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IndiceEditorialedi Franco Banchi ..........................................................pag. 3

Lago di Como: I cercatori della magica armonia... da Stendhal a Clooney di Franco Banchi ..........................................................pag. 5

Como a tavola a cura di Franco Banchi ............................................pag. 10

Nella terra dei calibani gutturaloidi.Con Gadda in Brianza all’ombra di una montagna di bozzolidi Carlotta Gradi .........................................................pag.12

Giuseppe Terragni e il razionalismo italianodi Giovanni De Lorenzo ..............................................pag. 19

I comacini, maestri delle ‘macchine’di Fabio Sottili ............................................................pag. 24

Alessandro Voltaa cura di Daniele Loreto .............................................pag. 30

E la rana accese la lucedi Giovanni Venturi .....................................................pag. 31

Plinius Senior: aspetti della scienza nel mondo anticodi Silvio Biagi ..............................................................pag. 37

Gaio Plinio Secondo detto Plinio il VecchioNaturalis historiaa cura di Marco Gozzini .............................................pag. 41

C. Plinius Caecilius Secundus, detto Plìnio il Giovanea cura di Stefano Vegni ...............................................pag. 42

Publio Cornelio Tacitoa cura di Ambra Morelli .............................................pag. 42

Mistero a LeccoDue promessi sposi e la madre di lei scomparsi nel nullaIntervista al curato del paese della Classe 2BLS .......................................................pag. 43 Il sesso degli angeliAquileia e lo scisma dei tre capitolidi Massimo Bartoli ......................................................pag. 45

Alessandro Volta

Primo esemplaredi pila inventata

da Volta

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Numero monografi co a diffusione internaHanno collaborato a questo numero:

Istituto Superiore Gobetti-VoltaVia Roma, 75/77 - 50012 Bagno a Ripoli (Firenze)Tel. 055 630087 / [email protected]

Stampa: Tipografi a IL BANDINO s.r.l. Via A. Meucci, 1 - Loc. Ponte a Ema - 50015 Bagno a Ripoli (FI)

Questa pubblicazione è stampata interamente su carta riciclata Ciclus Print.

La realizzazione grafi ca e l’impaginazione di questo numero sono state curate dagli studenti dell’Istituto Gobetti-Volta che hanno partecipato allo stage di Alternanza Scuola-Lavoro. Il disegno della prima pila di Volta è stato realizzato da Mariya Makasyeyeva. Coordinatore dello stage: Prof. Giovanni De LorenzoAssistenti tecnici: Teresa Santarelli e Domenico Di Mauro

Gli studenti che con il loro impegno e la loro creatività hanno realizzato questo numero:

Lucia AlessioFranco BanchiMassimo BartoliSilvio BiagiCarlotta Gradi

Bargilli Tessa 3GSABruni Elisa 3CLLDancygier Lilian 4ALSDe Magistris Matteo 3ALSMakasyeyeva Mariya 3BLLMarello Maya 3ALSMuka Guri 3DSANannelli Lisa 4ALSNistri Alessandro 3CLSPiccini Estela 3CLLRoccazzella Asia 3ALS

Giovanni De LorenzoCeline PestelliFabio SottiliGiovanni Venturi

gli studenti:Marco Gozzini, Ambra Morelli e Stefano Vegni della 5a CLS con il coordinamento del Prof. Silvio Biagi Daniele Loreto della 4a ALS con il coordinamento della Prof.ssa Lucia Alessio Gli studenti della 2a BLS con il coordinamento della Prof.ssa Celine Pestelli

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A tutte le lettrici ed i lettori vogliamo comunicare una grande scoperta: partiti dal fi siologico nesso tra Alessandro Volta ed il lago di Como, la redazione ha compiuto insieme un impensabile viag-gio spazio-temporale che ha forzato, in modo piacevole ed intrigante, un vero e proprio scrigno.Convinti di mettere insieme una sequenza interessante, ma prevedibile; sicuri di comporre un mosaico eclettico, forse diffi cilmente interconnesso, abbiamo invece constatato, a posteriori, la ricchezza sorprendente delle ricerche prodotte. Invece di fare i semplici redattori, ci siamo sco-perti “cercatori”.È questa la magia del lavoro redazionale autentico: il prodotto fi nale non è la semplice somma cumulativa degli articoli separati, ma qualcosa di nuovo e superiore.La mente va, in particolare, al pensiero rinascimentale che, oltre ai quattro elementi naturali origine della natura, intravedeva, meglio intuiva, un quinto elemento di livello superiore. Ecco, questo nostro viaggio intorno alle acque, alle terre ed alle vite incentrate sul lago di Como ha forse permesso a tutti noi di cogliere quel quinto elemento, apparentemente nascosto o sconosciuto, che fonda davvero questa incomparabile realtà paesaggistica, storica e culturale.La cifra e lo spessore di questo territorio sembra darla proprio Plinio il Vecchio, che qui ebbe i natali nel I secolo d.C. Naturalista e “scienziato” accompagna la sua curiosità teorico-pratica con una profonda coscienza fi losofi ca ed un serio impegno umano e civile.Como fu anche il luogo dello Scisma dei Tre Capitoli, ricomposto soltanto nel 699 d.C. Non si tratta, come spiega bene l’autore, di una “discussione sul sesso degli angeli”. Aff ascinante la logica medievale, fi glia di un periodo storico nel quale religione e fi losofi a vanno cercandosi per spiegare il mondo celeste e naturale! Dalla teologia alla scienza, attraverso un articolo che, mettendo a confronto Galvani e Volta, sviluppa un serrato confronto tra due teorie, senza però un vero perdente. Se alla fi ne ha prevalso Volta, secondo cui la corrente viene dal contatto dei metalli e non dagli animali, rimane la constatazione che l’elettrofi siologia è stata l’ambito in cui la rana ha avuto un indiscutibile ruolo da protagonista.

EDITORIALE

Tempio dedicato ad A.Volta

Il Tempio, adibito a museo scientifi co, fu eretto in riva al lago di Como nel

1927 in occasione delle celebrazioni del centenario della morte di Alessandro

Volta. All’interno sono conservati busti, bassorilievi e cimeli di Alessandro Volta.

Disegnato da Federico Frigerio, ha la forma di un tempio neoclassico a pianta

quadrilatera, preceduto da un ampio pronao corinzio con le statue della Fede

e della Scienza di Carlo e Luigi Rigola, all’interno vi è una vasta sala circolare

sormontata da un alta cupola.

di Franco Banchi

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Questa nostra area ha grande rile-vanza anche in campo artistico ed architettonico. Da queste terre, comprese tra il lago ed il Canton Ticino, sono partiti, destinazione penisola e continente, delle vere e proprie “imprese edili itineranti”: architetti, muratori, educatori, scalpellini. Grazie a loro, a partire dal IX secolo, lo stile ro-manico lombardo si è diffuso ad esempio anche in Toscana.Molto interessante anche l’appro-fondimento relativo all’architettura incentrato sulla fi gura di Terragni, nato a Meda. Como, attraverso alcu-

ni dei suoi progetti, divenne, nel XX secolo, laboratorio della ricerca architettonica razionalista. Uno dei primi esempi fu la costruzione del Novocomum, proprio sulle rive del lago, defi nito dalla critica, non senza un velo di ironia, un’ottima machine a habiter italiana.Con l’articolo Gadda in Brianza torniamo ancora ad uno dei temi che meglio ci hanno accompa-gnato nella nostra aff ascinante immersione in questi luoghi, materiali ed immateriali: la comples-sità del reale che non si lascia facilmente ricondurre ad un disegno razionalizzabile. Ecco allora emergere il linguaggio gaddiano, che, grazie all’acida corrosività della scrittura, cerca di mettere a nudo le contraddizioni.Una citazione particolare meritano le studentesse e gli studenti delle classi 5C, 4A e 2B del liceo scientifi co che hanno dato il loro prezioso contributo nella redazione di testi ed articoli. I primi con l’elaborazione di schede biografi che nel contesto della ricerca su Plinio il Vecchio; i secondi attraverso una ben fatta e piacevole “intervista impossibile” a Don Abbondio. Poteva infatti mancare l’intramontabile Alessandro Manzoni?Dunque, i nostri “cercatori”, alla fi ne di un viaggio a 360°, saranno riusciti a comporre questa gamma vastissima di accenti, sfumature, ambiti o, addirittura, contraddizioni che lo speciale angolo del mondo chiamato Como ha già vissuto, vive e vivrà ancora?Noi siamo profondamente convinti che questa soff erta ed aff ascinante alchimia sia scattata davvero. In fondo, da Stendhal a Clooney, come recita uno dei nostri articoli, i viaggiatori, meglio cercatori di emozioni, nei forti contrasti che Como nasconde, quasi custodisce, ci sussurrano di aver infi ne scoperto il dono e la rivelazione dell’armonia.

Il lago di Como con i suoi due rami comasco e lecchese

divisi dal promontorio di Bellagio

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l successo universale del Lago di Como comincia dal paesaggio. Difficile comporre gli apparenti contrasti che si mostrano agli occhi da un punto di vista “fenomenico”. E non è facile capire che parliamo non solo di un’egemonia incontrastata

dell’acqua, ma anche di un elemento ben più solido ovvero la terra, sia nella versione più dolce che in quella più aspra.

Lungo i tre rami del lago, infatti, si riscon-trano paesaggi molto diversi tra loro: dai dolci declivi collinari, che scendono a valle, si passa alle severe vette montuose ricoperte da un ri-goglioso manto di vegetazione, che si gettano a strapiombo nelle acque lacustri. Il paesaggio agro-silvo-pastorale, generato e mantenuto perfettamente dai contadini fi no alla metà del secolo scorso, ha caratterizzato il Lario con la sua progressione verticale di insediamenti e di sfruttamento del suolo, che da riva sale verso monte. Tuttavia ciò che ha reso famoso il primo bacino del Lago di Como, il Lario appunto, è la compresenza insieme ad un’anima contadina e rurale, di un’anima nobile, manifestata nella diffusione di ville signorili lungo le acque delle sponde.

Eppure, se lasciamo parlare qualcuno dei grandi che qui ha soggiornato, tutto cambia, tanto che è possibile ritrovare per incanto un misterioso “centro di gravità”. Per Stendhal, che qui ha soggiornato nel 1817, il paesaggio lariano, con i suoi toni gotici, ha “l’aspetto rude dei laghi di Scozia”, combinato però con la dol-cezza romantica delle verdi montagne ricche di castagneti, delle leggere onde azzurre, insieme “alla brezza che ci porta di tempo in tempo i

canti dei contadini dall’altra riva.” Potremmo così dire che il dinamico punto di equilibrio si ritrova nella misteriosa identità tra connotati nordici e più luminose e solari visioni italiche.

Nella Certosa di Parma, in una pagina indi-menticabile, Stendhal ha trovato nella bellezza l’ambito in cui i contrasti propri di questo lago vengono a composizione: “Quello di Como così voluttuoso, quello che va verso Lecco così pieno di austerità: aspetti sublimi e graziosi che il luogo per beltà più famoso nel mondo, la baia di Napoli, eguaglia ma non supera.”

Ma, secondo Stendhal, la cifra ultima di questo lago, passaggio ul-teriore che segue la bellezza, è l’amore: “Come descrivere questa emozione? Amare le arti ed amare.”

C’è dunque uno stretto cordone om-belicale che con-giunge il lago e tanti

i cercatori della magica armonia...

da Stendhal a Clooney

Lago di Como:

Sopra: Villa Oleandra di George Clooney, Lago di Como. Sotto: veduta lago di Como

di Franco Banchi

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instancabili cercatori di bellezza.

Quella serenata per due amanti e la Tra-viata sotto le stelle

Tra i musicisti impossibile non ricordare il celebre compositore ungherese Franz Liszt, che soggiornò tra Bellagio e Como con Marie D’Agoult per un semestre nel 1837. E proprio a Como, presso l’albergo dell’Angelo nacque la fi glia Cosima, poi sposa di Richard Wagner. Pochi giorni dopo la sua nascita, Liszt suonò al Teatro sociale di Como, in un programma che, come scrive un cronista del tempo, “eseguì maravigliosamente, e tanto si era investito nel suonarla che tutto si elettrizzava, la fi sonomia sua alteravasi, e cadendogli alla gota la sciolta capigliatura.”

“Finalmente il signor Liszt – prosegue Fran-cesco Della Torre - passò sul pianoforte gli improvvisi sopra i temi dati. Ne scelse alcuni e maestrevolmente gli eseguì con franchezza sull’istrumento, aggiungendovi capricci vari,

che fece maravigliare gli astanti (…). Io con-fesso il vero che ne re-stai soddisfattissimo di aver udito un sì eccel-lente pianista, e forse in Como non si udirà più un consimile.”

In una lettera mano-scritta, priva di data, indirizzata al conte Antonio Odescalchi

proprio alla partenza, Liszt ferma un ricordo particolare in cui si fondono ed esaltano i tre capisaldi del suo soggiorno lariano: paesag-gio, musica ed amore. Il grande musicista magiaro riporta alla memoria il momento in cui tre cantanti, in forma di serenata per i due

amanti, intonarono a Bellagio una pagina del Guglielmo Tell: “Non ho mai ascoltato nulla di comparabile a queste tre voci portate sull’acqua, che s’in-nalzano e si perdono nella notte stellata.”

Ed a proposito di musica è doveroso far riferimento a Villa Margherita, costruita

nel 1853 a Cadenabbia dal grande editore Giu-lio Ricordi, pare con i proventi del Trovatore. In questo luogo, che ospita ancora oggi piante rare, azalee, rododendri e rose, la tradizione vuole che Giuseppe Verdi, spesso ospite dell’a-mico editore, abbia composto parte delle arie della Traviata. La memorialistica dell’epoca racconta di “serate divine”, quando, sotto la luce della luna, chi passava nei pressi della villa poteva cogliere il magico incontro tra le armonie dell’arte umana – le musiche di Verdi che suonava la sua spinetta di fronte al lago – e le bellezze della natura.

Parole dagli innamorati del lagoSono innumerevoli, impossibile citarli tutti

oltre a Manzoni, i letterati innamorati del lago di Como.

Spesso i poeti a Como ci hanno lasciato il cuore. E non è soltanto un modo di dire. Luigi Pirandello passa da Como nel 1899, diretto all’ Università di Bonn, e mentre è ospite a casa di amici si innamora di una ragazza. Un amore infelice, come si intuisce dall’ acredine verso la misteriosa “bruna di Como” nella poesia Convegno:

Ahi, quella bruna - egli no ‘ l sa - maestra ora è di vizi e di sé locandiera...ma come può saperlo, se ogni sera davvero ancor s’ affaccia alla fi nestra ella e d’ amor gli parla ed è sincera?

Salvatore Quasimodo, ne La Dolce collina, inserita nella sua più celebre raccolta in versi (Ed è subito sera, 1942) ricorda con struggente malinconia un amore perduto:

Il mio deluso ritornol’asprezza, la vinta pietà cristiana,

In ordine: Franz List, Luigi Pirandello,

Salvatore Quasimodo

A destra: Teatro Sociale di

Como, Sala Bianca

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e questa pena nuda di dolore. Hai un fi ore di corallo sui capelli.Ma il tuo viso è un’ ombra che non muta.

Ma uno dei legami più forti con il Lago, il territorio e le persone che lo abitano è quello che, con i suoi versi, ci ha trasmesso la poetessa Alda Merini. Il padre era il fi glio di un conte di Como e la madre una contadina di Brunate. “Il mio cuore è legato ad un fi lo” – diceva spesso la Merini alludendo alla debolezza del suo muscolo cardiaco.” Qualcuno un giorno le ribatté: “Sì, al fi lo della funicolare.”

L’allusione alla panoramica, che copre circa 500 metri di dislivello tra Como e Brunate, oggi base di un’affascinante camminata dedicata proprio alla grande poetessa, “Si nasce non soltanto per morire – scrive la Merini - ma per camminare a lungo, con piedi che non cono-scono dimora e vanno oltre ogni montagna.” Metafora dell’ascesa che, in altri versi, viene incrociata e complicata dalle resistenze al ri-cordo poetico:

Sempre queste montagne come cervi che fuggono festosi dentro il sole evitano la memoriadi ogni uomo che è nemicodelle fronde del poeta.

Cinema: dai fratelli Lumière ad HollywoodQuello di Como è stato il lago d’elezione

anche delle più grandi personalità del cinema ben prima di George Clooney. Pochi sanno che già nel 1896 i fratelli Lumière realizzarono qui alcuni dei dei primi fi lmati: una competizione tra barche ed uno degli originari esperimenti di volo effettuato da Forlanini con il suo idro-plano.

È noto invece che a Villa Erba, dimora di famiglia, Luchino

Visconti passava le estati da ragazzo. Più tardi riadattò addirittura le ex-scuderie a sala di mon-taggio per il fi lm Ludwig. Nella stupenda villa ospitò spesso i suoi molti amici, tra cui Franco Zeffi relli, Helmut Berger ed Alain Delon. A Bellagio, nel 1960, girò poi alcune scene del suo fi lm Rocco ed i suoi fratelli.

Meno noto è che anche Alfred Hitchcock fu frequentatore abituale del Lario fi n dagli esordi dietro la macchina da presa. Hitchcock scoprì il Lario nel 1924, a 25 anni. Era l’aiuto regista di Graham Cutts per il fi lm Il peccato della puritana, ma un’autentica bufera impedì loro di girare. Lui però si innamora del lago, e se ne ricorda l’anno seguente per il fi lm d’esordio, Pleasure Garden. Nell’estate del 1925 torna a Como, questa vola come regista, per girare la luna di miele tra Virginia Valli, grande diva americana del muto, e Miles Mander. L’av-ventura italiana del fi lm è costellata di aned-doti rocamboleschi che Hitchcock racconta a Truffaut nel celebre libro intervista. In treno alla frontiera gli consigliano di non dichiarare la pellicola per evitare una tassa salata. Ma i doganieri la scoprono e la sequestrano, tocca ricomprarla. Un debito incredibile, non hanno nemmeno i soldi per pagare l’albergo: avevano prenotato Villa d’Este. Così Hitchcock decide di chiedere un prestito alla Valli, la vedette. Ma non ne ha il coraggio e ci manda la sua assistente, Alma Reville. L’anno dopo sarebbe diventata sua moglie Alfred e Alma si sposano nel dicembre del 1926 a Londra e il viaggio di nozze lo fanno proprio a Villa d’Este: questa volta, però, possono pagare il conto.

