Indice - Accademia dei Rozzi · PETRA PERTICI, Il palazzo del “leone rosso ingabbiato ......

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Indice ROBERTO BARZANTI, Piero Calamandrei in Toscana . . . . . . . . . . . . pag. 1 ENZO BALOCCHI, Minuzie di biblioteca e di archivio. Siena 1940 XVIII: Santa Caterina e il giovane ebreo . . . . . . . . . . . . » 24 PETRA PERTICI, Il palazzo del “leone rosso ingabbiato” Casa Ciani a Siena e la fortuna di Agostino Fantastici . . . . . . . . . . . . . . . » 18 ALESSANDRO LEONCINI, Madame Mère a Siena . . . . . . . . . . . . . » 16 MENOTTI STANGHELLINI, Due sonetti di Meo de’ Tolomei e uno di Mino da Colle . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 23 MARIO ASCHERI, Della Tartuca e della senesità tra particolari e belle maniere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 28

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Indice

ROBERTO BARZANTI, Piero Calamandrei in Toscana . . . . . . . . . . . . pag. 1

ENZO BALOCCHI, Minuzie di biblioteca e di archivio.Siena 1940 XVIII: Santa Caterina e il giovane ebreo . . . . . . . . . . . . » 24

PETRA PERTICI, Il palazzo del “leone rosso ingabbiato”Casa Ciani a Siena e la fortuna di Agostino Fantastici . . . . . . . . . . . . . . . » 18

ALESSANDRO LEONCINI, Madame Mère a Siena . . . . . . . . . . . . . » 16

MENOTTI STANGHELLINI, Due sonetti di Meo de’ Tolomeie uno di Mino da Colle . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 23

MARIO ASCHERI, Della Tartuca e della senesitàtra particolari e belle maniere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 28

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I

Il rinnovo delle monture per il Paliostraordinario del nuovo Millennio, a sosti-tuzione di quelle logore del 1981, è statauna grande occasione. Posto che si dove-va prendere come riferimento ilQuattrocento senese - l’epoca giustamen-te rivalutata dopo tanto silenzio, che sta-volta si è voluta incerare ed onorare - si ètrattato di riflettere sul patrimonio icono-grafico di ogni Contrada e di mettere allavoro i migliori artisti-artigiani per crearedei piccoli capolavori. Del resto, la gran-de tradizione artistica senese era anchefatta di tanti smalti e miniature, di grandie piccole operette. C’è da considerare, enon è poco, che non tutto si è perso nelcorso dei secoli grazie al meritorio attac-camento dei senesi alle tradizioni e all’im-pegno di tanti artigiani e del più che se-colare Istituto d’arte. In passato le decora-zioni dei palazzi e chiese, di vesti e qua-dri ecc., erano fatti tutti in città, con mae-stranze locali. E quando non c’erano si fa-ceva di tutto per acquisirle: com’avvenneper far imparare localmente a tessere gliarazzi nel Quattrocento. Ora si è dovutofar ricorso a imprese fuori città, ma moltosi è potuto realizzare a Siena.

E giustamente la riflessione che ha ac-compagnato i rinnovi è stata anche affida-ta alla carta stampata. C’è stato il grandevolume raccolto presso il Magistrato delleContrade, con uguale spazio per ogniconsorella: A bella mostra, Siena 2001. Ec’è stato l’impegno più diretto di alcunecontrade. La Torre e Valdimontone hannoaperto la strada, che è stata ora seguita

anche, ed egregiamente, dalla Tartucacon uno splendido volume.

Il costume di un Popolo. Storia, colori ecomparse (Contrada della Tartuca, TraStoria e Memoria/2, Siena 2002) è com-parso solo ora, alla vigilia del Palio d’ago-sto, e non sarà certo l’ultimo. Il tempo tra-scorso rispetto ai due ricordati, più tem-pestivi, non è stato certo invano. Il volu-me, basato su un progetto editoriale diRoberto Barzanti e Carlo Venturi, si è gio-vato del coordinamento di GiordanoBruno Barbarulli (reduce da un’altra meri-toria pubblicazione paliesca recente:Sempre decenti e grandiosi. La Contradadella Tartuca dal 1785 al 1838 nel diariodi Antonio Francesco Bandini, Siena2001) che, come di consueto nelle contra-de, ha raccolto le fila del lavoro di tantiappassionati tartuchini e di numerosi altriche hanno collaborato ai testi, alla grafi-ca, alle foto, alle ricerche - facilitate dalrecente inventario dell’archivio diContrada. Il tutto, poi, è stato stampato erilegato egregiamente a cura della ArtiGrafiche Nencini di Poggibonsi.

Della Tartucae della senesitàtra particolari ebelle maniere

Larecensione

di MARIO ASCHERI

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II

Il risultato è davvero notevole, al di làdella pur sempre importante veste graficae del colore delle numerose tavole.Perché l’idea è stata di prendere avvio daicostumi, ma di andare anche più avanti.Così è ben vero che c’è una parte secon-da del volume dedicato espressamente alrinnovo. È la parte con saggi di Rita Petti(Il rinnovo del Duemila, una relazionetecnica dettagliata con ricche notazionistoriche sulla “officina delle meraviglie”,come ne ha scritto Barzanti e le Schedesui singoli figuranti con preziose note e-splicative del lessico speciale) e di CarloVenturi (Storie fatte a mano, una simpati-ca cronistoria delle molte difficoltà emer-se e di come concretamente si sono supe-rate), l’ideatore della bandiera nel 1975,integrato da gradevoli testimonianze foto-grafiche dei protagonisti dei vari lavorioccorsi. I quali - è ricordato giustamente -hanno richiesto 103 viaggi per 26.235 chi-lometri, che hanno portato soprattutto aFirenze (32 volte, 30 ad Arezzo e via viain altre località come Maniago, Como,Torino), investendo qualcosa come19.800 pezzi di fusione comprensivi dipezzi di riserva, 15.000 anelli per magliaferrata, 4.100 chiodi e 440 puntali…

Nella prima parte i saggi sono propria-mente storici. C’è - cominciando dall’ulti-mo, perché più intimo, personale - GiulioPepi, memoria vivente della Tartuca edella Siena novecentesca, che può vanta-re ricordi personali precisi addirittura peri cinque cambi di ‘vestiti’, come preferiscedire, avutisi dal 1904 - questi studiati nellecartoline comprate da zia Nisia più tardi,quand’aveva sei anni.

I saggi più propriamente storici comin-ciano con uno studioso che non ha biso-gno di presentazioni - e non solo a Siena.Franco Cardini presenta nel suo Nel mitoe nel mondo una sequenza diacronica einter-culturale variegata e dottissima di i-potesi per spiegare il simbolo dellaContrada, facendo perdere terreno all’i-dea che sembrava più probabile: quelladella derivazione da qualche bestiariodell’età medievale (che invece non privi-

legiò la testuggine); più corretto pensaread allusioni e marchingegni bellici o allasommità più antica, più resistente, dellacittà? I colori sono invece oggettodell’Araldica ghibellina di FrancescaFumi Cambi Gado, che ricorda la preva-lenza araldica del giallo-oro, per cui nondeve meravigliare la mobilità del nero im-periale che l’accompagnava originaria-mente, divenuto solo nell’Ottocento, co-me si sa, definitivamente turchino - asso-ciando così la Tartuca alla capitale sabau-da, presente nel volume tramite ilGruppo Croce Bianca presieduta dal con-tradaiolo Alessandro Cremante Pastorellodi Cornour.

Con Giovanni Mazzini e il suo LaTartuca e i suoi abitatori si torna sul soli-do terreno documentario per ilCinquecento, visto che per il periodo pre-cedente poco si può dire di sicuro - salvola funzione costituzionale delle compa-gnie da cui hanno tratto origine alcunecontrade, difficile da apprezzarsi fino infondo. Ed è il periodo tardo repubblicanoe poi mediceo, che dà più spazio allaTartuca, già oggetto di studio da partedell’Autore nel librone recente curato daCeppari, Ciampolini e Turrini (qui ricor-dato sommariamente a nota 17). Qui levarie comparse sono seguite con precisa-zioni notevoli e sempre d’interesse gene-rale fino al palio alla tonda con i cavallidel 1633 in piazza del campo, vinto ap-punto dalla Tartuca.

È a questo punto che riprende la nar-razione storica con un lungo saggio diGiordano Bruno Barbarulli sulla storia delpassaggio Dal nero al turchino: quali lescansioni? I documenti attestanti l’uso delnero sono di un’impressionante regola-rità, finché nel 1767 cominciò a dubitarsiche fossero “colori oscuri e da fare con imedesimi poca bella comparsa”. Pensareche era un Palio straordinario, di straordi-naria importanza appunto: per la presen-za di Pietro Leopoldo e della consorteMaria Luisa. Ma, come spesso avvienenelle contrade - ed è uno dei loro lati po-sitivi - si discusse, ma non se ne feceniente: il tradizionalismo ebbe ancora una

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volta il sopravvento. Ma il turchino co-minciò a comparire nei nastri del 1770,per essere confermato nell’86 per la sotto-veste della ‘truppa’ che trainava il carro enella bandiera del 1792 e del 1805 - per lerifiniture. Ma quando il Comune rinnovò icostumi per le dieci contrade in corsa nel1839 la Tartuca comparve ancora in gial-lo/nero, come mostrano i bozzetti conser-vati nell’Archivio storico comunale. Solola bandiera, meno costosa, tra 1845 e1849 recò tracce di celeste entro il con-sueto abbinamento giallo-nero, mentredello stesso 1845 è conservato un bellissi-mo bozzetto opera di Tommaso Papinigiudicato già allora “merita la ammirazio-ne di tutti”.

Gli anni successivi sono noti. Il decli-no dei Lorena al servizio passivo diVienna cominciò (e non è divenuto evi-

dente solo a taluni “moderni”…) e il lorocalo di popolarità proporzionale all’asce-sa dei Savoia - che pochi conoscevanoveramente (e qui forse furono gli ‘antichi’a sbagliare). Nel ’47 la situazione era taleche per Tartuca e Aquila c’era da tenere ivessilli ben appartati; allora si ebbe lacomparsa del giallo-bianco in onore delgrande papa riformatore (allora) ma conrifiniture celesti (Flaminio Rossi), ma l’in-novazione fu di breve durata, perché tor-nando i Lorena si riprese il consueto gial-lo-nero. Solo alla fine degli anni ’50 si eb-be il cambio, definitivo dell’accoppiamen-to. Ma furono anni densissimi e Barbarullice ne fornisce un quadro dettagliato, ba-sato su documenti di prima mano interes-santi anche altre contrade, a partire dallaChiocciola, naturalmente, che si spinge fi-no al 1888 quando, durante la festa titola-

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re con Tito Sarrocchi priore, fu scopertala lapide con la ‘memoria’ dei sovrani.

Era tempo di esaminare analiticamentecome si sono svolti i più recenti rinnovidi costumi, a partire dal 1904, e lo ha fat-to egregiamente Giuseppe Mazzoni, inte-grato per quelli del 1981 da una intervistadi Katiuscia Vaselli a SebastianoMorichelli.

III

Fin qui i contenuti del libro - che èquindi evidentemente importante. È unsegno tra i tanti che la storiografia paliescaha ormai imboccato la strada degli accer-tamenti rigorosi su una tastiera variegatadi fonti e con metodi di approccio diversi-ficati. Mentre la festa assume sempre piùun cerimoniale rigido e formalizzato intutti i suoi particolari e le contrade un ruo-lo chiaramente istituzionale in città, la lorostoria perde il carattere impressionistico eframmentario che ha avuto per tanto tem-po.

Rimane la passione, la partecipazioneche motiva al lavoro, alla dedizione atten-ta alle carte, e i risultati si vedono - daquesta come da altre pubblicazioni degliultimi anni. Si è aperta una nuova fase,forse in contemporanea con la festa stes-sa, sempre uguale e sempre diversa, e co-munque sempre più assorbente. In que-sto c’è quella naturale tendenza “a contra-stare la caduca finitezza con la luminosa

illusione d’immortalità”, di cui parlaBarzanti nelle sue pagine introduttive,giustamente anche più ispirate del solito.Ma forse c’è anche dell’altro.

Un libro come questo e quelli analoghigià usciti o in corso di elaborazione è dilettura quanto mai difficile per un esternoa Siena: sembrano troppo perfetti e altempo stesso irreali. È perché scopronoun carattere di fondo della civiltà senese,che si può capire solo dall’interno, viven-do immersi in questa realtà.

