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Incompletezza della disciplina della fase delle indagini nel procedimento di accertamento della responsabilità amministrativa e modi di integrazione delle lacune normative. (Antonio Attanasio) 1. Introduzione. 1.1. Nel procedimento di accertamento della responsabilità amministrativo-contabile, la fase delle indagini è dominata dal PM inquirente. L’esercizio dell’azione di responsabilità amministrativa è affidata ad un soggetto pubblico; in tal modo, essa è connotata dai caratteri dell’inquisitorietà e dell’officialità. Questo dato di partenza è molto rilevante; infatti, molti dei problemi di coordinamento con la disciplina normativa processuale civilistica derivano proprio da tale assetto del sistema. Eppure, nonostante la ancora perdurante tendenza ricostruttiva della responsabilità amministrativa secondo moduli di stampo civilistico (1), appare evidente che la condizione delle parti nel procedimento di accertamento di tale forma di responsabilità è del tutto differente da quella dell’attore e del convenuto nel processo civile. Anzi uno dei profili di maggiore divergenza è riscontrabile proprio nella fase delle indagini che precedono la formalizzazione della contestazione del danno al presunto responsabile. Tale fase, infatti, non è presente nel processo civile. Al contrario, è stata prospettata una certa somiglianza con la fase investigativa pre-processuale che interviene nel procedimento penale. Né va sottaciuto come, per la peculiarità degli istituti che caratterizzano il procedimento di accertamento della responsabilità amministrativa, la dottrina abbia parlato di “atipicità ed ibridismo nel processo contabile”. (2) Comunque, il procedimento di accertamento della responsabilità amministrativo-contabile presenta proprie caratteristiche e peculiarità. La fase delle indagini è ulteriormente scomponibile in due sottofasi: a) quella in cui si svolge l’attività investigativa e b) quella in cui si perviene alla contestazione degli addebiti. (3) La prima, è compresa nel lasso di tempo che intercorre tra la denuncia e l’invito a dedurre; la seconda, invece, decorre da quest’ultimo e si conclude con l’archiviazione o con la citazione in giudizio. La distinzione tra le due sottofasi dipende sostanzialmente dalla presenza o meno della “controparte” del PM. Con l’invito a dedurre, infatti, viene compiuta un’operazione di individuazione del presunto responsabile del danno erariale. Tale circostanza determina l’instaurarsi di una “relazione” giuridicamente rilevante tra due soggetti: PM, da un lato, e presunto responsabile, dall’altro. Ambedue i soggetti sono titolari di determinati poteri e facoltà, che la legge prevede, però, con disciplina molto sintetica. 1

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Incompletezza della disciplina della fase delle indagini nel procedimento di accertamento della responsabilità

amministrativa e

modi di integrazione delle lacune normative.

(Antonio Attanasio)

1. Introduzione. 1.1. Nel procedimento di accertamento della responsabilità

amministrativo-contabile, la fase delle indagini è dominata dal PM inquirente.

L’esercizio dell’azione di responsabilità amministrativa è affidata ad un soggetto pubblico; in tal modo, essa è connotata dai caratteri dell’inquisitorietà e dell’officialità.

Questo dato di partenza è molto rilevante; infatti, molti dei problemi di coordinamento con la disciplina normativa processuale civilistica derivano proprio da tale assetto del sistema.

Eppure, nonostante la ancora perdurante tendenza ricostruttiva della responsabilità amministrativa secondo moduli di stampo civilistico (1), appare evidente che la condizione delle parti nel procedimento di accertamento di tale forma di responsabilità è del tutto differente da quella dell’attore e del convenuto nel processo civile.

Anzi uno dei profili di maggiore divergenza è riscontrabile proprio nella fase delle indagini che precedono la formalizzazione della contestazione del danno al presunto responsabile.

Tale fase, infatti, non è presente nel processo civile. Al contrario, è stata prospettata una certa somiglianza con la fase

investigativa pre-processuale che interviene nel procedimento penale. Né va sottaciuto come, per la peculiarità degli istituti che caratterizzano il

procedimento di accertamento della responsabilità amministrativa, la dottrina abbia parlato di “atipicità ed ibridismo nel processo contabile”. (2)

Comunque, il procedimento di accertamento della responsabilità amministrativo-contabile presenta proprie caratteristiche e peculiarità.

La fase delle indagini è ulteriormente scomponibile in due sottofasi: a) quella in cui si svolge l’attività investigativa e b) quella in cui si perviene alla contestazione degli addebiti. (3)

La prima, è compresa nel lasso di tempo che intercorre tra la denuncia e l’invito a dedurre; la seconda, invece, decorre da quest’ultimo e si conclude con l’archiviazione o con la citazione in giudizio.

La distinzione tra le due sottofasi dipende sostanzialmente dalla presenza o meno della “controparte” del PM.

Con l’invito a dedurre, infatti, viene compiuta un’operazione di individuazione del presunto responsabile del danno erariale.

Tale circostanza determina l’instaurarsi di una “relazione” giuridicamente rilevante tra due soggetti: PM, da un lato, e presunto responsabile, dall’altro.

Ambedue i soggetti sono titolari di determinati poteri e facoltà, che la legge prevede, però, con disciplina molto sintetica.

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Al contrario, nella sub-fase dell’attività investigativa, non è stato ancora individuato un soggetto al quale rivolgere contestazioni; ne consegue, che l’azione del PM non si colloca all’interno di una relazione giuridicamente rilevante, ma resta circoscritta nella sfera dell’esercizio di una funzione pubblica.

1.2. Per la definizione dei poteri del PM inquirente occorre fare

riferimento ad un complesso di norme disorganico e disarticolato. Non esiste una disciplina di carattere generale in materia di poteri del PM

inquirente contabile. Prima della riforma del 1994, l’esercizio dell’azione di responsabilità

amministrativa era disciplinato, sostanzialmente, dal T.U. delle leggi sulla Corte dei conti e dal relativo regolamento di procedura.

Per quanto attiene, in particolare, alla individuazione dei poteri del PM, l'art. 74 del r.d. 12 luglio 1934, n. 1214 (T.U. delle leggi sulla Corte de Conti) dispone(va) che: “Il Pubblico Ministero nelle istruttorie di sua competenza può chiedere atti e documenti in possesso di autorità amministrative e giudiziarie e può inoltre disporre accertamenti diretti”.

Dopo la riforma del 1994, invece, sono stati ampliati tali poteri. Infatti, l'art. 5, co. 6, del d.l. 15 novembre 1993, n. 453, convertito, con

modificazioni, in l. 14 gennaio 1994, n. 19 così dispone: “Ferme restando le disposizioni di cui al comma 4 dell'art. 2, il procuratore regionale, nelle istruttorie di sua competenza, può disporre: a) l'esibizione di documenti ed accertamenti diretti presso le pubbliche amministrazioni ed i terzi contraenti o beneficiari di provvidenze finanziarie a carico dei bilanci pubblici; b) il sequestro dei documenti; c) audizioni personali; d) perizie e consulenze”.

Peraltro, l’attività investigativa può essere anche delegata a funzionari delle pubbliche amministrazioni (art. 2, co. 4, l. 14 gennaio 1994, n. 19) ovvero a organi di “polizia erariale”.

Infatti, l'art. 16, co. 3, del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, in l. 13 maggio 1991, n. 203 dispone che: “La Corte dei conti nell'esercizio delle sue attribuzioni può disporre anche a mezzo della Guardia di finanza, ispezioni e accertamenti diretti presso la pubblica amministrazione ed i terzi contraenti o beneficiari di provvidenze finanziarie a destinazione vincolata”.

Ulteriori novità introdotte dalle leggi di riforma attengono alla articolazione della fase pre-processuale, nel periodo compreso tra la denuncia e la citazione.

Infatti, sono stati introdotti nuovi istituti come l’invito a dedurre, l’audizione personale, le deduzioni difensive, la proroga del termine per il deposito dell’atto di citazione.

Ma l’aspetto più rilevante della nuova disciplina è costituito dalla previsione di una articolata tempistica, scandita da termini decadenziali.

