalle un ‘vecchio mondo’, e con esso una più antica visione del mondo, e a ridefinire le proprie abitudini di vita e i propri valori in un quadro di segno multiculturale. Le Americhe in età moderna nascono da simile epico incontro” (Benzoni 2012, 8). Un incontro che coinvolge Amerindi, Europei, Africani e finanche i primi Asiatici.

14. In simile prospettiva, il contributo di Gruzinski si distingue per lo studio delle connessioni fra queste esperienze locali e gli orizzonti della mondi-alizzazione e della prima globalizzazione. Per un’introduzione all’itinerario di ricerca dell’americanista francese, si può vedere ancora Benzoni 2012, 79–94.

15. In merito a questo mutamento, di sensibilità, e di carattere epistemologico, v. ancora Cañizares Esguerra 2007, passim.

16. Per un’introduzione a proposito di tali temi, si può vedere ancora Benzoni 66

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2012, 167–186.17. Pur nella consapevolezza di rischiare l’anacronismo, si pensi alla retori-

ca che accompagna le stagioni dell’isolazionismo, dell’americanismo, dell’antiamericanismo nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo.

18. Sempre suggestivo, a questo proposito, il passo che segue, tratto da Canetti 1994: “Una via verso la realtà … passa attraverso le immagini. Non credo che ne esista una migliore. Ci teniamo stretti a ciò che non muta perenne-mente. Le immagini sono reti, quel che vi appare è la pesca che rimane. Qualcosa scivola via, e qualcosa va a male, ma uno riprova, le reti le portia-mo con noi, le gettiamo e, via via che pescano, diventano più forti. È impor-tante però che queste immagini esistano anche al di fuori della persona, in lui sono anch’esse soggette al mutamento. Deve esserci un luogo dove uno possa ritrovarle intatte, e non solo uno di noi, ma chiunque si senta nell’incertezza. Quando ci sentiamo sopraffatti dal fuggire dell’esperienza, ci rivolgiamo a un’immagine. Allora l’esperienza si ferma, e la guardiamo in faccia. Allora ci acquietiamo nella conoscenza della realtà, che è nostra, anche se qui era stata prefigurata per noi. Ma questa esperienza è ingan-nevole, l’immagine ha bisogno della nostra esperienza per destarsi. Così si spiega che certe immagini rimangano assopite per generazioni: nessuno è stato capace di guardarle con l’esperienza che avrebbe dovuto ridestarle”.

19. Dalla manualistica scolastica al “pensare comune”, l’espansione castigliana, e più in generale l’espansione europea nelle Americhe, tende a essere pre-sentata in chiave “lascasiana”, con la conseguenza di “infantilizzare”, come a suo tempo acutamente colto da Gerbi, il mondo nativo, che, da parte sua, viene fatto per molti versi uscire dalla storia e confinato nella categoria di “vinto”.

20. È quanto suggerisce anche J.M. Fradera, con riferimento al caso spagnolo, allorquando osserva come “esta modificación de las relaciones de fuerza entre los paises comprometidos ... que no ha sido nunca explicada como un todo, así cómo en el interior de las proprias economias y sociedades concerni­das, es el escenario donde deben emplazarse razonablemente los cambios internos y externos en el espacio imperial español” (Fradera 2004, 162).

21. La radicale semplificazione del quadro geopolitico del Nord America pone in effetti la Spagna, traumatizzata dall’occupazione di L’Avana e Manila, di fronte al problema della tutela del proprio immenso impero america-no, che, con l’attribuzione a Madrid della Louisiana occidentale, da un lato dilata la sua proiezione in Nord America, misurandosi ormai dall’altro su scala globale con l’Inghilterra, di cui si teme l’attivismo tanto nell’Atlantico meridionale quanto nel Pacifico.

22. Si pensi a titolo esemplificativo alla Royal Proclamation (1763), e alla lunga 67

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visita di José de Gálvez in Nuova Spagna, ove il giurista giunge nel 1765 al fine di elaborare, sulla base di una diretta esperienza americana, un pia-no organico di riforme. Due decenni dopo, nel 1776 della Dichiarazione d’Indipendenza americana, sarebbe stata disposta la creazione delle “Pro­vincias Internas” del Nord America spagnolo e del Vicereame del Río de la Plata.

23. Cfr. Morelli 2008b. Sulla natura atlantica dell’anti-eurocentrismo degli am-bienti coloniali favorevoli all’indipendenza, si può vedere ancora Benzoni 2012, 167–186.