Allora si capisce che le tradizioni vivo-no di particolari curati fino all’esaspera-zione, di rispetto dei ritmi, delle ripetizio-ni consuetudinarie: della certezza che cimuove nel giusto stando nell’alveo deltradizionale, di ‘quel che si è sempre fat-to’. Il che significa che anche se poi lenovità ci sono, bisogna non curarsene ofingere che fossero già esistenti prima, innuce. È quella senesità che si può acco-stare singolarmente alla civiltà inglese,forse l’unica nel mondo occidentale apossedere un ugual senso della continuitàe un amore spasmodico per particolarinormativi, vincolanti, o alla cultura di mi-noranze fortemente coese intorno a unprogramma religioso (e forse per questoCardini è travolto da palio e contrade):quei particolari vengono ritenuti indero-gabili, cogenti come nessun’altra regola,perché essenziali alle ‘belle maniere’, aldecoro, all’onore, ai valori fondanti di u-na comunità e della sua identità.

MEO DE’ TOLOMEI

Meo de’ Tolomei detto Meuccio, nato aSiena intorno al 1260 da Simone de’Tolomei detto Sorella, fu il poeta senesepiù letto e più noto del suo tempo. Caroa Dante giovane e a Cino da Pistoia, sullasua opera cadde presto la dimenticanza.Vari elementi hanno contribuito a riporta-re i suoi sonetti, dal tempo del saggio delD’Ancona (1874) confusi con quelli diCecco, nella collocazione giusta: il ritro-vamento del codice Escurialense (1914),un articolo sul “Bullettino senese di storiapatria” e un libro lungimirante di AdeleTodaro (1933-1934), un articolo delGuerri (1934), e soprattutto il lavoro diMario Marti, culminato con l’edizione deiPoeti giocosi del tempo di Dante (Milano,1956).

Anche la vita di Meo, dopo un iniziobrillante, subì un rapido declino, mentreil fratello Mino detto lo Zeppa, codardo,ipocrita e bacchettone ma scaltro, acqui-stava un peso economico e politico sem-pre maggiore nella Siena del tempo.Significativo per capire le tendenze omo-sessuali dei due fratelli, che si odiano for-temente a vicenda per questioni di inte-resse, è il soprannome Sorella del padre.Anche il soprannome Zeppa di Mino èprobabile che sia connesso con il “viziet-to” di famiglia; dice Meo nel sonetto XI aproposito del fratello, che per di più è an-che un sospetto falsario:

Forse ch’è riguardato per Capocchio;o per ch’a Branca diè tal d’una mazzache ben vi sta uma’ dicer finocchio.

Se Cecco odia il padre, non meno in-tenso è l’odio di Meo per la madre, che lodefrauda dei beni a vantaggio del fratelloe addirittura tenta di strozzarlo nel sonno.Anche il suo odio verso il vecchio amico

di bagordi Ciampolino, dovuto moltoprobabilmente a un debito di gioco o aun prestito ingente non onorato (cfr. i so-netti VIII e X), ricorda da vicino quello diCecco Angiolieri per Cecco Piccolomini.Al 1310 risale l’ultimo documento in cuicompare il suo nome. Di lui ci rimangonouna ventina di sonetti e una composizio-ne di 149 versi, intitolata Caribetto, in cuiprende di mira il fratello Mino lo Zeppa,rivelandone vizi e difetti.

La parola caribo deriva dal provenzalegarip, una canzone a ballo dal ritmo par-ticolare. Di qui hanno tratto il nome gli a-bitanti delle Antille, che al tempo dellascoperta del continente americano i con-quistadores spagnoli vedevano spesso oc-cupati a cantare e ballare. La pronunzia e-satta sarebbe Caraìbi, e così pronunziavaalla televisione italiana negli anni ’70 unbravo annunciatore. Disgraziatamentemorì giovane, e con lui andò perduta an-che l’esile speranza che gli italiani smet-tessero di pronunziare Caràibi: i più, an-che se sbagliano, in fatto di lingua fini-scono con l’avere sempre la meglio.

SONETTO II

Mia madre m’ha ’ngannat’eCiampolino

non s’ha tenute le man a centura:ch’e’ mi soleva dir com’ gran venturasi conterie morir me a ’ssessino;

e cert’e’ non farebb’ad un taupinoin mie servigi ’una picciol paura,ma di tollar lo mie ben s’assicura:e di ciò non parlò santo Agostino.

Ch’e’ me ne renda sol un vil denaio:ché mie madre ha saputo ben sì fare,che Mino colm’ed io voti’ ho lo staio;

e ch’i’ sie su’ figliuolo a me non pare,ma figliastr’, e ch’i’ batt’acqu’a mortaio,dice, se quel di Min credo fruttare. 23

Due sonetti di Meo de’ Tolomeie uno di Mino da Colledi MENOTTI STANGHELLINI

Seguo l’edizione di Maurizio Vitale, delquale riporto, tolto qualche inciso, l’inter-pretazione dei vv. 3-8 (Rimatori comico-realistici del Due e Trecento, Torino 1956,p. 469):

Poiché egli era solito dirmi come stime-rebbe gran fortuna di farmi morire permano d’assassino; certamente Ciampoli-no non farebbe un po’ di paura, per ren-dermi servizio, neppure a un povero tapi-no, ma invece è pieno di coraggio e senzariserve morali nel defraudarmi della miasostanza, e ciò non è conforme agli inse-gnamenti di sant’Agostino.

Molto più succinte le annotazioni al ri-guardo di Mario Marti (op. cit., p. 267),ma la sostanza non cambia:

… quanto grande fortuna egli riterreb-be “morir me a ’ssessino”, assassinando-mi… in mio favore non farebbe neancheuna piccola paura ad un miserello.

C’è qualcosa che non torna nella con-catenazione logica del periodo e, di con-seguenza, nel testo.

Cerchiamo di capire meglio che cosavuol dire Meo: “Mia madre mi ha ingan-nato derubandomi e lo stesso ha fatto l’a-mico Ciampolino che non è stato con lemani in mano. E pensare che in passatosoleva dire come riterrebbe per sé granfortuna morir me a ’ssessino, proprio luiche non sarebbe capace, per farmi piace-re, di incutere un po’ di paura nemmenoa un pezzente, ma che ora ben osa di to-gliermi il mio; e questo è un modo di farepoco cristiano”.

Il fatto è che, mettendo al posto di mo-rir me a ’ssessino le spiegazioni dei com-mentatori, non torna la logica, perché cisi aspetterebbe che a Meo, quando era inauge, Ciampolino avesse fatto promessedi lealtà e probità piena, e nemmeno tor-na la grammatica, perché morir viene for-zato a diventare causativo, per non parla-re di a ’ssessino spiegato “per mano di as-sassino”.

Nel 1934 Domenico Guerri (CeccoAngiolieri, Revisione delle Rime delBeffardo, in “Rivista di sintesi letteraria”,a. I, n. 3 1934, p. 425) cercò di superarequeste difficoltà congetturando un’altra

lezione per il v. 4:

conterie morir per me assessino

ma la congettura fu liquidata così dalVitale nel 1956 (op. cit;, p. 469 n. 3-4):

…modifica il senso senza migliorarlo.

La congettura del Guerri aveva il difet-to di tenere poco conto della lezione delChigiano, ma il merito indubbio di mi-gliorare il senso.

Ha messo a posto le cose Anna BruniBettarini (Le rime di Meo dei Tolomei e delMuscia da Siena, in “Studi di FilologiaItaliana”, XXXII, 1974, pp. 86-98) leggen-do:

si contirìe morir me’ assessino

intendendo:

Come avrebbe piuttosto (di ingannar-mi) stimato una fortuna fare la mortedell’assassino

e interpretando me’ (meglio) comecomparativo assoluto.

Questa nuova lettura forse farà cam-biare, almeno in parte, il giudizio esteticoche il Marti aveva espresso sul sonetto:

…è nel complesso, però, senza vigore enon ha l’impeto di certi altri né la rapidae sicura costruzione né la accesa immagi-nazione dei migliori.

SONETTO XII

Da te parto ’l mie core, Ciampolino,e se no’ fummo giamma’ dritti amici,ora sarem mortalmente nemici,per che del mie mi nieghi più che

Mino;

e quando tel dimando, ’n tuo latinosì usi spesso: - Non so che ti dici! -Sie certo ch’i’ sapre’ mangiar pernicie giucar e voler lo mascolino,

sì come tu; ma aggio abbandonatequeste tre cose, per ch’om non potes-

sedir: - Quegli è giunto in gran povertate.

-

Or tu se’ ’l buon garzon, chi ti credes-se?

Così ti dia Iddio vit’ e santate;24

e tu hai ben a dir:: - Cristo ’l volesse! -

“Da te divido il mio cuore,Ciampolino, e se noi siamo stati in passa-to veri amici, da ora in poi saremo nemiciimplacabili, perché tu più di Mino mi ne-ghi quanto mi devi; e quando te lo chie-do, nel tuo solito linguggio mi dici: - Nonso di che parli! - Stai certo che io sapreimangiare pernici, giocare d’azzardo e farel’amore con i ragazzi, proprio come te;ma ho perso questi tre vizi perché non sipotesse dire: - Quello lì è ridotto in mise-ria nera. - Dunque ti fai passare per unbravo giovane, - ma chi ti potrebbe cre-dere? - Ti auguro che Dio possa darti vitae salute; ma tu hai voglia di dire: - Cristolo volesse! - Sarà tutto inutile”.

Dopo “credesse” del v. 12 ho sostituito

il punto esclamativo degli altri editori conil punto interrogativo. Il testo non presen-ta difficoltà di rilievo, tranne la secondaterzina, che il Marti interpreta, seguendoil Massèra (Sonetti burleschi e realisticidei primi due secoli, Bari 1940):

vita e salute così ti largisca Dio, cometu sei un buon garzone: e ben tu dovrai i-nutilmente implorarlo!

Il Vitale spiega così il v. 12:

ora, tu sei un bravo giovane… ma perchi ti crede!

Poi, mettendo la virgola dopo “santa-te”, interpreta il resto un po’ diversamen-te dal Massèra e dal Marti. Forse tutto sa-rebbe stato più semplice, se i commenta-tori avessero messo in evidenza che “cre-desse” del v. 12 vale “crederebbe”.

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Altrimenti bisognerebbe leggere “ch’i’ ticredesse”, da spiegare “ammesso che io ticredessi”, e sistemare in maniera adegua-ta la punteggiatura dei due versi successi-vi.

MINO DA COLLE

Insegnò grammatica e retorica a SanMiniato e forse a Pisa e a Bologna. Il suotestamento risale al 1287: dopo questa da-ta non sappiamo più niente di lui, che ciha lasciato alcune opere in latino e duesonetti in volgare. Da uno di questi, cheintendo prendere in esame perché pre-senta notevoli difficoltà testuali e inter-pretative, appare chiara la sua tendenzaagli amori omosessuali.

SONETTO I

A buona se’ condotto, ser Chiavello,se tu favelli a posta di Durazzo;ma far lo ti conviene, ché chiav’elloporta d’ogn’om, che di sé no’ è duraz-

zo.

D’este parole eo so ch’io t’acchiavello;risponda lo tuo senno non durazzo,ché altrettanto, n’accerto chiavello,non razzerà lo tuo caval du’ razzo.

Per ciò che tu se’ conosciuto, amico,da’ pro’ e da’ valenti frale e vano:sì che tu non farai chirlanda mico.

Tu vivi e vai sì come molti vano;dici che ami, e certo tu ami co’omo di vento; e non po’ dir: - È vano!

Il testo del Marti e quello del Vitalenon presentano differenze sostanziali fraloro. Trascrivo la versione in prosa rifa-cendomi alle note del Vitale, che risulta-no più particolareggiate:

Sei condotto a buon punto, serChiavello, se tu parli per conto e secondo idesideri di messer Durazzo, ma ti si addi-ce proprio di far ciò, poiché quel messerDurazzo tiene viva dimestichezza e in suopotere ogni uomo che non è molto saldonelle proprie opinioni e amicizie. Io so cheti colpisco bene con queste mie parole;traine le conclusioni tu stesso della verità

contenuta nelle mie parole, dal momentoche non hai mente “dura”; perché, perparte mia ne assicuro chi vuoi, il tuo ca-vallo non scalpiterà dove scalpita il mio;fuor di metafora: ti terrò lontano da me.Perché tu sei conosciuto, amico, dagli uo-mini prodi e di valore, instabile e debole,così che tu non farai corona con me, ossianon mi starai vicino. Tu vivi e vai sì comemolti leggero; dici che ami, e certo tu amicome uomo di vento; e non puoi dire: “Èuna cosa senza senso”, ossia falsa.