1.3. L’individuazione delle norme che disciplinano la fase istruttoria del procedimento si presenta problematica.

Le norme speciali, introdotte dalla riforma del ’94, non disciplinano dettagliatamente i nuovi istituti.

Così, per quanto attiene all’invito a dedurre, all’audizione personale, ecc., l’interprete si trova privo di strumenti normativi.

In realtà, stante la loro novità non è possibile reperire una diretta regolamentazione neanche nel T.U. delle leggi sulla Corte dei conti o nel regolamento di procedura (r.d. 13 agosto 1933, n. 1038).

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In questa situazione, diviene anche difficile riscontrare una disciplina nel

codice di procedura civile. Infatti, nel processo civile non sussiste una figura di PM inquirente, né

sono previsti istituti analoghi all’invito a dedurre o all’audizione personale. In ogni caso, l'individuazione della disciplina normativa applicabile al rito

contabile richiede – come osservato dalla dottrina – “una attività interpretativa non agevole, (…) per effetto del rinvio “dinamico” - ex art. 26 del regolamento di procedura 13 agosto 1933, n. 1038 - alle norme del codice di procedura civile”. (4)

In particolare, tale norma dispone che “nei procedimenti contenziosi competenza della Corte dei conti si osservano le norme e i termini della procedura civile in quanto siano applicabili e non siano modificati dalle disposizioni del presente regolamento”.

Le difficoltà dipendono, in primo luogo, dalla circostanza che “il rinvio aperto e dinamico al codice di procedura civile non è immediatamente recettizio, dal momento che la disciplina di diritto processuale generale deve essere preceduta da un giudizio di compatibilità con il rito contabile in carenza di norme speciali o derogatorie dotate di efficacia prevalente”. (5)

Ma tale ostacolo viene superato, più agevolmente, per quanto attiene alla disciplina della fase del giudizio: infatti, molti istituti processuali – come notificazioni, citazioni, appello, ecc. – sono comuni ai due procedimenti.

Diversamente, per la fase delle indagini, la possibilità di utilizzare le norme processuali civilistiche è molto ridotta.

2. Incompletezza dell’ordinamento processuale contabile. 2.1. L’incompletezza della disciplina della fase istruttoria dipende

da due fattori: dalla carenza della normativa di settore (regolamento di procedura) e dalla inadeguatezza del sistema della procedura civile a fornire soluzioni ai problemi tipici del procedimento di accertamento della responsabilità amministrativa.

Per quanto riguarda il primo fattore, la considerazione fondamentale è che la riforma ha introdotto degli istituti non previsti dalla precedente disciplina di settore.

Per quanto riguarda, invece, l'attività istruttoria di competenza del Pubblico Ministero contabile, il rinvio al codice di procedura civile presenta scarsi profili di applicabilità.

La dottrina ha giustamente osservato che tale difficoltà deriva da due ordini di ragioni: da un lato, “perché trattasi di attività preprocessuale” e, dall’altro, “perché non è prospettabile un rinvio alle norme dettate per l'azione del P.M. in sede civile (artt. 69 e segg. c.p.c.)”.(6)

In ogni caso, la tradizionale impostazione che colloca l’azione di responsabilità amministrativa nel solco di quella civilistica mostra le sue carenze soprattutto con riguardo all’attività pre-processuale del PM contabile.

In particolare, è stato osservato in dottrina, come “la presenza e l'intervento della parte pubblica nelle liti di diritto civile nelle quali è ravvisabile un pubblico interesse non appartiene ad un sistema di garanzie obiettive di legalità, ma più semplicemente si inserisce in meccanismi di sostituzione giuridica previsti in sede processuale per agevolare la parte privata impedita all'esercizio del diritto”. (7)

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Muovendo da tali difficoltà, altra parte della dottrina si è orientata verso un

diverso sistema processuale: quello penale. Così, è stata evidenziata “l'ambigua coesistenza di elementi propri del

giudizio penale (azione) e di una struttura processualcivilistica nel rito”. (8) Sul tema, è stato anche affermato che “i giudizi dinanzi alla Corte dei conti

hanno la sostanza di un processo penale che si svolge nelle forme del processo civile”. (9)

In dottrina, tali osservazioni sulla similitudine tra le due azioni (contabile e penale) sono state ulteriormente vagliate: in proposito, si è rilevato che ambedue i settori sono caratterizzati dalla indisponibilità dell’interesse pubblico.

Così la protezione dell'interesse pubblico alla sana e corretta gestione finanziaria è affidata ad un sistema di garanzie di diritto obiettivo ovvero ad iniziativa d'ufficio. (10)

Tale similitudine ha indotto la dottrina a ricostruire il sistema della responsabilità amministrativa come fondato sul riconoscimento “al Pubblico Ministero contabile (del)la titolarità di un'azione pubblica risarcitoria a tutela degli interessi generali dello Stato-comunità, la quale si giustappone all'azione pubblica penale”. (11)

2.2. Il rinvio al codice di procedura civile, a causa dei noti limiti

intrinseci, non consente di affermare che l’ordinamento processuale contabile sia qualificabile come completo.

Secondo una parte della dottrina, “le norme della procedura civile rappresentano diritto comune, cioè legislazione generale della materia processuale in genere, in quanto tale direttamente applicabile a tutte le procedure giudiziarie non diversamente disciplinate da norme speciali o eccezionali”. (12)

Tale principio generale, sempre secondo tale impostazione, è espressamente richiamato dall’art. 26 del r.d. 13 agosto 1933, n. 1038. (13) Non esisterebbe, quindi, un problema teorico di individuazione delle modalità di integrazione dell’ordinamento contabile. Cionondimeno, emergono difficoltà di ordine pratico, dovute soprattutto alla peculiarità di alcuni aspetti del processo contabile. In tali casi, la lacuna normativa di settore non può essere integrata dalla normativa generale, perché l’istituto è tipico del solo ordinamento contabile.

In ogni caso, un limite al rinvio dinamico di cui all’art. 26 deriva anche dalle intrinseche caratteristiche del processo contabile, quali l’inquisitorietà e l’officialità dell’azione che non compaiono nel processo civile.

Al contrario, quest’ultimo è caratterizzato da principi del tutto opposti, quali il principio dispositivo e dell’impulso di parte.

Nonostante i limiti descritti, secondo parte della dottrina “la mancata applicazione delle norme di diritto comune deve essere giustificata da una impossibilità assoluta”. (14)

E’ interessante notare come, per tali casi residuali, la stessa dottrina proponga il ricorso a due modi di integrazione delle lacune: a) ad altro specifico diritto processuale (analogia legis); b) ai principi generali del diritto processuale civile (analogia iuris). (15) L’unico limite a tale procedimento è costituito dalle norme eccezionali.

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In altri termini, è inammissibile solo il rinvio alle disposizioni di altro diritto processuale aventi i caratteri della norma eccezionale; al contrario, risulta ammissibile il ricorso a disposizioni speciali. (16) 2.3. Il problema delle lacune normative non è tipico del solo ordinamento processuale contabile; al contrario, esso ha costituito proprio per la sua frequenza un tema di particolare rilevanza, sia per l’operatore che per il teorico del diritto.

Secondo un tradizionale orientamento di teoria generale del diritto, una delle caratteristiche dell’ordinamento giuridico è la “completezza”. (17)

In particolare, per “completezza” si intende la proprietà per cui un ordinamento giuridico ha una norma per regolare qualsiasi caso. (18)

Secondo la dottrina, in un sistema in cui il giudice deve risolvere ogni caso mediante una norma appartenente al sistema, la completezza è una “necessità”. (19)

Come esempio di ordinamento giuridico completo, viene riportato il caso del codice civile francese; infatti, il relativo art. 4 dispone che “ il giudice che ricuserà di giudicare, sotto pretesto del silenzio, dell’oscurità, od insufficienza della legge, potrà essere processato come colpevole di denegata giustizia”. (20)

Ma anche nell’ordinamento italiano, esiste un principio analogo: l’art. 113 c.p.c. dispone infatti che “nel pronunciare sulla causa il giudice deve seguire le norme del diritto, salvo che la legge gli attribuisca il potere di decidere secondo equità”.