24. Cfr. infra. Interessante il caso del gesuita messicano Torres, e del suo lungo legame con Monaldo Leopardi, di cui si sta occupando Stefania Triachini.

25. L’opera dell’olandese Cornelius de Pauw (1739–1799), com’è ben noto, costituisce il fulcro della polifonica ricostruzione di Gerbi, passata a un ampio vaglio critico nello studio di Cañizares Esguerra 2007.

26. De Pauw è anche autore di articoli per il Supplément dell’Encyclopédie e delle Recherches sur les Égyptiens et les Chinois (1774), cui avrebbero fatto seguito le Recherches sur les Grecs, pubblicate nel 1787.

27. “Nos systèmes les plus raisonnables ne peuvent jamais s’enchainer assez ex­actement entre eux pour former un cercle parfait, qui embrasse l’immensité des phénomènes: il reste toujours des vides par où les erreurs & les plus grandes erreurs s’échappent, afin d’avertir sans cesse l’esprit humain de son impuissance d’accoutumer le Philosophe à douter malgré lui, malgré le péchant qui l’entraine à décider” (de Pauw 1768, XI–XII).

28. Considerazioni che ricordano, solo fino a un certo punto paradossalmente, il Muratori de Il cristianesimo felice. Il philosophe denuncia in particolare a più riprese l’influenza negativa “des contradictions et des observations vicieuses des voyageurs” (de Pauw 1768, IX) ai fini della costruzione di una visione autenticamente “scientifica” del Nuovo Mondo. Non meno marcata risulta la diffidenza, venata di anticlericalismo, di de Pauw nei confronti della letteratura missionaria. Sulla reazione dei gesuiti spagnoli e ispano-americani espulsi da Carlo III, v. infra.

29. Il testo contiene anche la nota dissertazione sull’America e gli Americani di D. Pernety. Sull’autore e il suo ruolo nel “decollo” europeo della “Disputa”, cfr. Gerbi 2000, 117–147.

30. A eccezione del Canada.31. Non vanno naturalmente dimenticate le indipendenze di Haiti e del Brasile.32. Com’è ben noto, diverso è il quadro delle relazioni in seno al subcontinente

indiano.33. Cfr. Mikhailova e Steele 2008, con particolare riferimento a M. Ikuta, Chang­

ing Japanese­Russian Images in the Edo Period, pp. 11–29. 68

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34. Con riferimento alla Spagna, cfr. De Vos 2007.35. “Si ricorda che la denominazione ‘Indie’, forgiata in evidente dipendenza

dall’obiettivo di fondo del viaggio di Colombo – il raggiungimento cioè dei ricchi mercati asiatici e l’apertura di relazioni politico-diplomatiche in funzio ne antimusulmana con le potenze orientali, in primis il vagheggia-to Gran Khan di Marco Polo, s’impone nell’uso delle diverse lingue vol-gari sino al diciottesimo secolo. Nel Settecento, nel quadro delle profonde trasformazioni che inve-stono il mondo atlantico, comincia a prevalere l’adozione del toponimo umanistico America, a segnare, sul piano lessi-cale, l’acquisita autonomia di tale grande spazio. Lungo l’età moderna, si è fatto ampio ricorso anche alla denominazione ‘Nuovo Mondo’, a sottoli-neare la peculiare natura del territorio, sconosciuto agli Europei fino alla fine del Quattrocento, ‘altro’ per civiltà e cultura rispetto al canone della Christianitas latina eppure, al tempo stesso, orizzonte principe delle prime esperienze di globalizzazione di quel medesimo canone proprio a partire dal sedicesimo secolo” (Benzoni 2012, 44 [nota]).

36. Per una panoramica in merito alla circolazione atlantica di questi temi e alla loro declinazione locale, cfr. Morelli 2008a. Per un confronto fra America spagnola e mondo angloamericano in merito ai concetti di emisfero e di razza, vedi anche Drake 2004.

37. Non dobbiamo dimenticare che indipendenti sono ancora anche ampi set-tori del mondo amerindiano, per i quali, con il “senno di poi”, le indipen-denze americane si configurano, nel Nord e nel Sud America, come la svolta che prelude al all’etnocidio, al genocidio, al dominio e all’alienazione.

38. Dell’Europa “atlantica”, si potrebbe aggiungere.39. La vicenda editoriale delle Notes on Virginia, pubblicate per la prima volta a

Parigi nel 1785, è particolarmente complessa. Per un quadro della matura-zione del testo, cfr. la nuova edizione postuma del 1853 le cui dimensioni riflettono il maturare della vocazione “emisferica” di Jefferson. V. ancora Bauer 2009.