Quest’interpretazione concorda conquella del Marti, almeno nei punti che lostudioso ha chiosato brevemente, com’ènel suo stile.

Anche a una prima lettura il testo e l’in-terpretazione delle due quartine risultanoinsoddisfacenti. Propongo di leggere espiegare così

A buona se’ condotto, ser Chiavello,se tu favelli a posta di durazzo,ma far lo ti conviene, ché chiav’ello,porta d’ogn’om che di senno è durazzo.

D’este parole, e so ch’io t’acchiavello,risponda lo tuo senno non durazzo,ché altrettanto n’à certo chiavello:non razzerà la tuo caval durazzo,

per ciò che tu se’ conosciuto, amico,da’ pro’ e da’ valenti frale e vano,sì che tu non farai chirlanda mico.

Tu vivi e vai sì come molti vano:dici che ami, e certo tu ami co’omo di vento; e non po’ dir: - È vano! -

“Sei proprio ridotto bene, serChiavello, se parli lasciandoti trascinaredal desiderio ardente, ma sei costretto afarlo perché quello domina ogni uomoche è un po’ duro di senno. Di codesteparole (che hai detto), e so di farti maleinchiodandoti ai fatti, ne renda conto (ame) il tuo senno non del tutto indurito,giacché (in caso contrario) ne avrà di cer-to altrettanto duro cruccio: il tuo cavalloduro non galopperà, infatti sei conosciu-to, o amico, dalle persone di valore comeun uomo incostante e volubile, tanto chenon potrai rimanere legato a me. Il tuomodo di vivere e di comportarti è incon-sistente come quello di molti: dici di ama-

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re, ma di certo sei capace di amare solocome un uomo fatto di vento. E non puoidire: - È falso! -.

Mino, il poeta, ha un amante che l’hatradito. Indignato, lo chiama col sopran-nome di ser Chiavello, giocando sui signi-ficati vari (chiodo, tormento, chiave, chia-vatore) che la parola ha. Inoltre l’uomoha detto qualche parola di troppo sulpoeta, lasciandosi trascinare dal desiderioardente (“durazzo” vale “membro duro”ma la parola si potrebbe anche scriverecon l’iniziale maiuscola), che finisce colprendere la mano a chi non è dotato disenno. Se l’amante non si giustificherà diquanto si è lasciato sfuggire, la relazionefra i due dovrà finire, tanto più che l’ami-co, siccome fra le persone di valore passaper volubile e leggero, e vive e ama senzacapire a fondo il significato della vita edell’amore, non potrà ribattere che quantogli viene rinfacciato è falso.

Il sonetto, al di là dei giochi di paroleeccessivamente insistiti di scuola guitto-niana, rispecchia una concezione severadell’amore omosessuale: questo è fattoper uomini di valore, sprezzanti di fer-marsi alla superficie delle cose, come fan-no i più, e ben consapevoli che la vita el’amore seriamente vissuti escludono va-nità, meschinità, pettegolezzi, propri dellanatura femminile.

Lo stile ricorda in parte quello del so-netto di cui ho parlato in fondo all’artico-lo sulle Rime di Cecco (“Accademia dei

Rozzi”, n° 15, 2001). Quel sonetto non sa-rebbe dissonante dalla natura raffinata,dagli ideali e dalle inclinazioni amorosedel professor Mino da Colle.

Passiamo alle questioni testuali e inter-pretative:

v. 4: leggo col manoscritto “senno”,che il Massèra, seguito dal Marti e dalVitale, aveva emendato in “sé no’”.

v. 5: “D’este parole”, di coteste, delletue parole.

“e so ch’io t’acchiavello”, per me è uninciso, dato che “D’este parole” si lega alverbo “risponda” del verso successivo.Correggo “eo” in “e”, e metto la virgola alposto del punto e virgola dopo “t’acchia-vello”.

v. 7: “n’à certo”, così (oppure “n’hacerto”) leggo “n’accerto” del manoscrittoe degli editori.

v. 8: leggo “durazzo” al posto di “du’razzo”; “non scalpiterà il tuo cavallo dovescalpita il mio” del Marti e del Vitale hapoco senso. Sarei tentato semmai di cam-biare “caval” in “chiavel”, ma di solito ilverbo “razzare” è detto degli animali (cfr.Cecco, Rime, LIX, 3: “razza com’un toro”)e vale “galoppare”, “scalpitare”’, “fottere”,ma anche “spruzzare”, “sprizzare”, “schiz-zare” (lo spumante veniva chiamato “vinorazzese”; cfr. Folgóre, De gennaio, v. 5:“mescere a razzaio”). Qui “caval durazzo”sarà sinonimo di “membro duro e rigido”.

Siamo talmente immersi nel presenteche si fanno sempre più rare le pause checonsentono una riflessione sulla storia, suquella lontana come su quella dell’altroieri. Non solo: le discussioni che si fannosui destini dell’Italia, sulle riforme istitu-zionali e costituzionali di cui si crede ab-bisogni, sull’integrazione europea e sulsuo incerto futuro si svolgono perlopiùsenza alcun riferimento all’eredità di pen-siero e di idee di cui disponiamo. I prota-gonisti della stagione costituente e il lorocontributo a definire i tratti di un assettoche venne edificato avendo ben presenti inodi e i problemi della tormentata storiaitaliana sono relegati nel dimenticatoio.Nella furia periodizzatrice che tutto an-nulla e taglia a piacere periodi e fasi si a-prono e si chiudono con atroce disinvol-tura. Non meraviglia che i giovani ignori-no passaggi cruciali o pagine decisive delnostro passato prossimo. Merita pertanto

lode il Comune di Montepulciano che, in-sieme alla Regione Toscana e allaProvincia di Siena, ha dato il suo soste-gno a due iniziative che si propogono diricordare Piero Calamandrei, giurista insi-gne, combattivo intellettuale antifascista,influente parlamentare per una legislatu-ra, animatore di una rivista, “Il Ponte”,che resta uno dei titoli più importanti del-la rinascita democratica: la nuova edizio-ne dell’ “Inventario della casa di campa-gna” edita da Le Balze, curata da SilviaCalamandrei e da lei arricchita di una nu-trita scelta delle lettere di ringraziamentodei primi destinatari dell’opera e unaMostra di dipinti e fotografie nel Palazzodel Capitano del popolo, che testimonial’assiduo amore che Calamandrei e la cer-chia dei suoi amici riservarono a una terraperlustrata in ogni dettaglio. Una delle ca-se di campagna più amate da Piero fuproprio quella avita di Montepulciano,dove la sua persona e la sua famiglia so-no state sempre considerate con autenti-co affetto e devota riconoscenza. Egli ini-ziò - è noto - il suo insegnamento di do-cente ordinario nel 1920 pressol’Università di Siena, dove lasciò unaprofonda impronta.

Rileggere oggi le pagine - ho osservatonell’introduzione alla nuova edizione del-la celebre opera - che Piero Calamandreiscrisse, dall’agosto del 1939, mentre sistava scatenando la furia di un immaneconflitto, per farne dono di augurale me-ditazione agli amici per il Natale 1941,non conduce solo a riassaporare il garbodi una prosa calibrata con vigile sapienzaretorica. La tensione etica e il fondamentocivile che la sorreggono si accendono diuna verità che coinvolge e commuove. Inquesta, che è “forse - come ha scrittoStefano Rodotà- la sua opera letteraria più 1

Piero Calamandreiin Toscanadi ROBERTO BARZANTI

Ritratto di Pietro Annigoni.

profonda e sorvegliata”, Calamandrei rac-conta la ricerca dei paesaggi, delle ore,delle voci e delle presenze che movimen-tarono gli anni dell’infanzia e hanno ac-compagnato la sua formazione. Alla basedell’“Inventario” c’è la voglia di ribadirel’appartenenza a una terra la quale è pa-tria spirituale prima ancora che rifugioper le vacanze o proprietà tramandatacon cura gelosa da generazione a genera-zione. Sia che si soffermi sulle atmosferee i ricordi suggeriti da Montauto, nella Valdi Pesa, sulla quale allunga la sua ombraNiccolò Machiavelli, sia che si sposti nellestanze della villa dei nonni materni, aFaltignano, si aggiri per lo studio ombro-so di nonno Agostino a Palazzo Tarugi osoggiorni a Montepul-ciano e scorrazziper la Piazza Grande “familiare come unannesso del Palazzo”, non diversa è l’ariache il protagonista respira, non meno in-cantato il cammino, non meno sorpren-denti gli incontri.

Gradualmente i quadri di questa conti-nua evocazione si accostano l’uno all’al-tro e compongono una galleria che, sul fi-nale, esibisce il nome di Toscana: una re-gione che ha “il dono della semplicità edella misura”, i tratti di un “paese discretoe pensieroso”, un paesaggio che “per far-si riconoscere non ha bisogno di agghin-darsi di colori”. La contrapposizione conla romanità tronfia del fascismo è netta edemblematica. Per spiegarla Calamandreitira in ballo gli illustri e misteriosi antena-ti: “Incantati dalla benignità di questi limi-tati orizzonti, qui i primitivi Etruschi ve-nuti dall’oriente s’accorsero d’aver sco-perto la patria: nella misura di questi pa-norami è il segreto della loro pensosa ci-viltà”. Ancora il tema della misura parsi-moniosa, di una riflessione predispostaalla malinconia, di una patria da difende-re contro ogni offesa. Il mito etrusco di-venta allora un mito civile ed unisce al-l’orgoglio per le origini la fierezza di unadichiarazione morale.

La scelta editoriale di riproporre il li-bro nella primissima veste, destinata in u-na tiratura di trecento copie agli amici piùstretti e impreziosita dalle xilografie di

Pietro Parigi, invita a gustarne l’artigianaletessitura, il prezioso lessico, la pronunciacolloquiale e domestica. E le lettere diringraziamento ora rese pubbliche com-pongono un libro a sé, che non è un’e-sornativa appendice. Tutte insieme fannorisaltare la natura di umanistico colloquiodella scrittura e dànno nomi e volti adun’Italia clandestina, liberale, antifascista,letterata per personale passione più cheper mestiere accademico.

Giacomo Debenedetti, nella sua letteradi ringraziamento, recensisce con sovranopiglio critico il viaggio verso l’infanzia diun uomo che era riuscito a serbarne intat-ta la freschezza: “E per quest’ uomo - cheha saputo così bene armonizzare le suevoci interiori, rimettere in così equilibrataprospettiva i suoi ricordi, serbandone in-tatta l’umidità (non so trovare altra paro-la) originaria - si prova la più buona,lapiù confessabile delle invidie. Si vorrebbeessere lui”. Mario Bracci confessa un’e-mozione che riconduce ad alcuni dei mo-menti più alti della pittura italiana: “Mi èrimasta poi come un’emozione di magiasimile a quelle che mi sono destate taloradalla musica o da certa pittura - Bruegelper esempio o Giorgione quando sembrache l’espressione giunga a rivelare l’ine-sprimibile mistero delle cose”. RanuccioBianchi Bandinelli scrive di avvertire una“comunione con la natura” purtropponon condivisa in famiglia. Si badi chequesto profondo legame non si esauriscein un godimento estetico o nella contem-plazione di un rustico idillio: fa tutt’unocon il senso della patria: parola alla qualeCalamandrei attribuisce un significato ge-nuino, primordiale, per niente retorico ostravolto da bellicosi ardori.