In sostanza, il problema della completezza dell’ordinamento sorge da una duplice necessità: da un lato, il giudice è tenuto a decidere tutte le controversie che gli vengono sottoposte; dall’altro, lo stesso giudice deve compiere tale operazione utilizzando solo norme che appartengono al sistema.

Muovendo da tali presupposti, è evidente come nel caso in cui manchi una espressa norma che disciplini il caso sottopostogli, il giudice debba ricercare altrove la regola risolutiva del caso.

Molto acutamente, parte della dottrina ha rilevato che può integrare il concetto di “lacuna” “anche la mancanza non già di una soluzione, qualunque essa sia, ma di una soluzione soddisfacente, o, in altre parole, non già la mancanza di una norma, ma la mancanza di una norma giusta, cioè di quella norma che si desidererebbe che ci fosse, e invece non c’è.” (21) Questa lacune sono state chiamate ideologiche, perché sono lacune de iure condendo; e si differenziano dalle lacune reali, che sono de iure condito. (22)

La distinzione potrebbe apparire meramente teorica ma, proprio nel regolamento di procedura dei giudizi innanzi alla Corte dei conti sembrerebbe comparire una lacuna di tipo ideologico.

Infatti, la norma di cui all’art. 19 reg. proc. (r.d. 13 agosto 1933, n. 1038) secondo cui “dopo la relazione della causa, le parti, o i rappresentanti di esse, se presenti, ed il procuratore generale o chi ne fa le veci, enunciano le rispettive conclusioni svolgendone i motivi” è stata più volte contestata, perché ritenuta limitativa del diritto di replica della difesa alle contestazioni dell’accusa.

L’auspicio di una diversa regolazione della fattispecie, nonostante l’esistenza di una norma espressa, avrebbe richiesto un intervento legislativo.

Invece, è stata inaugurata una prassi applicativa di una norma ipotetica che prevede l’inversione nell’ordine degli interventi in udienza: prima, quello del PM; dopo, quello del difensore.

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Più spesso, tuttavia, la lacuna è di tipo reale; nessuna norma disciplina, ad esempio, le modalità di svolgimento del sub-procedimento di audizione dell’invitato a dedurre.

Per risolvere le problematiche applicative di questo e di altri istituti inerenti il procedimento di accertamento della responsabilità amministrativo- contabile, l’interprete non può che ricorrere a strumenti diversi dalla mera interpretazione delle norme.

2.4. La soluzione del caso concreto deve essere ricercata

necessariamente nel sistema delle fonti dell’ordinamento giuridico? Il quesito potrebbe sembrare ozioso, perché la risposta positiva, in un

ordinamento a “legalità formale”, appare scontata. Ma la questione si è posta storicamente; e, comunque, l’esigenza di fondo

che essa esprime resta sempre attuale. Infatti, per quanto le codificazioni possano essere analitiche, rimangono

sempre casi non espressamente previsti. Secondo un orientamento tradizionale, la soluzione deve essere sempre

ricercata all’interno del sistema normativo. In particolare, la “scuola dell’esegesi” propugna lo sviluppo della tecnica

ermeneutica al fine di pervenire ad una sorta di extensio dell’ordinamento giuridico.

Il presupposto di tale concezione è sempre quello della completezza dell’ordinamento.

Tuttavia, non va sottaciuto che forti critiche sono state mosse contro la mentalità del giurista tradizionale, ancorata al dogma della completezza.

La dottrina, al riguardo, riassume come segue tale orientamento critico: “Il ragionamento del giurista tradizionale, ancorato al dogma della

completezza, è fondato su tre presupposti: 1. la proposizione maggiore di ogni ragionamento giuridico deve essere

una norma giuridica; 2. questa norma deve sempre essere una legge dello Stato; 3. tutte queste norme devono formare nel loro complesso un’unità”. (23) Al contrario di quanto creduto dagli esegeti del diritto, secondo i sostenitori

della “scuola del diritto libero” l’ordinamento è pieno di lacune. Per colmare i vuoti, occorre affidarsi all’opera creativa del giudice. Le affermazioni della scuola del diritto libero sono state fortemente avversate. In sintesi, la dottrina ha osservato che “ammettere la libera ricerca del diritto

(libera nel senso di non legata al diritto statuale), concedere cittadinanza al diritto libero ( cioè a diritto creato di volta in volta dal giudice) (vuol) dire rompere l’argine del principio di legalità, che era stato posto a difesa dell’individuo, aprire le porte all’arbitrio, al caos, all’anarchia”. (24)

Al contrario, si è sostenuto che “la completezza non (è) un mito, ma un’esigenza di giustizia; non (è) un’inutile funzione, ma un’utile difesa di valori supremi, cui deve servire l’ordinamento giuridico, la certezza”. (25)

2.5. L’incertezza derivante dalla presenza di una lacuna normativa

consiste non nella mancanza di una soluzione del caso concreto ma, al contrario, nella possibilità di sostenere più soluzioni.

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Nel corso della fase istruttoria, il soggetto invitato a fornire deduzioni può chiedere di essere sentito personalmente.

Si tratta di un diritto potestativo che si affianca a quello di presentare deduzioni scritte.

La legge si limita a statuirne la possibilità, ma non ne disciplina le modalità di esercizio.

Nella prassi applicativa, accade piuttosto di frequente che il richiedente si presenti all’audizione accompagnato da un avvocato.

Il quesito che il PM potrebbe porsi è se consentire o meno la presenza del difensore, atteso che nessuna disposizione lo prevede.

La lacuna normativa è evidente; ciò rende possibile, in fatto, due soluzioni: la prima, negativa; la seconda, positiva.

In altri termini, la lacuna normativa sulla assistenza legale in sede di audizione personale non determina una mancanza di soluzione nel caso concreto; al contrario, autorizza l’interprete a scegliere tra due soluzioni possibili: “non consentire” ovvero “consentire” l’assistenza legale.

Occorre chiedersi, a tal punto, se esista un criterio interpretativo che consenta di individuare, fra le due soluzioni, quale sia quella corretta.

Soprattutto, occorre chiedersi se tale criterio possa rinvenirsi nell’ordinamento giuridico, perché, in caso contrario, sarebbe necessario riconoscere l’esistenza di un diritto creato “liberamente” dal giudice.

In dottrina sono state propugnate varie tesi ricostruttive, secondo cui le lacune non esistono; ma nessuna è apparsa del tutto decisiva.

In ogni caso, esse offrono soluzioni insoddisfacenti oppure ambivalenti. 2.5.1. Se si aderisce alla teoria dello “spazio giuridico vuoto”, dovrebbe

ritenersi che l’ambito delle attività umane – dal punto di vista giuridico – può essere diviso in due parti: quello regolato da norme giuridiche e quello libero da vincoli.

Il primo è stato definito come “spazio giuridico pieno”, il secondo, come “spazio giuridico vuoto”.

L’alternativa è tra “vincolo” e “libertà”: tertium non datur. Se così impostato, il problema delle lacune non esiste. Infatti, se il caso è regolato da norme giuridiche, ciò significa che è rilevante

per il diritto; al contrario, se il caso non è regolato, ciò significa che non è rilevante.

Questa netta bipartizione impedisce di considerare possibile l’esistenza di lacune normative: infatti, gli spazi vuoti (assenza di norme) che normalmente sono qualificati come lacune, in realtà, appartengono alla sfera dell’irrilevante giuridico (o della libertà).

La tesi indubbiamente suggestiva è stata proposta da Karl Bergbhom e seguita, in Italia, da Santi Romano. (26)

La dottrina tuttavia ha osservato che tale teoria presenta un punto debole; infatti, l’affermazione dello spazio giuridico vuoto nascerebbe dalla falsa identificazione del giuridico con l’obbligatorio. (27)

Ma esiste in realtà anche una modalità giuridica diversa dall’obbligatorio: la sfera del permesso.

Il problema è la collocazione di tale sfera. Non essendo obbligatorio, il permesso dovrebbe trovarsi fuori dallo spazio

giuridico pieno, nella sfera dell’indifferente giuridico.

