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incroci semestrale di letteratura e altre scritture anno XVII, numero 33 gennaio-giugno duemilasedici Mario Adda Editore

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incrocisemestrale di letteratura e altre scritture

anno XVII, numero 33gennaio-giugno duemilasedici

Mario Adda Editore

incrocisemestrale di letteraturae altre scritture

Anvur: rivista scientifica di Area 10 (Scienze dell’antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche)

Direzione: Lino Angiuli, Raffaele Nigro, Daniele Maria Pegorari

RedazioneGina Cafaro, Esther Celiberti, Milica Marinković, Domenico Mezzina, Domenico Ribatti, Sara Ricci, Salvatore Ritrovato, Marilena Squicciarini (segretaria), Carmine Tedeschi

Direttore responsabile: Salvatore Francesco Lattarulo

In copertina: Teo de Palma, Labile come pallidi sogni, acquerelli, colori vegetali, matita, tempera, cm 17x24, 2016.

web – http://incrocionline.wordpress.comMateriali e corrispondenza possono essere inviati all’indirizzo: [email protected] collabora per invito.Abbonamento annuale: euro 18,00Una copia: euro 10,00da versare sul c.c. postale n. 10286706intestato a: Adda Editore, via Tanzi, 59 - 70121 Bari

Autorizzazione del Tribunale di Bari n. 2068 del 2012 (n. Reg. Stampa 32)

ISBN 9788867172504ISSN 2281-1583

© Copyright 2016Mario Adda Editore, via Tanzi, 59 - 70121 BariTel. e Fax 080 5539502web: http://www.addaeditore.ite-mail: [email protected]

Finito di stampare nel mese di giugno 2016 presso Grafica 080 per conto di Mario Adda Editore - Bari

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Sommario

Editoriale 5

Così lontana così viCinaa cura di Curtis Dean Smith e Barbara Carle con opere originali di Teo de Palma 7

Idilli di Milano poesie di Andrea Genovese 21

Dentro la 0 del mio manicomioarcauna silloge di Anna Maria Farabbi con una ‘umana lettera’ di Lino Angiuli 32

Miniaturequattro racconti brevi di Ülar Ploom 39

La rivoluzione passiva dell’ISIS in Siriaun saggio di Marisa Della Gatta 45

Tradutional journey. Serra, Woolf, Benjamin:viaggio attraverso la realtà intraducibileun saggio di Giuseppe Gentile 58

Labirinto. Il mito della ricerca e la ricerca di un mitoun saggio di Milica Marinković 68

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Danza e labirintouna riflessione di Esther Celiberti 84

Sul “Grande adagio popolare” di Virgilio Sieniun saggio di Alessandro Leogrande 87

Sud Side Story: Checco Zalone e il ‘caso’ Pugliaun intervento di Anton Giulio Mancino 92

L’altra Italia di Flaianoun ricordo di Domenico Ribatti 102

Estetica della fotografia. Da un peccato originale ai problemi dello stileun saggio di Pio Tarantini 105

Recensioni

su E. Filieri (di C. Chiodo); S. Di Spigno (di M. Comitangelo); G. Lupo (di L. Angiuli); G. Natali Confortini (G. Cafaro); M. Tavoni, S. D’Amaro (di F. Giuliani); L. Fontanella (A. Lillo); A. Alessandrini (di F. Lorusso); S. Gentili (di C. Tedeschi); di S. Aglieco (di M. Bellini); M.G. Pani (di L. Liberatore); F. Medici (di S. Moresi); W. Morgese (di A. Giampietro); A. Tricomi, E. Fraccacreta, M. Raffaeli, L. El Makki (di S. D’Amaro); C. Sini (di D. Ribatti) 117

Scatti di poesia 2016catalogo della terza edizione della mostra fotoletteraria

* I sommari dei numeri precedenti si possono consultare sul sito: incrocionline.wordpress.com

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Labirinto Il mito della ricerca e la ricerca di un mito

un saggio di Milica Marinković

Il mito è un fenomeno sempre presente nella letteratura e nell’arte in generale. Oggi, più che mai, viviamo il mito del labirinto ormai staccato dal suo contesto religioso. Vivendo in uno spazio labirintico, non è facile trovare una via d’uscita. Come abbordare il mitologico in un testo se la sua presenza si dimostra troppo evidente? Come collegare uno dei più antichi miti greci con la letteratura contemporanea e i suoi eroi? Facendosi guidare dalla storia di Teseo come filo rosso, risponde a questi quesiti Milica Marinković, dottoranda in Francesistica presso il Dipartimento di Lettere Lingue Arti dell’Università degli Studi di Bari che si occupa del sacro e del mitologico nelle letterature francofone.

La questione dell’inizio e dell’origine del mondo è un problema davanti al quale l’uomo, nonostante tutti i progressi della scienza, rimane senza una risposta precisa. Lì dove la mente umana non riesce a trovare la chiave giusta da sola, bussa alla porta di Dio, ovvero del sacro. Dietro quella porta c’è tutto un universo misterioso, fantastico, amma-liante e affascinante, fatto di leggende e miti. E questi ultimi, i miti, sono quelli che ci attirano di più e che, nonostante la loro semplicità, danno ogni risposta. Ma, prima di tutto, come possiamo definire un mito? Davanti a questa complessa questione utilizze-remo le parole di Mircea Eliade, il maestro dei miti e del sacro, che ci spiega che «in una maniera generale, possiamo dire che il mito, così come esso è vissuto dalle società arcaiche, primo: costituisce la Storia degli Esseri Soprannaturali; secondo: questa Storia è conside-rata assolutamente come vera (perché si rifersice alle realtà) e sacra (perché è l’opera degli Esseri Soprannaturali); terzo: il mito si riferisce sempre a una ‘creazione’, racconta come qualcosa ha iniziato a esistere, o come un comportamento, un’istituzione, una maniera di lavorare sono stati fondati; per questa ragione i miti costituiscono i paradigmi di ogni atto umano significativo; quarto: conoscendo i miti, conosciamo l’‘origine’ delle cose e, di seguito, arriviamo a dominarle e a maneggiarle quanto lo vogliamo; non si tratta di una conoscenza ‘esteriore’, ‘astratta’, ma di una conoscenza che ‘viviamo’ ritualmente, sia nar-rando il mito cerimonialmente, sia effettuando il rituale al quale il mito serve di giustifica-zione; quinto: in una o nell’altra maniera, noi ‘viviamo’ il mito, nel senso che siamo presi

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dalla sua potenza sacra, esaltata dagli accadimenti che ricordiamo e che riattualizziamo»1.Quindi, il mito è un corpo vivo che si trasforma da una realtà all’altra e che viaggia

con l’umanità. Se i grandi miti resistono a tutti i momenti della storia, è perché si tratta dei veri capolavori della civiltà umana. Ecco perché loro, insieme a tutti gli adattamenti, rappresentano un’eterna fonte d’ispirazione nell’arte e nella letteratura. Perché il mito è un perfetto legame tra ogni domanda e ogni risposta, tra il sacro e il profano, tra l’arte e la scienza, tra l’invenzione e la pratica; è un fenomeno che riesce a sopravvivere nonostante i millenni passati dalla sua nascita ai giorni nostri e merita sempre di essere osservato e riattualizzato. Perché, in fin dei conti, a noi il mito piace. È un gioco accattivante che in maniera più semplice possibile spiega gli avvenimenti più complessi. Come, del resto, la creazione del mondo. E poi, sicuramente è più affascinante credere che, ad esempio, la causa dei terremoti stia nell’ira di un dio, piuttosto che nelle onde sismiche. Аnche quan-do le verità che il mito ci offre possono sembrare effettivamente primitive e infantili, noi siamo incuriositi e ci piace conoscerle.