Le annotazioni dell’“Inventario” rivela-no una disposizione che le vedute dipintedallo stesso Calamandrei e alcuni dei piùsignificativi quadri da lui collezionati edesposti nella mostra curata dalla stessaSilvia Calamandrei e da FrancescaMontuori, non fanno che confermare. Lesue predilezioni andavano ad una pitturaalla Casorati o alla Morandi, che sottraes-se alla corrosione del tempo e alla contin-2

genza della cronaca cose e paesaggi. ACasorati, in una lettera del 1938,Calamandrei confessa una totale ammira-zione: “ho ricercato e incontrato la vici-nanza di una tempra morale, la cui isolatacompostezza m’è sempre apparsa, al disopra del dilagante caos, un segno di su-perstite civiltà”. Il passo è molto rivelatoredella poetica che sta alla base della scrit-tura come della pittura: la ricerca di undiletto corroborato da un vigoroso sensomorale. Dipingere era per PieroCalamandrei un altro modo di inventaria-re i colori e volumi di una terra amabileper la sua scarna lezione di misura oltreche per la sua sommessa bellezza. E in-sieme ai paesaggi di Piero si ammirano leprove, tra gli altri di Felice Carena,Giovanni Colacicchi, Arturo Checchi,Fillide Giorni Levasti, DomenicoBaranelli. Di Baranelli Calamandrei avevaacquistato nel 1940 una bella “Naturamorta con funghi” che è in stupenda sin-tonia con alcune delle pagine più notedell’“Inventario”, dedicate a queste “crea-ture misteriose”.

A completare l’evocativa indagine so-no esposte fotografie riprese con laRolleiflex durante le gite domenicali cheavevano in Calamandrei un instancabileanimatore. Insieme a Luigi Russo, AdolfoOmodeo, Guido Calogero, AlbertoCarocci, Paolo Treves, Pietro Pancrazi,Nello Rosselli, talvolta con BenedettoCroce - per non citare che alcuni dei piùcostanti membri dello straordinario mani-polo egli capeggiava escursioni che uni-vano di norma paesaggio e cultura, me-moria e storia. A Siena nel Campo è ritrat-to nel 1939 insieme ad un sorridente LuigiRusso con i calzoni alla zuava e ad un ri-servato Attilio Momigliano. Più che gite e-rano pellegrinaggi attraverso cui ritrovare,foscolianamente, segni e fantasmi di unpassato dal quale trarre gli auspici per

l’Italia da ricostruire. Così la comitiva sidirigeva a Bolgheri e a Certaldo, aMonterchi - per vedere la “Madonna delparto” - e a Caprarola. L’ultima gita fuquella del 1941 a Recanati, per rendere o-maggio al grande Giacomo. “Poi - annotadolente Calamandrei - il cataclisma ci di-sperse e ci separò”. Anche lungo gli itine-rari della domenica si andava alla ricercadi testimonianze che rendevano ancorapercepibile una patria comune: “qualcosadi eterno ci deve essere - scriveCalamandrei a Pancrazi proprio nel 1941 -se noi prendiamo tanto gusto ed affezio-ne a queste nostre gite: nelle quali circolanel nostro pensiero una parola che nondiciamo per pudore, ma che pure, a ri-pensarla così di paese in paese, tornanuova e pura: patria”. Altro che mortedella patria, come qualcuno ha teorizzato!La terribile esperienza della guerra purifi-ca un sentimento che la propaganda delregime aveva deviato e falsificato.

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La mattina del 5 luglio 1804, lungo iltratto di via Montanini compreso fra la lo-canda del Sole e la stazione di Posta ospi-tata nel palazzo Tantucci, si fermaronocinque carrozze provenenti da Roma: nel-la prima di queste viaggiava madameMaria Letizia Bonaparte Ramolino, madre

dell’Imperatore Napoleone, nelle altre ilseguito, costituito da quindici persone, e ibagagli.

La comitiva si fermò di fronte alla lo-canda del Sole, il principale albergo citta-dino, dove avrebbe alloggiato la piccolacorte, mentre madama Letizia venne ospi-tata in casa Ticci ritenuta, come annotònel suo Diario Senese il cronista AntonioBandini, “luogo più appropriato per rice-vere questa degna Madre di sìgrand’Eroe”.

Il Bandini, non ricordando il nome dibattesimo della persona che accolseLetizia Ramolino, rende difficoltoso iden-tificarla con certezza, ma constatato che ilpalazzo compreso fra la locanda e via diVallerozzi apparteneva proprio a una fa-miglia Ticci è probabile che l’imperatricesia stata ospitata in questa casa1.

Non è chiaro il motivo che indussemadame Letizia e preferire l’ospitalità diuna normale famiglia borghese, proprie-taria di un edificio affatto lussuoso, anzi-ché alloggiare in un albergo da poco ri-strutturato. La locanda del Sole, infatti, e-ra ubicata nel palazzo Pozzesi (attuali nu-meri civici 54-58 di via Montanini) che nel1792 era stato ristrutturato dall’architettosenese Giuseppe Silini per esser poi, sullametà dell’Ottocento, rinnovato da GiulioRossi che ricostruì anche la facciata e ilcortile interno ispirandosi all’architetturafiorentina del Rinascimento2.

Letizia Ramolino, nonostante la fama

Madame Mère a Sienadi ALESSANDRO LEONCINI

1 Archivio di Stato di Siena, Catasto di Siena,Campione 8/48, part. 164/165. Il solo Ticci che neiprimi anni dell’Ottocento risulta membro dellabuona borghesia cittadina era Gaetano Ticci, origi-nario di Poggibonsi e laureato in Legge nel 1790,che con il Governo Francese venne nominato“Avoué”, cioè Ufficiale ministeriale nominato dalGoverno, al Tribunale di Prima Istanza di Siena(Archivio Storico Università di Siena, Ordini per lo

Studio, I.22 n. 75; L. VIGNI, Patrizi e bottegai aSiena sotto Napoleone, Napoli, Edizioni ScientificheItaliane, 1997, pp. 55, 121).

2 E. ROMAGNOLI, Biografie Cronologiche de’Bellartisti Sanesi, Firenze, SPES, 1977, ristampa a-nastatica del ms. del 1830-35, vol. XII, p. 277; P.TORRITI, Tutta Siena Contrada per Contrada,Firenze, Bonechi, 1988, p. 300.

1 – R. LEFÈVRE (1756-1830), Ritratto di Maria LetiziaRamolino.

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del figlio, era una persona estremamenteriservata e solita sfuggire la vanagloriadella vita mondana, e nel corso della suasosta a Siena evitò ogni contatto con i no-tabili cittadini limitandosi a riposarsi dallefatiche del viaggio. La permanenza aSiena della mamma del protagonista dellascena politica europea di quegli anni fucomunque brevissima, e la mattina delgiorno successivo la compagnia si rimisein viaggio diretta verso Bagni di Pisa, do-ve avrebbe raggiunto la principessaPaolina Bonaparte, sorella di Napoleonee moglie del principe romano CamilloBorghese3.

La località Bagni di Pisa rammentatadal Bandini è identificabile nel centro ter-male di Bagni San Filippo, noto fin dal-l’antichità e la cui fama, dopo un periododi declino, venne rinfrescata nella secon-da metà del Settecento per volontà deiLorena. Negli anni a cavallo fra il XVIII eil XIX secolo le terme erano frequentateda numerosi nobili e intellettuali sia italia-ni che stranieri, compresi personaggi co-me Vittorio Alfieri, lord Byron, il generaleGiovacchino Murat e Luigi Bonaparte, al-tro fratello di Napoleone. Nel 1804, quin-di, Bagni San Filippo era un centro di vil-leggiatura così apprezzato da poter de-gnamente ospitare anche la mamma e lasorella dell’Impera-tore.

La nobiltà senese avrà sofferto con vi-vo disappunto la mancata occasione dimettersi in luce agli occhi della donnache era ovunque nota come MadameMère, la Signora Madre per antonomasia,ma il modo di recuperare, almeno par-zialmente, l’opportunità di far bella mo-stra agli occhi di qualche personaggio il-lustre si presentò comunque ai nobili se-nesi il mese successivo, con la visita aSiena di Maria Luisa di Borbone Infanta di

Spagna e Reggente il Regno d’Etruria peril figlio Carlo Ludovico. Questa volta lanobiltà cittadina non si lasciò sfuggire lapossibilità di esibirsi in tutta la sua vanitàdi fronte al potente di turno, e in onoredella regina furono organizzati grandiosifesteggiamenti documentati da un florile-gio di pubblicazioni commemorative.

Il dispiacere di non essere presentatialla Signora Madre deve però aver afflittonuovamente i nobili senesi il 3 settembre,quando “ripassò da Siena Sua MaestàLetizia Bonaparte Madre dell’Imperatorecon sua figlia la Principessa Borghese esono andati alla volta di Roma”4. Le nobil-donne e i loro accompagnatori passaronoda Siena senza soffermarsi e neppurequesta volta i cortigiani senesi ebberomodo di organizzare un adeguato ricevi-mento.

Durante l’epoca napoleonica non furo-no pochi i nobili e i borghesi senesi che,più o meno sinceramente, mostrarono diseguire con ardore le impresedell’Impera-tore, alcuni di essi, addirittu-ra, si esposero in maniera così evidenteda essere fatti oggetto di anonime satirescritte su fogli appesi lungo le strade5.Anche fra i piccoli borghesi sicuramenteconservatori come Antonio Bandini6, l’au-tore del Diario Senese da cui sono statitratti i ricordi di questi fugaci passaggi daSiena di Letizia, nonostante l’odio per tut-to quello che odorava di Francia e diRivoluzione comune a molti di loro, deveessere stata tangibile la bramosia di mo-strare fedeltà e attaccamento all’Imperose pure in uno scritto strettamente perso-nale, com’era il suo Diario, il Bandini av-vertì la necessità di definire LetiziaRamolino “degna Madre di sì grand’Eroe”e “Sua Maestà Letizia Bonaparte Madredell’Imperatore”. Anche se, in realtà, non

3 A. BANDINI, Diario Senese, anno 1804, ms.D.III.20, Biblioteca Comunale di Siena, cc.105v.106r.

4 Idem, c. 157v.5 A. BANDINI, Diario cit., anno 1814, ms. D.II.7,

c. 280v., Biblioteca Comunale di Siena, citato da G.CATONI, Siena nell’Ottocento: un limbo come valore,

in La cultura artistica a Siena nell’Ottocento, a cu-ra di C. SISI e E. SPALLETTI, Milano, Pizzi, 1994, p. 24.

6 Per notizie biografiche su Antonio Bandini v.G.B. BARBARULLI, Sempre Decenti e Grandiosi. LaContrada della Tartuca dal 1785 al 1838 nel dia-rio di Antonio Francesco Bandini, Siena, Contradadella Tartuca, 2001.

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è chiaro se un così largo uso di maiuscoleda parte del cronista debba essere inter-pretato come una manifestazione di ri-spetto nei confronti di personaggi di tal li-gnaggio o, altrimenti, come una produ-zione della sua vena sarcastica.

La fede bonapartista di coloro si esaurìcomunque bruscamente in coincidenzacon la fine dell’epopea di Napoleone, de-finitivamente conclusa sul campo diWaterloo il 18 giugno 1815, tanto da in-durli - come del resto moltissimi altri pri-ma e dopo di loro - a fingere di non avermai condiviso gli ideali ormai caduti indisgrazia con lo stesso sfacciato impetocon cui, nel momento del trionfo, aveva-no fatto mostra di sostenerli.

Il desiderio e la necessità di nasconde-re e far dimenticare non lontane simpatienapoleoniche fece sì che, a distanza dineppure due mesi dalla battaglia, questepoco coerenti persone rimanessero indif-ferenti al ritorno a Siena di LetiziaRamolino Bonaparte, accompagnata que-sta volta dal fratellastro CardinaleGiuseppe de Fesch.

Anche il Bandini, annotando il fattonel Diario, non ritenne più opportuno u-sare il tono rispettoso assunto nel 1804ma, d’altra parte, questa volta MadameLetizia era capitata a Siena in un momen-to sbagliato, e i poco sinceri bonapartistisenesi si guardarono bene dal rivolgere alei e al fratello la minima attenzione.

L’episodio, oggetto di un breve artico-lo di Giovanni Livi pubblicato nel 1888 sula “Nuova Antologia” e documentato dalDiario di Antonio Bandini, oltre che daalcune carte conservate nell’Archivio diStato di Siena7, può essere così ricostruito:dopo la sconfitta dell’armata napoleonica e la cattura dell’Imperatore, i vincitori co-strinsero i suoi familiari, sia per eluderenon improbabili vendette da parte dei lo-ro avversari sia per evitare il rischio di ve-derli divenire simboli di un’epoca che la

Restaurazione aveva tutto l’interesse a di-menticare nel minor tempo possibile, adallontanarsi dalla Francia rimanendo peròsotto il controllo del principe diMetternich.