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Ma la conseguenza di tale impostazione sarebbe che tutto ciò che è permesso sarebbe al tempo stesso irrilevante giuridicamente e, quindi, non protetto dall’ordinamento.

Ritornando all’esempio dell’assistenza legale all’audizione personale, la mancanza di disciplina relegherebbe tale attività nella sfera dell’irrilevante giuridico.

Ma ciò non risolverebbe il problema, perché l’interprete potrebbe alternativamente consentire o negare l’assistenza, senza che tale facoltà riceva una qualche protezione.

2.5.2. L’alternativa a tale impostazione potrebbe essere fornita dalla teoria della “norma generale esclusiva”.

Anche secondo questa impostazione le lacune non esistono; ma per la ragione inversa: non esiste uno spazio giuridico vuoto, perché il diritto comunque disciplina tutte le situazioni.

La tesi della norma generale esclusiva è stata sostenuta in Italia da Donato Donati. (28)

Se un determinato comportamento X è disciplinato in un certo modo da una norma Y, ciò vuol dire che i restanti comportamenti sono disciplinati da una norma generale esclusiva.

Quest’ultima, in sostanza, esclude tutti i comportamenti che non rientrano nel comportamento X dalla disciplina prevista dalla norma Y.

La norma generale esclusiva non è espressa, ma è supposta per logica. In tal modo, ogni norma particolare è sempre accompagnata da una norma

generale esclusiva. Al contrario della teoria dello spazio giuridico vuoto, secondo questa teoria

tutti i comportamenti sono sottoposti a regolazione giuridica: o sono sottoposti alla norma particolare (inclusiva) o sono sottoposti alla norma generale esclusiva.

Secondo la dottrina anche questa impostazione ha il suo punto debole. Si è osservato che “ (…) in un ordinamento giuridico di solito non esiste

soltanto un insieme di norma particolari inclusive e una norma generale esclusiva che le accompagna, ma anche un terzo tipo di norma, che è inclusiva come la prima e generale come la seconda, e possiamo chiamare norma generale inclusiva”. (29)

Sempre il medesimo autore osserva che “mentre la norma generale esclusiva è quella norma che regola tutti i casi non compresi nella norma particolare, ma li regola in modo opposto; la caratteristica della norma generale inclusiva è di regolare i casi non compresi nella norma particolare, ma simili a questi, in modo identico”. (30)

Nell’ordinamento italiano, esiste una norma generale inclusiva: l’art. 12 disp. prel cod. civ., secondo cui “Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico della Stato”.

Pertanto, in caso di lacuna, l’interprete deve decidere se applicare la norma generale esclusiva, e quindi escludere il caso non previsto dalla disciplina del caso previsto, ovvero se applicare la norma generale inclusiva, e quindi includere il caso non previsto nella disciplina del caso previsto.

In dottrina, si descrivono queste situazioni con le espressioni: “argumentum a contrario”, per la prima; “argumentum a simili”, per la seconda. (31)

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Ma se questa impostazione è corretta, ne consegue che, in caso di lacuna, il problema dell’interprete non è dato dalla mancanza di una norma regolatrice del caso; al contrario, egli avrà l’imbarazzo di dover scegliere tra due opposte soluzioni.

In sostanza, in caso di lacuna, concorrono – almeno teoricamente - nella regolazione del caso, sia la norma generale esclusiva, sia quella generale inclusiva.

Tale situazione si presta ad essere comunque qualificata come una manifestazione di incompletezza dell’ordinamento giuridico.

Infatti, se le regole del sistema non consentono di individuare quale norma si applichi al caso concreto, ne consegue che tale operazione deve essere svolta dall’interprete.

Così, la soluzione del caso resta affidata alla scelta dell’interprete; con le immancabili incertezze applicative, per la più che probabile diversità di opinioni.

3. Modi di integrazione dell’ordinamento processuale contabile.

3.1. L’ordinamento contabile, in che misura, può essere integrato attraverso gli ordinari strumenti: ossia, per eterointegrazione o per autointegrazione ?

Generalmente un ordinamento può essere completato in due modi: per eterointegrazione o per autointegrazione.

3.1.1. La prima opzione si realizza con il rinvio ad altri ordinamenti, ovvero con il ricorso a fonti diverse da quella dominante.

Nel caso in esame la possibilità di rinviare ad altri ordinamenti è del tutto esclusa.

Ma anche è da escludere il rinvio che la dottrina ha illustrato essere stato talvolta storicamente riferito anche al diritto naturale ed al diritto romano. (32)

Per quanto concerne il rinvio a fonti diverse dalla legge, non è praticabile – per l’ordinamento contabile - l’integrazione tramite la consuetudine, perché l’art. 8 disp. prel. cod. civ. dispone che “nelle materie regolate dalle leggi e dai regolamenti gli usi hanno efficacia solo in quanto sono da essi richiamati”.

Né esiste, infine, la possibilità di fare ricorso al cd. “diritto scientifico”. (33) Un diverso discorso merita invece il cd. “diritto giudiziario”. Mentre alcuni ordinamenti si affidano in modo espresso al potere creativo

del giudice per integrare le lacune (34) , non è escluso che anche in ordinamenti a legalità formale si consenta la produzione di “regole nuove” in sede giudiziaria. Nel nostro ordinamento ciò avviene, in modo non esplicito, ma molto efficace, tramite la cd. interpretazione evolutiva.

3.1.2. Più proficuo appare, invece, il ricorso agli strumenti di autointegrazione costituiti dall’ analogia legis e dai “principi generali del diritto”.

Secondo l’art. 12 disp. prel. cod. civ.. “Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico della Stato”.

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Pertanto, l’analogia è ammessa nel nostro ordinamento: in particolare, essa consiste nel procedimento interpretativo per cui si estende ad un caso non regolato, la stessa disciplina di un caso regolato.

Ciò avviene a seguito del riscontro della similitudine dei due casi. In questo modo, l’ordinamento manifesta una tendenza espansiva. (35) Ovviamente, il ragionamento per analogia è corretto solo nel caso in cui la

somiglianza tra i due casi sia rilevante. Non è sufficiente una somiglianza qualsiasi tra le due fattispecie; al

contrario, occorre risalire ad una qualità comune ad entrambi i casi. In dottrina, si è osservato che “affinché il ragionamento per analogia sia

lecito nel diritto, è necessario che i due casi, quello regolato e quello non regolato, abbiano in comune la ratio legis”. (36)

La medesima dottrina distingue, inoltre, l’analogia legis da altre due forme di ragionamento estensivo: l’analogia iuris e l’interpretazione estensiva. (37)

In particolare, sostiene che “per analogia iuris s’intende il procedimento con cui si ricava una nuova regola per un caso imprevisto non già dalla regola che riguarda un caso singolo, come accade nell’analogia legis, ma da tutto il sistema o da una parte del sistema”. (38)

L’interpretazione estensiva , invece, si differenzia dall’analogia legis perché l’effetto della seconda è la creazione di una nuova norma giuridica, mentre l’effetto della prima è l’estensione di una norma a casi non previsti.

Peraltro, di solito, anche laddove l’analogia è espressamente vietata – (leggi penali e leggi eccezionali) art. 14 disp. prel. cod. civ. – si ritiene che sia possibile l’interpretazione estensiva.

Il ricorso, invece, ai principi generali del diritto è tradizionalmente definito anche come analogia iuris.

Nella formulazione dell’art. 12 disp. prel. cod. civ. è stata preferita l’espressione “principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”.

