FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA · 2013-02-04 · iii capitolo iii le indagini preliminari alla proposta...

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN GIURISPRUDENZA TESI DI LAUREA IN DIRITTO PROCESSUALE PENALE L’UDIENZA CAMERALE NEL PROCEDIMENTO DI PREVENZIONE PATRIMONIALE Relatore Candidato Ch.mo Prof. ALDO CIMMINO GUIDO PIERRO Matr. 991/006881 Anno Accademico 2011/2012

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI

FEDERICO II

FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN GIURISPRUDENZA

TESI DI LAUREA IN

DIRITTO PROCESSUALE PENALE

L’UDIENZA CAMERALE NEL PROCEDIMENTO DI PREVENZIONE PATRIMONIALE

Relatore Candidato Ch.mo Prof. ALDO CIMMINO GUIDO PIERRO Matr. 991/006881

Anno Accademico 2011/2012

 

A Giovanni S., Marco, Ciro, Carlo B., Antonio, Michelangelo, Giovanni A., Carlo E., e a tutti gli altri ragazzi della cooperativa sociale“Il Tappeto di Iqbal”

per avermi insegnato il peso del dire e la concretezza del fare, “cercando nello stomaco” lo spettacolo della vita…

 

Il fenomeno (della mafia N.d.A.), evidentemente, non

può essere considerato soltanto sul piano della

prevenzione e della repressione dei reati ma, come è

stato messo in luce nel ricordato dibattito parlamentare

e nelle mozioni approvate da questa Camera, occorre

una politica volta ad eliminare le condizioni che

favoriscono lo sviluppo del fenomeno mafioso: una

politica che dia ordine ai fatti economici, che organizzi

e programmi lo sviluppo, che riduca lo spazio del

«liberismo selvaggio»

Atti Parlamentari, Camera dei deputati, n. 1581 La Torre ed altri, 31 marzo 1980

I  

INDICE SOMMARIO

Introduzione .................................................................................................................. 1

 

 

CAPITOLO I

L'EVOLUZIONE NORMATIVA DELLA PREVENZIONE PENALE

 

 

1. L’origine della prevenzione penale: la “Legge Pica” .............................................. 5 

2. Il Ventennio fascista ................................................................................................ 6 

3. L’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana ............................................. 11 

3.1 Il principio della responsabilità penale personale ............................................................ 11 

3.2 Il principio della presunzione di non colpevolezza .......................................................... 15 

3.3 Il principio di libertà dell’iniziativa economica privata e il diritto alla proprietà privata 18 

4. La prevenzione personale. Dalla “persona pericolosa” agli “indiziati di appartenere

ad associazioni mafiose” ............................................................................................. 24 

5. L’associazione di tipo mafioso e il contrasto patrimoniale alle mafie. Entra in

vigore la “Legge Rognoni – La Torre” ....................................................................... 28 

6. Le stragi politico-mafiose dei primi anni ‘90 ......................................................... 32 

7. La risposta della società civile. L’associazione “Libera” e la legge del riutilizzo

sociale dei beni confiscati alle mafie .......................................................................... 34 

8. I provvedimenti introdotti durante la XVI legislatura. L’Agenzia Nazionale, il

“pacchetto sicurezza” e il codice della legislazione antimafia e delle misure di

prevenzione ................................................................................................................. 36 

II  

8.1 Le novità introdotte dal nuovo Codice Antimafia ............................................................ 38

 

 

CAPITOLO II

FONDAMENTO E NATURA GIURIDICA

DELLE MISURE DI PREVENZIONE

Premessa ..................................................................................................................... 48 

1. Le ratio delle misure di prevenzione in generale ................................................... 50 

2. Natura giuridica delle misure di prevenzione ......................................................... 54 

2.1 La distinzione tra misure di prevenzione e sanzioni penali ............................................. 54 

2.2 Misure di prevenzione e misure di sicurezza ................................................................... 60 

3. Le categorie della pericolosità sociale tra codice penale e legge della prevenzione.63 

3.1 La pericolosità qualificata ex lege 575/1965 .................................................................... 70 

3.2 L’associazione di tipo mafioso ......................................................................................... 79 

3.3 Il concetto di appartenenza ............................................................................................... 88 

4. La natura giuridica della misura del sequestro antimafia ....................................... 97 

5. La natura giuridica della misura della confisca antimafia .................................... 102

 

 

 

 

 

 

 

III  

CAPITOLO III

LE INDAGINI PRELIMINARI ALLA PROPOSTA

E LE CARATTERISTICHE DELLA PROVA INDIZIARIA

 

 

1. Le indagini patrimoniali ........................................................................................ 106 

2. La natura giuridica delle indagini patrimoniali ..................................................... 108 

3. I soggetti del procedimento di prevenzione patrimoniale: gli organi inquirenti ... 110 

4. Le fonti probatorie utilizzabili e i mezzi di ricerca della prova ............................ 115 

5. La prova indiziaria ................................................................................................ 125 

6. Il falso problema dell’inversione dell’onere probatorio ....................................... 133

 

 

CAPITOLO IV

L'UDIENZA CAMERALE NEL PROCEDIMENTO DI PRIMO GRADO

E NEI GRADI DI IMPUGNAZIONE

 

 

1. La competenza territoriale del giudice .................................................................. 140 

2. Il decreto di fissazione dell’udienza e l’invito a comparire .................................. 143 

3. L’istruzione probatoria ......................................................................................... 145 

4. Gli speciali poteri d’indagine del Tribunale ......................................................... 147 

5. Le nullità del procedimento di prevenzione ......................................................... 148 

6. La pubblicità dell’udienza camerale ..................................................................... 151 

7. Il giudizio di impugnazione .................................................................................. 160 

8. L’udienza camerale d’innanzi alle sezioni di Corte d’Appello ............................ 163 

IV  

8.1 (segue) L’opposizione nelle forme dell’incidente di esecuzione ................................... 166 

9. L’udienza camerale d’innanzi alle sezioni della Corte di Cassazione .................. 169

 

Conclusioni ............................................................................................................... 172

 

Appendice di approfondimento: intervista a Franco la Torre figlio di Pio e presidente

di Freedom, Legality and Rights in Europe (Flare) .................................................. 177 

Bibliografia ............................................................................................................... 182

 

 

GIURISPRUDENZA CONSULTATA ................................................................... 187

 

Giurisprudenza Costituzionale .................................................................................. 187 

Giurisprudenza di Legittimità ................................................................................... 189 

Giurisprudenza di Merito .......................................................................................... 192 

Giurisprudenza della Corte EDU .............................................................................. 195 

 

1  

Introduzione

Sin dagli albori della legislazione antimafia si è puntati al contrasto ai

patrimoni di origine illecita. Si capì, sin dal 1982, che la dimensione economica

delle consorterie mafiose fosse il vero cuore pulsante delle stesse.

Si era infatti compreso che “il vero tallone d’Achille delle organizzazioni mafiose è

costituito dalle tracce che lasciano dietro di se i grandi movimenti di denaro,

connessi alle attività criminose più pericolose”.

L’analisi di queste tracce, nell’ormai consolidata opinione degli operatori del diritto,

consentirebbe alla magistratura, “di costruire un reticolo di prove obiettive,

documentali, univoche, insuscettibili di distorsioni, e foriera di conferme e riscontri

ai dati emergenti dall’attività probatoria di tipo tradizionale”1

Anche l’allora Prefetto Emanuele De Francesco, Alto commissario per il

coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa, pose l’accento sulle

coordinate economico-finanziare delle organizzazioni mafiose, soffermando

l’attenzione sul rilievo sociale delle nuove misure di prevenzione.

Rilievi, avvertiva De Francesco, che permisero al legislatore di ridefinire tale istituti

giuridici come immersi in una realtà ora caratterizzata dall’operazione legislativa del

1982, di forgiare ex novo “i termini realistici di attività mafiosa e di mafioso, in

quanto interdipendenti con certe sfere valutarie, finanziarie e imprenditoriali, che

appunto caratterizzano una parte deteriore della società nazionale ed

internazionale”.2

Non più, dunque, quelle coordinate politiche e sociali tendenti a classificare la

povertà, il degrado ed il disordine sociale che ne derivava, come parametri della

pericolosità, bensì l’accumulazione spregiudicata e irrefrenabile di ricchezze, fondate

su attività illecite, rappresentavano, e rappresentano tutt’oggi, l’indice principale che

rileva sotto il profilo della pericolosità sociale giuridicamente intesa nell’ambito

della prevenzione antimafia.

                                                            1 G. FALCONE – G. TURONE, tecniche di indagine in materia di mafia, in AA.VV., Riflessioni ed esperienze sul fenomeno mafioso, in Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura, Anno 1983, p. 46 2 E. DE FRANCESCO, in M. DI RAIMONDO, Lineamenti delle misure di prevenzione, CEDAM, 1983, in prefazione, p. X

2  

Il dato certo è il passaggio da una nozione di pericolosità, legata ad una valutazione,

quasi “lombrosiana”, delle situazioni di marginalità e dunque di estrema povertà ( si

ricordi che i termini utilizzati dalla primissima legislazione sulla prevenzione

ricomprendono aggettivi come “oziosi”, “vagabondi”, “manutengoli” composti in

“banda armata la quale vada scorrendo le pubbliche vie o le campagne per

commettere crimini o delitti”)3 causa di eclatanti disfunzioni dell’ordine pubblico

(legate appunto alle scorrerie nelle pubbliche vie o nelle campagne) ad una nozione

di pericolosità sociale legata alla dimensione economico-finanziaria dei grandi

investimenti.

I patrimoni accumulati illecitamente, le attività delle “imprese mafiose”, che

prosperano sui territori in quanto fortificate dal potere politico-mafioso, in grado di

sbaragliare la concorrenza, e di esercitare il potere forte di intimidazione sul territorio

circostante e sulle altre attività economiche che lecitamente, e faticosamente,

incarnano quel principio costituzionale della libertà dell’attività di impresa, devono

essere sottratti mediante la forza dello Stato.

Tale ablazione, neanche può essere considerata incostituzionale proprio alla luce di

quelle norme della Costituzione che sono state, nel corso della storia delle misure di

prevenzione patrimoniali, più volte assunte violate, in virtù dell’applicazione delle

misure patrimoniali antimafia, poste alla loro stessa tutela.

Le misure di prevenzione patrimoniale sono, infatti, a tutela di quei principi della

Carta Costituzionale cristallizzati negli artt. 41 e 42 Cost., in virtù dei quali è

riconosciuta libera l’iniziativa economica privata e viene tutelata e garantita la

proprietà privata.

Le norme costituzionali ora richiamate, però, specificano inoltre che tali beni

giuridici, meritevoli di tutela, non possono essere in contrasto con l’utilità sociale,

con la dignità umana, la libertà, la sicurezza.

Era inevitabile, allora, che il legislatore ponesse sotto la lente di ingrandimento il

reale problema, che non poteva essere semplicisticamente rappresentato da soggetti

che “scorrono le pubbliche vie” bensì è la “nuova visione economico-imprenditoriale

che la mafia ha ormai fatto propria, con messa in essere di tecniche sofisticate

                                                            3 Art. 1, legge 15 agosto 1863, n. 1409, c.d. “Legge Pica”

3  

riconducibili al circuito degli istituti di credito, del monopolio degli appalti,

dell’acquisizione in subappalto, a mezzo di prestanome, della realizzazione di

importanti opere pubbliche, del traffico internazionale di stupefacenti talvolta con

produzione propria, nonché tutti i connessi reati tributari e valutari”.4

Con la proposta dell’Onorevole Pio La Torre, di cui oggi ricorre il trentennale da

quel 30 aprile 1982, quando anche l’organizzazione criminale “cosa nostra” decise il

suo assassinio politco-mafioso, si sposta l’asse dell’azione preventiva e repressiva da

quello che era stato l’andamento tradizionale di “inseguire i poveracci” all’illecito

arricchimento delle organizzazioni mafiose.

Le grandi risorse economico-finanziarie, accumulate illecitamente mediante la forza

di intimidazione delle organizzazioni mafiose, connotano la vera essenza della

pericolosità sociale e la vera fonte per la realizzazione di azioni criminogene.

La prevenzione penale, dunque, si innesta sui comportamenti di spregiudicata

accumulazione delle ricchezze che è, allo stesso tempo, causa ed effetto

dell’egemonia delle mafie.

È causa in quanto consente il radicarsi delle organizzazioni criminali sul territorio ma

è anche effetto del loro operato, in quanto provento di reato.

Il lavoro che segue, quindi, si propone di analizzare, dal punto di vista della

disciplina processuale penale, l’iter per l’applicazione delle misure di prevenzione

patrimoniali antimafia alla luce del nuovo Codice delle leggi antimafia, approvato

con il decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159.

L’analisi prende le mosse dall’evoluzione normativa della profilassi penale e in

particolare dalla “Legge Pica” del 1863 sino alle primissime definizioni giuridiche

del fenomeno mafioso, con l’approvazione della legge 31 maggio 1965, n. 575 e poi,

definitivamente, con l’approvazione della legge 13 settembre 1982, n. 646 nota come

la legge Rognoni – La Torre.

Con tale provvedimento viene introdotto il reato di associazione mafiosa, mediante le

disposizioni contenute nell’art. 416bis c.p., ma soprattutto vengono introdotte le

prime disposizioni in materia di misure di prevenzione patrimoniale, accanto alle già

                                                            4 S. P. FRAGÓLA, Le misure di prevenzione, CEDAM, 1992, p. 34

4  

previste misure di prevenzione personali contemplate dalla legge 27 dicembre 1956,

n. 1423.

La legge in esame introduce anche significative modifiche alle leggi 1423/1956 e

575/1965 specialmente per quel che concerne il procedimento applicativo delle

misure predette.

In seguito, l’approvazione della legge 31 marzo 2010, n. 50 di conversione del d.l. 4

febbraio 2010, n. 4, che ha istituito l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la

destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, e del d.lgs.

6 settembre 2011, n. 159, che ha introdotto il Codice delle leggi antimafia, licenziato

dal Governo, delegato con legge 13 agosto 2010, n. 136, sono state introdotto nuove

e più incisive modifiche specialmente per quel che concerne lo statuto dell’udienza

nell’ambito del giudizio d’appello e quello innanzi le sezioni della Corte di

Cassazione.

Da qui, l’interesse ad esaminare l’argomento dell’udienza camerale nel procedimento

di prevenzione patrimoniale, in quanto luogo giuridico per la realizzazione di quelle

garanzie tipiche richieste nell’ambito di un procedimento penale, atteso il carattere

giurisdizionale penale del relativo procedimento e non amministrativo così come

parte della dottrina e della giurisprudenza hanno sostenuto per un periodo.

I tentativi di demolizione della costituzionalità delle misure di prevenzione, sia

personali che patrimoniali, si sono abbattuti, com’era ovvia che accadesse, sulla

struttura del procedimento per l’applicazione delle misure stesse e dunque sul

momento processuale dell’udienza.

Dai poteri, d’ufficio, d’indagine e acquisizione degli atti, riservati al Giudice, nella

fase dell’istruzione probatoria, anche durante il giudizio d’innanzi le sezioni di Corte

di Appello, al problema, fittizio, della cosiddetta inversione dell’onere della prova,

sino alla questione, affrontata dalla Corte costituzionale, della pubblicità dell’udienza

camerale, oggi espressamente prevista dal Codice delle leggi antimafia in tutti i gradi

del giudizio di prevenzione.

Riconoscere la costituzionalità del procedimento di prevenzione patrimoniale

significa riconoscere la compatibilità costituzionale delle misure di prevenzione,

finalizzate alla sottrazione dei patrimoni alle mafie che rappresenta uno degli aspetti

più importanti nell’ambito della lotta alle mafie.

5  

CAPITOLO I

L’EVOLUZIONE NORMATIVA DELLA PREVENZIONE PENALE

1. L’origine della prevenzione penale: la “Legge Pica”

La prevenzione penale fa ingresso, nel nostro Ordinamento giuridico, con la prima

legge di pubblica sicurezza, risalente al periodo storico dell’Italia Unita.

La cosiddetta “Legge Pica”, dal nome del deputato pugliese che la propose, fu

promulgata il 15 agosto 1863.

In essa sono ben visibili alcuni aspetti che successivamente caratterizzeranno gli

istituti odierni della prevenzione penale, primo tra tutti, l’individuazione di un

preciso ambito della pericolosità sociale.

La “legge Pica”, recante: Procedura per la repressione del brigantaggio e dei

camorristi nelle provincie infette, era la prima legge speciale dello Stato Unitario,

che conferiva al Governo la facoltà di infliggere, previa approvazione di una Giunta

presieduta dal Prefetto e composta dal presidente del Tribunale, dal sostituto

procuratore del Re e da due consiglieri provinciali,5 la pena del domicilio coatto agli

oziosi, ai vagabondi, ai camorristi, ai manutengoli e alle persone sospette.6

Sia la pena prevista, che le categorie alle quali si applica verranno in parte riprese

dalla legge fondamentale in materia di prevenzione personale, la n. 1423/56.

È interessante notare, inoltre, come questo provvedimento del nuovo Stato italiano

non solo fosse l’antesignano dei moderni provvedimenti sulla prevenzione, ma anche

precursore dell’attuale reato associativo previsto dal nostro codice penale vigente.

La legge Pica aveva cosi introdotto, per la prima volta in una norma, la qualifica

generica di camorrista. “Si introduceva già, 142 anni fa, l’ipotesi di un reato-genere

(quello del camorrista), che sarà poi ripreso dal famoso articolo 416bis dell’attuale                                                             5 Art. 5 della legge 1409/1863, cosiddetta “Legge Pica” 6 In origine era individuato l’ambito proprio del vagabondaggio e dell’oziosità. Successivamente con l’introduzione della “Legge Pica”, l’applicazione della pena del domicilio coatto si applica anche a soggetti definiti “manutengoli e camorristi”. Cosi disponeva, infatti, l’art 5 legge 1409/1863: “Il Governo avrà inoltre facoltà di assegnare per un tempo non maggiore di un anno un domicilio coatto agli oziosi, a’ vagabondi, alle persone sospette, secondo la designazione del Codice penale, non che ai camorristi, e sospetti manutengoli dietro parere di Giunta composta del Prefetto, del Presidente del Tribunale, del Procuratore del Re, e di due Consiglieri Provinciali”. 

6  

codice penale vigente, che prevede pene per gli appartenenti ad associazioni mafiose

e camorristiche”.7

Non meno importante fu la considerazione che si ebbe del fenomeno del

“camorrismo” come “un potere parallelo e alternativo rispetto alla sovranità dello

Stato, sia sul terreno del monopolio della violenza e dell’ordine sociale, che sul piano

dell’amministrazione di essenziali funzioni statali: la tutela dell’ordine pubblico e

della convivenza civile, l’esazione dei tributi fiscali”.8

Con le successive leggi di pubblica sicurezza, emanate tra il 1865 e il 1871, in

particolare la legge 6 luglio 1871, n. 294 di modifica delle legge Pica, verranno

disciplinati, in modo più rigoroso, alcuni istituti come il domicilio coatto e

l’ammonizione.

2. Il Ventennio fascista

In un contesto, come quello fascista, emerge la figura del Prefetto Cesare Mori e la

sua esperienza siciliana.

Nonostante i sui metodi di lotta alla criminalità organizzata sono ancor oggi oggetto

di discussione, non manca chi li definisce appunto “mafiosi”, fu il primo, in tale

contestualità storica, a portare avanti un’azione di contrasto dura ed efficace tanto da

fargli meritare l’appellativo di “Prefetto di Ferro”.

Dunque, Mori, adotta, contro i mafiosi delle Madonie, una linea dura, quasi una sfida

a chi fosse più mafioso.

“Cardine di tutta la sua strategia – infatti – fu l’instaurazione di una competizione per

l’onore con mafiosi siciliani da svolgere in parte sul loro stesso terreno, in parte

fidando sulla superiorità militare e organizzativa dello Stato”.9

È il 20 ottobre 1925, quando il “Prefetto di Ferro” fa il suo ingresso a Palazzo dei

Normanni10 con pieni poteri e un decalogo che riassume il suo piano d’azione contro

la mafia.

                                                            7 In G. DI FIORE, La Camorra e le sue storie, UTET, 2006, p. 69 8 In F. BARBAGALLO, Storia della camorra, LATERZA, 2010, pp. 29 ss. 9 In P. ARLACCHI, La mafia imprenditrice, IL SAGGIATORE, 2007, p. 38 10 Attualmente sede dell’Assemblea regionale siciliana

7  

Tra gli obiettivi individuati da Mori vi è anche quello di “ripristinare il normale

sviluppo di tutte le sane attività produttive dell’isola, specie quella agricola,

costituendo nel rinnovato movimento dei legittimi interessi una delle maggiori

controspinte ad eventuali ritorni al passato”.11

Ma nel suo decalogo, si legge, c’è anche l’obiettivo di suscitare nella popolazione

locale quel sentimento di ribellione in modo da “creare per la malvivenza un

ambiente ostile e per la mafia una spinta espulsiva.”12

Mori, dunque, si convince dell’assoluta necessità, per sconfiggere il fenomeno

mafioso a quei tempi, di dover condurre un’azione di carattere sociale, da un lato, ma

soprattutto quella di carattere economico.

Non solo isolare il fenomeno dal punto di vista economico, favorendo le lecite

attività produttive, ma andando, anche, a colpire la mafia nei suoi interessi.

In effetti, quella di Mori, è certamente una guerra psicologica che egli intraprende in

quanto convinto delle radici «hobbesiane» del potere mafioso: “se i siciliani hanno

paura dei mafiosi – afferma Mori – li convincerò che io sono il mafioso più forte di

tutti” 13 dichiarò ai suoi collaboratori.

Nonostante questo presupposto di partenza, il suo intervento, contro i mafiosi delle

Madonie, risultò essere comunque incisivo, proprio perché caratterizzato dall’idea

che si dovessero andare a colpire gli interessi dei mafiosi.

L’assedio di Cangi fu dunque l’occasione, per il Prefetto Mori, di mostrarsi “più

mafioso dei mafiosi” ma con l’avallo della forza dello Stato; rappresentò anche

l’opportunità di scorgere i sintomi di un comportamento mafioso, che si sarebbe poi

consolidato nel tempo, caratterizzato dal prioritario obiettivo di difendere gli interessi

economici illeciti.

Così, dopo aver circondato e occupato militarmente il paese di Cangi, correva l’anno

1926, Mori diede a questi ultimi 12 ore di tempo per lasciare i loro nascondigli e

costituirsi.

L’azione di polizia non ottenne alcun successo di rilievo fino a che Mori non

cominciò a mettere in pratica il suo proposito di dimostrarsi il «più mafioso di tutti».

                                                            11 A. PETACCO, Il Prefetto di Ferro, MONDADORI, 1975, p. 92 12 Ivi p. 91 13 Ivi p. 119

8  

La sua prima trovata consiste nel far spargere la voce che gli ostaggi di Cangi stanno

subendo ogni sorta di maltrattamenti. Il trucco funziona solo in parte.

Con un decreto – successivamente – egli ordina il sequestro di tutti i beni

appartenenti ai banditi.

Il sequestro viene compiuto in pieno giorno con grande pubblicità in modo che la

cosa non sfugga a nessuno.14

Mori dunque intuisce un passaggio fondamentale, che ormai la “nuova mafia”

postbellica aveva compiuto, e cioè il suo sistema di valori aveva spostato l’ asse dal

concetto di onore a quello di ricchezza e anzi ci fu una sostanziale identificazione tra

onore e ricchezza.

Dunque l’onore, che contraddistingueva gli uomini e le donne di mafia, si otteneva

attraverso i possedimenti ed il successo economico.

Non più i maltrattamenti alle “donne dei banditi” facevano uscire allo scoperto i capi

delle cosche, ma bensì il colpo mortale ai loro interessi economici.

Gli eccellenti risultati del “Prefetto di Ferro” a nulla valsero, però, e furono cancellati

nel preciso momento in cui i gerarca fascisti cominciarono a comprendere che Mori

“faceva sul serio” e che non si sarebbe fermato all’ala militare dell’organizzazione

bensì sarebbe andato a colpire gli interessi economici e le collusioni dei referenti

politici della mafia militare.

Tant’è vero che, non solo il prefetto Mori fu “promosso” e mandato via dalla Sicilia,

ma certamente le sue intuizioni non furono accolte in un progetto organico di

legislazione antimafia.

Questa verità è in parte contestata da chi osserva che in ogni caso, al di là

dell’operato del “Prefetto di Ferro” si deve considerare la posizione “filo-proprietaria

di Mori. È vero, invece, che il regime non amava il consolidarsi di personalità in

periferia; tuttavia il prefetto rimase in carica per cinque anni, arco di tempo ben

superiore alla media del periodo.”15

Ad ogni modo si deve considerare, che nel periodo della legislazione fascista, la

materia della prevenzione personale era disciplinata dal testo unico delle leggi di

pubblica sicurezza approvato con r.d. 6 novembre 1926, n. 1848, che introduceva la

                                                            14 A. PETACCO, Il Prefetto di Ferro cit., p. 103-104 15 In S. LUPO, Storia della mafia, DONZELLI, 2004, p. 224 nota 42

9  

misura dell’ammonizione e il successivo T.U.L.P.S. (Testo Unico delle Leggi di

Pubblica Sicurezza) del 1931 che prevedeva la nuova misura del confino in luogo

della precedente ammonizione.

In questi provvedimenti appariva chiaramente l’intento del regime fascista, da un lato

di estendere, in via ordinaria, l’applicazione delle misure di prevenzione anche a

soggetti che in qualche modo si ponessero in contrasto con gli ordinamenti politici

dello Stato, dall’altro di amministrativizzare il procedimento per l’applicazione delle

misure personali, cosi da sottrarre lo stesso a quelle fondamentali garanzie che solo

in sede giurisdizionale potevano e possono essere effettivamente salvaguardate.

In merito al primo caposaldo della legislazione fascista, va sottolineato

l’introduzione del concetto di “pericolosità politica” che permetteva dunque di

ricomprendere, nelle categorie di soggetti destinatari delle misure di prevenzione

personale, oltre che gli oziosi e i vagabondi abituali validi al lavoro e non provvisti di

mezzi di sussistenza (o sospettati di vivere abitualmente con i proventi ottenuti dalla

commissione di delitti), anche soggetti definiti, dall’opinione pubblica, come

pericolosi socialmente e pericolosi per gli ordinamenti politici dello Stato.

O soggetti diffamati, coloro cioè che sono definiti dall’opinione pubblica come

colpevoli di determinati reati anche quando, nell’ambito del procedimento penale,

siano stati assolti da una sentenza di proscioglimento secondo la formula della

insufficienza di prove.16

Inoltre, introducendo la misura del confino si dilatava oltremodo la definizione delle

categorie assoggettabili a tale misura fino a colpire qualunque attività od opinione

politica avversa al regime.

Il secondo cardine, su cui si imperniava la prevenzione fascista, era quella

dell’amministrativizzazione delle procedure di applicazione al fine di garantire un

migliore controllo dello strumento preventivo e indirizzarlo verso ben determinati

fini politici.

Di fatti, cadeva la competenza del presidente del tribunale di irrogare la misura

dell’ammonizione e subentrava quella di una Commissione Provinciale17.

                                                            16 Regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, art. 164 in Supplemento alla Gazz. Uff., 26 giugno, n. 146 17 L’applicazione della misura del confino era riservata alla discrezionalità della Commissione Provinciale, composta dal Prefetto che la convocava e la presiedeva, dal Procuratore del Re, dal  

10  

Per quanto concerne la prevenzione di carattere patrimoniale, anche di questa il

regime fascista si servì per combattere i dissidenti politici.

Successivamente con l’approvazione del r.d. 18 giugno 1931, n.773 recante:

Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, si introduceva la

confisca dei beni sociali delle associazioni, enti o istituti che avessero svolto attività

contraria ai dogmi dell’ideologia fascista.18

Dunque ne consegue che la prevenzione è ancora un tema fortemente legato ad un

problema di “ordine pubblico”, tra l’altro, nel periodo in esame, nozione estesa anche

ad aspetti politico-ideologici che, andando per loro natura in senso inverso

all’ideologia fascista, avrebbero di per se denotato problemi di “ordine pubblico”.

In tale contesto, l’unico risultato da raggiungere è esclusivamente quello di

ripristinare lo status quo precedente ad eventi che avessero sconvolto “l’ordinato

vivere civile” senza garantire effettivi interventi preventivi volti a testimoniare,

anche, una maggiore consapevolezza dello Stato, relativamente all’origine e alle

cause di problemi sociali come quelli di connotazione mafiosa.

                                                                                                                                                                         Questore, dal Comandante Provinciale dell’Arma dei Carabinieri e da un Ufficiale Superiore della Milizia Fascista (artt. 186 e 168). La proposta del confino veniva formulata dal Questore competente per territorio, sulla base delle risultanze di polizia. 18 Così disponeva l’art. 210 del r.d. 773/1931successivamente dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte Costituzionale con sentenza 26 giugno 1967, n. 114: “1) Salvo quanto è disposto nell’articolo precedente, il prefetto può disporre con decreto, lo scioglimento delle associazioni, enti o istituti costituiti od operanti nel regno che svolgono una attività contraria agli ordinamenti politici costituiti nello Stato. 2) Nel decreto può essere ordinata la confisca dei beni sociali. 3) Contro il provvedimento del Prefetto si può ricorrere al Ministro dell’interno. 4) Contro il provvedimento del Ministro non è ammesso ricorso nemmeno per motivi di illegittimità.

11  

3. L’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana

L’esame delle norme della Costituzione, entrate in vigore il 1 gennaio 1948, quelle

che durante l’esperienza applicativa delle leggi della prevenzione antimafia sono

state più volte oggetto di giudizio d’innanzi alla Corte Costituzionale, è funzionale a

individuare gli estremi costituzionale degli istituti giuridici del sequestro e della

confisca antimafia.

Molti sono stati i dubbi di costituzionalità sollevati con riferimento ad alcuni

fondamentali principi della Carta costituzionale in relazione alle misure di

prevenzione patrimoniale del sequestro antimafia e della conseguente misura ablativa

definitiva della confisca, dai principi previsti dall’art. 27 della Costituzione, al

principio della libertà dell’iniziativa economica privata, previsto dall’art. 41 della

Costituzione, al principio della proprietà privata ex art. 42 Cost.

L’analisi, dunque, delle norme costituzionali ha lo specifico obiettivo di sottolineare

la compatibilità costituzionale di tali misure con i parametri costituzionale richiamati.

Da qui il bisogno di analizzare la copiosa giurisprudenza costituzionale che,

puntualmente, ha contribuito a diramare dubbi di costituzionalità sia nell’ambito

della prevenzione personale che in quello della prevenzione patrimoniale.

3.1 Il principio della responsabilità penale personale

Decisivo è stato il contributo della giurisprudenza della Corte Costituzionale

nell’affermare la piena costituzionalità delle misure di prevenzione rispetto al dettato

dell’art. 27 della Costituzione.

Tale norma, sancisce che la responsabilità penale è personale. Non solo.

L’art. 27 comma 1 della Costituzione, infatti, va oltre l’affermazione della penale

responsabilità personale.

Un concetto che lega personalità del reato e condizione psicologica di chi lo

commette.

E dunque “l’assunto che, nel sancire il carattere “personale” della responsabilità

penale, i costituenti intendessero porre, quanto meno, l’esigenza di un legame

psicologico – e non meramente “causale” – tra fatto e autore, risulta confermato,

quando si consideri che l’ordinamento conosce numerose ipotesi in cui, pur non

12  

essendo il fatto realizzato “di mano propria” da un soggetto […] esso gli viene

attribuito, appunto in base all’esistenza di un legame di ordine psicologico, che lo

renda proprio del soggetto”.19

Su tale profilo, indipendentemente dall’analisi della compatibilità costituzionale delle

misure di prevenzione antimafia, la Consulta si era già espressa specificando il senso

dell’art. 27 Cost.

Dapprima indicando un’esigenza di chiarezza che l’ordinamento deve garantire ai

consociati.

Ed ecco perché la Corte costituzionale specifica che “per precisare ancor meglio

l'indispensabilità della colpevolezza quale attuazione, nel sistema ordinario, delle

direttive contenute nel sistema costituzionale vale ricordare non solo che tal sistema

pone al vertice della scala dei valori la persona umana (che non può, dunque,

neppure a fini di prevenzione generale, essere strumentalizzata) ma anche che lo

stesso sistema, allo scopo d'attuare compiutamente la funzione di garanzia assolta dal

principio di legalità, ritiene indispensabile fondare la responsabilità penale su

<congrui> elementi subiettivi.

La strutturale <ambiguità> della tecnica penalistica conduce il diritto penale ad

essere insieme titolo idoneo d'intervento contro la criminalità e garanzia dei c.d.

destinatari della legge penale. Nelle prescrizioni tassative del codice il soggetto deve

poter trovare, in ogni momento, cosa gli é lecito e cosa gli é vietato: ed a questo fine

sono necessarie leggi precise, chiare, contenenti riconoscibili direttive di

comportamento.il principio di colpevolezza e, pertanto, indispensabile, appunto

anche per garantire al privato la certezza di libere scelte d'azione: per

garantirgli, cioè, che sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui

controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze

penalmente vietate”.20

Rispetto a tale profilo sembra difficile non ammettere come l’applicazione delle

misure di prevenzione nei confronti di preposti che non siano stati, come previsto

dalla legislazione di prevenzione, indiziati di appartenere ad associazioni mafiose,

ma che risultino essere compartecipi di iniziative criminose, in materia di

                                                            19 C. FIORE, Diritto Penale. Parte Generale, volume secondo, UTET, 2003, p. 376 20 Corte costituzionale, 24 marzo 1988, n. 364

13  

intestazione fittizia di beni, allo specifico scopo di eludere la normativa vigente in

tema di misure di prevenzione antimafia, sia costituzionalmente rispettosa dell’art.

27 Cost.

Dunque l’azione di chi volontariamente “presta” il proprio nome al fine di eludere la

normativa antimafia e, quindi, agevolare l’attività criminosa per trarre profitti o

vantaggi ingiusti, per se o per altri, non può non essere classificata come un’azione

penalmente rilevante e perfettamente addebitabile al soggetto che la compie.

Non a caso, infatti, i giudici costituzionali hanno ritenuto non fondata la questione di

legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’Appello di Palermo con riferimento

all’applicazione di misure ablatorie, quali la misura di prevenzione della confisca

antimafia, nei confronti di soggetti, che come precisa la Corte, appaiono

“sostanzialmente incolpevoli”.21

A tale proposito, chiaramente, si è espressa la Sezione Misure di prevenzione del

Tribunale di Napoli.

In un decreto di confisca la Corte territoriale analizza il fondamento giuridico della

motivazione alla base della quale è possibile desumere la cosiddetta intestazione

fittizia di beni che sono sostanzialmente nella disponibilità del prevenuto.

La Corte territoriale, infatti, stabilisce che “con riferimento agli elementi da cui

desumere tale disponibilità, la giurisprudenza di legittimità ha fornito alcune

indicazioni affermando che, nel caso di beni intestati formalmente a terzi, della

                                                            21 Corte costituzionale, 20 novembre 1995, n. 487 nel cui Considerato in diritto si legge: Una misura, quindi, destinata a svolgere nel sistema una funzione meramente cautelare e che si radica su un presupposto altrettanto specifico, quale è quello del carattere per così dire ausiliario che una certa attività economica si ritiene presenti rispetto alla realizzazione degli interessi mafiosi. In una simile prospettiva, ci si avvede allora agevolmente di come i titolari di quelle attività non possano affatto ritenersi "terzi" rispetto alla realizzazione di quegli interessi, considerato che è proprio attraverso la libera gestione dei loro beni che viene ineluttabilmente a realizzarsi quel circuito e commistione di posizioni dominanti e rendite che contribuisce a rafforzare la presenza, anche economica, delle cosche sul territorio. Alla scelta, dunque, di svolgere una attività che presenta le connotazioni agevolative di cui innanzi si è detto, logicamente si sovrappone la consapevolezza delle conseguenze che da ciò possono scaturire, consentendo pertanto di escludere quella situazione soggettiva di "sostanziale incolpevolezza" sulla quale il giudice a quo si è attestato per dedurre le prospettate censure. Ove, quindi, all'esito della temporanea sospensione dall'amministrazione dei beni, emergano elementi atti a far ritenere che quei beni siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, e si appalesi quindi per questa via ormai realizzata una obiettiva commistione di interessi tra attività di impresa e attività mafiosa, ben si spiega, allora, la funzione e la legittimità del provvedimento ablatorio, giacchè gli effetti che ne scaturiscono si riflettono sui beni di un soggetto certamente non estraneo nel quadro della complessiva gestione del patrimonio mafioso, che a sua volta rappresenta, in ultima analisi, l'obiettivo finale che la confisca mira a comprimere.

14  

disponibilità può essere data prova anche mediante indizi, purché gravi, precisi e

concordanti; devono essere forniti elementi fattuali idonei a costituire la prova

indiretta dell’assunta riferibilità del bene al proposto. Va, altresì, ricordato che la

Suprema Corte, proprio nell’affermare il suddetto principio, ha rimarcato la

distinzione operata dal legislatore tra terzi intestatari estranei e terzi che abbiano

vincoli latu sensu di parentela o di convivenza con il proposto, evidenziando che non

è senza significato la distinzione che fa il comma 3 dell’art. 2bis, l. 575/65, fra

persone che hanno vincoli con il proposto, sicché è più accentuato il pericolo della

fittizia intestazione e più probabile l’effettiva disponibilità da parte del medesimo, e

persone diverse dal coniuge, dai figli e dai conviventi infraquinquennali.”22

In altro provvedimento, la Corte napoletana affronta nuovamente il problema della

intestazione fittizia dei beni a terzi e della cosiddetta disponibilità indiretta dei beni

del proposto.

Secondo il Tribunale di Napoli, la cosiddetta disponibilità indiretta “sussiste

nell’ipotesi in cui, al di là della formale intestazione del bene ad un terzo diverso

dalla persona del proposto, quest’ultimo ne sia l’effettivo fruitore, potendo

indisturbatamente determinarne la destinazione o l’impiego. Con l’uso dell’avverbio

“indirettamente”, infatti, il legislatore ha inteso chiaramente prevenire ogni possibile

elusione della norma sino a ricomprendere beni che, seppur fittiziamente intestati a

terzi, facciano parte del patrimonio del proposto o comunque siano da lui utilizzati.

La predetta disponibilità non deve, dunque, concretizzarsi in istituti giuridici,

essendo sufficiente che l’indiziato possa di fatto poter utilizzare i beni, anche se

appartenenti ad altri, come se fosse il vero proprietario (non a caso in dottrina si

ricorre al concetto della disponibilità uti dominus) con l’ulteriore precisazione che,

secondo alcune pronunce della S.C., nei confronti del coniuge, dei figli e dei

conviventi, siffatta disposizione è presunta senza necessità di specifici accertamenti,

dal momento che l’art. 2bis della legge n. 575/1965 considera separatamente dette

                                                            22 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 23 giugno 2003, dep. 27 giugno 2005, Reg. Gen. M.P. n. 136/99 + 44/05 + 105/05, Reg. Dec. n. 184/05 “A”, Pres. Cozzi, Rel. La Posta

15  

persone rispetto a tutti coloro per i quali, invece, devono risultare gli elementi di

prova circa le disponibilità concrete da parte dell’indiziato”.23

3.2 Il principio della presunzione di non colpevolezza

Rispetto alla presunzione di non colpevolezza, sancita dall’art. 27, comma 2 Cost., si

accentuano i toni di un’incompatibilità costituzionale delle misure di prevenzione

patrimoniali e del correlativo procedimento di applicazione.

Al riguardo, non mancano indirizzi dottrinari che accusano l’intero sistema della

prevenzione antimafia, perché in tale sistema sarebbe insita la violazione dei

contenuti di garanzia della presunzione di non colpevolezza.

La critica parte dalla considerazione che “sulla base di presunzioni si possa disporre

il sequestro, prima, e poi la confisca dei beni. Le presunzioni sono l’esatto contrario

del principio di non colpevolezza ed esse non possono avere cittadinanza nemmeno

nel procedimento di prevenzione”.24

Sullo specifico problema interviene altra parte della dottrina che pone in luce la

relazione tra presunzione della illecita provenienza dei beni, oggetto del

procedimento di prevenzione patrimoniale, presupposto di applicazione delle misure

stesse, e principio della presunzione d’innocenza costituzionalmente tutelato.

Secondo parte di questa dottrina, allora, non c’è un dubbio di costituzionalità.

                                                            23 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 14 dicembre 2010, Reg. Gen. M.P. n. 112/09, Reg. Dec. n. 302/2010, Pres. Del Balzo, Rel. Mazzeo In tale provvedimento la Corte territoriale illustra dettagliatamente quali sono gli indizi per i quali ritiene di poter sostenere la cosiddetta disponibilità indiretta del proposto a fronte di beni di ingente valore economico intestati formalmente a coloro che hanno, con il proposto stesso, vincoli latu sensu di parentela. La Corte napoletana, infatti, afferma, nell’ambito del provvedimento in esame, che in ordine ai beni sottoposti al vaglio giudiziario, questi debbano essere ritenuti solo formalmente intestati al fratello del proposto: “quest’ultimo – scrive la Corte – come già detto, così come il padre (nonché la defunta madre per il periodo di riferimento) e l’odierno proposto hanno presentato dichiarazioni dei redditi che, per la loro assoluta inconsistenza, risultano inidonee già al semplice soddisfacimento delle esigenze di ordinaria amministrazione del nucleo familiare: a fronte di ciò […] non solo ha acquistato […] un appezzamento di terreno di mq. 4195 in un’annualità in cui risulta dichiarato un reddito imponibile di soli 834,59 […]. Ad ulteriore conforto delle tesi prospettate vi è la circostanza che non risulta che da parte del sottoposto o di terzi familiari siano stati operati disinvestimenti di sorta tali da giustificare la disponibilità dei capitali innanzi specificati […]. Concludendo, può ragionevolmente ritenersi, in assenza da parte del proposto e dei suoi familiari di redditi che possano apparentemente giustificare investimenti immobiliari ed imprenditoriali di tali proporzioni, che i capitali impiegati derivano dagli illeciti profitti del proposto, reale detentore del potere dispositivo”. 24 L. FILIPPI, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, CEDAM, 2002, pp. 66 ss.

16  

Non ci sarebbero insanabili contrasti di coerenza costituzionale se si considera che

“le misure in esame sono fondate sulla presunzione dell’origine illecita del

patrimonio giustificata dalla qualità di indiziato di mafiosità e dalla sproporzione, ma

non si ritiene tale presunzione in contrasto con il principio di colpevolezza e la

presunzione di innocenza, perché questi principi non si applicherebbero alle misure

preventive (tale presunzione, invece, è ritenuta in contrasto con i principi

costituzionali in questione, laddove si vuole fondare su di essa una condanna

penale)”.25

Le stesse argomentazioni sono riprese dalla Corte costituzionale quando afferma, in

una sua sentenza, pronunciata in seguito alla questione sollevata dal Tribunale di

Milano che ravvisava la sostanziale incostituzionalità dell’art.1 della legge

1423/1956 per violazione dell’art. 27 della Costituzione, che debba ritenersi

“infondata la questione di legittimità costituzionale in riferimento all'art. 27 della

Costituzione. Ed infatti, il richiamo all'art. 27 non é pertinente alla detta questione,

perché tale articolo, nelle disposizioni a cui le ordinanze – del Tribunale ricorrente

[NdA.] – si riferiscono, riguarda la responsabilità penale e importa la presunzione di

non colpevolezza dell'imputato fino alla condanna, mentre le misure di prevenzione,

pur implicando restrizioni della libertà personale, non sono connesse a responsabilità

penali del soggetto, né si fondano su la colpevolezza, che é elemento proprio del

reato”.26

Vero è che le norme oggetto del giudizio di costituzionalità riguardano la

prevenzione personale ma in considerazione del rapporto di accessorietà tra misure di

prevenzione personali e quelle patrimoniali e poi successivamente, con le riforme del

2009, il rapporto a livello valutativo tra le misure stesse, risulta chiaro che la

legittimazione costituzionale delle prime incide pesantemente su quella delle

seconde.

Va inoltre sottolineato che l’ordinamento giuridico non è certamente estraneo a

meccanismi che possano essere definiti come eccezionalmente derogativi rispetto ai

principi fondamentali di cui si tratta.

                                                            25 F. CASSANO, (a cura di), Le misure di prevenzione patrimoniali dopo il “pacchetto sicurezza”, NELDIRITTO, 2009, p. 63 26 Corte costituzionale 23 marzo 1964, n. 23

17  

Un confronto, invero, è possibile con la categorie delle misure cautelari.

Queste si applicano sulla considerazione di condizioni generali, quali “i gravi indizi

di colpevolezza, senza i quali nessuna persona può essere sottoposta a misura

cautelare, e la mancanza di una causa di giustificazione, di non punibilità, di

estinzione del reato e della pena che si ritiene possa essere applicata”.27

Inoltre è necessaria l’analisi delle specifiche esigenze cautelari.

Allorquando il giudice per le indagini preliminari (se ovviamente la fase presa in

considerazione è quella delle indagini preliminari altrimenti è competente il giudice

che procede) in virtù della richiesta del pubblico ministero, debba decidere

sull’applicazione della misura cautelare, che, dunque, rappresenta un’anticipazione

della restrizione di diritti fondamentali, prima che il soggetto sottoposto alle indagini

sia riconosciuto effettivamente colpevole, deve valutare, appunto la sussistenza delle

specifiche esigenze cautelari espressamente previste dalla legge, come ad esempio

quella della pericolosità sociale della persona alla quale si applica la misura.

A ben vedere, dunque, questo ragionamento non si discosta poi tanto da quanto la

legge espressamente prevede per l’applicazione delle misure di prevenzione.

Anche queste, infatti, sono soggette a specifiche condizioni di applicabilità che

devono essere valutate dal giudice allorquando sia avanzata la richiesta dall’organo

proponente.

Dunque le specifiche esigenze costituzionali vengono sacrificate allorché sia

necessario applicare una misura cautelare personale, come la custodia in carcere,

ovvero una misura cautelare reale, per la quale, tra l’altro, “al massimo rigore

previsto per le cautele personali fa da controaltare un rigore meno significativo per

quelle reali”.28

Nonostante questo, “la funzione sostanziale della custodia cautelare riceve alla fine il

sugello legislativo” specialmente in riferimento alla “finalità incentrata sulle esigenze

di tutela della collettività a fronte della pericolosità dell’imputato desunta dalla sua

personalità e dalle circostanze del fatto”.29

                                                            27 G. RICCIO – G. SPANGHER, La procedura penale cit., p. 227 28 Ivi, p. 279 29 G. BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione, Rapporti civili (artt. 24-26), ZANICHELLI, 1991, pp. 199 ss.

18  

Evidente, allora, è da ritenersi la stessa natura argomentativa per quel che concerne

le specifiche finalità a cui mirano le misure di prevenzione personali e patrimoniali.

3.3 Il principio di libertà dell’iniziativa economica privata e il diritto alla proprietà

privata

Come risulta evidente, le misure di prevenzione patrimoniali incidono su due aspetti

costituzionalmente garantiti che concernono l’iniziativa economia privata, ex art. 41

Cost., e il diritto alla proprietà privata, tutelato dall’art. 42 Cost.

Entrambe le norme sono finalizzate a offrire, ai consociati, tutele effettive che

concernono le scelte economiche di ciascun cittadino.