Il 31 luglio 1815, Madama Letizia, at-traverso il Cardinale Fesch, rivolse alConte di Fossombroni, Ministro degliEsteri del Granduca di ToscanaFerdinando III di Lorena, richiesta di po-tersi stabilire in Toscana. Il governo gran-ducale - mentre le diplomazie europeestavano lavorando per decidere dove farrisiedere i parenti di Napoleone - accon-discese alla supplica, autorizzando un“temporario” soggiorno in Siena di Letiziae dei suoi accompagnatori e vietandoperò loro di trattenersi a Firenze e a Pisa.Le città dell’Arno, infatti, erano più gran-

7 A. BANDINI, Diario cit., ms. D.II.8, cc. 120v.,122r., 124v.; G. LIVI, Madama Letizia a Siena - dadocumenti inediti, in “Nuova Antologia”, XXIII, fa-sc. 18, 1 settembre 1888; oltre a quelli citati dal

Livi, altri documenti relativi ai fatti narrati sonoconservati all’Archivio di Stato di Siena, Governo diSiena, n. 327 (31 luglio, 9,11,12,13 agosto 1815) en. 681 (3,7,10 e 13 agosto 1815).

2 – Siena, via Montanini. Palazzo Pozzesi già Locandadel Sole.

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di, vivaci e frequentate della tranquilla eprovinciale Siena, a cui si accedeva dapoche strade che era agevole tenere sottocontrollo, e in cui ogni forestiero venivanotato e osservato fin dal momento stessodel suo arrivo facilitando così l’azione disorveglianza da parte della polizia.

Il Cardinale, nella domanda, aveva pre-cisato che era stata prescelta Siena per ilsuo clima salubre, che avrebbe giovato al-la salute della sorella, e per il motivo chesi trovava relativamente vicino a Roma,città in cui, a ragione del suo titolo eccle-siastico, aveva necessità di recarsi frequen-temente.

Le esigenze del Cardinale vennero col-te immediatamente dai funzionari grandu-cali, che consigliarono al prelato di stabi-lirsi definitivamente a Roma. La volontàdel governo fiorentino di sbarazzarsi nelminor tempo possibile dei non graditissi-mi ospiti crebbe a maggior ragione dopoche sui muri di Firenze erano comparsescritte del tipo: “Morte a Ferdinando”,“Ferdinando non è capace di governare i

popoli ma i facchini. W Napoleone”,“Ferdinando bacchettone è tornato, panee vino è rincarato. Saette al cuore a chi cel’ha mandato”, “Per Napoleone si fa unamossa, per Ferdinando si fa una fossa”.

Comunque, nonostante lo scarso entu-siasmo mostrato dal Granduca all’idea diospitare nel suo Stato la mamma diBonaparte, il 2 agosto 1815 MadamaLetizia, il Cardinale Fesch e cinque car-rozze al seguito entrarono in Siena e sifermarono nuovamente alla locanda delSole. Questa volta però non ci fu nessunsenese, nobile o borghese, disposto a o-spitare Madame Mère , e a LetiziaRamolino non rimase che prendere allog-gio alla locanda.

La comitiva era appena giunta che su-bito si diffuse in città una voce secondocui era intenzione della mamma dell’eximperatore stabilirsi definitivamente aSiena e, immediatamente, questa novitàdivenne per i senesi argomento di chiac-chiere e congetture.

Per una curiosa coincidenza, negli anni

8 Lorenzo Santi (Siena, 1783 - Venezia, 1839), u-na figura ingiustamente dimenticata e trascurata, e-

ra figlio del pittore e incisore bolognese Ciro, a suavolta Maestro di Disegno all’Università di Siena, au-

3 – Siena, piazza Bargagli Petrucci già Prato della Stufasecca. Facciata posteriore della locanda del Sole.

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precedenti si era già instaurato un labilecollegamento fra Siena e il CardinaleFesch, perché questi, nel 1809, aveva com-missionato il progetto del suo palazzo pa-rigino all’architetto senese Lorenzo Santiche, nel 1811, sempre a Parigi, progettòanche il cortile della residenza diNapoleone8.

Da Siena, pochi mesi prima dell’arrivodi Letizia Ramolino e del cardinale, eratransitato anche un fratello di Napoleone,Luciano, che il 28 marzo 1815 - cioè ven-tisette giorni dopo la fuga dell’Imperatoredall’Elba e l’inizio degli ultimi CentoGiorni - mentre era diretto a Firenze, vi a-veva soggiornato alcune ore. Non eraquesta la prima volta che LucianoBonaparte passava da Siena, tappa d’ob-bligo per chi viaggiava fra Roma eFirenze, in quanto vi era già passato contre carrozze il 18 aprile e il 19 novembre1808, ma la visita del 1815 fu ancora piùbreve perché si limitò a una sosta di qual-che ora all’albergo dell’Aquila Nera inBanchi di Sopra9.

Tornando a parlare del soggiorno se-nese di Letizia Ramolino, la cosa che piùcolpisce, ricostruendo ora la cronaca diquei giorni, è la gelida indifferenza concui la nobiltà senese accolse la madredell’Imperatore decaduto. MadamaLetizia, che ormai conservava solo il pocoattraente fascino della sconfitta e cono-sceva bene la mutevolezza dei sentimentiprovati dalla gente nei confronti dei po-tenti, si guardò bene da parte sua dal ri-

cercare la compagnia di quella nobiltàche, così poco nobilmente, fingeva di i-gnorare la sua presenza in città. L’unicavisita che risulta sia stata fatta agli esuli fuquella dell’Arcivescovo di Siena CardinaleAnton Felice Zondadari, che si recò alSole per salutare il Cardinale Fesch.

Letizia Ramolino trascorreva le suegiornate ritirata nel vasto appartamentoche si era riservata nella Locanda, proba-bilmente un intero piano del palazzo dalmomento che le sue finestre erano rivoltesu via Montanini e su via della Stufasecca.Avendo in mente l’ultimo incontro fraNapoleone e sua madre, avvenuto neigiorni che precedettero la disfatta e sug-gestivamente ricostruito da Joseph Rothnel romanzo I Cento Giorni, è facile im-maginarla austera, elegante e triste, sedu-ta accanto a una finestra affacciata su unastrada secondaria come la Stufaseccamentre osserva le colline del Chianti, e ri-percorre con la memoria una vita che dal-la provincia còrsa, passando per lo sfarzodei palazzi parigini, l’aveva condotta in u-na locanda senese.

Madama Letizia si era chiusa in un ri-serbo totale evitando qualsiasi uscita inpubblico, tanto che, il 7 agosto, ilCardinale Fesch chiese al parroco della vi-cina chiesa di San Donato di recarsi all’al-bergo con il corredo liturgico necessario aofficiare una messa, in modo da evitare aLetizia di dover uscire per recarsi in chiesaoffrendosi alla curiosità del popolino.

La sera dello stesso giorno, alcune

tore nel 1778 di una celebre incisione del Duomosenese e collaboratore, nel 1784 e nel 1787, dell’a-natomista Paolo Mascagni per la realizzazione delleincisioni che corredano il Prodrome d’un Ouvragesur le système des vaisseaux lymphatiques, e delVasorum Lymphaticorum corporis HumaniHistoria et iconoraphia. Lorenzo Santi conobbe iBonaparte a Roma quando, insieme al padre e alfratello Dionisio, ebbe l’incarico di decorare il loropalazzo (P. SELVATICO, Sulla architetture e sulla scul-tura in Venezia dal Medioevo sino ai nostri giorni,Venezia, 1847, pp. 480-484; E. ROMAGNOLI, Biografiecronologiche cit., pp. 639-643).

9 Per la visita del 1808 v. A. BANDINI, Diario cit.,anno 1808, ms. D.II.1, cc. 72, 223; per quella del1815 v. A. BANDINI, ibidem., ms. D.II.8, citato da N.MENGOZZI, Il Monte dei Paschi di Siena e le aziendein esso riunite, vol. VIII, Siena, Lazzeri, 1920, p. 13,e da R. BARZANTI, L’Aquila Nera, il Rex e oltre.Appunti su una piccola avventura urbana, in LaGalleria Odeon a Siena, a cura di C. NEPI, Firenze,Alinea, 1993, p. 5.

10 Dalle piante catastali (v. nota 1) risulta che,nell’Ottocento, la definizione di “Prato dellaStufasecca” era riferita allo slargo ora denominatopiazza Bargagli Petrucci.

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donne abitanti nella zona, mentre si tro-vavano a veglia nel “Praticino” dellaStufasecca verso cui erano rivolte le fine-stre delle stanze di Letizia10, ebbero l’ideadi cantare alcune canzoni in suo onoresperando così di guadagnarsi una mancia.Fra le canzoni che intonarono c’era peròanche quella detta “Il canto del Coscritto”,che diceva:

“Partire partirò, partir bisogna dove comanderà nostro Sovrano.Chi prenderà la strada di Bologna e chi anderà a Parigi e chi a Milano.Se tal partenza o cara ti sembra amara non lacrimarevado alla guerra e spero di tornare.

Quando saremo giunti all’Abetoneriposeremo la nostra bandiera:E quando s’udirà forte il cannoneaddio Gigina cara e buonasera.Ah, che partenza amara, Gigina carami tocca faresono coscritto e mi convien marciare.

Di Francia e di Germania son venutia prenderci per forza militare.Però allorquando ci sarem battutimolti, mia cara, speran di tornare.Ah, che partenza amara Gigina cara,Gigina bella,di me non udrai forse più novella!

Se il nostro imperator ce lo comanda,ci butteremo e finirem la vita,al rullo dei tamburi, a suon di banda,farem del mondo l’ultima partita.Ah, che partenza amara Gigina cara,Gigina bella,di me non udrai forse più novella!” 11.

Questa canzone - che secondo alcunicultori di musiche popolari veniva cantatasu quell’antica aria adattata poi anche aMaremma amara - non era molto ap-prezzata dai familiari di Napoleone per-ché suonava alle loro orecchie come unesplicito rimprovero mosso all’Imperatore

per aver costretto migliaia di giovani co-scritti a partire da casa per prendere partealle campagne militari.

Madama Letizia si affacciò ugualmentealla finestra per salutare le popolane, maquando una di esse si presentò per chie-dere la mancia ottenne solo alcune paroledi ringraziamento. Più generosa, invece,la signora lo fu con Gregorio Lombardi,un reduce delle campagne napoleonicheda cui aveva fatto ritorno mutilato di unagamba che, quasi quotidianamente, si re-cava alla locanda del Sole ricevendo ognivolta tre franchi in dono.

Queste manifestazioni di simpatia, an-che se non disinteressate, tenevano in al-larme la polizia lorenese sospettosa chealcuni bonapartisti senesi, più audaci ecoerenti degli altri, concepissero qualchebravata. Cosa, questa, che puntualmenteavvenne il 9 agosto quando uno di loro,sfuggendo alla sorveglianza delle senti-nelle, posò sopra un tavolo nelle stanzedelle Guardie nel palazzo civico, un bi-glietto con disegnato lo stemmadell’Imperatore e la scritta: “VivaNapoleone il Grande!” e, sotto a un altrodisegno raffigurante un teschio, le paro-le: “Morte alle potenze alleate”.

Come gesto sovversivo non era gran-ché, ma comunque era sempre meglio diniente. Del resto alcuni, se pur pochi, ge-nuini bonapartisti devono esservi stati an-che a Siena se uno di loro ardì addiritturacollocare sulla facciata della propria abi-tazione una statua in terracotta policromaraffigurante l’Imperatore, che ancora vi èconservata. D’altro canto, almeno a quan-to riporta il Bandini, vi erano anche per-sone pronte a rumoreggiare controMadama Letizia “per i guai che suo figlioci aveva cagionati”12.

Allo scopo di tenere sotto stretto con-trollo la piccola corte in esilio, l’AuditoreFiscale stanziò sessanta lire per attivare larete di spie di cui disponeva la polizia, euna di esse riferì di aver udito un came-riere del seguito che, mentre stava seduto

11 R. DE CRISTOFARO, I Canti del popolo, Siena,Cantagalli, 1988, p. 219. 13 A. BANDINI, Diario cit., anno 1815, c, 124 r.

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al Caffè del Bottegone, commentava adalta voce un articolo pubblicato su la“Gazzetta di Firenze” sostenendo chequanto scritto di negativo nei confrontidell’Imperatore era assolutamente falso efrutto delle pressioni granducali. L’effettodella spiata fu che il povero camerierevenne immediatamente costretto a lascia-re la Toscana, e i francesi avvertirono inmaniera ancora più pesante la pressioneesercitata dalla polizia nei loro riguardi.