In sostanza, è stato ritenuto che il termine ordinamento sia particolarmente ampio, al punto da ricomprendere, nel suo significato, oltre che le norme e gli istituti, anche l’orientamento politico-legislativo statuale e della tradizione scientifica nazionale (diritto romano, comune, ecc.). (39)

“I principi generali non sono che norme fondamentali o generalissime del sistema, le più generali”. (40) La dottrina concorda nel ritenere che “per sostenere che i principi generali sono norme gli argomenti sono due, ed entrambi validi: anzitutto se sono norme quelle da cui i principi generali sono estratti, attraverso un procedimento di generalizzazione successiva, non si vede perché non debbano essere norme anch’essi (…), in secondo luogo, la funzione per cui sono estratti e adoperati è quella stessa che è adempiuta da tutte le norme, cioè la funzione di regolare un caso”. (41)

Indubbiamente “molte norme dei codici e della stessa Costituzione sono norme generalissime, e quindi sono veri e propri principi generali espressi”. (42)

Tuttavia, parte della dottrina ritiene che l’art. 12 disp. prel. si riferisca solo ai principi inespressi. (43)

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3.2. Per la ricostruzione degli istituti tipici della fase pre-processuale, in assenza di dati normativi specifici, si ricorre all’intera gamma degli strumenti interpretativi. Una disamina delle soluzioni giurisprudenziali (e non) fornite per risolvere alcune problematiche inerenti i singoli istituti, non può che confermare tale asserzione.

A) fase istruttoria o delle indagini Secondo la dottrina, il PM contabile nello svolgimento dell’attività istruttoria

non è vincolato ad alcuna procedura particolare, “salvo che non decida di chiedere il sequestro di documenti per il quale deve seguire le forme previste dal codice di rito”. (44)

Il punto merita una particolare attenzione. Il motivo per cui l’istruttoria non è sottoposta a particolari vincoli dal legislatore risiede nella circostanza che essa “ha carattere extra-processuale e non giurisdizionale”. (45) Essa infatti è “diretta alla acquisizione di elementi di valutazione e di riscontro funzionale alla definizione della vertenza ai fini di eventuali proposizioni” e non “alla acquisizione di prove in giudizio”. (46) La dottrina avverte la necessità di compiere questa distinzione per evitare che l’attività istruttoria del PM possa essere tacciata di incostituzionalità, per violazione del diritto di difesa (art. 24 Cost.). Da tale impostazione deriva anche in corollario che “tutti gli elementi raccolti dal requirente non hanno valore di prova nel giudizio successivamente instaurato, per cui il giudice contabile non è vincolato a tali acquisizioni”. (47) Resta così confermato che la prova si forma o si acquisisce solo in giudizio. Cionondimeno, anche in epoca precedente la riforma del 1994, era stata sottolineata l’esigenza di garantire l’esercizio del diritto di difesa nella fase delle indagini istruttorie. (48)

a1) ispezioni e accertamenti diretti L’assenza di una puntuale disciplina normativa concernente l'oggetto, i

poteri ed i limiti dell'attività ispettiva e di accertamento rende necessario – ad avviso della dottrina - “ricercare le modalità ed i limiti di detti mezzi istruttori interpretando le poche norme esistenti in modo sistematico, facendo riferimento ai principi generali e senza perdere di vista la finalità degli istituti”. (49)

“Le operazioni ispettive consistono generalmente nell'esame, nella ricerca, nella rilevazione e nella verifica di documenti (nonché nella ricognizione eventuale di luoghi o cose), al fine di pervenire alla cognizione di atti, fatti e comportamenti”. (50)

Nel corso delle indagini può essere utilizzato anche il mezzo istruttorio di cui all’art. 5, comma 6, della legge n. 19 del 1994, che conferisce al PM la facoltà di disporre l“audizione personale” di persone informate sui fatti.

L'accertamento diretto tende al medesimo scopo delle operazioni ispettive: la conoscenza e l’acquisizione di elementi documentali in ordine alla fattispecie di danno erariale.

Esso viene realizzato mediante un diretto accesso ai luoghi interessati. A parere della dottrina “modalità di esecuzione e limiti dei mezzi istruttori in

argomento si ricavano invece facendo riferimento sia al soggetto che li dispone (ad esempio non è consentito l'uso della forza perché tale potere è precluso al P.M.

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contabile) e sia, in mancanza di apposite norme procedurali, alla disciplina dettata nel processo civile dagli artt. 258 ss. c.p.c. - con gli opportuni adattamenti - in tema di ispezione disposta dal giudice istruttore”. (51)

Tali mezzi istruttori appaiono particolarmente incisivi, considerato che possono essere svolti non soltanto presso amministrazioni pubbliche bensì anche presso soggetti terzi contraenti o beneficiari di provvidenze finanziarie a carico di bilanci pubblici.

La legge non dispone nulla circa l’esito delle operazioni ispettive e di accertamento: né per quanto attiene alla raccolta degli elementi accertati, né per quanto riguarda il loro valore.

Per prassi costante, comunque, tali operazioni sono descritte in apposito verbale.

In molte circostanze l’esito degli accertamenti è descritto in una relazione. I documenti menzionati mentre sono senz’altro idonei a supportare

l’esercizio dell’azione di responsabilità amministrativa, non assurgono nondimeno a prove legali.

In particolare, la dottrina segnala che “la parte logico-critica del verbale, a differenza delle operazioni avvenute dinnanzi all'ispettore, non ha efficacia vincolante o valore di prova legale (fino a querela di falso) ma è liberamente apprezzata dal collegio giudicante.” (52)

La legge non disciplina le modalità di conferimento della delega ad organi o funzionari della pubblica amministrazione.

Limitazioni sono previste solo per la delega ai funzionari regionali. Infatti, tali adempimenti istruttori possono essere delegati anche a costoro,

ma secondo l'art. 3, co. 4-bis, della legge n. 19 del 1994, solo d'intesa con il Presidente della regione o della provincia autonoma.

La delega dell'attività istruttoria può essere anche rivolta ad organi che svolgono attività di polizia giudiziaria o di polizia amministrativa.

In particolare, il d.l. n. 152 del 1991, convertito con modificazioni nella 1. n. 203 del 1991, ha espressamente previsto che il P.M. contabile possa disporre ispezioni ed accertamenti diretti “ ... anche a mezzo della Guardia di Finanza”.

Peraltro, tale disposizione è stata resa operativa attraverso l’istituzione, presso i nuclei regionali di polizia tributaria di apposite sezioni Accertamento Responsabilità Amministrative e Danni Erariali (S.A.R.A.D.E.), che dipendono funzionalmente dalle Procure regionali della Corte dei conti.

Per le ipotesi di omessa collaborazione, da parte del soggetto sottoposto ad ispezione, nel corso dell'attività istruttoria, non sono previste specifiche conseguenze sanzionatorie.

Come è stato osservato in dottrina, resta però possibile avviare un procedimento di sanzione indiretta, attraverso la possibile denuncia per il reato di rifiuto di atti di ufficio (art. 328 e,p.) ovvero il reato di cui all'art. 650 c.p. in relazione all'inosservanza di un provvedimento legalmente dato dall'Autorità per ragioni di giustizia. (53)

L’art. 5 della legge n. 19 del 1994 consente che il P.M. contabile possa disporre il sequestro di documenti. Si tratta di un provvedimento estremo, motivato dal fondato timore che il presunto responsabile possa distruggere o occultare documenti rilevanti ai fini dell’indagine.

Al riguardo, è stato osservato che “il provvedimento di sequestro (…) non costituisce una misura cautelare reale, ma un mezzo dì ricerca della prova

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assimilabile, per natura e finalità, al sequestro disciplinato dagli artt. 253 ss. del codice di procedura penale”.

Ancora una volta emergono assonanze con il procedimento penale. a2) perizie e consulenze

Il disposto di cui agli artt. 2 e 5 della legge n. 19 del 1994, nella parte in cui prevede che il Procuratore regionale può disporre “perizie e consulenze” presenta notevoli problemi interpretativi.

Il problema nasce dal fatto che mentre nel processo civile non è prevista alcuna “perizia” in senso tecnico, al contrario, la distinzione tra consulenza tecnica e perizia è propria del procedimento penale.

Così è stato opinato che tale disposizione sembrerebbe costituire “l'unica ipotesi di esplicito rinvio per il processo contabile al codice di procedura penale”. (54)

Dall’analisi dei sistemi normativi, questa ipotesi sembra trarre ulteriore forza.