Sebbene, quindi, tali scelte non possono essere sindacate dallo Stato, in quanto

rientrano nell’ambito di quelle libertà che la Costituzione garantisce a tutti i cittadini,

sembra ovvio che gli artt. 41 e 42 Cost., però, prevedessero limiti invalicabili a difesa

di quella stessa libertà che, in via di principio, viene riconosciuta ai cittadini; e cioè

quelli della utilità e funzione sociale dei beni giuridici in esame.

Come a dire, se non è lo Stato, inteso come “complesso di autorità, cui l’ordinamento

attribuisce formalmente il potere di emanare e di applicare le norme ed i comandi,

mediante i quali lo Stato fa valere la sua supremazia”30, ad influenzare le scelte in

campo economico, non potrà certamente influenzarle la supremazia di qualche altro

potere che non può non essere definito occulto, proprio come accade per quanto

riguarda le organizzazioni criminali di stampo mafioso.

Ed invero l’art. 41 della Costituzione sancisce espressamente, al comma 1, che

“l’iniziativa economica privata è libera”; al comma 2 specifica che “non può

svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo di arrecare danno alla sicurezza,

alla libertà, alla dignità umana”.

Se questi, dunque, sono i parametri costituzionali che vengono in considerazione,

appare evidente come l’applicazione di una misura di prevenzione patrimoniale a

soggetti che, essendo ritenuti indiziati di appartenere ad associazioni mafiose,

abbiano anche la disponibilità di ingenti ricchezze, nonché la proprietà di attività

                                                            30 T. MARTINES, Diritto Costituzionale, GIUFFRÈ, 2003, p. 100 ss.

19  

imprenditoriali, si incastri perfettamente nel quadro costituzionale in funzione di

tutela di quei beni giuridici richiamati espressamente dalla Carta Costituzionale.

Afferma la dottrina, che “è facile osservare come la gestione mafiosa di attività

imprenditoriali sconvolga le condizioni che assicurano la libertà di mercato e di

iniziativa economica e la funzione sociale della proprietà privata, si da violare gli

artt. 41 e 42 della Costituzione.

In verità – prosegue questa parte della dottrina – sono gli aspetti imprenditoriali che

conferiscono al fenomeno mafioso quella dimensione nazionale e internazionale che

gli viene ormai universalmente riconosciuta dal momento che la mafia, nelle sue

manifestazioni più attuali, si insinua insidiosamente e surrettiziamente nel tessuto

economico dei Paesi in cui opera, ponendosi al confine con la criminalità economica

e finanziaria e superando così ogni schema regionale e ogni delimitazione

territoriale”.31

Anche gli accertamenti condotti dai giudici di merito, hanno confermato come tali

infiltrazioni provochi “turbolenze” influenzando direttamente le scelte

imprenditoriali dei produttori non inseriti nei circuiti dell’economia criminale e

contro i quali fare fronte pena la fuoriuscita dal mercato.32

Su tali argomenti si è espressa anche la Corte.

In una prima ordinanza, risalente al 1987, la Consulta non fa altro che dichiarare la

inammissibilità della questione sollevata, in riferimento alla violazione dell’art. 41

                                                            31 F. CASSANO, Misure di prevenzione patrimoniale e amministrazione dei beni. Questioni e materiali di dottrina e giurisprudenza, Teoria e pratica del diritto, Diritto e procedura penale, GIUFFRÈ, 1998, pp. 15 ss. 32 Interessante quanto attestano i giudici di merito in relazione alle confische che colpirono, alla fine degli anni ’90, moltissime imprese produttrici di calcestruzzo molto attive nella ricostruzione delle zone campane devastate dal terremoto, in Irpinia, del 23 novembre 1980. Scrivono i giudici della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Napoli che la “So.Ge.Me. Bitum Beton S.p.a.”, (impresa del calcestruzzo nata direttamente dall’iniziativa “imprenditoriale” degli esponenti del clan Nuvoletta, operante tra Quarto di Napoli e Marano di Napoli, N.d.R.) otteneva importantissime commesse […] e la cosa – scrivono ancora i giudici della prevenzione – non poteva non allarmare, non già per valutazioni di ordine etico, quanto piuttosto per i più prosaici risvolti di ordine economico, la Calcestruzzi S.p.a., la Cal.co.bit. S.r.l. e la Maione calcestruzzi S.p.a., che erano prima dell’ingresso sul mercato della So.Ge.Me. Bitum Beton S.p.a., le società titolari delle tre maggiori aziende produttrici di calcestruzzo operanti nel napoletano e che poste, di fronte alla nuova realtà, per neutralizzare le turbolenze indotte nel mercato dai metodi «spregiudicati» e dalla «violenta» ascesa della società concorrente, non trovarono di meglio che consorziarsi ad essa, costituendo nell’ottobre 1982 il Consorzio dei produttori di calcestruzzo preconfezionato di Napoli […]”. Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 23 settembre 1992, Proc. n. 19/89 + 141/90 + 198/90 + 152/91 M.P., Reg. decreti 305/1992, Pres. Peluso, Est. Celentano.

20  

Cost., da parte della norma contenuta nell’art.10 della legge 575/1965, per quel

concerne la mancata previsione, secondo il giudice a quo, di un termine di durata che

possa mettere in condizioni, l’autorità giudiziaria, di riesaminare l’effettività della

situazione di pericolosità.

In tale ordinanza si legge, infatti, che “alla Corte costituzionale viene

sostanzialmente richiesto di operare un'integrazione del sistema normativo, con la

indicazione di limiti temporali degli effetti di cui si tratta, e di attribuzione di poteri

al giudice penale; una integrazione cioè che implica scelte discrezionali fra più

soluzioni possibili, il che compete in via esclusiva al legislatore”.33

L’anno successivo la Consulta pronuncia una nuova ordinanza nella quale la norma

denunciata, in riferimento all’art. 41 della Cost., è, tra le altre, ancora l’art. 10 della

legge 575/1965.

In tale provvedimento la Corte affronta la questione affermando, questa volta, la

sostanziale compatibilità della logica di prevenzione, in riferimento a misure

ablatorie di carattere patrimoniale, con il dettato costituzionale del principio di libertà

di iniziativa economica.

La Corte, infatti, afferma che “l'estensione delle misure antimafia ad alcune delle

categorie di persone socialmente pericolose previste nella legge n. 575 del 1965,

nella parte in cui ciò comporterebbe l'applicazione a queste ultime di sanzioni

amministrative accessorie, quali la decadenza da provvedimenti lato sensu ampliativi

della loro sfera di iniziativa economica, non appare irragionevole, essendo dettata

dalla medesima ratio di impedire, anche in relazione alle predette fattispecie,

l'eventuale ingresso nel mercato del denaro ricavato dall'esercizio di attività

delittuose o di traffici illeciti”.34

Stesso ragionamento opera la corte in una successiva ordinanza nella quale, questa

volta, ad essere denunciate sono le norme contenute negli artt. 10 ter e 10 quater

della legge 575/1965.

Anche in quest’occasione, la Corte, afferma la piena costituzionalità delle misure

patrimoniali.

                                                            33 Corte costituzionale (Ord.), 3 dicembre 1987, n. 450 34 Corte costituzionale (Ord.), 16 giugno 1988, n. 675

21  

Afferma che “la norma appare costituzionalmente legittima, in quanto é di tutta

evidenza che essa tende a colpire, non solo il prevenuto, ma anche quei soggetti la

lesione dei cui interessi economici è giustificata dal fatto che, per aver essi

acconsentito a svolgere attività economiche in comune con la persona che, a causa

dell'appartenenza ad associazioni criminali e sottoposta a misure di prevenzione, e

presumibile che siano a conoscenza di tali circostanze, dato il contesto sociale in cui

agiscono”.35

Non solo, ma i giudici costituzionali aggiungono che “l'ordinanza di rimessione, nel

formulare tale censura, non tiene conto del motivo ispiratore della norma denunciata,

la quale, volendo impedire agli appartenenti alla criminalità organizzata di gestire,

seppure indirettamente, attività economiche, tende a sminuire il loro ruolo eversivo

nella società e ciò proprio a tutela dei diritti fondamentali indicati nel secondo

comma dell'art. 41 della Costituzione (pur citato nella stessa ordinanza di rinvio) e in

conformità al criterio dell'utilità sociale, cui non corrisponde certo lo svolgimento di

iniziative economiche presuntivamente collegate ad attività criminali”.36

In una sentenza del 1992 la Consulta non fa altro che ribadire tali argomentazioni.

La questione sollevata, questa volta, è in riferimento alla fattispecie incriminatrice

prevista dall’art. 708 c.p. (possesso ingiustificato di valori).

Rispetto a tale norma, sottolinea il giudice a quo, non sarebbe concepibile una

norma, come l’art.708 c.p., che sanzionasse il possesso di denaro o altre ricchezze di

cui non si riesca a dimostrare l’illegittima provenienza, poiché questo possesso

sarebbe costituzionalmente garantito dall’art. 42 della Cost.

Su tali censure, dapprima, l’Avvocatura Generale dello Stato sottolinea come la

proprietà, e dunque il possesso, in quanto situazioni giuridicamente protette, non

sono di per se stesse situazioni in grado di vietare la possibilità, per lo Stato, di

sanzionare i modo illegittimi della loro acquisizione.

La Corte, inoltre, sottolinea come tale profilo sia intimamente collegato alla

prevenzione antimafia ritenendo che, al di là della correttezza delle argomentazioni

svolte dal giudice a quo, “non può non sottolinearne anche l'attualità delle molteplici

                                                            35 Corte costituzionale (Ord.), 9 marzo 1989, n. 105 36 Ibidem

22  

e mutevoli forme con le quali «lo svolgimento di iniziative economiche» viene a

collegarsi «ad attività criminali».

In questa medesima linea ispiratrice la Corte ha dichiarato la manifesta infondatezza

delle questioni di legittimità costituzionali di alcune disposizioni relative alle misure

di prevenzione, in quanto poste a salvaguardia della genuinità dei traffici economici e

della corretta osservanza delle regole del mercato.

É stato rilevato infatti, che «la ratio» di queste disposizioni consiste «nell'impedire,

anche in relazione alle predette fattispecie, l'eventuale ingresso nel mercato del

denaro ricavato dall'esercizio di attività delittuose o di traffici illeciti»”.37

Con tale pronuncia la Corte sottolinea la legittimità costituzionale della norma

dell’art.708 c.p. in riferimento all’art. 42 Cost. richiamando, così, quella delle misure

di prevenzione patrimoniali antimafia, utilizzate come parametro giuridico di

raffronto.

Dall’ottica visuale della dottrina tale problema di costituzionalità appariva ormai

superato. Autorevole dottrina, infatti, ha specificato come le misure di prevenzione

patrimoniale, al contrario, ritrovino ampia copertura costituzionale sia con

riferimento all’art. 41 Cost. che all’art. 42 Cost.

Non solo, la dottrina, già allora, riteneva che tali problemi di costituzionalità fossero

stati superati, “sicché gli eventuali persistenti dubbi di legittimità conseguono, oggi,

solo al vincolo di stretta dipendenza tra applicabilità della misura patrimoniale e

applicabilità di quella personale, posto che le obiezioni di legittimità che

tradizionalmente involgono queste ultime finiscono inevitabilmente col riverberarsi

sulle prime.”38

Anche tale dubbio è stato abbondantemente dissipato in seguito all’introduzione, nel

nostro ordinamento giuridico, dei c.d. “pacchetti sicurezza” del 2009 che hanno,

appunto, introdotto il principio di applicazione disgiunta delle misure patrimoniali da

quelle personali.

Quanto all’art. 42 della Cost. (sul diritto alla proprietà privata), è evidente, dunque,

che diritti di rango costituzionale richiedano un elevato livello di tutela. È, però,

anche vero che la stessa norma costituzionale prevede il limite della funzione sociale

                                                            37 Corte costituzionale, 19 novembre 1992, n. 464 38 F. CASSANO, Misure di prevenzione patrimoniale cit., p. 13 

23  

del diritto di proprietà. Corollario di tale impostazione è chiaramente l’atteggiamento

di un ordinamento giuridico che preveda delle deroghe al diritto stesso quando

questo si ponga in contrasto con la sua funzione sociale prevista dalla Costituzione.

Ecco perché non si può dubitare della costituzionalità delle misure di prevenzione

patrimoniale anche sotto questo specifico profilo.

Anche in questo caso è intervenuta la giurisprudenza della Consulta grazie ad

un’ordinanza di remissione del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere.

In tale ordinanza il Tribunale, infatti, solleva la questione di legittimità costituzionale

dell’art. 2ter della legge 575/1956 nella parte in cui non prevede che le misure

ablative patrimoniali possano essere applicate anche nei confronti di beni la cui

titolarità riguardi soggetti defunti (problema, anche questo, superato con le riforme

del 2008 – 2009).

Il ragionamento del Tribunale si pone in un’ottica di pieno rispetto delle esigenze

costituzionali previste dall’art. 42 Cost. secondo cui “la garanzia della proprietà in

tanto varrebbe in quanto possa assolvere la propria funzione sociale che consiste

nella sua capacità di favorire e incrementare lo sviluppo di altri diritti

costituzionalmente protetti. Ma se ciò non avviene, e se anzi si verifica la "

mortificazione " di quella funzione, il diritto di proprietà diviene antisociale e ne

viene meno la ragione di tutela, una valutazione, questa, rispetto alla quale risulta

ininfluente la circostanza della esistenza in vita dell'interessato, proprio perchè si

tratta di una antisocialità che segue il bene”.39

La Corte dichiarerà, poi, la inammissibilità della questione sollevata in quanto

l’ordinanza di remissione del giudice a quo proponeva una vera e propria scelta di

politica criminale che non rientra nelle competenze della Corte Costituzionale.

                                                            39 Corte costituzionale, 8 ottobre 1996, n. 335

24  

4. La prevenzione personale. Dalla “persona pericolosa” agli “indiziati di

appartenere ad associazioni mafiose”

È dal secondo dopoguerra in poi che il nostro ordinamento giuridico vede la

progressiva formazione di una legislazione antimafia anche se piuttosto disorganica.

Tale disorganicità è dovuta al fatto che, nonostante la storia ormai secolare delle

organizzazioni criminali, la normativa antimafia è il risultato di una politica

legislativa “emergenziale”.

Le disposizioni di legge in materia sono il frutto, dunque, di un’azione parlamentare

caratterizzata dall’urgenza e dalla necessità dello Stato, di rispondere alle stragi di

mafia che hanno caratterizzato una stagione particolarmente triste della storia del

nostro Paese.

Vengono quindi predisposti una serie di provvedimenti che cominciano a delineare i

caratteri proprio della criminalità di tipo mafioso, dalla definizione delle persone

pericolose, fino alla codificazione dell’associazione di tipo mafioso e l’introduzione

delle misure di prevenzione personali e patrimoniali.

Sono sopratutto quest’ultime a rappresentare il vero punto di svolta di tutta la

normativa antimafia.

Le misure di prevenzione patrimoniali, rappresentano infatti la capacità dello Stato di

colpire le ingenti ricchezze che le organizzazioni criminali accumulano illecitamente,

il vero cuore pulsante della criminalità mafiosa.

L’iter che giunge a tale risultato parte dall’introduzione, nel nostro ordinamento

giuridico, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, recante: Misure di prevenzione nei

confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità.40

L’originario testo dell’art. 1 della legge in esame, prevedeva ben cinque categorie di

soggetti destinatari della diffida del questore e del conseguente avvertimento di

                                                            40 “Le misure di prevenzione entrano ufficialmente a far parte del nostro sistema penale del controllo sociale con la legge 27 dicembre 1956, n. 1423, introdotta nel nostro ordinamento giuridico con lo scopo di «giurisdizionalizzare», almeno nei momenti salienti, il procedimento di applicazione di un complesso di misure, fino ad allora rimesse in buona parte alla discrezionalità dell’autorità di PS.” In C. FIORE, Diritto Penale. Parte Generale cit.

25  

mutare condotta, pena l’applicazione, nei loro confronti, delle misure di prevenzione

personali.41

Il nuovo testo dell’art. 1, interamente modificato dalla legge 3 agosto 1988, n. 327,

ne prevede soltanto tre: “coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto,

che siano abitualmente dediti a traffici delittuosi”, “coloro che per la condotta ed il

tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivano abitualmente,

anche in parte, con i proventi di attività delittuose”, “coloro che per il loro

comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono dediti alla

commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale

dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica”.

Dunque, come si osserva dal dettato normativo, il legislatore introduce precisi e

tassativi parametri comportamentali, garantendo un momento valutativo che si basi

esclusivamente sugli elementi di fatto, scongiurando la possibilità che il

provvedimento della misura personale, potesse essere annoverato tra quelli ispirati

alla cultura del sospetto.

Le modifiche introdotte dalla legge del 1988 sono, d’altronde, in linea con una certa

giurisprudenza costituzionale, la quale ha ritenuto autorevolmente che è da

escludersi, in riferimento ai numeri 2, 3 e 4 dell’articolo 1 della legge n. 1423 del

1956, che “le misure di prevenzione possano essere adottate sul fondamento di

semplici sospetti, richiedendosi invece, un’oggettiva valutazione dei fatti da cui

risulta la condotta abituale e il tenore di vita della persona o che siano manifestazioni

concrete della sua proclività al delitto, e siano state accertate in modo da escludere

valutazioni puramente soggettive e incontrollabili da parte di chi promuove o applica

le misure di prevenzione”.42

                                                            41 Cosi disponeva l’art. 1 della legge 1423/1956: “Possono essere diffidati dal questore: 1) gli oziosi e i vagabondi abituali, validi al lavoro; 2) coloro che sono abitualmente o notoriamente dediti a traffici illeciti; 3) coloro che per la condotta o il tenore di vita debba ritenersi che vivano abitualmente, anche in parte, con il provento di delitti o con il favoreggiamento o che, per le manifestazioni cui abbiano dato luogo, diano fondato motivo di ritenere che siano proclivi a delinquere; 4) coloro che, per il loro comportamento siano ritenuti dediti a favorire o sfruttare la prostituzione o la tratta delle donne o la corruzione dei minori, ad esercitare il contrabbando, ovvero ad esercitare il traffico illecito di sostanze tossiche o stupefacenti o ad agevolarne dolosamente l’uso; 5) coloro che svolgono abitualmente altre attività contrarie alla morale pubblica e al buon costume”.  42 Corte costituzionale, 4 Marzo 1964, n. 23

26  

La stessa Corte, nel 1980, ha poi dichiarato la illegittimità costituzionale del n. 3

dell’articolo 1 che non descrive, infatti, ne una o più condotte, né alcuna

“manifestazione” cui riferire un accertamento giudiziale.

Quali “manifestazioni” vengono in rilievo, è rimesso al giudice già sul piano della

definizione della fattispecie, prima che su quello dell’accertamento.

I presupposti di “proclività a delinquere”- continua la Corte Costituzionale - non

hanno qui alcuna autonomia concettuale del giudizio stesso.

La formula legale non svolge la funzione di un’autentica fattispecie di individuazione

dei casi ma offre agli operatori uno spazio di incontrollabile discrezionalità”.43

La legge del 1956 introduce, dunque, il principio della “pericolosità comune” in base

alla quale ai soggetti descritti si possono applicare le misure di prevenzione

personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ed a cui può seguire

l’obbligo di soggiorno.44

A distanza di nove anni dalla legge 1423, viene introdotta, nel nostro ordinamento

giuridico, la legge 31 maggio 1965 n. 575 recante: Disposizioni contro la mafia.45 In

questo modo gli strumenti delle misure di prevenzione personali vengono estesi ai

soggetti indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso in ragione della loro

pericolosità (questa volta “qualificata” in conseguenza dell’appartenenza

all’associazione di tipo mafioso).

La novità dalla normativa del 1965 risiede, in particolare, in un inasprimento del

regime di prevenzione nei confronti dei soggetti definiti mafiosi.

Non solo vengono estese al Procuratore della Repubblica presso il tribunale nel cui

circondario dimora la persona, le facoltà già previste in capo al Questore, ma si

prevede che le misure applicate siano quelle della sorveglianza speciale della                                                             43 Corte costituzionale, 16 dicembre 1980, n. 177 44 Cosi recita l’art. 3 della legge 1423/1956: “1) Alle persone indicate nell’art. 1 che non abbiano cambiato condotta nonostante l’avviso orale di cui all’articolo 4, quando siano pericolose per la sicurezza pubblica, può essere applicata nei modi stabiliti negli articoli seguenti, la misura di prevenzione della sorveglianza speciale della pubblica sicurezza. 2) Alla sorveglianza speciale può essere aggiunta, ove le circostanze del caso lo richiedano, il divieto di soggiorno in uno o più Comuni o in uno o più Province. 3) Nel caso in cui le altre misure di prevenzione non sono ritenute idonee alla tutela della sicurezza pubblica può essere imposto l’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale comune”. 45 il titolo della legge verrà modificato dall’entrata in vigore dei c.d. “pacchetti sicurezza” approvati durante la XVI legislatura. In particolare l’art. 2 comma 5, del legge 94/2009 prevede che: “ il titolo della legge 31 maggio 1965, n. 575, è sostituito dal seguente: “Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere”. 

27  

pubblica sicurezza, congiuntamente al soggiorno obbligato ( cade quindi il carattere

di accessorietà di tale misura previsto invece dalla precedente legge del 1956).

L’applicabilità della normativa antimafia viene estesa dall’approvazione della legge

22 maggio 1975 n. 152 recante: Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico.

Il provvedimento in esame, noto come “Legge Reale”, dal nome del suo proponente

e Ministro Guardasigilli, Oronzo Reale, prevede, agli articoli 1846 e 1947,

l’applicazione delle misure di prevenzione a nuove tipologie di pericolosità e a

tipologie previste dalle precedenti leggi.

L’ordinamento giuridico, dunque, avverte l’esigenza di differenziare le condotte

criminogene e di specificare il carattere mafioso di queste.

Tuttavia le norme introdotte con la legge 575/1965, pur facendo riferimento agli

indiziati di appartenere ad associazioni mafiose, non definiscono i caratteri propri

dell’ associazione di stampo mafioso.

Durante il periodo di prima applicazione di tali norme, infatti, si riscontra una

sostanziale impossibilità al raggiungimento di risultati concreti.

Si riscontra, cioè, nell’attività di contrasto alla criminalità mafiosa, un difetto

strutturale dell’impianto normativo fino a quel momento predisposto.

Una realtà, quella di fine anni ’70, emblematicamente rappresentata “dal ghigno

beffardo di tanti boss mafiosi graziati con la formula dell’insufficienza di prove.

                                                            46 L’art. 18, comma 1 della legge 152/1975 prevede: “ le disposizioni della legge 31 maggio 1965, n. 575, si applicano anche a coloro che: 1) operanti in gruppi o isolatamente, pongano in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato, con la commissione di uno dei reati previsti dal capo I, titolo IV, del libro II del codice penale o dagli articoli 284, 285, 286, 306, 438, 439, 605 e 630 dello stesso codice; 2) abbiano fatto parte di associazioni politiche disciolte ai sensi della legge 20 giugno 1952, n. 645 e nei confronti dei quali debba ritenersi, per il loro comportamento successivo, che continuino a svolgere una attività analoga a quella precedente; 3) compiano atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti alla ricostituzione del partito fascista ai sensi dell’articolo 1 della citata legge n. 645 del 1952, in particolare con l’esaltazione o la pratica della violenza; 4) fuori dai casi indicati nei numeri precedenti, siano stati condannati per uno dei delitti previsti nella legge 2 ottobre 1967, n. 895, e negli articoli 8 e seguenti della legge 14 ottobre 1974, n. 497, e successive modificazioni, quando debba ritenersi, per il loro comportamento successivo, che siano proclivi a commettere un reato della stessa specie col fine indicato nel precedente n. 1” 47 L’art. 19, comma 1 della legge 152/1975 prevede: le disposizioni di cui alla legge 31 maggio 1965, n. 575, si applicano anche alle persone indicate nell’articolo 1, numeri 2), 3) e 4) della legge 27 dicembre 1956, n. 1423”.

28  

O – quando proprio andava male – spediti a bordo d’un barcone nelle minuscole

isole di Linosa o Filicudi per quel soggiorno obbligato che non avrebbe intralciato i

loro traffici più di tanto”.48

5. L’associazione di tipo mafioso e il contrasto patrimoniale alle mafie. Entra in

vigore la “Legge Rognoni – La Torre”

Alla definizione delle caratteristiche proprie dell’associazione mafiosa, non che alla

necessità di introdurre provvedimenti di prevenzione di carattere patrimoniale, si

giungerà solo diciassette anni più tardi, con l’approvazione della legge 13 settembre

1982 n. 646 recante: Associazione a delinquere di tipo mafioso e disposizioni in

materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale.

La legge 646, meglio nota come “Legge Rognoni – La Torre”49, può essere

considerata come una vera e propria svolta legislativa, in materia di contrasto alla

criminalità organizzata.

Non solo l’introduzione, nel nostro codice penale vigente, del già citato articolo

416bis50, che identifica il fenomeno criminoso della mafia come fenomeno unitario e

a se stante,51 autonomamente perseguibile in quanto tale ed indipendentemente dalla

                                                            48 In S. LODATO, Trent’anni di mafia, BUR, 2006, p. 7 49 Anche questo provvedimento è frutto del carattere emergenziale che connota la maggior parte del quadro normativo antimafia. Fu infatti approvata soltanto dopo l’assassinio del segretario regionale siciliano del P.C.I. e membro della Commissione parlamentare antimafia, non che proponente della stessa legge 646, l’onorevole Pio La Torre, e del suo collega Rosario Di Salvo, il 30 aprile 1982 in Via Generale Turba a Palermo e successivamente del Prefetto di Palermo, il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, assassinato il 3 settembre 1982 nella strage di Via Carini a Palermo, in cui persero la vita anche la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. 50 L’art. 416bis c.p. da ultimo modificato dal d.l. 23 maggio 2008, n. 92 convertito in L. 24 luglio 2008, n. 125 (cosiddetto “pacchetto sicurezza”) è rubricato “Associazioni di tipo mafioso anche straniere”. Al primo comma prevede: “Chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone è punito con la reclusione da sette a dodici anni”. Il successivo terzo comma specifica le caratteristiche proprie dell’associazione mafiosa e cosi dispone: “L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto la gestione o comunque in controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per se o per altri ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a se o ad altri in occasione di consultazioni elettorali”. 51 “La definizione del delitto di associazione di tipo mafioso è data con riferimento alla mafia per la precisa identità sociologica e giuridica che questo sodalizio ha assunto”. (Cass., VI, 10 luglio 1984, n. 713); La Suprema Corte di Cassazione ha inoltre ritenuto, sancendo definitivamente l’autonomia di tale delitto, e dunque la sua perseguibilità, dalla commissioni di altri reati, che: “La forza di intimidazione dell’associazione mafiosa consiste nella capacità di suscitare terrore scaturente  

29  

commissione di singoli delitti, ma anche il sequestro e la confisca “antimafia”

fornivano alla magistratura adeguati strumenti giudiziari di contrasto alla criminalità

mafiosa.52

In sintesi i caratteri che contraddistinguono questo provvedimento legislativo

possono essere cosi riassunti; da un lato l’introduzione delle misure di prevenzione

patrimoniali, dall’altro il tentativo dell’isolamento del sistema economico territoriale

dell’indagato che si realizza attraverso la codificazione di disposizioni che

prevedono, per il soggetto accusato, la decadenza o la sospensione di licenze,

iscrizioni e concessioni di cui dispone.

Tutto questo viene reso possibile in quanto la legge 646/1982 prevede la formazione

di un elenco generale degli enti e delle amministrazioni legittimati a disporre le

licenze, iscrizioni e concessioni prescritte prevedendo, in capo a tali soggetti, la

responsabilità di recidere qualunque rapporto con chi risulta essere assoggettato a

misure di prevenzione patrimoniali.

Il provvedimento in esame, oltre a definire dettagliatamente l’ambito di applicazione

della legge 575/1965,53 introduce in quest’ultima gli articoli 2bis, 2ter e 2quater.

Queste integrazioni cambiano radicalmente la strategia di contrasto, imperniandola

sull’asse patrimoniale.

Le innovazioni introdotte dagli articoli di legge sopra citati possono essere cosi

sintetizzati: viene assicurato il collegamento tra l’ambito della prevenzione

                                                                                                                                                                         dall’associazione in quanto tale, la quale, pertanto dev’essere dotata di specifica potenzialità a ingenerare uno stato di sudditanza psicologica, indipendentemente dal compimento di particolari atti di violenza o minaccia, tant’è che la forza intimidatrice fa parte del patrimonio dell’associazione di tipo mafioso”. (Cass., I, 15 dicembre 1986, n. 14134) 52 Le innovazioni introdotte dal provvedimento legislativo, noto come “Legge Rognoni-La Torre”, furono determinanti ai fini del lavoro d’istruzione svolto dal Pool Antimafia di Palermo costituito dai giudici Antonino Caponnetto, Leonardo Guarnotta, Giuseppe Di Lello, Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Il pool istruì cosi il “Maxiprocesso” contro i vertici di Cosa Nostra siciliana. Il più imponente procedimento giudiziario che la storia conosca, si apre a Palermo il 10 febbraio 1986 con circa 474 imputati. Si conclude, il 16 dicembre 1987, con 19 ergastoli e 2665 anni di carcere inflitti. Nonostante l’omicidio del giudice Antonio Scopelliti, che avrebbe dovuto sostenere l’accusa in Corte di Cassazione, con chiari scopi intimidatori, il 30 gennaio 1992 la Suprema Corte conferma gli ergastoli del “Maxiprocesso”. 53 Viene infatti modificato, dall’art. 13 legge 646/1982, l’art. 1 legge 575/1965 che cosi disponeva, prima delle modifiche introdotte dal d.l. n. 92/2008 convertito con legge n. 94/2008 e dal d.l. n. 4/2010 convertito con legge n. 50/2010 : “La presente legge si applica agli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra o ad altre associazioni, comunque localmente denominate, che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelle delle associazioni di tipo mafioso”.

30  

patrimoniale e quello della prevenzione personale stabilendo, il legislatore, che: “Il

procuratore della repubblica o il questore competente a richiedere l'applicazione di

una misura di prevenzione procedono, anche a mezzo della polizia tributaria della

Guardia di Finanza, ad indagini sul tenore di vita, sulle disponibilità finanziarie e

sul patrimonio, anche al fine di accertarne la provenienza, delle persone nei cui

confronti possa essere proposta una misura di prevenzione perché indiziate di

appartenere ad associazioni di tipo mafioso”.54

Le indagini di cui all’art. 2bis vengono, poi, estese anche nei confronti dei familiari

del soggetto indiziato di appartenere ad associazione mafiosa che può disporre

direttamente o indirettamente dei beni che saranno oggetto del procedimento di

prevenzione.

Ma le innovazioni introdotte dal legislatore del 1982 riguarda la fissazione dei primi

criteri identificativi della prevenzione patrimoniale.

Si prevedono, infatti, quello dei “sufficienti indizi” e della “prova della legittima

provenienza dei beni”.

L’art. 2ter della legge 646/1982, statuisce che il Tribunale anche d’ufficio, dispone il

sequestro dei beni di cui il soggetto indiziato di appartenere ad associazione mafiosa

possa disporre direttamente o indirettamente sulla base di sufficienti indizi, come la

notevole sperequazione tra il tenore di vita e l’entità dei redditi, apparenti o dichiarati

e dunque si ha motivo di ritenere che siano frutto di attività illecite o ne costituiscano

il reimpiego.

Successivamente, nel caso in cui dei beni sequestrati “non sia stata dimostrata la

legittima provenienza” il Tribunale dispone il provvedimento definitivo di

confisca.55

Infine per quanto attiene alle procedure esecutive del sequestro di cui all’art. 2ter, si

rinvia alle norme del codice di procedura civile in tema di pignoramento presso il

debitore o presso il terzo.

Tali provvedimenti, in sede di applicazione, danno importanti risultati tant’è che il

profilo investigativo, nell’ambito delle indagini patrimoniali, si intreccia e si salda

                                                            54 Art. 2bis comma 1 della legge 575/1965 introdotto dall’art. 14 della legge 646/1982 55 Art. 2ter comma 3, legge 575/1965 introdotto dall’art. 14 della legge 646/1982

31  

con quello della prevenzione patrimoniale in significative regioni d’Italia come la

Campania, la Calabria, la Puglia e la Sicilia.

A partire dal 1982, i beni confiscati si fanno sempre più numerosi ed in questo

contesto che si avverte la necessità di un intervento riformatore del legislatore al fine

di delineare maggiormente i contorni del “dopo-confisca”.

A parte un generico riferimento alla custodia, la precedente legislazione non si

occupava in modo soddisfacente dell’amministrazione e gestione di beni sequestrati

e confiscati.

In questo contesto viene infatti approvato il decreto legge 14 giugno 1989, n. 230

convertito con modificazioni in legge 4 agosto 1989, n. 282 recante: Disposizioni

urgenti per l’amministrazione e la destinazione dei beni confiscati ai sensi della

legge 31 maggio 1965, n. 575.

Il d.l. 230 prevede una serie di disposizioni volte ad approntare una prima strategia di

amministrazione e gestione dei beni sottratti alla criminalità organizzata.

L’art. 1 d.l. 230/1989 prevede innanzitutto che i beni confiscati ai sensi della legge

575/1965 siano devoluti allo Stato; ma l’innovazione più rilevante è introdotta dal

successivo art. 2 dal quale emerge la figura dell’amministratore giudiziario nominato

dal Tribunale con lo stesso provvedimento con cui l’autorità giudiziaria nomina il

giudice delegato e dispone il sequestro dei beni.

Secondo quanto dispone l’art 2septies della legge 575/1965, introdotto dal d.l.

230/1989, l’amministratore deve provvedere alla custodia, conservazione e

amministrazione dei beni sequestrati anche al fine di incrementare, quando risulta

possibile, la redditività degli stessi.

La disposizione in esame è il segno di un tentativo che il legislatore compie al fine di

rendere più articolata ed organica l’azione dello Stato nella sottrazione dei patrimoni

alle mafie.

Non solo, quindi, provvedimenti che assicurino il sequestro e la confisca, ma anche

iniziative legislative volte a garantire un rientro nella società di beni sottratti con

violenza alla stessa.

Successivamente la legge 19 marzo 1990, n. 55 recante: Nuove disposizioni per la

prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altri gravi forme di

manifestazione di pericolosità sociale, estese il sistema delle misure di prevenzione

32  

patrimoniali ad altri reati come le estorsioni, i sequestri di persona a scopo di

estorsione, il riciclaggio, il contrabbando, il traffico di sostanze stupefacenti e

l’usura.

6. Le stragi politico-mafiose dei primi anni ‘90

Negli anni 1992-1993 l’organizzazione mafiosa siciliana denominata “cosa nostra”

risponde pesantemente alle condanne inflitte dalla Corte d’Appello di Palermo e agli

ergastoli confermati dalla Suprema Corte di Cassazione che chiude, il 30 gennaio

1992, il “Maxiprocesso”.

Le risposte mafiose, concretizzatesi nella strage di Capaci56, spingono il Governo

all’approvazione del d.l. 8 giugno 1992, n. 30657 e, successivamente alla strage di

Via D’Amelio58, alla sua conversione in legge 7 agosto 1992, n. 356 recante:

Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto

alla criminalità mafiosa.

Questi provvedimenti, irrigidiscono l’impianto repressivo del contrasto alla

criminalità.

La legge di conversione prevede una serie di disposizioni volte: all’inasprimento del

regime carcerario con il divieto di concessione di benefici per gli appartenenti alla

criminalità organizzata,59 alla introduzione di nuove misure per la protezione di

coloro che collaborano con la giustizia,60 ad introdurre modifiche in materia di

prevenzione patrimoniale61.

                                                            56 Nella strage persero la vita, il 23 maggio 1992, Giovanni Falcone, la moglie, Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro 57 cosiddetto “decreto anti-criminalità” 58 Nella strage persero la vita, il 19 luglio 1992, Paolo Borsellino e gli agenti della scorta, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina 59 Art. 15 D.L. 306/1992 convertito in L. 356/1992 60 Artt. 13 ss. del D.L. 306/1992 convertito in L. 356/1992. In particolare la proficua collaborazione del boss pentito Tommaso Buscetta, condotta da Giovanni Falcone, che permise alla magistratura di scrutare l’intera organizzazione segreta di “Cosa Nostra”, aveva aperto la cosiddetta “stagione del pentitismo” rivelando la fondamentale utilità di coloro che collaborano con la giustizia nelle indagini di mafia. 61 In particolare il d.l. 306/1992 introduce gli artt. 3quater e 3quinquies della legge 575/65 che prevedono rispettivamente: a) ulteriori indagini, da compiersi anche a mezzo della Guardia di Finanza, e sospensione dell’amministrazione di beni utilizzabili, quando sussistono elementi per ritenere che determinate attività economiche anche imprenditoriali siano direttamente o indirettamente sottoposte alle condizioni di assoggettamento e intimidazioni di cui all’art. 416bis c.p.; b) essendo la sospensione un provvedimento temporaneo, il tribunale deve, dopo 15 gg. o revocare il  

33  

Ancora modifiche vengono apportate dal d.l. 20 giugno 1994, n. 399 convertito, con

modificazioni, dalla legge 8 agosto 1994, n. 501.

L’art. 2 della presente legge infatti introduce l’art. 12sexies del d.l. 306/1992.

La norma in esame introduce la categoria della confisca, cosiddetta, “allargata” che

va ad affiancare la confisca antimafia di prevenzione.

L’istituto introdotto dall’art. 12sexies cit., infatti, prevede le ipotesi particolari di

confisca in casi di condanna o applicazione della pena su richiesta di cui all’art. 444

del codice di procedura penale per determinati reati62.

In questi casi “è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità

di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta

persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi

titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul

reddito, o alla propria attività economica”.63

Il citato art. 12sexies, inoltre, prevede che a questi casi di confisca si applichino le

disposizioni previste dalla legge 575/1965 e successive modificazioni, in materia di

gestione e amministrazione dei beni garantendo anche per questa tipologia di

confisca l’applicabilità delle successive disposizioni che verranno introdotte dalla

legge 109/1996.

Anche le sentenze della Corte costituzionale contribuiscono a modificare l’apparato

legislativo di prevenzione. In particolare con la sentenza n. 487 del 1995, la

Consulta ha sancito la incostituzionalità dell’art. 3-quinquies, secondo comma, della

legge 575/1956 nella parte in cui non prevede che avverso il provvedimento di

confisca possano proporsi le impugnazioni previste e con gli effetti indicati nell’art.

3-ter, secondo comma, della stessa legge.

                                                                                                                                                                         provvedimento di sospensione ovvero disporre la confisca dei beni dei quali si ritiene siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. 62 I delitti previsti dal 12-sexies del d.l. 306/1992 sono quelli previsti dagli artt. 416bis, 629, 630, 644, 644bis, 648, 648bis, 648ter del codice penale nonché dall’art. 12quinquies, comma 1, (rubricato trasferimento fraudolento di valori) del d.l. 306 cit. ovvero per i reati previsti dagli artt. 73 e 74 del T.U. delle leggi in materia di sostanze stupefacenti e psicotrope. 63 Art. 12sexies d.l. 306/1992

34  

7. La risposta della società civile. L’associazione “Libera” e la legge del

riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie

Nel periodo di forte contrasto giudiziario alla mafia, nel quale persero la vita decine

di uomini dello Stato, finalmente si registra una prima risposta della società civile a

questo stato di cose.

Nel 1995, infatti, nasce, in Italia, l’associazione antimafia “Libera”64 che comincia

subito la sua attività organizzando una campagna di raccolte firme e raccogliendo

circa un milione di firme che sottoscrissero la bozza di iniziativa di legge popolare

che sarebbe poi diventata la c.d. legge del riutilizzo sociale dei beni confiscati alle

mafie.

La proposta riguardava una legge che potesse regolare compiutamente la fase

successiva al provvedimento della confisca definitiva.

Ma quali erano le sorti che avrebbero avuto i beni definitivamente confiscati alla

criminalità organizzata? Quali soggetti istituzionali sarebbero stati responsabili delle

loro sorti? Quali soggetti sarebbero stati i destinatari di tali beni e come sarebbero

stati amministrati?

A tutte queste domande doveva rispondere un eventuale disegno di legge che

effettivamente vide la luce il 7 marzo 1996 con l’approvazione della legge n. 10965

recante: Disposizioni in materia di gestione di beni sequestrati o confiscati.

Modifiche alla legge 31 maggio 1965, n. 575, e all'articolo 3 della legge 23 luglio

                                                            64 L’associazione "Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie" nasce il 25 marzo 1995 con l'intento di sollecitare la società civile nella lotta alle mafie e promuovere legalità e giustizia. Attualmente Libera è un coordinamento di oltre 1500 associazioni, gruppi, scuole, realtà di base, territorialmente impegnate per costruire sinergie politico-culturali e organizzative capaci di diffondere la cultura della legalità. La legge sull'uso sociale dei beni confiscati alle mafie, l'educazione alla legalità democratica, l'impegno contro la corruzione, i campi di formazione antimafia, i progetti sul lavoro e lo sviluppo, le attività antiusura, sono alcuni dei concreti impegni di Libera. Libera è riconosciuta come associazione di promozione sociale dal Ministero della Solidarietà Sociale. Nel 2008 è stata inserita dall'Eurispes tra le eccellenze italiane. 65 La legge 109/1996 viene approvata direttamente dalla Commissione Giustizia in sede deliberante, secondo la procedura consentita solo per i provvedimenti ritenuti di particolare importanza ed in grado di raccogliere un consenso unanime. Rispetto però alla proposta portata avanti dal mondo dell'associazionismo presenta alcune significative differenze. Prima tra tutte l'eliminazione della parte dedicata all'uso sociale dei beni confiscati ai corrotti, stralciata e mai più ripresa; e poi la limitazione a tre anni di attività del fondo prefettizio che dovrebbe gestire le risorse per i progetti di sostegno all'utilizzo dei beni confiscati.

35  

1991, n. 223. Abrogazione dell'articolo 4 del decreto-legge 14 giugno 1989, n. 230,

convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 1989, n. 282.

Le norme introdotte dalla legge 109/1996 disciplinano, dettagliatamente, le

conseguenze della confisca definitiva.

Viene innanzitutto sancito che i beni confiscati sono devoluti allo Stato che si occupa

dell’amministrazione degli stessi attraverso l’amministrazione finanziaria e in

particolare l’Agenzia del Demanio66.

La legge 109 cit. parla poi di beni mobili, anche personali, non costituiti in azienda e

di titoli di cui è consentita la vendita anche mediante trattativa privata, non

antieconomica, e di beni immobili e aziendali per i quali è prevista altra procedura.

In particolare gli immobili possono essere mantenuti a patrimonio dello Stato per

finalità di giustizia, ordine pubblico e di protezione civile; oppure possono essere

trasferiti al patrimonio del Comune, sul cui territorio il bene confiscato insiste, per

essere destinato, dall’amministrazione comunale stessa, a finalità istituzionali o

sociali.

Il Comune, secondo le norme della legge 109, può amministrare direttamente il bene

ovvero assegnarlo in concessione a titolo gratuito, ad esempio sulla base di un

contratto di comodato d’uso gratuito67,a comunità, ad enti, ad organizzazioni di

volontariato, a cooperative sociali o a comunità terapeutiche e centri di recupero e

cura di tossicodipendenti.

Per quanto concerne i beni aziendali, sempre secondo la legge 109, possono essere

destinati all’affitto, se sussistono buone probabilità di continuazione dell’attività

economica o comunque di risanamento della stessa.

Altrimenti tali beni sono soggetti alla vendita per corrispettivi non inferiori a quelli

stimati dal competente ufficio del territorio del Ministero delle Finanze.

                                                            66Attualmente mediante l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata costituita con D.L. 4 febbraio 2010, n. 4, convertito in legge 31 marzo 2010, n. 50. 67 Sulla base dell’esperienza realizzata nella Regione Campania, in particolare per quanto riguarda un bene sequestrato e confiscato nel Comune di Castellammare di Stabia, in provincia di Napoli, per il quale è stato stipulato un contratto di comodato d’uso gratuito (protocollo n. 25 del 16 aprile 2007) tra l’associazione “Casa della Pace e della Nonviolenza” e il Consorzio “Sole” (Sviluppo Occupazione Legalità Economica) della Provincia di Napoli. Soggetto istituzionale, quest’ultimo, che riunisce numerosi Comuni campani al fine di rendere più efficace e sicura l’azione delle amministrazioni comunali, specialmente quelle territorialmente minori, nella gestione e nel riutilizzo dei beni sottratti alla camorra.

36  

8. I provvedimenti introdotti durante la XVI legislatura. L’Agenzia Nazionale, il

“pacchetto sicurezza” e il codice della legislazione antimafia e delle misure di

prevenzione

La disciplina, risulta oggi mutata, specialmente nei riferimenti all’Agenzia del

Demanio e al Commissario straordinario del Governo per la gestione e la

destinazione dei beni confiscati ad organizzazioni criminali,68 a seguito di nuovo

provvedimenti introdotti dal Governo della XVI Legislatura.

In particolare il d.l. n. 4 del 4 febbraio 2010, convertito con legge 31 marzo 2010, n.

50, recante: Istituzione dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la

destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata.

L’organismo introdotto dalla legge n. 50, è di diritto pubblico è ha il compito di

agevolare e velocizzare i procedimenti di amministrazione e destinazione dei beni

sequestrati e confiscati.

Ritornando più propriamente alla prevenzione patrimoniale, gli ultimi

provvedimenti, in ordine di tempo, che hanno inciso sulle misure di prevenzione

patrimoniali, sono i cosiddetti “pacchetti sicurezza”, approvati tra il 2008 e il 2009.

Il decreto legge 23 maggio 2008, n. 92 recante: Misure urgenti in materia di

sicurezza pubblica, convertito con legge 24 luglio 2008, n. 125 all’art. 10 comma 3,

ha introdotto l’art 6bis della L. 575/1965, dispone che: le misure di prevenzione

personali e patrimoniali possono essere richieste e applicate disgiuntamente.

Le misure patrimoniali possono essere disposte anche in caso di morte del soggetto

proposto per la loro applicazione.

Nel caso la morte sopraggiunga nel corso del procedimento esso prosegue nei

confronti degli eredi o comunque degli aventi causa.

                                                            68 Cosi dispone, infatti, l’art. 7, comma 2, della L. 50/2010: 2) A decorrere dalla nomina di cui all'articolo 2, comma 2, cessa l'attività del Commissario straordinario per la gestione e la destinazione dei beni confiscati ad organizzazioni criminali e vengono contestualmente trasferite le funzioni e le risorse strumentali e finanziarie già attribuite allo stesso Commissario, non che, nell'ambito del contingente indicato al comma 1, lettera a), le risorse umane, che restano nella medesima posizione già occupata presso il Commissario. L'Agenzia subentra nelle convenzioni, nei protocolli e nei contratti di collaborazione stipulati dal Commissario straordinario. L'Agenzia, nei limiti degli stanziamenti di cui all'articolo 10, può avvalersi di esperti e collaboratori esterni.

37  

Inoltre, l’applicabilità della legge recante le “Disposizioni contro le organizzazioni

criminali di tipo mafioso, anche straniere” viene estesa anche ai soggetti ricompresi

nell’art. 51, comma 3-bis, c.p.p.

Il provvedimento datato 2009 (legge 15 luglio 2009, n. 94 recante: Disposizioni in

materia di sicurezza pubblica) è invece foriero di novità specialmente sul versante

interpretativo per quanto attiene ai dubbi lamentati dagli operatori circa le possibilità

previste dal “pacchetto sicurezza” del 2008, di applicazione disgiunta delle misure

patrimoniali da quelle personali.