Il 12 agosto il Cardinale, sicuramenteseguito passo passo dagli spioni, effettuòun breve giro turistico della città visitandoil Duomo, la Biblioteca della Sapienza, lebasiliche di San Domenico e SanFrancesco, e restituendo la visita alloZondadari. Non fu questa l’unica volta chelo zio di Napoleone uscì dalla Locanda,

nei giorni precedenti, infatti, si era recato avisitare varie case nobiliari nella zona diCamollia con l’apparente intenzione di ac-quistarne una, fornendo così consistenzaalla voce secondo cui Letizia Ramolino in-tendeva stabilirsi a Siena. Alcuni senesi du-bitavano però che questa fosse realmentela volontà di Madama Bonaparte, e i lorodubbi trovarono conferma la mattina del13 agosto, quando Letizia e suo fratellopartirono improvvisamente alla volta diRoma con quattro carrozze decorate con leinsegne imperiali.

Ebbe così fine il soggiorno senese del-la madre di Napoleone, che trascorse isuoi ultimi anni a Roma sotto la protezio-ne del Papa e dove, nel 1836, morirà nelpalazzo di piazza Venezia.

4 – Statuetta di Napoleone collo-cata sulla facciata di unacasa senese.

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L’ingresso di Casa Ciani a Siena

Cancellata di Agostino Fantastici.

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In ogni secolo Siena, che ha avutosempre prestigio, fama e relazioni a di-mensione ben più ampia del suo territo-rio, ha espresso personalità di significatonon esclusivamente municipale. E’ il casoper il primo Ottocento dell’architettoAgostino Fantastici (1782-1845), nato aSiena in anni densi di riflessioni teorichee di interventi edilizi di gusto neoclassico.Figlio d’arte e di buona educazione lette-raria, completa la formazione a Roma as-similando la lezione del Piranesi e delValadier; tra i testi della sua biblioteca,fondamentale il Winckelmann, del qualecondivide l’ammirazione per la “nobilesemplicità e la quieta grandezza” degliantichi. Tornato in patria, contribuisce inmisura notevole a configurare l’immaginedella città: facciate, scalinate, portoni, mo-bili, inferriate, giardini siglati dal segnoinconfondibile, raffinato ed eccentrico diun artista rappresentativo dell’architetturavisionaria di matrice illuminista e sensibi-le interprete dell’estetica protoromantica.Il suo successo a Siena, specialmente nel-le cosiddette arti minori, è paragonabilesolo agli arredi del Palazzo del Magnifico,imitati innumerevoli volte.

Il Fantastici stesso ha registrato e data-to molta della sua produzione, tutta ditono molto elevato, mai provinciale e a-liena al Revival gotico che dopo di lui haavuto a Siena tanta, fin troppa fortuna;tuttavia per molta della sua attività minoree per la sua scuola è spesso necessario ri-

correre a congetture. Si segnala in questanota il Palazzo Ciani, situato nel mezzo diuna spettacolare concentrazione di mo-numenti, fra il Duomo, il Battistero, ilCampo, in una zona da sempre animatadalle principali attività cittadine e fitta didimore signorili, fondaci e ‘banchi’.Banchieri erano anche gli antichi proprie-tari del palazzo, i Ciani, appunto, una no-bile famiglia del Monte dei Riformatori ri-cordata nelle carte di archivio a partiredal secondo Trecento, quando sono atte-stati rapporti economici tra loro e altri il-lustri Riformatori, i Casini, che vantanocelebri medici e un principe della Chiesa,il cardinale Antonio Casini, mecenate disommi artisti.

Il Monte dei Riformatori comprendevai discendenti di coloro che avevano par-tecipato al governo a partire dall’ultimoTrecento, dopo i Monti dei Gentiluomini,dei Nove, dei Dodici e prima dell’ultimoordine, quello del Monte del Popolo. Tra‘Noveschi’ e Riformatori esisteva una riva-lità che da quanto emerge dalla scarsadocumentazione ha riguardato anche iCiani, benché poco presenti nella vitapubblica durante il Quattrocento. DeiRiformatori hanno senz’altro condiviso lapolitica ostile alla Napoli aragonese, per-ché nel 1457 Francesco di BartolomeoCiani è commissario a Grosseto e a quelladata, con la Maremma sotto la minacciadell’esercito di Alfonso d’Aragona, tale in-carico non poteva essere assegnato dal

Il palazzo del “leonerosso ingabbiato”

Casa Ciani a Sienae la fortunadi Agostino Fantasticidi PETRA PERTICI

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via del Comune … fiorini 150 per aconci-me costretto da la necessità per la casa deSiena, de la quale ruinano tucti e palchi ettecti et tucta è in pontelli”. Dallo stessodocumento risulta un pagamento di 15fiorini per “maestro Giuliano lombardo”. Imuratori lombardi a Siena in quegli annidi intensa attività edilizia, quando sonostate rinnovate tutte le facciate, eranomolto apprezzati e numerosi. La sommaindicata, 150 fiorini, lascia intuire lavoripiuttosto impegnativi. La facciata quattro-centesca merlata, uno dei tanti esempiquattrocenteschi di persistenza del gotico,quando peraltro molta committenza era o-rientata verso modelli di impronta umani-stica, reca ancora lo stemma di marmo,che in termini araldici è “d’argento, al leo-ne di rosso, con la saracinesca d’oro, attra-versante sul tutto”.

I Ciani, come molte altre famiglie stori-che, si sono estinti e l’ultima discendente,Rosa di Giulio, nel 1854 ha voluto che al-meno il nome rimanesse, fondando morenobilium un’istituzione caritatevole,l’Asilo Puggelli Ciani legatoall’Arciconfraternita della Misericordia, al-la quale ha donato gran parte del patri-monio, palazzo compreso. Il testamento,dettato nella dimora avita e suggellatodall’impronta in ceralacca del “leone ros-so ingabbiato”, è portato a registrare per-sonalmente dall’anziana signora,che scri-ve di volere un funerale “secondo il gra-do della famiglia”. Erano imparentati al-l’alta aristocrazia locale, i Bindi Sergardi, iBorghesi, i Cinughi, ad esempio, e, perl’iscrizione ai Libri d’oro della nobiltà to-scana nel 1750 scrivevano: “Da più centi-naia d’anni in qua hanno sempre godutodi tutti gli onori, dignità, preminenze esupremi maestrati e di quant’altro hannogoduto e godono l’altre famiglie nobili diSiena”. Rosa Ciani muore nel 1855 e vie-ne sepolta nel cimitero monumentale del-la Misericordia tra i benefattoridell’Arciconfraternita, dove la ricorda unalapide sormontata dallo stemma gentili-zio.

Gli interni del palazzo conservano de-corazioni pittoriche ottocentesche, salvo

un soffitto con affresco segnalato dall’eru-dito Ettore Romagnoli come opera diVincenzo Ferrati e Antonio Donnini, dueartisti di primo Settecento di sperimentatomestiere e attivi anche nel PalazzoPubblico.

La parte di edificio affacciata su ViaMonna Agnese e su Piazzetta Bonelli,dov’è preceduta da un cortile, conservainvece l’intonaco ripristinato in questigiorni, evidenziando un intervento di gu-sto neoclassico voluto probabilmente daCelso Ciani, proprietario del palazzo tra il1830 e il 1850 e persona sensibile ai fattiartistici, come dimostra la sua iscrizione aicorsi di disegno di Lorenzo Feliciati fre-quentati dalla più avvertita committenzasenese del tempo. L’intervento ottocente-sco, inteso a regolarizzare e uniformaretutto il casamento nel suo complesso, da-to che le finestre non allineate erano or-mai assolutamente fuori moda, ha com-portato laboriosi accorgimenti negli inter-ni, dove davanzali e pavimenti sono adaltezze diverse. E’ stato conferito alloracarattere di casa padronale alla parte sullapiazzetta, affacciata sul cortile tenuto asterro e fiori, con cappella privata al pri-mo piano, più un sistema di vetrate oggiperdute, mentre l’altra porzione di stabileera destinata ad affitto.

Intorno agli anni ’30 sono documenta-te perizie del Fantastici per i Ciani – ilpalco a teatro, un possesso di campagna,una volta del palazzo - e sono riconduci-bili al suo linguaggio sia il vano scale diVia Pellegrini, unitario e di eleganza mol-to d’epoca, signorile e discreta, sia gli or-namenti in ferro, tra i quali è pregevolesoprattutto il pozzo neoegizio del cortile,essenziale e perfetto, esempio materialedel principio enunciato dall’architetto, percui “il vero bello suole essere semplice”.Da tenere presente che in quegli anni tut-ti i notabili hanno fatto a gara per rimo-dernare le loro residenze nello stile delFantastici, che ha lavorato intensamentein questa zona della città. La recinzionedel cortile, in tufo alternato a mattoni, siraccorda sapientemente alle pietre dell’at-tiguo rudere di San Desiderio e con il ver-

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regime che a un esponente della parte o-rientata a collaborare con Firenze e iMedici. I Ciani sono in seguito coinvoltinelle rappresaglie degli avversari e per ifatti di metà secolo Bartolomeo eBernardino Ciani sono esiliati nel 1480,quando tutto il loro Monte viene bandito.Dopo l’esilio, nel 1483 si affrettano a re-cuperare il palazzo e a ripararlo dei guastisubiti in loro assenza, come si legge nelladichiarazione alla Lira:

“Metà della casa di abitazione, la qualehabiamo con Pietro e Antonio Montucci,la quale metà di detta chasa chompramogià sonno mesi tre da’ detti Pietro eAntonio per fiorini 150, delli quali ne re-stano a pagare f. 18 in circha, della qualechasa la metà de’ tetti e palchi sonno inpontelli che, se non sonno riparati, inbreve ruineranno e a volerli acconciarev’è di spesa fiorini 100 o più … ne l’altrametà l’abiamo a pigione da’ detti Pietro eAntonio per f. 24 l’anno”.

Nelle turbolente città stato italiane difine Medioevo l’esilio politico era tra le e-sperienze più frequenti e ne seguiva re-golarmente la confisca dei beni, accapar-rati dagli opportunisti di turno, così che iCiani sono costretti a pagare l’affitto permetà del loro palazzo, che nelle dichiara-zioni fiscali è stimato sempre 300 fiorini,masserizie comprese; nel 1488 è ancoradetto “in pontelli”, con “masserizie pochee male a l’ordine”, ma devono essernetornati completamente padroni perchénon si parla più di affitti.

Per tutta la durata del granducato me-diceo ricoprono i principali uffici e da uninventario seicentesco sappiamo che con-servavano con cura l’insegna del grandu-ca. Nel 1786 Giulio Ciani fa parte dell’ulti-ma Balìa prima della soppressione diquesta istituzione, la principale dellaRepubblica, che garantiva una sostanzialeautonomia da Firenze. La parabola dellafamiglia, che si conclude in età lorenese,coincide dunque con la fine del lungoperiodo che aveva visto l’anticaRepubblica mantenere una propria iden-tità anche dopo la conquista fiorentinadel 1555 e aveva perpetuato l’eminenza

di illustri casati, per secoli e secoli sempregli stessi, padroni presso che assoluti del-le sorti cittadine. Certamente era famigliacontraria alle innovazioni rivoluzionarieportate dai Francesi, tanto da conservareil biglietto di invito a Giulio Ciani per lesolenni feste organizzate nel Casino deiNobili in occasione della “ripristinazionedell’antico governo” l’8 luglio 1799.

Il patriziato senese, un ceto molto nu-meroso, nel corso dei secoli ha accumula-to benemerenze in ogni campo, dalla let-teratura, al diritto, dalla politica alla spiri-tualità. Anche i Ciani annoverano perso-naggi menzionati nelle pagine degli eru-diti – un avvocato concistoriale, giuristi,vescovi, un capitano, un mistico -, ma laloro principale occupazione deve esserestata quella di trasmettere da una genera-zione all’altra un patrimonio di tutto ri-spetto. Il palazzo che hanno possedutoper almeno cinquecento anni, di dimen-sioni ragguardevoli, è la testimonianzapiù vistosa della loro opulenza basata sul-la rendita fondiaria, soprattutto i poderi diPetroio in Val di Chiana, dove hanno con-servato la residenza estiva finoall’Ottocento, quando continuano a com-parire nei documenti fiscali nel gruppo e-sclusivo, circa trenta famiglie, dei più ab-bienti proprietari terrieri della città.