Impossibile enumerare tutte le altre pellicole, famose e non, che hanno utilizzato come loca-tion il lago di Como. Solo per citarne alcune:

Piccolo mondo antico, girata da Mario Soldati nel 1942; Allonsanfan

Alda MeriniSotto: Teatro Sociale di Como

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dei fratelli Taviani (1974); Mussolini ultimo atto, C. Lizzani (1974); Star Wars, episodio II (2002); Ocean’s Twelve (2004); Casino Royale, primo James Bond con Daniel Craig (2006).

Oasi aperta ai grandi della terraA proposito di pellicole, come non citare un fi lm

Luce del Giugno 1963 che ritrae i vari momenti del week-end che J.F. Kennedy trascorre a Bellagio, sempre accompagnato dall’entusiasmo straordinario di residenti e turisti. Due giorni di quiete e calore umano che precedono la sua visita uffi ciale a Roma, dove sarà ricevuto dal Presidente Segni e Papa Paolo VI. Quelle stupende foto in bianco e nero, scattate mentre, ad auto scoperta, si ferma a stringere la mano alla folle festante, appaiono emblematicamente contrastanti con quelle documenteranno, solo a pochi mesi dopo, il suo assassinio a Dallas.

Le sue parole a commento del soggiorno sono tanto essenziali quanto inequivocabili: “È il lago più bello del mondo!”.

D’altra parte la tradizione dei Presidenti statuni-tensi in visita sul lago di Como non era nuova. Nel 1929, prima di assumere la prestigiosa carica, anche Franklin Delano Roosevelt aveva soggiornato nella perla del Lario, presso il Grand Hotel Villa Serbelloni a Bellagio.

Ma i soggiorni dei politici sul lago di Como a volte possono tingersi di giallo. È il caso del viaggio com-piuto da Winston Churchill in Italia nel Settembre 1945. Dopo aver vinto una storica guerra e perso

A fi anco: Alfred Hitchcock

Sotto: Winston Churchill che dipinge

(ricostruzione)

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le elezioni, lo statista inglese, con tanto di robusta scorta e sotto il falso nome di “colonnello Warden”, trascorse alcuni giorni a Villa Donegani a Moltrasio. Qui Churchill fece tutto fuorché riposarsi. Appa-rentemente intento alla pittura, suo hobby preferito, con tutta probabilità sarebbe stato invece intento a dare la caccia al suo compromettente epistolario con Mussolini.

Anche le strade politiche europee si incrociano con il lago di Como. Qui, nel 1959, Konrad Adenauer, cancelliere tedesco ed uno dei fondatori della comu-nità europea, acquistò Villa la Collina a Cadenabbia, che ancora oggi fa parte della fondazione omonima. In questa oasi di grande riservatezza, circondata da un parco di 27.000 metri quadrati, sono passati i grandi della terra per chiedere un consiglio o pre-parare progetti di grande respiro. Adenauer, anche in età avanzata, amava percorrere gli imponenti viali, ammirando il lago e le montagne circostanti, senza dimenticare una salutare partita a bocce, sua autentica passione.

Il sogno è la lucePer raggiungere la quintessenza di questo

paesaggio ci preme in ultimo far riferimento, a livello pittorico, a Mallord William Turner. Attraverso numerosi schizzi di viaggio del 1819 e, soprattutto, grazie ai più noti acquerelli del 1843, il pittore romantico inglese, affascinato da una meteorologia lontana dai plumbei grigiori londinesi, riproduce Bellagio en plein air. E gli

bastò respirare l’aria del lago di Como per cambiare la de-bolezza ed inondarla di luce.

A livello poetico fu invece lo statunitense Henry Wad-sworth, che, nell’Ottocento, scrisse, probabilmente, i ver-si più memorabili sul lago nella sua poesia dal titolo Cadenabbia: “Mi chiedo, è questo un sogno? Svanirà tutto quanto nel nulla? V’è una terra di tale supremazia perfetta bellezza altrove?”

Il sogno e la luce: una delle combinazioni più affascinanti per aprire lo scrigno del lago.

Sopra: Henry Wadsworth LongfellowA fi anco: Villa Serbelloni a Bellagio

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Missoltini pesci essiccati del lago di ComoI Missoltini, gli agoni essiccati, detti in dialetto misultitt o missultin, erano un tempo una preziosa risorsa alimentare per gli abitanti del lago di Como, il particolare procedimento di lavorazione ne permetteva la conservazione per oltre un anno: questa loro caratteristica ne ha fatto anche una ricercata merce di baratto nei secoli passati. La prima cosa da fare per preparare i misultitt e pulire gli agoni, bucandone il collo e togliendo le interiora, le quali non vanno buttate perché sono la base di un gustoso piatto: il Culadur. Per ogni kg. di pesce fresco da lavorare, occorrono 80 grammi di sale; si procede alternando a strati in una bacinella il pesce ed il sale, coprendo alla fi ne il tutto con uno strofi naccio e lasciandolo riposare per 12 ore, durante le quali si forma la salamoia; si rigirano e si lasciano riposare per altre 12 ore; con un ago curvo ed uno spago, si realizzano delle collane di pesci (le sfi lz); una volta infi lati, si sciacquano per togliere la salamoia, e con un bastone di bambù detto sbadaee si

dà alle sfi lz la caratteristica forma a bocca aperta (da qui il termine sbadaee: sbadiglio). Infi ne li si appende ad essiccare: un paio di giorni sono suffi cienti. Quando i missoltini sono ben secchi, si sfi lano dalle collane, gli si batte la testa per schiacciarla e si mettono in un secchiello di legno o latta, avendo l’accortezza di sistemarli a ventaglio e con la pancia all’insù, ai pesci vanno alternate alcune foglie mature di alloro. Messo il coperchio al secchiello, si pongono sotto pressa col tore (torchio) o con la leva jraneesa (leva francese), avendo l’accortezza di ripulire periodicamente l’olio che emerge, altrimenti i pesci lo riassorbono andando a male. Se si usa il torchio bisogna dare periodicamente dei giri di vite, mentre la leva jraneesa, la pressione che esercita è continua. Pescati solitamente tra maggio e giugno, gli agoni trasformati in missoltini sono pronti per la consumazione ad ottobre. Si mangiano preferibilmente con un goccio di aceto, di olio ed una fetta di polenta: una ricetta da pescatori. Tratto dal libro: Tacàa al fööch di Lucia Sala - Edizioni Cesarenani

La polenta Toc piatto tipico di BellagioIl Toc piatto di polenta tipico della tradizione bellagina, veniva un tempo preparato solo in occasione di matrimoni e battesimi, i contadini usavano quello che essi stessi producevano: farina, burro ed il formaggio ricavati dal latte delle loro mucche. Vista la notevole quantità di burro e formaggio necessari, il Toc era un piatto ricco, adatto a festeggiare le occasioni speciali. Si metteva il paiolo col Toc al centro del locale e gli invitati vi si sedevano intorno a cerchio, come si fa ancora oggi. La ricetta del Toc: due etti di burro, due etti di formaggio e mezzo litro di acqua per persona; bisogna inoltre usare la farina di granoturco nostrana, altri generi di farina non sono adatti in quanto non assorbono bene il burro ed il formaggio.

Fondamentale è dosare bene il calore in modo che la polenta non si attacchi al paiolo. Quando quest’ultima è cotta, ci si aggiunge il burro e poi il formaggio, tagliati a pezzetti, amalgamandoli a poco a poco, rimestando il tutto continuamente con il rodech (bastone di nocciolo). Se si sbaglia un passaggio, il toc rilascia il burro e non è più mangiabile. Non è una preparazione semplice, solo ad un esperto riesce. Terminata la consumazione e svuotato il paiolo, si procede alla preparazione del Ragell: l’ingrediente base è il vino rosso a cui si aggiunge, cannella, chiodi di garofano, noce moscata, zucchero, della scorza d’arancia e di limone grattugiata ed una mela tagliata a pezzi. È curioso il fatto che il paiolo non venga pulito perfettamente e che si lascino sulle pareti gli avanzi del toc, i quali daranno il sapore caratteristico alla bevanda. Il maestro del toc rimette dunque il paiolo sul fuoco col vino e le spezie ed a questo punto, grazie al calore, l’alcool contenuto nel vino evapora e si incendia, creando uno scenografi co effetto di paiolo in fi amme. Esauriti i vapori alcolici, il ragell è pronto per la consumazione. Il paiolo viene quindi tolto dal fuoco e rimesso al centro del locale dove, servendosi di un mestolo di legno, si attinge la bevanda. Versata ancora fumante in una ciotola di legno, si fa il passamano della stessa tra i vari commensali seduti nuovamente in cerchio tutt’attorno al paiolo: una sola ciotola per tutti da cui a turno si sorseggia. Ed è in questo rito, in questo condividere che, favorita anche dai poteri del vino, la socializzazione del gruppo raggiunge l’apice.

Tratto dal libro: Tacàa al fööch di Lucia Sala - Edizioni Cesarenani

Como a tavola! a cura di Franco Banchi

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Ricette di pesce del LarioCuladur: si utilizzano le interiora di pesce, scarto della lavorazione dei missoltini. Ingredienti: olio, cipolla, pangrattato, buccia di limone, sale, pepe, vino bianco secco, formaggio grattugiato. Rosolare la cipolla con l’olio, aggiungere i culadur e rimestare per almeno 5 minuti, fi nché il loro originale colore rosso non si tramuta in marrone; aggiungere una spruzzata di vino bianco, il pangrattato ed il formaggio, sale e pepe, la buccia di limone e fare rosolare ancora per altri 5 minuti. La culadura è ottima spalmata su delle fette di pane o di polenta. Agoni o alborelle in carpione: il carpione è un condimento che solitamente accompagna gli agoni o le alborelle. La base di questa preparazione è un timo selvatico (pess) che nella zona del lago cresce sui muretti e tra le rocce. Ingredienti: timo in abbondanza, uno spicchio di aglio, una cipolla, canne di cipolla, salvia, un bicchiere di aceto, un bicchiere d’acqua, due cucchiaiate di olio di oliva, sale, agoni o alborelle. Raschiare gli agoni freschi, togliere le interiora e lavarli. Le alborelle è, invece, suffi ciente lavarle. Friggerli, scolarli e metterli in una capiente marmitta. In un tegame fare insaporire l’olio di oliva con gli spicchi di aglio schiacciati e la cipolla tagliata a fette sottili, poi unire le canne di cipolla, le foglie di salvia, l’aceto e l’erba di pess. Dall’inizio dell’ebollizione calcolare 5 minuti, poi versare il tutto sopra i pesci. Gli agoni o le alborelle in carpione si gustano dopo 24 ore a temperatura ambiente. Sarach: è un grosso pesce chiamato pich (pigo) che abitualmente si lavorava salandolo e facendolo poi essiccare col ventre aperto, alla maniera del baccalà. Particolarmente saporito, il sarach si mangiava con una fetta di polenta. Riso e fi letto di pesce: per ogni persona servono sei fi letti di pesce, possibilmente persico; servono inoltre un uovo, farina bianca, pangrattato, un limone, olio, burro, sale, formaggio grattugiato, aglio e delle foglie di salvia. Passare i fi letti dapprima nella farina, poi nell’uovo ed infi ne nel pangrattato. Friggerli in un tegame con olio e burro, facendoli dorare da ambo le parti. Nel frattempo, cuocere il riso in acqua salata, scolarlo e prepararlo sul piatto, cospargendolo di formaggio grattugiato; a questo punto, per decorare, disporre i fi letti sopra il riso come i petali di un fi ore. In un tegame a parte rosolare abbondante burro con foglie di salvia ed aglio tagliato a fettine, versarlo sopra il piatto già decorato e servire subito. Cavedano in bianco: era il modo più semplice e comune per cucinare il pesce. Ingredienti: un cavedano, una cipolla, una gamba di sedano, una carota, una foglia di alloro, sale, pepe, olio, acqua e aceto. Squamare e pulire dalle interiora il pesce, metterlo in una pentola con il gambo di sedano, la carota e la cipolla pulite, l’alloro ed i condimenti; aggiungere acqua ed aceto in parti uguali fi no a coprire il pesce. Dopo aver portato l’acqua all’ebollizione, fare cuocere a fuoco lento per circa 40 minuti: il tempo di cottura dipende dalle dimensioni del pesce. Un tempo si cuoceva sul camino, appendendo la pentola alla catena e lasciando bollire l’acqua anche per due o tre ore: le lische e la testa divenivano morbide a tal punto da poter mangiare tutto il pesce senza sprecare nulla.Tratto dal libro: Tacàa al fööch di Lucia Sala - Edizioni Cesarenani

Dolci del lago di ComoLa Miascia è un dolce povero di antica origine; gli ingredienti sono: pane raffermo (500 g), latte (1/2 litro), uova (n.2), amaretti (n.3), mela (n.1), pera (n.1), pinoli (20 g), uvette (50 g), liquore (1 bicchiere), burro (30 g), farina (1 cucchiaio), cioccolato (50 g,), zucchero (75 g). Preparazione: Tagliare il pane a fette unire al latte in una zuppiera per circa 2 ore, aggiungere le uova, le uvette, i pinoli, la mela e la pera tagliate a fette, lo zucchero, gli amaretti sbriciolati e il liquore. Lavorare l’impasto con il cucchiaio e versare in una tortiera imburrata e infarinata, spolverare l’impasto con lo zucchero e il cioccolato in scaglie e guarnire con il burro a fi occhi. Cuocere in forno a 200°C per 15 minuti, quindi a 150°C per altri 15 minuti. Sfornare e servire tiepida o a temperatura ambiente. La Cutizza è un dolce diffuso in tutto il territorio lariano. Gli ingredienti sono: farina bianca (200 g), latte (180 g), olio per

friggere, uova (n.3), scorza di limone, zucchero vanigliato, sale. Preparazione: prendete una ciotola e rompete le uova, unite la farina, un pizzico di sale, la scorza di limone e il latte, lavorate l’impasto fi no ad ottenere una pastella fl uida ed omogenea. Prendete una padella e scaldate l’olio da frittura, versate la pastella nella padella, fate friggere da un lato quindi rivoltate il composto per completare. Terminata la frittura cospargere con lo zucchero vanigliato. La rüsümada (o rosümada) è una antica bevanda, tonica ed energetica. È diffusa in tutta la Lombardia settentrionale. Gli ingredienti sono: uova (n.4), zucchero (4 cucchiai), vino rosso (4 bicchieri). Preparazione: montare i tuorli con lo zucchero e sbatterli fi no a schiaritura, montare gli albumi a neve, inserire i tuorli fi no ad ottenere una crema,

aggiungere il vino lentamente continuando a rimestare il composto. Servire subito.

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l Serruchon, da cui prende il nome l’arrondimiento come dal più cospicuo de’

suoi rilievi, è una lunga erta montana tutta triangoli e punte, quasi la groppa-minaccia

del dinosauro: di levatura pressoché orizzon-tale salvo il giù e su feroce di quelle cuspidi e relative bocchette, portelli del vento. Parete altissima e grigia incombe improvvisa sull’idil-lio, con cupi strapiombi: e canaloni, fra le torri, dove si rintanano fredde ombre nell’alba, e vi persistono, coi loro geli, per tutto il primo giro del mattino. Dietro nere cime il sole improv-visamente risfolgora: i suoi raggi si frangono

sulla scheggiatura del crinale e se ne diffon-dono al di qua verso il Prado, scesi a dorare le brume della terra, di cui emergono colline, tra i velati laghi.”1 Il lettore, a cui un incipit che maliziosamente più che tradizional-mente precisa sin dalla prima frase il tempo - tra il 1925 e il 1933 - e il luogo - il Ma-radagàl - dell’azione chiede di immergersi in un’atmosfera pur immaginosamente su-damericana, è colto a poche pagine di di-stanza da un senso di

spaesamento: il paesaggio dell’esotico paese, evocato anche tramite l’uso di uno spagnolo maccheronico, gli sembra stranamente familia-re ed è colto da un senso di disagio. Ci penserà l’autore ad esplicitare, subito dopo, l’ars allu-siva e il travestimento geografi co-culturale su cui si basa tutto il romanzo: “Qualcosa di simile, per il nome e più per l’aspetto, al manzoniano Resegone.”2 Se confrontiamo il paesaggio non solo ripetutamente tratteggiato, ma sovente minutamente pennellato nel romanzo con quello dichiaratamente nostrano delle prose giornalistiche di Gadda, ci accorgiamo che essi sono sovrapponibili: “E il grigio e nero monte si spiccava su feroce, come agugliata schiena d’un sauro, dalle specchiere serene dei laghi, di sopra agli sbrani della nebbia.”3 Anche in

NELLA TERRA DEI CALIBANI

GUTTURALOIDICON GADDA IN BRIANZA ALL’OMBRA DI UNA MONTAGNA DI BOZZOLI

di Carlotta Gradi

Carlo Emilio Gaddanegli anni Venti

Carlo Emilio Gadda negli anni Settanta

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questo caso l’autore non manca di denunciare il rapporto osmotico e al contempo distanziato e dissacrante con quello che è per lui non soltanto il livre de chevet, ma il romanzo ideale, modello ormai irraggiungibile e per questo profanato nell’impossibilità di riscriverlo, I promessi sposi, ed aggiunge: “Talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte…”4

Come è noto, la biografi a di Carlo Emilio Gadda è profondamente, e al tempo stesso do-lorosamente, legata ai luoghi manzoniani. Il pa-dre, al prezzo di grandi sacrifi ci per la famiglia, che Carlo Emilio fi sserà nel ricordo fortemente simbolico del freddo5 patito nell’infanzia e nel risentimento per le privazioni (“spauriti e mal vestiti” sono nella trasfi gurazione narrativa delle vicende legate alla costruzione della villa i “tre nuovi fi glioletti del Signor Francesco, Mar-chese di Longone”6) aveva fatto edifi care una casa a Longone sul Segrino, un borgo comasco ai piedi del monte Cornizzolo, con vista sui laghi brianzoli e sul monte Resegone. La “fot-tuta casa di campagna”,7 irrinunciabile segno di appartenenza alla buona e laboriosa borghesia lombarda per Francesco Ippolito, contribuì non poco al dissesto fi nanziario della famiglia, insieme ad ulteriori incauti ed anacronistici investimenti in un altro settore fortemente

identitario del passato brianzolo: l’allevamento di bachi da seta. La villa diventa allora nell’im-maginario gaddiano il precipitato dei diffi cili rapporti con i genitori da cui non si sente ac-cettato, compreso, amato e che lo predestinano, con un rifi uto certamente esasperato dalla sua sensibilità acuita, al fallimento, a cui Gadda al-lude con la citazione virgiliana “cui non risere parentes”.8 E il Resegone/Serruchon, presenza totemica, che quasi ossessivamente si staglia all’orizzonte nel campo lungo lombardo come nell’inquadratura maradagalese, diventa una presenza ominosa, il memento di un fallimento predeterminato: “E il totem orografi co della manzoneria lombarda mi pareva levantarsi, gastigo ingente, da un fallimentare ammucchio di bozzoli; emerso dal vaporare delle fi lande, di tutte le bacinelle della Brianza: o dell’Adda o del Brembo”.9 E, ancora, nella Cognizione “La dentatura della montagna rovesciata” si specchia “sotto liquefatte nuvole”10 nel corri-spettivo latino-americano del lago di Oggiono; oppure “nel cielo orientale […] persiste, totem orografi co di sua gente”.11