La presenza del mito e del mitologico nella letteratura e nell’arte in generale non è difficile da notare. Il problema che si pone è, soprattutto, come abbordarla. Ovviamente, la sola presenza del mito in un testo letterario non basta per definire mitologico quel dato testo. E poi, la stessa presenza rappresenta soltanto una delle possibilità dell’analisi testuale, dato che in ogni testo più testi funzionano, come ci insegna Pierre Brunel, uno dei più grandi mitocritici. In effetti, un testo nel quale la presenza del mito e del sacro è evidente può essere interpretato in maniera mitocritica, ovvero cercando le immagini sociali e culturali del mito, o in maniera mitanalitica, che si avvicina al modello psicanali-tico, il campo scientifico che si è avvalso tanto dei miti classici. L’analisi testuale dipende anche dalla natura del mito osservato, il quale può essere etnologico, patrimonio culturale di un popolo o di una collettività, o letterario, nato nella letteratura stessa, soprattutto con i suoi eroi, ad esempio con quelli di Don Giovanni, Tristano, Don Chisciotte, Faust e altri. Infine, il solo testo analizzato può essere mitico – se racconta un mito – oppure mitologico – se riprende un certo mito e lo riattualizza. Naturalmente, un romanzo non deve necessariamente appartenere a una delle due categorie presentate, nonostante uno o più elementi mitologici siano evidenti al suo interno, poiché il mito può essere ripreso soltanto per allusioni.

Comunque sia, è ben noto che i miti sono delle storie sempre presenti nel nostro immaginario, i miti sono sempre contemporanei. Tuttavia sembra che ogni tanto un mito specifico diventi più valorizzato rispetto ad altri e si riattualizzi. È quello che succede col mito del labirinto, con quella famosa storia sulla ricerca, ovvero sulla quête, che può essere avvistata in qualsiasi contesto. In effetti, cercare la presenza di un mito si presta già come una ricerca. E i miti della ricerca sono tanti. La ricerca, la quête, ormai è un archetipo let-terario che si trova nella letteratura sotto vari aspetti: come la ricerca del ‘santo graal’, come la ricerca del vello d’oro di Giasone e degli Argonauti, oppure come i viaggi di Ulisse.

1 M. Eliade, Aspects du mythe, Gallimard, Paris 1963, pp. 32-33. La traduzione è a cura dell’autrice.

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Ogni ricerca è innanzitutto un viaggio, un’avventura. E ogni vita è una ricerca, un viaggio. Altrimenti non sarebbe una vita vissuta. Durante questo viaggio corriamo tanti pericoli, ci confrontiamo con diverse minacce e sfide, rischiamo. Non si tratta mai di una linea retta, di un viaggio tranquillo, non abbiamo dei compagni sempre buoni e fedeli. E solo alla fine arriviamo al centro di questo piccolo labirinto, dove il nostro Minotauro non sarà tanto pericoloso, ma ciò non significa che esso non sia importante. Il labirinto inteso come una ricerca è anche una ricerca intesa come uno studio scientifico.

In questo lavoro presenteremo gli esiti di una ricerca su un corpus letterario costituito principalmente dai romanzi di Anne Hébert, una delle più famose scrittrici del Québec. Dato che l’autrice non ha mai accettato di rinchiudersi all’interno della sua comunità – già una forma del labirinto – la sua opera ottiene un valore universale. In effetti, i risultati della ricerca possono interessare non solo gli studiosi dell’opera di Anne Hébert o della letteratura quebecchese, bensì tutti coloro che si interessano al mito e al sacro nella lette-ratura. Osare entrare nei labirinti di uno scrittore significa anche voler uscire dal nostro labirinto personale. Così una ricerca diventa doppia. Con una ricerca testuale cerchiamo l’uscita di una ricerca esistenziale.

Il motivo del labirinto non appartiene solo al passato. Al contrario, sembra che esso non sia mai stato così attuale. Basti pensare alle trasformazioni del mondo d’oggi, alla confusione di tutti i valori stabiliti, al Minotauro del cancro, al Minotauro della crisi eco-nomica, al labirinto dei corridoi ospedalieri, alle emigrazioni, alle immigrazioni, insom-ma, alla condizione labirintica dell’uomo contemporaneo. Perché il labirinto, uno dei più antichi miti greci, ci affascina oggi più che mai? La risposta è semplice: perché l’abbiamo creato noi e ne facciamo parte. In effetti, Bertrand Gervais, uno dei più grandi studio-si odierni del labirinto nell’immaginario contemporaneo, nota che: «[l]o sviluppo del cyberspazio, in questo senso, non è altro che una tappa in più all’interno della labirintiz-zazione della nostra esperienza del mondo. Adesso, a un luogo fisico risponde un luogo virtuale che non è solo un’architettura. […] Internet è un flusso informazionale che si spiega come il più complesso labirinto a linea spezzata mai concepito»2.

Che cos’è il labirinto? Non esiste una definizione chiara, perché, se consultiamo an-che un vocabolario, per esempio il Vocabolario Treccani on line, vedremo il termine così definito:

1. Nome di alcune leggendarie costruzioni architettoniche dell’antichità, di struttura ingegnosa e talmente complicata, per intreccio di stanze, corridoi, gal-lerie, da rendere assai difficile l’orientamento e quindi l’uscita a chi vi fosse en-trato: il l. di Creta, quello costruito, secondo il mito, da Dedalo per il Minotau-ro, il mostruoso figlio di Minosse; 2. a. Per estens., qualsiasi edificio o complesso di edifici in cui sia difficile orientarsi: questo non è un appartamento, è un l.; l. di

2 B. Gervais, Géopoétique des lignes brisées: musements, chants de pistes et labyrinthes hypermédiatiques, in Formes poétiques contemporaines, SUNY Buffalo, Montréal 2014. La traduzione è a cura dell’autrice.