In siffatto quadro legislativo si inserisce l’ultimo intervento normativo ad opera del

legislatore del 2010 che ha sentito l’esigenza di razionalizzare la normativa

antimafia, in particolare emanando la legge delega 13 agosto 2010, n. 136 recante:

piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di

normativa antimafia.

Dei sedici articoli che compongono la legge 136 cit., l’art. 1 sembra essere quello

rilevante in quanto delega al Governo, l’emanazione di un codice delle leggi

antimafia e delle misure di prevenzione, attraverso un metodo distinto in tre fasi:

a) ricognizione di tutta la normativa antimafia (contenuta nelle varie discipline,

penali, processuali e amministrative, ivi compresa quella già contenuta nei codici

penale e di procedura penale);

b) armonizzazione della normativa di cui alla lettera a);

c) coordinamento della normativa di cui alla lettera a) con le disposizioni introdotte

dalla legge 136 citata;

d) infine, l’adeguamento della normativa italiana alle disposizioni adottate

dall’Unione europea.

Dall’analisi della legge in esame, emergono, inoltre, alcuni criteri direttivi come la

possibilità di dissociare l’azione di prevenzione patrimoniale da quella personale e

soprattutto affrancare l’azione di prevenzione patrimoniale dalla previa valutazione,

e quindi anche in sua assenza, di quel presupposto soggettivo richiesto per

l’applicazione di una misura di prevenzione personale e cioè la pericolosità sociale.

Non di meno il legislatore del 2010 richiede che vengano definite organicamente le

categorie destinatarie delle misure di prevenzione oltre che, in ambito procedurale, di

38  

garantire la possibilità di celebrare l’udienza pubblicamente e non in camera di

consiglio nel caso il soggetto proposto ne faccia esplicita richiesta.

Maggiore attenzione viene posta ai terzi che sono coinvolti nel procedimento di

prevenzione patrimoniale.

L’art. 1 della legge 136 citata, infatti, a partire dal punto f), impone direttive al fine

di disciplinare in modo dettagliato i rapporti dei terzi con il procedimento di

prevenzione oltre che la tanto discussa materia dei diritti dei terzi su beni che sono

oggetto del sequestro e della confisca di prevenzione.

8.1 Le novità introdotte dal nuovo Codice Antimafia

Con il decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, recante: Codice delle leggi

antimafia e delle misure di prevenzione nonché nuove disposizioni in materia di

documentazione antimafia, fa ingresso, nell’Ordinamento giuridico italiano, quello

che è stato più volte salutato e definito come Codice Antimafia.

La legge delega 13 agosto 2010, n. 136, infatti, era stata emanata con l’ambizioso

obiettivo di armonizzare il complesso di leggi e disposizioni “antimafia” e dunque la

normativa penale, processuale penale ed amministrativa in tema di lotta alla

criminalità organizzata.

Se pur con questi presupposti, il prodotto legislativo, attualmente in vigore,

rappresenta, ridimensionando dunque la portata della stessa delega, un “codice delle

misure di prevenzione (cui sono dedicate gran parte dei 120 articoli del testo) in cui

sono inserite le norme sulla documentazione antimafia e su alcuni organismi

antimafia”.69

Il progetto legislativo di un “Codice” che potesse riunire e coordinare le molteplici

norme in tema di prevenzione e repressione del fenomeno mafioso rappresentava

un’esigenza fortemente avvertita dopo un trentennio di legislazione antimafia.

Dal 1982 al 1993, infatti la produzione normativa, in campo di lotta alle

organizzazioni criminali, si registra forsennata e frenetica.

                                                            69 F. MENDITTO, Codice Antimafia, commento organico, articolo per articolo, al D.Lgs. 6 settembre 2011, n.159, SIMONE, 2011, in Prefazione.

39  

Un susseguirsi di provvedimenti, tutti caratterizzati da connotazioni emergenziali,

che disegnano un quadro volto a svelare una cultura della politica legislativa

decisamente intempestiva e inidonea, dal punto di vista della prevenzione dei

fenomeni di criminalità di tipo mafioso.

Sino a giungere ai tempi odierni con una serie di interventi che dal 2008 al 2012

hanno fortemente inciso soprattutto sull’assetto delle misure di prevenzione

antimafia tanto, appunto, da indurre gli esperti a definire, l’attuale Codice Antimafia,

come codice delle misure di prevenzione.

Si manifesta, dunque, tutta l’insoddisfazione di un progetto ambizioso, che avrebbe

dovuto prevedere una riorganizzazione dei numerosi interventi normativi che si sono

susseguiti nel tempo sia in materia penale e processuale penale, che in quella delle

misure di prevenzione sia personali che patrimoniali.

Viene dunque approvato un Codice delle leggi antimafia che, secondo gli operatori

del diritto, manifesta numerosi limiti.

Per quanto concerne la materia penale, infatti, si sottolinea che “non viene esercitata

la delega per la redazione di un testo unico delle norme contenute nel codice penale,

nel codice di procedura penale e nelle leggi speciali. L’assenza di principi e criteri

direttivi (presenti solo per le misure di prevenzione) e la difficoltà di raccogliere una

pluralità di disposizioni, induceva ad inserire nel codice solo dieci norme penali,

estrapolandole da diversi testi normativi, ignorando le gravi conseguenze di ordine

interpretativo e applicativo derivanti da tale operazione”70.

Cosi come gli operatori del diritto sottolineano che, nell’ambito delle misure di

prevenzioni sia ravvisabile, invece, un eccesso di delega, omesse regolamentazioni,

mancato coordinamento di disposizioni, finanche, errori.71

Non meno significativa la mancanza di applicazione della delega in tema di

esecuzione delle misure di prevenzione patrimoniali, e segnatamente della confisca

di prevenzione, nei confronti di beni localizzati in territorio estero.72

                                                            70 Ivi, p. 10 71 Ibidem 72 Art. 1, comma 3, lett. b), n.2, legge 136/2010, cosi dispone: “prevedere, in relazione alle misure di prevenzione della confisca dei beni, che (…) la confisca possa essere eseguita anche nei confronti dei beni localizzati in territorio estero”.

40  

Tale mancanza è resa ancor più grave se si considera che la competenza delegata al

Governo, in questa specifica materia, appare funzionale per l’attuazione delle

decisione quadro 2006/783/GAI del Consiglio dell’Unione Europea in materia di

applicazione del principio di reciproco riconoscimento delle decisioni di confisca.73

Non va dimenticato, infatti, che le istituzioni europee su tali profili hanno preso una

posizione molto chiara.

Oltre alla decisione quadro del 2006 deve essere segnalata anche quella precedente

che specificamente si riferisce alla confisca di beni, strumenti e proventi di reato.

Tale decisione, identificata come decisione quadro 2005/212/GAI, ha tra i suoi

obiettivi specifici quello di assicurare, non solo che tutti gli Stati membri adottino

norme che disciplinino, seppur con i dovuti distinguo, le misure di confisca, ma che

sia anche normativamente disciplinato il meccanismo dell’onere probatorio

relativamente all’origine dei beni detenuti da una persona che risulta condannata per

un reato connesso alla criminalità organizzata.74

Da ultimo il Parlamento Europeo si è espresso con una Risoluzione che ha

radicalmente mutato l’approccio delle istituzioni europee al fenomeno della

criminalità organizzata.

Di fatto la Risoluzione testé richiamata, richiede interventi di notevole portata, come

l’urgente predisposizione di una legislazione europea sul riutilizzo dei proventi di

reato a scopi sociali, il rafforzamento della cooperazione tra Stati finalizzata al pieno

riconoscimento, e dunque alla relativa esecuzione all’estero, degli ordini di sequestro

e confisca.

Interventi, questi, che mirano a rafforzare, a livello europeo, lo strumento delle

misure di prevenzione di carattere patrimoniale ritenuto più che idoneo a tutelare il

diritto della libera iniziativa economica e della libera concorrenza.

                                                            73 All’Art. 1 della decisione 2006/783/GAI, rubricato “Scopo” si legge: “Scopo della presente decisione quadro è stabilire le norme secondo le quali uno Stato membro riconosce ed esegue nel suo territorio una decisione di confisca emessa da un’autorità giudiziaria competente in materia penale di un altro Stato membro”. 74 Specificamente il punto 10) della decisione quadro 2005/212/GAI, stabilisce che: Obiettivo della presente decisione quadro è assicurare che tutti gli Stati membri dispongano di norme efficaci che disciplinino la confisca dei proventi di reato, anche per quanto riguarda l’onere della prova relativamente all’origine dei beni detenuti da una persona condannata per un reato connesso con la criminalità organizzata.

41  

Questa impostazione, allora, riconosce piena legittimazione delle misure patrimoniali

anche all’interno del Trattato istitutivo delle Comunità europee.

La Risoluzione 2012/2309 (INI) del 25 ottobre 2011, allora, rappresenta un

impostazione dell’istituzione europea di rilevante importanza anche dal punto di

vista del profilo culturale e sociale.

Si deve considerare, infatti, che il provvedimento in esame considera come obiettivo

primario dell’Unione europea, quello di creare uno spazio di libertà, sicurezza e

giustizia senza frontiere interne nel quale il crimine organizzato è, anzitutto,

riconosciuto, prevenuto e combattuto.

Non solo, ma la Risoluzione assume come presupposto che la finalità ultima della

criminalità organizzata è quella economico-imprenditoriale.75

La mancanza del legislatore italiano delegato, allora, si iscrive in una più ampia

deficienza, specialmente se si considera, come dimostra il quadro europeo, che il suo

inadempimento “si risolve in un grave vulnus al contrasto delle basi economiche

della criminalità organizzata transnazionale, ormai dotata di molteplici strumenti di

investimento di ingenti capitali in territorio straniero”.76

Molte le riflessioni che si sono concentrate sul nuovo Codice Antimafia,

specialmente da parte di quella società civile organizzata, costituita da professionisti,

che hanno sentito l’esigenza di manifestare e di porre all’attenzione del Governo e

del legislatore le incongruenze del nuovo testo normativo.

Alcune di esse sembrano incompatibili anche con quelle interpretazioni

giurisprudenziali che avevano garantito, nel corso del tempo, un’applicazione

costituzionalmente legittima delle norme che disciplinano il procedimento di

applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali.

Nell’ambito della conferenza organizzata a Roma, dal “Centro di studi ed iniziativa

culturali, Pio La Torre”, il 7 luglio 2011, furono prese in esame molte disposizioni

del nuovo codice sottolineando anche le difficoltà inerenti l’interpretazione delle

stesse norme.                                                             75 Su tale punto la Risoluzione si esprime in modo chiaro ed univoco. Il punto D) della Risoluzione 2012/2309 (INI) infatti afferma che: “l'azione della criminalità organizzata è finalizzata e si basa sulla realizzazione del profitto economico e dunque un'efficace azione di prevenzione e contrasto a tale fenomeno deve concentrarsi sull'individuazione, il congelamento, il sequestro e la confisca dei proventi di reato”. 76 A. BALSAMO – C. MALTESE, Il Codice Antimafia, GIUFFRÈ, 2011, p. 8

42  

Su tale punto infatti, dai lavori di quella conferenza, emerse la volontà del “Centro

Pio La Torre” di richiedere audizione alla Commissione giustizia delle Camere che

avrebbero poi dovuto rendere il loro parere al Governo.

La finalità di questa audizione, che si inserisce in un processo di democrazia

partecipata da parte della società civile, sarebbe stata quella di presentare

considerazioni e proposte redatte dal “Centro studi Pio La Torre” con il contributo di

esperti.77

Tra gli interventi dei vari relatori emerse dunque l’esigenza di una profonda

rivisitazione della normativa che da li a poco sarebbe stata approvata, specialmente

in considerazione di un denunciato scollamento tra il testo normativo approntato dal

legislatore delegato e l’esperienza giurisprudenziale stratificatasi nel tempo.

Non tutte le novità introdotte dal Codice Antimafia, infatti, sembrano essere aderenti

alla realtà del procedimento di prevenzione per l’applicazione delle misure

patrimoniali; anzi alcune di esse sembrano addirittura limitare l’efficacia delle

misure stesse.

Si pensi, a tale proposito, alla norma contenuta nell’art. 24, comma 2, d.lgs.

159/2011.78

Tale norma introduce quello che gli esperti hanno definito il “termine breve” previsto

per l’emanazione del provvedimento di confisca, che “potrebbe tuttavia risultare di

fatto incompatibile con le esigenze probatorie e di difesa del procedimento di

prevenzione (si pensi alle indagini bancarie, alle perizie contabili, alle rogatorie

internazionali, alle audizioni di decine di collaboratori di giustizia in località protette)

e con le esigenze di approfondimento e di garanzia sottese al procedimento di

prevenzione, tenuto anche conto dell’attuale carico di lavoro dei tribunali”.79

                                                            77 Come risulta da un articolo di Vito Lo Monaco, presidente del “Centro Studi Pio La Torre” pubblicato su “ASud’Europa”, settimanale di politica, cultura ed economia realizzato dal Centro Studi e iniziative culturali “Pio La Torre” – Onlus. Anno 5 – Numero 25 – Palermo 4 luglio 2011 78 Art. 24, comma 2, dispone: “Il decreto di confisca può essere emanato entro un anno e sei mesi dalla data di immissione in possesso dei beni da parte dell’amministratore giudiziario. Nel caso di indagini complesse o compendi patrimoniali rilevanti, tale termine può essere prorogato con decreto motivato del tribunale per periodi di sei mesi e per non più di due volte (…)”. 79 G. CHINNICI, (2011), “A garanzia della libertà imprenditoriale e del libero mercato”, Narcomafie, XVIII (12), p. 31

43  

In attuazione di uno specifico punto della legge delega,80 la disciplina in esame è

censurabile per più aspetti.

Invero un termine era già previsto dalla precedente disciplina contenuta nell’art. 2ter,

comma 3 della legge 575/1965.

Tale norma, infatti, stabiliva che “nel caso di indagini complesse il provvedimento

può essere emanato anche successivamente, entro un anno dalla data dell’avvenuto

sequestro; tale termine può essere prorogato di un anno con provvedimento motivato

del tribunale”

Si evince, dunque, dall’esame della precedente disciplina legislativa, che “il

sequestro di prevenzione ha un efficacia limitata ad un anno dalla sua esecuzione,

prorogabile per uguale periodo”81

L’oggetto del termine risulta essere dunque l’efficacia del provvedimento di

sequestro e non il provvedimento di confisca come invece emerge dalla formulazione

della nuova disciplina.

D’altra parte la Cassazione ha espressamente previsto, anche se in riferimento alla

precedente normativa, che il legislatore “ha ritenuto di introdurre un termine di

efficacia del sequestro, quale istituto dettato da finalità acceleratorie volto a

circoscrivere la possibilità di emettere sine die un provvedimento patrimoniale

ablatorio, ma destinato per sua stessa natura ad operare soltanto nel caso in cui, per

ragioni inerenti alla complessità delle indagini, tale provvedimento venga emanato

con atto successivo al decreto di applicazione della misura di prevenzione

personale”.82

Così, sebbene complessivamente il termine da considerare sia quello di anni 2 e mesi

6, tanto da indurre a considerare un termine più lungo della precedente previsione

legislativa (che prevedeva un termine complessivo di anni 2), di fatto risulta

pregiudizievole per la concreta possibilità di apprensione dei beni oggetto del

procedimento di prevenzione patrimoniale.

                                                            80 Art. 1 comma 3, lett. a), punto 8.2: “prevedere in relazione al procedimento di applicazione della misura di prevenzione:… che il sequestro perda efficacia se non viene disposta la confisca entro un anno e sei mesi dalla data di immissione in possesso dei beni da parte dell’amministratore giudiziario e, in caso di impugnazione del provvedimento di confisca, se la Corte d’Appello non si pronuncia entro un anno e sei mesi dal deposito del ricorso”. 81 L. FILIPPI, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, CEDAM, 2002, p. 229 82 Cass., Sez. II, 2 marzo 2006, n. 7616

44  

Proprio su tale profilo, per fare un esempio, si è soffermato il “Dipartimento di studi

europei e della integrazione internazionale – Dems”, dell’Università degli Studi di

Palermo.

L’Osservatorio su confisca, amministrazione e destinazione dei beni e delle aziende,

infatti, ha prodotto alcune proposte correttive al Codice Antimafia.

La proposta numero 7 del documento datato, 18 febbraio 2011, infatti, prevede un

testo che sia anche compatibile con il contenuto della legge delega.83

Quest’ultima è espressione della preoccupazione, bene esplicitata nella legge delega,

di disciplinare dettagliatamente il termine di efficacia del sequestro; “ma nel

trasferire detto termine nella disciplina delegata, si è finito, purtroppo, con il

determinare un travisamento.

Infatti mentre il legislatore delegante si era limitato a specificare che, allo spirare del

termine, si sarebbe dovuto produrre solo l’effetto della perdita di efficacia del

sequestro, il testo dell’art. 24 è inspiegabilmente modulato nel senso che solo entro il

termine in oggetto si potrebbe emettere il decreto di confisca”.

Dunque il documento, elaborato dall’ateneo palermitano, per quel che concerne

limitatamente la proposta ora esaminata, mette in risalto un eccesso di delega in cui è

incorso il legislatore delegato.

Si contesta, allora, la scelta legislativa della previsione di un termine che, siffatto,

contrasta con le esigenze di approfondimento connesse alla ricostruzione di ingenti

patrimoni spesso caratterizzati da meccanismi di mimetizzazione finanziaria.

Si ritiene infatti che “la scelta legislativa non appare condivisibile per le gravissime

ricadute, in punto di accelerazione del procedimento, al solo fine di evitare la

scadenza del termine, inducendo il Giudice ad assumere comunque una decisione,

anche sulla base di accertamenti sommari che contrastano con la natura stessa del

procedimento di prevenzione; d’altra parte non sfugge che il termine di rappresenta

                                                            83 Tale proposta tenta di modificare l’attuale formulazione dell’art.24 allo scopo di riportare l’attenzione non sul termine entro il quale deve essere emanato il provvedimento di confisca, bensì su quello di efficacia del sequestro. Di fatto si legge nel proposto modificato art. 24 che: “Il sequestro perde di efficacia se la confisca non viene disposta entro un anno e sei mesi dalla data di immissione in possesso dei beni da parte dell’amministratore giudiziario. (…).”

45  

obiettivamente un incentivo al ricorso a pratiche dilatorie da parte del proposto con

l’obiettivo della perdita di efficacia della misura patrimoniale”.84

A ben vedere, infatti, anche la Corte Costituzionale, approfondendo altro profilo,

sottolineò come la confisca fosse caratterizzata da tecniche di approfondimento volte

alla ricostruzione di enormi patrimoni.

La Corte, escludeva, per esempio, già la possibilità di subordinare la confisca alla

durata, addirittura, della misura personale, in quanto “del tutto diversi sono i criteri di

commisurazione della durata della sorveglianza speciale rispetto ai profili implicati

dalle indagini patrimoniali. Gli accertamenti si muovono difatti su piani diversi,

come diversi sono i presupposti sostanziali da appurare e da verificare per poter

addivenire alle misure”.85

C’è chi propende, addirittura, per l’illegittimità costituzionale della norma prevista

dall’art. 24 del T.u. delle leggi antimafia.

Tale indirizzo sarebbe orientato dalla considerazione di partenza per la quale, la

precedente disciplina legislativa (art. 2ter della legge 575/1965) prevedeva

ugualmente tale termine di durata del sequestro, ma la giurisprudenza si era assestata

su interpretazioni restrittive, circoscrivendo il campo di applicazione di tale norma,

all’ipotesi marginale del sequestro eseguito successivamente all’applicazione di

misura di prevenzione personale.

Chiarissima, su tale punto, la Cassazione che infatti afferma che “il termine annuale,

eventualmente prorogabile di un altro anno, previsto dal citato art. 2ter, comma 3 e

decorrente dal provvedimento di sequestro, riguarda, infatti, esclusivamente il caso in

cui il provvedimento di confisca sia emanato “successivamente”, e cioè dopo la

applicazione della misura personale, e la conseguente perenzione della misura allo

scadere del termine è subordinata a tale condizione”.86

Con l’ingresso della nuova normativa del 2011, tale termine è stato esteso a tutte le

ipotesi di sequestro con la conseguente efficacia preclusiva e la decadenza prevista

dalla norma in esame.

                                                            84 A. CISTERA et al., Commento al Codice Antimafia, MAGGIOLI, 2011, p.67 85 Corte costituzionale, 28 dicembre 1993, n. 465 86 Cass., Sez. II, 2 marzo 2006, n. 7616

46  

Cosi, se i primi interpreti, delle norme del T.u. delle leggi in materia di criminalità

mafiosa, hanno ritenuto che il nuovo sistema introducesse un termine per

l’emanazione del provvedimento di confisca, scaduto il quale al giudice sarebbe

preclusa la possibilità di pronunciare il provvedimento definitivo della confisca, altri

propendono per una definizione di incostituzionalità della norma causata da una

conversione della vicenda cautelare in questione di merito, in lampante violazione

della legge delega 136/2010 con la quale il legislatore delegante affidava al Governo

la redazione del T.u. delle leggi antimafia.87

Ma questo è soltanto un esempio delle criticità che affliggono il testo del decreto

legislativo.

Non va dimenticato, infatti, che le nuove disposizioni normative riguardano anche la

fase dei giudizi di impugnazione, con l’introduzione di un nuovo statuto dell’udienza

camerale nel giudizio di appello, prevedendo termini perentori di durata del giudizio

d’innanzi alle sezioni di Corte d’Appello.

Il Codice Antimafia, inoltre, introduce il principio di pubblicità dell’udienza

camerale.

Aspetto, questo, più volte censurato da dottrina e giurisprudenza specialmente in

riferimento all’asserita incostituzionalità di previsioni normative che non dessero la

possibilità, alle parti, di chiedere la celebrazione pubblica dell’udienza.

La novella del 2011, quindi, anche in seguito agli interventi della Corte EDU e della

Corte Costituzionale, ha espressamente previsto il diritto di pubblicità dell’udienza

camerale, sia nei giudizi di primo grado d’innanzi al Tribunale collegiale, sia in                                                             87 Per una più completa definizione della prospettiva problematica, dalla quale prende le mosse il ragionamento, si rinvia a, P. GRILLO, Durata massima del sequestro di prevenzione e provvedimento di confisca dopo il d.lgs. n. 159 del 2011, http://www.penalecontemporaneo.it/materia/6-/-/-/1388-durata_massima_del_sequestro_di_prevenzione_e_provvedimento_di_confisca_dopo_il_d_lgs__n__159_del_2011/#, il quale afferma che: “L'estensione dell'efficacia caducatoria del mancato rispetto del termine a tutte le altre ipotesi procedimentali (esemplificando: proposte per contestuale applicazione di misura di prevenzione personale e patrimoniale; proposte di applicazione di misura patrimoniale disgiunta da quella personale ) ed al procedimento di appello, in quanto non ricognitiva della precedente disciplina, può ritenersi conforme alla delega solamente se supera anche il vaglio della verifica riguardante la direttiva n. 8.2. Ed è evidente che il delegante aveva in mente una disciplina diversa da quella precedente; infatti, con inequivocabile terminologia, faceva attenzione a limitare gli effetti del mancato rispetto del termine, predisponendo una sanzione di inefficacia della misura cautelare,ininfluente sul merito. Ciò aveva un senso: attenuando la drastica sanzione prevista dalla disciplina precedente, il legislatore intendeva estenderne la portata a tutti i procedimenti. Era, però, chiaro che una norma conforme alla delega non poteva trasformare, se non violando la delega stessa, una vicenda cautelare in una questione di merito, di presupposti della confisca”.

47  

quelli nel grado d’appello d’innanzi alle sezioni di Corte d’Appello, quando il

prevenuto, o il suo difensore, ne faccia espressamente richiesta.

Il d.lgs. 159/2011, con il quale viene approvato il c.d. Codice Antimafia, è anche

foriero di importanti abrogazioni di disposizioni precedenti.

L’art. 120 del Codice, infatti, abroga sia la legge 27 dicembre 1956, n. 1423, che la

legge 31 maggio 1965, n. 575.

Un ulteriore dato che conferma quanto gli operatori del diritto hanno affermato

sull’opportunità di definire tale testo normativo, piuttosto che un Codice Antimafia,

un Codice delle misure di prevenzione.

48  

CAPITOLO II

FONDAMENTO E NATURA GIURIDICA DELLE MISURE DI

PREVENZIONE

Premessa

Va preliminarmente notato che tra le misure di prevenzione personali e quelle

patrimoniali v’è un legame dal punto di vista valutativo.

Sebbene la legge 125/2008 ha introdotto il principio di applicazione disgiunta,88 in

virtù del quale la misura di prevenzione patrimoniale può essere irrogata

indipendentemente dall’applicazione della misura di prevenzione personale, non va

dimenticato che la valutazione della pericolosità sociale, che è alla base per qualsiasi

richiesta di applicazione della misura personale ex lege 1423/1956, è indispensabile

anche in riferimento all’applicazione delle misure patrimoniali.

Il Tribunale, dunque, dovrà necessariamente valutare la sussistenza di quei requisiti

di ammissibilità richiesti dalla legge perché possa essere comminata una misura di

prevenzione personale.

Se tali requisiti sussistono, ma per alcune ipotesi, anch’esse previste dalla legge, non

si è potuto procedere all’applicazione di una misura personale, questo non preclude

l’applicazione della misura patrimoniale, sempre che sussistano i relativi presupposti

e previo accertamento della sussistenza della pericolosità sociale del soggetto

proposto.

Questi profili sono inoltre confermati dalla giurisprudenza di merito, nella

interpretazione sistematica delle norme, in virtù della quale si fa, infatti, chiaro

riferimento al collegamento, a livello valutativo, tra misure personali e

patrimoniali.89

                                                            88 Cosi statuisce l’art. 2bis, comma 6bis, della L. 575/1965: Le misure di prevenzione personali e patrimoniali possono essere richieste e applicate disgiuntamente. Le misure patrimoniali possono essere disposte anche in caso di morte del soggetto proposto per la loro applicazione. Nel caso la morte sopraggiunga nel corso del procedimento esso prosegue nei confronti degli eredi o comunque degli aventi causa. 89 In particolare: Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc .18 maggio 2010, Reg. Gen. M.P. 198/98 e 21/05, Pres. Menditto, p. 24, dove nelle conclusioni del  

49  

Tale rilievo impone di sindacare la natura giuridica, e i conseguenti aspetti di

costituzionalità, delle misure di prevenzione personali al fine di garantire il

ragionamento logico, da censure che investendo le misure personali ricadano anche

su quelle patrimoniali, che sulla possibile sussistenza delle prime, in parte, si

fondano.

                                                                                                                                                                         Tribunale espressamente si afferma: “Ne consegue che in presenza dei relativi presupposti (di cui all’art 2-ter, commi 2 e 3) potranno applicarsi le misure patrimoniali (sequestro e confisca), anche indipendentemente dall’applicazione della misure personale, non solo nelle fattispecie legislativamente previste, ma in ogni ipotesi in cui, pur in presenza di persona pericolosa o che è stata pericolosa, non può farsi luogo alla misura personale ovvero questa non sia più in atto”. Ancora a p. 25 dello stesso provvedimento si legge: “si può affermare che le misure di prevenzione patrimoniali divengono strumento di ablazione in favore dello Stato dei beni frutto dell’attività illecita della persona pericolosa, pur se non può farsi luogo alla misura di prevenzione personale (o questa è cessata), sempre che i presupposti della misura personale – pericolosità del soggetto (anche se non più attuale) – e di quella patrimoniale (commi 2 e 3 dell’art. 2-ter) siano accertati”. Ancora: Tribunale Civile e Penale di Roma, Sezione per l’applicazione delle Misure di Prevenzione per la sicurezza e la pubblica moralità, cc. 5 dicembre 2005, Reg Gen. M.P. n. 134/2005, Pres. Taurisano, p. 22, dove nelle osservazioni della Corte si afferma: “la confisca, invero, è prevista nell’ambito dello specifico procedimento di prevenzione: ne segue, in linea di massima, le regole; ha per presupposto la pericolosità del soggetto-destinatario di misure di prevenzione vere e proprie, ancorchè non eseguite o non eseguibili; è diretta, per altro, a differenza della misura di prevenzione personale a sottrarre i beni, in via definitiva alla disponibilità dell’indiziato di appartenere ad associazione di tipo mafioso: ancorchè tale risultato sia conseguibile all’esito definitivo della prevista procedura. Su questi presupposti, pertanto, è esatto che non si può prescindere dalla valutazione obiettiva di una concreta pericolosità”. Ancora: Tribunale Ordinario di Roma, Sezione Misure di Prevenzione, cc. 9 aprile 2009, dep. 8 giugno 2009, Reg. Gen. M.P. n. 293/2008, Reg. Dec., 164/09, Pres. Lo Surdo, Est. Casa, p. 5, dove nelle osservazioni del Collegio si legge: L’esito positivo del giudizio di qualificata probabilità dell’appartenenza di Zappia all’associazione di tipo mafioso, facente capo ai Rizzuto, consente al Colleggio di poter passare, pacificamente e tranquillamente, all’esame delle richieste di natura patrimoniale avanzate dal P.M.”

50  

1. Le ratio delle misure di prevenzione in generale

È innegabile che la norma penale sia connotata da una dimensione garantistica. La

dimostrazione di questa affermazione risiede nella considerazione che la protezione

penale, alla quale sono assoggettati i beni e gli interessi giuridici meritevoli di tutela,

implica logicamente che il legislatore si faccia carico di approntare anche quei rimedi

idonei ad evitare l’offesa di questi beni ed interessi.

Secondo Pietro Nuvolone, infatti, “questo fine viene perseguito sia attraverso la

norma-comando sia attraverso la norma-garanzia stricto sensu: attraverso la norma-

comando nella prospettiva dell’intimidazione, e quindi della prevenzione generale;

attraverso la norma-garanzia nella prospettiva della prevenzione speciale. Il concetto

di prevenzione è , quindi, correlativo a quello di diritto penale”.90

Così lo scopo della prevenzione è quello di integrare il sistema penale nella

considerazione che, la protezione dei beni giuridici meritevoli di tutela, non può

essere delegata esclusivamente alla funzione repressiva della pena che svolge pure

una funzione deterrente, specialmente però in riferimento alla commissione di nuovi

reati.

Ed è ancora Nuvolone che nella relazione introduttiva al IX Convegno di studi “E.

De Nicola” svoltosi ad Alghero nel 1974, afferma che “prevenire il reato è un

compito imprescindibile dello Stato che si pone come un prius rispetto alla potestà

punitiva”.

In effetti questa impostazione teorica può essere considerata come fondamento di

tutte le misure di sicurezza, confermata poi anche dagli orientamenti della Corte

Costituzionale che, definisce quell’esigenza di sicurezza come “situazione nella

quale sia assicurato ai cittadini, per quanto è possibile, il pacifico esercizio di quei

diritti di libertà che la Costituzione garantisce con tanta forza.

Sicurezza si ha quando il cittadino può svolgere la propria lecita attività senza essere

minacciato da offese alla propria personalità fisica e morale; è “l'ordinato vivere

civile , che è indubbiamente la meta di uno Stato di diritto, libero e democratico”. 91

La Consulta, infatti, ha ancora sostenuto che, proprio in riferimento alle norme

                                                            90 P. NUVOLONE, Misure di prevenzione e misure di sicurezza, in Enciclopedia del diritto, vol. XXVI, GIUFFRÈ, 1976, p. 632 91 Corte costituzionale, 14 giugno 1956, n. 2

51  

contenute nella legge 1423/56, le limitazioni apportate ad alcuni principi riconosciuti

dalla Costituzione, “sono informate al principio di prevenzione e di sicurezza sociale,

per il quale l'ordinato e pacifico svolgimento dei rapporti fra i cittadini deve essere

garantito, oltre che dal sistema di norme repressive dei fatti illeciti, anche da un

parallelo sistema di adeguate misure preventive contro il pericolo del loro verificarsi

nell'avvenire”.92

Tanto l’assetto della dottrina quanto quello giurisprudenziale è ulteriormente

confermato dalle norme della Costituzione Repubblicana.

L’art. 2 Cost., infatti, espressamente sancisce: “La Repubblica riconosce e garantisce

i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si

svolge la sia personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di

solidarietà politica, economica e sociale”.

Il successivo art. 3, comma 2 Cost. 93 richiama proprio quel compito della

Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale. Tale dato

normativo giustifica, di fatto, l’esigenza preventiva dello Stato.

Richiamando, infatti, “gli ostacoli di ordine economico e sociale”, la Costituzione

individua immediatamente quelle cause, che già nei secoli precedenti ai tempi

odierni, hanno connotato le forme più gravi di criminalità.

La dimensione sociale, dunque, è il punto di partenza per definire la materia

preventiva come argine a tutto quel complesso di devianze che ostacolano lo

sviluppo della personalità umana.

Le misure di prevenzione non, dunque, come norme del sospetto ma come rimedi

legislativi efficaci per la realizzazione delle finalità costituzionali dello Stato.

Ne si può negare che l’esigenza preventiva si giustifichi anche in virtù di quanto

disposto dell’art. 13 Cost. che “ammette, da un punto di vista generale, e non già solo

con riferimento a un processo penale in corso, che l’autorità giudiziaria possa

prendere provvedimenti restrittivi della libertà personale”.94

                                                            92 Corte costituzionale, 5 maggio 1959, n. 27 93 “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. 94 P. NUVOLONE, Misure di prevenzione cit., p. 634

52  

Dunque, stante il dettato costituzionale, in via di principio, la libertà personale è

inviolabile e tale diritto può essere derogato soltanto in virtù di un provvedimento

motivato dell’autorità giudiziaria, nei soli casi e modi previsti dalla legge. Inoltre,

l’art. 13 citato descrive un particolare potere dell’autorità di Pubblica Sicurezza

consistente nell’adottare provvedimenti restrittivi della libertà personale;

potere che trova il suo fondamento nella coesistenza di due requisiti costituzionali:

l’essere, il provvedimento restrittivo della libertà, giustificato da circostanze di

necessità e d’urgenza nei casi tassativamente previsti dalla legge;

l’essere il provvedimento restrittivo della libertà, adottato dall’autorità di P.S.,

convalidato, ex post, dall’autorità giudiziaria.

L’impianto costituzionale, dunque, mette in luce come la prevenzione sia un compito

endemico dell’ordinamento giuridico anche rispetto ad un diritto inviolabile, quale

quello della libertà personale, sottolineando, ancora una volta, come la sola azione

repressiva sia inadeguata a garantire quell’esigenza di sicurezza sociale che

costituisce una legittima pretesa di ciascun cittadino.

Proprio la norma dell’art. 13 Cost., dunque, prevede che la libertà è un diritto

inviolabile ma, nello stesso tempo, apre alla possibilità di limitazioni che siano

disposte con atto motivato dell’autorità giudiziaria, nei soli casi e modi

tassativamente indicati dalla legge.

La Corte costituzionale infatti ha confermato questa impostazione affermando che

“l’art 13 riconosce per ciò stesso la possibilità di tali restrizioni in via di principio”.95

Anche gli artt. 16 e 17 della Costituzione prevedono rispettivamente, che ogni

cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio

nazionale salvo le limitazioni previste dalla legge per motivi di sanità o di sicurezza

(art.16) e che le riunioni in pubblico possono essere vietata dall’autorità soltanto per

comprovati motivi di sicurezza (art.17).

Infine l’art. 25, comma 3 della Costituzione esplicitamente riconosce le misure di

sicurezza. Tutto questo manifesta chiaramente l’esigenza, propria dell’ordinamento

giuridico, di garantire la sicurezza pubblica dei cittadini per la salvaguardia degli

stessi e delle istituzioni democratiche dello Stato.

                                                            95 Sentenza n. 27/1959 cit. 

53  

Mediante le misure di sicurezza, espressamente previste dalla Costituzione, ma anche

mediante istituti giuridici che garantiscono tale fine, in considerazione di una

differenza strutturale propria delle misure di sicurezza che le rendono, rispetto a

quelle di prevenzione, forse meno efficaci dal punto di vista della soddisfazione di

quell’esigenza di sicurezza propria dell’ordinamento.

Ne si può tacere che il tema della sicurezza trovi residenza anche nell’ambito delle

norme internazionali.

L’articolo 5 della “Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e

delle libertà fondamentali”, è infatti rubricato: “Diritto alla libertà e alla sicurezza”.96

Anche la “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”, adottata dall’Assemblea

Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1984, parla di sicurezza sociale all’art.

22.97

Certo è da riconoscere che l’istituto in esame non ha un passato edificante dal punto

di vista degli odierni principi fondamentali dello Stato, sebbene la sua genesi sia

assai precedente alla nascita della nostra Costituzione Repubblicana.

Non si può infatti negare che lo strumento della prevenzione personale nasce come

mezzo mediante il quale operare una purificazione della società da quei soggetti

ritenuti, sulla base del sospetto, pericolosi.

Prova ne sia il dettato dell’art. 5 della “Legge Pica” che espressamente utilizza

l’espressione “persone sospette” come identificativo di una fattispecie legale astratta

alla cui stregua prevedere l’applicazione, nel caso di specie, della misura personale

del domicilio coatto.

La misura preventiva personale, dunque, si sviluppa a partire da una serie di

provvedimenti, quelli di polizia, aventi carattere repressivo e successivamente

mascherati come provvedimenti preventivi.

A dimostrazione di quanto affermato si può addurre il tema dei meccanismi di

applicazione delle cosiddette pene straordinarie in luogo di quelle ordinarie. “Il

presupposto (dell’applicazione N.d.A.) consisteva nell’esistenza di indizi di

                                                            96 Cosi recita l’art. 5 della Convenzione Europea: “Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza”. 97 Così recita l’art. 22 della Dichiarazione Universale: “Ogni individuo, in quanto membro della società ha diritto alla sicurezza sociale”.

54  

colpevolezza che, se supportati dalla confessione dell’imputato, avrebbe portato alla

condanna di una pena grave (in genere la morte)”.98

Se però la confessione non fosse stata mai resa, anche in seguito agli innumerevoli

tentativi di tortura, non seguiva il proscioglimento dell’imputato ma, sulla base di un

giudizio probabilistico e, quindi, supportato dall’esistenza del sospetto di reità, si

sarebbe irrogata una pena meno grave come il bando o la detenzione.

Siamo dunque di fronte alle primordiali fonti della prevenzione penale, ma che

cominciano a mettere in luce alcuni profili critici: il sospetto e un fondamento

probatorio attenuato rispetto all’accertamento della colpevolezza, affrontati dalla

giurisprudenza della Consulta, nel tentativo di offrire un quadro costituzionalmente

accettabile delle norme che disciplinano la profilassi criminale.

2. Natura giuridica delle misure di prevenzione

2.1 La distinzione tra misure di prevenzione e sanzioni penali

Se storicamente le misure di prevenzione si sono connotate come previste da quel

sistema di “leggi del sospetto” che contrastano con i principi fondamentali dello

Stato di diritto, è inevitabile che tali rilievi, che affliggono la maggior parte della

dottrina, innanzitutto si riflettano sul piano del diritto penale.

Già nell’impostazione teorica pre-illuministica s’era avvertita l’esigenza di ancorare,

l’irrogazione di una sanzione penale, non solo al nesso di causalità tra

comportamento tenuto e l’evento realizzatosi ma anche in riferimento ad un

atteggiamento psicologico giuridicamente rimproverabile.

Tutto questo si amplifica con il consolidarsi dei principi propri dello Stato di diritto e

conseguentemente della funzione di garanzia della legge penale: si è puniti

esclusivamente sulla base di un comportamento che obiettivamente sia penalmente

rilevante.

Ed è tale una condotta che integri oggettivamente gli estremi di una fattispecie

incriminatrice prevista dalle norme penali.

                                                            98 D. PETRINI, in Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura, “Nuove forme di prevenzione della criminalità organizzata: gli strumenti di aggressione dei profitti di reato e le misure di prevenzione”, Frascati, Anno 1998, Numero 104, p. 13

55  

Siamo nell’ambito del “principio di tipicità” dell’azione penale in virtù del quale “il

legislatore, nel prevedere un reato, descriva, sulla base dell’esperienza comune, un

processo della realtà, in modo tale che, quando esso in concreto si verifichi, sai

agevolmente riconoscibile la sua corrispondenza all’azione vietata dalla legge sotto

la minaccia della pena; così da scongiurare fin dove è possibile l’arbitrio del giudice

e dell’interprete”.99

Questa impostazione della dottrina, pacifica per quanto attiene al profilo penalistico,

pone, invece, criticità se rapportato al sistema della prevenzione in riferimento al

quale, secondo le posizioni maggioritarie della dottrina100 sarebbe costituzionalmente

illegittimo per violazione dei principi costituzionali della tassatività e tipicità della

fattispecie legale.

Dunque le misure di prevenzione si inseriscono nel sistema penale in funzione

teleologica. Le finalità, infatti, consistono nell’impedire la commissione del primo

delitto ovvero, nel caso delle misure di sicurezza, impedire la recidiva.

                                                            99 C. FIORE, Diritto Penale. Parte Generale, volume primo, UTET, 2003, p. 71 100 Sul punto cfr. P.V. MOLINARI – U. PAPADIA, Le misure di prevenzione nella legge fondamentale, nelle leggi antimafia e nella legge antiviolenza nelle manifestazioni sportive, GIUFFRÈ, 2002, pp. 14 ss. che descrive le principali posizioni critiche della dottrina, che sebbene superate grazie all’entrata in vigore della legge 327/1988 gli autori ritengono che vadano comunque riferite per quella parte delle posizioni che restano ancora valide. In particolare si prenda in considerazione la posizione di Mortati che pur ritenendo le misure di prevenzione consentite dall’art 13 della Cost. sostiene il contrasto della normativa allora in vigore con l’impianto costituzionale per l’eccessiva discrezionalità nella determinazione dei soggetti. Si rileva poi che le critiche più vivaci possono essere ritrovate negli atti del IX Congresso di studi “Enrico De Nicola”, organizzato dal Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, tenutosi in Alghero dal 26 al 28 aprile 1974 sul tema delle misure di prevenzione. Il riferimento è alla posizione espressa da Nuvolone che pur sostenendo la doverosità costituzionale della prevenzione del reato tuttavia ha rilevato che l’articolo 1 della legge 1423/1956 prevede una serie di fattispecie che si riferiscono a comportamenti che di per se costituiscono reati ma difficilmente accertabili per l’impossibilità di raggiungere la prova piena. Dunque anche Nuvolone, in questa circostanza, rileva il contrasto con il principio di legalità e tassatività. Esprime ancora una posizione critica Mantovani, sebbene gli autori specificano che è precedente all’approvazione della legge 327/1988, che ha affermato che la prevenzione ante delictum è costituzionalmente legittima, anzi doverosa e comunque praticamente necessaria, in quanto di fronte alle moderne associazioni criminali, lo Stato non può privarsi, a priori, della possibilità di ricorrere alle misure di prevenzione, anche se restrittive della libertà, “sicché il problema si sposta sulla individuazione di misure che siano scientificamente e tecnicamente adeguate e costituzionalmente corrette”, evitando che il diritto della prevenzione venga a costituire “un diritto punitivo di sospetto”. Per Fiandaca, che avverte che anche tra le tesi che propendono per la costituzionalità del sistema preventivo, tuttavia sottolineano quantomeno la problematicità della legittimazione teorico-costituzionale delle misure personali, rileva inoltre che il difetto di legittimità costituzionale non sarebbe, addirittura, neanche controbilanciato da una verificata idoneità delle misure preventive a raggiungere le finalità prospettate dallo stesso sistema preventivo. Non è da meno Petrini, autore del testo “La prevenzione inutile. Illegittimità delle misure di praeter delictum” (Jovine, 1996). Già dal titolo della sua opera palesa la contrarietà ad un sistema di misure di prevenzione.

56  

Ma non possono definirsi, le misure di prevenzione, come aventi natura penale in

considerazione del fatto che tali misure non si applicano sulla base della correlazione

“violazione del comando – responsabilità – castigo”.

Infatti l’applicazione della sanzione penale segue l’accertamento giurisdizionale

della realizzazione del fatto tipico, previsto dalla norma penale come reato,

l’irrogazione di una misura di prevenzione si baserebbe, invece, sull’accertamento di

“sintomi di un pericolo e come tali, essendo riferibili al caso concreto, difficilmente

possono essere indicati, se non genericamente, in una norma legislativa”.101

Dunque la distinzione tra pene e misure di prevenzione concerne proprio il carattere

di obiettiva conoscibilità degli elementi che sono valutati dal giudice per la

conseguente applicazione degli istituti.

Se, da un lato, l’applicazione della sanzione penale è garantita dalla previsione di un

sistema che si inserisce nel quadro costituzionale, in virtù proprio di quella

predeterminazione legale delle fattispecie e dei caratteri che connotano l’azione

criminosa, nel caso delle misure di prevenzione questa predeterminazione legale

sembra venir meno.

La conseguenza di questa impostazione teorica porta a ritenere la sussistente

violazione del principio di stretta legalità102 previsto dall’art. 25 Cost. da parte del

sistema di misure di prevenzione. Se si considera poi che tale principio si sostanzia,

nella regola di tassatività e determinatezza della fattispecie penale,103 queste ultime

sarebbero, dunque, in contrasto innanzitutto con tale regola.

Proprio, però, in riferimento a questo aspetto, va segnalato che il Nuvolone pone il

problema della certezza del diritto, risolvendolo attraverso il rilievo della diversità di                                                             101 P. NUVOLONE, Misure di prevenzione cit., p. 633 102 Il principio di legalità trae origine direttamente dal pensiero giuridico di matrice illuministica. Il primo testo della storia che prevede tale principio è la “Magna Charta Libertatum” inglese che all’articolo 39 sanciva che: “Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, multato, messo fuori legge, esiliato o molestato in alcun modo, né noi useremo la forza nei suoi confronti o demanderemo di farlo ad altre persone, se non “per legale iudicium parium suorum vel per legem terrae”. A questa antica formula è oggi riconosciuto essenzialmente valore civile ma molto più vicina all’essenza giuridica dell’attuale principio di legalità, “nullum crimen, nulla poena sine lege” le enunciazioni delle Dichiarazioni dei diritti di Filadelfia del 1774 a seguito del primo “Congresso Continentale” in piena guerra di indipendenza americana, nelle Costituzioni di singoli stati Nordamericani e nelle Dichiarazioni dei diritti emanate al tempo della Rivoluzione Francese. 103 Secondo la dottrina penalistica, infatti, la portata del principio di legalità si sostanzia nell’enunciazione di quattro regole generali: 1) la riserva di legge; 2) la regola della tassatività e determinatezza della fattispecie legale; 3) il divieto di interpretazione analogica; 4) l’irretroattività della legge penale.

57  

struttura che inevitabilmente connota il contenuto stesso del principio or ora

richiamato.

L’insigne autore, infatti, sostiene che proprio nell’ambito delle misure di

prevenzione, la certezza sia tale in riferimento “alle premesse legislative generali, di

criteri di giudizio validi per l’ordinamento giuridico, di finalità che l’ordinamento

giuridico riconosce.”104

Ed è ancora Nuvolone ha sottolineare come la certezza del diritto, in questo caso,

“sia la certezza nelle premesse, negli indici e nelle garanzia di univocità di un

giudizio finalisticamente orientato a collegare il presente al futuribile nell’ambito di

un’evoluzione criminologicamente rilevante”.105

Si evidenzia, dunque, che anche il sistema preventivo è caratterizzato da misure che

sono espressamente previste dalla legge e che si applicano nei casi da questa previsti,

sulla base di situazioni soggettive di pericolosità i cui indici sono tassativamente

indicati dalla legge, in conseguenza di un procedimento giurisdizionale.