La lettura di Gadda non può pre-scindere dall’inquadramento dell’intellettuale prima che del romanziere in una tradizione

Gadda con la sorella e i genitori davanti alla casa di campagna

Casa in campagna di Gadda

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razionalistica profondamente radicata in Lom-bardia, sia tramite la forte impronta lasciata dall’Illuminismo che attraverso la vocazione storico-oggettiva del Romanticismo di scuola manzoniana; l’adesione alla realtà, lo zelo co-noscitivo, l’attitudine all’indagine che discen-dono dai modelli gnoseologici e letterari sono, tuttavia frustrati dal caos di un reale che non si lascia più ricondurre a un disegno razionale. Da qui l’esplosione linguistica gaddiana, non gratuito divertissement barocco, ma acuminato strumento critico che, grazie agli “acidi corro-sivi della scrittura”,12 cerca di mettere a nudo le contraddizioni della realtà, l’ipocrisia e l’orrore nascosti sotto la patina di decoro, nel sogno consapevolmente vano del ripristino di un ordine razionale. La ‘cognizione’ e il ‘dolore’, sono dunque i due poli dell’esperienza gaddiana del reale, che si rifl ettono ovviamente in ogni pagina dell’autore; anche il paesaggio diventa allegoria di questo sofferto rapporto fra furore conoscitivo e irriducibilità dell’oggetto della conoscenza, che ha a che fare con la vita umana, e, come tale, è fatto di dolore, morte, incom-prensibilità, disordine. La Lombardia, e in par-ticolare la Brianza, del passato, del buon tempo antico, diventano nel sistema gaddiano una sorta di Arcadia, di mondo idillico in cui l’uomo è in perfetta armonia con la natura: “D’estate, invece, il popolo dei pioppi, unanime, trasco-lorava nella sera: le raganelle, dai fossi, dalle risaie, sgranavano dentro il silenzio il dolce monile della sera: con un cauto singhiozzo la rana, per più lenti intervalli, salutava lo Zaffi ro della stella Espero, tacitamen-te splendida. Che s’era affacciata

alla ringhiera dei pioppi.”13 All’interno di questo mondo mitico il nucleo abitativo per eccellenza era la cascina, che sapientemente organizzava il territorio in modo razionale, geometrico: “Nella campagna una ragione profonda, antica. L’ordine geometrico e la dirittura delle opere […].”14

Gadda nelle vestigia dell’antico pae-saggio contadino della sua terra riconosce con nostalgia una ratio che ormai non c’è più: il lavoro. Era proprio il lavoro, l’opera umana, il criterio e l’unità di misura che pianifi cava e modellava il territorio; così, “ogni cascina si distanziava dall’altra in ragionevole misura, quanto comportava cioè la facoltà del lavoro: quanto poteva adempiere di lavoro una famiglia di contadini […].”15 Egli riconosce, insomma, nella storia del paesaggio l’eco del mos maio-rum e il rifl esso dei valori cari all’etica illumi-nistica. Si tratta, però ormai solo di tracce, di memorie di un passato che non tornerà più e che, signifi cativamente è aggredito da licheni, muschi, insetti, ragnatele, segno di una inelutta-bile corruzione, di un’inarrestabile decadenza.16 Il confronto con la Brianza contemporanea, vit-tima della dissennata furia edilizia di rampanti e assai poco misurati parvenus quali “fabbricanti di selle di motociclette arricchiti”, “qualche ri-dipinto conte o marchese sbiadito” e, con amara allusione al fi uto negli affari del padre, “bozzolieri falliti”17 è talmente dissonante da far defl agrare lo stile dell’ingegnere in un tracimante

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catalogo che riproduce sulla pagina l’eccesso architettonico delle nuove ville: “Poiché tutto, tutto! era passato per capo degli architetti pastrufaziani, salvo forse i connotati del Buon Gusto. Era passato l’umberto e il guglielmo e il neo-classico e l’impero e il secondo impero; il liberty, il fl oreale, il corinzio, il pompeiano, l’angioino, l’egizio-sommaruga e il coppedè-al-essio […]”.18 Se la ragione e il lavoro erano stati i principi ispiratori dell’edilizia rurale lombar-da, adesso è un estro tanto appariscente quanto poco funzionale a dettare forme e decori: “E ora vi stava lavorando il funzionale novecento, con le sue funzionalissime scale a rompigamba, di marmo rosa: e occhi di bue da non dire, veri oblò del cassero, per la stireria e la cucina; col tinello detto offi ce […] Coi cessi da non poterci capire se non incastrati, tanto razionali erano, di cinquantacinque per quarantacinque; […] Con le vetrate a ghigliottina uno e sessanta larghe nel telaio dei cementi, da chiamar dentro la montagna ed il lago, ossia nella hall, alla quale inoltre conferiscono una temperatura deliziosa: da ova sode.”19

Il travestimento geografico della Brianza che Gadda, come abbiamo in parte già visto, attua ne La cognizione del dolore rende il testo un vero romanzo a chiave in cui ogni città, borgo, fi ume, lago o monte dal nome spa-gnoleggiante adombra un preciso corrispettivo lombardo; abbiamo già incontrato il Serruchon (da serruchar, segare, in spagnolo, con suffi sso

accresciti- vo che riecheggia

l’italiano Resegone). Allo stesso modo, nel romanzo, alla Cordillera corrispondono le Alpi, a Terepàttola Lecco e alla dolomite di Terepàttola la Grigna, a Prado Erba, alla Néa Keltiké la Lombardia, a Novokomi Como, a Lukones Longone, al Seegrün il Segrino,20 a Modetia Monza. Naturalmente, la locale metropoli, Pastrufazio, cela maliziosamente Milano: Gadda avrebbe reinventato il nome della capitale lombarda fondendo ‘pastrügn’ e ‘facere’; Milano sarebbe, insomma il luogo in cui si fanno pasticci, affari approssimativi o addirittura loschi. I pastrufaziani proprietari delle villette sui laghi, come si conviene ai rampolli della classe dirigente maradagalese, hanno ovviamente frequentato il Presidente Uguirre,21 travestimento sudamericano del milanesissimo liceo Parini, di cui l’autore fu alunno e poi docente, di Matematica. La loca-lità marittima a cui i keltikesi si rivolgono per benefi ci soggiorni o per l’approvvigionamento di crostacei e di olio d’oliva, Fuerte del Rey,22 altro non è che la più domestica Forte dei Mar-mi, di cui l’autore fu frequentatore. Non man-cano alla Néa Keltiké eroi e poeti nazionali: ed ecco balenare inaspettatamente da un ritratto la “guardata corusca del generale Pastrufacio”, un libertador che, in obbedienza all’iconografi a consacrata, appare munito di poncho, fazzo-letto al collo e berretto “tra familiare e dogale, cilindrico”,23 esattamente come Garibaldi (un ‘pasticcione’, o meglio un generatore di risorgimentali pasticci, dun-que, nell’ottica gaddiana, vista la quasi comple-ta sovrapponibilità del nome con

Il Resegone

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quello del capoluogo); quanto al vate mara-dagalese, Carlos Caçoncellos,24 nonostante le allusioni a Carducci, egli sembra attagliarsi perfettamente a D’Annunzio, così come la sua villa-sacrario, la Maria Giuseppina, pare mo-dellata sul Vittoriale. Lontano dalle appartate e bucoliche gioie della maradagalese Brianza, a Babylon,25 toponimo che nel camoufl age gad-diano assegna a Roma il primato del disordine, della corruzione e del vizio, tuona probabilmen-te Akatapulqui, “il dio vulcano adorato dagli Incas, il dio di zolfo e di fi amma… che gigan-teggia e sparacchia”26 in cui non sarà diffi cile riconoscere un Mussolini ‘accattapulci’ capace solo di amplifi care miseri risultati grazie alla retorica di regime, nel corso di “ventun anni di boce e di urli soli”, come sintetizza amaramente lo stesso autore in Eros e Priapo.

Che cosa può produrre una terra che, a dispetto della sua presunta posizione geogra-fi ca, vanta un clima continentale, i cui rigori e i cui fl agelli, spesso ingigantiti con procedimento eroicomico, rimandano ancora alla Brianza?27 Produrrà evidentemente frutti assai padani, primo fra tutti il “banzavois”, cereale principe dell’alimentazione maradagalese, che ricorda molto da vicino il nostro granturco; il nome stesso, di invenzione gaddiana, camuffando maccheronicamente un’espressione dialettale panz vöj, pance vuote, quelle dei contadini, de-nuncia l’equivalenza. Nella Cognizione anche ai tavoli dei signori si servono piatti tipicamente meneghini, primo fra tutti l’ossobuco con ri-

sotto, pietanza certo sapida, ma impegnativa, che necessita poi di una laboriosa digestione: “ mentre lo stomaco era tutto messo in giulebbo, e andava dietro come un disperato ameboide a mantrugiare e a peptonizzare l’ossobuco.”.28 Nell’epica del cibo, che mitizza antifrastica-mente le funzioni fi siologiche e smaschera la degradazione della vita umana ridotta a ingorda ricerca di ciò che è necessario alla sopravvi-venza materiale,29 un formaggio erborinato, il “croconsuelo” occupa il posto d’onore: “grasso, piccante, fetente al punto da far vomitare un azteco, con ricche muffe d’un verde cupo nella ignominia delle crepe, saporitissimo […].”.30 Come non riconoscervi il nostrano gorgonzola? E ancora lucci, tinche, mandorle, pere butirro, ciliegie, nespole, amarene, funghi; tutto nella Cognizione, che venga dal lago, dal frutteto o dal bosco, ha un gusto tutto italiano. Perfi no l’infestante per eccellenza dell’immaginario gaddiano, la robinia, tanto detestata perché importata dall’America del Nord nella Pianura Padana solo nel XVII-XVIII secolo e quindi segno del cedimento dell’antico equilibrio arcadico di fronte al miope utilitarismo e al disordine, alligna e prolifera gagliarda anche

Targa in via Manzoni a Milano

Copertina del libro di Gadda“La cognizione del dolore”

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nel Maradagàl: “La robinia tacque, senza nobiltà di carme, igno-ta al fuggitivo favore delle Driadi, come alla fi stola dell’antico bi-corne: radice utilitaria e propagativa dedotta in quella campagna dall’Australasia e su-bito fronzuta e pun-gente alla tutela dei broli, al sostegno delle ripe. Fu per le cure d’un agrònomo che speculava il Progresso e ne diede sicuro il presagio, vaticinan-do la fi ne alle querci, agli olmi, o, dentro i forni della calcina, all’antico sognare dei faggi.”31 Per la cro-naca, l’agrònomo in questione altri non è che Alessandro Manzoni.32

“Nella terra che avrebbe potuto essere terra e patria anche a me, come a tutti era, e c’erano per i chiari sentieri le ragazze delle fi lande, con un canto, con a mano il secchiello della refezio-ne: contadini robusti, sudati, dentro la luce di operosi mattini […] E al ristare di ogni folata gli aspetti della mia terra. Avrebbe dovuto riescir madre anche a me, se non era vano il comanda-mento di Dio, come riescì a tutti, al più povero, al più sprovveduto, e fi nanco al deforme, o a chi risultò inetto al discernere. Ma il dolce declino di quei colli non arrivò a mitigare la straordi-naria severità, il diniego oltraggioso, con cui ogni parvenza del mondo soleva rimirarmi. Ero dunque in colpa, se pure contro mia scienza. […] Gli altri erano sani e allegri, portavano in sé una certezza; si affi davano al loro caso.”33 Nel rapporto con la Brianza Gadda va ben oltre il leopardiano “natìo borgo selvaggio”: l’autore si sente discriminato e ripudiato da quella che con struggente malinconia chiama la “sua” terra, così come si sente rifi utato dalla madre. E si vendica, della madre, la cui uccisione con-cretizza ne La cognizione del dolore le pulsioni e il risentimento del fi glio, e della terra-madre, sottoponendo i suoi abitanti ad una caricaturale ma feroce ed attenta ispezione. Sotto la lente del loro conterraneo i brianzoli diventano allora

“pitecantropi-granoturco”,34 “calibani guttura-loidi.”35 L’élite sociale e culturale che è solita villeggiare in Brianza non appare più evoluta né capace di mettersi in discussione: “Tutti erano consideratissimi! A nessuno mai, era mai venu-to in mente di sospettare che potessero anche essere dei bischeri […].”36 I giovani virgulti non fanno intravedere prospettive più rosee per il futuro: “Venuti giù, giù, dai formaggini fetenti del Monte Viejo alle più trombose bocciature dell’Uguirre, muti e acefali in castigliano, reprobi al greco, inetti alle istorie, col cervello sotto zero in geometria e in aritmetica, non suffi cienti nel tiralinee, perfi no con la geogra-fi a erano insuffi cienti! bisognava sfi atarsi per delle settimane, per degli anni, a fargli capire che cos’è una carta del vittorioso Maradagàl! e come si fa a far le carte: e ancora ancora non ce la facevano, poveri tesori!”37 Anche la fonazione e l’eloquio rendono i keltikesi primitivi e grotteschi: “bozzolieri in marsina tumefatti dalla prosopopea delle virtù keltikesi al completo, con undici bargigli, se pure inetti a spiccare una sola zeta dai denti”;38 il peone comunica “per alcuni urti d’una fonazione tene-brosa in ö e in ü”39 oppure “con i borborigmi di un ventriloquio paleo-celtico, con susseguenze di boati gutturali a tipo belluino.”40 E le brian-zole? Non ci sono una Silvia o una Nerina a

La famiglia Gadda a Pegli: da sinistra Carlo Emilio Gadda, la madre Adele Lehr, il padre Francesco Ippolito; a destra: la sorella minore Clara

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riparare, almeno in parte, alla trogloditica volgarità dei conterra-nei maschi? Le tante Beppa, Peppa, Giu-seppina, Pina che percorrono i sentie-ri della Cognizio-ne del dolore non risollevano molto le sorti del loro popo-lo: spesso deformi, sempre petulanti e invadenti, parassi-tizzano la villa dei Pirobutirro con la complicità dell’in-dulgente Signora. Del resto “la donna è un gran mistero […] le donne bisogna studialle bene prima de comincià […]” farà dire Gadda a un personaggio del

Pasticciaccio, e, forse per questo, il nostro non cominciò nemmeno, restando psicolo-gicamente bloccato alla famiglia d’origine. Nei ricordi brianzoli di Gadda si imprime in maniera indelebile, però un singolare e forse perturbante archetipo femminile: “La loro donna di servizio, destando in Carlo Emiliuccio una certa curiosità, pisciava regolarmente sul prato brianzolo stando all’impiedi come le più provette brodose signore de’ cornuti quadrupedi brianzoli. Era una donna brianzola, onesta e timorata, fi no appunto da poter far a meno di quell’e-lemento del dessous che non consentirebbe a una ragazza, benché brianzola, di poter gradevolmente mingere stando all’impiedi. Il gorgogliante ruscelletto formava sul pra-ticello francescano un bello e spumeggiante laghetto e poi decadeva a terrorizzare le formiche del formicaio, nella di cui tra-dizione orale e scritta credo debba vivere ancor oggi il mito platonico e mosaico del diluvio. ‘La Marietta fa la piscia in piedi’, è questo uno dei più cari ricordi d’infanzia di Carlo Emiliuccio, una di quelle frasi che ri-tornano sulle labbra secche ed amare, dopo di esser fi orite, strano fi ore, dalle labbra e dagli occhi e dall’anima del fanciullo, che

stupiva sogni purissimi; e viveva nella cara Brianza, semplice e franceschiella e popo-lata di meccanici, di idraulici di pompieri e di Mariette.”41 E la vendetta del fi glio è completa.

Note1. Gadda Carlo Emilio, La cognizione del dolore, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1987, pp. 18-19.Nelle seguenti note ci si riferirà al romanzo, nella stessa edizione, con C.2. C., pp. 19-20.3. Gadda Carlo Emilio, Le meraviglie d’Italia, Dalle specchiere dei laghi, p. 20. Nelle seguenti note ci si riferirà alla raccolta, nella stessa edizione, con M.I.4. Ibidem.5. “Se altri avesse lasciato dondolar la gamba, bimbo irrequieto, o avesse tentato di stropicciarsi le mani diacce da poter sostenere la sua penna…” M.I., Dalle specchiere dei laghi, p. 22.6. Gadda Carlo Emilio, Villa in Brianza, Milano, Adelphi, 2007, p. 23.7. Così viene defi nita la villa in una memoria autobiografi ca dell’autore dettata nel 1963.8. Cui non risere parentes è il titolo di un frammento sulla rigidità dell’educazione ricevuta, che costituisce per Gonzalo una sorta di “oroscopo tragico”. Si tratta del verso 62 della IV Ecloga.9. M.I. Dalle specchiere dei laghi, p. 20.10. C., p. 281.11. C., p. 413.12. Elio Gioanola, Storia letteraria del Novecento in Italia, Torino, SEI, 1983, p. 292.13. M.I., Terra lombarda, p. 93.14. Ivi, p. 95.15. Ivi, pp. 93-94.16. “ […] e a me la buona casa lombarda apriva di là dal portone l’elisio suo parco. Alti pini, a cono, dal prato; neri, a tre, decoro e triade di meditanti fi losofi . L’onnipresente cicala. La ninfa di pietra grigia da mola, oltre i mirti: e, nei lauri, galeato il velite e loricato, sogno romuleo, squame d’un’ammirata fortitudine, dove immorde il lichene.” M.I., Dalle specchiere dei laghi, p. 17.17. C., pp. 42-43.18. Ivi, pp. 45-46.19. Ivi, pp. 47-48.20. I riferimenti ai laghi lombardi (Como, Pusiano, Annone, Segrino) sono capillari nella Cognizione; cfr., per esempio, C., p. 19, p. 129, p. 281.21. Ivi, p. 327.22. Ivi, p. 86.23. Ivi, p. 141.24. Ivi, p. 57.25. Ivi, p. 85.26. Ivi, p. 218.27. Cfr. C., pp. 6-8, in cui vengono evocate siccità, pioggia e grandine.28. C., p. 346.29. Il cibo in Gadda spesso sostituisce o assorbe in sé l’eros.30. C., p. 39.31. Ivi, pp. 111-114.32. Manzoni amava vantarsi, pare, di avere introdotto le robinie in Italia molto più di quanto si vantasse del romanzo. Allo stesso Fauriel chiese dei semi di questa pianta, che riteneva preferibile al castagno.33. M.I., Dalle specchiere dei laghi, pp. 21-22.34. C., p. 319.35. Ivi, p. 302.36. Ivi, p. 343.37. Ivi, p. 327.38. Ivi, pp. 322-323.39. Ivi, p. 136.40. Ivi, p. 362.41. Gadda Carlo Emilio, Villa in Brianza, cit. pp. 24-25.