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specchi, nei Luna Park. b. Più genericam., qualsiasi intrico di strade o di sentieri, serpeggiamento di corsi d’acqua, ecc. (cfr. anche dedalo): Fuggì piangendo, e con le mani ai crini, Per selve e boscherecci labirinti (Ariosto); onde Che con bei labi-rinti Trascorrono il sentiero (Chiabrera). Nei giardini e nei parchi (soprattutto delle ville italiane del ’600 e del ’700), intrico di viali, vialetti e passaggi fian-cheggiati da alte siepi o muriccioli. c. Gioco di pazienza, incluso di solito tra i giochi enigmistici, consistente nel trovare, in un intrico di vie, il giusto percorso che, da uno dei possibili ingressi, porti all’uscita. 3. fig. Affare imbrogliato, situa-zione complicata da cui non si sa come uscire, viluppo di difficoltà inestricabili, e sim.: non riesco a orientarmi in questo l. di calcoli; cacciarsi, perdersi in un l.; Nel laberinto intrai, né veggio ond’esca (Petrarca, con allusione al suo innamo-ramento per Laura). 4. In anatomia, serie di cavità ossee tra loro comunicanti (l. osseo), che costituiscono l’orecchio interno dell’uomo e degli altri vertebrati, sede dell’organo dell’udito e dell’equilibrio; […] 5. Per analogia con il labirinto dell’orecchio, l. acustico, la configurazione che assume un tubo acustico quando, per ragioni di spazio, lo si ripiega su sé stesso; è spesso realizzato con una cassa acustica parallelepipeda nell’interno della quale dei setti opportunamente di-sposti determinano il tortuoso percorso dei suoni. 6. Classificatore a labirinto: apparecchio da laboratorio costituito essenzialmente da un recipiente allungato nel quale alcuni setti, opportunamente disposti, costringono un fluido, che tra-sporta particelle solide in sospensione, a un percorso tortuoso.

Per quanto riguarda i sinonimi, quelli relativi all’edificio sono dedalo, gomitolo, gro-viglio, intreccio, intrico, nodo, mentre quelli che si riferiscono a una situazione complica-ta sono casino, garbuglio, ginepraio, imbroglio, intrigo, pasticcio.

Giustamente, un pasticcio. Come uscirne se si vuole analizzare un’opera letteraria dove questo mito è evidente? Per poter farlo, dovremo avere in mente la definizione che troviamo nel Dizionario dei miti letterari, dove André Peyronie definisce il labirinto come «prima di tutto, un’immagine mentale, una figura simbolica che non rinvia ad alcuna architettura esemplare, una metafora senza referenza. Innanzitutto, deve essere preso nel senso figurato e perciò è diventato una delle figure più affascinanti dei misteri del senso»3. Ovviamente, data la natura del solo mito, anche l’approccio è multiplo, labirintico. Il mito del labirinto ci racconta una delle avventure di Teseo, re d’Atene, svoltasi nel Labi-rinto di Cnosso. Il labirinto di Cnosso è soltanto uno dei tanti labirinti creati dalla natura o dall’uomo durante la storia. In effetti, il labirinto come complesso più essere considerato secondo tantissimi parametri, come si può leggere ne Il libro dei labirinti di Paolo Santar-cangeli e nella Prefazione al libro firmata da Umberto Eco. La classifica dei labirinti dello stesso Eco è ben nota. Egli distingue il labirinto «unicursurale», «manieristico», ovvero

3 A. Peyronie, Labyrinthe, in P. Brunel (a cura di), Dictionnaire des mythes littéraires, Éditions du Ro-cher, Monaco 1988, p. 916. La traduzione è a cura dell’autrice.

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il labirinto con varie vie, tra le quali una sola è quella giusta, e poi il «rizoma», una rete infinita d’intrecci. Inoltre, come spazio nell’immaginario, il labirinto può essere accettato così come lo spiega Umberto Eco in Postille a “Il nome della rosa”:

Un modello astratto della congetturalità è il labirinto. Ma ci sono tre tipi di labirinto. Uno è quello greco, quello di Teseo. Questo labirinto non consente a nessuno di perdersi: entri e arrivi al centro, e poi dal centro all’uscita. Per questo al centro c’è il Minotauro, altrimenti la storia non avrebbe sapore, sarebbe una semplice passeggiata. Il terrore nasce caso mai perché non sai dove arriverai e cosa farà il Minotauro. Ma se tu svolgi il labirinto classico, ti ritrovi tra le mani un filo, il filo d’Arianna. Il labirinto classico è il filo d’Arianna di se stesso. Poi c’è il labirinto manieristico: se lo svolgi ti ritrovi tra le mani una specie di albero, una struttura a radici con molti vicoli ciechi. L’uscita è una sola, ma puoi sba-gliare. Hai bisogno di un filo d’Arianna per non perderti. Questo labirinto è un modello di trial-and-error process. Infine c’è la rete, ovvero quella che Deleuze e Guattari chiamano rizoma. Il rizoma è fatto in modo che ogni strada può con-nettersi con ogni altra. Non ha centro, non ha periferia, non ha uscita, perché è potenzialmente infinito. Lo spazio della congettura è uno spazio a rizoma4.

Il rizoma è quello situato nella nostra testa. È il nostro dedalo mentale. Ecco perché il labirinto nell’immaginario letterario è l’immagine del nostro caos interiore, come lo definisce Peyronie. Ma, così come il labirinto di Cnosso non è l’unico dedalo conosciuto, neanche la storia di Teseo è l’unica a essere legata all’errare. Anzi. Si tratta di una divinità primaria, Ares-Dioniso, la quale, gettata dall’alto sulla terra e nel buio totale, iniziò a cam-minare disorientata, intorno, aprendosi così uno spazio chiamato ‘labirinto’. E per poter farsi un sentiero, si è servita di un’ascia, chiamata labrys. Ecco da dove proviene il nome ‘labirinto’. Quest’ascia bipenne diventerà il simbolo del potere minoico. Se le forme e le classifiche dei labirinti sono tante, una cosa vale per tutti: il personaggio ci si perde. Egli si trova sempre rinchiuso all’interno di uno spazio pericoloso. L’uomo contemporaneo abita il labirinto, la sua condizione diventa labirintica, come del resto la società della no-stra ‘modernità liquida’, della quale parla Bauman. Quindi, i protagonisti che si trovano all’interno del dedalo entrano nei panni di Teseo, di Arianna e del Minotauro, mentre il solo spazio labirintico può essere compreso come un errare, come una quête, che può esse-re evidente sia come un vagabondaggio, che come una chiusura, che come l’esilio.

Ci possiamo perdere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo. E diventiamo coscien-ti di vivere il labirinto. Un labirinto ormai staccato dal settore mitologico e religioso, il quale, però, fa parte della nostra vita. O meglio: esso è la nostra vita. In effetti, quando pensiamo al labirinto, nessuno si ricorda più della storia di Teseo che ci entra per ucci-dere il Minotauro, ma alla complessità della nostra epoca. Se l’uomo classico vedeva nel

4 U. Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano 2012, pp. 603-604.

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labirinto un rito di iniziazione, una prova eroica che faceva dell’uomo un eroe, oppure se l’uomo medievale vedeva in questo racconto un viaggio verso la felicità, collocata al cen-tro del dedalo, l’uomo contemporaneo vive nel labirinto e vive il labirinto. Non ne può uscire, perché la vita corrisponde al dedalo, in linea. Egli erra all’interno del labirinto sen-za alcuno scopo e più cammina, più si allontana dal suo centro. La meta è irraggiungibile.