Infatti, l’art. 191 c.p.c. prevede che la “consulenza tecnica” (d'ufficio) può essere disposta dal giudice; al contrario, nel sistema della procedura penale la “consulenza tecnica” costituisce sempre attività di parte, pubblica o privata.

Così, nel caso in cui il giudice penale disponga una perizia, il Pubblico Ministero e le parti private hanno la facoltà di nominare propri consulenti tecnici. (art. 225 c.p.p. e disp. att. art. 73)

Inoltre, il P.M. penale può nominare un “consulente” nella fase delle indagini preliminari, quale ausiliario nell'attività di ricerca della prova (art. 359, comma 1, c.p.p.) ovvero nel caso di accertamenti tecnici irripetibili (artt. 359 e 360 c.p.p.).

Tali operazioni, però, avvengono in contraddittorio tra le parti e assumono rilievo probatorio.

Non è chiaro, però, se il riferimento normativo alla categoria delle consulenze possa implicare un rinvio dinamico alle norme o almeno ai principi che disciplinano l’istituto nel processo penale.

In dottrina, infatti, si ritiene che il P.M. contabile può procedere alla “nomina diretta del consulente, per l'esperimento di accertamenti ed attività di ausilio nella ricerca della prova, già nella fase dell'istruttoria preliminare antecedente l'atto di citazione; così come può nominare propri consulenti nella successiva fase del giudizio, nel caso in cui venga disposta dalla Sezione giurisdizionale una C. t. u.”. (55)

Al contrario, si tende ad escludere che il P.M. contabile possa disporre “perizie”; in particolare, è stato ritenuto che “l'espressione “perizie e consulenze” sia da considerarsi un'endiadi ovvero una imprecisazione terminologica”. (56)

B) fase del contraddittorio preliminare

b1) Invito a dedurre L’invito a fornire deduzioni è un istituto totalmente nuovo nel processo

contabile. Ma lo stesso non ha eguali neanche nel processo civile. Tale condizione ha comportato la necessità per l’interprete di individuare la

natura giuridica dell’istituto e, soprattutto, di definire i rapporti tra tale atto ed il successivo atto di citazione.

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La notificazione dell’invito a dedurre segna il passaggio dalla fase extra-processuale alla fase pre-processuale.

Sulla natura pre-processuale dell’invito a dedurre non sembrano sussistere dubbi, né in dottrina, né in giurisprudenza.

La Corte costituzionale, in proposito, ha affermato che “qualunque sia le qualificazione giuridica dell’invito a dedurre, si tratta comunque di un atto pre-processuale, suscettibile, alternativamente, di mettere capo all’instaurazione del giudizio ovvero all’archiviazione, tale, quindi, da non inficiare la tradizionale regola secondo la quale, nel giudizio di responsabilità amministrativa, il giudice è investito della causa solo attraverso l’atto di citazione, con la conseguenza che l’invito a dedurre non è idoneo di per sé a determinare un’invasione dell’altrui sfera di attribuzioni”. (57)

In giurisprudenza sono state sostenute diverse tesi sulla funzione dell’invito a dedurre.

In particolare, sono state individuate tre diverse funzioni. Secondo una prima impostazione, l’invito a dedurre svolge

fondamentalmente una funzione di garanzia. Il presunto responsabile viene messo in condizione di esercitare il diritto di

difesa, al fine di evitare la successiva citazione in giudizio. (58) Una diversa impostazione sottolinea invece la funzione di economia

processuale, al fine di acquisire immediatamente il maggior numero di elementi di conoscenza e di valutazione. (59)

Una posizione del tutto diversa esprime l’orientamento ricostruttivo secondo il quale l’invito a dedurre non assolverebbe ad esigenze di difesa, ma semplicemente strumentali rispetto all’attività istruttoria del PM. (60)

Tale divergenza di opinioni non agevola la soluzione di un problema tipico di questa fase pre-processuale: la richiesta dell'invitato di poter esaminare il fascicolo istruttorio e prendere visione della documentazione raccolta dal Pubblico Ministero a sostegno delle ragioni della pretesa erariale.

Secondo una parte della giurisprudenza, le esigenze di riservatezza dell’istruttoria prevalgono su quelle di conoscenza degli atti dell’accusa per esigenze difensive. (61)

Esprime, tuttavia, una posizione opposta la prevalente dottrina. (62) Comunque, si è osservato che “non è indubbiamente ravvisabile la sogge-

zione della Procura contabile al diritto di accesso ed al correlato sistema prescrittivo previsto dagli artt. 22 e ss. della 1. 7 agosto 1990, n. 341; non è configurabile, in siffatte ipotesi, una attività amministrativa stricto sensu”. (63)

La richiesta, peraltro, potrebbe provenire anche da terzi non sottoposti ad indagine.

Nella prassi accade di frequente che richieste di accesso o anche solo di notizie provengano sia dal denunciante che dal denunciato.

Il primo ha spesso l’interesse a conoscere l’esito del procedimento di accertamento della responsabilità amministrativa, al punto da chiedere di essere informato della eventuale archiviazione della vertenza.

Il secondo, invece, è spesso indotto a formulare la richiesta dall’intento di conoscere l’identità del denunciante, al fine di verificare la possibilità di esperire un’azione nei suoi confronti.

In proposito Consiglio di Stato ha dichiarato che non sono accessibili “i rapporti alla procura Generale o alle Procure regionali presso la Corte dei conti e richieste o relazioni di dette procure ove siano nominativamente individuati soggetti

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per i quali si appalesa la sussistenza di responsabilità amministrative, contabili e penali; gli atti di promovimento di azioni di responsabilità davanti alle competenti autorità giudiziarie”. (64)

Ma il vero problema non è tanto se gli atti del fascicolo istruttorio siano o meno accessibili in base alla l. 7 agosto 1990 n. 241, atteso che quest’ultima disciplina solo il diritto di accesso agli atti amministrativi.

Al contrario, appare rilevante la questione se il diritto costituzionale di difesa (art. 24) non implichi anche che gli atti del fascicolo istruttorio debbano essere resi accessibili all’invitato.

In giurisprudenza è maturato un indirizzo che tenta di conciliare le esigenze difensive con quelle di segretezza delle indagini; infatti, si è ritenuto che il destinatario di un invito a dedurre ha il diritto di accedere ai documenti menzionati nell’atto di invito. (65)

La ratio di tale orientamento è evidente: sarebbe iniquo per l’invitato a dedurre ed inutile per il PM rinviare alla fase processuale l’esame di un documento che potrebbe immediatamente escludere l’imputazione di responsabilità.

In sostanza, si tratta di consentire all’interessato di controdedurre alla contestazione del PM nel miglior modo e con piena conoscenza degli elementi su cui si fonda l’accusa.

In tali circostanze, il diniego opposto alla visione della documentazione nella fase istruttoria potrà comportare l'inammissibilità della successiva citazione in giudizio. (66)

Si colloca , invece, in una prospettiva di rigore formale, l’orientamento secondo cui “nessun obbligo di trasmettere documenti ai destinatari dell'invito è posto dalla legge a carico del Procuratore regionale”. (67)

Per quanto concerne il valore delle affermazioni e del comportamento dell’invitato, secondo la dottrina, “le deduzioni scritte o orali svolte dall’intimato in sede di contraddittorio preliminare hanno valore di confessione stragiudiziale, fanno fede contro chi la fa nel successivo giudizio e possono essere utilizzate dal PM a ulteriore fondamento della sua tesi accusatoria”. (68)

Altra problematica riguarda i rapporti tra l’invito ed il successivo atto di citazione. L’invito a dedurre è “atto obbligatorio per il PM”. (69) Da tale circostanza deriva, secondo parte della dottrina, che esso non assume il valore di “mera condizione dell’azione”, ma di “presupposto processuale di promuovibiltà dell’azione”. (70)

Altra parte della dottrina ritiene, invece, che la mancanza dell’invito non determina né la nullità, né l’inammissibilità della citazione, ma solo la sua irricevibilità. (71)

Secondo la giurisprudenza, la notificazione dell’invito a dedurre, l’acquisizione delle deduzioni e l’effettuazione dell’audizione personale richiesta dall’interessato costituiscono condizioni dell’azione, la cui mancanza rende inammissibile la citazione. (72)