Lapide della tomba di Carlo Emilio Gadda

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iuseppe Terragni nasce a Meda, nell’attuale provincia di Monza e Brianza, nel 1904. Si laurea al

Politecnico di Milano nel 1926 e un mese dopo costituisce, assieme a Lu-

igi Figini, Adalberto Libera, Gino Pollini, Guido Frette, Sebastiano Larco e Carlo Enrico Rava, il Gruppo 7 che nel 1928 si amplierà nel MIAR (Movimento Italiano per l’Architettura Razionale). Terragni sarà uno dei più importanti esponenti dell’architettura razionalista italiana.Il dibattito sul rinnovamento dell’architettura negli anni dopo la prima guerra mondiale è vivacissimo. È fondamentale la creazione nella Repubblica di Weimar della scuola del Bauhaus (Casa del costruire) da parte di Walter Gropius nel 1919. La scuola è un’offi cina di idee che rivoluzionano la grafi ca, la pubblicità, l’indu-strial design, l’architettura e l’urbanistica. Vi insegnano, oltre a Gropius, maestri come Vasilij Kandinskij, Paul Klee e Ludwig Mies van der Rohe. Da qui inizia il Movimento Moderno nell’architettura. La scuola invita a «immagi-nare e creare la nuova concezione architettonica in cooperazione» e lo stesso direttore Gropius parla di un’«architettura moderna, che si svi-luppi verso un funzionalismo dinamico, priva di ornamenti e di modanature» riprendendo le idee già espresse nel lontano 1908 dall’archi-tetto secessionista viennese Adolf Loos nel suo saggio “Ornamento e delitto”.Il Movimento Moderno è caratterizzato dal concetto che la forma deriva dalla funzione per cui bisogna abolire ogni decorazione superfl ua. Come sostiene Mies van der Rohe: «Less is more».

di Giovanni De Lorenzo

Giuseppe Terragni

Il tema principale è quello della casa e dell’abitare. Nel 1927 l’architetto svizzero Le Corbusier pubbli-ca I Cinque punti per una nuova architet-tura in cui tratta del rapporto degli edifi ci con l’ambiente na-turale, dell’uso del calcestruzzo armato, delle piante libere, cioè di una distri-buzione degli spazi interni rispondente solo ad esigenze abi-tative e funzionali. Il funzionalismo è il concetto cardine del Movimento mo-derno secondo cui la forma e l’estetica dell’architettura sono subordinate agli aspetti tecnici e pratici. Questo è dovuto anche all’esigenza di adeguarsi alle nuove tecnologie per cui l’organizzazione edi-lizia si basa sulla standardizzazione e sull’in-dustrializzazione.Ne deriva quindi l’idea di Le Corbusier secon-do cui la casa è una macchina per abitare che «avrà una nuova estetica, come l’aeroplano ha una sua estetica».In Italia l’architettura ottocentesca era stata caratterizzata dall’Eclettismo storicistico che aveva raggiunto il suo culmine dopo l’uni-

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tà nazionale con lo stile ‘rinascimento’, evidente citazione del passato. Il Li-berty, tra fi ne XIX e inizio XX secolo, si era limitato a po-chi, selezionati e raffinati interventi elitari. Il Futurismo aveva proposto idee e progetti visionari e irrealizzabili.Negli anni successivi al conflitto nasce a Milano il ‘Novecen-to’, un movimento di cui fanno parte artisti come Mario Sironi e letterati come Mas-simo Bontempelli. Il movimento, coordinato da Margherita Sarfatti,

amante di Mussolini, propone il cosiddetto ‘ritorno all’ordine’ rifi utando le sperimentazioni delle Avan-

guardie. Il riferimento è piuttosto alla tradizione, all’antichità classica, alla purezza delle forme e all’armonia nella composizione.Il Gruppo 7 non vuole rompere con la tradizione ma la vuole trasformare: «la nuova architettura deve risultare da una stretta aderenza alla lo-gica e alla razionalità». La città di Como con Giuseppe Terragni, Cesare Cattaneo e Pietro Lingeri diventa una sorta di laboratorio della ricerca architettonica razionalista.Nel 1928 vengono create due riviste su cui esprimere e aggregare la cultura architettonica contemporanea: “Domus”, fondata e diretta da Gio Ponti, e “La Casa Bella” (che poi, sotto la direzione di Giuseppe Pagano, diventerà “Ca-sabella”) ancora oggi esistenti.Il gruppo razionalista si impegna a creare un “arte di stato” per collaborare alla costruzione di uno Stato moderno e per ottenere il ricono-scimento politico da parte del fascismo.Si contrappongono lo stile razionalista di Terra-gni e quello classicista di Marcello Piacentini. Sarà quest’ultimo a rispondere meglio alle esigenze retoriche del fascismo diventando lo ‘stile littorio’. L’architettura uffi ciale, che si diffonde in tutto il paese, insegue una romanità propagandistica caratterizzata dal monumenta-lismo celebrativo.

Novocomum oggi

Novocomum negli anni 20

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In effetti il regime utilizza l’architettura come mezzo di comunicazione, come uno strumento per esprimere il potere attraverso le dimensioni, i materiali, la severità delle forme, la presenza di decorazioni, come altorilievi in marmo o epigrafi e motti scritti sui muri. L’architettu-ra assume quindi un valore propagandistico accanto alla radio, al cinema e alla stampa. Il fascismo riempie di una «colata di ideologia pietrifi cata» le città italiane creando quello che lo storico Emilio Gentile defi nisce un «fascismo di pietra».Questo fervore costrutti-vo si esprime con esem-pi altamente positivi, come il concorso del 1932 per la Stazione di Santa Maria Novella a Firenze vinto da Gio-vanni Michelucci con il suo Gruppo Toscano, autentico capolavoro del razionalismo, e con scempi urbanistici come la realizzazione a Roma tra il 1924 e il 1932 della Via dell’Impero, oggi Via dei Fori Imperiali.Il primo progetto di Terragni, del 1928, crea immediatamente uno

scandalo tale che viene nominata una commis-sione per decidere se «costituisca un elemento di deturpazione» e quindi se mantenerlo così com’è oppure demolirlo. Il Novocomum , com-missionato dall’omonima società immobiliare, è il completamento di una casa ad appartamenti già esistente, realizzata nello stile eclettico corrente in quegli anni, in modo da creare un unico isolato con una corte interna. Appena fi nito viene subito denominato il transatlantico per la forma insolita. Lo schema dell’edifi cio è abbastanza semplice: cinque piani, lineari

Facciata della casa del fascio oggi

Casa del fascio negli anni 20

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loro ed evidenziati dal diverso trattamento cromatico: si crea un contrasto fra l’intonaco delle facciate, in color nocciola, e quello delle parti sezionate, in arancione vivo.La polemica che ne consegue è enorme ma Giuseppe Pagano sulla rivista “La Casa Bella” e Gio Ponti su “Domus” defi niscono il Novocomum uno dei primi esempi di architettura razionalista e lo indicano come un’ottima machine à habiter italiana.Nel 1932 Terragni progetta la Casa del Fascio , o Casa del Littorio, sede a Como del Partito Nazionale Fascista. Di questi edifi ci, durante il ventennio, ne furono realizzati oltre cinquemila in Italia e nelle terre d’oltremare per ospitare gli uffi ci del partito, gli archivi, il sacrario e soprat-tutto il salone delle adunate. L’edifi cio sorge, a poca distanza dal duomo romanico, su un lotto quadrato di poco più di trenta metri di lato che si inserisce nella maglia a scacchiera dell’antico tracciato romano della città di Como. Si presen-ta come un bianco parallelepipedo la cui altezza è pari alla metà della lunghezza del quadrato di base: un organismo compatto di quattro piani con una struttura portante in calcestruzzo armato caratterizzata da una maglia regolare di pilastri e travi che consente un’ampia libertà

Schema della facciata della Casa del Fascio

Sezioni della Casa del Fascio

e squadrati come parallelepipedi sovrapposti, disposti parallelamente al lago di Como con due corpi minori che li collegano all’edifi cio esistente formando l’ampia corte interna. Gli angoli del corpo verso il lago sono svuotati al piano terra, in corrispondenza dell’ingresso laterale, e al secondo e terzo piano creando delle cavità in cui sono incastrati due corpi-sca-la dalla forma di cilindri di vetro di sezione ovoidale. Al primo piano un corpo avvolgente e all’ultimo un altro sporgente bloccano i due cilindri ristabilendo la forma complessiva. I volumi puri e semplici sono compenetrati fra

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nell’organizzazione degli spazi interni e la pos-sibilità di traforare le facciate con la creazione di grandi aperture. Le quattro facciate sono asimmetriche diverse in relazione alle diverse funzioni. Il rivestimento esterno è in lastre di marmo di Botticino, una pietra calcarea di co-lore beige che si estrae nelle cave in provincia di Brescia. La principale delle facciate presenta una grande parete bianca che accoglie, durante le manifestazioni, la gigantografi a del Duce. Si accede da una piazza, sollevata di un gradino ri-spetto al piano stradale, delle stesse dimensioni della facciata principale. Dopo aver attraversato un grande loggiato con vetrate a tutta altezza si arriva nell’atrio, dal soffi tto rivestito in marmo nero, con uno spazio dedicato al Sacrario dei Caduti e quindi al grande Salone delle Adunate. Questo è a doppia altezza e coperto da un solaio in vetrocemento che lo inonda di luce naturale e attraverso una lunga lastra di vetro lascia in-travedere le colline intorno. Sulla corte centrale si affacciano la Sala del Direttorio, gli uffi ci, i ballatoi e da qui partono le scale per i diversi piani. La tipologia a corte interna ricorda quella tradizionale dei palazzi urbani rinascimentali. L’opera è un perfetto esempio di progettazione integrale in cui Terragni disegna tutto: le porte, le maniglie, le lampade, i tavoli, le sedie come la Lariana costruita appositamente in tubolare metallico cromato e piani imbottiti come la famosa sedia Wassily (Modello B3) disegnata nel 1925 da Marcel Breuer per il Bauhaus.La Casa del Fascio rifl ette il programma politi-co esaltato dalla propaganda del regime come operazione trasparenza presentandosi come «una casa di vetro entro cui si può guardare». Secondo Bruno Zevi la Casa del Fascio «…pietra miliare dell’architettura moderna euro-pea, dipana la fragranza creativa di Terragni nel quadro della poetica razionalista». Oggi è la sede del Comando Provinciale della Guardia di Finanza.Negli anni trenta vengono indetti numerosi concorsi per la progettazione di opere pub-bliche. Anche Terragni partecipa ai grandi concorsi romani per il Palazzo del Littorio, per quello del Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi dell’E42 e per il Danteum, tutti rimasti allo stato di progetto e mai realiz-zati. È il momento di massima adesione al regime; scrive: «È creata oggi, per volontà del Duce, la coscienza nuova che ispira il pensiero e darà forma imperitura al movi-

Sedia Lariana

Bibliografi a:Zevi B., Storia dell’architettura moderna. Torino, 2001Coppa A. (a cura di), Giuseppe Terragni, 24 ORE Cultura, 2013Zevi B., Giuseppe Terragni. Ediz. Illustrata, Roma, 2018

mento fascista. È l’espressione che si con-centra in una idea fondamentale, ispiratrice di tutta la vita nuova italiana: l’adorazione del capo. È il miracolo della fede – le pietre lucide – perfette che si innalzeranno sulla Via dell’Impero a formare piani – volumi architettonici, dovranno dire di questa unione spirituale – e parlare ancora della continuità storica romana».Nel 1941 viene richiamato alle armi. Ri-torna in Italia nel 1943 dal fronte russo in un treno-ospedale per un gravissimo esaurimento nervoso. Terragni ha solo 39 anni quando si rende conto della crisi dei suoi ideali. Muore nello stesso anno.

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Passeggiando attorno alla chiesa fi orentina di Orsanmichele ci si trova al cospetto delle mi-gliori opere scultoree di giganti del Primo Rinascimento quali Donatello, Ghiberti e Verrocchio, ma non si dà suffi ciente attenzio-ne al gruppo con I Santi Quattro Coronati, eseguito da Nanni di Banco fra il 1409 ed il 1417 per volere dell’Arte dei Maestri di Pietra e Legname, che avevano trasformato Firenze in un gioiello del basso Medioevo.

Le quattro solenni fi gure han-no la dignità di apostoli o di profeti dell’Antico Testamento, e raffi gurano Severo, Severiano, Carpoforo e Vittorino, quattro scalpellini cristiani che nel IV secolo subirono il martirio su or-dine dell’imperatore Diocleziano per essersi rifiutati di scolpire una statua che effi giasse il dio Esculapio, e che pertanto nel me-dioevo divennero i patroni delle corporazioni edili, dei lapicidi e degli scultori; questo ruolo è testi-

moniato dal rilievo presente nella predella con i quattro santi all’opera nella loro bottega mentre stanno scolpendo una statua e una colonna.

Proprio la colonna tortile che stanno portan-

do a termine, emblema della fortezza nel loro martirio, rimanda al sapere tecnico che tali maestranze si tramandavano fi n dagli ultimi se-coli dell’età classica. Gli eredi sembrano essere stati i maestri “comacini”, termine con il quale vengono indicati architetti, muratori, stuccatori e scalpellini provenienti dall’area dei laghi lombardi compresa fra il comasco e il Canton Ticino. L’aggettivo “comacino” nella lingua italiana è sinonimo di “comasco”, facendolo derivare da Como, territorio d’origine di queste maestranze, ed in tal senso viene già usato da Sant’Ambrogio (IV secolo) e da Paolo Dia-cono (storico dei longobardi vissuto nell’VIII secolo). Ed è proprio con i re longobardi che per la prima volta viene usata l’espressione “magister commacinus”: si trova nell’Editto di Rotari (643) e nell’Editto di Liutprando (713), documenti con i quali i costruttori comacini vennero organizzati in corporazioni e diffusero le loro conoscenze in tutta Europa attraverso imprese edili itineranti1.

Un’altra teoria2 fa risalire il termine all’e-spressione “cum machinis”, ad indicare le impalcature e gli argani che venivano utilizzati per costruire le strutture architettoniche3, e che ritroviamo in molte immagini raffi guranti can-tieri medievali, quale quello delineato in una delle miniature della Bibbia di Maciejowski dove si vede l’uso di una ruota azionata da un operaio per sollevare le pietre: questo tipo di ruota era già utilizzata in età romana, come

I comacini, maestri delle ‘macchine’

Nanni di Banco Tabernacolo, I Santi

Quattro Coronati, 1409-1417

Firenze, Orsanmichele

di Fabio Sottili

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appare in un rilievo del Mausoleo degli Haterii del II secolo d. C. raffi gurante una macchina da costruzione con un elevatore costituito da una grande ruota movimentata da schiavi.

L’ipotesi più accreditata è che queste ‘ma-estranze dei laghi’, organizzate in associazioni obbligatorie, come previsto dalla legislazione romana prima e dal “codex theodosianus” poi, abbiano formato delle organizzazioni indivi-duate giuridicamente che tramandavano le tec-niche costruttive del mondo antico, migliorate dalle esperienze sviluppate a Bisanzio e in Me-dio Oriente, e dai contatti che ebbero con altre civiltà dove andarono a lavorare, permettendo loro di compiere sempre nuove sfi de costruttive. Per far questo dovevano eseguire complessi calcoli geometrici che li portarono a fi ssare forme ed esperienze in taccuini che facilitarono la diffusione delle loro sperimentazioni: il più noto è quello che Vuillard de Honnecourt ci ha lasciato (1230-1236) con particolari architet-tonici, disegni scultorei e macchinari adottati nei cantieri.

I maestri comacini si spostavano in gruppi di imprese formate da architetto, scalpellino, stuccatore, scultore, pittore, intagliatore, a garantire una rapida esecuzione, costi conte-nuti e soluzioni innovative: laddove si fosse presentata la necessità, i gruppi potevano anche

Costruzione della Torre di Babele, miniatura presente nella Bibbia di Maciejowski realizzata a Parigi nel 1250 ca. New York, Morgan Library

Nanni di Banco Predella del Tabernacolo con I Santi Quattro Coronati,1409-1417,Firenze, Orsanmichele

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allargarsi facendo arrivare compaesani e parenti dai territori d’origine.

In questo modo nacque lo stile architettonico oggi conosciuto come “romani-co lombardo” che a partire dagli inizi del IX secolo i comacini portarono nelle Prealpi, nell’Italia Setten-trionale (Milano, Pavia, Bergamo, Trento, Venezia, Verona, Modena, Parma, Ferrara, Genova), in quella Centrale (Pistoia, Arezzo, Lucca, Pisa, Prato, Siena, Ancona, Assisi e Bari), fi no a raggiungere la Ger-mania, la Borgogna, la Danimarca, la Svezia e la Russia.

Tra i primi esempi di architettura romanica lom-barda si segnala la basilica di Sant’Abbondio a Como, costruita fra il 1013 ed il 1095, la cui soluzione con monofora, bifora e trifora nei campanili, e i cui decori esterni ad archetti pensili e contrafforti diventarono una cifra stilistica che resero inconfondibili le opere dei comacini, così come le fi gure zoomorfe e

mostruose nel coro della chiesa di San Fedele sempre a Como.

Dall’Alta Lombardia e dai territori d’oltralpe i maestri comacini, a partire dagli inizi del XII secolo, si spostarono a lavorare a Pavia (chiesa di San Michele Maggiore completata entro il 1155, San Pietro in Ciel d’Oro terminata intorno al 1132, e San Teodoro) e a Milano (basi-lica di Sant’Ambrogio del XII secolo), dove le maestranze raggiunsero una perfezione nello stile e dimostrarono una maturazione nelle tecniche costruttive.