Il labirinto nel suo senso spaziale e nel suo senso mitologico, con le sue tre famo-se figure – Teseo, il Minotauro e Arianna – s’incontra nella letteratura, nel cinema, nei fumetti, nella musica, nelle arti, nei giochi. Per quanto riguarda i classici, il motivo del labirinto è stato abbordato da Apollodoro, Igino, Ovidio, Catullo e altri. Quello che è interessante da notare, è il fatto che ogni autore, quando racconta la storia di Teseo, si sofferma di più sulla sua relazione con Arianna, figlia del re Minosse, oppure su quello che aspetterà Teseo al rientro ad Atene. Per quanto riguarda la parte centrale del mito, ovvero la battaglia di Teseo contro il Minotauro e la morte di quest’ultimo, nessuna versione del mito ci dice in quale maniera il grande eroe ha ucciso la bestia. L’episodio centrale della storia del labirinto, ovvero la morte del Minotauro, rimane un mistero. In alcune versioni si dice che Teseo uccide il Minotauro a mani nude, o con la spada, o che lo uccide soltanto, o, come dice Catullo nella traduzione di Carmine Tedeschi: «Teseo trafiggendo il corpo del mostro lo vinse»5. Dunque, assistiamo a un vuoto nella narrazione e nella memoria, dato che Teseo, come esce dal labirinto, non si ricorda di nulla. Ed è esattamente quello che succede nei testi interpretati in modo labirintico. Dopo ogni atto di violenza, il prota-gonista subisce uno stato amnesico. Conosciamo diverse versioni che ci raccontano tutto ciò che è stato precedente o successivo a questo episodio del mito, ma ciò che riguarda il duello tra il figlio di Egeo e l’uomo-bestia rimane in oscurità. In effetti, il labirinto è l’im-magine dell’oscurità, del buio mentale. Il labirinto è un immaginario che mette insieme la memoria, l’oblio, la violenza e una ricerca tortuosa. Tutti gli elementi necessari per una ricerca identitaria.

Siccome la linea tra il mito e le fiabe della letteratura popolare è molto sottile, è evi-dente che il motivo del labirinto ha trovato i suoi riflessi in alcune delle fiabe più famose, perché lo smarrimento è proprio sia del mito che della fiaba. Basta ricordarsi del Pollicino di Perrault dove il protagonista come filo d’Arianna avrà i sassolini, e dove il ruolo del Minotauro è interpretato dall’Orco. Oppure, gli elementi labirintici sono evidenti anche nella fiaba riportata dai fratelli Grimm, Hänsel e Gretel. Quello che è comune alle due fia-be è il luogo, cioè la foresta. La foresta, o il bosco, è il luogo labirintico per eccellenza dove il buio, gli intrecci, la vegetazione, la fauna e tutto il contesto contribuiscono a un totale smarrimento. Lo smarrimento fisico corrisponde quasi sempre allo smarrimento mentale ed è in effetti soltanto un suo riflesso, come l’immagine nello specchio. Il labirinto è l’im-magine dell’oscurità, del buio mentale.

Per quel che riguarda la struttura labirintica, il capolavoro che senza dubbio fa pen-

5 G.V. Catullo, Le poesie, int. e trad. di G. Paduano, com. di A. Grilli, Einaudi, Torino 1997. Traduzione inedita di Carmine Tedeschi.

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sare al dedalo, per l’organizzazione dei canti e delle sue tre parti, Inferno, Purgatorio e Paradiso, è la Divina Commedia di Dante, dove il sommo poeta vede il Minotauro come ‘infamìa di Creti’6. I due punti di vista a partire dai quali possiamo osservare uno spazio labirintico sono giustamente i due aspetti che troviamo in quest’opera. Il primo evoca la verticalità e la profondità, mentre il secondo richiama l’orizzontalità. Questa visione è evidente anche nei testi che abbiamo analizzato. In effetti, lì vediamo un Teseo gettato in un labirinto profondo. Gettato niente di meno che da un’Arianna, la quale figura nell’im-maginario contemporaneo non assume soltanto un ruolo positivo. Una volta entrato nel dedalo, Teseo inizia il suo errare. Visto in quest’ottica, il labirinto rappresenta un eter-no errare, un vagabondaggio senza fine. Il tema di un tale viaggio è presente anche nella già menzionata opera di Dante, e per quanto riguarda la letteratura mondiale, uno degli esempi migliori; è senza dubbio Ulisse di Joyce. Il viaggio è inteso come un itinerario che offre numerose avventure le quali, però, possono essere vissute sia in un luogo conosciuto che sconosciuto.

L’errare in un testo labirintico può essere osservato come un viaggio che offre al suo protagonista numerose avventure, oppure una ricerca dove c’è un obiettivo. La partico-larità dei testi intesi come labirintici è in effetti l’oggetto della ricerca. Mentre nei testi classici o medievali l’oggetto era una cosa sconosciuta, mai vista, mai posseduta, l’uomo contemporaneo cerca piuttosto una cosa perduta o rimossa. L’obiettivo della ricerca si nasconde, in effetti, nel ricercatore stesso.

Ovviamente, in questo senso possiamo parlare di una ricerca identitaria personale, ma anche di quella collettiva. Un popolo in emigrazione non è altro che un Teseo collet-tivo. E lo stesso scrittore si trasforma in un Teseo viaggiatore, perché vediamo un numero sempre più grande di scrittori-nomadi, e non si tratta più solo di una letteratura di viag-gio, ma di nomadismo come uno nuovo stile di vita. In effetti, uno dei massimi esemplari di questo modo di vivere la vita e l’arte è Jack Kerouac, scrittore di origini quebecchesi, il padre della Beat Generation. Ormai tutti siamo On the road e chi si ferma più? Ciò nonostante, non ogni viaggio è un viaggio labirintico, ovvero un viaggio vero, come nota Raffaele Nigro:

Ma un fatto ho scoperto, i miei viaggi non sono più tali, si sono ridotti a sem-plici spostamenti. L’aereo ha polverizzato il tempo di traversata, ti addormenti a Monaco e ti svegli a Chicago. Non sono più un viaggiatore, sono un sacco di patate che tocca città distanti tra loro e che poi contrabbando per un intero con-tinente. Spostarsi coi muli e i cavalli, come al tempo di Marco Polo e Colombo, era pure una fatica, ma era un viaggio. L’esperienza non era il punto d’arrivo, ma stava nel lungo e ricchissimo tragitto7.

6 D. Alighieri, Comedìa, a cura di M. Sannelli, Fara, Rimini 2010, p. 105.7 R. Nigro, Angeli, demoni e santi tra Chicago e Pezze di Greco, in «incroci», XV, 29, gennaio-giugno 2014, pp. 92-103:98.