Sono sorte divergenze d’opinione tra coloro che sostengono che tale carenza non sia sanabile neanche dalla costituzione del convenuto e comunque siano rilevabili d’ufficio e coloro che, al contrario, ritengono che in tale ipotesi, debba applicarsi la disciplina di cui all’art. 157 c.p.c., con la conseguenza che tale carenza debba essere eccepita dalla parte, perché l’invito è un istituto finalizzato soprattutto alla difesa del presunto responsabile. (73)

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Secondo un primo orientamento, anche la mancata audizione su richiesta

determina la conseguenza dell’inammissibilità della citazione, perché la legge prevede tale istituto non come alternativo a l diritto di presentare deduzioni scritte. (74) Altro orientamento ritiene che, invece, tale mancanza si traduca in una causa di nullità dell’atto di citazione. (75) Non è mancato chi in dottrina ha ritenuto che a tali situazioni non si ricolleghi alcuna conseguenza sanzionatoria. (76)

b2) il sub-procedimento di audizione L’audizione consiste nella formulazione orale delle proprie deduzioni, in confronto diretto con il PM inquirente. Lo scopo dell’audizione personale su richiesta impedisce di equipararla ad un interrogatorio. Di essa si redige verbale, sottoscritto dalle parti.

Secondo la dottrina l’audizione personale “ha la stessa valenza delle controdeduzioni scritte, costituendo un mezzo per entrare in contatto (…) con il requirente, e contestargli le censure formulate, controdeducendo al riguardo con dichiarazioni da porre a verbale”. (77) La dottrina configura un apposito sub-procedimento, nell’ambito del procedimento del contraddittorio preliminare, finalizzato alla realizzazione dell’audizione personale; in particolare, la posizione del richiedente viene ricostruita in termini di diritto potestativo. (78) Se è corretta tale ricostruzione, ne consegue che la posizione correlativa – in capo al PM – si configura in termini di soggezione. Ciò significa che l’esercizio di tale diritto non può essere impedito, né in qualsiasi modo ostacolato. Pertanto, non appare condivisibile l’orientamento espresso da una isolata pronuncia secondo cui l’invitato dovrebbe formulare la richiesta indicando le ragioni specifiche che la motivano. (79) Al contrario, la dottrina sottolinea che dalla disposizione di cui all’art. 5 della legge n. 19 del 1994 emergono chiaramente due autonomi diritto potestativi: quello di controdedurre per iscritto e quello di farsi sentire personalmente. L’esercizio di uno dei due diritti non assorbe in sè l’altro; pertanto, l’omissione di uno dei due determina la conseguenza dell’inammissibilità della citazione.

b3) Procedimento di proroga del termine per la citazione L’art. 5, co. 1, del d.l. 15 novembre 1993, n. 453, convertito nella l. 14

gennaio 1994, n. 19 dispone che il Procuratore regionale deve “emettere l'atto di citazione in giudizio entro centoventi giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle deduzioni da parte del presunto responsabile del danno”.

In dottrina, è stato evidenziato che “la fissazione di termini per la conclusione dell'istruttoria del P.M. contabile, una volta notificato l'invito a fornire deduzioni al presunto responsabile, è finalizzata indubbiamente ad evitare il protrarsi sine die di una situazione di incertezza dell'esito di questa fase pre-processuale”. (80)

Proprio in tema di durata delle indagini, occorre considerare una importante pronuncia delle Sezioni Riunite della Corte dei conti, secondo la quale a tale periodo si applica la sospensione dei termini processuali nel periodo feriale (1 agosto-15 settembre) di cui all'art. 1 della l. 7 ottobre 1969, n. 742. (81)

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In sostanza, le Sezioni Riunite ritengono che rivestono natura processuale non solo i termini che incidono sulla dinamica del processo, ma anche i termini per l'esercizio di poteri sostanziali e quelli previsti, a pena di decadenza, per la proposizione dell'azione.

La tesi è condivisa, per quanto di competenza, sia dalla giurisprudenza amministrativa, sia dalla Corte di Cassazione. (82)

Ma , per il tema che qui interessa, la pronuncia contiene un interessante obiter dictum.

Infatti, viene affermata la assimilabilità della fase pre-processuale del giudizio contabile alle indagini preliminari del giudizio penale.

Proprio a causa della sostanziale identità di dette fasi viene ritenuto applicabile, per analogia, l'art. 240-bis disp. coord. c.p.p. che dispone la sospensione dei termini procedurali.

La legge non prevede la possibilità per il presunto responsabile di richiedere al P.M. contabile una proroga del termine fissato per la presentazione delle deduzioni; ma neanche lo vieta.

Tuttavia, nel caso in cui il Procuratore regionale conceda tale proroga, non si sposta automaticamente il dies a quo per il termine dei 120 giorni.

La giurisprudenza ha ritenuto che, in tal caso, occorra comunque rispettare il termine di centoventi giorni, decorrente da quello assegnato originariamente. (83)

La Corte Costituzionale ha precisato che l'omessa notificazione della istanza di proroga, ai presunti responsabili, non costituisce una violazione ai precetti di cui all'art. 111 Cost.. (84)

Appare utile una disamina delle ragioni poste a fondamento della pronuncia.

Una prima considerazione attiene alla circostanza che all’invito a dedurre non segue automaticamente l’atto di citazione.

L’invito è così un mero atto di natura pre-processuale non idoneo “a conferire al presunto responsabile del danno la qualità di parte e, quindi, a rendere necessaria la notifica ad esso dell'istanza di proroga proposta dal Pubblico Ministero”.

Inoltre, sempre secondo la Corte costituzionale, il contraddittorio può essere differito ad un momento successivo ovvero al momento in cui la decisione sull'istanza di proroga è oggetto di reclamo al collegio, da proporsi nel termine di dieci giorni dalla avvenuta conoscenza della stessa, ai sensi dell'art. 739 c.p.c.. (85)

In sostanza, la Corte Costituzionale ha escluso che la mancata notifica dell’istanza di proroga possa costituire violazione del diritto di difesa.

Non tutti concordano con questa impostazione, perché non è escluso che l’invitato abbia un concreto interesse ad opporsi alla proroga. (86)

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Note

1. Il tema spesso si interseca con quello della discussa natura

risarcitoria o sanzionatoria della responsabilità amministrativa. Per una ampia panoramica degli orientamenti ricostruttivi, v. AA.VV., La nuova Corte dei conti: responsabilità, pensioni, controlli, 2004, 21 e ss.;

2. Pilato, La formazione delle prove nei giudizi dinnanzi la Corte dei Conti. L’integrazione del rito contabile con il codice di procedura civile, e con i principi del giusto processo, in amcorteconti.it;

3. Sciascia distingue una fase extra-processuale da una fase pre-processuale, in Manuale di diritto processuale contabile, Milano, 1999, 452;

4. AA.VV., La nuova Corte dei conti, cit. 408; 5. AA.VV., La nuova Corte dei conti, cit. 408; 6. AA.VV., La nuova Corte dei conti, cit. 409; 7. Pilato, La formazione delle prove nei giudizi innanzi la Corte dei

conti. L'integrazione del rito contabile con il codice di procedura civile e con i principi del giusto processo, in Riv. C. conti, 2002, f. 1, 323;

8. Santoro, Prolegomeni al giusto processo contabile, in Riv. C. conti,

2002, f. 2, p. 329;

9. Ristuccia, Applicabilità dei principi del giusto processo al giudizio contabile, in Riv. C. conti, 2000, p. 201;

10. Pilato, op. cit., p. 323; Corte Cost. 17 ottobre 1996, n. 385, in Foro amm., 1997, 2624;

11. Maddalena, La sistemazione dogmatica della responsabilità amministrativa, in www.amcorteconti.it;

12. Sciascia, Manuale di diritto processuale contabile, Milano, 1999, 97;

13. Sciascia, Manuale, cit, 97; 14. Sciascia, Manuale, cit., 98;

15. Sciascia, Manuale, cit., 98; Ammette il ricorso ad altri sistemi

processuali anche Saitta, L’annullamento con rinvio (…), in Riv. C. conti n. 3/97, 271;