Anche le pronunce della Corte costituzionale sono confermative di quest’ultima

impostazione teorica.

Per quanto attiene ciò che si riferisce alla giurisdizione, non si può trascendere da

quanto autorevolmente sostenuto dai giudici costituzionali allorché sentenziarono

sulla questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Napoli con ordinanza emessa

il 12 luglio 1971.

La questione riguardava, infatti, la presunta incostituzionalità dell’articolo 11 della

legge 1423/56 che prevede la interruzione del termine di decorrenza della misure

preventiva personale della sorveglianza speciale nel caso in cui il soggetto sottoposto

alla misura commetta un reato e riporti successivamente condanna.

Termine che ricomincia a decorrere dal giorno nel quale è scontata la pena.

Secondo l’interpretazione sostenuta dal giudice a quo, tale norma sarebbe stata in

contrasto con la Costituzione in considerazione del fatto che si sarebbe tradotta in

un’automatica reiterazione della misura originariamente inflitta come conseguenza

immediata della condanna, indipendentemente da una pronuncia del giudice di

merito.

                                                            104 P. NUVOLONE, Misure di prevenzione cit., p. 633 105 Ibidem

58  

La questione sollevata è stato il pretesto perché la Consulta affrontasse il tema della

comparazione tra misure di prevenzione e sanzioni penali dal punto di vista

processuale e procedimentale.

Si legge, infatti, nella relativa sentenza che “se pure la formula del secondo comma

(dell’art. 11 N.d.A.) della legge (1423/56 N.d.A.) sancisce l'automatismo della

reiterazione della sorveglianza, l'accertamento dell'esistenza delle condizioni perché

tale meccanismo possa e debba funzionare è indubbiamente di stretta competenza del

magistrato”106.

Proseguendo nella lettura della decisione, inoltre, la Consulta afferma che “i criteri

generali, regolanti l'applicazione delle misure di prevenzione, segnatamente

desumibili dal complesso delle disposizioni di cui agli artt. da 1 a 4 della legge in

esame (1423/56 N.d.A.), sono conformi al rispetto del citato principio costituzionale

(si fa riferimento all’art 13 della Cost. che pretende che gli atti limitativi della

libertà personale siano adottati, con motivazione dall’autorità giudiziaria N.d.A.).

Invero l'adozione delle misure stesse è affidata all'autorità giudiziaria, attraverso un

procedimento in cui operano i principi fondamentali del processo penale, dalla

contestazione dell'accusa, all'esercizio del diritto di difesa, al doppio grado di

giurisdizione, al divieto di “reformatio in peius” in difetto di impugnazione del

pubblico ministero”107.

Fermo restando il principio dell’autonomia tra processo penale e procedimento per

l’applicazione delle misure di prevenzione, con questa decisione la Corte

Costituzionale opera un ragionamento comparativo al fine di ritenere garantiti quei

diritti fondamentali che come nel processo penale, anche nell’ambito del

procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione meritano garanzia e

tutela.

Con altra importante e successiva decisione108 la Consulta ribadisce che la legittimità

costituzionale del sistema di misure di prevenzione, essendo queste limitative, a

                                                            106 Corte costituzionale, 9 gennaio 1974, n. 3 107 Corte costituzionale, 9 gennaio 1974, n. 3 108 Il riferimento è alla sentenza 22 dicembre 1980, n 177 con la quale la Corte Costituzionale segna un importante indirizzo interpretativo prevedendo quindi l’esigenza di un intervento del legislatore volto a modificare le categorie di soggetti alle quali si possono applicare misure preventive, previste dall’art.1 della legge 1423/1956.  

59  

diversi gradi di intensità, della libertà personale, discenda necessariamente tanto dal

rispetto del principio di legalità, quanto dalle garanzie proprie della giurisdizione.

Questo implica, secondo la Corte, che l’applicazione delle misure di prevenzione,

sebbene ancorate ad un giudizio prognostico, ha come presupposto necessario le

fattispecie di pericolosità descritte tassativamente dalla legge.

Non si può quindi dubitare che anche nell’ambito del procedimento di prevenzione,

la prognosi di pericolosità poggi su presupposti di fatto previsti dalla legge e dunque

suscettibili di accertamento giurisdizionale.

Il problema principale risulta essere, allora, quello relativo al sufficiente o

insufficiente grado di determinatezza della descrizione degli indici di pericolosità, ad

opera del legislatore.

Da qui la Corte chiarisce che, ai fini della determinatezza della fattispecie legale, non

è necessario che la previsione normativa abbia ad oggetto una singola condotta

ovvero una pluralità di condotte.

Ciò che risulta rilevante è “il comportamento o contegno che un individuo ha nei

confronti del mondo esterno, come risulta - specificano i giudici costituzionali - dalle

sue azioni od omissioni”.

Tutto quanto espresso dalla Corte sembra, per altro, coerente con quanto detto in

decisioni precedenti.

Nel tentativo, infatti, di offrire una lettura costituzionale del sistema di prevenzione,

le decisioni della Consulta affrontano la natura stessa delle misure di prevenzione,

per quanto attiene ai profili di tassatività della fattispecie di prevenzione che,

                                                                                                                                                                         Modifiche che saranno poi apportate allorché fu approvata la legge 327/1988. Di fatto la Consulta, in questa decisione, ribadisce la legittimità costituzionale del sistema di misure di prevenzione, riconoscendo quindi l’esigenza che questo sia ancorato a quei principi fondamentali che connotano il sistema penale e in virtù di questo riconoscimento, però, sancisce la illegittimità costituzionale dell’art. 1 n. 3 della legge 1423/1956 nella parte in cui prevede che misure di prevenzione possono essere applicate a coloro che “ per le manifestazioni cui abbiano dato luogo, diano fondato motivo di ritenere che siano proclivi a delinquere”. Sulla definizione della proclività a delinquere infatti la Corte afferma: “La disposizione di legge in esame (a differenza ad esempio di quella di cui al n. 1 del medesimo art. 1), non descrive, infatti, né una o più condotte, né alcuna "manifestazione " cui riferire, senza mediazioni, un accertamento giudiziale. Quali "manifestazioni" vengano in rilievo è rimesso al giudice (e, prima di lui, al pubblico ministero ed alla autorità di polizia proponenti e segnalanti) già sul piano della definizione della fattispecie, prima che su quello dell'accertamento. I presupposti del giudizio di "proclività a delinquere " non hanno qui alcuna autonomia concettuale dal giudizio stesso. La formula legale non svolge, pertanto, la funzione di una autentica fattispecie, di individuazione, cioè, dei "casi " (come vogliono sia l'art. 13, che l'art. 25, terzo comma, Cost.), ma offre agli operatori uno spazio di incontrollabile discrezionalità.

60  

rapportata a quella penale peccherebbe di vaghezza, ponendo a rischio i diritti

fondamentali.

In virtù, quindi, della natura stessa delle misure di prevenzione, la Corte sottolinea

come “nella descrizione delle fattispecie il legislatore debba normalmente procedere

con criteri diversi da quelli con cui procede nella determinazione degli elementi

costitutivi di una figura criminosa, e possa far riferimento anche a elementi

presuntivi, corrispondenti però sempre a comportamenti obiettivamente

identificabili”109.

Ad ulteriore conferma di questo orientamento della Corte può essere addotto quanto

sancì nell’ordinanza 12 marzo 1976, n. 64.110

2.2 Misure di prevenzione e misure di sicurezza

La dottrina tradizionale distingue due tipologie di misure a carattere preventivo: le

misure post delictum e le misure ante delictum.

Sia le prime che le seconde hanno come obiettivo la finalità preventiva, ma i

presupposti della loro applicazione sono sostanzialmente diversi.

Per le misure post delictum intendiamo, infatti, le misure di sicurezza che sono

espressamente previste dalla Costituzione e disciplinate dagli articoli 199 a 240 del

codice penale.

I requisiti della loro applicazione consistono nella necessità di essere, le misure di

sicurezza, specificamente stabilite dalla legge e applicate nei casi da questa preveduti

(requisito oggettivo dell’applicazione) ma soprattutto, per quello che interessa nel

confronto sistemico con le misure di prevenzione, le misure di sicurezza “possono

essere applicate soltanto alle persone socialmente pericolose, che abbiano commesso

un fatto preveduto dalla legge come reato”.111

Il dettato del codice penale, dunque, inserisce un requisito di natura soggettiva che

non è richiesto per l’applicazione delle misure di prevenzione.

                                                            109 Corte costituzionale, 4 marzo 1964, n. 23 110 Con tale ordinanza la Corte costituzionale richiama la precedente sentenza n. 76 del 1970 con la quale “questa Corte ha, tra l'altro, dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 della citata legge n. 1423 del 1956, in riferimento a parecchie norme della Costituzione, tra cui gli artt. 13, 16 e 25” 111 Art. 202 c.p.

61  

Le misure di sicurezza tendono ad impedire che l’autore di un reato, ritenuto

pericoloso sulla base di un giudizio probabilistico, possa commettere nuovi reati.

A tale proposito l’art. 203 c.p.112 definisce la nozione di pericolosità, condizione

prevista dal precedente art. 202 c.p.

Dunque, la commissione di un reato è condizione di applicabilità delle misure di

sicurezza ma, da questa, prescinde totalmente l’applicazione delle misure di

prevenzione.

Quest’ultime, previste essenzialmente dalla legge n. 1423/1956 e dalla legge n.

575/1965 e successive integrazioni e modificazioni, si applicano a soggetti che sulla

base di fatti sono ritenuti pericolosi o indiziati di appartenere ad associazioni

mafiose, dunque ignorando il requisito della preventiva commissione di un reato.

Ciò che dunque accumuna i due istituti giuridici è il requisito della pericolosità del

soggetto.

Caratteristica che però viene estrapolata mediante criteri valutativi diversi ma che

non hanno rappresentato, almeno inizialmente, un ostacolo per tentare la strada della

comparazione giuridica tra misure di sicurezza e misure di prevenzione, cercando di

estendere a quest’ultime la copertura costituzionale, espressamente prevista per le

misure di sicurezza, dell’art. 25 della Costituzione.

Confermativa di questa tendenza la pronuncia113 della Consulta, che fonda la ratio

delle misure di prevenzione, con la quale si considera che, oltre al requisito della

pericolosità sociale sulla quale si fonda tanto la misura di sicurezza quanto quella di

prevenzione, anche le misure previste dalla Costituzione in qualche modo

prescinderebbero dal reato in considerazione del fatto che la pena è già stata irrogata

                                                            112 Cosi recita l’articolo 203 c.p. : “Agli effetti della legge penale, è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile (96-97) o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell’articolo precedente, quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati. La qualità della persona socialmente pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell’articolo 133.” 113 Sentenza n. 27/1959 cit. : “É ben vero che le misure di sicurezza in senso stretto si applicano dopo che un fatto preveduto dalla legge come reato sia stato commesso (art. 202 Cod. pen.), e quindi per una pericolosità più concretamente manifestatasi; ma poiché le misure di sicurezza intervengono o successivamente all'espiazione della pena, e cioè quando il reo ha già per il reato commesso soddisfatto il suo debito verso la società, ovvero (a parte le ipotesi di cui agli artt. 49 e 115 Cod. pen.) in casi nei quali il fatto, pur essendo preveduto dalla legge come reato, non é punibile, bisogna dedurne che oggetto di tali misure rimane sempre quello comune a tutte le misure di prevenzione, cioè la pericolosità sociale del soggetto”.

62  

a causa della commissione di un precedente reato, sicché la misura di sicurezza

avrebbe finalità preventiva rispetto alla commissione di altri reati.

Una successiva decisione114 della Corte, poi, sottolinea la necessità di ritenere

operanti i principi del processo ordinario anche nell’ambito del processo di sicurezza

e dunque, la Corte, esclude che questi non debbano ritenersi validi anche per il

processo di prevenzione.

                                                            114 Il riferimento è alla sentenza 25/03/1975, n. 69, con la quale, la Corte, dapprima afferma che le misure di prevenzione “trovano causa, al pari di quelle di sicurezza, nella pericolosità sociale-criminale, si attuano attraverso la parziale interdizione sociale del soggetto e tendono al recupero sociale del medesimo all’ordinato vivere civile”. Constata, successivamente, che “nel procedimento di sicurezza debbono ritenersi operanti, per logica necessaria estensione, le parallele disposizioni dettate per quello ordinario, nei limiti in cui le disposizioni stesse risultino, con prudente interpretazione, compatibili con la peculiare struttura, con l'oggetto e con le finalità dello speciale giudizio per l'applicazione delle misure di sicurezza (si vedano anche la sent. n. 168 del 1972 e la sent. n. 110 del 1974). Questi principi non possono non valere anche nel processo di prevenzione per il quale, giova ricordare, a riprova, che è già stata ritenuta necessaria come già in quello di sicurezza l'assistenza del difensore (si veda sent. n. 76 del 1970)”.

63  

3. Le categorie della pericolosità sociale tra codice penale e legge della

prevenzione.

Un confronto, tra misure di sicurezza e misure di prevenzione, è possibile partendo

anche dalla descrizione delle categorie della pericolosità sociale prevista dal codice

penale e dalla legge n. 1423/1956.

Il codice penale identifica tre specie di categorie della pericolosità:115 il delinquente

abituale, quello professionale ed infine il delinquente per tendenza.

Tali categorie criminogene si basano sul comportamento del reo che è

sostanzialmente recidivo.

Ne deriva, come immediata conseguenze, che questa parte del sistema special-

preventivo, nel quale le misure di sicurezza pure si inscrivono, rispetti il principio di

legalità costituzionalmente garantito, individuando fattispecie bene determinate in

base alle quali le misure di sicurezza sono irrogate dall’autorità giurisdizionale.

Fattispecie che devono la loro tipizzazione al fatto che il legislatore le ha ancorate

alla precedente commissione di un reato da parte del soggetto destinatario della

misura.

Sebbene, dunque, le misure di prevenzione trascendano completamente dalla

valutazione della previa commissione del reato, il sistema preventivo prevede

comunque una tipizzazione della pericolosità sociale.

La legge fondamentale, infatti, così come risulta modificata dalla legge n. 327/1988,

riporta tre categorie di soggetti che possono essere sottoposti all’applicazione delle

misure di prevenzione116.

Dalla lettura delle norme della legge fondamentale, risulta quindi che è persona

pericolosa quella che, sulla base di un giudizio prognostico e rivolto al futuro,

probabilmente commetterà un fatto previsto dalla legge come reato contro la

sicurezza e la moralità pubblica.

La definizione, giustamente, ampia dei beni giuridici meritevoli di tutela, nasce

dall’esigenza di non poter, se non in modo arbitrario e ingiustificato, ridurre il

concetto di sicurezza, a baluardo della sola incolumità fisica.

                                                            115 Gli artt. 103, 105 e 108 c.p. sono rispettivamente rubricati: “Abitualità ritenuta dal giudice”; “Professionalità nel reato”; “Tendenza a delinquere”. 116 Art.1 della legge 1423/1956

64  

Se è vero, infatti, che la Costituzione “riconosce e garantisce i diritti inviolabili

dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua

personalità”117, allora bisogna attribuire al termine sicurezza “il significato di

situazione nella quale sia assicurato ai cittadini, per quanto è possibile, il pacifico

esercizio di quei diritti di libertà che la Costituzione garantisce con tanta forza.

Sicurezza si ha quando il cittadino può svolgere la propria lecita attività senza essere

minacciato da offese alla propria personalità fisica e morale;

è “l'ordinato vivere civile , che è indubbiamente la meta di uno Stato di diritto, libero

e democratico”.118

Ecco emergere i connotati della cosiddetta “pericolosità sociale comune”.

Stando, infatti, cosi le cose, è chiaro che risulta pericoloso colui che, con il suo agire,

si preveda che possa mettere a repentaglio quei beni giuridici meritevoli di tutela

secondo le definizioni del legislatore.

Coloro, quindi, che “sono pericolosi per la sicurezza pubblica o pubblica moralità”

sono soggetti ai quali possono essere applicate le misure di prevenzione personale.

Anche in rispetto di quel dettato costituzionale che vuole “la libertà di movimento”

un diritto fondamentale soggetto a restrizioni “solo per motivi di sanità o

sicurezza”119

Così, la previsione concerne sia la commissione di fatti-reato, che la commissione di

azioni che violino la libertà sessuale, al pudore sessuale e all’onore, che si concretino

in azioni contrarie alla sicurezza e alla sanità pubblica.

Ne consegue che la “pericolosità sociale” delle misure di prevenzione si ricava da

un’analisi complessiva che investe da un lato la sfera della semplice immoralità,

dall’altro la predisposizione al delitto e la conduzione di una presunta vita delittuosa.

Il Tribunale, quindi, è chiamato ad esaminare la categoria dell’antisocialità nel suo

complesso sulla base di elementi sintomatici o rivelatori della pericolosità che sono

necessariamente precedenti al momento della valutazione ma che consentono

all’autorità giudiziaria di giustificare la necessità di un particolare controllo da parte

dell’autorità di pubblica sicurezza.

                                                            117 Art. 2 Cost. 118 Corte costituzionale, 14 giugno 1956, n. 2 119 Art. 16 Cost.

65  

Emerge, dunque, tutta la difficoltà di definire i limiti costituzionali entro cui inserire

le misure di prevenzione perché sfuggano all’obiezione di difetto di legalità e

tassatività della previsione legislativa.

In relazione a tali principi, infatti, dapprima Pietro Nuvolone afferma la necessità di

considerare la certezza del diritto in riferimento alle premesse legislative generali,

considerando anche le finalità che l’ordinamento giuridico riconosce (retro 2.1).

Per Nuvolone, allora, le misure di prevenzione non hanno come presupposto la

certezza giuridica integrale (in presenza della quale, evidentemente, il giudice

sarebbe costretto all’applicazione della pena e non della misura preventiva), ma si

riferiscono ad una certezza giuridica iniziale, sviluppando poi una previsione

futuristica.

Quest’ultima è il luogo dove far valere appieno il ragionamento della costituzionalità

delle misure di prevenzione personali.

Tale ambito è individuato dalle modifiche introdotte dalla legge del 1988

specialmente rispetto a quelle norme che hanno innalzato il livello garantistico della

previsione normativa, prevedendo, che la pericolosità sociale, di cui all’art. 1 della

legge del 1956, sia ritenuta esistente, ai fini dell’applicazione delle misure di

prevenzione, sulla base di elementi di fatto.

L’espressione in esame, che certamente allontana quelle fattispecie di mero sospetto

così duramente criticate dalla dottrina, è stata oggetto di critica inversa nella misura

in cui si consideri che, l’introduzione della valutazione degli “elementi di fatto”, sia

stata bollata come mero indirizzo legislativo a carattere puramente teorico.

Questa parte della dottrina, infatti, sostiene che il rigoroso rispetto della tecnica

legislativa prevista dal nuovo articolo 1 della legge 1423/1956 costringerebbe il

giudice della prevenzione ad accertare cosi tanti elementi di fatto da rendere appunto

necessaria l’applicazione di una sanzione penale.

Come a dire che, o si realizzano le condizioni, garantiste, dell’applicazione della

pena, o altrimenti vi si rinuncia incorrendo, irrimediabilmente, nelle fattispecie di

mero sospetto chiudendo cosi un circolo vizioso che ad altro non potrebbe portare se

non ad una dichiarazione di incostituzionalità delle misure di prevenzione personali.

Contrario a tale impostazione teorica è Ettore Gallo, il quale afferma l’esistenza di

66  

una “zona grigia”, luogo in cui svolgere quel ragionamento giuridico intermedio tra

sospetto e accertamento della penale responsabilità.

Gallo, dunque, è sostenitore di un passaggio intermedio che, ne si può classificare

come atteggiamento puramente soggettivo e incontrollabile (sospetto), ne tanto meno

è possibile definirlo come idoneo al raggiungimento di un accertamento pieno che

convinca il giudice, in modo non arbitrario, della responsabilità del soggetto.

Tale passaggio intermedio consiste nella valutazione di circostanze indizianti che,

nonostante non siano, secondo le definizioni del legislatore, gravi, precise e

concordanti, e che congiuntamente alla valutazione della incertezza quasi pari a zero

della premessa maggiore del sillogismo indiziario, non consentano una pronuncia

sulla responsabilità, tuttavia, sono “circostanze di fatto, oggettive e controllabili, che,

incapaci di provare di per se stesse la commissione di un delitto, sono però sufficienti

a fondare ragionevolmente le opinioni concernenti le situazioni di cui ai nn. 1, 2 e 3

del nuovo art.1 della legge”.120

Dunque da un lato la pericolosità sociale, requisito soggettivo delle misure di

sicurezza, è tale di un soggetto quando è probabile che quest’ultimo, autore di un

precedente fatto previsto dalla legge come reato, commetta nuovi fatti preveduti dalla

legge come reati.

Dall’altra la pericolosità sociale, requisito soggettivo per l’applicazione delle misure

di prevenzione, è tale del prevenuto quando è probabile che quest’ultimo commetta

un fatto preveduto dalla legge come reato.

Ma tale giudizio prognostico si basa su elementi di fatto, la cui valutazione permette

al giudice della prevenzione di ritenere che il prevenuto sia pericoloso per la

sicurezza pubblica o per la pubblica moralità.

                                                            120 E. GALLO, voce: Misure di prevenzione, in Enciclopedia giuridica Treccani, vol. XXII, Roma, 1996, p. 7. nella quale Gallo espone la teoria del sillogismo indiziario che si basa su “una premessa maggiore che è un’affermazione di massima tratta dall’esperienza comune, questa come tale non può avere carattere di certezza. La premessa minore, invece, è rappresentata dalla circostanza indiziante, che deve essere rigorosamente accertata in fatto: e ciò perché se fosse dubbia l’illazione conseguente a due premesse dubbie non potrebbe che portare ad un risultato necessariamente dubbio. Ne consegue che il procedimento logico-indiziario, dev’essere ripudiato se non presenta nella massima tratta dall’esperienza comune (premessa maggiore) un margine di dubbio quanto più possibile vicino allo zero: e se le circostanze indizianti (premessa minore), rigorosamente provate in fatto, non sono cosi numerose e decisive da rendere il riferimento logico tra le due premesse (illazione) assolutamente inequivoco nel senso della responsabilità penale”.

67  

In quest’ultimo caso la pericolosità è intesa in senso più ampio, sebbene la legge

definisca comunque i limiti della valutazione di pericolosità, ancorandola alle

fattispecie previste dal richiamato art.1 della legge fondamentale.

Del resto autorevole dottrina conferma, per le misure di sicurezza, gli stessi aspetti,

eventualmente problematici, delle misure di prevenzione che sono accomunate

dall’ambito special-preventivo, sottolineando che “la misura di sicurezza si fonda su

una certezza giuridica di partenza sui dati indizianti e su un giudizio ipotetico sul

futuro”121.

Appare evidente l’importanza della previa valutazione dei cosiddetti requisiti

soggettivi di applicazione delle misure preventive.

Requisiti che rappresentano il cardine attorno al quale ruota il sistema della

prevenzione personale di cui va valutata, scrupolosamente, da parte dell’autorità

giudiziaria procedente, l’attualità.

Di chiara evidenza, allora, la garanzia che circonda l’applicazione della misura

preventiva personale.

Da un lato le puntuali definizioni del legislatore, per quanto concerne la descrizione

delle fattispecie criminogene integranti gli estremi della pericolosità sociale derivante

dall’appartenenza dei soggetti ad una delle categorie previste dall’art.1 della legge

1423/56; dall’altra l’obbligo, che incombe sull’autorità giudiziaria, di accertare

l’attualità della stessa.

Infatti, “ne consegue che non può applicarsi la misura di prevenzione personale se la

pericolosità sociale non è attuale, perciò idonea a giustificare un controllo da parte

degli organi della pubblica sicurezza: se la pericolosità non è attuale non vi è nulla da

prevenire e non occorre alcuno specifico controllo.

Il principio, riconosciuto dal legislatore (cfr. l’art. 7, comma 2 della legge numero

1423 del 1956, secondo cui la misura è revocata quando è cessata la causa che l’ha

determinata), è applicato dalla giurisprudenza che richiede l’imprescindibile

accertamento dell’attualità della pericolosità sociale quale presupposto

                                                            121 F. MANTOVANI, Diritto Penale, Parte Generale, CEDAM, 2009, p. 835

68  

dell’applicazione della misura, se pur con diverse modalità seconda delle categorie

soggettive interessate”.122

Tale impostazione è poi confermata dalla giurisprudenza di merito.123

Nell’analisi dei provvedimenti, pronunciati dalla Sezione per l’applicazione delle

misure di prevenzione del Tribunale di Napoli, si nota come il Collegio osserva che

preliminare all’applicazione di qualunque misura preventiva, tanto personale quanto

patrimoniale, è la valutazione della pericolosità sociale, attuale, del proposto.

Il Collegio, quindi, precisa che “qualunque sia l’ambito di estensione soggettivo –

infatti – (rispondente, comunque, ai criteri dell’art. 3 della Costituzione), il

presupposto imprescindibile per l’applicazione della misura personale è

rappresentato dalla pericolosità sociale della persona”.124

Contrariamente, i giudici della prevenzione, concludono affermando che in

mancanza di presupposti soggettivi che giustifichino l’applicazione di dette misure,

comunque erogate a danno del proposto, ne deve essere dichiarata la revoca cosi

come prevista dall’art. 7 della legge. 1423/1956.125

Addirittura, nell’ipotesi in cui venisse dichiarata la revoca dei provvedimenti

preventivi, la Suprema Corte di Cassazione ha addirittura previsto la irrilevanza

penale, con efficacia “ex tunc”, dei comportamenti del preposto che siano stati

contrari alle prescrizioni previste nel decreto del Tribunale.126

                                                            122 F. MENDITTO, Le misure di prevenzioni patrimoniali dopo le leggi 125/08 e 94/09: “standards probatori, motivazione del provvedimento, applicazione disgiunta della misura personale e profili di compatibilità costituzionale.” In Atti de “Incontro di studi organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura; Corso Rosario Livatino: “Il contrasto patrimoniale alla criminalità organizzata: indagini prove ed accertamento processuale”, Roma 7-9 marzo 2011 123 In particolare: Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 16 giugno 2009, Reg. Gen. M.P. n. 352/04 e 95/08 Pres. Est. Menditto; Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 15 giugno 2010, Reg. Gen. M.P. 150/02 e 30/04 Pres. Cozzi, Est. Menditto; Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 27 ottobre 2010, Reg. Gen. M.P. 132/02, Pres. Est. Menditto.                                                                           124 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 15 giugno 2010, Reg. Gen. M.P. 150/02 e 30/04, Pres. Cozzi, Est. Menditto p. 2 125 Cosi recita l’art. 7 L. 1423/1956: “Il provvedimento stesso, su istanza dell'interessato e sentita l'autorità di pubblica sicurezza che lo propose, può essere revocato o modificato dall'organo dal quale fu emanato, quando sia cessata o mutata la causa che lo ha determinato”. L’identica formulazione, oggi, è confluita all’interno dell’art. 11 del Codice delle leggi antimafia. 126 Cass. Pen., Sez I, n. 44601 del 1 dicembre 2008 , che espressamente sancisce: “La revoca, ex tunc, dalla misura di prevenzione, comporta, laddove il giudicabile deve rispondere della trasgressione delle relative prescrizioni, l'immediata declaratoria della insussistenza del fatto ai sensi dell'art. 129 c.p.p. in relazione all'art. 609 c.p.p., comma 2.  

69  

Per quanto concerne l’analisi dell’attualità della pericolosità sociale, la Sezione per

l’applicazione delle Misure di Prevenzione del Tribunale di Napoli afferma che

“l’attualità della pericolosità può essere desunta anche da fatti remoti purché siano

univoco indice della persistenza del comportamento antisociale;

ma quanto più tali elementi sono lontani nel tempo, rispetto al momento della

formulazione del giudizio, tanto più è doverosa e necessaria, in mancanza di ulteriori

comportamenti antidoverosi, la puntuale esplicitazione delle ragioni che fanno

ritenere che gli effetti di tali elementi incidano sulla valutazione della personalità del

soggetto in modo tale da farne dedurre l’attuale pericolosità”.127

In un altro provvedimento la Sezione sottolinea l’eventuale paradosso

dell’applicazione di una misura personale laddove mancasse l’attualità della

pericolosità.

Afferma infatti, la Sezione, che “se la pericolosità non è attuale non vi è nulla da

prevenire e non occorre alcuno specifico controllo”.128

La medesima impostazione è confermata dalla giurisprudenza di legittimità.

Nella lettura congiunta di due provvedimenti, infatti, si nota come la Corte di

Cassazione abbi inteso che “presupposto per l'applicazione di misure di prevenzione

è la pericolosità sociale, che deve avere il requisito dell'attualità, essendo evidente

che irrilevanti sarebbero le pregresse manifestazioni di pericolosità sociale ove non si

riscontrassero, al momento di applicazione della misura, quei sintomi rivelatori della

persistenza del soggetto in comportamenti antisociali che impongono una particolare

vigilanza”.129

La Suprema Corte, allora, ribadisce, in successiva sentenza, che “Ai fini

dell'applicazione o del mantenimento delle misure di prevenzione, il requisito della

pericolosità sociale deve essere attuale;

esso, quindi, non può essere desunto da fatti remoti, ancorché accompagnati da

informazioni negative degli organi di polizia, quando tali informazioni non pongano                                                                                                                                                                          Gli è che, se la revoca produce l'effetto della caducazione ora per allora degli obblighi imposti dal giudice della prevenzione, "come se non fossero mai stati stabiliti", di conseguenza non è in radice possibile configurare la loro trasgressione”. 127 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 16 giugno 2009, Reg. Gen. M.P. 352/04 e 95/08, Pres. Est. Menditto, p. 4 128 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 15 giugno 2010, Reg. Gen. M.P. 150/02 e 30/04, Pres. Cozzi, Est. Menditto 129 Cass. Pen. Sez. I, 11 Novembre 1991, n. 3866, Rv. 188804

70  

in rilievo ulteriori, specifici elementi atti a dimostrare la sussistenza del detto

requisito”130

3.1 La pericolosità qualificata ex lege 575/1965

Diverso è l’ambito di applicazione delineato dalla legge 575/1965 che, stante il

disposto dell’art.1, come modificato da recenti interventi normativi ad opera dei

cosiddetti “pacchetti sicurezza”131, si applica “agli indiziati di appartenere ad

associazioni di tipo mafioso, alla camorra, alla ‘ndrangheta o ad altre associazioni,

comunque localmente denominate, che perseguono finalità o agiscono con metodi

corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso nonché ai soggetti indiziati

di uno dei reati previsti dall’articolo 51, comma 3bis, del codice di procedura penale

ovvero del delitto di cui all’articolo 12quinquies, comma 1, del decreto legge 8

giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n.

356”132.

Il testo che conosciamo dell’allora art. 1 della prima legge antimafia, è quindi il

risultato dell’azione di vari interventi legislativi che ne hanno, nel tempo, modificato

il campo di applicazione, estendendolo a categorie che non erano previste in

precedenza ma che, nella valutazione del legislatore, sono da riconsiderarsi in un più

                                                            130 Cass. Pen. Sez. I, 16 marzo 1992, n. 499, Rv. 189506 131 L’art. 1 della legge in esame era stata precedentemente modificata dalla legge 13 settembre 1982, n. 646. Successivamente è intervenuto il legislatore con legge 24 Luglio 2008, n. 125, di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 e la legge 15 luglio 2009, n. 94. 132 Stante l’approvazione del nuovo Codice Antimafia, previsto nel “Piano straordinario contro le mafie” con legge delega n. 136/2010, varato dal Governo il 3 agosto 2011, e approvato con d.lgs. n. 159/2011, il novero dei soggetti destinatari è previsto all’art. 16 del Codice Antimafia che cosi dispone: “1. le disposizioni contenute nel presente titolo si applicano: a) ai soggetti di cui all’art. 4 b) alle persone fisiche e giuridiche segnalate dal comitato per le sanzioni delle Nazioni Unite, o ad altro organismo internazionale competente per disporre il congelamento di fondi o di risorse economiche, quando vi sono fondati elementi per ritenere che i fondi o le risorse possano essere dispersi, occulti, o utilizzati per il finanziamento di organizzazioni o attività terroristiche, anche internazionali”. 2. Nei confronti dei soggetti di cui all'articolo 4, comma 1, lettera i), la misura di prevenzione patrimoniale della confisca può essere applicata relativamente ai beni, nella disponibilità dei medesimi soggetti, che possono agevolare, in qualsiasi modo, le attività di chi prende parte attiva a fatti di violenza in occasione o a causa di manifestazioni 12 sportive. Il sequestro effettuato nel corso di operazioni di polizia dirette alla prevenzione delle predette manifestazioni di violenza é convalidato a norma dell'articolo 22, comma 2”.

71  

organico scenario di strumenti giurisdizionali di contrasto alle mafie e alla

delinquenza mafiosa in forma organizzata ed associata;

proprio in considerazione delle trasformazioni che, nel tempo, hanno caratterizzato il

fenomeno delinquenziale mafioso.

In altre parole, fattispecie criminose, non originariamente previste, si sono man mano

rivelate come reati finalizzati alla realizzazione degli illeciti obiettivi propri delle

associazioni mafiose ma anche denotanti particolari indici di pericolosità sociale la

quale non può essere semplicemente definita “comune”, in considerazione del potere

economico-criminale che ne deriva.

In quest’ottica, allora, non si può negare che reati come quelli previsti dagli artt. 600,

601, 602 e 630 (rispettivamente “Riduzione o mantenimento in schiavitù o in

servitù”, “Tratta di persone”, “Acquisto e alienazione di schiavi”, “Sequestro di

persona a scopo di estorsione”) del c.p., possono trovare pratico riscontro, ad

esempio, nella gestione e nello sfruttamento della prostituzione che è attività, tra le

altre, che caratterizza un aspetto degli affari mafiosi.

Inoltre tali fattispecie penali sono comunque inserite, organicamente, nella previsione

dell’art. 416, sesto comma del c.p. che prevede il reato di associazione per delinquere

finalizzata alla realizzazione dei delitti sopra citati.

Se ne ricava, chiaramente, un’estensione del campo di applicazione dell’ allora

articolo 1.

Ancora rientra, in quest’estensione, la previsione del legislatore, di ricomprendere,

nel citato articolo 1, i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art.

416bis c.p. ovvero al fine di agevolare le attività illecite delle associazioni di tipo

mafioso.

Vanno ricompresi anche i delitti di cui all’art. 74 del d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309 che

prevede il delitto di associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di

sostanze stupefacenti, oltre che le previsioni dell’art. 239quater del d.p.r. 23 gennaio

1973, n. 43, per quanto concerne l’associazione per delinquere finalizzata al

contrabbando di tabacchi lavorati esteri (TLE).

Tutte queste fattispecie criminose rientrano nell’ambito di applicazione della legge

del 1965 in virtù delle modifiche apportate dall’art 10 della legge 125/2008, di

conversione del decreto legge 92/2008 recante: “Misure urgenti in materia di

72  

sicurezza pubblica”, che ha previsto il richiamo all’art. 51 comma 3bis del c.p.p.

cioè di quei delitti che sono di competenza del Procuratore della Repubblica

distrettuale.

Per quanto concerne poi le previsioni del citato art. 12quinquies del decreto legge

306/1992, tale norma prevede il delitto del “Trasferimento fraudolento e possesso

ingiustificato di valori anche al fine di agevolare taluni reati previsti dagli artt. 648

(“Ricettazione”), 648bis (“Riciclaggio”), 648ter (“Impiego di denaro, beni o utilità di

provenienza illecita”) c.p.

L’indiziato, allora, può essere anche colui che “fiancheggia” l’associazione

criminale.

Si tratta del cosiddetto “prestanome” in capo al quale si realizza un’attribuzione

fittizia di beni.

Una strategia che, inizialmente, ha permesso, alle organizzazioni criminali, di

eludere alla misura ablatoria della confisca.

Con queste estensioni, invece, “ il prestanome sarà passibile della misura di

prevenzione personale e del sequestro e confisca dei beni risultati nella sua diretta

disponibilità e/o anche di quelle altre utilità eventualmente trasferitegli per

ricompensarlo del ruolo prestato della fittizia attribuzione”133

A queste modificazioni si aggiungano poi quelle che riguardano il titolo della legge

575/1965 che adesso reca: “Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo

mafioso, anche straniere” (ad opera della legge 94/2009) e quelle che hanno

apportato cambiamenti letterali alla rubrica dell’art. 416bis c.p. oltre a prevedere

nell’ultimo comma le parole “ ‘ndrangheta” e “straniere”.134

Dal complesso degli interventi normativi, sopra citati, emerge, dunque, la

qualificazione soggettiva che integra gli estremi di quel requisito soggettivo

fondamentale, per l’applicazione della misura preventiva anche patrimoniale, che è la

“pericolosità qualificata”.                                                             133 A. BALSAMO - V. CONTRAFATTO - G. NICASTRO, Le misure patrimoniali contro la criminalità organizzata, GIUFFRÈ, 2010, p. 62 134 la precedente rubrica “Associazione di tipo mafioso” è stata sostituita dall’attuale “Associazioni di tipo mafioso anche straniere” ad opera della legge 125/2008. Anche l’ultimo comma del 416bis c.p. ora prevede che “le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra, alla ‘ndrangheta e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso”.

73  

E tale qualificazione soggettiva è propria di quell’individuo che, sulla base dei

presupposti, tassativamente previsti dalla legge, risulti essere indiziato di appartenere

ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra, alla ‘ndrangheta o ad altre associazioni,

comunque localmente denominate, che perseguono finalità o agiscono con metodi

corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso.

Ciò che emerge, dalla lettura della normativa vigente, è quindi la previsione di una

presunzione del legislatore, relativamente al presupposto soggettivo, del requisito

richiesto per l’applicazione della misure preventiva patrimoniale.

Non più, dunque, alle persone “che debbano ritenersi pericolose per la sicurezza

pubblica o la pubblica moralità”135 ma questa volta le misure di prevenzione (anche

patrimoniali) si applicheranno ai soggetti che risultino essere “indiziati di

appartenere ad associazioni di tipo mafioso”136 ricomprendendo, dunque, il reato

associativo sia esso di tipo mafioso, finalizzato al contrabbando TLE ovvero allo

spaccio di sostanze stupefacenti.

Dal confronto, cosi, delle due definizioni previste, rispettivamente dalle leggi

1423/56 e 575/1965, si nota la perdita dell’aggettivo pericoloso.

Ma non del concetto.

La legge del 1965, infatti, ipotizza un tipo di pericolosità, appunto qualificata, che è

insita nel concetto stesso di appartenenza all’associazione di tipo mafioso.

Da questo punto di vista, sebbene dall’interpretazione letterale delle norme vigenti se

ne ricavi una sostanziale equiparazione delle forme associative (di tipo mafioso,

dedite al contrabbando TLE ovvero allo spaccio di sostanze stupefacenti) anche in

punto di valutazione circa l’attualità della pericolosità qualificata che ne deriverebbe,

va precisato un indirizzo certamente più attenuato della giurisprudenza di merito

laddove si precisa che “quanto all’attualità della pericolosità sociale nei confronti

delle persone riconosciute indiziate di appartenenza ad associazione dedita al

contrabbando TLE (ovvero allo spaccio di sostanze stupefacenti) non possono

trovare acritica applicazione i principi elaborati in tema di indiziato di appartenenza

                                                            135 Cosi l’art. 2 della legge 1423/1956 136 Cosi l’art. 1 della legge 575/1965

74  

ad associazione di stampo mafioso per cui si afferma generalmente una presunzione

di perdurante pericolosità”.137

Il Collegio napoletano, quindi, sottolinea come sia necessario graduare, fornendo

un’interpretazione coerente del dato normativo, l’intensità della pericolosità e

dunque della sua attualità anche in considerazione della natura e della operatività

dell’associazione stessa.

Stando cosi le cose, una pericolosità qualificata “perdurante” caratterizza,

inevitabilmente e incontrovertibilmente, il soggetto affiliato alla cosca mafiosa.

“Questo approccio ermeneutico, trova la sua vera forza nella considerazione che

ordinariamente (secondo cioè l’id quod plerumque accidit, che deve sostanziare tutti

i ragionamenti presuntivi) il rapporto che si instaura tra il sodalizio mafioso e

l’adepto, che ne diviene parte, è tendenzialmente perpetuo”.138

La Cassazione si esprime su tale profilo in maniera evidente, affermando proprio che

“in tema di applicazione delle misure di prevenzione nei confronti di soggetti

indiziati di appartenenza a un'associazione di tipo mafioso, la valutazione richiesta al

giudice deve essere fondata su specifici elementi sintomatici della partecipazione di

una persona a un sodalizio criminale “qualificato”: appartenenza, questa, che di per

sé implica una latente e permanente pericolosità sociale del soggetto.

Ne consegue che, al fine di escludere l'attualità di tale pericolosità ,occorre acquisire

il recesso personale da quella organizzazione o la disintegrazione di questa”.139

La diversa concezione della pericolosità, allora, influisce anche sulla valutazione

della sua attualità.

Se, infatti, la pericolosità comune, requisito soggettivo per l’applicazione delle

misure previste dalla legge del 1956, è legata a comportamenti criminogeni

svincolati da fenomeni sociali complessi ed organizzati, come quello delle

organizzazioni criminali, è evidente che “l’indiziato di appartenere ad associazione di

tipo mafiosa”, al di là dei suoi comportamenti penalmente rilevanti che si possono

sostanziare nella commissione di singoli delitti come l’omicidio, ovvero la

                                                            137 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 20 ottobre – 5 novembre 2010, dep. 09 dicembre 2010, Reg. Gen. M.P. n. 333/04 e 219/05, Reg. Decreti n. 276/2010/A, Pres. Est. Menditto, p. 43 138 A. BALSAMO - V. CONTRAFATTO - G. NICASTRO, Le misure patrimoniali cit., p.68 139 Cass. Pen., Sez. I, 30 maggio 1995, n. 2019, Rv. 201459

75  

corruzione, ovvero ancora nello scambio elettorale politico-mafioso, esprime di per

se una qualificazione soggettiva per la quale “il requisito della pericolosità è

necessariamente implicito nell’appartenenza del soggetto proposto ad

un’organizzazione mafiosa.”140

Dunque il legislatore richiede che il giudice accerti l’esistenza dei requisiti soggettivi

previsti dalla legge 575/1965 e s.m.i, ma non anche l’attualità di quei comportamenti

penalmente rilevanti e che giustificano un controllo attuale dell’autorità di P.S.

(come previsto nella prevenzione alla pericolosità c.d. comune) in quanto è da

ritenersi che una volta “dimostrata, infatti, l’appartenenza del soggetto alla mafia,

non risulterebbe più necessaria alcuna particolare motivazione del giudice in punto di

attuale pericolosità, potendo essere esclusa tale pericolosità solo nel caso di recesso

dall’associazione, di cui andrebbe acquisita positivamente la prova”.141

E questo varrebbe anche per l’ipotesi dei “concorrenti esterni” alle consorterie

mafiose.142

Va, infatti, sottolineato che la Cassazione ha distinto, sul piano tecnico, la condotta

dell’appartenenza da quella della partecipazione, ritenendo quest’ultima un

atteggiamento di continuità, alla consorteria criminale, che seppur non integrante il

fatto-reato tipico dell’associazione a delinquere di stampo mafioso (secondo la

definizione dell’art. 416bis c.p.), risulta pur sempre funzionale agli interessi

dell’organizzazione criminale e dunque del tutto denotante quella pericolosità sociale

specifica che sottende al trattamento prevenzionistico. Per tale motivo la Cassazione

ha ritenuto l’applicabilità “delle misure di prevenzione anche a quanti

"appartengano" ad un sodalizio mafioso, non in qualità di partecipi, ma di

concorrenti esterni; posto, fra l'altro, che un discrimine sul punto finirebbe per

risultare del tutto irragionevole proprio sul piano dello scrutinio della pericolosità

qualificata, essendo su questo terreno significativo il contributo fattuale al sodalizio,

piuttosto che qualsiasi nominalistico riferimento al titolo giuridico in forza del quale

                                                            140 F. FIORENTIN (a cura di), Le misure di prevenzione, GIAPPICHELLI, 2006, p.293 141 Ibidem 142 Cass., Sez VI, 15 settembre 2008, D.L. in CED Cass., n. 241251

76  

la fattispecie incriminatrice speciale può essere astrattamente applicabile a quel

soggetto”.143

La S.C., però, prosegue specificando che “se poi, come nella specie, l'extranens

risulti così stabilmente coeso, più che con singoli personaggi, con la struttura stessa

del sodalizio, operando in consapevole sintonia con gli obiettivi perseguiti dalla

associazione, nel quadro di un programma di "affari" di primario risalto per la stessa

associazione, v'è quanto basta per ritenere più che adeguatamente suffragato lo

scrutinio di sufficienza “indiziaria” in ordine alla “appartenenza” mafiosa del

proposto ed alla connessa delibazione in punto di pericolosità qualificata”.144

La giurisprudenza di Legittimità ha inoltre sottolineato come, in tema di applicazione

delle misure di prevenzione personale ai sensi della legge 575/65, deve emergere il

dato “di una pericolosità qualificata, anche in rapporto di attualità temporale, del

proposto, che deve ancorarsi a un sostrato indiziario che disegni un quadro di

ragionevole probabilità dell’appartenenza del proposto stesso ad associazioni di tipo

mafioso.”145

La Suprema Corte chiarisce, inoltre, che “in tema di misure di prevenzione,

l’appartenenza ad un’associazione per delinquere di tipo mafioso implica di per se

stessa una latente e permanente pericolosità del soggetto.

Conseguentemente – sottolinea la S.C. – per poter ritenere cessata l’attualità della

pericolosità, occorre acquisire prova certa e rigorosa del recesso di quegli dal

sodalizio criminoso”146

Sul punto anche la giurisprudenza di merito della Sezione Misure di Prevenzione del

Tribunale di Napoli, conferma tale indirizzo della dottrina.

                                                            143 Cass., Sez. II, 2 marzo 2006, n. 7616 144 Ibidem 145 Cass., Sez. II, 16 dicembre 2005, n. 1023, Rv. 233169, Canino, in Ced. 146 Cass., Sez. V, 20 ottobre 1993, n. 3268, Rv. 196297, P.M. in proc. Alfano, in Ced, più recentemente Cass. Sez. VI sent. n. 114 del 23/11/2004 dep. 5/1/2005 Rv. 231448 con la quale il Supremo Collegio ha specificato che: “ai fini dell'applicazione di misure di prevenzione nei confronti di appartenenti ad associazioni mafiose, una volta che detta appartenenza risulti adeguatamente dimostrata, non è necessaria alcuna particolare motivazione del giudice in punto di attuale pericolosità, posto che tale pericolosità potrebbe essere esclusa solo nel caso di recesso dell'interessato dall'associazione, del quale occorrerebbe acquisire positivamente la prova, non bastando a tal fine eventuali riferimenti al tempo trascorso dall'adesione o dalla concreta partecipazione ad attività associative”.

77  

Non si può negare, infatti, che la pericolosità debba essere l’oggetto di un giudizio

che si basi su particolari comportamenti dai quali si possa desumere una pericolosità

concreta ed attuale e non semplicemente potenziale e che vada, dunque, “a

giustificare un controllo attuale dell’autorità di P.S.”