Alcuni fra loro cominciarono a fi r-mare le loro imprese, ed esemplari in tal senso sono stati l’architetto Lanfranco e lo scultore Wiligelmo, si pensa prove-nienti dalla diocesi di Como, i quali si impegnarono fi anco a fi anco per edifi ca-re la cattedrale di Modena, fra il 1099 ed il 1106, dedicata a San Geminiano. Con questa chiesa si impone l’importanza delle facciate, caratterizzate da plastici-

Veduta absidale della Chiesa di

Sant’Abbondio a Como, XI secolo

LanfrancoFacciata della cattedrale di Modena, XII secolo

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smo, dal gioco chiaroscurale defi nito attraverso il triforio che le avvolgono completamente, e dagli ingressi esaltati per mezzo del loro protiro.

La stilizzazione delle fi gure umane con fat-tezze tozze e rigide caratterizza lo stile scultoreo di Wiligelmo, qui all’opera nella decorazione di elementi architettonici quali le metope, i capi-telli, l’altare e il pontile: i rilievi con le Storie della Genesi che defi nivano quest’ultimo oggi decorano la facciata principale e sono da con-siderarsi i capolavori della scultura romanica per l’effi cacia comunicativa, la sapienza com-positiva, la sintesi e l’espressività nei gesti dei personaggi che diventavano modelli educativi per i fedeli.

Un altro dei protagonisti dell’architettura medievale fu il comacino Guidetto da Como noto per la sua attività a Lucca soprattutto nella chiesa di San Michele in Foro e nella facciata della cattedrale di quella città, intitolata a San Martino, dove l’architetto è attestato fra il 1200 ed il 1204. Il fronte è caratterizzato dalla presen-za di logge sovrapposte in uno stile personale che superò la tradizione architettonica pisana: sul portico inferiore che rispetta rigorosi canoni proporzionali ispirati all’antico di derivazione lombarda, infatti imposta una nuova facciata a vela suddivisa in tre ordini di loggette pratica-bili, divise da cornici scolpite con accurati mo-tivi vegetali e da fasce intarsiate, sostenute da colonnine che evidenziano un forte plasticismo ed elaborati decori a tarsia. La sua matrice si ritrova nella facciata del duomo di Pisa ideata da Rainaldo, da cui deriva però soltanto l’analogia di impianto, poiché nella facciata di Lucca non si ritrovano le simmetrie e le proporzioni che connotano l’edifi cio pisano.

WiligelmoLa Creazione dell’uomo, della donna e peccato originale,1099-1106 circa. Modena, facciata della cattedrale

Wiligelmo, I profeti Enoch ed Elia che sorreggono un’epigrafe con la data di fondazione del tempio e il nome dello scultore, 1099-1106 circa. Modena, facciata della cattedrale

Guidetto da Como,Facciata della cattedrale di Lucca, 1200-1204 circa

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Il più noto fra i maestri comacini resta comunque Benedetto Antelami, scultore e ar-chitetto luganese4 (1150 - 1230 circa) formatosi probabilmente in Provenza, il cui stile costitu-isce il perfetto snodo fra la cultura romanica e quella gotica italiana del Duecento. Fu operante prevalentemente a Parma nella decorazione del duomo, e soprattutto nella costruzione del batti-stero; a lui si deve sia l’ideazione architettonica

che la realizzazione dell’apparato scultoreo di quell’edifi cio nel quale si coniugano l’articola-zione romanica degli spazi e il rigore di stampo classicista, con il verticalismo, le strombature, i pinnacoli, la volta ad ombrello costolonata, dovuti all’infl uenza dello stile gotico francese.

Il duomo di Parma conserva ancora oggi uno dei capolavori della scultura di Benedetto Antelami: la Deposizione dalla croce, datata

Benedetto Antelami, Battistero di Parma,

1196-1270

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1178, che originariamente doveva far parte del pontile. Qui i riferimenti all’arte imperiale romana si fondono con schematismi bizantini, con la chiarezza per la comprensione del sog-getto e con la ricerca del naturalismo italico, e la nuova volontà di esprimere i sentimenti di alcuni dei personaggi.

L’attività architettonica trovò un particolare fermento nel Trecento, quando le città italiane cercarono di manifestare il proprio prestigio ed indipendenza attraverso l’edifi cazione di edifi ci monumentali che gareggiassero per dimensio-ne: la cattedrale e il palazzo comunale. L’ap-pellativo di comacini cedette il posto a quello di “maestri campionesi”, il cui nome deriva da una località posta nell’area del lago di Lugano. I campionesi, tagliapietre e muratori, portaro-no la loro ‘lingua di pietra’ principalmente in Lombardia, infatti Bonino da Campione fu lo scultore preferito di Bernabò Visconti, Giovanni da Campione scolpì il portale della cattedrale di Bergamo, mentre Simone da Orsenigo, Iacopi-no da Tradate, Matteo da Campione lavorarono al duomo di Milano, di Como, di Monza, e alle tombe scaligere di Verona.

Col Rinascimento si perse anche l’uso dell’appellativo di “maestri campionesi”, ma la regione dei laghi continuò ad essere il territorio natale di molti fra i più valenti architetti, scultori, scalpellini e stuccatori almeno fi no al Settecento, e molti di questi lavorarono a Roma, Venezia, Genova, fi no ad arrivare in Spagna, Russia e nella mitica

Benedetto Antelami, Deposizione dalla croce, 1178. Parma, Cattedrale.

Note

1 Addirittura l’Editto di Liutprando contiene in appendice il Memoratorium de mercedibus com-macinorum ,che elenca le tariffe da corrispondere ai comacini per le loro opere.

2 Sono stati Bluhme (1868) e Monneret de Villard (1952) a promuovere tale teoria, seguendo l’ipotesi presente nel trattato sulle origini delle parole scritto da Isidoro di Siviglia nel VII secolo. Invece secondo Maestrelli la derivazione proverrebbe dal tedesco “ga-makin” (“costruttore”) o dal francese “maçon” (“muratore”).

3 Anche Buscheto, architetto della cattedrale di Pisa, in un epitaffi o della facciata viene ricordato quale “magister cum machinis”.

4 Il cognome “Antelami” sembra derivare dalla valle Antèlama, nome col quale un tempo si defi niva la valle d’Intelvi, posta fra il lago di Como e quello di Lugano.

Costantinopoli. A tal proposito mi preme ricordare che il famoso scultore cinquecen-tesco Leone Leoni proveniva da Menaggio, Pellegrino Tibaldi, architetto prediletto di San Carlo Borromeo, era nato in Valsolda nel 1527, mentre i migliori architetti della Roma dell’età della Controriforma sono comacini: Carlo Maderno e Francesco Borromini provenivano infatti da Bissone, e i Fontana da Melide.

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Alessandro Volta

Alessandro Volta, nato nel febbraio del 1745 a Como (allora ancora parte del Ducato di Milano), chimico e fi sico, accademico e rettore italiano, è stato defi nito come il primo fi losofo naturale che può essere consi-derato scienziato nell’accezione moderna del termine. Volta è stato un pensatore di spicco negli ambienti cul-turali del suo tempo, noto soprattutto per l’invenzione della pila, ovvero del primo generatore elettrico della storia, e per la scoperta del metano, derivante dagli studi sui gas infi ammabili emessi dalle paludi.

La sua genuina e autodidatta passione negli studi scientifi ci lo porta sempre più in alto nell’arco della sua vita: da professore di fi sica all’U-niversità di Pavia a mem-bro della Royal Society, la quale gli conferisce la prestigiosa Medaglia Copley. Durante i suoi viaggi in Europa viene ricevuto e lodato dai principali regnanti del tempo conquistando la stima di fi gure come l’imperatrice Maria Teresa d’Austria, l’imperatore Giuseppe II e Napoleone Bonaparte. I lavori e la caratteristica umiltà di Volta vengono particolarmente apprezzati da quest’ultimo che, nel 1801, dalla sua posizione di primo console lo nomina primo membro straniero dell’Istitut de France e gli assegna un vitalizio. Non solo, negli anni a venire Napoleone non mancò di onorare Volta nominandolo nel 1805 membro della Legion d’O-nore e nel 1810 senatore e conte del Regno d’Italia. Volta non smise mai di indagare sulla natura dell’elettricità e dei gas e delle loro leggi, perfezionando i suoi esperimenti e pubblicando nume-rose opere scientifi che che ebbero un vero impatto rivoluzionario per la fi sica e per la chimica del suo tempo. Morì all’età di 82 anni nel marzo del 1827 nella sua casa di campagna presso Camnago, successivamente chiamata Camnago Volta in suo onore.

Il primo scienziato modernoa cura di Daniele Loreto

Poster realizzato da A. Hohenstein per

le Onoranze a Volta svoltesi all’esposi-

zione internazionale di Como nel 1899, in

occasione del centenario della pila

Medaglia di Copley assegnata dalla Royal Society ad Alessandro Volta

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n alcune tradizioni fi abesche le rane

racchiudono al loro interno le essenze vitali di meravigliosi prìncipi, anime dalla mirabile bellezza ed alte virtù, intrappolate in un corpo viscido e deforme, in attesa del bacio di una principessa che, vincendo la ripugnanza di un tale corpo, origini quella scintilla d’amore in grado di separare ciò che di più puro è conte-nuto nella sostanza grezza e deforme; in grado di generare il Cosmos, l’ordine, l’armonia, dal Caos, disordine o sostanza primordiale, così ben rappresentata dall’animale dal corpo bitor-zoluto, né di terra né d’acqua, che riempie l’aria di suoni informi e gutturali che certo nessun essere umano dotato di senno si sognerebbe mai di avvicinare alle proprie labbra. Simbologia di un’anima di nobile lignaggio che per errore o per disgrazia perde i propri poteri trasformando valori ed eccelse virtù, in bassi e disgustosi istinti primordiali. Solo la forza meravigliosa dell’amore, principio che sottende ad ogni for-ma di creazione, ha il potere di ritrasformare Mr Hyde nel Dott. Jekyll.

Certo, si tratta di simbologie volte a descri-vere aspetti e dinamiche della natura interna dell’essere umano; metafore, miti, fi abe, niente che vada interpretato alla lettera, eppure per Galvani sembra proprio che qualcosa di con-creto, di reale e veritiero queste fi abe dovessero nascondere. Egli pensava infatti che le rane contenessero al loro interno un fl uido elettrico capace di dare vita al movimento di alcune parti del corpo di queste, anche in assenza di una testa, di un cuore, della vita. Ma la vita non è certo una questione di cariche elettriche!

Eppure, per quanto strano, ci fu chi ci credette realmente e ripropose gli esperimenti metico-losi e sistematici del professor Galvani su teste mozzate di uomini o corpi decapitati, per ri-produrre contrazioni mostruose dei muscoli del volto o l’apertura delle palpebre nelle prime, e movimenti convulsi degli arti, delle mani, del ventre e delle gambe nei secondi. Nacque il mito della vita che poteva essere ricreata me-diante l’uso dell’elettricità, ma il Frankenstein vide la vita solo negli scritti di Mery Shelley e nell’immaginario collettivo, non certo nei labo-ratori dove gli esperimenti mostrarono che, se apparentemente tutto si muoveva in quei corpi senza vita, in realtà qualcosa sembrava rima-nere immobile qualunque fosse l’esperimento al quale lo si sottoponeva: il cuore!

Ma veniamo ai fatti! Galvani, professore di anatomia a Bologna, ebbe a interessarsi di elettrofi siologia degli animali utilizzando delle rane “preparate alla solita maniera”, cioè non conservandone che le membra inferiori, con i nervi crurali collegati alla spina dorsale. Come spesso avviene, ovvero quasi per caso, accad-de un fenomeno che incuriosì lo scienziato. Dopo aver collegato i ranocchi scorticati su di una tavola in vicinanza di una macchina elettrica, l’attento silenzio degli astanti venne interrotto da un’esclamazione di meraviglia; «le rane morte si contraevano e davano segni di novella vita». Galvani, così come ogni scienziato dovrebbe fare, decise di realizzare una serie di esperimenti per dimostrare la sua teoria secondo la quale all’interno dei nervi della rana sarebbe presente un fl uido elettrico

E la rana accese la luce

di Giovanni Venturi

I

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in grado di dare vita al movimento se opportu-namente stimolato.

Ma come era possibile che nella rana vi fosse stata una reazione ad una scintilla che era scoppiata a distanza? Nel testo di Fisica di Felice Marco, pubblicato a fi ne XIX secolo, si riportano con dovizia di particolari gli espe-rimenti condotti, oramai scomparsi dai mo-derni libri di testo, e si afferma che Galvani non conosceva il fenomeno del contraccolpo (dovuto all’induzione elettrica) e che ciò lo portò a formulare conclusioni erronee. Provò a immaginare i fl uidi che avrebbero permesso tale collegamento, come ad esempio l’aria, ma ripetendo l’esperimento con una rana in una campana sottovuoto il fenomeno si ripresentò. Provò a utilizzare l’elettricità atmosferica che si manifesta attraverso i fulmini e ancora una volta le convulsioni si presentarono indipendentemente dal fatto che la rana fosse o meno inserita all’interno di materiale oleoso, ovvero materiale isolante elettricamente. Infi ne provò l’esperimento in

assenza di una sorgente di elettricità, senza fulmini, senza lampada di Leida, sfruttando un fenomeno che casualmente aveva notato appoggiando ad una ringhiera la rana appesa ad un uncino. Le convulsioni si ripresentaro-no. Forse l’atmosfera carica, pur in assenza di fulmini, era in grado di stimolare i nervi? Impossibile! Ciò avveniva anche in giornate completamente serene. Allora forse i metalli con cui la rana era in contatto? Provò dunque all’interno, in assenza di una qualsiasi sor-gente, usando solo un materiale conduttore su cui poggiava la rana e l’uncino. La sola pre-senza di questi due materiali a contatto con la rana era in grado di far apparire i movimenti consueti. Egli dedusse quindi che i muscoli e i nervi della rana formassero una sorta di bottiglia di Leida, ovvero un condensatore carico. Il collegamento attraverso un mate-riale conduttore portava a scaricare questa elettricità presente all’interno dell’animale in maniera spontanea. Arrivò dunque alle seguenti conclusioni:

Figura : Rana preparata per l’esperienza;

Figura 1: Macchina elettrica.

Figura 2: Il fi lo di ferro E attraversa la spina

dorsale ed è in contatto con una bacchetta di ferro

G e viene prolungato dal lungo fi lo di ferro

conduttore KK.Figura 3: Una rana

preparata è chiusa in un recipiente di vetro

A, un fi lo di ferro EEE molto lungo può essere raccordato in C al fi lo

di ferro B piantato nella spina dorsale della rana.

Figura 5: Bottiglia di Leida.

Figura 6 : Dei piombini da caccia giocano lo

stesso ruolo del fi lo conduttore a contatto con

un nervo o un muscolo.

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1. Gli animali hanno un’elettricità che è loro specifi ca, detta elettricità animale.

2. Essa sarebbe emanata soprattutto dal cervelli e distribuita attraverso i nervi.

3. È la sostanza interna al nervo a condurre l’elettricità, mentre la sostanza oleosa esterna costituisce un isolante che ne impedisce la dispersione.

4. L’elettricità viene ricevuta dai muscoli, che possono essere assimilati a un gran numero di bottiglie di Leida: la superfi cie esterna di ogni fi bra muscolare è assimilata all’armatura negativa della bottiglia e la superfi cie interna all’armatura positiva. L’arco conduttore è il mezzo “più effi cace per provocare la scarica” di questa bottiglia di Leida.

5. Il movimento muscolare viene causato dalla scarica della “bottiglia di Leida musco-lare” attraverso il nervo.

Tali scoperte suscitarono grande interesse nel fi sico italiano Alessandro Volta, professore di fi sica a Como prima e universitario a Pavia successivamente. Ne fu inizialmente entusia-

sta e, come afferma Felice Marco, «proseguì con amore lo studio di tali fenomeni» chissà cosa direbbero gli studenti di oggi al sentire associare la parola amore ad esperimenti su rane scorticate-. Si rese però ben presto conto che qualcosa non quadrava. D’altronde, un fi sico sa bene, come egli stesso ebbe a dire: «che mai può farsi di buono, se le cose non si riducono a gradi e misure?». Un fi sico infatti usa gli strumenti di misura per indagare un fenomeno e solo attraverso procedure speri-mentali quantitative verifi ca le proprie ipotesi. Sempre nel testo di Felice si afferma che: «le esperienze fondamentali di Volta richieggono un assai delicato elettrometro condensato-re», attraverso il quale egli valutò l’intensità delle tensioni necessarie a provocare quelle convulsioni nei nervi e nei muscoli delle rane individuandone valori estremamente piccoli. In defi nitiva la rana non era per lui che un elettrometro molto sensibile, niente altro che un delicato elettrometro condensatore. L’anomalia

Figura 7 : La rana è posta in un recipiente di vetro C, AA è un fi lo di ferro isolato. Una estremità del filo di ferro D tocca le zampe e l’altra si immerge nell’ac-qua del pozzo.Figura 8 : La rana è posta su di una tavola ricoperta da un rivestimento oleoso, un fi lo di ferro la collega al muro. I fenomeni sono iden-tici. (Galvani, Commentari-us..., 1791, Tavola II)

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Figura 9 : L’animale viene posto su di un piano di ferro , una lamina di piombo è collocata in A e una lamina di ottone in C. Le con-trazioni si producono quando queste due lamine vengono collegate mediante l’arco conduttore D (rame ricoperto d’argento).Figura 10 : L’uncino C è di rame, l’arco AA è costituito da due parti, una delle quali è isolante. Non vengono osservate contrazioni.Figura 11 : “Se la rana è tenuta sospesa con le dita per una zampa, in modo che l’uncino fi sso nel midollo spinale tocchi un piano d’argento e l’altra zampa scorra liberamente sul medesimo piano, appena questa zampa tocca il piano, ecco che i muscoli si con-traggono, onde la zampa sussulta e si solleva: sùbito dopo la zampa, spontaneamente rilassandosi e ricadendo sul piano, appena lo tocca, di nuovo per lo stesso motivo si solleva, e così, di volta in volta, alternativamente continua a sollevarsi e a ricadere, talché sembra - con meraviglia e con divertimento di chi osserva - che questa zampa si comporti a guisa di un pendolo elettrico..” Figura 12 : “Le contrazioni sono ottenute più distintamente e più prontamente” quando si utilizzano due archi metallici, l’uno in rame e l’altro in argento.Figura 13 : Questo dispositivo permette di escludere che vi sia una stimolazione meccanica nell’attimo in cui un metallo viene messo a contatto con un nervo o con un muscolo. La rana viene posta su un piano di vetro le cui due facce sono coperte da rivestimenti metallici. In H i nervi e la spina dorsale sono incurvati in modo tale che vi sia contatto con il rivestimento inferiore, mentre i muscoli poggiano sul rivestimento superiore. Nell’attimo in cui i due rivestimenti vengono collegati mediante il conduttore costituito dalle due aste metalliche e dal corpo dell’operatore, le contrazioni si producono senza che l’animale sia stato toccato.Figura 14 : Il tubo di vetro K viene riempito con differenti liquidi. Quando si tratta di liquidi oleosi (isolanti) le contrazioni non si verifi cano.(Galvani, Commentarius..., 1791, Tavola III)

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di tale fenomeno stava dunque nel fatto che la sensibilità della rana era tale da presentare reazioni anche in presenza di piccole correnti che attraversassero i suoi organi, una sensibilità superiore a quella di animali a sangue caldo. Ad ogni modo l’arco galvanico, ovvero l’arco costituito da due diversi conduttori, risultò l’aspetto più interessante che Volta apprese dagli esperimenti di Galvani. Egli notò che la tensione si generava a causa della presenza del contatto fra i suoi conduttori e non a causa di una elettricità interna all’animale che aveva nei nervi e nei muscoli due poli opposti. Nel testo di Felice sono riportati tutti gli esperimenti che Volta eseguì per verifi care la propria ipotesi e qui ne riportiamo un sunto. Collegò le estremità dell’arco così costituito solo a un muscolo o fra due muscoli o solo a un nervo, evidenziando ogni volta la presenza di convulsioni. Inoltre mostrò come l’utilizzo di un unico conduttore non portava alle stesse conseguenze, deducen-do che il contatto fra due metalli diversi fosse necessario per creare tale fenomeno elettrico.