Il palazzo, che già nel CatastoLeopoldino risulta formare un’unica parti-cella immobiliare, è formato da due edifi-ci uniti da una scala interna tra ViaPellegrini 15 e Piazzetta Bonelli 1, edificia loro volta risultato di accorpamenticomprensivi della torre medievale deiCodennacci ancora ravvisabile nell’ango-lo tra Via Pellegrini e Via Monna Agnese.La posizione in angolo era quella mag-giormente ambita.

Nella parte affacciata su Via Pellegriniin anni recenti sotto l’intonacatura sonostate ritrovate ogive di gotico fiorito. ICiani nel 1465 dichiarano tra i molti beniposseduti: “Una casa in Siena della nostrahabitatione posta nel Terzo di Città ecompagnia di Porta Salaia e popolo diSancto Desidero, confina da doi lati lachiesa de Sancto Desidero e denansi la

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de esuberante di un glicine secolare for-ma un’immagine di gusto romantico de-gna dell’architetto, studioso attento deiproblemi di sistemazione urbana. Il belcancello sulla piazzetta è di disegno vaga-mente razionalista e non sarebbe la primavolta che il Fantastici anticipa moduli disorprendente modernità. E’ uno degli an-goli più fotografati di Siena e compare inalcune scene del film Con gli occhi chiusidella regista Francesca Archibugi trattodall’omonimo romanzo di Federigo Tozzi.

Siena è stata partecipe anche dello spi-rito austero del riformismo leopoldino equalcosa rimane del rarefatto gusto lore-nese, specialmente negli ingressi di tantipalazzi ispirati a criteri di sobrio decoro,funzionalità, luminosità, come nel casodel Palazzo Ciani, che nella sua lunghissi-ma storia riassume la complessa vicendadi un grande centro d’arte dalle moltepli-ci stratificazioni ed è meritevole di tutelacome espressione di una cultura aggior-nata, aperta alle suggestioni delRomanticismo europeo, così da assume-re, sia pure in cifra minore, valore di e-semplarità.

Ringrazio dei cortesi, preziosi suggerimen-ti Marco Ciampolini, indispensabile per la suaprofonda conoscenza del Fantastici e del pit-tore Antonio Donnini; il soffitto di Casa Cianicontribuisce a completare la figura di questoartista, il più importante quadraturista attivo aSiena durante il Settecento. Ringrazio anche ilpersonale dell’Archivio di Stato di Siena, sem-pre generoso verso gli studiosi, e gli abitantidel palazzo che mi hanno fatto visionare gliappartamenti. Un grazie particolare a GiovanBattista Guasconi, che ha reperito i documen-ti conservati presso l’Archivio dellaMisericordia. Conservano affreschi e decora-zioni le proprietà dei signori d’Errico,Barducci, Flamini, Niccolai, Amante.Particolarmente integro l’appartamento diEnrico Amante, dove restano le porte d’epo-ca, un soffitto con putti recanti insegne araldi-che e il soffitto del Donnini con putti e sim-boli ecclesiastici. Altre decorazioni potrebberoriemergere sotto le imbiancature. Nella pro-prietà di Giancarlo Campopiano tracce del-l’antico paramento murario in pietra da torre.Le porte delle scale di Via Pellegrini sono ca-

ratteristiche del Fantastici per l’ornato e le di-mensioni minimaliste, così come ricordano ilsuo linguaggio l’arredo in ferro e la sistema-zione complessiva del vano scale, che ripro-duce in cifra più modesta il modello adottatoper esempio nei palazzi PiccolominiClementini e d’Elci. Il cortile ha perduto quasicompletamente l’arredo vegetale originario;rimangono un’apertura a lunetta e un murettoche ricordano la maniera del Fantastici.

Le notizie relative ai Ciani e al palazzo so-no in Agostino Fantastici architetto senese1782-1845 , a cura di C. Cresti, Chieri(Torino), Umberto Allemandi e C., 1992 (a pp.287, 289, 290 i lavori eseguiti per i Ciani); E.ROMAGNOLI, Biografia cronologica de’ bel-lartisti senesi, XI, ed. anast., Firenze, S. P. E.S., 1976, p. 477; C. CANTONI, Frammenti diun diario senese (1479-1483) , RerumItalicarum Scriptores, XV, VI, a cura di A.Lisini e F. Iacometti, Bologna, Zanichelli, s. d.,p. 885 per l’esilio dei Ciani; D. MARRARA,Riseduti e nobiltà. Profilo storico – istituziona-le di un’oligarchia toscana nei secoli XVI-X-VIII, Pisa, Pacini, 1974, p. 219; G. R. F.BAKER, Nobiltà in declino: il caso di Sienasotto i Medici e gli Asburgo Lorena, “RivistaStorica Italiana”, LXXXIV, fasc. III, 1972, pp.584-516 (la famiglia non è nell’elenco dei ca-sati con più frequente accesso alle cariche); L.VIGNI, Patrizi e bottegai a Siena sottoNapoleone. Il notabilato urbano di primoOttocento nell’economia, nella politica e nel-l’amministrazione , Napoli, EdizioniScientifiche Italiane, 1997, pp. 69, 70, 118; C.PAZZAGLI, La terra delle città. Le campagnetoscane dell’Ottocento, Firenze, Ponte alleGrazie, 1992, p. 185; Le Biccherne. Tavole di-pinte delle magistrature senesi (secoli XIII-X-VIII), edizioni del Monte dei Paschi di Siena,Firenze, Le Monnier, 1984, pp. 304, 343; ILibri dei Leoni. La nobiltà di Siena in età me-dicea (1557-1737), a cura di M. Ascheri, ed.Monte dei Paschi di Siena, Cinisello Balsamo(Milano), Amilcare Pizzi, 1996, ad nomen (ve-di anche ad vocem Spennazzi, altri notabilicomproprietari del palazzo durantel’Ottocento per via di matrimoni con i Ciani,come i Riccomanni); B. CASINI, I “Libri d’oro”delle città di Siena, Montepulciano e Colle Vald’Elsa, “Bullettino senese di storia patria”, X-CIV, 1987, pp. 292, 293, 298; XCV, 1988, pp.368, 380; L’Archivio Comunale di Montalcino.Inventario , a cura di P. G. Morelli, S.Moscatelli, C. Santini, Siena, AmministrazioneProvinciale, 1989, p. 15 per Bernardino Ciani

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vescovo di Montalcino nel Cinquecento;Hierarchia catholica medii et recentioris aevi,V, a cura di R. Ritzler e P. Sefrin, Patavii, “IlMessaggero di S. Antonio”, 1952, p. 260 per ilteologo Eusebio Ciani vescovo di Massa nelSettecento; I. UGURGIERI AZZOLINI, Le pom-pe sanesi o’ vero relazione delli uomini e don-ne illustri di Siena e suo Stato, Pistoia,Pier’Antonio Fortunati, 1649, I, pp. 402, 451; i-vi, II, pp. 288, 308; (G. P. FERRETTI) Sena ve-tus per IO. PETRUM FERETRIUMRhavennatem in utroque doctorem et poetamlaureatum carmine illustrata, Senis, ex offici-na Simeonis Rubeis, 1513, per l’avvocatoAndrea Ciani ed altri personaggi della fami-glia; G. MINNUCCI, L. KOSUTA, Lo Studio diSiena nei secoli XIV-XVI, Documenti e notiziebiografiche, Milano, Giuffré, 1989, pp. 129,153-154, per i rapporti dei Ciani con i Casini;M. CIAMPOLINI, A. LEONCINI, La Scuola delDisegno dell’Università di Siena nel Settecento,Associazione Siena nel Settecento, Scuola diLingua e cultura italiana per stranieri di Siena,1990, pp. 92, 97,105 per Celso Ciani e i cuginiVenturini e Spennazzi, tutti iscritti ai corsi didisegno del Feliciati; W. M. BOWSKY, UnComune italiano nel Medioevo sotto il regimedei Nove 1287-1355, Bologna, Il Mulino,1986, p. 405 per i Codennacci (il nome Cianipotrebbe derivare da Codennaccianus; la fa-miglia avrebbe così origini magnatizie, di cuirimarrebbe traccia nel leone rosso dello stem-ma, che era l’insegna del podestà, carica so-vente ricoperta dai Codennacci; famiglie di o-rigine feudale infatti sono sopravvissute alleleggi antimagnatizie modificando il proprionome. Il più conosciuto dei Codennacci è uncerto Magiscolo ricordato nelle cronache).

Le fonti inedite consultate sono quasi tuttepresso l’Archivio di Stato di Siena: G. A. PEC-CI, Raccolta universale di tutte l’iscrizioni, ar-me e altri monumenti sì antichi come moder-ni esistenti in diversi luoghi pubblici dellacittà di Siena fino a questo presente anno1730, I, Terzo di Città, ms. D. 4, cc. 3v, 11r,123r (segnala in Sant’Agostino la sepoltura deiCiani; menziona lo stemma cardinalizio deiPiccolomini tuttora esistente nel cortile delPalazzo Ciani); A. SESTIGIANI, Compendio i-storico di Sanesi nobili, ms. A. 11, cc. 193r-193v; Catasto Leopoldino, Comunità di Siena,sez. detta della Cattedrale, f. 2; G. MANENTI,

Raccolta di denunzie di contratti di matrimo-ni, ms. A. 54, cc. 173r-175r; Lira 137, PortaSalaia, n. 132 (1453); Lira 156, n. 459 per ipossessi nel 1465 dei Ciani, che denuncianopagamenti al muratore Giuliano lombardo;Lira, 186 (1481); Lira 201, n. 241 (1483); Lira216, n. 175 (1488); Lira 225, n. 139 (1491);Concistoro 2654, Provanze di nobiltà, n. 63;Particolari. Famiglie senesi. 40, inserto Ciani(conserva un atto notarile e una lettera del1457 indirizzata magnifico viro FranciscoBartolomei de Cianis commissario a Grosseto;tale denominazione con il de e l’attributo diMagnifico erano riservati a personaggi di sta-tus signorile); Notarile 7115, cc. 141r-142v;Notarile E. 19, n. 62, per il testamento di RosaCiani che nel 1854 dispone del palazzo a fa-vore della cameriera Angela Saletti usufruttua-ria; morta la Saletti, l’Arciconfraternita dellaMisericordia nel 1865 vende l’immobile aFederigo Bonelli.

Presso la Biblioteca Comunale di Siena,vd. in ms. E. V. 8, Carte Ciani, un inventariodelle suppellettili in occasione dell’affitto nel1641 del palazzo al nobile Muzio Cerretani (ilfascicolo è pervenuto tra le carte appartenuteai Bindi Sergardi, proprietari del palazzo difronte ai Ciani. Giulio Ciani era figlio di unaBindi Sergardi).

Per l’Asilo Puggelli Ciani, attualmente Casadella Misericordia presso Porta Laterino, vd. F.MORESCO, V. GRASSI, A. LOTTI, G. VOLPI-NI, La Misericordia di Siena, a cura di F.Moresco, Siena, Tip. Senese, 1982, pp. 39-40.Presso l’Archivio dell’Arciconfraternita dellaMisericordia di Siena, vd. Deliberazioni delmagistrato, 1853-1855, cc. 161r-162r per le o-noranze funebri a Rosa Ciani; Deliberazionidel Magistrato 1857-1861, c. 94v per l’aperturadell’Asilo e, sempre presso l’Arciconfraternita,in Archivio storico 147 l’inventario dello stabi-le compilato nel 1861 a cura dell’architettoLorenzo Doveri.

Nell’Archivio del Cimitero della Misericor-dia di Siena, la sepoltura di Rosa Ciani è regi-strata nel primo volume dell’Archivio stesso algiorno 19 febbraio 1855. La lapide nella sezio-ne della SS. Concezione recita: SEPOLCRO /DI ROSA DI GIULIO CIANI / N. IL XXII GEN-NAJO MDCCLVII / M. IL XVIII FEBBRAJOMDCCCLV / CHE / ULTIMA DI SUA FAMI-GLIA / CHIAMO’ EREDE QUESTO PIO SO-

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Nella primavera del 1939 Pio XII pro-clamò Santa Caterina da Siena – e SanFrancesco d’Assisi – Patroni Primarid’Italia e nella nostra città ci si propose difesteggiarne il primo anniversario con i-nusitata solennità.