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L’immagine del viaggio che lo scrittore ricorda con nostalgia è quella che può esse-re confrontata col viaggio narrato nei miti e nelle leggende, ma anche con i viaggi delle grandi scoperte geografiche. La conquista dovrebbe essere lo scopo di ogni ricerca. Ecco perché la condizione dei migranti si presta benissimo alla questione del labirinto. E oltre al mito del labirinto, alla loro condizione è intimamente legato anche il mito dell’origine, e poi anche la memoria, la nostalgia del paese abbandonato, le radici spezzate. Trovandosi tra i due mondi, il primo che si abbandona per sempre e il secondo che ancora deve essere affrontato, trovandosi tra un’identità già formata e una nuova tutta da inventare, da creare da zero, il migrante abita un luogo utopico, nato dal bisogno di avere un piccolo angolo tutto suo, dove rifugiarsi sia dalla sua origine, che dal mondo straniero. Quindi, ogni mi-grante ha due Minotauri. Uno che lo ossessiona nel paese lasciato e l’altro che incombe su di lui nel paese da scoprire. L’uomo nell’esilio li deve combattere tutti e due cercando di stabilire uno spazio intimo, ma questo spazio diventerà, appunto, una prigione labirintica.

Dunque, l’errare, le migrazioni e l’esilio formano insieme la condizione di Teseo alla ricerca, di Teseo che percorre il suo labirinto ogni giorno e che non può esistere senza di lui. Perché, senza il suo itinerario e senza il suo errare, non sarebbe più Teseo. Perciò la let-teratura de l’errance, dei migranti o di un popolo sempre alla ricerca della propria identità, è essenzialmente legata al mito dell’origine, alla materia prima, al primo elemento che ha generato tutto – l’acqua – e di seguito all’infanzia, dove l’abisso marino diventa un abisso matrice, e dove il mare si identifica con la madre. Per questa ragione i personaggi dell’im-maginario labirintico si perdono sempre cercando un luogo perduto. Essi non vanno alla ricerca di un luogo nuovo, ma di quello perso, spesso rimosso. L’oggetto della ricerca non è una cosa nuova, ma una cosa antica, molto antica, per cui Teseo dovrà scendere molto in profondità, verso le origini.

Gli eroi dell’immaginario contemporaneo sono abbastanza simili agli eroi mitolo-gici, però, dall’altro lato, essi non possono essere completamente identificati con i per-sonaggi dei miti. Nell’immaginario contemporaneo, soprattutto nei romanzi che abbia-mo analizzato, pochi eroi possono essere definiti come buoni, altri come cattivi. Per cui, spesso non possiamo definire un solo personaggio come un puro Teseo, un’eroina come Arianna e un malvagio come il Minotauro. Non è difficile trovarne una ragione. Questo accade perché ogni eroe è il Teseo del proprio cammino che combatte il proprio Minotau-ro, così come è per ognuno di noi, del resto. La gabbia di ciascuno è una doppia gabbia, un doppio labirinto perché imprigiona la bestia e perché l’eroe ci si perde. Quindi, quando parliamo dell’immaginario labirintico, lo spazio diventa raddoppiato, mentre il perso-naggio va oltre la solita dualità dell’individuo e diventa triplo. Ogni personaggio è Teseo del proprio labirinto, con un Minotauro al suo interno e con Arianna, ovvero con il filo rosso che si trova nelle sue mani, spesso senza che egli lo sappia. Dunque, all’interno del suo labirinto mentale Teseo deve uccidere il Minotauro mentale con la forza della propria consapevolezza. Per poterlo fare, l’eroe si deve necessariamente trasformare nel Mino-tauro. Ovviamente, accettare la presenza di un mostro al nostro interno non è facile. Per

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questa ragione, Teseo proietta le connotazioni negative su altri personaggi che diventano i suoi ‘falsi Minotauri’, mentre quello vero si trova dentro di lui. I falsi Minotauri sono di solito nemici, mariti, padri, insomma, tutti coloro che in qualche maniera molestano la tranquillità del personaggio. Però, se il Minotauro nasce in una persona, allora c’è anche una madre che lo concepisce. In effetti, la figura della madre in tutti i romanzi analizzati è molto problematica. Si tratta sempre di una madre carnivora nei confronti dei suoi figli. Lei provoca la nascita del malessere, lei diventa Dedalo dei labirinti mentali del proprio figlio. Il figlio, però, non è un eroe forte e deciso. Ossessionato dal proprio passato, debole, dipendente dal proprio entourage, decide di seguire il vero percorso labirintico solo quan-do la situazione diventa veramente insopportabile. In effetti, senza saperlo, lui è la bestia nascosta all’interno del labirinto, lui è il prigioniero della propria vita. Quando decide di combattere, deve comprendere che il solo mostro da uccidere è quello che dorme in lui. Ecco perché in ogni testo analizzato abbiamo notato due tipi di battaglie. La prima inclu-de sempre Teseo e il (o un suo) falso Minotauro, mentre la seconda sarà quella essenziale, dove Teseo dovrà combattere il Minotauro interiore, ovvero se stesso. Per arrivare al suo mostro interiore, le violenze contro i falsi Minotauri si dimostrano quasi necessarie, per cui, queste bestie risultano, possiamo dirlo, pure positive nei confronti dell’eroe, anche se lo disturbano e gli fanno del male, lo provocano, e Teseo le uccide o allontana in maniera crudele. La conseguenza di tutto ciò trasforma la visione che noi oggi abbiamo di tali eroi. Mentre nel mondo antico, nei miti, l’uomo che combatteva il nemico veniva visto come eroe dopo aver superato delle prove, oggi, al posto di diventare uomo, tale personaggio diventa mostro. Per questa ragione non gli rimane altro che distruggere il mostro, ormai evidente, dentro di lui.

Anche la figura di Arianna è ambigua. Nell’immaginario contemporaneo non pos-siamo parlare più di una semplice figura femminile che ingenuamente dà a Teseo il filo per salvarsi e per uccidere il suo fratellastro, per poi essere abbandonata dallo stesso principe. Arianna assume un ruolo piuttosto diabolico, cioè la sua presenza disturba Teseo, ma di-sturbandolo, lei lo fa entrare nel labirinto. In effetti, Arianna contemporanea è più intel-ligente di quella mitologica perché non offre il filo a Teseo, ma glielo fa scoprire. Questo filo non viene subito accettato perché porta verso i luoghi che Teseo vorrebbe piuttosto evitare, i luoghi del suo passato, mai passato in realtà. Ecco perché la figura di Arianna, dal punto di vista dell’eroe, è percepita soprattutto come una donna malvagia, come una strega, una diavolessa. Questa donna pericolosa, felina e fatale, incanta con la sua bellezza, ma anche con la sua voce. Dunque, la figura d’Arianna nell’immaginario dei testi ana-lizzati si avvicina alla sirena, a Medusa o a Medea. L’ambivalenza di questo personaggio femminile che distrugge l’eroe, ma dall’altro lato così lo aiuta a trovare la sua salvezza, si manifesta anche tramite i colori. Nell’immaginario della scrittrice Anne Hébert si tratta di un mondo elementare, dove i colori non sono molto sviluppati. Quelli più usati sono il rosso, il nero e il bianco. Per quel che riguarda Arianna, quando ella è in rosso, possiamo dire che aiuta. Quando invece è in nero, distrugge. Arianna, ovvero il filo rosso, è legata al