16. Sciascia, Manuale, cit., 98;

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17. Bobbio, Teoria dell’ordinamento giuridico, Torino, 1960, 125;

18. Bobbio, Teoria, cit., 125;

19. Bobbio, Teoria, cit., 129; 20. Bobbio, Teoria, cit., 129;

21. Bobbio, Teoria, cit., 158;

22. Brunetti, Sul valore del problema delle lacune, 1913; la medesima

situazione viene descritta anche con le locuzioni: “lacune proprie” e “lacune improprie” da Bobbio, Teoria, cit., 162, secondo il quale le prime sono completabili dall’interprete e le seconde dal legislatore; per ulteriori distinzioni v. Bobbio, Teoria, cit., 162 e ss.;

23. Ehrlich, “La logica dei giuristi”, Tubingen, 1925 riportato da Bobbio, Teoria, cit., 134;

24. Bobbio, Teoria, cit., 142;

25. Bobbio, Teoria, cit., 142; 26. Bobbio, Teoria, cit., 143

27. Bobbio, Teoria, cit., 142;

28. Donati, Il problema delle lacune dell’ordinamento giuridico, 1910; 29. Bobbio, Teoria, cit., 152;

30. Bobbio, Teoria, cit., 152; 31. Bobbio, Teoria, cit., 153;

32. Bobbio, Teoria, cit., 166 e ss.;

33. Bobbio, Teoria, cit., 166 e ss. Ricorda che tale ipotesi si è

storicamente verificata, con la legge delle citazioni (426 d.C.) di Teodosio II e Valentiniano III che fissava il valore da attribuirsi in giudizio agli scritti dei giuristi Papiniano, Paolo, Ulpiano, Modestino, Gaio;

34. Bobbio, Teoria, cit., 170 riporta il caso del cod. civ. svizzero, il cui

art. 1 enunciava il principio che, in caso di lacuna, sia della legge sia della consuetudine, il giudice potesse decidere il caso come se fosse egli stesso legislatore.

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35. Si tratta di un procedimento che ha origini risalenti. Già nel Digesto si affermava che “Non possunt omnes articuli singillatim aut legibus aut senatus consultis comprehendi: sed cum in aliqua causa sententia eorum manifesta est, is qui jurisdictioni praeest ad similia procedere atque ita ius dicere debet” ( 10 D. de leg., 1,3)

36. “Ubi eadem ratio, ibi eadem dispositivo” Bobbio, Teoria, cit., 175;

37. Bobbio, Teoria, cit., 176;

38. Bobbio, Teoria, cit., 176;

39. Bobbio, Teoria, cit., 179;

40. Bobbio, Teoria, cit., 181; ritiene che i principi siano norme come

tutte le altre, anche Crisafulli, Per la determinazione del concetto dei principi generali del diritto, in Riv. Int. Fil. Dir., XXI, 1941;

41. Bobbio, Teoria, cit., 181-2;

42. Secondo Bobbio, Teoria, cit., 182 hanno tale natura l’art. 2043 c.c., l’art. 2041 c.c., l’art. 1176 c.c..

43. Bobbio, Teoria, cit., 183; 44. Sciascia, Manuale, cit., 452;

45. Sciascia, Manuale, cit., 452;

46. Sciascia, Manuale, cit., 452;

47. Sciascia, Manuale, cit., 452; 48. De Filippis, archiviazione e azione di responsabilità del P.G. della Corte dei conti, in Foro amm., 1968, II, 218;

49. La nuova Corte dei conti, cit, 413; Pomponio, Mezzi di ricerca

della prova, relazione in Seminario di studio svoltosi in Roma presso la

Corte dei Conti nel dicembre 2003; Id., Ispezioni e accertamenti nel

giudizio di responsabilità, cit.; Carlino, La scelta del modus procedendi,

l'esito degli accertamenti e la valutazione degli elementi acquisiti,

relazione in Seminario di studio su L'istruttoria del Pubblico Ministero nel

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giudizio di responsabilità, svoltosi in Roma presso la Corte dei Conti nel

novembre 1998; 50. AA.VV., La nuova Corte dei conti, cit., 413; 51. AA.VV., La nuova Corte dei conti, cit., 414; 52. AA.VV., La nuova Corte dei conti, cit., 415; 53. Pomponio, Mezzi di ricerca, cit. 54. AA.VV., La nuova Corte dei conti; cit., 416; 55. AA.VV., La nuova Corte dei conti, cit., 417;

56. Pomponio, Mezzi di ricerca, cit.

57. C. Cost., 4 giugno 1997, n. 163 58. C. conti, sez. I, 25 marzo 1996, n. 11/A

59. C. conti, sez. II, 16 novembre 1995, n. 36/A 60. C. conti, sez. I, 13 maggio 1996, n. 26/A e sez. II, 19 novembre

1996, n. 130/A. 61. C. conti, sez. III, 26 settembre 2000, n. 267/A, in Riv. C. conti,

2000, f. 6, 198, e, C. conti sez. Lombardia, 20 gennaio 2004, n. 33; 62. Di Passio, Natura, funzione, effetti dell'invito, in Riv. C. conti,

1995, f. 1, 441; Sciascia, op. cit., pp. 365 ss.; Scoca, op. cit, p.389; 63. AA.VV., La nuova Corte dei conti, cit., 422; 64. Cons. St., ad. gen., 9 novembre 1995, n. 119, in Cons. Stato,

19215, 1405. 65. C. conti, sez. 1, 29 gennaio 2001, n. 13/A, in Riv. C. conti, 2001, f.

1,103; 66. C. conti, sez. Sardegna, 30 novembre 1998, n. 723, in Riv. C. conti,

1999, I, 158 e C. conti, sez. Friuli V. G., 2 febbraio 2000, n. 11, in Riv. C. conti, 2000, 11, 109.

67. C. conti, sez. Lombardia, 22 aprile 1999, n. 480

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68. Sciascia, Manuale, cit., 460; 69. Sciascia, Manuale, cit., 461; 70. Sciascia, Manuale, cit., 461;

71. Lupi, Inosservanza del termine per l’emissione dell’atto di citazione: un problema di difficile soluzione, in Riv. C. conti, n. 2/98, 108 ss.;

72. C. conti, SS.RR. 16 febbraio 1998, n. 7/QM 73. Silveri, La fase preprocessuale nel giudizio di responsabilità

amministrativa: rilievi critici e spunti problematici, in Riv. C. conti, n. 2/98, 254 ss.;

74. C. conti, SS.RR., 26 febbraio 1998, n. 7/QM 75. C. conti, sez. Lazio 12 dicembre 1994, n. 25 e sez. Sicilia, 23

marzo 1994, n. 38

76. Garri, I giudizi innanzi alla Corte dei conti, Milano 1997, 394 ss

77. Sciascia, Manuale, cit., 464;

78. Sciascia, Manuale, cit., 464; 79. C. conti, sez. Umbria, 28 novembre 1994, n. 100;

80. AA.VV., La nuova Corte dei conti, cit., 423;

81. C. conti, Sez. Riun., 16 marzo 2003, n. 71 QM, in Foro amm. -

CdS, 2003, f. 3

82. Cass. civ., 18 aprile 1997, n. 3351, in Giust. civ, Mass., 1997, 605.

83. C. conti, sez. 1,11 giugno 2002, n. 185/A, in Riv. C. conti, 2002, f. 3, 93

84. C. cost., 4 dicembre 2002, n. 513, in Giur. cost., 2002, f. 6.

85. C. conti, sez. riun., 7 dicembre 1999, n27/QM, in Riv C. conti,

1999, t. 6, 61; id.. sez. Lombardia, 24 gennaio 2002, n. 90M ivi e, da ultima, C. conti, sez. Lazio. 15 gennaio 2003, n. 92, in Riv. C. conti, 2001 f. 1,197.

86. C. conti, sez. Sicilia, 12 settembre 1997, in Riv. C. conti, n. 6, 1997, 223.

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