Arrivò a formulare una nuova legge secondo la quale una forza elettromotrice poteva essere generata semplicemente dal contatto di con-duttori, senza l’uso di materiali isolanti, una considerazione innovativa per l’epoca. Era convinto che l’elettricità negli animali fosse un’ipotesi erronea, che i fenomeni elettrici si sarebbero potuti realizzare senza la presenza dell’animale. Questo era solo un elemento pas-sivo, senza nessun componente che generasse tensione. Ipotizzò inoltre che fossero solo i nervi gli elementi responsabili del movimento dei muscoli e a tal proposito provò a far passare corrente attraverso la sua lingua senza notare alcun movimento violento, ma sperimentando un sapore acido che associò al fatto che quella parte della lingua era proprio deputata a per-cepire i sapori. Solo quando fece passare tale corrente in prossimità dei nervi posti alla radice della lingua di un animale notò che questa si muoveva contraendosi in maniera vistosa. Dal canto suo Galvani e i galvanisti provarono a difendere la loro idea di una elettricità presente all’interno dell’animale realizzando vari tipi di

Figura 17 : Si osservano contrazioni anche se il conduttore ha una lun-ghezza notevole (che qui include i due personaggi)Figura 18 : La rana è po-sta su di un piano di vetro armato con due rivesti-menti metallici differenti, F in argento e G in rame.Figura 19 : BB due reci-pienti in vetro pieni d’ac-qua fanno parte dell’arco conduttore.Figure 20 e 21 : La con-trazione muscolare può essere ottenuta con due animali a sangue caldo. Fig. 21 : Si tratta di una zampa di pollo, in B il ner-vo crurale e in D i muscoli della coscia.(Galvani, Commentarius..., 1791, planche IV)

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esperimenti che miravano ad eliminare il con-tatto fra metalli, mediante l’uso di un singolo materiale, o addirittura la presenza di metalli stessi. Gli esperimenti mostrarono che la loro teoria non era del tutto erronea, ma nonostante i loro sforzi, la diatriba che all’epoca si svolse a colpi di esperimenti si risolse a favore di Volta, il quale, a seguito dell’invenzione della pila, mostrò come fosse possibile produrre elettricità in maniera continua (e non con semplici scari-che elettriche come faceva la bottiglia di Leida), impilando, appunto, dischetti di rame e di zinco inframezzati da dischi di materiale spugnoso imbevuto di acqua salata, il tutto in assenza di materiale organico. Niente animali dunque, la corrente viene dal contatto dei metalli! Questa fu la conclusione. L’effetto che ne risultò fu

così eclatante da valergli il conferimento della medaglia d’oro da parte nientemeno che di Napoleone Bonaparte.

In realtà oggi sappiamo che esiste un’elettrofi siologia per cui piccole scariche elettriche si propagano attraverso i nervi degli animali per produrre delle reazioni negli organi, ma tali correnti risultano così piccole che solamente con i sensibili stru-menti moderni è possibile notarne gli ef-fetti. La diatriba, alla luce delle conoscenze attuali, non ha un vero e proprio vincitore, ma sottolinea in entrambe le teorie la pre-senza di deduzioni corrette e considerazioni erronee, seppure quella di Volta risulti più adatta a descrivere i fenomeni emersi nei vari esperimenti condotti all’epoca. Ma non è in questo che risiede l’aspetto più interessante di tale diatriba, quanto nel fatto che ha stimolato la genialità dei due scienziati, la cui tenacia nel difendere le loro interpretazioni e l’arguzia nell’escogi-tare nuovi e interessanti esperimenti hanno portato a una delle più importanti scoperte della scienza.

Non si può dunque affermare che le rane abbiano guidato l’essere umano verso la comprensione di quel profondo mistero che è la vita, ma non è altresì sbagliato af-fermare che quantomeno lo hanno condotto verso la possibilità di illuminare a giorno le proprie case, di accendere il televisore senza muovere il proprio pesante sedere dalla poltrona, di spostare immagini sullo schermo di uno smartphone dove si posso-no scrivere messaggi di ogni tipo e soprat-tutto, cosa ben più interessante oggigiorno, leggere i fatti altrui. Tutto grazie alla crea-zione di piccole differenze di potenziale, di cariche elettriche in movimento, di correnti, in una parola, della possibilità di utilizzare a proprio piacimento l’energia elettrica; e questo a partire da qualche rana scorticata. Sì, perché se in biologia i topi la fanno da padroni, l’elettrofi siologia è stato l’ambito in cui la rana ha avuto un indiscusso ruolo da protagonista.

La pila, inventata da Alessandro Volta nel 1799, è costituita da

una serie di coppie di dischi, uno di rame e uno

di zinco, con un disco di panno impregnato di

acqua salata o di qualche altro liquido conduttore,

intercalato tra due coppie successive. I metalli a

contatto con la soluzione elettrolitica si caricano,

l’uno positivamente e l’altro negativamente,

generando una piccola differenza di potenziale. Sommando i contributi

di ciascuna coppia si ottiene una differenza di

potenziale, consistente agli estremi della pila, che

genera luce artifi ciale. Bibliografi a:Felice Marco, Elementi di Fisica, Ditta G.B. Paravia e Comp., 1887 http://www.ampere.cnrs.fr/histoire/parcours-historique/galvani-volta/galvani/ithttp://www.ampere.cnrs.fr/histoire/parcours-historique/galvani-volta/controverse/it

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Il 24 agosto o, più probabilmente, il 24 ottobre del 79 d.C. si verifi cò la violentissima eruzione del Vesuvio che causò la distruzione di Ercolano, Pompei e Stabia 1. Tra le fonti coeve che riportano il fatto vi è una lettera dell’Epistolario di Plinio Cecilio Secondo, che descrive alcune fasi del fenomeno, ma che ha come scopo principale la descrizione della morte di una personalità dell’epoca: suo zio Gaio Plinio Secondo 2. La lettera è stata scritta diversi anni dopo, su esplicita richiesta di Publio Cornelio Tacito, il maggiore storico della latinità. Egli si serviva per la sua opera di fonti dirette e, amico di Plinio, chiede di riportargli la sua testimonianza sulla morte dello zio. Plinio, che all’epoca aveva circa 18 anni, si trovava infatti, assieme alla madre Plinia, a Miseno, dove lo zio era praefectus della fl otta imperiale. La lettera è uno dei documenti più interessanti del patrimonio letterario latino: oltre a riportare la drammatica scena dell’eruzione, fornisce notizie su tre illustri personalità dell’epoca, descrivendo in particolare la morte di Gaio Plinio e confermandone i principali tratti della personalità che si ricavano dalla sua opera e dalle altre fonti 3. Gaio Plinio Secondo scrisse molto; Svetonio, che ne compose una brevissima biografi a, lo annovera tra gli storici per i venti libri sulle guerre tra Romani e Germani, Bella Germaniae, che Tacito usò come fonte. L’unica opera giunta è tuttavia la Naturalis historia, che ci porta a considerarlo un naturalista e scienziato4. La Naturalis historia è opera del tutto particolare. Lo dichiara lo stesso autore: la sua è una via mai percorsa prima, né dai latini, né dai Greci:

Iter est non trita auctoribus via (…). Nemo apud nos qui idem temptaverit, nemo apud Graecos, qui unus omnia ea tractaverit. Il percorso è una strada non battuta dagli autori (…). Nessuno presso di noi che abbia intrapreso la medesima impresa, nessuno presso i Greci che da solo abbia trattato tutti questi argomenti5.

Lo scopo, ambizioso, è quello di trattare tutto il sapere, nelle sue componenti ancora sconosciute e in quelle già note:

· Ante omnia attingenda quae Graeci vocant, et tamen ignota aut incerta ingeniis facta; alia vero ita multis prodita, ut in fastidium sint adducta. Prima di tutto bisogna trattare quelle che i Greci chiamano le conoscenze della , e tuttavia ignote o incerte; altre poi in vero così note a tutti da essere tenute in fastidio.6

L’uso consapevole del termine - il sapere circolare - ci autorizza a considerare l’opera la prima di questo genere. In effetti essa è una miniera di informazioni sullo stato delle conoscenze scientifi che e tecniche dell’epoca antica. Sicuramente non c’è la prospettiva sperimentale che oggi ci aspetteremmo da testi scientifi ci, tuttavia l’opera presenta aspetti interessanti. Essa, in un certo senso, possiede due anime. Una è quella compilatoria, utile per le informazioni che offre: basti pensare che la parte sulla medicina - i libri dal 20 al 32 - rappresenta il più ampio trattato sull’argomento giuntoci dal mondo latino assieme a quello di Celso7. L’altra va oltre la pura registrazione dei fatti e la si può legare al termine historia, nel senso originario che ha in greco “ricerca”. Per capire tale prospettiva occorre far riferimento alla posizione fi losofi ca di Plinio, uno dei punti chiave della ricerca sull’autore. Essa si può giudicare meno contradditoria di quanto diversi critici affermano e non esattamente

Plinius Senior:aspetti della scienza

nel mondo antico

Statua di Plinio il Vecchio sulla Cattedrale di Santa Maria Assunta a Como

Statua di Plinio il Giovane sulla Cattedrale di Santa maria Assunta a Como

di Silvio Biagi

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liquidabile con un termine tutto sommato comodo come quello di eclettismo. La sua base è stoica. La natura non è frutto del caso, come aveva affermato l’epicureismo di Lucrezio: una intelligenza divina sembra guidarla. La linea è quella dello stoicismo di Posidonio, di Seneca e, a tratti, di Cicerone8. Tuttavia il Logos è assai più immanente che nella tradizione stoica precedente, tende quasi ad identifi carsi con il mondo stesso e questo presenta due conseguenze. Una è che la condizione umana risulta contraddittoria e, a tratti, infelice, tanto da giustifi care la ripresa di immagini di Lucrezio. La natura, in Plinio, non ha riservato un ruolo di centralità all’uomo9. L’altra consiste nello sminuire il provvidenzialismo, che soprattutto in Seneca era molto accentuato. In quest’ultimo la felicità è indipendente dalle condizioni di vita e il dolore è strumento di maturazione per il saggio10. In Plinio, invece, il dolore è elemento di infelicità umana:

(…) cum praesertim nisi carenti doloribus morbisque vita ipsa poena fi at(…) dal momento che la vita stessa è pena tranne che per chi non ha dolore e malattie11.

E contro il dolore occorre lottare. Plinio dello stoicismo mantiene la forte fi ducia nel progresso e nel destino positivo delle sorti umane, ma non lega questa fi ducia al logos che guida il mondo (o almeno non del tutto), bensì al comportamento umano. Dunque è doveroso trattare di ciò che homini prosit (giovi all’uomo). E nella sua trattazione l’obiettivo - la ricerca, appunto - va individuato in ciò che è utile prima che in ciò che è bello.

(…) quando ita decretum est, minorem gratiae quam utilitatium vitae respectum habere.(…) dal momento che il principio fondamentale è avere minore considerazione della bellezza che dell’utilità per la vita12.

Per questo si può considerare il suo come uno stoicismo più ‘laico’, quasi - si passi il termine - ‘preilluminista’. Il progresso dell’uomo nelle conoscenze e nell’uso della natura è il cuore dell’opera, è questa la ricerca e sicuramente anche da questo spirito della ricerca di progresso nasce la sua opera enciclopedica. Il razionalismo della sua posizione emerge chiaro quando, nel parlare di divinità, sembra riprendere la posizione di Evemero da Messina che gli dei siano esseri umani divinizzati per i loro grandi meriti:

hic est vetustissimus referendi bene merentibus gratiam mos, ut tales numinibus adscribant. quippe et aliorum nomina deorum et quae supra retuli siderum ex hominum nata sunt meritis13.

È una critica alla religione tradizionale:Quapropter effi giem dei formamque quaerere inbecillitatis humanae reor Perciò penso sia proprio della debolezza umana ricercare un’immagine e una forma della divinità14.

e la ricerca di una via più profonda:

deus est mortali iuvare mortalem, et haec ad aeternam gloriam viaè dio per un mortale giovare a un mortale e questa è la strada per una gloria eterna15.

Questa posizione non è nuova nella secolare tradizione romana del senso della civitas, per cui l’azione dell’uomo acquista senso solo se fatta in prospettiva di un servizio alla comunità politica e si può considerare anche eredità del moralismo catoniano. Tuttavia in Plinio al signifi cato politico si affi anca anche quello più legato all’humanitas. Infatti la civitas si era trasformata profondamente, non era più la res publica, ma quel principatum che fa oscillare Seneca tra impegno politico (negotium) e studio individuale (otium), giustifi cato come a sua volta utile all’umanità. Plinio non mette certo in discussione la nuova forma politica, come altri nel I sec. d. C., non la giudica nemmeno - come fa invece Tacito, che pur ritenendola inevitabile ne dimostra il carattere intrinsecamente negativo - , sottolinea invece che qualsiasi azione deve essere fatta per la gloria di Roma, cioè dentro l’orizzonte di quella comunità umana vista come la massima espressione di civiltà e ritenuta ‘immortale’16. Lo si vede nella Praefatio al futuro imperatore Tito, che non può essere tanto facilmente liquidata come una posizione adulatoria, visto che Plinio stesso aveva vissuto con un distacco ‘critico’ il periodo neroniano e che la dinastia fl avia aveva sicuramente ampliato quella che Tacito defi nirà libertas. Non critica il principato ma sa distinguere tra principe e principe. Un analogo spirito critico lo dimostra nel distinguere la buona dalla cattiva azione dell’uomo.

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Non è dunque tanto la sua posizione fi losofi ca a risultare frammentaria, quanto la sua esposizione, in un’opera fatta più per la consultazione che per la lettura, nella quale l’elemento letterario dell’eleganza e dell’organicità non è, per sua stessa ammissione, il criterio principale. La posizione di pensiero si può ritenere ragionevolmente chiara, ed emerge in molti passi della sua monumentale enciclopedia, mentre in altri si può leggerla implicitamente. La dimostrazione migliore, poi, la dà con la sua morte. L’epistola del nipote Plinio Cecilio a Tacito - che viene riportata sotto - rappresenta la testimonianza di una profonda coerenza: le abitudini di studio, anche quando era impegnato in incarichi ‘pubblici’ o si trovava in frangenti drammatici, la curiosità per la natura, la tensione verso la utilitas su cui ha fondato la Naturalis historia, l’impegno civile ed umano, che, alla fi ne, ha prevalso su tutto.

Note1. La tradizione, anche sulla base della lettera di Plinio oggetto del presente articolo, parla del 24 agosto; i ritrovamenti archeologici inducono a postdatare il fenomeno di due mesi, in ottobre: non è in discussione il giorno (9 giorni prima delle Calende, cioè il primo del mese); è invece probabile che un errore nella tradizione manoscritta abbia trasformato Novembris in Septembris, causando l’anticipazione di due mesi.2. Cfr. Plinio, Epistolario, VI, XVI.3. L’Epistolario di Plinio fu pubblicato tra il 103 e il 109 d.C. (i libri I-IX); Tacito si accinge a comporre le Historiae nei primi anni del secolo, ma la datazione è incerta; si sa solo che nel 106-107 alcune parti erano già state pubblicate. 4. Cfr. Svetonio, De poetis: «Itaque bella omnia, quae unquam cum Germanis gesta sunt, XX voluminibus comprehendit, itemque “Naturalis Historiae” XXXVII libros absolvit.»5. Plinio, Naturalis historia, Praefatio, 14.6. Plinio, Naturalis historia, Praefatio, 14. Il termine (enkicliu paideia) si trova in Plutarco.7. Aulo Cornelio Celso, operante nell’epoca di Tiberio (14-37 d.C.), scrisse un trattato enciclopedidico, le Artes, di cui restano solo gli otto libri De medicina.8. Posidonio di Apamea (135 ca.-50 ca. a.C.) appartiene alla cosiddetta Media Stoa. Fondatore di una scuola fi losofi ca a Rodi, ebbe grande infl uenza su autori come Cicerone e Seneca. Notevoli i suoi interessi scientifi ci. È sicuramente uno dei riferimenti di Plinio. Della sua vasta opera restano solo frammenti.9. Cfr. l’esordio del VII libro della Naturalis Historia (1-5), che riecheggia celebri immagini del V libro del De rerum natura di Lucrezio. Entrambi gli autori, con le loro considerazioni sulla durezza della natura nei confronti dell’uomo, eserciteranno grande infl uenza sul pensiero e su certe immagini poetiche di Giacomo Leopardi.10. Cfr. soprattutto le tre Consolationes e il De providentia.11. Plinio, Naturalis historia, XXVIII, 1.12. Plinio, Naturalis historia, XXVIII, 2.13. Plinio, Naturalis historia, II, 19.14. Plinio, Naturalis historia, II, 14.15. Plinio, Naturalis historia, II, 18. L’evemerismo in Plinio ed in generale la sua posizione fi losofi ca è chiarita bene da Sandra Citroni Marchetti nel suo articolo Iuvare mortalem. L’ideale programmatico della Naturalis historia di Plinio nei rapporti con il moralismo stoico-diatribico, “Atene e Roma” 1882, Firenze, pp. 126-131, cui ho fatto riferimento per il presente articolo.16. Signifi cativo è il rimprovero mosso a Livio sulla ricerca della gloria personale nella Praefatio: «(…) profi teor mirari me T. Livium, auctorem celeberrimum (….) quodam volumine sic orsum: iam sibi satis gloriae quaesitum, et potuisse se desidere, ni animus inquies pasceretur opere. profecto enim populi gentium victoris et Romani nominis gloriae, non suae, composuisse illa decuit.» «(…) confesso che mi meraviglio che Tito Livio, scrittore celeberrimo (…) esordisca così in un suo libro: che aveva già ottenuto suffi ciente gloria e che avrebbe potuto fermarsi, se il suo animo inquieto non si nutrisse dello scrivere. In verità sarebbe stato più decoroso che avesse scritto le sue opere a gloria di un popolo vincitore di genti e del nome di Roma piuttosto che a gloria sua.» Cfr. Plinio, Naturalis historia, Praefatio, Cfr. anche per questo riferimento S. Citroni Marchetti, art. cit..