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rito di iniziazione, qui di solito sessuale. La diavolessa sveglia nel personaggio la sua natu-ra animale, le pulsioni umane rimosse, e lo fa agire, spesso in maniera violenta. Dunque, Arianna deve possedere le caratteristiche cattive e negative perché solo così potrà aiutare Teseo a svegliarsi dal suo letargo. Il tratto fisico di tutte le Arianne nell’immaginario di Anne Hébert sono i capelli, sempre lunghi e neri. Come osserva Daniel Marcheix, «loro [i personaggi femminili] dicono la morte con i loro capelli»8.

In seguito alle nostre analisi testuali, abbiamo individuato diverse forme labirinti-che, ma il fenomeno più interessante è quello che può essere chiamato una mise en abyme degli spazi labirintici. All’interno di un labirinto ce ne sarà sempre un altro. Ovviamente, il nucleo principale del labirinto di un personaggio non è altro che la sua casa, la sua di-mora. Nei testi che si prestano bene ad un’analisi labirintica si tratta sempre di case isolate nei boschi o nelle foreste. Ciò non accade a caso, dato che «[l]o scenario dell’esperienza magica ha una connotazione topica nella foresta, luogo di una duplice reminiscenza. La foresta circondava il regno dei morti; nella foresta si celebrava il rito di iniziazione; passa per la foresta la strada che conduce al mondo altro, all’incontro con mostruoso, alla espe-rienza risolutrice della metamorfosi»9. In effetti, oltre all’aspetto tenebroso dei boschi labirintici, c’è un’altra cosa importante. Nel bosco ci si perde. Questo succede soprattutto ai personaggi-bambini nei testi analizzati, il che ci fa pensare alla condizione dei sette fan-ciulli e delle sette fanciulle inviati ogni nove anni in pasto al Minotauro, i quali si perdono totalmente entrando nel labirinto, ma ci fa pensare anche all’immaginario popolare e alle fiabe.

Dunque, il labirinto è un luogo molteplice, con più valori, un luogo ambivalente, così come lo è l’immagine del Minotauro che ci minaccia, ma che è anche vittima, vittima del labirinto e poi di Teseo. Come nota Dürrenmatt,

il labirinto conserva la sua ambiguità. In primo luogo è una duplice prigione, una per coloro che vi entrano per essere annientati, trovino o non trovino il minotauro, e una prigione per lo stesso minotauro, che non riesce mai a trovare una via d’uscita, che si perde continuamente nei suoi corridoi princi-pali e nelle loro diramazioni, finché un giorno non si imbatte in colui che lo uccide: non un dio o un semidio, ma un semplice uomo, Teseo, sempre am-mettendo che Teseo il minotauro l’abbia trovato – infatti anche nel caso di questa leggenda mi sfiora un leggero dubbio, non soltanto perché, stando al Ranke-Graves, i cretesi non hanno mai voluto ammettere che il minotauro sia esistito, ma anche perché la lotta fra Teseo e il minotauro non poté avere testimoni, sicché nulla prova che sia avvenuta davvero. Infine (fosse o non

8 D. Marcheix, Le Mal d’origine: temps et identité dans l’œuvre romanesque d’Anne Hébert, L’instant même, Québec 2005, p. 390.9 G. Cerina, Archetipifiabeschi: Metamorfosi mostri labirinti, in G. Cerina, M. Dominichelli, P. Tucci, M. Virdis (a cura di), Metamorfosi mostri labirinti. Atti del Seminario di Cagliari, 22-24 gannaio 1990, Bulzoni, Roma 1991, p. 25.

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fosse Minosse un giudice equo o iniquo) il labirinto rappresenta pur sempre un castigo10.

Evidentemente, una casa isolata non basta per poter definirla labirintica. Il secondo criterio indispensabile è la cattività. Paradossalmente, come nel mito, il mostro è impri-gionato e bisogna cercarlo, non per liberarlo, bensì per ucciderlo, per distruggerlo. Quello che è comune a tutti gli spazi labirintici, per tutte le boîtes di un labirinto maggiore, oltre alla cattività, è anche la quête, la ricerca della libertà e dell’identità del personaggio. La casa è la sua ‘cella nera’, infestata dai fantasmi del passato e dei ricordi micidiali. Ecco perché in una casa del genere l’eroe non si sente mai davvero ‘a casa’. La schiavitù dentro la propria casa è in effetti una prigionia mentale, nata dai desideri rimossi e dalle ossessioni. Il perso-naggio è rinchiuso tra le mura dei propri sogni e della fantasticheria. A volte accetta una vita del genere, perché è più facile vivere così, ovvero sopravvivere così, che agire contro se stessi. A volte il mondo onirico è il riflesso di una realtà rimossa e fa sorgere delle immagi-ni che possono nuocere al personaggio. Vivendo nell’incubo della notte, l’eroe non potrà sopportare per sempre la sua condizione. Ecco perché sarà necessario affrontare il proprio mostro. Gli stati mentali del personaggio si proiettano sui luoghi fisici della loro esistenza e, viceversa, gli scenari non sono altro che i riflessi del suo interno. Nei testi analizzati gli spazi fisici sono nel pieno disordine. Però, il disordine fisico è l’immagine di un disordine mentale. Del resto, il solo aspetto fisiologico del cervello umano ci conferma la natura labirintica della nostra psiche. Fatto da innumerevoli impasse, linee e curve, il cervello è la sede del nostro labirinto interiore. Come se già la sua forma anatomica avesse prestabilito la condizione umana, quella dell’eterno errare e del continuo perdersi. Il luogo delle ver-tigini, della memoria, dell’oblio, dei sogni, tutto è nella testa. E ancora più significativo, tutto è chiuso.

Adesso è chiaro perché bastano solo due elementi perché un luogo sia definito come labirintico. Come conferma Bertrand Gervais, «[q]uanto alla logica della messa in rac-conto, essa riposa sul principio della quête: una struttura minima costituita da un pericolo al quale risponde un atto eroico che comprende necessariamente un percorso»11. E sic-come il mito del labirinto è strettamente legato al mito dell’origine, esso è indispensa-bilmente un labirinto all’indietro, ovvero un percorso che dirige il personaggio verso la propria origine. Quando parliamo del labirinto, non parliamo soltanto dello spazio, ma anche necessariamente del tempo. L’itinerario spaziale diventa un itinerario temporale, diretto verso il passato. Il personaggio può camminare più avanti solo andando indietro. Camminare indietro significa dirigersi contemporaneamente su due piani, sia sulla linea del passato, orizzontalmente, sia scendendo verso le origini rimosse, verticalmente. Dun-

10 F. Dürrenmatt, Il mio labirinto, trad. di B. Zagari, in Il minotauro, trad. di U. Giandini, Marcos y Marcos, Milano 2012, p. 27-28.11 B. Gervais, La ligne brisée. Labyrinthe, oubli et violence. Logiques de l’imaginaire, Le Quartanier, Montréal 2008, p. 24. La traduzione è a cura dell’autrice.