Le feste dell’aprile 1940 furono vera-mente eccezionali e diedero origine aquella singolare celebrazione laico-milita-re-religiosa che ancora oggi si svolge inPiazza del Campo e che in fondo riecheg-gia tradizioni senesi della medesima natu-ra.

Primavera del 1940. L’esercito tedescodilagava in Norvegia e le “veline” (ahimè,non quelle della televisione) eccitavano iltono della stampa per preparare l’opinio-ne pubblica al conflitto, una opinionepubblica che per la verità sperava tuttaviain Machiavelli-Mussolini per restare fuoridalla seconda guerra mondiale.

Il Presidente della Camera dei Fasci edelle Corporazioni, Dino Grandi Conte diMordano, pronunciò queste parole (riferi-te domenica 28 aprile nel colmo delle fe-ste cateriniane): “fedeltà assoluta a Voi,Duce; fede cieca nelle mete da Voi indi-cate; silenziosa, virile obbedienza …” il25 luglio 1943 non si intravede neppure.

L’Arcivescovo, Monsignor MarioToccabelli, nel pieno delle sue energie,assunse la direzione della organizzazionedei festeggiamenti parecchio complessi.Intanto ebbe una iniziativa molto seria eindisse le missioni popolari – non poten-dosi giustamente pensare solo a feste – euna grande riunione penitenziale di pre-ghiera nel Campo. Mentre intanto a Sienasi proiettavano i seguenti films : [seguonole classifiche del C.C.C.] “Una lampada al-

la finestra” (anche per giovani, con caute-la – chissà come applicavano il consi-glio); “Le tre ragazze in gamba crescono”con Deanna Durbin (per tutti finalmente);“Allegro volo” (non visibile, ma il titolonon ci consente fantasie); “Ladro di don-ne”(non visibile, naturalmente); “Ragazzein pericolo” (per adulti chè i ragazzi nonimparassero). Il “cattolico osservante” do-veva dunque rinunziare a qualche pome-riggio di cinematografo.

Il 7 aprile “Il Popolo di Siena” annuncial’udienza concessa da Mussoliniall’Arcivescovo il quale chiedeva l’appro-vazione per le feste in quanto “nazionali”e un concreto aiuto per il progettatoSantuario cateriniano promettendo pre-ghiere: Mussolini accoglie benigno.Successivamente Arcivescovo, Prefetto,Federale, Podestà, telegraferanno:“Romanamente volere, credere italiana-mente, combattere per avere certe le vit-torie, sicuro il destino”. È un linguaggiooggi quasi incomprensibile, tuttavia è laretorica del tempo e del resto ogni tempoha la propria sol che si pensi a “laCostituzione fondata sull’antifascismo e laResisten-za…”. Ed è noto e provato cheMons. Toccabelli non fu fascista; forse inquel mese pensò e agì come i suoi vecchiVescovi lombardo-veneti si comportavanoverso l’Imperatore e dopotutto l’Italia erauno Stato concordatario.

Le feste furono aperte dal CardinaleFederico Teleschini, e chiuse dalCardinale Carlo Salotti. La processione fi-nale fu ufficiale e deve essere stata bellis-simo il vederla sfilare: S.A.R. AdalbertoDuca di Bergamo (per il Re Imperatore),S.E. Luigi Russo (per Mussolini), il

Minuzie di biblioteca e di archivioSiena 1940 XVIII:Santa Caterina e il giovane ebreodi ENZO BALOCCHI

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Segretario Federale cons. naz. VittorioPassalacqua (per il P.N.F.); S.A. Em.ma ilPrincipe Frà Ludovico Chigi Albani dellaRovere Gran Maestro dei Cavalieri diMalta con i Cavalieri nelle loro splendideuniformi scarlatte e il Marchese MarioMocchi con i Cavalieri del Santo Sepolcrocon le uniformi bianche. TantissimiComuni grandi e piccoli con i loroPodestà e vessilli e alla testa S.E. ilGovernatore di Roma Principe Borghese(non si sorrida tanto di questi titoli, il pri-mo Sindaco di Roma liberata sarà ilPrincipe Doria Pamphili). Il Governatoredi Roma donò a Siena la targa marmoreacon la lupa romana che si ammira nelcortile del Palazzo Pubblico e VirgilioGrassi scrisse di “Saena Urbs Lupata”(mentre guarda, guarda, per combinazio-ne nella rivista al cinema Impero“Girandola delle falene” – non tutti anda-vano a processione – si esibiva la “ spi-gliata” Tina Lupa!).

Per la solennissima occasione ilPodestà di Siena chiese all’editoreCantagalli (antifascista noto, non avevaneppure la tessera) l’edizione delle operecateriniane, di quella Santa Caterina atutt’oggi citata dai Sindaci senesi di sini-stra: sarebbe la continuità dell’ispirazione.Della “romanità” e della “italianità” diSanta Caterina parlò Paolo Arcari.

La processione fu imponente per imolti pellegrini (gli osti provvedevano aconsistenti riduzioni nei prezzi). E fu sud-divisa in ben quattordici gruppi e forse èvero che Siena non aveva visto e non vi-de più nulla di simile. Infatti Il Telegrafotitolava la vigilia: “Siena si appresta a vi-vere una delle più grandi giornate dellasua storia”.

Religione? Folclore? Conformità alloStatuto del Regno? Il credente si chiede:Fede? E l’Azione Cattolica? I giovani (pre-sidenze Giraldi e Cresti) sembra pensinoad altro ovvero alla imminente visita diLuigi Gedda, presidente centrale dellaGiac, e nei loro comunicati non c’è ac-cenno né ai discorsi di Gedda né al fasci-smo né alla guerra imminente: i mondi

cattolici paralleli? Pochi giorni dopo i gio-vani toscani dell’Azione Cattolica recatisiin pellegrinaggio-convegno a Prato saran-no aggrediti dai fascisti ( è una briciola dimemoria perché c’ero anche io con i gio-vani lucchesi).

Alla fine delle Feste la federazione se-nese dei combattenti rese omaggio aSanta Caterina: “ all’Altare Maggiore i diri-genti la Federazione si irrigidivano nel sa-luto fascista alla Vergine senese”!!!

E allora il giovane ebreo del titolo?Dunque tra cavalieri, fascisti, caterina-

ti, cattolici, curiosi, si aggirava un fior dimascalzone che vide qualcosa e presecontatto col quotidiano “Il RegimeFascista” diretto dal gerarca RobertoFarinacci, forte anticlericale e direttoredel giornale più anticattolico di quel tem-po.

Il 18 maggio 1940 XVIII – la Francia èsotto i colpi della Germania, “il RegimeFascista” è in piena polemica con“L’Osservatore Romano”, in quei giornibruciato nelle piazze soprattutto per i te-legrammi di Pio XII non sempre evidente-mente “silenzioso” – ai Sovrani di Belgio,Olanda, Lussemburgo invasi dall’esercitotedesco, e l’odio farinacciano verso laSanta Sede è al colmo ( con una notevoledose di stupidità perché quel quotidianorammentava continuamente De Gasperi,Gonella, Don Sturzo ecc… e qualcuno dinoi, adolescente, prendeva nota curiosoed in attesa, mentre il paludato Corrieredella Sera non polemizzava irruento enon mandava a memoria i futuri capi delnostro Paese). In fondo alla pagina tre delnumero del 18 maggio appare una foto-grafia con la didascalia: “Le feste cateri-niane a Siena. Il cesto dei gigli e lo scudo“Dio lo vuole” è portato dall’ebreo BrunoModigliani (se Santa Caterina tornasse almondo!!! ….)”. Per Farinacci e per il suoprofeta Preziosi dire ebreo a qualcuno erail massimo dello spregio: però che bellasorpresa tra pennacchi, camicie nere, ber-retti militari e mitrie un bell’ebreo a pro-cessione nel pieno del vigore nelle vergo-gnose leggi razziali (il deputato senese

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nel 1938 era stato assente giustificato allaseduta della Camera che votò quelle leggiall’unanimità; più prudente o più astuto overamente ammalato o proprio contrario,l’On. Bruchi).

Dell’ebreo non si era accorto nessunosalvo il delatore che forse voleva colpire igerarchi e le autorità senesi.

A Siena apriti cielo! Da Roma ricevutoin Prefettura il 20 maggio: “Prefetto diSiena – secondo notizia apparsa su ungiornale in occasione feste caterinianeSiena Cesto Gigli et scudo Dio lo vuolefurono recati da ebreo Bruno Modigliani.

Prego riferire se circostanza sia vera.Capo Gabinetto Interno firmato Bindi”. Sirammenti che Ministro dell’Interno era lostesso Mussolini. Il medesimo 20 maggio– la Prefettura fu velocissima: “telegram-ma di Stato in cifra. 20.5.1940. XVIIIMinistero Interno Gabinetto Roma. Fattopubblicato dal Regime Fascista sussistema avvenuto casualmente per ingaggiomomentaneo senza malafede et insaputaqualsiasi autorità. Il Modigliani appartienefamiglia discriminata. Segue odierno rap-porto informativo. Prefetto Pallante”.

Dunque l’informatore di “Regime

“Partecipazione dell’ebreo Bruno Modigliani ad una processione in onore di SantaCaterina da Siena.

RISERVATA – URGENTE

AL MINISTERO DELL’INTERNOGABINETTOROMA

A seguito del telegramma odierno circa la partecipazione alla processione del 28aprile u.s. in onore di Santa Caterina dell’ebreo Modigliani Bruno, di Germano, dianni 20, nato a Siena, commesso barbiere, pregiomi riferire quanto segue: alcuniDignitari dell’Ordine del Santo Sepolcro, dovendo intervenire alle cerimonie, scris-sero il giorno prima all’Avvocato ……… di questa città, pregandolo di reclutaresul posto alcuni giovani da figurare, verso compenso, da valletti in costume. Il ……incaricò il proprio fattorino di studio giovane fascista, che presta l’opera sua anchepresso la G.I.L.

Costui ingaggiò all’uopo cinque suoi coetanei, tra cui – ignorando che fosse e-breo – il Modigliani Bruno, il quale, per la prospettiva della mercede (essendo di-soccupato e bisognoso) ed anche forse per la vanità di indossare il costume, accettòsenz’altro: tanto più che ritenne, a suo dire, che le proprie prestazioni dovessero li-mitarsi a servire i Dignitari del Santo Sepolcro nell’Albergo; mentre, insieme agli al-tri quattro ingaggiati, tutti di razza ariana e cattolici, fu invece destinato pure a fareda valletto nella processione.

Per tale episodio, affatto casuale – al quale localmente non è stato dato rilievo,essendosi risaputo come erano andate le cose – il Modigliani, che non brilla per so-verchia intelligenza, venne deplorato dai propri correligionari.

Aggiunto che il Modigliani, già giovane fascista, appartiene a famiglia discrimina-ta per avere avuto il fratello Renato (fascista nella leva 1937) volontario in Spagna.

IL PREFETTO(Pallante)”

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Fascista” oltre ad essere un bieco era an-che del tutto disinformato sull’applicazio-ne delle leggi razziali nella sua città.

Segue la riservata urgente nota infor-mativa che qui riproduciamo.

Il commento può essere amaro, malin-conico e triste.

Mancavano pochi giorni al fatale 10giugno e per un Capo come Farinacci, eper il Gabinetto di Mussolini sembrò di ri-lievo la presenza di un giovane ebreo inuna processione, mentre mi figuro inquale ansia e timore vivessero allora i no-stri concittadini ebrei. In mezzo alle sin-cere preghiere per la pace e alla rinatadevozione per Santa Caterina e diciamopure in mezzo alla spettacolare cerimoniasi aggirava una spia pronta a denunciare

chiunque, nonostante la celebrazione reli-giosa e il fasto concordatario.

Però anche le note allegre: daglispensierati al varietà per ammirare Lupaai “cattolici disobbedienti” frequentatoridei cinematografi e infine ai giovani dellaGiac, indifferenti alla grandeur, che atten-dono Gedda nella lunga speranza di undiverso domani nella fedeltà alla Patria:saranno tra poco quasi tutti in grigiover-de.

Devo all’amicizia di Achille Mirizio lascoperta iniziale dell’episodio e, comesempre, devo ringraziare la cortesia delpersonale della Biblioteca degli Intronati.

“Le feste cateriniane a Siena. Il cesto dei gigli e lo scudo “Dio lo vuole” è portato dall’ebreo Bruno Modigliani(se Santa Caterina tornasse al mondo!!! ….)”.