40. Su questo punto, si può vedere Benzoni 2012, 187–207, passim.41. Stimolante, per la prospettiva interamericana, il già citato contributo di

Bauer 2009.42. Come è stato osservato, fra Sette e Ottocento, nel mondo angloamerica-

no, il criterio razziale comincia a configurarsi come “a particularly colonial (Creole) rather then imperial (European) razionalization of difference” (Bauer 2009, 75).

43. Con il Trattato di San Lorenzo, noto negli USA come Pinckney Treaty.44. Coprotagonista suo malgrado, con i nativi americani, nell’ambito della

costruzione della retorica etnocentrica del “Destino manifesto”.69

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45. In questo quadro, è fondamentale l’influenza della costituzione “confessio-nale” di Cadice del 1812.

46. Le profonde trasformazioni geopolitiche, e nelle relazioni fra “euroameri-cani” e “Indiani” che interessano il Nord America dopo il 1763, lo slancio dell’espansionismo degli imperi europei e dei neonati Stati Uniti in Nord America dopo il 1783 e il carattere globale, per i teatri intercontinentali interessati, assunto dal conflitto fra Francia e Inghilterra nell’età rivoluzioni atlantiche, costituiscono la cornice di riferimento, cronologico e spaziale, della guerra angloamericana del 1812. Una guerra che ha diviso profonda-mente le élites politiche e le società dei nascenti Stati Uniti, mettendo da un lato a dura prova la tenuta interna e internazionale della giovane repubbli-ca, e trasformandosi dall’altro in un delicato fronte aperto per l’Inghilterra impegnata nella fase finale dello scontro con Napoleone. Oggetto di un’ancipite considerazione nell’immaginario collettivo, e di un approccio storiografico volto ora a evidenziarne il carattere, per dir così, premonitore in relazione ai futuri svolgimenti delle vicende nazionali statunitensi ora invece il carattere circoscritto nell’ambito della storia patria, la guerra del 1812 racchiude in effetti in sé tutte le dimensioni di scala appena evocate. Valga qui solo ricordare che la tenuta di fronte agli inglesi della giovane repubblica, e la contestuale breccia aperta nella frontiera spagnola in Nord America, avrebbero contribuito in modo significativo al successivo impo-nente processo di “americanizzazione” degli Stati Uniti. Un processo di cui la dichiarazione Monroe costituisce per molti versi la formulazione a uso internazionale, e l’etnocidio delle popolazioni native del Nord America il brutale rovescio della medaglia.

47. Fra i punti all’ordine del giorno, la denuncia della condotta della Spagna nei secoli della colonia (leyenda negra), la rivendicazione dell’indipendenza di Cuba, di Portorico, delle Canarie e delle Filippine, l’abolizione della schia-vitù, e il coinvolgimento degli USA per arrivare a conferire all’America indi-pendente una dimensione emisferica che scoraggi i tentativi di Restaura-zione di Ferdinando VII. Per una prima introduzione, attenta alle nascenti dinamiche interamericane, Reza 2004.

48. “Si pensi ad Alexis de Tocqueville, il quale non ha mancato di osservare come, mentre l’Europeo ‘quitte sa chaumière pour aller habiter les rivages transatlantiques, … l’Américain qui est né sur ces mêmes bordes s’enfonce à son tour dans les solitudes de l’Amérique Centrale … Ce double mouvement d’émigration ne s’arrête jamais: il commence au fond de l’Europe, il se con­tinue sur le grand Océan, il se suit à travers les solitudes du nouveau monde. Des millions des hommes marchent à la fois vers le même point de l’horizon: leur langue, leur religion, leurs mœurs différent, leur but est commun. On

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leur a dit que la fortune se trouvait quelque part vers l’Ouest, et ils se rendent en hâte au­devant elle’” (citato in Benzoni 2012, 179).

49. Guerra ispanoamericana, con l’acquisizione delle Filippine.50. Apertura del canale di Panama.51. Intervento nella Prima guerra mondiale a fianco dell’Intesa.52. Di fronte alla crisi messicana, la diplomazia del neonato Regno d’Italia si al-

linea alla diffidenza europea nei confronti del repubblicanesimo prevalente nel Nuovo Mondo. A simili orientamenti si oppone Giuseppe Garibaldi, la cui esperienza atlantica è ben nota, al punto da valergli il titolo di “eroe dei Due Mondi”, che appoggia la resistenza dei “fratelli messicani”.

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