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que, l’eroe cammina decisamente verso un pericolo che d’altronde può liberarlo e farlo uscire dal dedalo, seguendo un percorso particolare alla ricerca dell’identità e della felici-tà. Quindi, il tempo diventa lo spazio dell’eroe. Egli si muove su un’asse temporale, cessa di abitare un luogo per iniziare a vivere un tempo e a rivivere il proprio passato.

In questi spazi temporali, dove l’eroe erra mentalmente, egli prova uno stato di son-nolenza che distrugge i suoi ricordi. Questo elemento è legato alla memoria e all’oblio, poiché il labirinto è una storia sull’oblio. E siccome l’oblio rappresenta anche una pas-sività, ecco perché il mondo labirintico si avvicina al mondo dei morti, soprattutto nei testi dove la presenza del mitologico è dominante. Non dobbiamo dimenticare che nel mondo dei Greci, il fiume Lete, fiume del mondo dei morti, aveva il compito di riempire i defunti di oblio. Del resto, nel mondo greco, la morte era presentata dal suo dio Thanatos, nonché fratello gemello del dio del sonno, Hypnos. La violenza che conduce alla morte all’interno del labirinto è essenzialmente notturna, succede nel buio e sfugge all’occhio. Ecco perché sarà anche un’eterna ossessione per il personaggio che la commette, perché egli non potrà mai sapere se sia stato visto da qualcuno o no durante il crimine.

Lo spazio della morte è importante nell’immaginario labirintico perché molto spes-so può rappresentare il campo della liberazione, l’inevitabile scopo della ricerca, anche se, forse, l’obiettivo iniziale dell’eroe non era quello. Ovviamente, appena la presenza degli inferi diventa evidente in un testo, non è solo il motivo del labirinto che bisogna analizzare, ma anche tanti altri miti, come quello di Orfeo. In ogni caso, non dobbiamo dimenticare che lo stesso Teseo in un momento della sua vita scende nel Tartaro e, come nota Pierre Brunel: «la rappresentazione del mondo degli inferi raddoppia quella del labirinto, a meno che non sia l’inverso»12. Nell’immaginario labirintico lo spazio della morte è spesso rappresentato da uno spazio liquido – mare, oceano, fiume, torrente, lago. E questo non è un semplice caso. L’acqua ha da sempre rappresentato l’inizio, ma anche il passaggio verso la fine. E anche secondo Bachelard il mondo labirintico è strettamente legato all’umidità e alla viscosità. L’umidità è sia quella che fa pensare all’utero e all’ori-gine, sia quella che evoca le grotte dei morti. Ancora più significativa è la presenza di uno scenario autunnale nei testi analizzati. La terra umida della pioggia è un’immagine perfet-ta dell’unione dei due elementi che generano la vita: la terra e l’acqua. In più, essa lega il mondo della vita con il mondo della morte. La vita è compresa come un ciclo composto da diversi gradi. Ogni grado deve essere compiuto superando una prova eroica, e in questo vediamo il significato del labirinto. Alle conquiste eroiche all’interno del dedalo, ovvero all’interno della ricerca identitaria, sono strettamente legati il rito di passaggio e il rito di iniziazione. Ogni prova compiuta conduce a un grado superiore. Però, dato che la vita è eternamente ciclica, l’ultimo grado equivale alla ripresa del primo, alla conquista dell’o-rigine. L’umidità è estremamente vicina al rito di iniziazione sessuale, considerata una delle principali prove da superare nel labirinto identitario, molto spesso andate male tra-sformando i Tesei nei veri Minotauri. Dunque, la quête identitaire deve diventare una con-

12 P. Brunel, L’imaginaire du secret, ELLUG, Grenoble 1988, p. 101. La traduzione è a cura dell’autrice.

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quête identitaire. E la conquista identitaria è possibile solo se accettiamo il proprio male, il passato e la nostra vita. È il nostro ritorno intrauterino, definito da Mircea Eliade come «regressus ad uterum»13. Quindi, se l’infanzia è la causa della maggior parte dei mali dei personaggi labirintici, il Minotauro è il nostro bambino. Non il bambino che abbiamo o che possiamo avere, bensì quel bambino che eravamo. Lì bisogna cercare la chiave, ovvero il filo rosso. Ed è proprio nell’acqua che, negli immaginari labirintici, vediamo una per-fetta connessione tra i labirinti fisici, o esterni, e quelli mentali, o interni. Tutti i liquidi del nostro corpo – sangue, lacrime, linfa, sudore, liquido seminale, latte, saliva, urina, bile e altri – che sono fatti d’acqua, esprimono il nostro stato fisico, mentale e sentimentale. Attraverso l’acqua passiamo dal labirinto interno al labirinto esterno.

Naturalmente, tutte le difficoltà all’interno della ricerca e la durata del percorso tem-porale dipendono da due condizioni: la complessità del percorso e l’intelligenza dell’eroe, compresa come la sua forza e la sua intuizione. Evidentemente, il personaggio non ottiene sempre la soluzione voluta e non è sempre contento dalla qualità della liberazione perché non si tratta di un Teseo mitologico, ma di un Teseo letterario che, del resto, può essere incontrato in qualsiasi altro luogo reale e che non può trovare facilmente la via d’uscita. Come dice bene Paolo Santarcangeli:

Beato chi, come Teseo, potrà uscire dal labirinto personale, una volta per sem-pre. Ma la vicenda dell’uomo a cui non arride tanto favore degli dèi è più grave e il suo errare sarà lungo quanto la vita. Eppure, l’avere raggiunto la camera segreta anche una sola volta – per illuminazione spirituale o per una meditazione per-fetta – muterà la sua conoscenza per sempre: «Chi è stato felice una volta, non potrà mai essere distrutto»14.

In effetti, il Teseo letterario non riesce a uscire dal suo labirinto personale. O combatte invano o non sa combattere. In ogni caso, c’è sempre una sorta di soluzione, però il viaggio verso questa soluzione trasforma l’eroe, a causa delle angosce e paure. Teseo, completamente solo nel suo percorso tortuoso, sente vertigini e paure, commette delle grandi violenze per proteggersi e, così facendo, non fa altro che trasformarsi nel Minotauro, ovvero svegliare la bestia in lui, diventare consapevole dell’esistenza del mostro all’interno del suo corpo, soprattutto all’interno della sua testa, perché non dobbiamo dimenticare l’anatomia del Mi-notauro, che è una creatura col corpo umano, ma la testa animale. Per cui, questa creatura non sa dominare le pulsioni né riflettere, ma solo seguire i propri istinti.