Ma nell’ambito delle categorie soggettive di cui all’art.1 della legge 575/1965, la

giurisprudenza citata sottolinea che ai fini dell’affermazione della pericolosità sociale

del proposto, qualificata dalla sua appartenenza ad un’associazione di tipo mafioso, è

necessario e sufficiente l’esistenza di un fatto noto dal quale poter desumere,

mediante un “ragionamento” logico di tipo indiziario, l’appartenenza del singolo ad

un’associazione secondo la definizione giuridica ex art. 416bis c.p.

Afferma ancora il Tribunale che “quanto all’attualità della pericolosità sociale nei

confronti delle persone riconosciute indiziate di appartenenza ad associazione

mafiosa (categoria originaria dell’art. 1 della legge numero 575 del 1965), si

sottolinea che si afferma generalmente una presunzione di perdurante

pericolosità”.147

Il Tribunale, inoltre, specifica che per l’applicazione delle misure preventive

(personali e patrimoniali), ai soggetti che risultano essere indiziati di appartenere ad

associazioni di tipo, si dovrà procedere ad una scrupolosa valutazione della

sussistenza dei requisiti soggettivi previsti dalle norme vigenti;

dell’esistenza, cioè, dell’associazione di tipo mafiosa venuta in considerazione nel

caso di specie, e quello dell’appartenenza del proposto alla suddetta associazione di

tipo mafioso.

Va chiarito che alla luce del nuovo Codice Antimafia risultano definitivamente

abrogate, tanto la legge 1423/1956 quanto la legge 575/1956.

Di conseguenza le categorie soggettive ricomprese dai due diversi provvedimenti

legislativi, sono stati codificati all’art. 1 e all’art. 4 del Codice delle leggi antimafia.

                                                            147 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 27 ottobre 2010, Reg. Gen. M.P. n. 132/02, Pres. Est. Menditto, pp. 4-5. La stessa interpretazione viene ripresa dal Collegio in altre pronunce come, sul punto dell’attualità, cfr. Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 15 giugno 2010, Reg. Gen. M.P. n. 150/02 e 30/04, Pres. Cozzi, Est. Menditto; Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 7 febbraio 2009, dep. 23 febbraio 2009, Reg. Gen. M.P. n. 131/02, 154/03, 159/06, 64/08, 210/08, Pres. Menditto; Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 19 dicembre 2007, Reg. Gen. M.P. n. 246/99 e 11/07, Pres. Cozzi, Est. Menditto. 

78  

Tuttavia tali modificazioni non consentono di ritenere inficiato il ragionamento testè

esposto, in considerazione del fatto che l’opera del legislatore, in tale ambito,

procede ad una mera ricognizione delle disposizioni contenute nelle leggi abrogate.

Vale la pena sottolineare che l’unica innovazione, in tale contesto, è rappresentata

dall’estensione dell’applicazione delle misure patrimoniali alle categorie soggettive

originariamente previste dall’art. 1 della legge 1423/1956 e adesso ricomprese

nell’art.1 del d.lgs. 159/2011 ed espressamente richiamate in sede di applicazione

delle misure di prevenzione di carattere patrimoniale, originariamente non soggette a

tale misura ablatoria.

Risulta utile delineare, comunque, i caratteri fondamentali della pericolosità

qualificata.

Sebbene infatti le norme contenute nel Codice delle leggi antimafia abbiano, di fatto,

soppresso tale distinzione, in virtù della quale, in origine, le misure di prevenzione

patrimoniali avevano come soggetti destinatari, i soli che risultassero essere indiziati

di appartenere ad associazioni mafiose, ed oggi invece le misure di carattere

patrimoniale, come detto in precedenza, sono applicabili ad un novero più ampio di

soggetti, tuttavia la distinzione tra le categorie della pericolosità, cosiddetta comune e

quelle della pericolosità cosiddetta qualificata rilevano, per esempio, ai fini

dell’applicazione dell’istituto dell’amministrazione giudiziaria dei beni personali.

Tale misura, prevista dall’art. 33 del Codice delle leggi antimafia, infatti non si

applica ai soggetti di cui all’art. 4 comma 1, lett. a) e b) e segnatamente “agli

indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’articolo 416bis c.p.”, e “ai soggetti

indiziati di uno dei reati previsti dall’art. 51 comma 3bis, del codice di procedura

penale ovvero del delitto di cui all’art. 12quinques, comma 1, del decreto legge 8

giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n.356”.

La misura in esame prevede, infatti, che il Tribunale può aggiungere,

all’applicazione di una delle misure personali anche quella dell’amministrazione

giudiziaria dei beni personali.

Sono però esclusi i beni destinati all’attività professionale o produttiva del soggetto

sottoposto al procedimento.

Inoltre, a norma dell’art. 33 comma 3 del Codice delle leggi antimafia, la misura in

esame può essere disposta per un periodo non superiore ad anni 5 e rinnovata per

79  

ulteriore periodo di anni 5 se sussistono, ancora, le condizioni che ne hanno

giustificato l’originaria emanazione.

Da ciò deriva che l’opportuna distinzione tra pericolosità qualificate e comune, rileva

ai fini dell’applicazione di detta misura, ai soli soggetti ritenuti portatori di

pericolosità comune.

Tale scelta, del legislatore, infatti è giustificata “dalla costatazione che tale strumento

non pare, […], utile allo scopo di inibire alle menzionate compagini criminali la

gestione di patrimoni frutto di attività illecite”.148

3.2 L’associazione di tipo mafioso

“L’esistenza di un’associazione di tipo mafioso è pregiudiziale rispetto all’essere un soggetto indiziato di appartenervi”.

L’accertamento dell’esistenza di un’organizzazione criminale da parte del Tribunale,

deve essere compiuto ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione cosi come

prevista dalla legge 575/1965149.

Sebbene vada ricordata l’autonomia tra il processo penale ed il procedimento di

prevenzione (che ha un’ovvia ricaduta anche sul profilo probatorio del procedimento

di prevenzione rispetto a quello del processo penale), si deve sottolineare che dal

punto di vista dell’individuazione, in concreto, della fattispecie criminosa, di cui

all’art. 416bis c.p., i due procedimenti coincidono.

Nell’ambito del procedimento di prevenzione ex lege 575/65 è necessario assumere

la prova “dell’esistenza di una associazione di tipo mafioso, in una qualsiasi delle

forme che può assumere secondo il dettato dell’art. 416bis c.p.”150

                                                            148 L. FILIPPI - M.F. CORTESI, Il Codice delle misure di prevenzione, GIAPPICHELLI, 2011, p. 91 149 L’art. 1 della legge 575/1965, infatti prevedeva l’applicazione delle misure agli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra alla ‘ndragheta o altre associazioni comunque localmente denominate. Attualmente vige l’art 4 del D.lgs. 159/2011 (Codice Antimafia) che prevede infatti l’applicabilità delle misure agli indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’articolo 416bis c.p. 150 In: Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 15 giugno 2010, Reg. Gen. M.P. 150/02 e 30/04, Pres. Cozzi, Est. Menditto, p. 4, e in altri provvedimenti della sezione precedentemente citati che mostrano un indirizzo giurisprudenziale consolidato per quanto attiene l’accertamento dell’esistenza dell’associazione mafiosa oltre che le relative modalità di acquisizione.

80  

La definizione dell’associazione mafiosa ha rappresentato, certamente, un compito

ostico per la dottrina, specialmente in tempi antecedenti l’introduzione della specifica

fattispecie criminosa prevista dalla c.d. “legge La Torre – Rognoni”.

Se, precedentemente al 1982, quello della mafia era considerato “un fenomeno

complesso, non ben definibile”151 se non come un fenomeno “inafferrabile” e

dunque, difficilmente delineabile dal punto di vista razionale oltre che giuridico,

comportando un’ovvia censura di carenza di tassatività e la conseguente

insufficienza della definizione atta a giustificare la restrizione della libertà personale,

successivamente al 1982, tali censure, inevitabilmente, cadono.

La legge 646/1982, infatti, introducendo, nel nostro ordinamento giuridico, il reato di

“associazione di tipo mafioso”, compie un’operazione di cristallizzazione, non di un

fenomeno evanescente e “inafferrabile”, bensì di un preciso comportamento

antisociale, individuandone i tratti tipici di chiara rilevanza penale e connessi al

controllo del territorio e dell’economia.

Le attività delle organizzazioni criminali sono dunque riconosciute come in netta

contrapposizione ai compiti e alle funzioni che la Costituzione attribuisce

all’organizzazione dello Stato.

La definizione giuridica delle associazioni di tipo mafioso, dunque, “tiene conto –

grazie anche al lavoro di documentazione svolto dalla prima Commissione

parlamentare d’inchiesta sul fenomeno mafioso in Sicilia costituita con legge 20

dicembre 1962, n. 1720 – dei metodi usati di regola da coloro che ne fanno parte, e

dei fini che mediante quei metodi vengono perseguiti”.152

I rilievi della Commissione Parlamentare d’inchiesta degli anni ’60 confluirono, in

prima battuta, nel testo della legge 575/1965.

Se, dunque, il legislatore aveva già sentito l’esigenza di individuare, nella prima

legge antimafia, un più specifico ambito di applicazione, significa che nello stesso

tempo ha ritenuto esistenti delle condotte che, destando un maggior allarme sociale

rispetto alle fattispecie di pericolosità descritte già nel 1956, dovessero essere, non

solo, suscettibili dell’applicazione delle misure di prevenzione personali ma che

                                                            151 P. NUVOLONE, voce: Misure di sicurezza e misure di prevenzione cit., p. 645 152 E. GALLO, voce: Misure di prevenzione, in Enciclopedia giuridica Treccani, vol. XXII, Roma, 1996, p. 13  

81  

quest’ultime dovessero essere applicate anche in assenza del preventivo avviso orale

del questore di cui all’art. 4 della legge 1423/1956.153

Il legislatore avverte l’esigenza di definire le condotte come mafiose e i loro autori

come appartenenti alle associazioni mafiose, ma in assenza di una definizione

giuridica del fenomeno stesso, i provvedimenti legislativi in esame vengono

inevitabilmente ad essere sottoposti a dura critica, proprio perché manchevoli di quel

profilo tipico della determinatezza della fattispecie penale che esclude

l’atteggiamento discrezionale dell’interprete.

Tanto è vero che tra le parole di Nuvolone si legge che “quello della mafie è un

fenomeno complesso, non ben definibile: è un modo di vivere, di comportarsi, in

virtù di occulti vincoli di solidarietà.

E non necessariamente la mafia esprime se stessa attraverso veri e propri delitti.

Questa inafferrabilità del fenomeno rende praticamente impossibile una definizione

razionale: esso si coglie più che altro a livello intuizionistico, emozionale.

Il che è un pò poco per individuare una premessa di fatto, che serva di fondamento

per un ragionamento giuridico, e in particolare per l’applicazione di misure restrittive

della libertà personale.”154

Dunque, Nuvolone denuncia, non solo la mancanza di una precisa definizione della

fattispecie in esame ma addirittura, sottolinea, come il legislatore del 1965 abbia

impostato il discorso della prevenzione su una presunzione di pericolosità, relativa

agli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose.

Presunzione che quindi prescinderebbe dall’accertamento della pericolosità prevista

dalla legge 1423/56.155

                                                            153 Cosi recita, infatti, l’art. 2 della legge 575/1965: “Nei confronti delle persone indicate all’articolo 1 possono essere proposte dal procuratore nazionale antimafia, dal procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo di distretto ove dimora la persona, dal questore o dal direttore della Direzione investigativa antimafia, anche se non vi è stato il preventivo avviso, le misure di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e dell’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale, di cui al primo e al terzo comma dell’articolo 3 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, e successive modificazioni”. 154 P. NUVOLONE, voce: Misure di sicurezza e misure di prevenzione cit., p. 645 155 “(…) si deve anche prescindere dall’accertamento relativo alla pericolosità per la sicurezza pubblica e la pubblica moralità, perché la legge, nella sua apodittica impostazione, sembra presumere la pericolosità degli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose”. P. NUVOLONE, voce: Misure di sicurezza e misure di prevenzione cit., p. 645

82  

Successivamente, il legislatore, però, definisce il reato di associazione di stampo

mafioso assoggettando alla pena colore che la promuovono, la dirigono o ne fanno

parte.

A questo punto diventa fondamentale, nel ragionamento giuridico del procedimento

per l’applicazione delle misure di prevenzione, la prova dell’esistenza del sodalizio

criminale.

Quest’ultimo non è più un fenomeno inafferrabile.

Non si tratta di indagare un piano “intuizionistico o emozionale” ma di dare prova

dell’esistenza di quegli estremi, previsti dalla legge, che integrino concretamente

quelle condotte penalmente rilevanti che il codice penale definisce come il delitto di

associazioni di tipo mafioso.

Su questi profili, infatti, si attestò la discussione parlamentare in occasione della

presentazione del progetto di legge d’iniziativa dei deputati, primo firmatario

l’onorevole Pio La Torre, con il quale si sarebbe introdotto, per l’appunto, il reato di

cui abbiamo detto.

La discussione del 5 agosto 1982, a Commissioni riunite, si incentrò principalmente

sulla definizione del reato associativo.

Si cercò di delineare le caratteristiche tipiche dell’associazione mafiosa, avvalendosi

delle definizioni della giurisprudenza e quelle della dottrina, intervenute fino a quel

momento, per distinguere, in modo chiaro ed efficace, la nuova fattispecie

incriminatrice da quella dell’associazione per delinquere, già contemplata dall’art.

416 c.p.

Norma per la quale, sono gli stessi deputati della Commissione in sede legislativa a

rilevarlo, “si arriva puntualmente nei processi di mafia all’assoluzione per

insufficienza di prove”.156

Il confronto, tra i deputati delle Commissioni riunite, Interni e Giustizia,

affrontarono, non senza perplessità, la difficile opera di definizione dell’associazione

mafiosa, sulla base anche di avvenimenti della realtà precedente, che fino a quel

momento avevano dato chiare indicazioni di un fenomeno operante sul territorio con

una notorietà criminale ormai evidente.

                                                            156 Atti parlamentari, Camera dei Deputati, Legislatura VIII, Lavori in commissione, Commissioni riunite, Sede legislativa, seduta del 5 agosto 1982, p. 35

83  

Proprio sul concetto di notorietà, si focalizza l’attenzione probatoria della Sezione

misure di prevenzione del Tribunale allorquando è chiamata a soddisfare l’esigenza

di provare l’esistenza dell’associazione mafiosa alla quale si presume che il proposto

sia indiziato di appartenervi.

Ma procediamo con ordine ripercorrendo le tappe del ragionamento del legislatore.

Per primo, espresse perplessità, l’onorevole democristiano, Carlo Casini, che

basandosi sul dato letterale della norma dell’art. 416bis, criticava la definizione della

fattispecie delittuosa temendo incidenze sulla certezza del diritto.

Ravvisava la difficoltà di definire giuridicamente la mafia, ma nello stesso tempo

evidenziava dubbi circa l’apparato strutturale della norma in esame.

In particolare la critica del Casini si soffermava sulla necessità di comprendere

l’essenza dell’associazione mafiosa alternata, secondo l’interpretazione del Casini,

tra l’essere, l’associazione, formatasi per commettere delitti ovvero l’essere,

l’associazione, formatasi per commettere uno scopo delittuoso senza compiere, prima

del raggiungimento di questo fine, altri delitti.

È chiaro che queste riflessioni avevano una rilevanza non soltanto teorica, posto che

ciò che si andava a discutere, in Commissione, altro non era che la definizione dei

requisiti oggettivi per i quali la magistratura avrebbe proceduto poi a contestare, alle

soggettività responsabili, il nuovo reato.

Dunque il Casini emendava la proposta di legge, in ordine alla formulazione dell’art.

416bis c.p., evidenziando chiaramente le preoccupazione sopra accennate, con queste

parole: “In altri termini, o l’associazione mafiosa è un’associazione che, per i mezzi

che usa o per il fine che si propone è criminale e intende commettere delitti, oppure è

un’associazione che nel proprio piano non prevede la commissione di reati”.157

Atteggiamento mentale, quello del Casini, ancora chiaramente legato alla definizione

del reato di associazione per delinquere e tradito della affermazione, riportate dai

resoconti stenografici, in base alle quali avrebbe senso definire un’associazione

mafiosa se ricondotta nell’alveo dell’associazione per delinquere, definendone le

modalità e senza far riferimento ad azioni altre dalla commissione dei delitti.

                                                            157 Atti parlamentari cit. p. 37

84  

Alle contestazioni del Casini risponde Francesco Martorelli, relatore per la IV

Commissione Giustizia, sottolineando che il testo dell’articolo è finalizzato alla

immediata individuazione di un’associazione mafiosa, ravvisando la necessaria

distinzione dalla norma del già citato art. 416 c.p. proprio perché tale norma ha

maglie troppo larghe attraverso le quali può sfuggire il caso dell’associazione

mafiosa”.158

Quello che sfugge, infatti, alla definizione del reato di “associazione per delinquere”

è la circostanza che, rileva ancora il Martorelli, “è l’esistenza stessa

dell’associazione, infatti, che permette di imporre determinati comportamenti al fine

di controllare attività economiche o altro”.159

Ma il Martorelli si spinge oltre enucleando quello che sarà poi alla base dell’apparato

“strutturale – strumentale” dell’associazione mafiosa.

Afferma il Relatore della IV Commissione: “L’associazione mafiosa ha lo scopo di

esercitare un controllo su un’intera area produttiva o su un’attività economica

valendosi di un dato essenziale, cioè la forza intimidatrice del vincolo mafioso che è

alla base di tutto quello che abbiamo detto”.160

Il presupposto, e questa rappresenta la vera svolta nella definizione giuridica del

reato associativo di stampo mafioso, è sempre quello della forza intimidatrice del

vincolo associativo che potrebbe anche non concretarsi in vere e proprie figure

criminose.

Da questa linea programmatica si discosta, invece, il deputato radicale Marco Boato

(il partito radicale sarà tra i massimi oppositori, in aula, all’approvazione della “legge

La Torre – Rognoni” perché ritenuta troppo poco garantista) che con la proposta di

emendamento aveva sostanzialmente tentato, ancora una volta, di riportare questo

tentativo innovatore, della definizione del reato di mafia, nei canoni

dell’associazione per delinquere ex art. 416 c.p.

Illuminanti diventano, a questo punto della discussione, le considerazioni di Pierluigi

Onorato che ricordano come sia importante, al fine di garantire l’efficienza

dell’intervento del legislatore rispetto al fenomeno mafioso, che la definizione

                                                            158 Ivi, p. 39 159 Ivi, p. 40 160 Ibidem

85  

giuridica metta in condizione, i magistrati, di “perseguire il reato associativo come

reato commesso da coloro che si associano sia al fine di controllare un’attività

economica, sia ai fini che non rientrano esattamente nella formula del delitto

individuale di violenza privata”.161

Dunque a margine di questa incompleta ricostruzione del dibattito parlamentare, ma

che pone in evidenza i maggiori ragionamenti operati dalla forze politiche

dell’epoca, si giunge alla conclusione evidente che, prima di tutto, l’associazione

mafiosa rappresenta quella categoria delittuosa finalizzata, non necessariamente alla

commissione di delitti, ma al raggiungimento di profitti ingiusti e di controllo

economico-territoriale.

In secondo luogo viene messo in evidenza quello che è lo strumento essenziale delle

organizzazioni criminali, e cioè la forza intimidatrice del vincolo associativo.

Quest’ultimo aspetto incide notevolmente, come sottolineato in precedenza, sul tema

della prova dell’esistenza del sodalizio criminoso.

Non si può infatti negare che l’iter parlamentare abbia condotto ad un punto fermo di

notevole importanza per gli operatori del diritto.

Ciò è rappresentato dal fatto che la forza intimidatrice del vincolo associativo

rappresenta quel requisito “strutturale – strumentale” dal quale prendere le mosse,

perché si possa avviare il procedimento probatorio che conduce all’accertamento

della penale responsabilità.

Con questo si vuole sottolineare come il pilastro, su cui poggia la fattispecie ex art.

416bis c.p., sia proprio quella forza intimidatrice dalla quale scaturiscono le

condizioni di assoggettamento e omertà.

La forza, e le condizione che ad essa sono collegate, non rappresentano le modalità

di realizzazione della condotta penalmente rilevante.

Sono esse stesse elementi strutturali della fattispecie in esame.

Questo non può che riflettersi, inevitabilmente, anche sul livello probatorio inerente

la condizione degli appartenenti alle associazioni mafiose per i quali, evidentemente,

non è richiesta la necessaria realizzazione della commissioni di ulteriori delitti.

Eventualmente, l’esecuzione di questi, saranno valutati come comportamenti atti a

                                                            161 Ivi, p. 45

86  

consolidare ulteriormente quella forza intimidatrice che comunque rappresenta “l’ in

se del vincolo associativo”.162

La dottrina ha però chiarito che non è sufficiente uno sfruttamento solo potenziale

della forza d’intimidazione; laddove per potenziale debba intendersi, sempre secondo

la dottrina, la pura e isolata intenzione di avvalersi della forza di intimidazione

stessa.

Dunque da un lato si chiede che sia accertata la forza intimidatrice del vincolo

associativo, non necessariamente rappresentata da quelle condotte tipiche previste

dalle norme del codice penale, dall’altra si esclude che possa esserci lo sfruttamento

solo potenziale della stessa.

La soluzione, per meglio comprendere il ragionamento giuridico che sottende alla

definizione del reato associativo di stampo mafioso, è rappresentato da quella

definizione, dottrinaria, che ha individuato la categoria della “carica intimidatoria

autonoma” in forza della quale “anche mancando la prova di tali atti [di

intimidazione ovvero di violenza N.d.A.], l’elemento della «forza intimidatrice» sia

comunque desumibile aliunde da circostanze atte a dimostrare la capacità di incutere

timore propria dell’associazione in quanto tale: una capacità ricollegabile alla

«pubblica memoria» della sua pregressa attività sopraffattrice”.163

Sul concetto, dell’organizzazione mafiosa, di non fare “ruomre”, cioè di esprimere se

stessa indipendentemente dalla commissione di particolari reati, è argomento

affrontato anche da autori come Gaetano Mosca che, nel disquisire sullo “spirito

della mafia”, rileva che se dovessimo “considerare per mafioso solo colui che per

spirito di mafia ha commesso un reato, od è almeno capace di commetterlo, allora i

Siciliani che, come dicono gli italiani del nord, sono «affiliati alla mafia», diventano

una scarsa minoranza”164.

Sebbene ironiche, le affermazioni del Mosca sono indicative di una tendenza

culturale e sociale che poi di fatto è stata recepita dal legislatore che, mediante

l’esame di dottrina e giurisprudenza, con l’attento e scrupoloso apporto della

sociologia, ha di fatto tradotto normativamente quell’atteggiamento tipico

                                                            162 G. TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, GIUFFRÈ, 2008, pp. 116, ss. 163 Ivi, p. 118 164 G. MOSCA, Che cosa è la mafia, LATERZA, 2002, pp. 12, ss.

87  

dell’associazione mafiosa che ancora il Mosca afferma concretarsi in quel binomio

“massimo prestigio e guadagno illecito – minor sforzo delittuoso”.

Ed è sempre Mosca che enuclea la strategia mafiosa rilevando che “esse [le

associazioni mafiose N.d.A.], hanno inventato all’uopo una vera tecnica del delitto,

per la quale non rifuggono dal reato più atroce, dall’assassinio per agguato, quando

ciò è necessario per salvare l’associazione […] ma nei casi ordinari s’industriano di

violare il meno possibile il codice penale”.165

Dunque non è necessaria la consumazione di delitti da parte di tutti i singoli associati

all’organizzazione mafiosa ma sarà invece fondamentale che a questa si possa

associare una carica autonoma d’intimidazione diffusa che deriva a sua volta da “una

sufficiente «fama» di violenza e di potenzialità sopraffattrice.”166

L’espressione “fama di violenza” è dunque da ricollegarsi a quelle consorterie

mafiose che hanno acquisito nel tempo uno status, per così dire, di “delinquenza

storica”, per le quali, “ l’esperienza giudiziaria insegna che la carica intimidatoria

autonoma si presenta di regola come elemento già perfettamente formato”.167

Si ritorna, allora, a quel punto concettuale di “notorietà del fenomeno” che la

magistratura di prevenzione adotta nei provvedimenti, applicativi delle misure di

prevenzione, quando deve attestare l’esistenza dell’associazione mafiosa alla quale il

preposto è indiziato di appartenere.

A dimostrazione di quanto detto, la Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di

Napoli dichiara, relativamente ad alcuni casi di specie, che “l’esistenza di tale

associazione deve ormai ritenersi annoverabile tra i fatti notori”.168

Nello stesso provvedimento il Collegio precisa anche che “ l’esistenza di una stabile

e feroce associazione di tipo camorristico […] è ormai fatto noto, accertata, inoltre,

con numerose sentenze, anche irrevocabili, oltre che con l’adozione di decreti

                                                            165 Ivi, pp. 31, ss. 166 G. TURONE, Il delitto di associazione cit., p. 121 167 Ivi, pp. 125, ss. 168 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 19 dicembre 2007, Reg. Gen. M.P. n. 246/99 e 11/07, Pres. Cozzi, Est. Menditto, p.4

88  

applicativi di misure di prevenzione emessi da questo Tribunale nel tempo”.169 In

altri provvedimenti, lo stesso Collegio, riconferma questo stesso orientamento.170

3.3 Il concetto di appartenenza

“la valutazione richiesta al giudice deve essere fondata su specifici elementi sintomatici della partecipazione di una persona a un sodalizio criminale”

La dottrina si è, necessariamente, soffermata sulla definizione giuridica di

“appartenenza”.

Già Pietro Nuvolone rilevava alcune difficoltà interpretative sia relativamente alla

definizione dell’associazione mafiosa, sia relativamente al concetto di appartenenza

ad essa.

Rileva infatti, l’autore, che “la fattispecie soggettiva, presupposto delle misure di

prevenzione [ex lege 575/1965 N.d.A.], è soltanto la qualità di indiziato di

appartenere ad associazioni mafiose, prescindendosi completamene dalla dalle

situazioni descritte nell’art. 1 della legge del 1956”171.

Si tratta però di stabilire che cosa si intenda per associazione mafiosa ( le riflessioni

del Nuvolone, infatti, sono precedenti all’entrata in vigore della legge 646/1982 che

introduce il reato di associazione di tipo mafioso).

                                                            169 Ivi, p. 8 170 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 15 giugno 2010, Reg. Gen. M.P. 150/02 e 30/04, Pres. Cozzi, Est. Menditto, pp. 8, ss., nel quale elenca tutti i provvedimenti dai quali desumere pienamente l’esistenza dell’associazione camorristica di cui si tratta. L’elenco, infatti, riprende sia provvedimenti emessi dalla stessa Sezione Misure di Prevenzione ma anche le ordinanze applicative di custodia cautelare emesse dal Gip del Tribunale di Napoli, le sentenze del Tribunale di Napoli che attestano le faide e le contrapposizioni camorristiche locali e sulla base di questo elenco, di provvedimenti acquisiti, conclude, il Collegio, affermando che “Senza ripercorrere compiutamente i ponderosi elementi di fatto indicati nei citati provvedimenti dell’autorità giudiziaria, può in questa sede darsi per certa l’esistenza dei ricordati gruppi criminali[…]”; lo stesso dicasi anche per: Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 27 ottobre 2010, Reg. Gen. M.P. n. 132/02, Pres. Est. Menditto; Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 20 ottobre - 5 novembre 2010, dep. 09 dicembre 2010, Reg. Gen. M.P. n. 333/04 e 219/05, Reg. Decreti n. 276/2010/A, Pres. Est. Menditto, pp. 45, ss., nel quale il Collegio afferma espressamente che: “all’esistenza dell’associazione dedita al contrabbando di TLE, […],può darsi per notoria perché attestata da numerosi provvedimenti dell’autorità giudiziaria e riconosciuta in molteplici decreti emessi da questo Tribunale”. 171 P. NUVOLONE, voce: Misure di sicurezza e misure di prevenzione, in Enciclopedia del Diritto, vol. XXVI, GIUFFRÈ, Milano, 1976 p. 645

89  

Nuvolone, infatti, esclude che possa essere parificata all’associazione per delinquere

altrimenti ravvisa che sarebbe necessario l’avvio di un processo ordinario e non un

procedimento di prevenzione e sottolinea che l’appartenenza all’associazione

mafiosa trasferisce, al partecipante, la qualità della mafiosità da considerarsi

aggravante del reato attualmente previsto dall’art. 416 c.p.

Proprio per questo motivo Nuvolone ritiene di dovere sottolineare che

“l’appartenenza ad associazione mafiosa, essendo un’aggravante dell’associazione

per delinquere, è chiaro che la qualità di mafioso aggiunge qualcosa alla quantitas

criminis di un’associazione per delinquere che esiste di per se, in base ad altri

elementi costitutivi”172.

In verità già la Suprema Corte era intervenuta, con massime, contribuendo a

stratificare un indirizzo giurisprudenziale il cui senso ritroviamo nella definizione di

cui all’art. 416bis c.p.

La Cassazione, infatti, statuendo sui concetti giuridici di associazione mafiosa ed

appartenenza ad essa, sottolineava, innanzitutto, come il termine mafia non fosse

legato esclusivamente ai fenomeni siciliani localmente definiti.

Infatti le norme della legge 575/1965 si riferiscono ad un fenomeno inteso come

esteso sul tutto il territorio nazionale e per questo motivo non può avere importanza

la particolarità della denominazione del raggruppamento, espressione del fenomeno

associativo, in considerazione del fatto che ormai le denominazioni localistiche sono

state sostituite dal termine mafia.

Ma la Suprema Corte afferma qualcosa di più.

Essa si spinge anche ad una prima definizione dell’apparato strutturale del futuro

delitto di associazione mafiosa, specificando che “per 'associazione mafiosa', agli

effetti dell'art 1 legge 31 maggio 1965, n 575, deve intendersi ogni raggruppamento

di persone che, con mezzi criminosi, si proponga di assumere o mantenere il

controllo di zona, gruppi, o attività produttive attraverso l'intimidazione sistematica e

l'infiltrazione di propri membri in modo da creare una situazione di assoggettamento

                                                            172 P. NUVOLONE, voce: Misure di sicurezza e misure di prevenzione cit., p. 645 

90  

e di omertà che renda impossibili od altamente difficili le normali forme di intervento

punitivo dello stato”.173

Sono dunque gli appartenenti a questo sistema, così delineato, suscettibili delle

misure ex lege 575/1965 prima e 646/1982 successivamente.

Dunque questo è un primo tentativo, della giurisprudenza di legittimità, di

sgomberare il campo della definizione giuridica del fenomeno mafioso, da congetture

legate alla cultura del sospetto e della indeterminatezza.

Ed è evidente come gli effetti benefici di questa operazione interpretativa si riflettano

anche sull’individuazione dei soggetti destinatari delle misure antimafia.

Cioè di coloro che appartengono alla mafia.

Ma torniamo, per un istante, al ragionamento del Nuvolone.

L’illustra autore, infatti, accennava ad “aggravanti” dell’associazione per delinquere.

In effetti furono proprio quelle a dare la spinta al legislatore perché riconoscesse quel

qualcosa in più aggiunto alla quantitas criminis dell’associazione di cui all’art. 416

c.p. come lo stesso Nuvolone aveva osservato.

Tali “aggravanti” si manifesteranno successivamente con numerosi omicidi

eccellenti di stampo mafioso.

Le organizzazioni criminali, in particolare la consorteria mafiosa siciliana

denominata “Cosa Nostra”, da avvio ad una tremenda stagione stragista (dal 1982 al

1993), attaccando sistematicamente le istituzioni dello Stato, colpendo direttamente i

suoi rappresentanti.

Anche l’ispiratore dell’art. 416bis c.p. cadde sotto i colpi stragisti della mafia.

E sarà necessario un’ulteriore “eccidio eccellente” per scatenare la reazione del

legislatore.

Successivamente, infatti, alla strage del 1982, nella quale perse la vita il Prefetto di

Palermo, Carlo Alberto Dalla Chiesa, i massimi quotidiani nazionali del Settembre di

quello stesso anno, riportano un’attività frenetica del Parlamento italiano che si

sarebbe poi conclusa con l’approvazione, in tempi brevissimi, della legge 13

settembre 1982, n. 646 o meglio conosciuta come “legge La Torre – Rognoni”.

Il testo legislativo, in esame, comporta modifiche alla legge 575/1965.

                                                            173 Cass. Sez. I, 12 novembre 1974, dep. 13 giugno 1974, Ord. n. 1709, Rv. 130222, Pres. Scardia, Est. De Castello, Imp. Serra

91  

In particolare, la definizione dell’appartenenza all’associazione mafiosa non è

oggetto di grande discussione, nel dibattito parlamentare, come riportato dai

resoconti stenografici dell’epoca.174

Questo sta ad indicare, finalmente, la pacifica relazione tra la fattispecie

incriminatrice ex art. 416bis c.p. e la qualificazione soggettiva di colui che fa parte

dell’associazione di tipo mafioso.

Di conseguenza anche la lettera dell’allora art. 1 della legge 575/1965, ora sostituito

dall’art. 4 del Cod. Antimafia, non destava più preoccupazioni circa il concetto di

appartenenza ad un fenomeno precedentemente non giuridicamente definito e ancora

troppo legato ad un piano esclusivamente “sociologico”.

Semmai il dibattito si incentra sullo standard probatorio che vuole, per giustificare

l’applicazione delle misure preventive antimafia, l’indizio di tale appartenenza.

Il tema è discusso sia in dottrina che in giurisprudenza.

Il punto di partenza del Nuvolone è caratterizzato da un imprescindibile interrogativo

con il quale l’autore si chiedeva: “cosa si vuol prevenire se non si sa con sicurezza

se ci si trova davanti a persona appartenente a un’associazione mafiosa e se la legge

non ci dice neppure per cosa intende per associazione mafiosa?”175

Con l’introduzione della legge 646/1982, che definisce con certezza chi c’è davanti

all’autorità giudiziaria e a quale fenomeno socio-giuridico appartiene, la quaestio

iuris è da focalizzarsi sull’apparato probatorio del sistema prevenzionistico in base al

quale l’autorità giudiziaria riconosce il soggetto preposto come appartenete ad

un’associazione di tipo mafioso e dunque suscettibile dell’applicazione della misura

di prevenzione (personale e patrimoniale).

Ciò che interessa in questa sede, d’altronde, non è tanto identificare se il soggetto

appartenga al fenomeno mafia piuttosto che ad altro fenomeno previsto da norme

penali di parte speciali, posto che tale profilo è stato affrontato nel precedente

paragrafo.

                                                            174 Atti parlamentari, Camera dei Deputati, Legislatura VIII, Lavori in commissione, Commissioni riunite, Sede legislativa, seduta di martedì 7 settembre 1982, p. 61 175 P. NUVOLONE, voce: Misure di sicurezza e misure di prevenzione cit., p. 645

92  

L’argomento da affrontare, a questo punto, è con quale standard probatorio il giudice

della prevenzione riconosce il preposto come appartenente all’associazione di tipo

mafioso.

In tale profilo, infatti, si sostanzia una delle differenze principali tra procedimento di

prevenzione e processo penale.

Precisa infatti Bertoni, che partendo dalla premessa della autonomia del

procedimento di prevenzione rispetto a quello penale, si deve concludere che la

diversità investa necessariamente il collegamento probatorio tra soggetto e fatto, nel

senso che il termine “indiziato”, riferito alla circostanza oggettiva di appartenenza

all’associazione mafiosa, è caratterizzato da un minor grado di prova.176

Infatti, nel processo penale è richiesta la prova della penale responsabilità di un

soggetto.

Cioè è prescritto che “il giudice deve operare un accertamento mediante un

procedimento logico di ricostruzione, di quella serie di fatti storici che appaiano

rilevanti per decidere se vada o meno applicata la sanzione penale all’imputato, in

relazione all’accusa descritta nell’imputazione formulata dal pubblico ministero,

all’atto dell’azione penale”.177

Ovvero tale accertamento potrebbe comunque essere raggiunto sulla base di “un

elemento il quale dimostri, magari anche in maniera estremamente attendibile, un

fatto che però di per se non è sufficiente a condurre ad un accertamento […], si tratta

di dati – cioè – che solo se collegati fra di loro attraverso un procedimento logico,

risultano convergenti a dimostrare, sulla base dell’esperienza comune e su di un

piano probabilistico, il fatto che si deve provare”.178

Dunque gli indizi, per avere effetto probante nell’ambito dell’istruzione

dibattimentale, che rappresenta la sede processuale fisiologica per la formazione

della prova, cioè, perché da essi possa desumersi l’esistenza di un fatto, devono

essere gravi, precisi e concordanti, secondo il disposto normativo dell’art. 192 c.p.p.

Se, dunque, questa è la struttura processuale penale, l’ambito della prevenzione si

discosta da questa cristallizzazione normativa per affidarsi ad altra che puntualmente

                                                            176 Sul punto cfr. P.V. MOLINARI – U. PAPADIA, Le misure di prevenzione cit., p. 436 177 G. RICCIO – G. SPANGHER, La procedura penale, ESI, 2002, p. 427 178 Ivi, p. 428

93  

stabilisce i criteri in base ai quali si forma la “prova” nel procedimento di

prevenzione.

Non v’è dubbio che, nel procedimento in esame, il legislatore abbia previsto un

abbassamento della soglia probatoria.

Se questo è vero, altrettanto è vero, però, che non si possa parlare di procedimento

basato sulla cultura del sospetto.

Tali accuse nascono infatti dalla considerazione che, basandosi il procedimento di

prevenzione antimafia sulla categoria degli indiziati di appartenere alla mafia, indizi

per i quali non è richiesta la valutazione ex art. 192 c.p.p., dunque se ne ricavava la

sostanziale incostituzionalità di tale procedimento per l’aspetto indicato.

Già Ettore Gallo sostiene che non sia credibile, in ogni caso, l’identità tra sospetto e

indizio e afferma che, comunque, “non si può più parlare oggi di «sospetto (di

appartenenza all’associazione) del sospetto (di associazione rivolta a commettere

illeciti o delitti)», sia perché, non di sospetto si tratta, sia perché l’associazione di

tipo mafioso non è più un’entità inafferrabile ed incerta sostanziata di sospetti di

attività delittuosa, ma una pregnante realtà criminosa descritta da una norma

penale”179.

Inoltre lo stesso autore opera una sintesi tra i due opposti orientamenti della dottrina

maggioritaria180 che fa oscillare il pendolo della verità tra elementi assimilabili ai

                                                            179 E. GALLO, voce: Misure di prevenzione cit., p. 15 180 In particolare sul punto cfr. P.V. MOLINARI – U. PAPADIA, Le misure di prevenzione cit., pp. 436 ss., Una specificazione significativa viene enunciata dal Bricola che esclude di fatto che la ipotesi previste dall’art. 416bis c.p. possa riferirsi al concetto di “partecipazione”, essendo imperniata su notazioni modali e di scopo, enunciate nel terzo comma della norma in esame, che caratterizzano la partecipazione e dunque l’essenza stessa dell’associazione. Sulla base di tale ragionamento l’autore paventa il pericolo che la pratica applicazione della individuazione di soggetti che sono indiziati di appartenere alle associazioni mafiose, possa essere influenzata dal solo elemento del sospetto. Critica anche la posizione del Tagliarini che ravvisa incertezza nella definizione che il legislatore offre relativamente al concetto di appartenenza denunciando un’estensione dell’applicazione della norma dell’art. 1 della legge 575/1965 (oggi art. 4 del Cod. Antimafia). Il pericolo ravvisato dal Tagliarini consiste nella possibilità che la norma si estenda anche a soggetti che certamente non facevano parte dell’associazione ma che, come le vittime, erano in qualche modo costrette a mantenere contatti con la mafia. Contrario, a tale orientamento, è il pensiero di De Liguori che sottolinea come il concetto di appartenenza si concretizzi nella valutazione dei livelli di partecipazione al sodalizio mafioso. Posto che la partecipazione, e dunque tale specificazione rassicura le preoccupazioni del Tagliarini, è oggettivamente valutabile soltanto nella realizzazione di comportamenti tipici quali sono quelli di partecipazione, promozione, direzione e organizzazione, espressamente previsti dalla norma contenuta nell’art. 416bis c.p.  

94  

sospetti ovvero procedimento logico indiziario probatorio (che prevede appunto la

valutazione degli indizi ex art. 192 c.p.p. e sulla base della quale si prevede

l’applicazione di misure cautelari personali ex art. 273 c.p.p.).

Questa sintesi, proposta da Gallo, consiste nell’individuare una zona che viene

definita come grigia tra l’estremo del sospetto e quello opposto della prova effettiva.

“Esiste sempre una zona – questo il pensiero di Gallo – che non è più semplice

sospetto perché è fondata su circostanze di fatto vere e proprie, oggettive e

controllabili, e non su atteggiamenti, o condotte di per se prive di significato

indiziante: tale, tuttavia, da non poter essere assunta come prova, sia pure indiziaria,

perché sprovvista dei requisiti che si richiedono sul piano probatorio per il cosiddetto

procedimento logico-indiziario: quello che consente al giudice di raggiungere un

convincimento di responsabilità non arbitrario”.181

Insomma una zona grigia che ricomprende circostanze di fatto, controllabili ed

oggettive, che, incapaci di provare la penale responsabilità di un soggetto, sono però

idonee a fondare, legittimamente, la valutazione del giudice della prevenzione.

Sul punto la giurisprudenza di legittimità è chiara.

Una recente sentenza della Cassazione, infatti, ribadisce che l’applicazione delle

misure di prevenzione (ex lege 575/1965) ha come presupposto la sola esistenza di

indizi di appartenenza all’associazione mafiosa (in quanto indicativa, secondo altra

giurisprudenza di legittimità, di una pericolosità intrinseca e perdurante e dunque, dal

punto di vista dell’impianto probatorio, non è necessaria la prova dell’attualità della

pericolosità); che tali indizi non sono da ricercarsi, necessariamente, nella condanna

per alcuno dei reati associativi che sono indicati dalla legge del 1965 potendo essere

                                                                                                                                                                         Si discosta da tentativi di lettura dell’applicazione normativa della prevenzione come inquinata dal sospetto e dalle definizioni sociologiche, Fiandaca che afferma, innanzitutto, che le considerazioni di carattere sociologico non sono affatto vincolanti in sede giudiziaria e che, dunque, non può prescindersi dalla lettera e dallo spirito della legge che esige, per l’applicazione delle misure preventive, l’appartenenza o l’affiliazione del soggetto all’associazione criminosa. Ed infatti il testo della legge 646/1982, intanto autorizza l’applicazione delle misure di prevenzione antimafia, in quanto esiste già un certo collegamento tra soggetto ed associazione. Tutto questo è ancor di più confermato dal dato dell’analisi normativa che esige che anche il giudice della prevenzione fornisca la prova certa dell’esistenza della consorteria mafiosa, che dunque sussistano i requisiti oggettivi di cui all’art. 416bis c.p. mentre, relativamente al soggetto, nel solo ambito della prevenzione antimafia, sono sufficienti indizi di probabile appartenenza. 181 E. GALLO, voce: Misure di prevenzione cit., p. 6

95  

valutati, dal Tribunale, le assoluzioni ex art. 530 cpv., c.p.p. ovvero il complesso di

elementi che emergono dalle valutazioni operate in sede processuale penale.

Non solo ma la Suprema Corte specifica, nella stessa sentenza, che il giudice,

sebbene non debba raggiungere la prova dell’appartenenza ad un’associazione

mafiosa – infatti l’identità probatoria, tra processo penale e procedimento di

prevenzione, si riferisce alla sola prova dell’esistenza dell’associazione mafiosa

[N.d.A.] – deve, però, raccogliere un contesto indiziario univo sufficientemente

indicativo della pericolosità del soggetto”.182

La stessa sentenza, inoltre, sottolinea come ci sia un’attenuazione probatoria evidente

che si riflette anche sulla consistenza degli accertamenti conseguiti, potendo essere

rilevanti anche comportamenti che siano anche solo indicativi posto che, è la stessa

Consulta a specificarlo, tali indicatori siano dotati della caratteristica della stabilità,

non considerandosi rilevanti isolati fatti, anche connotati di una condotta penalmente

rilevante, in quanto inidonei a testimoniare l’abituale condotta delittuosa (in questo

caso associativa ex art.416bis c.p.) del soggetto preposto.

Sul punto è esplicita la Cassazione quando afferma che “in tema di misure di

prevenzione il giudice non deve raggiungere la prova dell’appartenenza ad

un’associazione mafiosa, ma raccogliere un contesto indiziario univoco

sufficientemente indicativo della pericolosità del soggetto”.183

Tale contesto, che la Cassazione vuole che sia connotato della univocità e

sufficienza, è poi ulteriormente specificato, dalla stessa giurisprudenza di legittimità,

che individua, in via generale, tutti quegli elementi “che giustifichino sospetti o

prescrizioni, purché obiettivamente accertati, come i precedenti penali, l'esistenza di

recenti denunzie per gravi reati, il tenore di vita, l'abituale compagnia di pregiudicati

e di soggetti sottoposti a misure di prevenzione, od altre manifestazioni

oggettivamente contrastanti con la sicurezza pubblica, in modo che risulti esaminata

globalmente l'intera personalità del soggetto come risultante da tutte le

manifestazioni sociali della sua vita”.184

                                                            182 Cass., 7 gennaio 2008, n. 1859, p. 3 183 Cass. Pen., Sez VI, 19 giugno 1997, n. 2148, Rv. 208310, Pres. Fulgenzi, Est. Assennato, Imp. Di Giovanni 184 Cass. Pen., Sez I, 25 maggio 1994, n. 1147, Rv. 197671, Pres. Franco, Est. Silvestri, Imp. P.G. in proc. Scaduto 

96  

Ma la stessa giurisprudenza di legittimità sottolinea che “se ai fini dell’applicazione

delle misure ex l. 31.5.1965 n. 575 è sufficiente la sussistenza di indizi di

appartenenza ad un’associazione di stampo mafioso, questo non significa che sia

consentito prescindere dal principio di legalità, trattandosi in ogni caso di un

procedimento le cui conseguenze incidono sensibilmente sulla libertà personale del

cittadino, oltre che su quella economica. La legge non consente infatti di dare rilievo

a semplici sospetti, ma esige degli «indizi», facendo riferimento ad una categoria di

elementi di prova, ricavati da fatti, comportamenti, circostanze specifiche e concrete

mediante un procedimento di tipo logico-induttivo”.185

In tal senso anche la giurisprudenza di merito.

La sezione misure di prevenzione del Tribunale di Napoli afferma che “nel

procedimento di prevenzione, a differenza di quello penale, non si richiede la

sussistenza di elementi tali da indurre ad un convincimento di certezza, essendo

sufficienti circostanze di fatto, oggettivamente valutabili e controllabili, che

conducano ad un giudizio di ragionevole probabilità circa l’appartenenza del

soggetto al sodalizio criminoso, con esclusione, dunque, di meri sospetti, illazioni e

congetture”.186

Non è infrequente, dunque, che il Tribunale faccia riferimento, ai fini della

determinazione della qualificata probabilità che il soggetto appartenga ad

un’associazione di tipo mafioso, ad una serie di elementi quali le ordinanze

applicative di custodia cautelare, i precedenti decreti applicativi delle misure di

prevenzione, l’esistenza di gravi indizi di colpevolezza, le dichiarazioni dei

collaboratori di giustizia, le accertate plurime frequentazioni del soggetto con

ambienti criminali, la latitanza ovvero le assoluzioni secondo il disposto dell’art. 530

cpv. c.p.p., nonché i precedenti penali che possono essere, per esempio, elencati

dall’autorità proponente come il Questore.