Nota conclusiva: tutte le traduzioni delle citazioni e la traduzione della lettera di Plinio Cecilio Secondo a Tacito sono a cura di Silvio Biagi.

Dal fumetto“Plinius” di Mari Yamazaki e Tori Mari. Rappresenta Plinio con l’eruzione del vulcano Vesuvio sullo sfondo

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C. Plinio saluta il suo Tacito. Mi chiedi che io ti scriva della morte di mio zio, per poterla tramandare ai posteri in maniera più fedele. Ti ringrazio;

prevedo infatti già che alla sua morte, se viene ricordata da te, è destinata una gloria immortale. Sebbene infatti egli sia morto nella catastrofe di luoghi bellissimi e sia, per così dire, destinato a vivere per sempre, come quelle popolazioni e quelle città, per quella sciagura degna di memoria, e nonostante egli stesso abbia composto molte opere destinate a rimanere nel tempo, tuttavia l’eternità dei tuoi scritti aggiungerà molto alla durata del ricordo di lui. In verità giudico beati coloro ai quali, per dono degli dei, è stato concesso o di compiere opere degne di essere scritte o di scrivere libri degni di essere letti e ancora più beati coloro cui sono state concesse entrambe le cose. Tra questi ci sarà anche mio zio, sia per i suoi libri che per i tuoi. Per questo assai volentieri mi accingo a raccontarti quel che mi chiedi, anzi sono io a pregarti.

Si trovava a Miseno e comandava di persona la fl otta. Nel nono giorno prima delle calende di settembre, verso l’ora settima, mia madre gli rivela che si vedeva una nube straordinaria sia per grandezza che per aspetto. Lui aveva preso il sole, fatto un bagno freddo, poi si era disteso a mangiare e stava studiando; chiede i sandali e sale in un luogo dal quale quello straordinario fenomeno si poteva vedere al meglio. Si elevava – non era chiaro a chi guardava da lontano da quale monte; fu saputo dopo che era stato il Vesuvio – una nube la cui somiglianza e il cui aspetto non si potrebbero meglio defi nire se non associandole ad un albero di pino. Infatti trascinata in alto da un tronco lunghissimo si apriva come in rami, credo perché trasportata su dall’energia che si era appena sprigionata, poi, indebolitasi questa, cessata la spinta o anche perché schiacciata dal suo stesso peso si allargava, a tratti bianca, a tratti sporca e macchiata a seconda della terra e della cenere che portava su. A lui, da uomo coltissimo quale era, parve cosa di grande importanza e degna di essere conosciuta più da vicino.

Comanda che gli sia apprestata una liburna; mi concede la possibilità di andare con lui, se volessi; risposi che preferivo studiare e per l’appunto proprio lui mi aveva dato qualcosa da scrivere. Stava uscendo di casa; riceve una richiesta di aiuto da parte di Rettina moglie di Tasco, terrorizzata dal pericolo incombente – infatti la sua villa stava proprio sotto alle pendici e non c’era via di fuga se non con le navi – che lo implorava di sottrarla ad una così grande minaccia. Allora lui cambia il suo intento e quanto aveva intrapreso con l’animo dello studioso lo porta avanti con il massimo senso del dovere. Fa tirar fuori le quadriremi, vi sale di persona con l’intento di portare aiuto non solo a Rettina ma a molti – la costa era infatti molto abitata per la sua bellezza. Si affretta verso i luoghi da cui altri fuggono, e tiene dritta la rotta e dritti i timoni verso il pericolo, così privo di paura da dettare e annotare di persona tutte le fasi di quella sciagura, tutte le immagini, come le vedeva.

Ormai la cenere cadeva sulle navi più calda e più fi tta, quanto più si avvicinavano; e anche pomici e pezzi di pietre neri e bruciati e spezzati dal fuoco; a quel punto la secca creatasi e tutto quanto veniva giù dal monte rendevano la costa inaccessibile. Dopo aver esitato un poco se tornare indietro, subito disse al timoniere che lo invitava a fare così: “La fortuna aiuta i coraggiosi: dirigiti verso Pomponiano”. Lui era a Stabia sull’altro lato dell’insenatura – infatti il mare rientra sensibilmente nella costa che si piega e si curva -; lì sebbene ancora non si avvicinasse il pericolo e tuttavia fosse ben visibile e crescesse sempre più, Pomponiano aveva radunato le sue cose sulle navi, deciso a fuggire se il vento contrario fosse cessato. Mio zio, trasportato là proprio da quello per lui totalmente favorevole, lo abbraccia, mentre lui tremava, lo consola e lo esorta e per calmare la sua paura con la propria sicurezza si fa portare nel bagno; dopo essersi lavato si distende, cena, allegro o –atteggiamento ugualmente grande – con l’apparenza di allegria.

Nel frattempo dal Vesuvio in molti luoghi si vedevano fi amme estesissime ed alti incendi, lo splendore e la luminosità dei quali erano esaltati dalle tenebre della notte. Lui continuava a ripetere per contenere la paura che erano fuochi lasciati per l’ansia di fuga dai contadini e le ville abbandonate che bruciavano in zona deserta. Poi si concesse un po’ di riposo e dormì in verità un sonno profondo; infatti il respiro, che aveva piuttosto pesante e rumoroso per l’ampia complessione del corpo, era sentito da coloro che si aggiravano sulla soglia. Ma il cortile da cui si accedeva alla stanza si era a tal punto innalzato, riempito ormai di cenere mista a pomici, che se avesse indugiato più a lungo nella camera da letto non gli sarebbe stato più possibile uscire. Svegliato, uscì e si unì a Pomponiano e agli altri che erano rimasti svegli.

Insieme si consultano se rimanere al coperto o uscire all’aperto. Infatti le case ondeggiavano per le frequenti e forti scosse, e quasi sradicate dalle loro fondamenta sembravano muoversi ora di qua ora di là o ritornare al loro posto. Uscendo di nuovo all’aperto si temeva la caduta di pomici, sebbene più leggere e piccole, ma per decisione comune si scelse questo pericolo; in lui fu una ragione a prevalere su un’altra ragione, mentre presso gli altri fu il timore che vinse su un altro timore. Messisi sulla testa dei cuscini li fermano con dei panni: fu questo il riparo contro ciò che cadeva.

Già faceva giorno altrove, là c’era una notte più nera e più fi tta di tutte le notti; che tuttavia molte fi accole e luci diverse illuminavano. Decise di uscire sulla spiaggia e vedere da vicino se mai il mare fosse praticabile; ma rimaneva ancora agitato e impraticabile.

Qui distesosi sopra un lenzuolo di lino una prima volta e poi una seconda chiese e bevve dell’acqua fredda. Le fi amme e l’odore sulfureo che le preannuncia fanno fuggire da qui alcuni e riscuotono lui. Sostenendosi a due giovani schiavi si alzò e subito ricadde, per quanto mi risulta, col respiro impedito dal vapore sempre più denso e con la gola chiusa, che lui aveva per natura debole, gonfi a e spesso irritata. Quando tornò il giorno – il terzo da quello che era stato l’ultimo per lui – il corpo fu ritrovato intatto, senza ferite e con addosso gli stessi vestiti: l’aspetto del corpo era più simile ad uno che dormiva piuttosto che a un morto.

Nel frattempo io e mia madre a Miseno … – ma questo non ha rilevanza per la storia, né tu hai voluto sapere altro oltre la sua morte. Perciò termino qua.

Aggiungerò una cosa sola, che io ho seguito tutto ciò a cui sono stato presente e che ho sentito raccontare nella vicinanza dei fatti, quando le cose si ricordano in modo più veritiero. Tu scegli gli aspetti più signifi cativi: una cosa è infatti scrivere una lettera, altra è scrivere la storia, una cosa è scrivere per un amico, altra scrivere per tutti. Stai bene.

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Naturalis historiaL’opera è il risultato di almeno venticinque anni di studio; è la summa

delle conoscenze tratte dalla lettura di 2000 volumi di 100 autori diversi. Preceduta da un’epistola dedicatoria a Tito, futuro imperatore, fu pubblicata nel 77 d.C. e si compone di 37 libri, rigorosamente ordinati dall’autore. Libro 1: indice generale e bibliografi a. Libro 2: cosmologia e geografi a fi sica. Libri 3-6: geografi a. Libro 7: antropologia. Libri 8-11: zoologia. Libri 12-19: botanica. Libri 20-32: medicina. Libri 33-37: metallurgia, mineralogia, storia dell’arte. Nel I sec. d.C., con i progressi delle conoscenze tecnico-scientifi che, si avverte la necessità di sistemare il sapere acquisito: nascono forme di enciclopedismo, con la volontà di raccogliere il meglio delle conoscenze. Forte è anche la richiesta di informazione tecnico-scientifi ca, sia da parte dei funzionari dell’impero, sia da parte dei nuovi ceti tecnici e professionali. Si mantiene vivo, però, anche il gusto del meraviglioso e del favoloso, che favorisce opere di naturalisti-viaggiatori, autori di paradoxa e mirabilia, raccolti di persona o riportati per sentito dire. La Naturalis historia va collocata su questo sfondo: frutto di un progetto di conservazione integrale dello scibile umano, rigorosa nell’indicazione delle fonti, cui è dedicato interamente il primo libro, non lo è altrettanto sotto l’aspetto metodologico: non discerne le informazioni scientifi camente fondate da quelle prive di attendibilità e si presenta come compilazione di nozioni e teorie di altri. Lo stile è un altro punto debole della Naturalis historia: Plinio il Vecchio risulta essere, a detta di molti, il peggior scrittore latino. La disarticolazione delle strutture sintattiche, caratteristica dell’età neroniana e fl avia, diventa in Plinio caotico disordine. Si può in parte giustifi care se si pensa alla vastità del progetto ed al fatto che la destinazione dell’opera era la consultazione e non l’eleganza letteraria, come Plinio stesso dice.

(a cura di Marco Gozzini)

Gaio Plinio Secondo detto Plinio il VecchioGaio Plinio Secondo, conosciuto come Plinio il Vecchio, nacque a Como nel 23 o 24 d.C. Tra il 46 e il 58 d.C. fece carriera nell’esercito, presso le armate del Reno, al confi ne fra Gallia e Germania, dove conobbe, tra gli altri, il futuro imperatore Tito. In questo periodo scrisse un’opera sulle tecniche di combattimento a cavallo, De iaculatione equestri (Il lancio del giavellotto a cavallo) e una storia delle guerre fra Romani e Germani, Bella Germaniae. Tornato a Roma

verso il 58, in pieno periodo neroniano, condusse vita appartata: ostile al regime di Nerone, si astenne infatti dalle cariche pubbliche. Dal 69

d.C., sotto Vespasiano, intraprese la carriera di procuratore imperiale. Compose anche un’importante opera storica sul periodo 50-70 d.C. (A

fi ne Aufi dii Bassi), in 31 libri, continuazione della storia dell’Impero scritta da Aufi dio Basso. Già questo elenco mostra la vastità dei suoi interessi: essa si

manifesta al massimo grado nella Naturalis historia, grande enciclopedia, frutto di molti anni di studi e letture, che concluse nell’ultima parte della sua vita, quando divenne comandante della fl otta imperiale in Campania, a Miseno. Curioso della natura e guidato da un profondo senso civico, morì il 24 agosto (o ottobre) del 79, durante la catastrofi ca eruzione del Vesuvio.

(a cura di Marco Gozzini)

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Publio Cornelio Tacito Publio Cornelio Tacito nasce intorno al 56 d.C. Le informazioni sono piuttosto scarse e non è possibile stabilire con certezza né l’anno né il luogo di nascita: l’ipotesi più accreditata porta a individuare il luogo di origine nella Gallia Narbonense e a collocare il periodo di nascita tra il 56 e il 58. Probabilmente proviene da famiglia di rango senatorio o equestre discendente dalla gens Cornelia. Studia retorica a Roma in vista della carriera politica o forense, ricoprendo cariche pubbliche fi n dai tempi di Vespasiano. Sposa la fi glia del generale Gneo Giulio Agricola, Giulia, nel 77 o nel 78. È certo che Tacito aveva prestato servizio, in precedenza, in una legione che operava in Bitinia comandata dallo stesso Giulio Agricola e aveva ricoperto il ruolo di tribuno militare, incarico assegnatogli da Vespasiano. Lo stesso Vespasiano contribuisce a dare un importante impulso alla sua carriera, anche se l’ingresso effettivo nella vita politica si concretizza sotto Tito: nell’81 o nell’82, infatti, egli vanta la carica di

quaestor. Quindi continua nel cursus honorum e nell’88 diventa praetor, entrando nel collegio sacerdotale dei quindecemviri sacris faciundis. Abile sia come oratore che come avvocato, tra l’89 e il 93 ricopre nelle province diverse funzioni pubbliche. Affronta senza particolari diffi coltà, tra il 93 e il 96, il regno del terrore di Domiziano, riuscendo a sopravvivere con le sue proprietà, anche se questa esperienza lo turba in maniera profonda e lascia in lui un’amarezza che contribuisce a far sorgere un evidente odio nei confronti della tirannia. Nel 97 diventa consul suffectus, nel corso del principato di Nerva. Nel 98 scrive l’Agricola, poco dopo compone la Germania. Quest’ultima (De origine et situ Germanorum) è un’opera etnografi ca, che descrive le tribù germaniche stanziate oltre il limes dell’Impero, includendo anche considerazioni etico-politiche (come la forte critica alla corruzione di Roma). Successivamente Tacito scompare dalla scena pubblica per qualche anno: se ne hanno notizie solo con il regno di Traiano. Nel frattempo si dedica alle sue opere più famose, prima le Historiae, che trattano gli anni 69-96 d.C. (dalla morte di Nerone alla fi ne della dinastia fl avia con la morte di Domiziano), poi gli Annales ab excessu Divi Augusti (dal 14 d.C., morte di Augusto, al 68, morte di Nerone). Nel 112 o 113 ricopre la carica di governatore della provincia romana dell’Asia, nell’Anatolia occidentale. Muore tra il 120 e il 125: anche in questo caso, non si hanno notizie certe né a proposito dell’anno né a proposito del luogo.

(a cura di Ambra Morelli)

Plinius Caecilius Secundus, detto Plinio il Giovane Cecilio Secondo, conosciuto come Plinio il Giovane, fu uno scrittore latino nato a Como nel 61 o 62 d.C e morto nel 114 d.C circa, fi glio di L. Cecilio Cilone e di Plinia, sorella di Plinio il Vecchio. Rimasto orfano di padre e adottato dallo zio materno, assunse il nome di C. Plinio Cecilio Secondo. Scolaro di Quintiliano e amico degli uomini più ragguardevoli del suo tempo, come gli storici Tacito e Svetonio, ricoprì varie cariche percorrendo gran parte della carriera sotto Domiziano, fi nché giunse al consolato sotto Traiano (100), dopo essere stato praefectus aerarii Saturni; poi (111 e 112) fu governatore della provincia di Bitinia e Ponto; morì quando era ancora nella provincia, o poco dopo il suo ritorno a Roma. Godette di una discreta agiatezza e possedette varie ville, tra cui due sul Lago di Como. Studioso e ammiratore di Cicerone, praticò l’attività forense e mise la sua parola al servizio della giustizia, più che di un facile successo. Scrisse varie opere, ma restano soltanto il Panegirico a Traiano e l’Epistolario, in cui ha ritratto se stesso e le abitudini di quella società in molte loro sfumature.

(a cura di Stefano Vegni)

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Lecco, 11 novembre 1628 - In seguito ad intense ricerche siamo riusciti a rintracciare don Abbondio, parroco di Olate, il quale ha accettato di rispondere ad alcune delle nostre domande.

Buongiorno don Abbondio, siamo qui per farle alcune domande. Buona giornata anche a voi, sarò felice di aiutarvi fi n dove mi sarà possibile...

Abbiamo saputo che è stato malato: come sta?Sono stato malato, ho avuto un febbrone! È stata dura, ma adesso sto meglio.

Lei è il parroco di questo paese, giusto? Da quanto tempo?Sì, sono il curato di questa terra, sono ormai trenta anni che dedico la mia vita agli altri, più precisamente dal 1598, ma vivo in questo paese solo da quindici anni. Non è molto, ma è un lavoro onesto.

Come si trova a Olate? Qual è il suo rapporto con i parrocchiani?Olate è un paese molto tranquillo, dove tutti si conoscono e si rispettano. Il mio rapporto con i fedeli è piuttosto buono: cerco di fare il mio dovere senza fare torto a nessuno... insomma faccio quel che posso!

Ha saputo della scomparsa di tre dei suoi parrocchiani? Li conosceva? Che persone erano?È vero, purtroppo da ieri non abbiamo più loro notizie, è stata veramente una brutta sorpresa. Come ho detto, in paese ci conosciamo tutti: Renzo, Lucia e Agnese sono brave persone, soprattutto la madre e la fi glia, persone molto devote. Ecco… a dire il vero… Renzo a volte si fa prendere troppo dalla smania di volere tutto subito, ma in fondo anche lui è un bravo fi gliolo, un agnello (se nessuno lo tocca).

I due ragazzi si erano appena sposati? O dovevano farlo tra pochi giorni?Sì, avrebbero dovuto sposarsi l’8 novembre, ma... beh... purtroppo mi sono ammalato, è stato un vero imprevisto, un febbrone, di quelli tremendi... ohimé!