Dunque, Teseo, desiderando arrivare fino al centro del dedalo, confida nell’esistenza di un filo d’Arianna, però la fine del sentiero labirintico coincide con la comprensione che il filo rosso si è sempre trovato dentro di lui, nel suo cuore e nella sua testa, che doveva

13 M. Eliade, op. cit., p. 103.14 P. Santarcangeli, Il libro dei labirinti. Storia di un mito e di un simbolo, Frassinelli, Milano 1984, pp. 245-246.

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entrarci per uscirne, nonostante un dolore enorme e inevitabile. Ecco perché nell’imma-ginario labirintico esistono due maniere di distruggere il labirinto: più raramente l’eroe riesce a uscirne e a liberarsi o, più spesso, l’eroe rimane il prigioniero e si trasforma nel Minotauro. In questo modo il labirinto è solo apparentemente distrutto, ma in realtà è rinnovato, come, del resto, leggiamo nel libro di Santarcangeli:

A questo punto, sarà chiaro che nel simbolo del labirinto si manifesta il modo con cui, nelle varie epoche storiche, l’uomo ha rappresentato a se stesso il pro-prio destino, sempre restando fermo, tuttavia, un concetto-guida essenziale: la consapevolezza che noi potremo sempre raggiungere la libertà del nostro ani-mo; ora per mezzo della fede ed ora con la conoscenza o magari soltanto con la perseveranza che opponiamo al destino; e questo anche se la via sarà lunga, anche se l’ideale di una via breve e chiara e diritta resterà, purtroppo, un sogno non attuabile, una speranza vana15.

Dunque, come possiamo notare, nella maggior parte dei casi il filo rosso si trova nel ricordo nero. Solo accettandolo, possiamo uscire dal labirinto. E se lo dobbiamo accettare, prima ci dobbiamo confrontare con la bestia in noi. Paolo Santarcangeli definisce la storia del Minotauro come «mysterium tremendum» e aggiunge: «Esso ci attira e ci respin-ge. È mirum, è admirandum, è fascinans; di fronte alla animalità e insieme umanità del mito, noi siamo colpiti, ad un tempo, da tremor e stupor – per usare la terminologia di R. Otto»16. Il Minotauro vero è solo quello interiore e solo la battaglia contro di lui signifi-cherà la vera vittoria di Teseo. Però, Teseo rimane confuso davanti a questa questione. Chi uccidere per primo? Un falso Minotauro dato che ancora non sa che quello vero dorme in lui, o se stesso? Chi è l’eroe? Teseo che combatte o il Minotauro da uccidere? Ecco perché nel momento in cui l’eroe comprende la propria condizione, in lui si produce la battaglia tra le due pulsioni opposte. Eros e Thanatos, la vita e la morte. L’uomo diventa bestia, o meglio, agisce come bestia davanti alle pulsioni, soprattutto davanti a quelle sessuali, pro-vocate da Arianna. Perché, per uccidere il Minotauro, Teseo deve soddisfare il desiderio. E per soddisfarlo, lo deve nutrire. Non dobbiamo dimenticare che il Minotauro si nutre di carne umana, di violenza. Ecco perché il principe diventa boia nei confronti dei personag-gi femminili. Come nota Dürrenmatt, «chiunque vi entri si trasforma in minotauro; una prigione che per questo motivo non ha alcun bisogno di porte sbarrate, le innumerevoli porte del labirinto sono aperte, chiunque vi si può smarrire»17. L’eroe diventa bestia che ha ucciso. Le due pulsioni entrano in fusione e la pulsione della morte diventa quella della vita. Forse perché l’eroe capisce che, senza la morte, la vita non avrebbe alcun senso.

Ovviamente, tutto ciò è evidente anche nella narrazione. Non pensiamo solo al ro-

15 Ivi, p. 249.16 Ivi, p. 4.17 F. Dürrenmatt, op. cit., p. 29.

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manzo poliziesco il quale, per sua natura, è un immaginario labirintico. Nei testi analizzati che non sono affatto dei gialli, anche se la presenza del crimine è necessaria per la natura dell’immaginario labirintico, abbiamo notato un’enorme quantità di analessi, le quali cor-rispondono al labirinto all’indietro narrativo. Dall’altro lato, anche lo scrittore si presenta come un capace Dedalo, costruttore del labirinto. In effetti, come conferma Dürrenmatt, «[c]hi schizza il piano del labirinto sa tutto; chi però vi entra, come me ora, tanti anni dopo i primi timidi tentativi di avvicinarsi all’entrata, non sa nulla – anche nel caso fosse armato della migliore delle drammaturgie»18. Spesso si tratta anche di testi polifonici, dove vengono offerti vari punti di vista. Lì il lettore si perde completamente. A chi crede-re, soprattutto se abbiamo in mente lo stato di sonnolenza e di amnesia che caratterizza i personaggi? Perciò il disordine dei pensieri e la pluralità delle voci contribuiscono al dedalo narrativo. Dunque, il problema mentale del personaggio diventa un problema co-gnitivo del lettore. Il vero Minotauro è la memoria, ancora una volta.

Quando e se l’eroe esce dal labirinto, ci sarà sempre una domanda da porsi: una vita dopo il labirinto non sarà di nuovo labirintica? La monotonia si può facilmente trasfor-mare in un Minotauro dell’insoddisfazione. Ecco perché l’uscita non è uguale per tutti, anche se il filo sembra essere sempre uguale: ritornare al passato, prendere la propria vita tra le mani e osservarla, guardarsi nello specchio e cercare di capire se c’è un essere estra-neo che ci guarda negli occhi. Solo così «[l]’eroe porta a termine il viaggio iniziatico nel mondo altro, vincendo la sfida al labirinto, al suo enigma, personificato in un essere mostruoso»19. Il filo conduttore verso il passato è da trovare, o meglio, da ritrovare. Dato che si tratta sempre di un viaggio verso le origini, anche il filo dovrebbe essere lì. Le analisi dei testi ci hanno dimostrato che già quando nasciamo, veniamo buttati nel labirinto, mentre il filo che ci legava con la nostra origine ci viene subito tolto. Ovviamente, par-liamo del cordone ombelicale, qui presentato simbolicamente con il filo rosso. Privi del nostro filo, siamo disorientati nel nostro labirinto. Quindi, cambia solo ciò che è visibile. Ciò che non si vede, non muta, così come non muta la psiche umana. Quello invece che cambia sempre, è il nostro labirinto sociale, ormai virtuale. Schiavi di una Rete globale, siamo condannati a una vita all’interno del labirinto. L’importante è tenere tra le mani il motore di ricerca perché non ci perdiamo anche nei labirinti mentali.

18 Ivi, pp. 36-37.19 G. Cerina, op. cit., p. 30.

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