Tutti elementi che conducono, al termine delle valutazioni svolte, il Tribunale a

dichiarare esistente una certe associazione camorristica operante su un determinato

                                                            185 Cass. 12 gennaio 1985, RGI, 1986, 3807, 83 in: D. PESCE (a cura di), Rassegna di giurisprudenza sulle misure di prevenzione, CEDAM, 1995, p. 154 186 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc .18 maggio 2010, Reg. Gen. M.P. 198/98 e 21/05, Pres. Menditto, p. 33 

97  

territorio oltre che il ruolo svolto dal soggetto preposto e, conseguentemente, la sua

appartenenza all’associazione stessa.

“In definitiva, ai fini dell’affermazione di pericolosità sociale di un soggetto,

qualificata dalla sua appartenenza ad un’associazione di tipo mafioso, è necessaria e

sufficiente l’esistenza di un fatto noto, come premessa minore di un ragionamento

logico di tipo indiziario, all’esito del quale sia possibile risalire al fatto ignoto, come

premessa maggiore dell’appartenenza della persona all’associazione di tipo mafioso,

in virtù di un giudizio probabilistico”.187

Il presupposto per l’applicazione, dunque, è l’esistenza di un fato certo che,

incastrata nell’ambito di un sillogismo indiziario, possa far emergere la circostanza,

oggetto di un giudizio probabilistico, dell’appartenenza ad un’associazione di tipo

mafioso ex art. 416bis c.p.

4. La natura giuridica della misura del sequestro antimafia

Controversa è la natura della misura del sequestro antimafia. Dottrina e

giurisprudenza, infatti, non esprimono un indirizzo univoco.

Parte della dottrina ritiene che la natura giuridica del sequestro di prevenzione,

originariamente prevista dall’art. 2bis della legge 575/1965, oggi disciplinata dalle

norme del Codice Antimafia (artt. 20, 21 e 22 del Cod. Ant.), sia da assimilare a

quella di una tipica misura cautelare conservativa.

Tale sequestro, dunque, sarebbe “diretto ad evitare la dispersione dei beni

dell’indiziato e la sottrazione alla successiva confisca”188

Il riferimento dottrinario a tale natura giuridica, secondo il Macrì, sarebbe

confermato ulteriormente dalle modalità di esecuzione del sequestro, originariamente

previste dall’art. 2quater della legge 575/1965, oggi disciplinato dall’art. 21 del

Codice Antimafia, che di fatto prevede un rinvio alla norma contenuta nell’art. 104

delle disposizioni di attuazione del c.p.p. e dunque un sostanziale riferimento alle

formalità previste dal c.p.c.

                                                            187 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 27 ottobre 2010, Reg. Gen. M.P. 132/02, Pres. Est. Menditto 188 V. MACRÌ, Le nuove misure di prevenzione, in Quaderni del C.S.M., 1982, p. 99

98  

L’ambito degli istituti processual-civilistici è quello certamente delineato nel Libro

IV del c.p.c. e, segnatamente, quello identificato dal Titolo I dedicato ai procedimenti

sommari nell’ambito della tutela cautelare.

In particolare la Sezione II di tale titolo è dedicata al sequestro e particolarmente agli

istituti del sequestro giudiziario ex art. 670 c.p.c. e quello del sequestro conservativo

ex art. 671 c.p.c.

Se, dunque, al sequestro, istituto della procedura civile, si rinvia, la dottrina si è posta

il problema se la misura del sequestro antimafia fosse da ricondurre a quello

giudiziario ex art. 670 c.p.c. ovvero quello conservativo ex art. 671 c.p.c.

Isolatamente, infatti, discute di questo Ruggiero189 che rapporta il sequestro di

prevenzione con quello giudiziario civile, considerato che l’istituto previsto dall’art.

671 c.p.c. ha la precisa finalità di sottrarre, alla disponibilità di un soggetto, beni

mobili o immobili o altre universalità di beni quando ne è controversa la proprietà ed

è opportuno provvedere alla loro gestione e custodia temporanea.

Secondo il predetto autore, dunque, c’è una sostanziale identificazione degli istituti

specialmente in riferimento alle finalità da questi perseguite.

In effetti, nota Ruggiero, anche dalla prospettiva prevenzionistica la finalità è quella

di sottrarre al soggetto indiziato di appartenere ad associazione di tipo mafioso, la

disponibilità di beni dei quali ne “è controversa la proprietà”.

È controverso, cioè, se tali beni siano di provenienza illecita, ad esempio siano il

frutto dell’illecito o rappresentino il reimpiego di provento illecito, ovvero siano di

legittima provenienza.

Sono, dunque, beni per i quali è controversa la proprietà; se quest’ultima sia

attribuibile al soggetto proposto per l’applicazione della misura preventiva

patrimoniale, nel caso dimostri la lecita provenienza del bene stesso, ovvero sia da

attribuire allo Stato in quanto bene ottenuto con comportamenti penalmente rilevanti

come quello individuato dalla fattispecie ex art. 416bis c.p.

Di tutt’altra opinione quella parte della dottrina che esclude somiglianze sia con il

sequestro conservativo, che con quello probatorio penale.

                                                            189 P.V. MOLINARI – U. PAPADIA, Le misure di prevenzione cit., p. 494 in particolare l’indirizzo di A. Ruggiero, Amministrazione dei beni sequestrati o confiscati, in Quaderni del C.S.M., 1988, p. 41

99  

Tale orientamento, infatti, ritiene che la misura del sequestro antimafia somigli,

quanto a funzione, a quella “figura anomala di sequestro creata dalla giurisprudenza,

vigente il vecchio codice, e poi istituzionalizzata nel nuovo ed alla quale è stato

attribuito la qualifica di «preventivo».190

In verità la stessa dottrina ritiene che, sia dal punto di vista sostanziale che

processuale, la misura in esame è innegabilmente riconducibile all’istituto civilistico

del sequestro conservativo previsto dal codice di procedura civile.

Ampia è la dottrina che conferma tale indirizzo.

Parte di essa, infatti, fa riferimento ad una sostanziale identificazione del sequestro di

prevenzione con il sequestro conservativo ex art. 671 c.p.c.

Addirittura sarebbero ravvisati, sempre secondo detta parte della dottrina, i requisiti

minimi della tutela cautelare civile e dunque il fumus boni iuris ed il periculum in

mora.

Il primo sarebbe rappresentato dalla presenza di indizi per i quali i beni “sotto

processo” costituiscono “frutto o reimpiego di attività illecite. Il secondo è dato dal

timore che gli stessi beni, nelle more del procedimento, possano essere dispersi o

sottratti alla misura ablatoria”.191

Ancor di più, il sequestro di prevenzione risulta affine a quello conservativo civile, se

si considerano le caratteristiche fondamentali tipiche della tutela cautelare civile; e

cioè la provvisorietà del provvedimento del sequestro e la sua strumentalità rispetto

al provvedimento di confisca.

Va, infatti, notato che, così come il sequestro conservativo è strumentale

all’applicazione di un provvedimento definitivo quale il pignoramento, così come

previsto dalla norma contenuta nell’art. 686 c.p.c., per cui, “in base a tale

disposizione, una volta che il creditore sequestrante abbia ottenuto una sentenza di

condanna esecutiva, il sequestro si converte automaticamente in pignoramento”192,

cosi, nell’ambito della prevenzione antimafia, il Tribunale, come previsto dall’art. 24

del Codice Antimafia (che di fatto richiama integralmente la precedente disciplina

                                                            190 P. COMUCCI, Il sequestro e la confisca nella legge antimafia, in P.V. MOLINARI – U. PAPADIA, Le misure di prevenzione cit., p. 494 191 D. SIRACUSANO, Commenti articolo per articolo, l. 13/9/82 n. 646 (normativa antimafia), art. 14, in Leg. pen., 1983, p. 308 192 A. P. PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, JOVENE, 2010, pp. 615, ss.

100  

contenuta nell’art. 2ter, comma 3, primo periodo, della legge 575/1965), procede alla

confisca dei beni precedentemente sequestrati di cui la persona, nei cui confronti è

iniziato il procedimento, non ne possa giustificare la legittima provenienza.

In tale passaggio è evidente l’aspetto della provvisorietà e strumentalità che

caratterizza, appunto, tanto il sequestro conservativo quanto quello di prevenzione

antimafia.

E però va fatta distinzione quanto all’ambito di applicazione della misura cautelare

civile in esame.

Tale misura del diritto processuale civile, infatti, è finalizzata a garantire la

fruttuosità pratica di una futura sentenza di condanna al pagamento di somme di

denaro, suscettibile di essere eseguita mediante l’espropriazione forzata.

Dunque tale misura è diretta alla soddisfazione di un diritto di credito.

Altro, infatti, è l’ambito di applicazione della misura preventiva antimafia che

certamente non intende soddisfare alcun diritto di credito di alcun soggetto, bensì il

sequestro è finalizzato alla confisca dei beni e dunque all’ablazione definitiva, da

parte dello Stato, di quei beni di cui non sia stata dimostrata la legittima provenienza.

Ecco perché bisogna ritenere che la similitudine tra il sequestro conservativo e quello

di prevenzione, non può andare oltre la provvisorietà e strumentalità delle misure

stesse.

E che da questo punto di vista risulta certamente più affine, la misura di prevenzione

antimafia, a quella del provvedimento cautelare del sequestro giudiziario ex art. 670

c.p.c.

Altra parte, ancora, della dottrina si discosta totalmente dalla possibilità di raffrontare

le misure antimafia a quelle previste dalla disciplina processual-civilistica.

Ed, infatti, tale dottrina propende per una definizione della misura di prevenzione che

sia strettamente collegata al fine della stessa.

Per cui si afferma che “la sola funzione dal sequestro di prevenzione è quella di

togliere al mafioso la immediata disponibilità materiale ed il possesso di determinati

beni in vista della futura confisca di cui costituisce la fase anticipatoria e strumentale.

101  

In tal modo il sequestro non può che partecipare dei caratteri sostanzialmente

sanzionatori e di prevenzione criminale propri della confisca predetta”193.

La giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione torna, invece, a ribadire che la

misura del sequestro antimafia, ha natura sostanziale tipica del provvedimento

cautelare del sequestro conservativo, pur con le opportune differenze, nei presupposti

e nelle conseguenze.194

Per fare un esempio, un punto su cui parte della dottrina ha soffermato l’attenzione è

quello relativo “alla necessità o meno che, all’attuazione delle formalità costitutive,

di cui al codice di procedura civile, faccia seguito anche la materiale immissione nel

possesso del bene, da parte della procedura (con conseguente spossessamento del

detentore) e ciò affinché possa ritenersi formata la fattispecie complessa

dell’esecuzione del sequestro”195

Il profilo critico è stato poi affrontato dalla Suprema Corte di Cassazione con una

pronuncia con la quale ha sottolineato che il richiamo, da parte del legislatore, alla

normativa processual-civilistica, indica un espresso rinvio al quadro normativo così

come delineato dalle norme del codice di procedura civile e dunque anche di quelle

che trattano della custodia e dell’immissione in possesso del bene.196

Sul punto non si è espressa la Consulta se non nell’ambito di un’ordinanza con la

quale, sostanzialmente, non affronta direttamente il problema, dichiarando

inammissibile il giudizio promosso dal giudice a quo, in quanto esorbitava le

competenze della stessa corte, richiedendosi, di fatto, “un intervento di produzione

normativa, in particolare in materia sanzionatoria o, quanto meno, limitativa di diritti,

che compete esclusivamente al legislatore”.197

                                                            193 G. MONTELEONE, Effetti ultra partes delle misure patrimoniali antimafia, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1988, p. 574 194 Cass., sez., UU, 26 ottobre 1985, Giovinazzo 195 A. CAIRO, Le misure di prevenzione patrimoniali, gestione giudiziaria, situazioni debitorie, e crisi dell’impresa. La tutela dei terzi, SATURA, 2007, pp. 31 ss. 196 Cass., Sez. I, 2 febbraio 1987, Intile, in Giur. It., 1989, II, c. 57 197 Corte cost., Ord., 23 giugno 1988, n. 721

102  

5. La natura giuridica della misura della confisca antimafia

L’istituto della confisca di prevenzione non può essere trattato prescindendo da una

definizione giuridica della confisca in generale secondo il dettato del codice penale.

Secondo la disposizione contenuta nell’art. 240 c.p., “nel caso di condanna, il giudice

può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il

reato, e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto”.

Dunque, stando alla lettera del legislatore, la confisca ha una natura precipuamente

sanzionatoria rispetto a quelle cose che rappresentano i mezzi mediante i quali si è

consumato il reato ovvero quelle cose il cui possesso è stato possibile soltanto in

virtù della consumazione del reato.

Per cui la dottrina penalistica qualifica la confisca, così come definita dal legislatore

ex art. 240 c.p., “come una sanzione repressiva, anche se di carattere amministrativo,

di cui il sequestro costituisce l’indispensabile provvedimento cautelare”.198

Sul punto, anche per quanto concerne la misura della confisca di prevenzione, la

dottrina è in disaccordo.

Parte di essa, infatti, ritiene che si tratti di una vera e propria pena criminale ovvero

che si tratti, più semplicemente di una nuova misura di prevenzione a carattere

patrimoniale.

Non manca quella parte della dottrina che fa riferimento al criterio del doppio

binario, mutuando cosi la logica del processo penale.

Come nell’ambito della procedura penale tale doppio binario si articola nel binomio,

pena – misure di sicurezza, cosi nell’ambito della prevenzione, sempre secondo

questa parte della dottrina, ci sarebbe un intervento di natura repressiva ed uno di

natura prevenzionistica con la differenza, rispetto al processo penale, di ribaltamento

delle funzioni rispetto ai provvedimenti esaminati e giungendo, per questa via, a

riconfermare natura sanzionatoria alla confisca di prevenzione.199

                                                            198 F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, ed. Foro it., 1951, p.25 199 Tutti questi orientamenti della dottrina sono organicamente ripresi in P.V. MOLINARI – U. PAPADIA, Le misure di prevenzione cit., pp. 555 ss. secondo Nuvolone, infatti, la confisca è una vera e propria pena criminale quale massima pena pecuniaria comminata per un comportamento ritenuto in contrasto con gli interessi della collettività, anche se applicata al di fuori del procedimento relativo all’accertamento in ordine all’esistenza di un reato. Di diverso avviso Macrì per il quale l’orientamento generale tende a configurare la confisca in esame come nuova misura di prevenzione a carattere patrimoniale. Quest’ultima, applicata congiuntamente alla misura personale, ha la sola  

103  

Sulla natura giuridica della confisca di prevenzione si sono espresse anche le Sezioni

Unite della Cassazione che in una nota sentenze hanno sottolineato l’orientamento

complessivo della giurisprudenza, per il quale la S.C. esclude “il carattere

sanzionatorio di natura penale e, parimenti, quello di un provvedimento di

“prevenzione”, la confisca non può essere ricondotta che nell'ambito di quel “tertium

genus” costituito da una sanzione amministrativa, equiparabile (quanto al contenuto

ed agli effetti) alla misura di sicurezza prevista dall'art. 240 cpv. c.p.”200

Tale orientamento viene confermato, successivamente, ancora dalla Cassazione che

in altra sentenza, avvalendosi di tale definizione di natura giuridica della confisca di

prevenzione, giustifica l’ablazione di beni che siano intestati a proposto deceduto.

Afferma, infatti, la S.C. che “Il provvedimento di confisca, quindi, è stato emesso su

beni da ritenersi di provenienza delittuosa e pertanto da considerarsi “pericolosi” ex

se, e poiché la particolare confisca - de qua non ha ne carattere sanzionatorio ne

quello di un provvedimento di prevenzione, bensì quello di un tertium genus

riconducibile nell'ambito della misura di sicurezza ex art. 240 comma 2 c.p. (Cass.

Sezioni unite 3-7-1996, Simonelli), la sua applicabilità non può venire meno - così

come non si caduca quella prevista dalla suddetta norma del codice - in conseguenza

della morte della persona assoggettata alla misura personale, così come del “reo”,

ancorché si accerti postumamente che questa è avvenuta prima dell'adozione del

provvedimento ablativo”.201

                                                                                                                                                                         funzione di spezzare il legame tra il soggetto ed il suo patrimonio che, essendo stato conseguito in modo illecito, è causa di ulteriore manifestazione di pericolosità. Sulla logica del “doppio binario” ragiona invece Comucci, la quale ritiene che nell’ambito del procedimento di prevenzione sia stato istituito un c.d. “doppio binario” nel senso che è prevista tanto l’applicazione di misure repressive quanto quelle di carattere preventivo. Con la differenza che nell’ambito del procedimento di prevenzione patrimoniale tale rapporto risulta invertito quanto alla natura delle misure stesse. Secondo la Comucci, infatti, la prevenzione sarebbe raggiunta grazie all’applicazione delle misure personali mentre la repressione sarebbe raggiunta dall’applicazione di misure patrimoniali (ablative) e dunque necessariamente, da questo punto di vista, definibili come aventi natura sanzionatoria. Infine Bertoni richiama la natura di pena della misura della confisca di prevenzione è da ricercarsi proprio in quella definizione giuridica che offre il codice penale all’art. 240 per cui anche la misura della confisca ex art. 24 del Codice Antimafia, avrebbe natura sostanzialmente afflittiva e sanzionatoria. Diverso l’orientamento di Siracusano, che parifica la confisca prevista dalla legislazione antimafia a quella prevista ex art. 240 c.p. Si tratterebbe, dunque, di misura di sicurezza di carattere patrimoniale con la sola differenza del carattere dell’obbligatorietà del provvedimento ove ne sussistano i presupposti.  200 Cass., Sez., UU., 3 luglio 1996, n. 18, Simonelli 201 Cass., Sez., II, Pen., 8 luglio 1999, n. 1790

104  

Nell’ottica della cooperazione giudiziaria in Europa, un precedente può essere

richiamato in tema di qualificazione giuridica della misura di prevenzione della

confisca antimafia.

Un importante sentenza del Tribunale federale svizzero ha accolto una richiesta di

assistenza giudiziaria presentata dalla Procura di Milano, nell’ambito di un

procedimento di prevenzione promosso a carico di un indiziato di appartenere alla

‘ndrangheta.

La valutazione dei giudici elvetici si conclude con l’accoglimento della rogatoria.

La conclusione raggiunta non è di poco conto se si considera che il procedimento di

prevenzione patrimoniale, per cui era stata avanzata la richiesta di assistenza

giudiziaria, non essendo formalmente un procedimento penale, non sarebbe rientrato

nell’ambito di applicazione delle norme internazionali in materia di assistenza

giudiziaria.

Interessante, a tal fine allora, risulta il ragionamento giuridico dell’autorità

giudiziaria elvetica, cristallizza nella sentenza emanata dalla II Corte dei reclami

penali.

Secondo la concezione del diritto svizzero, infatti, l’assistenza giudiziaria

internazionale in materia penale può essere concessa solo quando una procedura

penale è aperta nel Paese richiedente.

Quest’ultima, però, non implica necessariamente un imputazione o una messa in

stato di accusa formale, può risultare sufficiente, infatti, un’inchiesta preliminare che

possa poi sfociare nella promozione di un procedimento penale, finalizzato alla

repressione di quelle infrazioni per le quali l’assistenza stessa è richiesta.

In altre parole ben può l’Italia avanzare tale richiesta anche in riferimento a

procedimenti preliminari, eventualmente di natura amministrativa, purché siano

preordinati all’apertura di un procedimento penale o al rinvio a giudizio ovvero

comunque collegati ad un procedimento penale.

Indipendentemente dalla valutazione che la giurisprudenza italiana dà della confisca,

nel rispetto dei principi affermati dalla CEDU, il Tribunale federale svizzero passa,

autonomamente, a valutare la natura giuridica della confisca italiana rapportandola al

medesimo istituto inserito nell’ambito del diritto interno.

105  

Questo passaggio, nel ragionamento giuridico condotto dall’autorità giudiziaria

straniera, assume particolare importanza nella misura in cui la confisca di

prevenzione italiana è considerata strumento, non soltanto coerente con le finalità di

prevenzione e di contrasto alle organizzazioni criminali, anche alla luce della

giurisprudenza della CEDU ormai consolidata su tale punto, ma anche caratterizzata

da forti similitudini con l’istituto elvetico e dunque realizzabile, oltre che nell’ambito

di un procedimento penale, anche in uno autonomo a quello penale (come ormai è

considerato il procedimento di prevenzione penale rispetto al processo penale).

Su tale punto, infatti, il Tribunale federale scrive che “la procedura di prevenzione

patrimoniale italiana presenta una similitudine sufficiente con le procedure di

confisca previste o riconosciute dal diritto svizzero. Essa presuppone, da una parte,

l'esistenza di un'infrazione penale e, dall'altra, un legame tra questa infrazione e gli

oggetti e valori da confiscare. Essa può quindi essere assimilata ad una causa

penale”202

                                                            202 Tribunale penale federale, II Corte dei reclami penali, 21 gennaio 2011, numero incarto RR.2010.237

106  

CAPITOLO III

LE INDAGINI PRELIMINARI ALLA PROPOSTA E

LE CARATTERISTICHE DELLA PROVA INDIZIARIA

1. Le indagini patrimoniali

Precedentemente all’introduzione del c.d. Codice Antimafia, approvato con d.lgs. 6

settembre 2011, n. 159, la fase delle indagini preliminari era disciplinata dall’art.

2bis della legge 575/1965.

Tale norma era stata inserita dall’art. 14 della legge 646/1982 e definitivamente

modificata ad opera della legge 55/1990.

Rispetto alla precedente formulazione, dunque, l’art. 19 del Cod. Ant. ha previsto

uno snellimento della norma.

I commi 4 e 5 del previgente art. 2bis, che riguardavano la disciplina relativa al

sequestro anticipato, quando vi sia pericolo che i beni di cui si prevede debba essere

disposta la confisca possano essere dispersi, sottratti o alienati, sono confluiti, infatti,

nell’attuale art. 22 del Cod. Ant. rubricato proprio “Provvedimenti d’urgenza”.

Il legislatore ha poi previsto che il comma 1 dell’art. 2ter della legge 575/1965,

relativamente ai poteri speciali d’indagine del Tribunale, fosse integralmente inserito

nel già citato art. 19 del Codice.

Sicché oggi le indagini patrimoniali sono disciplinate dall’art. 19 del d.lgs. 159/2011,

che si compone del combinato disposto delle precedenti formulazioni degli artt. 2bis,

commi 1,2,3,6, e 2ter, comma 1.

La struttura di tale norma recepisce pienamente il meccanismo funzionale al

controllo preventivo dei patrimoni di origine illecita, meccanismo, peraltro, previsto

proprio dalla “legge La Torre – Rognoni”.

L’art. 19 cit., infatti, disciplina l’attribuzione, ai soggetti preposti a svolgere le

indagini, penetranti poteri investigativi, funzionali proprio alla proposta di

applicazione della misura di prevenzione patrimoniale.

Le investigazioni patrimoniali, proprio in virtù della loro complessità, si svolgono in

una duplice fase.

107  

Secondo il disposto della norma, contenuta nell’art. 19 del d.lgs. 159/2011, infatti,

una prima fase è affidata ai soggetti titolari del potere di proposta.

Dunque l’attività d’indagine si svolge in un momento precedente all’instaurazione

del procedimento di prevenzione d’innanzi alle sezioni misure di prevenzione del

Tribunale.

Una seconda fase è prevista durante l’iter procedimentale.

Questa volta i poteri sono però attribuiti al Tribunale medesimo che avvia ex officio,

quando risulta necessario, l’attività investigativa.

108  

2. La natura giuridica delle indagini patrimoniali

Sulla natura giuridica delle attività investigative non c’è accordo in dottrina.

Bisogna, infatti, distinguere il caso in cui le indagini sono svolto su iniziativa del

questore o del direttore della direzione investigativa antimafia, e quello in cui le

stesse sono svolte su iniziativa del Procuratore della Repubblica ovvero del Tribunale

durante il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione.

Tale distinzione rileva ai fini della individuazione della natura giuridica delle

indagini in considerazione che gran parte della dottrina non ritiene che si possa

parlare di natura giurisdizionale specialmente in riferimento all’eventuale iniziativa

del questore o del direttore della Direzione investigativa antimafia.

A tale conclusione giunge parte della dottrina pur sottolineando che la norma

contenuta nell’art. 20 della legge 152/1975203 disponeva che “il procuratore della

Repubblica può compiere sia direttamente, sia a mezzo della polizia giudiziaria tutte

le indagini necessarie ai fini dell’attuazione dei precedenti articoli 18 e 19 (

relativamente all’estensione del procedimento di prevenzione ad altre categorie

soggettive come coloro che appartengono ad associazioni politiche disciolte ovvero

abbiano compiuto atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti alla ricostituzione

del disciolto partito fascista, ed altre forme di pericolosità sociale obiettivamente

rilevanti N.d.A.) con l’osservanza delle norme stabilite per l’istruzione sommaria”.

Una seconda parte della dottrina propende invece per la natura senz’altro

giurisdizionale delle indagini patrimoniali.204

                                                            203 Gli artt. da 18 a 24 della legge 152/1975 sono stati abrogati dall’art. 120 del d.lgs. 159/2011 204 Sul punto cfr. P.V. MOLINARI – U. PAPADIA, Le misure di prevenzione nella legge fondamentale, nelle leggi antimafia e nella legge antiviolenza nelle manifestazioni sportive, GIUFFRÈ, 2002, pp. 476 ss. che descrive le principali posizioni della dottrina. In particolare la posizione di Fortuna il quale richiamando espressamente l’art. 20 della legge del 1975, giunge alla necessaria conclusione che anche in tema di prevenzione patrimoniale il procuratore della Repubblica, nello svolgimento delle indagini patrimoniali, devono necessariamente essere osservate le norme stabilite dall’istruzione sommaria e dunque anche quelle sulle garanzie difensive. Tutto questo è escluso, rileva ancora Fortuna, quando a procedere alle indagini è il questore. Propende per la natura giurisdizionale anche M.C. Russo per il quale la distinzione è netta. Se, dunque, procede il procuratore della Repubblica non è possibile non ritenere la natura giurisdizionale di tali attività investigative richiamando dunque le garanzie previste per le indagini preliminari del codice di procedura penale. Se, invece, a procedere è il questore, non potendosi richiamare le tutele previste nell’ambito delle indagini preliminari all’esercizio dell’azione penale, risulta richiamata solo quella prevista dall’art. 350 c.p.p. per quanto concerne la nomina del difensore di fiducia e il diritto di assistere alle operazioni. Anche Taormina ritiene chiaramente dimostrato l’intento del legislatore di porre sullo stesso piano delle indagini preliminari nel procedimento penale, le indagini patrimoniali  

109  

Anche la giurisprudenza si è espressa in tal senso.

La Corte di Cassazione, da un lato, esclude che al procedimento di prevenzione

patrimoniale, in quanto incompatibili, che possano trovare applicazione gli istituti

tipici della fase istruttoria penale.

La Cassazione, però, riconosce espressamente il carattere giurisdizionale del

procedimento di prevenzione e anche dunque della fase delle indagini preliminari.

In una seconda sentenza, addirittura, la Suprema Corte ribadisce che in tema di

procedimento di prevenzione, non integra ipotesi di nullità l’omessa comunicazione

di garanzia al proposto da parte del procuratore della Repubblica prima che sia

cominciato l’accertamento della sussistenza delle condizioni per le quali può essere

avanzata, al Tribunale, la proposta di applicazione della misura preventiva

patrimoniale.205

La direzione intrapresa dalla giurisprudenza di legittimità, allora, è quella che vede

l’autonomia del procedimento di prevenzione patrimoniale da quello penale

confermando, però, per il procedimento di prevenzione patrimoniale, la medesima

natura giuridica del procedimento penale.

Tale orientamento sembra essere confermato dai più recenti dati normativi. Infatti,

dopo aver, all’art. 29, sancito espressamente l’autonomia dei due procedimenti, per

cui l’azione di prevenzione può essere esercitata anche indipendentemente

dall’esercizio dell’azione penale, il Codice Antimafia non abroga di fatto l’art. 23bis

della legge 646/1982 che disciplina i rapporti tra azione di prevenzione e azione

penale. Rapporti che si intensificano proprio in riferimento ai reato di cui all’art.

416bis c.p. e quello previsto ex art. 74 d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309.

L’art. 23bis cit., infatti, stabilisce che il pubblico ministero che procede per i reati di

associazione per delinquere di stampo mafioso o per associazione per delinquere

finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, da immediato avviso al procuratore

della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove dimora la persona

                                                                                                                                                                         preliminari alla proposta di applicazione di misure di prevenzione. In particolare, sottolinea Taormina, non si può non concludere che se tali attività investigative sono poste in essere da organo giurisdizionale, risulti già avviato il processo di formazione della prova. 205 Cass. Sez. I, 29 novembre 1985, Di Maio, in Giust. Pen., 1986, III, c. 425, m. 419, Cass. Sez. I, 27 febbraio 1990, p. 1461, n.1149

110  

delle generalità della persona imputata al fine di promuovere l’esercizio dell’azione

di prevenzione.

Lo stesso art. 23bis della legge 646/1982 dispone anche un potere di sospensione

attribuito al giudice della prevenzione quando sia iniziato o penda procedimento

penale, per i delitti già menzionati sopra, e la cognizione del reato influisce sulla

decisione del procedimento di prevenzione.

Tali rilievi normativi non possono non essere prova della ritenuta natura

giurisdizionale del procedimento di prevenzione patrimoniale da parte del legislatore.

3. I soggetti del procedimento di prevenzione patrimoniale: gli organi inquirenti

L’art. 19 del d.lgs. 159/2011, rubricato “indagini patrimoniali” richiama i soggetti di

cui all’art. 17 del d.lgs. cit.

Quest’ultima norma, infatti, individua i soggetti ai quali è attribuita la titolarità della

proposta, e dunque, il potere di effettuare le preliminari indagini, necessaria per

ricercare gli elementi sulla cui base avanzare, al Tribunale, la proposta di

applicazione della misura preventiva, nei confronti dei soggetti suscettibili di essere

sottoposti al procedimento per l’applicazione di una misura di prevenzione.

Quest’ultimi sono richiamati all’art. 16 del d.lgs. 159/2011 che a sua volta opera un

rinvio all’art. 4 dello stesso d.lgs. 159.

Ancora, l’art. 4 richiama i soggetti di cui all’art. 1.

Dallo studio delle norme, allora, si evince che il legislatore del 2011 ha confermato

le precedenti scelte per le quali la materia della prevenzione patrimoniale è stata

estesa a tutti i soggetti ritenuti socialmente pericolosi senza che si distinguesse tra

pericolosità qualifica o comune.

Tale distinzione, infatti, rileva solo ai fini della determinazione della competenza dei

soggetti attivi.

Cioè, rileva al fine di determinare se il potere di proposta spetti al procuratore

distrettuale ovvero a quello circondariale, come di seguito viene descritto.

I soggetti di cui parla l’art. 17, comma 1, sono il procuratore della Repubblica presso

il Tribunale del capoluogo di distretto ove dimora la persona, il questore, il direttore

della Direzione investigativa antimafia.

111  

La norma in esame, infatti, prevede una diversa competenza quando la richiesta di

misura di prevenzione riguardi i soggetti di cui all’art. 4 comma 1, lettera c).

In tal caso le funzioni e le competenze non spettano al procuratore distrettuale bensì

a quello circondariale.

Su tale profilo sono intervenute le modifiche inserite in seguito all’approvazione del

c.d. “pacchetto sicurezza” del 2008 che ha concentrato “nel Procuratore distrettuale

la titolarità esclusiva del potere di proposta delle misure di prevenzione antimafia, di

cui all’allora vigente l. n. 575/1965, sottraendola alle Procure circondariali”.206

Sulla competenza del procuratore distrettuale si è anche espressa la Suprema Corte di

Cassazione.

In particolare la Corte ha chiarito che “appartiene esclusivamente al Procuratore della

Repubblica presso il Tribunale del capoluogo di provincia in cui dimora il proposto

la competenza a promuovere il procedimento di prevenzione a norma dell’art. 2, l. 31

maggio 1965, n. 575 (disposizioni contro la mafia) che ha carattere funzionale ed è

pertanto inderogabile.

Ne consegue che l’eventuale incompetenza dell’organo di accusa, non suscettibile di

ratifica, conferma, convalida o conversione, integra un’ipotesi di nullità assoluta,

rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento”.207

Tali soggetti esplicano le loro funzioni nella prima delle due fasi d’indagine previste

dalla legge (retro 1). Questa fase è anche definita obbligatoria.

L’espressione non deve lasciare intendere, come una parte della dottrina ritiene208,

che il carattere obbligatorio si trasferisca anche sull’esercizio dell’azione di

                                                            206 L. FILIPPI - M.F. CORTESI, Il Codice cit, p. 112 207 Cass. Sez. I, 30 dicembre 2009, G.F., in CED Cass., n. 245973 208 Uno per tutti Filippi che sottolinea l’obbligatorietà dell’azione penale dichiarando che “essa corrisponde all’esercizio dell’azione penale nel processo penale di cognizione e come quella è da ritenersi obbligatoria” (Il procedimento di prevenzione patrimoniale, Cedam, 2002, p. 171). Ancora Filippi, torna sull’argomento dopo l’approvazione del d.lgs. 159/2011, richiamando l’art. 23bis della legge 23 settembre 1982, n. 646, articolo introdotto dall’art. 9 della legge 55/1990. Tale norma, secondo Filippi, “prevedendo che, quando si procede nei confronti di persone imputate del delitto di cui all’art. 416bis c.p. o del delitto di cui all’art. 74, d.P.R. n. 309/1990, il PM ne deve dare comunicazione «senza ritardo» al Procuratore della Repubblica territorialmente competente per il promovimento, qualora non sia già in corso, del procedimento di prevenzione di cui alla l. n. 575/1965, oggi racchiuso all’interno del Codice delle leggi antimafia, lascia intendere che detto promovimento sia obbligatorio” (Il codice delle misure di prevenzione, Giappichelli, 2011, p. 120). Ma a ben vedere, sembra intuibile concludere che, il destinatario della norma dell’art. 23bis della l. 646/1982, e dunque del vincolo di obbligatorietà, non è il Procuratore della Repubblica  

112  

prevenzione (alla cui base comunque c’è una potere di selezione delle notizie

rilevanti, estremamente discrezionale e di competenza degli organi proponenti), ma

si intende fare riferimento soltanto allo schema logico e temporale proprio del

procedimento di prevenzione rispetto al cui inizio, le indagini patrimoniali, si

pongono come fatto antecedente la proposta e dunque obbligatorie ai fini della stessa.

Le indagini, di cui all’art. 19 del Codice delle leggi antimafia, si caratterizzano,

inoltre, per non essere regolate da una successione di atti tipici e non sono soggette a

limitazioni temporali.

Si tratta, a ben vedere, di investigazioni per le quali, “pur essendo previsti alcuni

specifici atti investigativi (richiesta di informazioni e copia di documentazione;

sequestro di documentazione, che va autorizzato dal Procuratore della Repubblica o

dal giudice procedente, da identificarsi nel tribunale competente all’adozione delle

misure di prevenzione), si tratta di attività investigativa a forma libera”.209

Le indagini patrimoniali possono essere svolte direttamente dai soggetti titolari del

potere di proposta ovvero delegando la Guardia di Finanza o la polizia giudiziaria.210

Con la precedente impostazione legislativa (l’art. 2bis della legge 575/1965 è stato

infatti introdotto con la legge 646/1982 ora ricompresa nell’art. 19 del Codice delle

leggi antimafia) “veniva privilegiato il contributo operativo che avrebbe potuto dare

la «polizia tributaria della Guardia di Finanza», con effetto riduttivo quindi non

soltanto della potenziale collaborazione delle altre forze di polizia ma anche della

stessa Guardia di Finanza, in quanto la polizia tributaria – intesa in senso

istituzionale – costituisce solo una parte della struttura complessiva di quel corpo”.211

Il richiamo, dunque, anche alla polizia tributaria diviene allora funzionale

specialmente in considerazione di quanto disposto dall’art. 27, comma 5 del Codice                                                                                                                                                                          territorialmente competente a promuovere l’azione di prevenzione, bensì il PM del procedimento penale. Anche dal punto di vista dell’oggetto, stando al dato letterario dell’art. 23bis citato, non risulta essere obbligatorio il promovimento dell’azione di prevenzione (al quale la norma fa riferimento in considerazione del fine specifico della comunicazione ad opera del PM), bensì è obbligatoria, in precise circostanze previste dalla legge, la comunicazione che il PM deve trasmettere al Procuratore della Repubblica territorialmente competente sulla cui base, poi, effettuerà scelte, a carattere discrezionale, circa la sussistenza degli elementi idonei ad avanzare la proposta di applicazione della misura di prevenzione personale e patrimoniale.      209 A. BALSAMO – C. MALTESE, Il Codice Antimafia cit. p. 30 210 L’art. 19, comma 1 del d.lgs. 159/2011 così dispone: “ I soggetti di cui all’art. 17, comma 1 e 2, procedono, anche a mezzo della Guardia di Finanza o della polizia giudiziaria, ad indagini […]” 211 G. NANULA, La lotta alla mafia, GIUFFRÈ, 2009, p. 49

113  

delle leggi antimafia, per cui dopo l’esercizio dell’azione di prevenzione e comunque

non prima che sia intervenuta autorizzazione del pubblico ministero, gli esiti delle

indagini patrimoniali preliminari sono trasmessi al competente nucleo di polizia

tributaria della Guardia di Finanza a fini fiscali.

Tale previsione è stata introdotta in diretta attuazione dell’art. 1 della legge delega 13

agosto 2010, n. 136 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana,

Serie generale, n. 196) che al punto 9 chiedeva espressamente di prevedere che

“dopo l’esercizio dell’azione di prevenzione, previa autorizzazione del pubblico

ministero, gli esiti delle indagini patrimoniali siano trasmessi al competente nucleo di

polizia tributaria del Corpo della guardia di finanza a fini fiscali”.

I poteri, di cui dispongono gli organi inquirenti nella fase delle indagini patrimoniali,

sono disciplinati dalla già richiamata norma dell’art. 19.

Tali poteri comprendono “la facoltà di richiedere ad ogni ufficio della pubblica

amministrazione, ad ogni ente creditizio nonché alle imprese, società ed enti di ogni

tipo informazioni e copia della documentazione ritenuta utile ai fini delle

indagini.”212

Nell’ipotesi che le indagini siano condotte, previa delega da parte del Procuratore

della Repubblica, dagli organi di polizia giudiziaria (ivi compreso il corpo della

Guardia di Finanza) è prevista la facoltà “di procedere al sequestro della

documentazione con le modalità di cui agli articoli 253 (sequestro probatorio), 254

(sequestro di corrispondenza), 255 (sequestro presso banche) c.p.p.”213

La Cassazione ha poi confermato, relativamente ai termini delle indagini economico-

patrimoniali, che quest’ultime, di regola non sono soggetta ad alcun limite temporale,

fatta eccezione per l’ipotesi prevista dallo stesso art. 19, comma 3 del Codice delle

leggi antimafia, per cui le indagini sono effettuate anche nei confronti del coniuge,

dei figli e di coloro che hanno convissuto. In questo caso la norma introduce il limite

del quinquennio.214

                                                            212 F. MENDITTO, Codice Antimafia, commento organico, articolo per articolo, al D.Lgs. 6 settembre 2011, n.159, SIMONE, 2011, p. 77 213 Ibidem 214 Cass. Sez. II, 22 aprile 2009, n. 20906, Buscema e altri, Rv. 244878

114  

Diagramma illustrativo relativo alla titolarità del potere di proposta per

l’applicazione delle misure di prevenzione215

                                                            215 A. BALSAMO – C. MALTESE, Il Codice Antimafia cit. p. 28

Titolarità della proposta

Procuratore Nazionale Antimafia

Questore, Procuratore distrettuale e direttore della

Direzione Investigativa Antimafia

Misure di prevenzione patrimoniali

Misure di prevenzione personali applicate

dall’autorità giudiziaria

COMPETENZA del Tribunale del capoluogo della

provincia in cui la persona dimora

L’incompetenza territoriale del giudice è rilevabile in ogni

stato e grado del procedimento

115  

4. Le fonti probatorie utilizzabili e i mezzi di ricerca della prova

L’ampio ventaglio di fonti probatorie, utilizzabile nell’ambito del procedimento di

prevenzione, ha sollecitato, una parte della dottrina, a critiche rivolte alla dubbia

costituzionalità di tale impostazione.

L’ovvio riferimento è al comma 4 dell’art. 111 della Costituzione, che prevede il

rispetto del principio del contraddittorio nella formazione della prova.

Questa parte della dottrina, infatti, non ritiene compatibile il contenuto degli artt. 20

e 24 (rispettivamente “sequestro” e “confisca”) del Codice delle leggi antimafia, con

il disposto della sopra citata norma costituzionale.

La critica parte da lontano per poi approdare alla consapevolezza dell’ampia gamma

di fonti probatorie già predisposte, rispetto alle quali, il giudice della prevenzione,

non farebbe altro, questo il cuore della critica, che operare un mero richiamo.

A tale proposito si devono considerare, in particolare, i presupposti che il legislatore

ha posto alla base dei provvedimenti di sequestro e confisca dei beni alle

organizzazioni mafiose.

Nel caso del sequestro, infatti, l’art. 20 del d.lgs. 159/2011 stabilisce che “il

tribunale, anche d’ufficio ordina, con decreto motivato il sequestro dei beni dei quali

la persona, nei cui confronti è iniziato il procedimento, risulta poter disporre,

direttamente o indirettamente, quando il loro valore risulta sproporzionato al reddito

dichiarato o all’attività economica svolta ovvero quando, sulla base di sufficienti

indizi, si ha motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne

costituiscano il reimpiego,

Nel caso della confisca, l’art. 24 del d.lgs. 159 cit. stabilisce ancora che “il tribunale

dispone la confisca dei beni di cui la persona nei cui confronti è instaurato il

procedimento non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per

interposta persona, fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a

qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito […]”.

Va ricordato, poi, il nesso logico-giuridico (già affrontato nella Premessa del

Capitolo II) che lega le valutazioni che sono alla base della proposta di prevenzione

sia personale che patrimoniale.

116  

Il procedimento di prevenzione, infatti, è iniziato anche sulla sussistenza del

presupposto personale in quanto il soggetto è risultato indiziato di appartenere ad

associazione mafiosa e dunque l’asserita incostituzionalità, scaturente dalla

violazione del principio del contraddittorio nella formazione della prova, investe

necessariamente anche il profilo personale della prevenzione.

Da questo punto di vista, allora, ciò che la dottrina ritiene in contrasto con il

principio del contradditorio, è l’ampiezza delle formule legislative che dunque abilita

i soggetti inquirenti a fondare le proposte di prevenzione, ed il giudice ad

pronunciare decreto di sequestro e successivamente di confisca, sulla base di

numerose fonti probatorie che non troverebbero diritto di cittadinanza nell’ambito

dell’istruzione probatoria propria del processo penale.216

Cosi ché, il materiale probatorio utilizzato dal giudice della prevenzione, è questa

l’accusa principale che viene sollevata dalla dottrina più ostile al procedimento di

prevenzione, non sarebbe formato nell’ambito del dibattimento in ossequio al

fondamentale principio del contraddittorio previsto dall’art. 111 della Costituzione.

A ben vedere, il più volte citato principio di autonomia, tra processo penale e

procedimento di prevenzione, opera anche in tal senso.

Non solo relativamente alla consistenza e qualità della prova ma anche con

riferimento ai principi tipici del processo penale.

Con questo, e tanto la giurisprudenza quanto altra parte della dottrina lo confermano,

non si vuole affermare la piena discrezionalità circa l’operatività del principio in

discussione nel procedimento di prevenzione patrimoniale.

                                                            216 Su tale punto cfr. Filippi il quale sostiene che “la prassi registra l’utilizzazione ai fini della decisione di qualsiasi atto” e che è “pure possibile che l’attività istruttoria sia integrata dalle prove assunte dal giudice penale che abbia proceduto per i reati di cui agli artt. 416bis c.p. e 74 d.P.R. n. 309 del 1990, secondo le previsioni dell’art. 23bis comma 2 della l. n. 646 del 1982 per il quale successivamente al promovimento del processo di prevenzione, il giudice penale trasmette a quello che procede per l’applicazione della misura di prevenzione «gli atti rilevanti ai fini del procedimento, salvo che ritenga necessario mantenerli segreti». Anche questa ipotesi di circolazione probatoria si mostra insensibile alla regola del contraddittorio nella formulazione della prova, dettata dall’art. 111 comma 4 Cost.” (L. FILIPPI, Il procedimento di prevenzione patrimoniale cit., p. 347). Lo stesso autore aggiunge, inoltre, che non essendo prevista la formazione del fascicolo per il giudizio di prevenzione, tutti i verbali delle indagini confluiscono nel fascicolo a disposizione del giudice, in contrasto con il principio della formazione della prova in contraddittorio, a norma dell’art. 111 Cost.” (L. FILIPPI - M.F. CORTESI, Il Codice cit., p. 153).  

117  

La giurisprudenza di merito, infatti, non censura tale fondamentale principio, che

invece richiama espressamente nei decreti di confisca nei quali non è raro leggere

che “la difesa ha solo genericamente contestato la sussistenza dei presupposti

soggettivi necessari per l’applicazione della misura di carattere personale e

patrimoniale […]” piuttosto che “ le difese dei terzi intestatari in primo luogo

producevano documentazione relativa alla pericolosità dell’- omississ - […]”.

Tale tenore letterario, dunque, non può non corrispondere alla trascrizione, nel

provvedimento motivato, di una fase tipica come quella del contraddittorio, come

risulta, oltretutto, dagli stessi paragrafi di tali provvedimenti, redatti dal Tribunale,

nella cui rubrica si legge “i risultati del contraddittorio delle parti all’udienza

camerale”.217

In un più remoto provvedimento, della Sezione misure di prevenzione del Tribunale

di Napoli, si affronta specificamente la questione della “rituale instaurazione del

contraddittorio” affrontando il valore giuridico del c.d. “invito a comparire”.218

                                                            217 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 12 aprile 2011, Reg. Gen. M.P. n. 143/05, Reg. decreti n. 83/2011 Pres. – Rel. Del Balzo (decreto irrevocabile 30 maggio 2011), ancora, Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 14 dicembre 2010, Reg. Gen. M.P. n. 112/09, Reg. decreti n. 302/2010 Pres. Del Balzo, Rel. Mazzeo 218 In tale provvedimento si legge: “ Com’è noto, la giurisprudenza, sulla spinta di alcune pronunzie interpretative di rigetto della Corte costituzionale ( C. cost. 28 novembre 1972, n. 168; C. cost. 25 maggio 1975, n. 69) va ormai da tempo affermando che il c.d. invito a comparire, di cui al comb. Disp. degli artt. 4, co. 5°, l. 1423/1956 e 636 c.p.p. abr. Non è solo un mezzo per la vocatio in iudicium del proposto ma deve svolgere anche una funzione di contestazione dei fatti in ordine ai quali questi è chiamato a difendersi. Tali principi non possono non valere anche dopo l’abrogazione dell’art. 636 c.p.p. 1930, con la conseguenza che, oggi, la duplice funzione già attribuita al suddetto invito a comparire deve essere svolta dall’avviso della data dell’udienza camerale, che, ai sensi del comb. disp. degli artt. 4, co. 5°, l. 1423/1956, e 678 e 666 c.p.p. 1988, ne ha preso il posto (un vero e proprio invito a comparire rimane necessario, ai sensi dell’art. 4, co. 6°, l. 1423/1956, solo nel caso in cui il proposto, ritualmente avvisato dell’udienza camerale, non vi si presenti ed il tribunale ritenga necessario interrogarlo). Ciò posto, pare al Collegio che, nella specie, nessuna nullità si sia verificata, giacché gli avvisi dell’udienza camerale notificati ai proposti nell’ambito dei procedimenti indicati – omississ – recavano, allegate in copia, sia le proposte avanzate nei loro confronti, sia i provvedimenti di sequestro adottati, sia degli estratti delle parti riguardanti specificamente ciascuno di loro, della sentenza-ordinanza emessa dal Giudice Istruttore presso questo Tribunale in data 28 luglio 1989, che costituisce la summa dei fatti assunti dall’autorità proponente come sintomatici della pericolosità sociale da loro rispettivamente attribuiti. Peraltro i medesimi fatti erano già aliunde ampiamente conosciuti dai preposti, essendo stati oggetto di un dibattimento in sede penale.” Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 23 settembre 1992, Proc. n. 19/89 + 141/90 + 198/90 + 152/91 M.P., Reg. decreti 305/1992, Pres. Peluso, Est. Celentano. Non inficia tale ragionamento l’intervenuta abrogazione degli artt. 636 e 637 c.p.p. richiamati dall’art. 4, comma 5 della legge 1423/1956 che successivamente faceva riferimento all’art. 678 c.p.p. richiamando a sua volta l’art. 666 c.p.p.  