Quando è stata l’ultima volta che li ha visti?Un paio di giorni fa: la sera... ehm, no... il giorno della data fi ssata per le nozze Renzo è passato per avere dei chiarimenti e... ovviamente gli ho spiegato tutto! Le ripeto, è stato un semplice imprevisto! Niente di più!

Ma che idea si è fatto della loro misteriosa sparizione?Sinceramente non saprei, non mi sono informato molto... sa, la febbre... ho sentito girare delle voci, ma nulla di sicuro.

Quando all’inizio dell’anno i professori ci hanno comunicato che il tema del prossimo numero della rivista “Il Gobetti” sarebbe stato Como e il suo territorio, abbiamo pensato subito a Manzoni e al celebre incipit dei Promessi Sposi. Poi però abbiamo iniziato a leggere il romanzo e ci siamo resi conto che quel famoso “ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno” in realtà rientra nella provincia di Lecco: lo dice chiaramente anche il narratore quando afferma che “Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago”. Che fare? Semplice, è stato il libro a decidere: leggendolo infatti non abbiamo potuto fare a meno di calarci nell’atmosfera del tempo e così abbiamo deciso di scrivere un’intervista impossibile al più riuscito dei personaggi, don Abbondio. I lettori lecchesi e comaschi, che speriamo siano comunque più di venticinque, ci perdoneranno: nel lontano 7 novembre dell’anno 1628 queste differenze tra province dovevano aver meno importanza di oggi. Almeno lo speriamo!

La classe 2BLS (Bessi Alessandra, Bollini Francesco, Bovo Francesco, Bruschi Lorenzo, Caceres Giulia, Cappelli Gregorio, Casini Alice, Ceccarelli Sophia, Fabbri Riccardo, Galli Camilla, Giannini Eleonora, Guerrini Tommaso, Guidotti Cosimo, Innocenti Daria, Mori Matteo, Rossi Ambra, Salerno Niccolò, Scarnati Francesco, Scartoni Giada, Sinatti Andrea, Stravirchi Giulia, Tenti Francesco, Veneri Lapo)

MISTERO A LECCODue promessi sposi e la madre di lei scomparsi nel nulla

Intervista al curato del paese a cura di Celine Pestelli

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E come ha reagito alla notizia della loro scomparsa? Sono rimasto piuttosto sorpreso, soprattutto pensando ai rispettabili parrocchiani di cui stiamo parlando. Ma, come ho già detto, non avevo con loro rapporti di stretta familiarità; infatti sono venuto a conoscenza della loro sparizione da voci di paese.

Dove pensa che siano andati?Non lo so, ripeto, non li conoscevo bene e non ero in stretti rapporti con loro. Penso comunque che data una così repentina partenza non siano stati diretti molto lontano. Sicuramente a spingerli a partire deve essere stato un motivo importante.

Ha dei sospetti?Non mi occupo di queste cose. Anzi, essendo un parroco, devo aggiungere che non posso accusare nessuno e che io non c’entro assolutamente niente.

Li sta per caso coprendo?Oh! I bugiardi! Oh! I bugiardoni! Bah.. ci mancherebbe altro! Perché questo tono inquisitorio? Non scherziamo!

Lei sta nascondendo dei segreti...Assolutamente no, nessun segreto che Dio non conosca! Perché dovrei avere qualcosa da nascondere?

Avevano forse dei nemici? La prego, se sa qualcosa, deve dirlo!Non violerò mai il segreto confessionale e non tradirò mai la fi ducia dei poveri cristiani che si affi dano al loro parroco.

Dunque lei sa qualcosa?Misericordia!! Io non ne so niente! E quando dico niente, o è niente, o è cosa che non posso dire!Non mi è consentito violare confessionis secretum, quod sacerdoti tuendum est.

Qualcuno ha fatto il nome di don Rodrigo... Ah sì? Sì, sì, ne ho sentito parlare in paese ma... ma... non ho mai avuto la possibilità di conoscerlo. Io di solito sto alla larga dai prepo... ehm... dai potenti e quando mi capita di incontrarne uno per strada saluto sempre. Di lui ho sentito parlare recentemente da qualcuno, ma ora non mi ricordo bene.

Potrebbe essere coinvolto nella vicenda dei tre fuggiaschi?Oh! Misericordia!!! Volete tacere? Non si possono formulare accuse di questo tipo con una simile leggerezza. Io... o non ne so niente oppure preferirei restarne fuori! Non sono cose che mi riguardano. Utinam deus eos adiuvet!

D’accordo, d’accordo. Tuttavia potrebbe dirci se ha notato qualcosa di insolito nei giorni precedenti la scomparsa?Non ho potuto notare niente perché sono stato rinchiuso in casa per diversi giorni a causa del febbrone che le ho detto; però, ora che ci penso, mi sono arrivate delle voci da Perpetua circa alcune persone sospette che si aggiravano in paese.

Come quelli che le sono entrati in casa la notte che ha gridato aiuto e il sacrestano ha suonato la campana a martello?Ah! Ricordo benissimo quel momento, mi sembra di riviverlo ancora adesso. Era cattiva gente, di quella che gira di notte. Devo ammettere che mi sono spaventato molto; per fortuna però non hanno commesso nessun furto e mi potrò risparmiare la denuncia al console.

Non li conosceva? Non erano di queste parti?E secondo voi? Come facevo a conoscerli? Non aspettavo nessuna visita, in casa eravamo solo io e Perpetua.

A questo proposito, lei vive da solo?Cari, spiritualmente parlando io vivo con il Signore, materialmente divido questa casa con Perpetua, la mia domestica... che tipo! Soprattutto da quando ha superato i quaranta! Ma, che vuole? La devo sopportare, con tutte le sue ubbìe e tutte le sue fantasie sui fi danzati che avrebbe scartato.

Anche lei, mi scusi se mi permetto, dovrebbe avere circa sessant’anni, giusto? Come si trova nella società contemporanea?Miei giovani interlocutori, ai miei tempi si stava più tranquilli: vivevamo con le porte sempre aperte e nessuno era estraneo a nessuno. Oh Carneade! Adesso non si vive più con la libertà di una volta! Per fare un esempio puramente ipotetico, voglio dire che a camminare tranquillamente per una viottola di campagna adesso si pos-sono fare anche dei bei brutti incontri! Ogni riferimento a fatti veramente accaduti è puramente casuale, s’in-tende! Oh! Misericordia! Troppo ho parlato! Adesso fatemi un fa-fa-fa-vore, lasciate in pace un povero prete! O povero me! A volte mi sento proprio come un povero vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro!

Va bene, va bene! Grazie di aver risposto alle nostre domande e arrivederci!Arrivederci fi glioli! Abbiate pazienza! Buona notte!

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Cari lettori de “Il Gobetti”,questa volta parlerò del sesso degli angeli, proprio così. Parlerò in sostanza di tali argo-menti notoriamente ritenuti futili o privi di importanza, dei quali la discussione o la loro dissertazione anche se ben articolata pare non avere nessuna incidenza su alcunché, e men che mai sul progresso umano. Parlare del sesso degli angeli è dunque parlare del niente, come sappiamo. Come pure potremmo dirlo quale su-perbo esercizio di retorica la cui sola funzione è rendere logico e quindi possibile ciò che invece non lo è o non è conoscibile immediatamente dai sensi, nella più stretta osservanza del pen-siero medievale che vedeva nella logica e nella sua corretta argomentazione una prova evidente dell’esistenza di qualcosa. Parrebbe dunque l’uomo, allora, essere in grado di poter pensare soltanto ciò che esiste o che potrebbe esistere. E più questa cosa viene trattata e si dispone in un percorso logico gram-maticale corretto, più la sua esistenza acquista forza e verità. Affascinante la logica medievale, fi glia di periodo storico nel quale la religione e la fi losofi a vanno cercandosi per spigare il mondo celeste e il mondo naturale. La fi sica di Aristotele ha senza dubbio una sua logica nel comprendere la meccanica delle cose e la avrà per molti secoli a venire mentre d’altro canto la fi losofi a, a quel tempo quasi esclusivamente speculativa e teologica, trova in questa un terre-

no e un supporto appropriato perché la ragione possa bene elaborare strutture concettuali a sostengo dell’esistenza di Dio. È il logos, il discorso, l’argomentare seguendo una corretta articolazione grammaticale. E poi la ragione che tramite le leggi della dialettica coglie il principio universale, queste sono le premesse che stavano dietro alle estenuanti discussioni che l’uo-mo medievale amava portare avanti. Natural-mente il terreno predi-letto per queste disfi de era quello teologico e fi losofi co per cui parla-re del sesso degli angeli si riferiva all’oggetto della discussione che ai più poteva apparire futile appunto e di nes-suna importanza. Eppure, questi bizan-tinismi, altro termine coniato quasi per ir-ridere all’eccessivo interesse che i teologi d’Oriente nutrivano per le dissertazione di natura teoretica, det-

IL SESSO DEGLI ANGELIAQUILEIA E LO SCISMA

DEI TRE CAPITOLI

Statua di Aristotele presso il villaggio di montagna Stagira sulla penisola di Chalcidice in Grecia

di Massimo Bartoli

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tero vita ai primi sette secoli di storia della chiesa a battaglie furibonde e a scismi di cui ancora oggi vediamo gli effetti. A tale proposito è bene sapere che i primi quattro Concili Ecumenici rispettivamente il Concilio di Nicea 325, il Concilio Costantinopo-litano 381, il Concilio di Efeso 431, il Concilio di Calcedonia 451, convocati tutti sul suolo dell’impero d’Oriente, sono ritenuti un’unità storica e spirituale a parte, avendo essi formulato i dogmi fondamentali della Chiesa. Sono infatti intorno a questi principi e alla loro interpretazione o lettura che si sono accese le dispute più cruente e tali dispute riguardavano a quel tempo essenzialmente la corretta defi nizione del dogma trinitario e del dogma cristologico. La codifi ca di tali importanti punti dottrinali è stato il lavoro svolto da questi concili che, di contro, bolla-rono come eresie quelle dottrine cristologiche che davano una interpretazione particolare della trinità con il padre ad esempio superiore al fi glio, arianesi-mo, o con il fi glio depositario della sola prerogativa divina, monofi sismo, rispettivamente condannati dal concilio di Nicea e dal concilio di Calcedonia, fi ssando il dogma trinitario nella identità di sostanza tra il Padre e il Figlio in un rapporto consustanziale. Ma cos’è un’eresia? L’eresia stando al nome greco

è una scelta unilaterale. Mentre la teolo-gia ortodossa sotto la guida della Chiesa accoglie in pieno la fede rivelata nella disposizione dell’ascolto prima, per poi confessare o professare i risultati ottenuti in un continuo confronto con la coscienza dogmatica trovandone la spiegazione e nel contempo cercando di dare ragione a tutte le verità di fede indistintamente, nella ere-sia al contrario vi è la tendenza a spiegare in modo tale che il giudizio umano prevale sulla fede predicata dalla Chiesa. In ulti-ma analisi nelle eresie viene a mancare la disposizione del credente all’assenso incondizionato, principio primo questo di ogni dottrina. L’essenza delle eresie sono il soggettivismo quindi e la parzialità. E seppure in molti casi si potrebbe parlare di superbia, molte delle eresie si fondano su una sincera ricerca personale, che affonda le sue radici in elaborate composizioni fi losofi che, ma che tuttavia dividono - ed è volontà di Dio che vi sia una sola Chiesa e una sola dottrina. Perciò i primi quattro Concili sono stati fondamentali per la storia della Chiesa. Papa Gregorio Magno per la loro autorità li paragonò ai quattro Vangeli avendo essi, tali Concili, formulato i dogmi sostanziali per la fede. Il Dogma Trinitario appunto, nella risoluzione che Dio è unico in tre persone. E il Dogma Cristologico, secondo il quale Gesù Cristo è umano e divino in egual misura e contemporaneamente e in una sola natura. Ma su quest’ultimo punto nessun Concilio è mai riuscito a dare la parola fi ne. Pensiamo alle Chiese orientali ortodosse o alla Chiesa Copta, che professa una Cristologia particolare per la quale in Gesù Cristo coesistono due nature, perfette entrambe, unite ma non mescolate, senza alterazione e senza confusione. Tuttavia nonostante la condanna per ere-sia attribuita, arianesimo e monofi sismo hanno sempre avuto una grande diffusione in Oriente, particolarmente in Egitto e nei paesi vicini, dove il monofi sismo aveva gettato radici profonde e tali, che neanche la sapiente opera diplomatica condotta dal Concilio di Calcedonia, nel quale si restava fedeli al Credo Niceno ma veniva data piena riabilitazione a Teodoreto di

Miniatura conservata al British Museum,

Londra. Morte sul rogo di Jacques de Molay

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Ciro e Iba d’Edessa, due capi della scuola di Antiochia in odore di Nestorianesimo, era riuscita a frenare. La controversia sul punto cristologico era talmente aspra che l’imperatore Giustiniano, la cui moglie era attaccata ai monofi siti, tentò una conciliazione con la chiesa di Roma sperando in un avvicinamento dell’occidente al pensiero teologico orientale. Ma Papa Virgilio si pro-fessò per la fede di Calcedonia. L’imperatore allora per venire incontro e forse addirittura per forzare una riconciliazione, promulgò un editto imperiale con il quale venivano condannati, dunque perché ritenuti vicini al Nestoriane-simo: 1) la persona e gli scritti di Teodoro di Mopsuestia, 2) gli scritti di Teodoro di Ciro contro Cirillo di Alessandria, 3) una lettera di Iba d’Edessa che difendeva Teodoro contro Cirillo. In sostanza, erano questi i “Tre Capi-toli” contro i quali avrebbe preso posizione il Concilio imperiale che Giustiniano convocò a Costantinopoli nell’anno 553, molti anni dopo - circa un secolo - la morte dei tre teologi. Le decisioni del Concilio, ratifi cate soltanto in

seguito da Papa Virgilio, ebbero conseguenze dirompenti. Molti vescovi dell’Italia settentrio-nale, della Gallia e del Norico, territorio situato tra l’attuale Austria e Slovenia, chiesero subito spiegazioni. Ma la posizione più ferma fu presa dalle provincie ecclesiastiche di Milano e di Aquileia che convocarono un concilio parti-colare nel quale venivano rigettate le decisioni del concilio Costantinopolitano, contrarie tra l’altro al pensiero giuridico occidentale che mai avrebbe istituito un processo contro persone or-mai morte ed incapaci di difendersi. Si restava quindi fedeli ai dogmi di Calcedonia sia perché l’opera dogmatica di un concilio ecumenico non poteva essere oggetto di correzioni, e sia perché lo stesso concilio aveva lavorato per una riabilitazione dei tre teologi impedendone qual-siasi condanna. E dunque dirompenti furono le conseguenze di tale atto con Aquileia che si eresse a patriarcato autonomo per sottolineare la propria indipendenza da Roma. La realtà ecclesiale di Aquileia fu quella di un patriarcato la cui diocesi metropolita, sulla quale il vescovo della città o patriarca aveva

Basilica patriarcale di Santa Maria Assunta di Aquileia, dedicata alla Vergine e ai santi Ermacora e Fortunato

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immediata giurisdizione, è stata tra le più vaste di tutto il medioevo. Fino al Danubio a nord, la sua provincia ecclesiastica comprendeva il lago Balaton a est per arrivare a sud all’Istria. Mentre ad ovest si estendeva all’attuale Canton Ticino ed appunto, alla città di Como, oggetto di trattazione di questo numero, come saprete, e tra gli altri, pretesto da parte mia per una piacevole, voglio sperare, discussione di teologia. Lo scisma dei Tre Capitoli fu defi nitivamente ricom-posto nel 699 con il ritorno di Aquileia nell’ortodossia cattolica ma al di là di questo, oltre ad aver posto va-stissimi territori, come abbiamo visto, al di fuori della giurisdizione della chiesa di Roma ed aver senza dub-bio accompagnato o favorito la separazione in parte delle chiese ortodosse orientali, le quali sopravvivono tuttora in Medio Oriente o in Egitto ad esempio come la chiesa Copta Ortodossa, oltre a tutto questo dicevo, la domanda fondamentale che potrebbe sorgere è sul signifi cato di fede. La fede non è altro che la libertà di affi darsi senza riserve ad una verità dogmatica. È la possibilità squisitamente umana di abbandonarsi ad un credo che, seppure diffi cile da capire, proprio per questo è inteso quale depositario di una verità superiore e quindi degno di fede. Perciò, eresie come l’arianesimo o il monofi sismo o le controversie trini-tarie, in realtà nascondono un pericolo agli occhi della

Chiesa, che va oltre il loro più immediato si-gnifi cato. E questo pe-ricolo non è altro che la superbia, la presun-zione, talvolta onesta ed encomiabile, che l’uomo pur nella sua

corruttibile fi nitezza possa ambire ad intuire o addi-rittura ad avvicinarsi al mistero divino. Sappiamo però che questo non è possibile e del resto la minaccia di una eccessiva democratizzazione e svilimento dei destini ultimi dell’umanità al livello dei bisogni primari è sotto gli occhi di tutti, come lo sono purtroppo i suoi effetti. Il caso Italia è emblematico. Se il divino è troppo alto, certo non lo si può credere più confi dente attribuendogli accezioni tipicamente umane perché questo contrasterebbe con la sua neces-saria natura divina. Né d’altro canto potremmo mai credere in un Cristo la cui sostanza sia esclusivamente divina poiché metteremmo in discussione il senso della passione e delle sua crocifi ssione. Sono tali, i temi che portarono allo scisma dei Tre Capitoli. E tali, furono pure i temi che portarono Como ad aderirvi con grande convinzione seppure, come abbiamo visto, le divergenze con la chiesa di Roma fossero in fondo apparentemente di lieve entità. Tuttavia, se una morale potremmo ricavare da questa vicenda, direi che come il diavolo si nasconde nei dettagli, anche la conoscenza spesso procede su cammini futili e nebulosi, quasi impervi per la diffi coltà ad afferrarsi. Dovremmo allora recuperare la nobile arte della politica. Non necessariamente dobbiamo discu-tere di quello che accade qui e ora. Ma anche di quello che sarà, o poteva essere. O di quello che non è stato o non sarà mai. Parliamo comunque, come amavano fare i medievali, ritroviamo il piacere della grammatica e della disquisizione, della politica in fondo. Del sesso degli angeli.

Mosaici nella basilica di Aquileiarappresentanti fl ora e fauna dei boschi [1], animali marini [2], una coppia di pavoni [3], angeli su imbarcazioni dotate di remi[4]

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[3] [4]

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