118  

Di là da queste osservazioni empiriche, altra parte della dottrina ha sottolineato come

non si possa negare l’applicabilità della norma prevista dal comma 4 dell’art. 111

Cost.

Non è possibile, dunque, negare l’operatività del principio in esame nell’ambito del

procedimento di prevenzione.

La norma costituzionale, infatti, introduce un principio, la cui generale previsione, si

riferisce necessariamente anche al procedimento di prevenzione, senza per questo

operare una meccanica trasposizione delle regole di ammissione della prova, previste

specificamente nell’ambito del processo penale (si ricordi il già citato principio di

autonomia tra processo penale e procedimento di prevenzione).

Le garanzie costituzionali, allora, lungi dall’essere intrise di una pretesa

assolutizzante, tanto da renderle applicabili indifferentemente a qualunque settore

processuale, devono invece atteggiarsi in conformità agli scopi a cui i diversi tipi di

processo si indirizzano.

“È chiaro che il principio del contraddittorio nella formazione della prova, deve

espandersi in tutta la sua pienezza nei processi tendenti all’accertamento della

responsabilità penale dell’imputato ed alla conseguente applicazione di sanzioni che

incidono sulla libertà personale, tutelata dall’art. 13 della Costituzione come diritto

inviolabile.

Ma al contempo, è perfettamente ragionevole ritenere che, in rapporto al

procedimento di prevenzione, il principio del contraddittorio non precluda il ricorso a

prove formate unilateralmente, ai fini dell’accertamento dei presupposti per

l’applicazione di misure che sono fondate su una fattispecie di pericolosità sganciata

da valutazioni di colpevolezza”.219

In altri termini, va sottolineato che nella fattispecie del procedimento di prevenzione,

è possibile giungere a risultanze investigative significative, e dunque probatorie, solo

sulla scorta di un insieme di mezzi di ricerca della prova e mezzi di prova più ampio

di quello previsto nell’ambito del dibattimento penale.

                                                                                                                                                                         Attualmente, con l’introduzione del c.d. Codice delle leggi antimafia, questo complesso sistema di rinvii è stato semplificato richiamando, la norma dell’art. 7 d.lgs. 159/2011, direttamente l’art. 666 c.p.p. per cui il procedimento di prevenzione si svolge in camera di consiglio. 219 A. BALSAMO - V. CONTRAFATTO - G. NICASTRO, Le misure patrimoniali contro la criminalità organizzata, GIUFFRÈ, 2010, p. 158

119  

Questo perché deve essere considerata la particolare realtà economico-finanziaria, da

contrastare, caratterizzata da un alto livello di mimetizzazione e di occultamento

delle risorse.

Anche nel procedimento di prevenzione, allora, possiamo distinguere tra mezzi di

prova e mezzi di ricerca della prova, i cui ambiti sono sensibilmente ampliati in

considerazione della particolarità e della finalità di detto procedimento come già

osservato.

Nel ricordare che “per fonte di prova si intende una cosa, un documento, una persona

che possano offrire al giudice spunti conoscitivi utili per la decisione da adottare”220,

va evidenziato che tra le fonti probatorie utilizzabili nell’ambito della prevenzione

“sono state inclusi i precedenti penali, l’esistenza di recenti denunzie per gravi reati,

il tenore di vita, l’abituale compagnia di pregiudicati e di soggetti sottoposti a misure

di prevenzione, ed altre manifestazioni oggettivamente contrastanti con la sicurezza

pubblica”221

Non sorprende, allora, che nel ragionamento dei giudici di merito, tanto la

pericolosità sociale quanto l’illecita origine dei beni che si intendono sottoporre a

misure di prevenzione patrimoniale (previa valutazione con esito positivo, giova

ribadirlo, della sussistenza della pericolosità sociale del proposto oltre la necessità di

dimostrare la disponibilità, diretta o indiretta, di detti beni), venga ricostruita

mediante il richiamo esplicito a ordinanze di custodia cautelare o sentenze di

condanna e decreti di sequestro precedentemente emessi.

Rappresentano, ancora, fonti di prova nel procedimento di prevenzione, “le

informazioni acquisite dagli organi di P.S.”222, le risultanze di precedenti

procedimenti penali, rispetto ai quali, i giudici della prevenzione specificano che “i

fatti accertati nell’ambito di […] procedimento penale sono stati specificamente

indicati e valutati per la loro rilevanza ai fini della ritenuta sussistenza degli indizi di

appartenenza del proposto al sodalizio camorrista nel provvedimento di

sequestro”.223

                                                            220 G. RICCIO – G. SPANGHER, La procedura penale cit., p. 427 221 Cass., Sez. V, 14 dicembre 1998, n. 6794, in proc. Musso, in CED Cass. n. 212209 222 F. FIORENTIN (a cura di), Le misure cit., p. 396 223 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 27 ottobre 2006, Reg. Gen. M.P. n. 136/99 + 44/05 + 105/05, Reg. decreti 162/07 “A” Pres. Del Balzo, Rel. La Posta

120  

Logica, quella del ragionamento dei giudici di merito, coerente con quanto affermato

recentemente dalla Suprema Corte che, fotografando plasticamente l’attività

d’indagine cartolare dei giudici della prevenzione, ha sottolineato come l’esame delle

pronunce delle corti di merito, in riferimento alle posizioni dei vari proposti, debba

essere valutata nella loro complessità anche se vanno in senso contrario

all’affermazione della penale responsabilità dell’imputato-proposto.

A tale proposito, infatti, la S.C. afferma che “risponde pertanto ad una insopprimibile

esigenza logica, prima ancora che giuridica, che, nell'ipotesi in cui il proposto sia

stato irrevocabilmente prosciolto da uno dei delitti suindicati, il giudice delle misure

di prevenzione esamini comparativamente tutti gli elementi di prova che hanno

indotto il Giudice penale ad assolvere l'imputato, onde stabilire se la valenza

attenuata del sistema probatorio, propria del processo di prevenzione, consenta di

affermare la permanenza di indizi tali da suffragare l'attribuibilità di uno di quei reati

al proposto”.224

Cosi come, ai fini della dimostrazione dell’effettiva disponibilità diretta o indiretta

dei beni e della loro provenienza illecita, risultano fonti probatorie, utilizzate dai

giudici della prevenzione, le dichiarazioni ai fini dei redditi tratte dall’archivio

informatico dell’Anagrafe Tributaria, le risultanze dei redditi da lavoro dipendente

ottenibili mediante consultazione dell’archivio informatico dell’Istituto nazionale

della previdenza sociale (INPS), nonché l’esistenza di quote di partecipazione

societarie intestate non al proposto ma a soggetti (parenti o affini che hanno

convissuto con il proposto nell’ultimo quinquennio) per i quali risulti la totale

assenza di redditi.

Non vanno dimenticati gli accertamenti bancari dai quali spesso emergono

operazioni di concessione di mutui o fidi privi di qualsivoglia garanzia.

Risultanza, questa, che non solo evidenzia l’assoluta estraneità di tale modus

operandi di qualsivoglia istituto di credito che operi in condizioni di normalità, ma è,

spesso, elemento fondamentale sul quale, il Collegio di prevenzione, fonda il proprio

convincimento, circa l’insussistenza del canone della buona fede, requisito

                                                            224 Cass. Sez. V, 8 novembre 1995, sent. n. 2553, Morana

121  

fondamentale per operare il riconoscimento dei crediti e dunque la tutela dei terzi nel

procedimento di prevenzione.

L’ampio catalogo delle fonti probatorie, utilizzabili nell’ambito della prevenzione

antimafia, prevede anche documenti delle autorità di governo locali.

Non si può omettere di considerare, infatti, che “una fonte conoscitiva rilevante e

finora poco sfruttata risiede anche nelle informative prefettizie che, in particolare

nell’ambito degli appalti pubblici, evidenziano la presenza di soggetti già raggiunti

da misure di prevenzione e la sussistenza di condanne relative al fenomeno mafioso,

nonché, infine, elementi di contiguità ambientale”225 con le organizzazioni criminali

operanti sui vari territori.

Rientrano nei mezzi di prova le intercettazioni.

A tale proposito va specificato che se, da un lato, per intercettazioni di conversazioni

o comunicazioni “si intende quell’attività che si effettua mediante strumenti tecnici

di percezione e che tende a captare il contenuto di una comunicazione segreta in

corso tra due o più persone, quando l’apprensione medesima è operata da parte di un

soggetto che nasconde la sua presenza”226, rientrando, quest’attività, giustamente, in

quelli che il codice di procedura penale definisce i mezzi di ricerca della prova,

nell’ambito della prevenzione deve essere considerato un diverso punto di

osservazione.

A ben vedere, infatti, nella fase delle indagini patrimoniali, avviate al fine di

promuovere l’azione di prevenzione, nessun Giudice per le indagini preliminari

interviene a valutare la sussistenza dei requisiti, previsti dalla legge, per autorizzare

le intercettazioni richieste dal Pubblico Ministero.

Ed invero, durante il procedimento di prevenzione, i giudici richiamano le risultanze

delle intercettazioni disposte ed autorizzate in altri procedimenti penali.

In alcuni provvedimenti di confisca, infatti, non sorprende leggere che “il contenuto

della conversazioni intercettate fornisce una serie significativa di elementi dai quali

si trae la coincidenza degli interessi e le cointeressanze tra l’organizzazione

camorrista” e le attività del preposto (Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione

                                                            225 G. CAPECCHI, Le misure di prevenzione patrimoniali. Laboratorio di esperienze pratiche, riflessioni comparative e spunti operativi, EXPERTA, 2011, p. 21 226 P. TONINI, Manuale di procedura penale, GIUFFRÈ, 2010, p. 327

122  

delle misure di prevenzione, cc. 27 ottobre 2006, Reg. Gen. M.P. n. 136/99 + 44/05 +

105/05, Reg. decreti 162/07 “A” Pres. Del Balzo, Rel. La Posta).227

È appena il caso di sottolineare che, l’aver esteso la categoria dei mezzi di prova

nell’ambito del procedimento di prevenzione, mai è equivalso a ricomprendere tra

questi anche quelli affetti da inutilizzabilità patologiche.

Stiamo parlando, infatti, del regime di inutilizzabilità della prova nell’ambito del

procedimento di prevenzione patrimoniale, in riferimento al quale, “la giurisprudenza

                                                            227 A tale proposito sembra interessante una pronuncia della Cassazione volta a delimitare l’utilità del contenuto di intercettazioni che possono essere richiamate dai giudici della prevenzione e sulla cui base potrebbe fondarsi il giudizio di disvalore dell’appartenenza del proposto all’associazione mafiosa. Invero, con questa pronuncia, la S.C. sottolinea che, pur dovendosi considerare la diversa consistenza probatoria tra processo penale e procedimento di prevenzione, la minore consistenza dell’indizio non può risolversi in ragionamenti volti a travalicare il confine del fatto per sconfinare nel campo di mere congetture e illazioni. Per tale motivo la S.C. afferma che “la misura di prevenzione adottata è stata ancorata all'asserita appartenenza del proposto ad un'associazione di tipo mafioso e da ciò si è conseguentemente desunta la pericolosità qualificata del medesimo proposto. A tale conclusione si è pervenuti essenzialmente, al di là del richiamo di alcuni precedenti giudiziari del Guzzetta non particolarmente allarmanti, sulla base del contenuto di una intercettazione di conversazione ambientale tra persone indiziate di appartenere al clan mafioso "Santapaola" (gruppo “Monte Po”), le quali avevano, appunto, fatto indiretto riferimento al predetto, Guzzetta, tacciandolo di superficialità per essersi fatto sorprendere dalle forze dell'ordine a bordo di un furgone di provenienza furtiva. Quest'ultima circostanza, fulcro dell'accertamento di pericolosità compiuto dal giudice a quo, si appalesa priva di seria consistenza e non può integrare quell'indizio idoneo a dimostrare, sia pure ai meri fini della prevenzione, la "vicinanza" del proposto ad ambienti mafiosi e, quindi, la sua pericolosità qualificata, sicché è indubbia la violazione di legge che connota il decreto impugnato (art. 1 della legge n. 575/65). Questa Suprema Corte, già con sentenza del 3/2/1999 pronunciata in sede “de libertate” (il riferimento è all'ordinanza custodiale del 22/6/1998), aveva definito la richiamata intercettazione ambientale “dato equivoco, suscettibile di interpretazioni svariate” e di tanto non può non tenersi conto anche ai fini dell'applicazione della misura di prevenzione. È pur vero che c'è differenza, nei presupposti e nei fini, tra il procedimento penale ed il provvedimento di prevenzione, differenza che non solo determina l'autonomia dei due procedimenti, ma anche una diversa rilevanza delle questioni probatorie: il primo richiede prove piene per dimostrare la responsabilità penale in ordine ad un reato; il secondo prescinde dall'accertamento della responsabilità penale e, avendo come presupposto la pericolosita sociale, deve fondarsi su elementi di minor efficacia probatoria. È anche vero, tuttavia, che tali elementi, qualora si tratti, come nella specie, di pericolosità qualificata dall'appartenenza ad associazione di tipo mafioso, debbono comunque raggiungere la consistenza dell'indizio, con esclusione, quindi, di sospetti, congetture ed illazioni, che sono mere intuizioni del giudice, mentre l'indizio è sempre fondato su un fatto certo, dal quale risalire, attraverso un procedimento logico-induttivo, ad altro fatto non noto. Nel caso in esame, il tenore vago ed equivoco della conversazione intercettata, già rilevato da questa Corte nella procedura incidentale “de libertate”, non riveste, in difetto di ulteriori elementi di riscontro idonei ad orientare un'interpretazione fattuale in termini più specificamente definiti, alcuna valenza per supportare il giudizio di pericolosità qualificata, anche perché gli altri elementi presi in considerazione da l giudice a quo (precedenti giudiziali) hanno scarso rilievo e non sono stati adeguatamente approfonditi alla luce pure delle allegazioni difensive”. Cass., Sez.VI, 6 febbraio 2001, dep. 28 marzo 2001, Sent. n. 12511

123  

è andata consolidandosi nel senso di escludere dal materiale probatorio

legittimamente acquisito nel procedimento di prevenzione tutti gli atti affetti da

inutilizzabilità patologica: si tratta degli atti probatori assunti contra legem, la cui

utilizzabilità è vietata in modo assoluto non solo nel dibattimento, ma in tutte le fasi

del procedimento, comprese quelle delle indagini preliminari e dell’udienza

preliminare, nonché le procedure incidentali cautelari e quelle negoziali di

merito”.228

La norma al quale si fa riferimento è quella contenuta nell’art. 191 c.p.p. che

riguarda, appunto, le prove illegittimamente acquisite.

La maggior parte della dottrina, infatti, è concorde nel riconoscere, a tale principio,

carattere generale e dunque valevole, nonostante la più volte sottolineata autonomia

tra le procedure in discussione, anche nell’ambito del procedimento di prevenzione

patrimoniale il cui “alleggerito” impianto probatorio giammai deve risolversi in

violazioni ingiustificate dei principi costituzionali.

Per tale motivo, ad esempio, la S.C. (Cass. Sez. V, sent. n. 3687 del 27 ottobre 2010,

Cassano e altri in CED Cass. 249691) “ha ritenuto illegittimo il decreto di

applicazione della misura di prevenzione qualora la prognosi di pericolosità

qualificata del proposto sia fondata su dichiarazioni accusatorie indirette, rese in

violazione dell’art. 195 comma settimo c.p.p, non essendo la fonte conoscitiva delle

stesse identificata né identificabile”.229

Stesso ragionamento per le intercettazioni di conversazione che sono state dichiarate

inutilizzabili ai sensi dell’art. 271 c.p.p.

Possono, al contrario, essere utilizzati elementi probatori che sono affetti da

inutilizzabilità fisiologica ovvero da inutilizzabilità relativa espressamente previste

dalla legge con riguardo alla fase dibattimentale.

“Il punto di equilibrio raggiunto dalla giurisprudenza di merito nella materia in

esame sembra coincidere con l’assunto […] secondo cui il requisito minimo di un

“processo equo” è che la fonte di prova determinante, utilizzata ai fini della

decisione, sia stata comunque inserita nel circuito del contraddittorio, anche sotto

                                                            228 A. BALSAMO – C. MALTESE, Il Codice Antimafia, cit. p. 40 229 Ibidem 

124  

forma di contraddittorio “differito” a meno che non ricorra una delle ipotesi descritte

dal comma 5 dell’art. 111 Cost.”.230

Per quanto attiene ai mezzi di ricerca della prova, che secondo la dottrina processuale

penale rappresentano gli strumenti in base ai quali “entra nel procedimento un

elemento probatorio che preesiste allo svolgersi del mezzo stesso”231, questi sono

esplicitamente codificati all’art. 19 del Codice delle leggi antimafia.

La norma, infatti, al comma 4, fa espressamente riferimento alla copia di documenti

che, nella valutazione degli inquirenti, sono ritenuti utili per dimostrare la

pericolosità sociale qualificata del proposto oltre che la sua disponibilità di beni di

illecita provenienza.

Per altro, giova rammentarlo, la or ora citata norma del comma 4 ben si combina con

il diretto richiamo, operato dal d.lgs. 159/2011, all’art. 666 c.p.p. che a sua volta

rinvia all’art. 185 disp. att. c.p.p., dal cui combinato disposto, risulta proprio che il

giudice può chiedere alle autorità competenti tutti i documenti e le informazioni

necessarie, anche in udienza, procedendo senza particolari formalità, in relazione ad

altri mezzi di ricerca della prova ( non previsti dal Codice antimafia ma da esso

ricompresi in virtù proprio del rinvio operato al c.p.p.) come la citazione e l’esame

dei testimoni e l’espletamento della perizia.

Quanto al sequestro della documentazione, richiamato dallo stesso art. 19 d.lgs.

159/2011, si procede ad esso osservando le norme dettate, a tale proposito, dal codice

di procedura penale.

Quest’ultimo mezzo di ricerca della prova è, in particolare, il sequestro probatorio

disciplinato dagli artt. 253 ss. c.p.p.

Di particolare importanza risulta il sequestro presso banche disciplinato dall’art. 255

c.p.p. per il quale è prevista un’apposita disciplina.

Dato l’espresso richiamo di questa norma, da parte dell’art. 19 d.lgs. 159/2011, si

deve intendere espressamente richiamata anche la relativa disciplina.

In base a quest’ultima l’autorità giudiziaria (e gli ufficiali di polizia giudiziaria da

questa delegati) possono esaminare atti, documenti e corrispondenza presso banche

                                                            230 Ivi, p. 41 231 Ivi, p. 320

125  

per rintracciare cose da sottoporre a sequestro o per accertare altre circostanze utili

alle indagini.

L’autorità giudiziaria può limitarsi a formulare una richiesta di esibizione o

consegna.

Se la banca oppone un rifiuto, l’autorità giudiziaria (il pubblico ministero durante le

indagini) procede a perquisizione personalmente.232

5. La prova indiziaria

Una riflessione, se non certamente esaustiva, deve essere riservata al tema della

prova indiziaria.

Invero il dato normativo fa riferimento ad essa come principale parametro di

riferimento probatorio nell’ambito del procedimento di prevenzione.

Sia nella definizione dei soggetti destinatari delle misure di prevenzione, infatti, che

in quella relativa al sequestro e alla confisca, il legislatore si riferisce all’indizio

come termine di valutazione probatoria sulla cui base disporre le relative misure di

prevenzione.

Nell’ambito dell’art. 4 del d.lgs. 159/2011, la norma richiama gli “indiziati di

appartenere alle associazioni di cui all’art. 416bis c.p.”; all’art. 20 invece il

legislatore stabilisce che il tribunale ordina il sequestro dei beni anche quando “sulla

base di sufficienti indizi”, si ha motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di

attività illecite o ne costituiscano il reimpiego;

Se così stanno le cose, l’autorità giudiziari non deve raggiungere la prova della

penale responsabilità ma indizi, presupposto di applicazione delle misure di

prevenzione.

In particolare, nell’ambito della prevenzione antimafia, la Cassazione ha

specificamente affermato che “in tema di misure di prevenzione il giudice non deve

raggiungere la prova dell'appartenenza ad una associazione mafiosa, ma raccogliere

un contesto indiziario univoco sufficientemente indicativo della pericolosità del

soggetto”.233

                                                            232 Ivi, p. 327 233 Cass., Sez. VI, 27 maggio 1997, n. 2148, dep. 19 luglio 1997, Rv. 208310  

126  

Ne “l’indizio” deve disporre dei requisiti previsti dall’art. 192 c.p.p. che richiede, ai

fini della valutazione della prova, che l’esistenza di un fatto può essere desunta da

indizi a patto che questi siano “gravi, precisi e concordanti”.

Va evidenziato, infatti, che la norma in esame è pur sempre dettata con riguardo ai

fini e alle caratteristiche proprio del processo penale che tende all’accertamento della

penale responsabilità.

Appare, dunque, chiaro che in riferimento al procedimento di prevenzione l’indizio,

che è posto alla base dello standard probatorio, non sia caratterizzato dalla stessa

carica probatoria.234

                                                            234 Non deve sorprendere allora se le corti di merito espressamente affermano la possibilità che “il giudizio di pericolosità sia fondato su elementi certi, dai quali possa legittimamente farsi discendere l’affermazione dell’esistenza della pericolosità, sulla base di un ragionamento immune da vizi, fermo restando che gli indizi sulla cui base formulare il giudizio di pericolosità non devono necessariamente avere i caratteri di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 192 c.p.p.” (Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 7 febbraio 2009, dep. 23 febbraio 2009, Reg. Gen. M.P. n. 131/02, 154/03, 159/06, 64/08, 210/08, Reg. Dec. n. 2 /09/S, Pres. Menditto) Ancora, in altro provvedimento di merito si legge chiaramente che “la norma impone al Giudice della prevenzione, nella formulazione del suo giudizio, di fare riferimento a indizi, ovverosia ad elementi certi dai quali possa legittimamente farsi discendere l’affermazione dell’appartenenza di un soggetto all’associazione “de qua” (mafiosa N.d.A.); detti indizi, però, ha ben chiarito la Suprema Corte, non devono, necessariamente, essere gravi, precisi e concordanti”. (Tribunale Ordinario di Roma, Sezione Misure di Prevenzione, cc. 19 maggio 2009, dep. 10 giugno 2009, Reg. Gen. M.P. n. 268/2008, Reg. Dec. 166/09, Pres. Capozza, Est. Scicchitano). Ad ulteriore conferma altro provvedimento di confisca del Tribunale di Roma riprende il ragionamento della S.C. affermando che quest’ultima ribadisce che “la condizione di associato mafioso implica, più che uno status di appartenenza, l’esplicazione di un ruolo dinamico e funzionale, così lasciando chiaramente intendere il compendio indiziario enucleato tanto dal GIP quanto dal Giudice del Riesame, se insufficiente a dimostrare la partecipazione, non è escluso che viceversa sia assolutamente soddisfacente a significare un’appartenenza […] all’organizzazione criminale. Ciò posto, si tratta allora di verificare se le circostanze oggettive di natura indiziaria contenute in tale ordinanza coercitiva, e per l’appunto, richiamate dall’ufficio richiedente a sostegno delle formule proposte, siano idonee a fondare un giudizio di qualificata probabilità dell’appartenenza […] all’associazione di tipo mafioso […]. Giudizio che, non è ultroneo ricordare, può essere legittimamente fondato dal Giudice della prevenzione su elementi indiziari, anche non gravi, precisi e concordanti, purché inequivocabilmente certi nel senso di risultare giudizialmente dimostrati nella loro oggettiva esistenza”. (Tribunale Ordinario di Roma, Sezione Misure di Prevenzione, cc. 9 aprile 2009, dep. 8 giugno 2009, Reg. Gen. M.P. n. 293/2008, Reg. Dec. n. 164/09, Pres. Lo Surdo, Est. Casa). Per la verità, a ulteriore suggello di tale orientamento di merito, ha provveduto una risalente e nota pronuncia del Supremo Collegio nella quale si legge che “alla mancanza anche assoluta di prove o di gravi indizi di colpevolezza richiesti dalla legge per giungere ad un’affermazione di responsabilità in sede penale non corrisponde affatto un’analoga valenza in tema di “procedimento di prevenzione”, nel quale gli indizi di affiliazione ad un “clan mafioso” e la indimostrata liceità dell'appartenenza dei beni possono essere desunti anche dagli stessi fatti storici in ordine ai quali è stata esclusa la configurabilità di illiceità penale ovvero da altri acquisiti o autonomamente desunti nel giudizio di prevenzione”. (Cass., Sez., UU., 3 luglio 1996, n. 18, Simonelli). Tali indizi, giova ribadirlo, desunti da fatti storici che non avrebbero alcuna valenza probatoria nell’ambito del processo penale, “debbono comunque raggiungere la consistenza dell'indizio, con  

127  

Stando cosi le cose il ragionamento indiziario, delle corti di merito, non è sindacabile

dal punto di vista costituzionale, essendosi, la Consulta, espressa in tal senso,

affermando che è escluso che “le misure di prevenzione possano essere adottate sul

fondamento di semplici sospetti, richiedendosi, invece, una oggettiva valutazione di

fatti da cui risulti la condotta abituale e il tenore di vita della persona o che siano

manifestazioni concrete della sua proclività al delitto, e siano state accertate in modo

da escludere valutazioni puramente soggettive e incontrollabili da parte di chi

promuove o applica le misure di prevenzione”.235

A ben vedere, il ragionamento suddetto non risulta censurabile dal Supremo Collegio

in punto di diritto, circa il merito degli elementi fattuali indicati, dalle corti di merito,

a sostegno del sillogismo indiziario della prevenzione.

Le relative conclusioni, infatti, si rilevano insindacabili in sede di legittimità atteso

che il ricorso in cassazione è consentito soltanto per violazione di legge236 cosi come

disposto dall’art. 10 T.U. delle leggi antimafia.

A tal proposito si esprime chiaramente un orientamento della S.C. affermando

“ancorché circoscritto al solo scrutinio del vizio di violazione di legge, il sindacato

devolvibile in tema di misure di prevenzione ben può prendere in esame le

condizioni di legittimità del provvedimento, ivi comprese, dunque, le componenti

fattuali assunte come dati “certi” sulla cui falsariga i giudici della prevenzione hanno

formulato, su base induttiva, il giudizio di pericolosità, o hanno ritenuto sussistenti i

presupposti per l'applicazione delle eventuali misure di prevenzione patrimoniali.

Ma è del tutto evidente che, per rimanere sul terreno del sindacato di legittimità, il

controllo della legalità dei provvedimenti adottati in sede di prevenzione (e che lo

stesso nomen dell'unico vizio devolvibile chiaramente rievoca) non può certo

spingersi – come invece erroneamente mostra di presupporre il ricorrente – ad una

                                                                                                                                                                         esclusione, quindi, di sospetti, congetture ed illazioni, che sono mere intuizioni del Giudice, mentre l'indizio è sempre fondato su un fatto certo, dal quale risalire, attraverso un procedimento logico-induttivo, ad altro fatto non noto” (Cass. Sez. V, 12 ottobre 2006, n. 34150) Ed è ancora la Cassazione a ribadire che dalla pacifica autonomia tra procedimento di prevenzione e processo penale “deriva che, nel procedimento di prevenzione, la prova indiretta o indiziaria non deve essere dotata dei caratteri prescritti dall'art. 192 c.p.p., mentre la chiamata in correità o in reità - le quali devono essere sorrette da riscontri esterni individualizzanti per giustificare la condanna - non devono essere necessariamente munite di tale carattere ai fini dell'accertamento della pericolosità.” (Cass., Sez. II, 2 marzo 2006, n. 7616) 235 Corte costituzionale, 16 dicembre 1980, n. 177 236 Cass., Sez. I, 25 febbraio 2009, n. 8510 

128  

rinnovata valutazione del “merito” di quelle determinate componenti fattuali, ove le

stesse siano state persuasivamente ricomposte dai giudici della prevenzione”.237

Se da un lato, allora, la misura di prevenzione personale presuppone che il

destinatario della stessa sia indiziato di appartenere ad un’associazione mafiosa

secondo i parametri or ora descritti, dall’altro una simile valutazione riguarda

necessariamente la prevenzione patrimoniale, allorquando si debba procedere al

sequestro, e poi alla confisca, dei beni.

La norma contenuta nell’art. 20 del d.lgs. 159/2011, infatti, fa riferimento ai

“sufficienti indizi”.

Va indagato, dunque, il contenuto concettuale della “sufficienza indiziaria” che

legittima la relativa misura di prevenzione.238

La giurisprudenza di merito e quella di legittimità, sopra richiamata, consentono,

dunque, di ritenere definitivamente condiviso l’asserto che se da un lato, “in tema di

sufficienti indizi per l’adozione del sequestro di prevenzione, tale presupposto non

può essere parificato a quello necessario per l’emanazione di provvedimenti

limitativi della libertà personale, posto che il provvedimento di prevenzione è

strutturalmente caratterizzato, da una metodologia di valutazione probatoria aperta a

comprendere anche elementi rappresentativi di presunzioni non qualificate”,239

dall’altro non è possibile condividere, secondo gli stessi orientamenti

giurisprudenziali sia di merito che di legittimità che costituzionali, le accuse, mosse

al sistema prevenzionistico antimafia, sull’asserita deriva dello stesso verso il tema

del sospetto e della conseguente impossibilità di ancorare le valutazioni giudiziarie

ad elementi oggettivi, da quali far discendere le relative conseguenze sul piano dei

diritti sostanziali.

Il termine sospetto, tra l’altro, impiegato nelle definizioni normative del codice di

procedura penale, lungi dall’essere una locuzione dalla potente carica derogatoria del

principio di raccolta e formazione della prova, così come previsto dallo stesso codice

di rito, altrimenti si rischierebbe, in primis, di dover riconoscere esistente

un’intrinseca contraddittorietà del codice stesso.                                                             237 Cass., Sez. II, 2 marzo 2006, n. 7616 238 Cass., Sez. I, 26 maggio 1986, Priolo 239 A GIALANELLA, Patrimoni di Mafia. La prova, il sequestro, la confisca, le garanzie, ESI, 1998, p. 121 

129  

Il sospetto, dunque, si inserisce, come strumento gnoseologico, nell’ambito della

prova certamente ad un livello inferiore rispetto all’indizio.

Il giudice, infatti, è chiamato ad un maggiore “prudenza comportamentale”,

nell’ipotesi in cui si trovi a dover valutare elementi che non hanno la consistenza

dell’indizio ma che possono essere considerati sospetti.

Da quest’ultimi, però, non si trae alcuna conclusione giuridica ma rappresentano

strumenti d’impulso delle iniziative giudiziarie che si assumono necessarie o per

l’accertamento della penale responsabilità, nel caso specifico del processo penale,

ovvero nel raggiungimento di quella consistenza indiziaria in grado di giustificare

l’emanazione dei provvedimenti di prevenzione antimafia.

Si tratta, allora, di individuare il giusto piano delle relative valutazioni considerando

che “la corrispondenza a realtà del sospetto è quindi ancor meno probabile di quella

ottenuta con l’indizio, per cui si è potuta correttamente sostenere un’assimilazione

del sospetto ad una vera e propria ipotesi di ricerca”.240

Per quanto concerne la valutazione degli indizi, la norma cardine risulta essere, come

detto, l’art. 192 c.p.p in virtù della quale gli indizi, per poter acquisire uno peso

specifico all’interno del processo penale, devono essere gravi precisi e concordanti.

Questo il punto discrepante con la prevenzione antimafia, se si considera che gli

indizi richiesti dalla legge per l’emanazione dei decreti di sequestro e di confisca non

devono raggiungere necessariamente il grado della gravità, certezza e concordanza.

Sebbene va sottolineato che essendo, il procedimento di prevenzione, un

procedimento fondamentalmente cartolare, considerata la capacità del giudice della

prevenzione di richiamare, al vaglio del collegio stesso, provvedimenti

precedentemente adottati dal giudice penale, attestanti le penali responsabilità dei

soggetti preposti anche per altri reati ma che, a questo punto dovrebbe risultare

chiara la logica giuridica che sottende alla prevenzione antimafia, configurano il

quadro di insieme in relazione al quale effettuare la valutazione complessiva di

appartenenza all’associazione mafiosa e di illecita provenienza dei beni, è difficile

non intravedere quanto meno una certa fondatezza e una certa logicità di e tra tutte le

                                                            240 G. UBERTIS, voce: Prova, in Enciclopedia giuridica Treccani, vol. XXVIII, Roma, 1996, p. 7

130  

prove indiziarie raccolte per suffragare ogni singola proposta di applicazione di

misura di prevenzione.241

                                                            241 A tale proposito, infatti, è indicativo, a titolo esemplificativo e allo scopo di indicare un modus operandi tipico del Tribunale della prevenzione, il ragionamento condotto dal collegio napoletano in un recente provvedimento (Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 14 dicembre 2010, Reg. Gen. M.P. n. 112/09, Reg. Dec. n. 302/2010, Pres. Del Balzo, Rel. Mazzeo) nel quale bene esplicita il percorso logico indiziario che lo conduce a ritenere che i beni oggetto del procedimento siano ottenuti con proventi illeciti, ivi compresi quelli formalmente intestati a soggetti diversi dal proposto. L’indagine dei giudici napoletani, infatti, parte innanzitutto dall’acquisizione di dati basilari come la composizione del nucleo familiare del proposto e la consistenza delle relative dichiarazioni dei redditi che, nel caso di specie, per gli importi dichiarati, i giudici evidenziano come quelle cifre non siano sufficienti a garantire neanche l’ordinaria amministrazione del nucleo familiare. Per altro, nell’ipotesi considerata nel provvedimento in esame, il giudice rileva inoltre che le dichiarazioni dei redditi furono presentate solo per alcune annualità e cioè dal 1990 al 2007. A fronte di tale costatazione, l’autorità giudiziaria passa a valutare, invece, i beni che risultano direttamente o indirettamente nella disponibilità del proposto. Il primissimo confronto tra questi due dati di fatto permette al giudice di ritenere, in prima istanza, la illecita provenienza dei beni che non sia stata altrimenti giustificata. Su tale punto, dunque, il Tribunale si esprime in modo assai diretto: “il punto di partenza dal quale trae origine lo schema argomentativo seguito da questo tribunale si basa, dunque, sulla semplice e fondata considerazione che, poiché i redditi dichiarati possono ritenersi appena sufficienti a soddisfare le esigenze vitali essenziali della famiglia e del nucleo familiare come composto, tutte le possidenze, mobiliari ed immobiliari intestate al prevenuto, in quanto di valore chiaramente sproporzionato ai redditi leciti percepiti, devono necessariamente imputarsi al parallelo e molto più lucroso svolgimento dell’attività illecita”. Il ragionamento condotta dalla corte napoletana, inoltre, è confermato da un orientamento della Cassazione che in una sentenza aveva infatti proprio specificato che “in tema di confisca di beni rientranti nella disponibilità di un soggetto sottoposto a misure di prevenzione quale sospettato di appartenenza ad associazione di stampo mafioso, i sufficienti indizi circa la provenienza di detti beni da attività illecite possono consistere anche nella sola notevole sperequazione tra il tenore di vita e l’entità dei redditi apparenti o dichiarati: invero deve ritenersi che il legislatore nel fare riferimento, nell’art.2ter della legge 31 maggio 1965 n. 575, a tale elemento, lo abbia voluto indicare, a titolo esemplificativo, appunto quale possibile indizio, anche unico, di siffatta illecita provenienza dei beni i quali, a causa della incompatibilità tra impiego di capitali ed ammontare dei redditi noti, debbono ragionevolmente farsi risalire a redditi ignoti, frutto, secondo il normale accadimento delle cose, di attività redditizie come sono quelle delle organizzazioni mafiose” – Cass. Sez. VI 23 gennaio 1996 n. 398, Brusca ed altri, Rv. 205029. In altro punto del provvedimento in esame si legge come il Tribunale, nell’ambito delle valutazioni effettuate in contraddittorio delle parti nell’udienza camerale, abbia disposto una perizia d’ufficio in materia tecnico – agraria – fiscale per una effettiva ricostruzione della consistenza patrimoniale. Si noti come nell’ambito del procedimento di prevenzione trova cittadinanza un mezzo di prova come l’indagine peritale che consente al giudice di ottenere la conoscenza di fatti rilevanti rispetto al tema probandum che però presuppongono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche. Inoltre, in ossequio al principio stabilito dall’articolo 220 comma 2 c.p.p. che non ammette perizie al fine di stabilire l’abitualità o professionalità nel reato, l’indagine peritale non viene utilizzata al fine di valutare, come risulta ovvio, la pericolosità sociale del prevenuto. Alla luce di tali considerazioni è difficile, dunque, sostenere che il procedimento di prevenzione patrimoniale si fondi semplicisticamente su sospetti intesi addirittura come risultato di mero arbitrio del giudice tale da ritenere fondato sul nulla il relativo provvedimento giudiziario.

 

131  

Il ragionamento sin’ora condotto permette di affrontare altre due questioni che

compongono il quadro generale della materia in esame.

Va, infatti, osservato che la sufficienza indiziaria di cui si parla è riferita certamente

al provvedimento di sequestro (che è un provvedimento provvisorio e antecedente

quello della confisca definitiva).

La prima questione, infatti, concerne la confisca, per la quale la legge richiede una

diversa considerazione probatoria.

La differenza emergente, infatti, dal confronto delle norme contenute negli artt. 20

(sequestro) e 24 (confisca) del Codice Antimafia, permettono di comprendere la

differenza tra sufficienza indiziaria e impossibilità di giustificare la lecita

provenienza dei beni oggetto della misura preventiva patrimoniale.

Letteralmente, dunque, l’art. 20 d.lgs. 159/2011 al primo comma stabilisce che “il

tribunale anche d’ufficio ordina con decreto motivato il sequestro dei beni […]

quando, sulla base di sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere che gli stessi siano il

frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego”.

L’art. 24, invece, stabilisce che “il tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati

di cui la persona […] non possa giustificare la legittima provenienza e di cui […]

risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore

sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla

propria attività economica, nonché dei beni che risultino essere frutto di attività

illecite o ne costituiscano il reimpiego”.

La principale differenza che emerge dal raffronto delle due norme è l’impiego, nella

seconda, del termine “risultino”.

Dalla sufficienza indiziaria ex art. 20 del Cod. Ant. si passa ad una prova

quantomeno indiziaria ex art. 192 c.p.p.

Ecco, dunque, svilupparsi la progressione del grado di certezza nel dettato normativo

e che consente di ritenere maggiormente giustificato un provvedimento giudiziario

come quello della confisca definitiva (salvo le ipotesi, previste dalla legge stessa, di

revoca della medesima) dei patrimoni oggetto del procedimento di prevenzione

patrimoniale.

Confisca definitiva che, ovviamente, non può che fondarsi su elementi omogenei

rispetto a quelli che hanno giustificato il sequestro di prevenzione, attesa anche la

132  

natura strumentale di quest’ultimo, ma che richiedono un maggior grado di

fondatezza probatoria come la stessa giurisprudenza di cassazione ha indirettamente

ribadito, in varie decisioni, sottolineando la necessità di una cosiddetta “doppia

prova”.242

Ovviamente non tutti i beni sono intestati ai soggetti passivi del procedimento di

prevenzione.

Il problema delle cosiddette “intestazioni fittizie” incide notevolmente sul profilo

probatorio or ora esaminato.

Parte della dottrina infatti ha sottolineato che “la dimostrazione della legittimità della

provenienza dei beni ai fini del sequestro di prevenzione è diversa a seconda che si

tratti di beni appartenenti al proposto, ovvero di beni appartenenti a terzi”.243

Poiché, se nel primo caso è sufficiente che si indaghi sulla fonte di provenienza della

res o del reddito colpito, “nella seconda ipotesi, invece, a tale prova sarebbe

preliminare la dimostrazione che detto bene o reddito o patrimonio sia nella

disponibilità dell’inquisito. Solo ove tale prova sia raggiunta, si può passare, poi,

all’accertamento della fonte del reddito”.244

In verità non può negarsi il valore sintomatico di una disponibilità indiretta di beni

che sia formalmente intestato ad un terzo, circa la derivazione illecita degli stessi,

sebbene l’esigenza di individuare i due momenti come distinti risulta necessario al

fine di garantire un coerente e legittimo accertamento probatorio.

                                                            242 Il riferimento è a P.V. MOLINARI – U. PAPADIA, Le misure di prevenzione cit. in cui sono riportati alcuni orientamenti giurisprudenziali consolidati. In più di una decisione, infatti, la Corte di Cassazione ha prima parlato di “doppia prova” con riferimento a requisiti personali dell’appartenenza del prevenuto ad un’associazione mafiosa e a requisiti patrimoniali che consentano al giudice di ritenere allo stesso modo che i beni siano di provenienza illecita ovvero il frutto dell’attività illecita ovvero ancora il reimpiego dei proventi derivanti da atti vità illecita. Per meglio comprendere questo passaggio è significativo quanto si dice in una successiva sentenza in virtù della quale “ solo il sequestro può essere legittimato da un giudizio di ragionevole probabilità circa la sussistenza degli indizi e relativamente all’appartenenza del soggetto e in ordine alla provenienza dei beni, mentre la confisca esige che tale duplice accertamento sia fornito di vera e propria prova in ordine agli stessi elementi ( Cass. Sez. I, 9 maggio 1988 n. 638, Raffa) pp. 514 ss. 243 L. FILIPPI, Il procedimento di prevenzione patrimoniale cit., p. 229 244 P.V. MOLINARI – U. PAPADIA, Le misure di prevenzione cit., p. 511

133  

6. Il falso problema dell’inversione dell’onere probatorio

La seconda questione riguarda il problema dell’inversione dell’onere della prova nel

procedimento di prevenzione patrimoniale.

Su tale profilo la Cassazione si è espressa in modo inequivocabile quando ha

affermato che “non si deve parlare di inversione dell’onere della prova posto che la

legge consente di ritenere la provenienza illegittima dei beni da segni di

inequivocabile sintomaticità”.245

Non concorda parte della dottrina che denuncia un’inaccettabile inversione dell’onus

probandi, in virtù del quale spetterebbe al reo dimostrare la legittima provenienza dei

beni colpiti dalla misura di prevenzione patrimoniale.

Sicché al pubblico ministero “è ora sufficiente, per ottenere il sequestro, dimostrare

l’esistenza di indizi di reità di uno dei reati tassativamente indicati (ad es.

appartenenza all’associazione mafiosa o equiparata, anche acquisiti in indagini

preliminari) e fornire la prova da cui «risulti» la disponibilità del bene e la sua

sproporzione oppure i «sufficienti indizi» che il bene stesso sia frutto di attività

illecite o ne costituiscano il reimpiego”.246

Tale posizione, descritta dal Filippi come «inaudita inversione dell’onere della

prova» sembra essere senz’altro smentita dalla giurisprudenza della Corte di

Cassazione.

Proprio con riferimento alla confisca, la giurisprudenza della S.C. aveva sottolineato,

in una prima pronuncia, che l'art. 2-ter, terzo comma, della legge 31 maggio 1965 n.

575 (attualmente art. 24 del d.lgs. 159/2011) non prevede un'inversione dell'onere

della prova in tema di legittima provenienza dei beni sequestrati al soggetto indiziato

di appartenere a sodalizio mafioso, ma va letto in coordinazione con quella di cui al

secondo comma; “sicché, pur essendo stata data all'interessato la facoltà di

contrapporre agli indizi raccolti dal giudice elementi che ne contrastino la portata ed

elidano l'efficacia probatoria degli elementi indizianti offerti dall'accusa,tuttavia

                                                            245 Cass. Sez V, 28 novembre 1995, Bordella, n. 373 246 L. FILIPPI - M.F. CORTESI, Il Codice cit, p. 157 

134  

rimane intatto l'obbligo del giudice di individuare ed evidenziare gli elementi da cui

risulta che determinati beni formalmente intestati a terze persone, siano in realtà nella

disponibilità del proposto o che il loro valore sia sproporzionato al reddito dichiarato

o all'attività economica svolta, e raccogliere "sufficienti" indizi che i predetti beni

siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Ne consegue che, ai

fini della confisca, spetta al giudice far “risultare” (ovvero dimostrare) che il

proposto ha la piena disponibilità dei beni apparentemente appartenenti a persone

diverse o che il loro valore è sproporzionato rispetto al reddito dichiarato, mentre, ai

medesimi fini,bastano "indizi sufficienti" che tali beni siano il frutto delle attività

illecite da lui esercitate”247.

In altra sentenza la Corte di Cassazione ripercorrendo, su tale tema, un’ampia

giurisprudenza di legittimità stratificatasi nel tempo,248 sottolinea come non solo non

si produca nessuna lesione della presunzione di colpevolezza, ma a ben vedere,

“l’onere di provare la provenienza illecita dei beni incombe, in primo luogo,

sull’organo procedente, salvo l’onere di allegazione imposto al prevenuto per

sminuire od elidere la situazione probatoria a suo carico”.249

In una successiva sentenza, infatti, decidendo su uno dei punti del ricorso che era

stato proposto in Cassazione e che riguardava la “violazione di legge in relazione alla

ritenuta illiceità della provenienza del patrimonio sulla sola base della sproporzione

fra reddito dichiarato e patrimonio ed omessa motivazione sul punto, trasformando

una presunzione semplice in un’inversione dell’onere della prova”, la Corte Suprema

di Cassazione ha addirittura ritenuto, il motivo di ricorso, manifestamente infondato.

La Cassazione, infatti, ha detto che “non è affatto vero che il Tribunale e la Corte

territoriale abbiano introdotto una presunzione assoluta di illecita provenienza.

Semplicemente i giudici hanno ritenuto non provata la provenienza legittima dei

beni, con valutazione di merito non censurabile in questa sede”.

La Cassazione dice anche, in merito alla omessa motivazione sul punto, che

quest’ultima non è necessaria in quanto in tema di misure di prevenzione

                                                            247 cfr. Cass. 26 novembre 1998, n. 5897 248 cfr. Cass. 12 gennaio 1985, Teresi; Cass., 4 febbraio 1985, Pipitone; Cass. 26 maggio 1987, Priolo; sez. V, 28 novembre 1996, Brodella; Sez. V, 17 febbraio 1998, Petruzzella 249 Cass. Sez. II Pen., 23 giugno 2004, dep. 27 agosto 2004, n. 35628

 

135  

patrimoniali, poiché le disposizioni sulla confisca mirano a sottrarre alla disponibilità

dell’indiziato di appartenenza a sodalizi di tipo mafioso tutti i beni che siano frutto di

attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, senza distinguere se tali attività siano

o meno di tipo mafioso, non assume rilievo, nel provvedimento ablativo, l’assenza di

motivazione in ordine al nesso causale fra presunta condotta mafiosa ed illecito

profitto, essendo sufficiente la dimostrazione della illecita provenienza dei beni

confiscati, qualunque essa sia”.250

Dimostrazione, dunque, che non può essere ritenuta inversione dell’onere della prova

in quanto spetta al pubblico ministero dimostrare l’illecita provenienza del bene e

non certo attendere la mancata dimostrazione della legittima provenienza dello stesso

da parte della difesa del proposto.

In altre due recenti pronunce la Cassazione conferma tale orientamento.

Molto più esplicitamente la S.C. conferma che in tema di misure di prevenzione

patrimoniale “non si verifica alcuna inversione dell’onere della prova, perché la

legge ricollega a fatti sintomatici la presunzione di illecita provenienza dei beni e non

alla mancata allegazione della loro lecita provenienza, la cui dimostrazione è idonea

a superare quella presunzione”.251

In ulteriore sentenza, poi, la Cassazione ha ribadito come “l'accertamento dell'illecita

provenienza va compiuto in relazione a ciascun bene suscettibile della misura

patrimoniale e non all'intero patrimonio (Sez. I, 9 maggio 1988, n. 1365, Raffa).

Infatti, i giudici di merito hanno esaminato in ordine cronologico i singoli incrementi

pervenuti al patrimonio dei ricorrenti”252

La serie di sentenze del giudice delle leggi dimostra, dunque, l’infondatezza delle

critiche circa l’illegittimità del procedimento di prevenzione patrimoniale per ciò che

concerne il procedimento di formazione della prova.

A dire il vero non di inversione dell’onere della prova ma piuttosto di un onere di

giustificare la legittima provenienza dei beni sequestrati.

                                                            250 Cass. Sez. II Pen., 23 gennaio 2007, dep. 7 febbraio 2007, n. 5248 251 Cass. Sez. V Pen., 12 dicembre 2007, dep. 7 gennaio 2008, n. 1859 252 Cass. Sez. VI Pen., 17 settembre 2008, dep. 30 settembre 2008, n. 37166

136  

Atteso che ai fini della confisca è richiesta, “in ogni caso una prova diretta o

indiretta, caratterizzata dagli ordinari livelli di certezza”, non troverebbe alcun diritto

di cittadinanza, la denunciata inversione dell’onere probatorio.

D’altro canto la norma in oggetto fa riferimento alla impossibilità della persona, nei

cui confronti è instaurato il procedimento, di giustificare la legittima provenienza dei

beni per i quali il pubblico ministero ha già raggiunto una prova certa circa la loro

illegittima provenienza.

L’onere di allegazione, dunque, che grava in capo al proposto non può essere

interpretato come inversione dell’onere della prova, bensì come, appunto, onere di

allegazione finalizzato ad elidere o sminuire il teorema accusatorio, fondato

comunque su prove ed elementi certi che attestano la illiceità delle fonti di

determinati patrimoni.

Autorevole dottrina ha poi sostenuto che “l’onere probatorio dell’interessato non si

discosta molto dalle regole di una normale dialettica processuale, essendo

perfettamente naturale che la difesa debba sforzarsi di sminuire la consistenza degli

indizi allegati dall’accusa”.253

In verità, dall’esame della giurisprudenza di merito, si evidenzia inoltre lo sforzo che

lo stesso organo procedente, in questo caso il Tribunale, compie per ritenere

dimostrata la lecita provenienza dei beni sottoposti alla misura di prevenzione del

sequestro antimafia.

In analogia a quanto accade nell’ambito del procedimento penale, in cui il pubblico

ministero è chiamato anche a rintracciare gli elementi a discarico dell’indagato

sicché soltanto nell’ipotesi in cui, ai sensi dell’art. 405 c.p.p. non deve richiedere

l’archiviazione, esercita l’azione penale, formulando l’imputazione, anche

nell’ambito del procedimento di prevenzione il giudice è chiamato a revocare la

                                                            253 G. Fiandaca, Misure di prevenzione (profili sostanziali) in Dig. Disc. Pen., p. 123 in A. BALSAMO – C. MALTESE, Il Codice Antimafia, cit. p. 43 Sullo stesso tema concorda anche altra dottrina ritenendo che l’allora comma terzo dell’art. 2ter della legge 575/1965 (oggi art. 24 del d.lgs. 159/2011) preveda che è compito esclusivo del giudice effettuare attività di indagine al fine di accertare l’origine dei beni (P.Comucci). Questa, dunque, è ritenuta la prevalente interpretazione seguita anche in giurisprudenza tanto da essere ormai considerata come ius receptum, essendosi costantemente riaffermato che il giudice non può motivare allegando la mancata dimostrazione della legittima provenienza dei beni da parte dell’interessato, in quanto la legge non prevede in proposito un’inversione dell’onere della prova. (cfr. P.V. Molinari – U. Papadia, Le misure di prevenzione nella legge fondamentale, nelle leggi antimafia e nella legge antiviolenza nelle manifestazioni sportive, GIUFFRÈ, 2002, pp. 525 ss.)

137  

misura preventiva del sequestro quando emerga, dalle risultanze investigative e dalla

documentazione prodotta dalla difesa, la lecita provenienza del bene oggetto del

procedimento stesso.254

In ogni caso nell’ambito dei provvedimenti di merito il Collegio specifica sempre

che “la dottrina e la giurisprudenza, pienamente richiamabili ancor oggi in

considerazione della mancata modifica dell’art. 2ter comma 2, hanno chiarito che

non ricorre una ipotesi di inversione dell’onere della prova (che, del resto, sarebbe

costituzionalmente censurabile), in quanto il giudice sulla base degli elementi

acquisiti nel corso del procedimento deve trarre il convincimento, solo indiziario (per

espresso dettato normativo), circa la provenienza illecita dei beni, sicché non sarebbe

sufficiente richiamare la eventuale mancata dimostrazione, da parte dell’interessato,

della legittima provenienza del bene.

D’altra parte, accertata l’esistenza di indizi in ordine alla illecita provenienza,

incombe a carico del soggetto interessato un onere di allegazione finalizzato a

contrastare gli indizi acquisiti; onere che deve essere assolto in modo serio, tale da

consentire al giudice di svolgere gli opportuni accertamenti in ordine alla esistenza

degli elementi indicati.

L’esito del giudizio, pertanto, è subordinato alle allegazioni fornite ed alla loro

capacità di elidere la portata indiziaria della provenienza illecita dei beni”.255

                                                            254 Di particolare interesse il provvedimento di revoca del sequestro antimafia pronunciato dal Tribunale di Napoli in riferimento ad un certo numero di quote societarie. Nel provvedimento in esame, infatti, si evidenzia proprio la funzione di quell’onere di allegazione “gravante” in capo al proposto e che di fatto non rappresenta inversione dell’onere della prova ma, appunto, onere di allegazione che è in grado di elidere l’impianto accusatorio dell’accusa, tanto da provocare la revoca del provvedimento. Il Tribunale di Napoli, Sezione Misure di Prevenzione, analizza i fatti allegati dal proposto in relazione alla società “Eventi Italia S.r.l.” Dai documenti allegati risultava al Tribunale che in seguito ad una serie di operazioni lecite come la vendita di immobili pervenuti per successione era necessario concludere che i soldi per la costituzione della società e per la ricapitalizzazione erano stati forniti da …omissis… non ritenuto indiziato di appartenere ad associazione mafiosa. Il giudice dunque conclude scrivendo che “tali considerazioni, ed in mancanza di qualsiasi elemento di segno contrario, fanno ritenere venuta meno l’ipotesi sulla quale trovava fondamento il sequestro delle quote della società”. (Tribunale di Napoli, Sezione Misure di Prevenzione, cc. 6 marzo 2006, dep. 9 maggio 2006, Reg. Gen. M.P. n. 242/03, Reg. Dec. n. 106/2006 (A), Pres. Est. Cozzi) 255 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 6 dicembre 2011, dep. 3 febbraio 2012, Reg. Gen. M.P. nn. 388/2000+145/09+24/11, Reg. Dec. n. 50/2012, Pres. Est. Del Balzo

138  

Su tale argomento si espressa anche la Corte Costituzionale con una serie di sentenze

che hanno cristallizzato un principio, in tema di onere della prova, dal quale

difficilmente è possibile prescindere.

La Consulta, infatti, si è più volte espressa nell’ambito dei giudizi di legittimità

costituzionale sollevati nei confronti delle norme contenute negli artt. 707 e 708 c.p.,

rispettivamente “possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli” e

“possesso ingiustificato di valori”.

I giudici a quibus dell’epoca, infatti, con una serie di ordinanze, avevano sostenuto la

illegittimità costituzionale di tali norme proprio in relazione ad un’inaccettabile

inversione dell’onere della prova che avrebbe reso, appunto, gli art. 707 e 708 del

c.p. in contrasto con l’art. 27 comma 2 della Costituzione.

I giudici della Consulta si espressero affermando che “é da escludere che le norme

denunziate, nel richiedere al prevenuto la giustificazione dell'attuale destinazione

delle chiavi oppure degli strumenti atti ad aprire o forzare serrature e,

rispettivamente, della provenienza del denaro o degli oggetti non confacenti al suo

stato, esigano la prova della legittimità della destinazione e della provenienza,

limitandosi, invece, a pretenderne una attendibile e circostanziata spiegazione, da

valutarsi in concreto nelle singole fattispecie, secondo i principi della libertà delle

prove e del libero convincimento, i quali, ovviamente, si atteggeranno in modo

diverso a seconda che si tratti di strumenti di uso comune inerenti all'attività

professionale del prevenuto oppure di ordigni di utilizzazione non ordinaria, di

somme ingenti o di cose pregiate e rare oppure di somme modeste o di cose

correnti”.256

Tale giurisprudenza costituzionale, spiega la Corte di Cassazione257, ha enunciato un

autentico principio regolativo della distribuzione del carico probatorio sui soggetti

                                                            256 Corte Cost. 2 febbraio 1971, n. 14 (cfr. anche Corte Cost. 19 luglio 1968, n. 110 e Corte Cost. 19 novembre 1992, n. 464) 257 Cass. Sez. II Pen., 23 giugno 2004, dep. 27 agosto 2004, n. 35628 che afferma testualmente: “Orbene, la Corte, “nell' escludere che gli articoli 707 e 708 contrastassero con l'articolo 27, comma 2, della Costituzione in rapporto, appunto, alla supposta inversione dell' onere della prova che, ad avviso dei remittenti, quelle norme comportavano … ha posto in evidenza che ... le disposizioni impugnate non esigevano affatto la prova della legittimità della destinazione e della provenienza limitandosi, invece, a pretendere un'attendibile e circostanziata spiegazione, da valutarsi in concreto nelle singole fattispecie, secondo i principi di libertà delle prove e del libero convincimento (v. sentenza numero 14 del 1971 e, più di recente, numero 464 del 1992)”.

139  

del procedimento attesa, ovviamente, la definizione di criteri oggettivi di valutazione

dei requisiti richiesti dalla legge, per l’applicazione delle misure di prevenzione

patrimoniale.

Appare, allora, agevole concludere che nell’ambito del procedimento di prevenzione

patrimoniale, nessuna inversione dell’onere della prova si verifica nel corso

dell’udienza camerale che è pur sempre il luogo, con i dovuti distinguo rispetto al

processo penale, di formazione della prova secondo i principi costituzionali del

cosiddetto giusto processo.

140  

CAPITOLO IV

L’UDIENZA CAMERALE NEL PROCEDIMENTO DI PRIMO GRADO

E NEI GRADI DI IMPUGNAZIONE

1. La competenza territoriale del giudice

In tema di competenza l’art. 5 comma 4 del d.lgs. 159/2011 stabilisce che la proposta

di cui al comma 1 dello stesso articolo è presentata al presidente del Tribunale del

capoluogo della provincia in cui la persona dimora258.

Va subito notato che la disposizione, ora richiamata, si riferisce, in modo esplicito, al

procedimento per l’applicazione di misure di prevenzione personali, quali la

sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e dell’obbligo di soggiorno ma in assenza

di altre previsioni specifiche è da ritenere che tale norma abbia portata di carattere

generale.

La norma in esame, inoltre, non prevede alcuna preclusione temporale e per questo

motivo si ritiene che l’incompetenza territoriale sia rilevabile in ogni stato e grado

del procedimento avendo natura funzionale e inderogabile.

Il problema della competenza territoriale è stata affrontata specificamente in un

provvedimento, in particolare, della Sezione per l’applicazione delle misure di

prevenzione del Tribunale di Napoli.

                                                            258 Sul concetto di dimora si espressa la Suprema Corte di Cassazione richiamata nei provvedimenti di merito più avanti citati. In particolare, su tale materia si sono espressi il Tribunale di Napoli e quello di Palermo sottolineando, ai fini dell’identificazione del concetto di dimora, la irrilevanza della residenza anagrafica dovendo fare riferimento, secondo la giurisprudenza di legittimità, allo spazio geografico ambientale in cui il soggetto a manifestato i suoi comportamenti socialmente pericolosi, anche se in tal luogo, diverso da quello di dimora abituale, il soggetto si è intrattenuto per brevi e saltuari soggiorni (Cass., sez. VI, 15.4. 2004, n. 23090) In particolare, avendo riguardo alle condotte che si inscrivono nell’ambito della cosiddetta pericolosità qualificata sia la dottrina che la giurisprudenza. La S.C., infatti, ha stabilito che nel caso di vaste associazioni criminose, con numero elevato di componenti, facenti capo ad un unico centro organizzativo e decisionale, la competenza territoriale per l'applicazione delle misure di prevenzione spetta al tribunale nel cui circondario trovasi tale centro e ove esplica in modo prevalente la sua attività illecita l'associazione, rimanendo irrilevanti eventuali ramificazioni e derivazioni, in quanto la pericolosità del soggetto ha stretto e diretto riferimento all'associazione, nel cui ambito organizzativo è inserito e al cui vertice decisionale è collegata in via diretta o in via mediata, l'attività illegale esplicata. (Cass. sent. n. 559/82)

141  

Il Tribunale, chiamato ad esprimersi specificamente sulla competenza dell’organo

giudicante, ha stabilito che “la natura funzionale della incompetenza territoriale del

Tribunale deve essere mutuata dalla uguale natura - funzionale inderogabile - in

riferimento all'"organo proponente"; sicché l'inammissibilità della proposta per

carenza di legittimazione è rilevabile in ogni stato e grado del procedimento senza

preclusioni di sorta. In tal senso si è espressa la più recente giurisprudenza di

legittimità ribaltando un diverso orientamento che individuava quale termine di

sbarramento temporale la conclusione della discussione di primo grado”.259

A questa conclusione, il Tribunale, giunge dopo aver analizzato la connessione

funzionale tra la competenza degli organi titolari della proposta e quella dell’organo

preposto al giudizio, valutando gli effetti di una proposta avanzata da organo

incompetente al giudice competente ovvero una proposta avanzata da organo

competente al giudice incompetente.

Nella prima ipotesi, il giudice di merito, ha specificato, da un punto di vista generale,

che la proposta avanzata da organo territorialmente incompetente comporta, anche

per espressa posizione della giurisprudenza di legittimità stratificatasi nel tempo su

tale materia, l’inammissibilità della proposta senza possibilità di disporre la

trasmissione degli atti al Tribunale competente.

La conseguenza ha riflessi pratici molto importanti specialmente in considerazione

della competenza funzionale del Procuratore della Repubblica in virtù della quale, se

la proposta è stata avanzata da Procuratore incompetente (sia esso distrettuale o

circondariale) al Tribunale competente (per essere quello, ad esempio, della

provincia ove dimora il proposto) quest’ultimo non potrebbe che negare la sua

competenza dichiarando l’inammissibilità della proposta.260

Nell’ipotesi in cui la proposta fosse stata avanzata da Procuratore incompetente al

Tribunale incompetente, non potrebbe trasmettere gli atti al Tribunale ritenuto

competente in quanto quest’ultimo non avrebbe il potere e la legittimazione di

decidere su proposta avanzata dall’organo incompetente.

                                                            259 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 22 dicembre 2010, dep. 8 febbraio 2011, Reg. Gen. M.P. n. 151/02, Reg. Dec. n. 27/11/A, Pres. Est. Menditto 260 ibidem 

142  

Tale ultimo profilo, infatti, sottolinea il carattere non solo territoriale ma anche

funzionale della competenza dell’organo proponente quando quest’ultimo è

rappresentato dal Procuratore della Repubblica dal quale, per altro, anche dal punto

di vista statistico, proviene il maggior numero di richieste di applicazione di misure

di prevenzione sia personali che patrimoniali.

Anche la Suprema Corte di Cassazione si è espressa sul carattere funzionale della

competenza del Procuratore della Repubblica in una pronuncia a Sezioni Unite nella

quale ha affermato che la competenza, appunto, “ha natura non solo territoriale ma

anche funzionale, concernendo l'attribuzione in via esclusiva di un potere di

promovimento del procedimento di prevenzione e che, di conseguenza, è

inderogabile e non può formare oggetto, in quanto tale, di potere di sostituzione, né

di delegazione, per cui l'eventuale incompetenza dell'organo esclude ogni possibilità

di ratifica, convalida, conferma o conversione” e che ne deriva “una ipotesi di nullità

assoluta e rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento, riconducibile

nella previsione dell'art. 185, comma 1, nr. 2, del previgente c.p.p. e dell'art. 178,

comma 1, lett. b), di quello attuale”261

Diversa è l’ipotesi di una proposta avanzata da organo competente al Tribunale

incompetente.

Continuando, infatti, l’analisi del provvedimento di merito del collegio napoletano, i

giudici scrivono che in questo caso, qualora la proposta sia avanzata da organo

proponente competente al Tribunale incompetente, quest’ultimo deve restituire gli

atti all’organo proponente perché effettui maggiori valutazioni richiamando

l’applicazione analogica dell’art. 23 c.p.p. come modificato a seguito della sentenza

della Corte Costituzionale del 15 marzo 1996, n. 70.

                                                            261 Cfr., testualmente, Cass., Sez. Un., 20.6.1990, Corica, recentemente sentenze nn. 49994/09 e19067/10.

143  

2. Il decreto di fissazione dell’udienza e l’invito a comparire

Il procedimento applicativo è disciplinato dalla norma contenuta nell’art. 23 del

d.lgs. 159/2011, che espressamente rinvia alle disposizioni dettate dal titolo I, capo

II, sezione I del Codice Antimafia, in particolare l’art. 7 del d.lgs. 159/2011, oltre che

dalle norme contenuto negli artt. 637, 666 e 127 c.p.p. in quanto applicabili.

L’art. 7 richiamato, rubricato “procedimento applicativo”, nel fissare i principi

applicabili in materia di procedimento camerale di prevenzione patrimoniale,

stabilisce i caratteri dell’invito a comparire, atto contenuto in un decreto

presidenziale che fissa l’udienza camerale di trattazione.

Tale norma dispone, infatti, che il Tribunale con decreto motivato, entro trenta giorni

dalla proposta di applicazione della misura di prevenzione (anche personale)

avanzata dagli organi legittimati, provvede alla fissazione dell’udienza e dunque alla

citazione del proposto, mediante un invito a comparire.

Un primo problema riguarda la funzione dell’atto di citazione.

Se si tratti, cioè, di una mera vocatio in iudicium ovvero se si tratti di mezzo di

contestazione delle accuse promosse dall’organo che ha avanzato la proposta di

applicazione della misura preventiva.

La giurisprudenza costituzionale, richiamabile in materia, aveva infatti sancito la

illegittimità costituzionale delle disposizioni del codice di procedura penale relative

al procedimento di sorveglianza nella parte in cui “comportano che i

provvedimento del giudice di sorveglianza siano adottati senza la tutela del diritto di

difesa nei sensi di cui in motivazione”.262

Ora, la censura costituzionale, dichiarata dalla Consulta per norme che si ritengono

applicabili nell’ambito del procedimento di prevenzione patrimoniale, ha posto la

dottrina su una posizione ben precisa, sostenendo che l’atto di citazione di cui all’art.

7 del d.lgs. 159/2011 sia anche il veicolo per le contestazioni delle accuse mosse al

proposto.

Emesso il decreto di fissazione dell’udienza, e dunque l’invito a comparire, questo

deve indicare, a pena di nullità, “il provvedimento di cui è stata chiesta

l’applicazione e gli elementi di fatto sui quali verterà il giudizio; in base a tale

                                                            262 Corte costituzionale, 29 maggio 1968, n. 53

144  

principio è stata ritenuta non soddisfatta l’esigenza di contestazione con il semplice

richiamo all’appartenenza ad un’associazione di tipo mafioso, privo dell’indicazione

degli elementi da cui è stata desunta”.263

È dunque necessario che l’avviso contenga la forma di pericolosità attribuita al

soggetto, gli elementi di fatto da cui essa si evince ed il tipo della misura richiesta.

Dall’inosservanza di queste prescrizione deriva una “nullità di ordine generale,

assoluta e insanabile, e rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del procedimento.264

Strettamente connesso a tale tema è quello del principio di corrispondenza tra

contestazione e provvedimento conclusivo che chiude il procedimento di

prevenzione.

A tal proposito va ribadito, infatti, che l’avviso di fissazione dell’udienza,

disciplinato, come detto, dal combinato disposto degli artt. 678, 666 e 127 del codice

di procedura penale, deve contenere, a pena di nullità, l’indicazione dell’oggetto del

procedimento, al fine di garantire il rispetto del principio del contraddittorio.

Ne consegue inoltre che l’avviso di udienza “deve contenere l’indicazione non solo

della misura di cui si chiede l’applicazione, ma anche il tipo di pericolosità posta a

fondamento della richiesta, cosi che una volta esplicitata nella contestazione la natura

di pericolosità ravvisata, la stessa non può subire variazioni nel corso del

procedimento”.265

Se cosi stanno le cose, bisogna affermare che nell’ambito del procedimento di

prevenzione sia vigente il principio del divieto della “reformatio in peius”

disciplinato dall’art. 521 c.p.p. che stabilisce la possibilità per il giudice di

modificare la definizione giuridica del fatto, rispetto a quella contenuta

nell’imputazione, purché il reato non ecceda la propria competenza o sia di

competenza del Tribunale in composizione collegiale anziché monocratica.

Analogamente accade nell’ambito del procedimento di prevenzione per il quale “la

giurisprudenza ha sempre affermato il principio della necessaria correlazione tra la

contestazione iniziale e la misura applicata all’esito del procedimento”266

                                                            263 Cass. 24 ottobre 1988, RFI, 1988, 1984, 62 in: D. PESCE (a cura di), Rassegna di giurisprudenza sulle misure di prevenzione, CEDAM, 1995, p. 74 264 F. FIORENTIN (a cura di), Le misure cit. p. 369 265 Ivi, p. 374 266 Ivi, p. 401

145  

In coerenza, dunque, a tale impostazione risulta chiaro che una volta indicata,

nell’avviso dell’udienza, una misura, questa non può essere mutata in peius.

La S.C. ha però chiarito che non rientra in tali argomentazioni l’ipotesi di una

reformatio pro reo quando il proposto sia stato in grado di difendersi, sulla base di

elementi oggettivi, la cui valutazione obbliga il giudice a qualificare come comune la

pericolosità qualificata ipotizzata in origine.267

3. L’istruzione probatoria

L’articolato meccanismo di rinvii operato dal Codice delle leggi antimafia lega

questa fase del procedimento di prevenzione alla norma contenuta nell’art. 666

c.p.p.268

La norma predetta, inserita nell’ambito del Libro X, titolo III, capo I del c.p.p.

relativamente all’attribuzioni degli organi giurisdizionali, disciplina dettagliatamente

il procedimento di esecuzione al quale si rinvia per quanto concerne, oltre le

modalità di svolgimento dell’udienza e i termini di avviso, partecipazione del

proposto etc., il regime probatorio.

Tant’è vero che l’art. 666, al comma 5 del c.p.p. stabilisce che “il giudice può

chiedere alle autorità competenti tutti i documenti e le informazioni di cui abbia

bisogno; se occorre assumere prove procede in udienza nel rispetto del

contraddittorio (att. 185)”.

L’applicabilità di tale norma, al procedimento di prevenzione, è stata confermata

anche dalla Corte di Cassazione, la quale ha stabilito che “il giudice del

procedimento di prevenzione ha il potere di chiedere alle autorità competenti, i

documenti e le informazioni necessarie, con l’unico limite del rispetto del

contraddittorio, e cioè sulla base del rinvio mediato alle disposizioni codicistiche sul

procedimento di esecuzione operato dall’art. 4, comma 6, l. n. 1423/1956 (oggi art. 7

del Codice delle leggi antimafia N.d.A.)”.269

                                                            267 Cass. Sez. I, sent. 28 giugno 2006 n. 25701, Arena 268 È l’art. 23 (procedimento applicativo delle misure di prevenzione patrimoniale) del d.lgs. 159/2011 che rinvia, in quanto compatibili, alle norme del titolo I, capo II, sezione I. Il riferimento è all’art. 7 comma 9 (procedimento applicativo delle misure di prevenzione personale) del d.lgs. 159 cit., il quale opera il rinvio al procedimento di esecuzione disciplinato ai sensi dell’art. 666 c.p.p. 269 Cass., Sez. I, 15 ottobre 2009, C.G., in CED Cass., n. 245374

146  

Tale norma, infatti, permette di acquisire informazioni e prove, anche d’ufficio, in

assenza del giudizio di ammissibilità previsto ai sensi dell’art. 190 c.p.p.

Quest’ultimo, infatti, introduce il diritto alla prova che è soggetto ad un esame di

ammissione da parte del giudice, il quale con decreto stabilisce le prove che sono

ammesse al giudizio, con esclusione di quelle illegittimamente acquisite e quelle che

sono manifestamente superflue o irrilevanti.

Se ne ricava che le regole da osservare, in tema di istruzione probatoria, non sono

quelle proprie della fase dibattimentale del processo penale. Anche dal punto di vista

del materiale probatorio, questo risulta essere più esteso che nella fase dibattimentale

del processo penale.

“Si tratta di una regolamentazione coerente con le esigenze che si ricollegano alle

peculiari caratteristiche del contesto socio-economico e della realtà associativa

criminale su cui viene ad incidere l’intervento ablativo”.270

Le misure di prevenzione patrimoniale, infatti, rappresentano strumenti giuridici

predisposti dall’ordinamento per contrastare una realtà economico-criminale

caratterizzata da un organizzazione della ricchezza ad alta vocazione mimetica.271

                                                            270 A. BALSAMO – C. MALTESE, Il Codice Antimafia, GIUFFRÈ, 2011, p. 39 271 Si fa riferimento alle intestazioni fittizie di beni al solo scopo di eludere la normativa antimafia in tema di misure di prevenzione, a complesse forme di cointeressanze, a complessi schemi societari ovvero ad intestazioni fittizie di quote societarie come si evince dall’esame dei provvedimenti di merito nei quali la Sezione misure di prevenzione del Tribunale è impegnata a ricercare il vero dominus dell’attività imprenditoriale sotto indagine. Significativa la vicenda della società “FA.MA. s.n.c.” con sede in S. Gennaro Vesuviano (attualmente cessata). Nel relativo provvedimento la Sez. misure di prevenzione del Tribunale di Napoli ricostruisce l’iter attraverso il quale le quote vengono cedute ai parenti del preposto. In tale meccanismo di cessione delle quote societarie, unitamente alla valutazione delle condotte poste in essere dal preposto, deve essere ravvisato il meccanismo di mimetizzazione dell’attività imprenditoriale inquinata dalla partecipazione camorristica. Di fatto il Tribunale scrive che vi sono indizi plurimi e concordanti per ritenere che il proposto non solo aveva la gestione della società, ma di fatto avesse la disponibilità totale, uti dominus, delle quote e dei beni destinati all’esercizio dell’attività. (Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc. 23 giugno 2003, Reg. Gen. M.P. n. 136/99 + 44/05 + 105/05, Reg. decreti 184/05 “A” Pres. Cozzi, Rel. La Posta).

147  

4. Gli speciali poteri d’indagine del Tribunale

Sebbene in una fase successiva alle indagini patrimoniali deve aprirsi una parentesi

in quanto anche il Tribunale ha poteri d’indagine nel corso dell’udienza camerale.

La norma del articolo 19, al comma 5, prevede, infatti, tra gli organi inquirenti, lo

stesso Tribunale il quale può procedere ad ulteriori indagini, ex officio, durante l’iter

del procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniale.

Tali poteri, inoltre, è necessario che vengano coordinati con le disposizioni contenute

nell’art. 666 c.p.p. che risultano essere applicabili in quanto richiamate dall’art. 7 del

Codice antimafia poiché compatibili con le disposizioni dettate in tema di

procedimento di prevenzione.

Per altro deve evidenziarsi che la norma contenuta nell’articolo 666 c.p.p. deve

coordinarsi, a sua volta, con quella prevista dall’art. 185 disp. att. c.p.p.

Tale ultima norma dispone che il giudice, nell’assumere le prove (nell’ambito del

procedimento di esecuzione che viene richiamato dalle norme del Codice antimafia)

procede senza particolari formalità anche per quanto concerne la citazione e l’esame

dei testimoni e l’espletamento della perizia.

La Cassazione, inoltre, ha confermato che, nell’ambito della fase istruttoria, nessuna

preclusione può derivare, ai poteri d’indagine del Tribunale, dal respingimento, da

parte del Tribunale stesso, di precedente richiesta di applicazione di misura

preventiva avanzata dal pubblico ministero o dal questore.

La Suprema Corte, cioè, ha ritenuto la legittimità del sequestro dei beni disposto

d’ufficio dal Tribunale a seguito di ulteriori acquisizioni investigative, anch’esse

disposte d’ufficio, dopo che una precedente richiesta di applicazione avanzata dal

pubblico ministero era stata respinta dal Tribunale.

“In altri termini – prosegue ancora la Suprema Corte – una volta avviata l'azione di

prevenzione da parte del procuratore della Repubblica o del questore competente, il

tribunale è libero di disporre d'ufficio le indagini più opportune e di acquisire ed

utilizzare le relative risultanze adottando i provvedimenti conseguenti”.272

E dunque la ritenuta legittimità dei suddetti provvedimenti conseguenti, come il

sequestro di prevenzione, risulta da un principio, affermato dalla stessa Corte, in base

                                                            272 Cass. Sez. II, 7 febbraio 2007, n. 5248

148  

al quale la richiesta, da parte dell’organo inquirente, e il conseguente rigetto del

sequestro, da parte del Tribunale, non abbia alcuna forza preclusiva nei confronti dei

poteri dello stesso Tribunale, previsti dalla legge, “trattandosi di provvedimento

adottato rebus sic stantibus e comunque inidoneo a passare in giudicato, perché

insuscettibile di autonoma impugnazione”.273

5. Le nullità del procedimento di prevenzione

Anche il procedimento di prevenzione patrimoniale è assistito dal regime delle

nullità processuali secondo i principi generali previsti dagli artt. 178 e 179 c.p.p.

Non sfugge, infatti, che la disapplicazione dei principi generali previsti dal codice di

rito, richiamati in materia in quanto applicabili al procedimento di prevenzione, sia

sanzionata con la nullità prevista dallo stesso codice di procedura penale.

Proprio per questo motivo, infatti, la violazione del principio della immutabilità del

giudice, disciplinato dall’art. 525 comma 2, c.p.p. comporta “nullità assoluta del

procedimento e del provvedimento terminale che chiude il processo.

Tale disposizione pare applicabile alla materia della prevenzione in via analogica,

poiché esprime la generale esigenza che la decisione giurisdizionale, qualsivoglia

forma venga ad assumere, sia emanata dal medesimo giudice che ha provveduto alla

trattazione della procedura”.274

Con la conseguenza che soltanto nel caso in cui le conclusioni delle parti sono

ricevute da un collegio diverso da quello decidente è prevista la nullità assoluta di cui

all’art. 525 c.p.p.

Nell’ipotesi, invece, che le parti siano riammesse a dedurre nuovamente le

conclusioni dinanzi ad un collegio diverso, nessuna nullità potrà essere invocata.

Una particolare forma di nullità, che colpisce direttamente l’udienza camerale, nella

quale si produce il relativo presupposto, riguarda l’assenza del difensore di fiducia

dell’interessato.

Premessa l’accentuata connotazione del contraddittorio tra le parti del procedimento

di prevenzione, intuibile dalla presenza obbligatoria del Pubblico Ministero e del

                                                            273 Cass. Sez. II 21 marzo 1997, n. 1254, Rv. 207318 274 F. FIORENTIN (a cura di), Le misure cit. p. 341

149  

difensore, oltre che dal richiamo testuale al “rispetto del contraddittorio” ex art. 666

c.p.p., l’assenza del difensore dell’interessato che sia stata causata “da omessa o

irregolare notificazione dell’avviso dell’udienza, concreta un’ipotesi di violazione

dell’integrità del contraddittorio, anche nell’ipotesi in cui all’udienza sia presente il

difensore d’ufficio”.275

La giurisprudenza, in particolare, ha ritenuto nulla l’udienza camerale tenuta senza la

presenza del difensore di fiducia dell’interessato e senza valutare la richiesta di

rinvio per legittimo impedimento del difensore stesso.276

Estendendosi, il principio del contradditorio, a tutte le fasi del procedimento di

prevenzione, appare chiaro che la nullità prodotta si estende a tutti gli atti istruttori

che siano stati compiuti in assenza del difensore di fiducia dell’interessato.

Rilevante, per il tema delle nullità, anche la posizione processuale del proposto.

A tale proposito va sottolineato che in materia di procedimento di prevenzione, la

partecipazione del proposto non è ritenuta necessaria.

La sua audizione costituisce un diritto processuale che deve essere fatto valere

tempestivamente e nei limiti tali da non pregiudicare la speditezza del procedimento

stesso.

Diverso il caso in cui l’interessato sia detenuto o internato in luogo posto al di fuori

della circoscrizione del giudice che procede.

L’ipotesi, espressamente prevista dall’art. 666 comma 4, c.p.p. è diversamente

trattata dalla giurisprudenza di legittimità.

Una parte di essa, infatti, ritiene che se l’interessato, detenuto o internato ai sensi del

comma 4 dell’art. 666 c.p.p., abbia fatto, tempestivamente, richiesta di essere audito,

questi deve essere sentito dal giudice a pena di nullità.277

Altra parte della giurisprudenza, più risalente nel tempo, al contrario, aveva ritenuto

che il diritto del detenuto, di essere ascoltato, dinnanzi al magistrato di sorveglianza

ovvero personalmente, previa traduzione all’udienza camerale, non sia prescritto a

                                                            275 Ivi. p. 350 276 Cass., Sez. VI, 29 luglio 1997, n. 1288, Femia, in CED 277 Cass., Sez. IV, 10 marzo 2003, n. 10771, Asole, in CED

150  

pena di nullità e che dunque l’eventuale violazione abbia conseguenze più sul piano

disciplinare che non processuale.278

Ugualmente trova tutela, nell’ambito del procedimento di prevenzione patrimoniale,

la situazione giuridica dell’infermità mentale del proposto.

In applicazione analogica dell’art. 666 comma 8, c.p.p., l’interessato che sia infermo

di mente è necessariamente rappresentato da un curatore ovvero tutore che sono

anche portatori dei suoi stessi diritti.

Sicché l’avviso di fissazione dell’udienza deve essere, a pena di nullità, notificato

anche a quest’ultimi.

Nell’ipotesi in cui non vi sia un tutore o curatore questi è nominato dal giudice.

In ogni caso l’omessa notificazione dell’avviso di fissazione dell’udienza al tutore o

curatore e, nel caso in cui sia necessario, l’omessa nomina del tutore o curatore da

parte del giudice, impedendo l’integrità del contraddittorio, comporta nullità di

carattere generale e dunque non rilevabile in ogni stato e grado del procedimento

bensì nei termini stabiliti dall’art. 180 c.p.p.279

Per quanto concerne, invece, la facoltà di celebrazione dell’udienza in forma

pubblica e quindi non in camera di consiglio, fatti salvi i casi previsti dall’art. 472

c.p.p. che prevede le ipotesi nelle quali il processo viene celebrato a porte chiuse,

anche nella fase dibattimentale, la giurisprudenza280 ha stabilito che l’omessa

celebrazione, in udienza pubblica, del procedimento di prevenzione patrimoniale,

quando sia previsto dalla legge e quando ne sia stata fatta richiesta, produce nullità di

carattere relativo ai sensi dell’art. 181 c.p.p.

La immediata conseguenza di tale orientamento riguarda i termini per poter eccepire

tale nullità.

Ai sensi, infatti, dell’art. 181 c.p.p. tali tipi di nullità possono essere eccepite solo su

istanza di parte e prima che sia pronunciato il provvedimento finale che chiude il

procedimento di prevenzione.

                                                            278 Cass., Sez. I, 21 aprile 1993, n. 1051, Rv. 193721, Manzari in CED 279 L’art. 180 c.p.p. stabilisce, infatti, che “Salvo quanto disposto dall’art. 179, le nullità previste dall’art. 178, sono rilevate anche d’ufficio, ma non possono essere più rilevate né dedotte dopo la deliberazione della sentenza di primo grado ovvero, se si sono verificate nel giudizio, dopo la deliberazione della sentenza del grado successivo 280 Cass., Sez. UU., 21 aprile 1995 n. 7227; Cass., Sez. I, 2 dicembre 1998 n. 1495, Rv. 212272

151  

Tale nullità, dunque, può essere eccepita non necessariamente nella prima udienza

ma tassativamente almeno nell’udienza che chiude il procedimento.

Nella quale, cioè, viene pronunciato il provvedimento conclusivo (ad esempio la

confisca di primo grado) che pur avendo la forma di decreto, secondo l’orientamento

consolidato della giurisprudenza, ha l’efficacia della sentenza.

La nullità, in discussione, se non tempestivamente eccepita è ritenuta sanata dal

passato in giudicato del provvedimento conclusivo di tal che si ritiene impossibile

eccepire tale vizio, per la prima volta, in sede di legittimità.281

6. La pubblicità dell’udienza camerale

Il problema della conformità costituzionale dei procedimenti camerali, che come tali

non prevedevano la partecipazione del pubblico, è dibattuto in dottrina non soltanto

nell’ambito del procedimento di prevenzione disciplinato dalle leggi antimafia.

Tale quesito, infatti, è stato affrontato anche in riferimento ai procedimenti penali in

camera di consiglio e in particolar modo, relativamente a quelli, come il giudizio

abbreviato, che hanno ad oggetto non questioni marginali ma la decisione sul merito

della fondatezza dell’imputazione.

Se, dunque, “la giustizia è amministrata in nome del popolo” (art. 101, comma 1

Cost.), la partecipazione di quest’ultimo risulta essere fondamentale perché tale

principio costituzionale trovi completa realizzazione.

Parte della dottrina, allora, si è concentrata sull’analisi delle differenze esistenti tra

principio della pubblicità della sentenza e principio di pubblicità dello svolgimento

del processo che ad essa conduce.

L’operazione ermeneutica, dunque, si aggira attorno a tale distinzione di fasi perché

si giunga, conseguentemente, ad individuare in quale momento, il principio

costituzionale della partecipazione del pubblico all’amministrazione della giustizia

trovi sostanziale attuazione.

L’orientamento dottrinario in questione si è decisamente schierato a favore della

pubblicità dell’udienza camerale intesa come pubblicità dell’iter processuale

                                                            281 Cass., Sez. UU, 29 marzo 2007 n. 27614, Rv. 236535

152  

attraverso il quale si snoda il ragionamento logico del giudice che conduce al

provvedimento sostanziale che chiude il processo.282

Nell’ambito del procedimento di prevenzione patrimoniale, l’art. 1 comma 3, n. 6

della legge delega 136/2010 (Piano straordinario contro le mafie , nonché delega al

Governo in materia di normativa antimafia) stabiliva espressamente che il proposto

abbia diritto di chiedere che l’udienza si svolga pubblicamente anziché in camera di

consiglio.

Così, oggi, al primo comma dell’art. 7 del d.lgs. 159/2011 (Codice delle leggi

antimafia) è espressamente previsto il diritto alla pubblicità dell’udienza sicché la

norma in esame stabilisce che “il presidente dispone che il procedimento si svolga in

pubblica udienza quando l’interessato ne faccia richiesta.

La questione nasce da una sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, nel

caso Bocellari e Rizza c. Italia, che, con sentenza del 13 novembre 2007, ha ritenuto

violato l’art. 6 § 1 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle

libertà fondamentali.

A tal proposito, infatti, la CEDU prevede che “Ogni persona ha diritto a che la sua

causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da

un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a

pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla

fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti.

La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può

essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo

                                                            282 Sul punto cfr. Di Chiara in G. BIONDI, Il procedimento penale in camera di consiglio, GIUFFRÈ, 2011 p. 24. “Gli approdi di più spiccato interesse di tale travaglio dottrinale investono la distinzione, correttamente posta in luce, tra pubblicità dello svolgimento del processo e pubblicità della sentenza. La pubblicità della sentenza – prescindendo per il momento, dalla pubblicità della procedura giudiziaria che ad essa conduce – mira, in linea di principio, a porre il quisque de populo in condizione di conoscere l’esito dei processi attraverso la disponibilità, incondizionatamente riconosciuta a chiunque, dell’atto conclusivo (…) A prescindere da tale problematica, tuttavia, si registra, nei più recenti e approfonditi approdi dottrinari, un orientamento unitario: quello di ritenere comunque insufficiente, ai fini di un’attuazione pregnante dell’art. 101, 1° co., Cost., la mera conoscibilità della decisione conclusiva da parte della collettività dei cittadini. Nel quadro di una lettura volta a valorizzare il collegamento sistematico tra l’art. 101, 1° co., e l’art. 111, 1° co. (attualmente 6° co.) Cost., si è infatti rilevato che l’obbligo costituzionale di motivazione risulterebbe svuotato della sua più intima essenza qualora il quisque de populo, cui – secondo il linguaggio sattiano – “appartiene” la decisione, non fosse in grado di verificare la conformità dell’iter logico percorso dal giudice rispetto allo svolgimento del processo in ogni stato e grado”.   

153  

nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una

società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della

vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal

tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli

interessi della giustizia”.

Proprio in virtù di tale disposizione, che vincola il Paese, nella sua legislazione

interna, grazie all’approvazione della legge 4 agosto 1955, n. 848 recante: Ratifica ed

esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà

fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla

Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, i ricorrenti del caso Bocellari

e Rizza c. Italia, adirono la Corte di Strasburgo deducendo “la mancanza di

pubblicità della procedura per l’applicazione delle misure di prevenzione al primo

ricorrente, sospettato di appartenere ad un’associazione di stampo mafioso, che

aveva comportato la confisca dei loro beni”.283

Il ragionamento dei giudici europei condusse, inevitabilmente, a riconoscere

l’effettiva violazione delle disposizioni contenute nell’art. 6 § 1 della CEDU.

In particolare la Corte europea, nelle valutazioni che compie in seno al

provvedimento in esame, riconosce che “la pubblicità della procedura degli organi

giudiziari di cui all'articolo 6 § 1 tutela i giustiziabili contro una giustizia segreta che

sfugge al controllo del pubblico (vedere, Riepan c. Austria, nº 35115/97, § 27, CEDH

2000 XII); essa costituisce anche uno dei mezzi per preservare la fiducia nelle corti e

nei tribunali. Con la trasparenza che essa conferisce all'amministrazione della

giustizia, aiuta a realizzare lo scopo dell'articolo 6 § 1: il processo equo, la cui

garanzia è annoverata fra i principi di ogni società democratica ai sensi della

Convenzione (vedere fra molte altre, Tierce e altri c. Saint-Marin, nº 24954/94,

24971/94 e 24972/94, § 92, CEDH 2000 IX)”.

Nella sentenza, però, la Corte di Strasburgo sottolinea anche che la norma non

preclude al giudice del merito di derogare al principio in esame nella considerazione

della complessità del procedimento ovvero per la sua particolarità.                                                             283 Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo), Sent. del 13 novembre 2007, caso Bocellari e Rizza c. Italia (ricorso n. 399/02). Violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo (equo processo), per la mancanza della pubblicità dell’udienza che dispone le misure di prevenzione.

154  

L’accesso alla sala d’udienza, dispone infatti l’art. 6 § 1 CEDU, può essere vietato

alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della

morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica,

quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti

in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in

circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della

giustizia.

Tuttavia, nonostante la previsione di tale deroga giustificabile alla luce della

particolarità o tecnicismo delle relative procedura nell’ambito della difesa della

sicurezza sociale, la Corte ha ritenuto che non è conforme al principio espresso dalla

CEDU un procedimento che, sia in primo grado che in appello, sul merito, si svolge

a porte chiuse in virtù di una norma generale e assoluta, senza che il giustiziabile

abbia la possibilità di sollecitare una pubblica udienza.

In effetti tale possibilità, per il “giustiziabile” gli era completamente preclusa dalla

esplicita previsione dell’art. 4 della legge 1423/1956 e dell’art. 2ter della legge

575/1965, che opera un espresso richiamo alla procedura definita dalla legge

1423/1956, laddove era previsto esclusivamente un procedimento camerale.

La Corte europea, dunque, pur ammettendo che nell’ambito di questi procedimenti

possano entrare in gioco interessi superiori, quali la protezione della vita privata di

minori o di persone terze indirettamente interessate dal controllo finanziario e che

procedimenti di questo tipo possano presentare un alto grado di tecnicità, ciò

nonostante non deve essere persa di vista la posta in gioco delle procedure di

prevenzione e gli effetti che sono suscettibili di produrre sulla situazione personale

delle persone coinvolte.

Da tale prospettiva, riconosce la Corte, “ non si può affermare che il controllo del

pubblico non sia una condizione necessaria alla garanzia del rispetto dei diritti

dell'interessato”.

155  

Tale ragionamento viene ribadito in altre due sentenze della Corte di Strasburgo

allorquando fu sollevato, d’innanzi ad essa, il caso Perre ed Altri c. Italia e quello

Buongiorno e Altri c. Italia.284

Anche in questa sentenza la Corte ribadisce la necessità che le leggi nazionali

prevedano la possibilità, per il “giustiziabile”, di accedere a forme di pubblicità

dell’udienza camerale nel procedimento di prevenzione patrimoniale.

Opportunità, aveva rilevato la Corte, che in questo caso, come in quello Bocellari e

Rizza c. Italia, era stata preclusa, ai ricorrenti dalle leggi nazionali che disciplinavano

specificamente la materia violando, dunque, l’art. 6 § 1 della CEDU.

La Corte europea, allora, aveva evidenziato una rigidità della legislazione interna

tesa a ledere proprio il diritto alla pubblicità dell’udienza, e come è stato giustamente

sottolineato, “non si comprende, oltretutto, quali interessi di rilievo costituzionale

possano rendere necessaria l’esclusione della pubblicità per un procedimento avente

natura giurisdizionale, che si conclude con un provvedimento avente natura

sostanziale di sentenza e che ha ad oggetto le medesime questioni che, nell’ipotesi di

sequestro preventivo applicato nell’ambito del processo penale, verrebbero

certamente trattate in udienza pubblica”.285

Nel frattempo la questione viene posta anche dalle corti territoriali.

Di particolare interesse, infatti, l’ordinanza del 18 dicembre 2008, del Tribunale di

Santa Maria Capua Vetere, che, durante lo svolgimento del procedimento per

l’applicazione delle misure di prevenzione sia personali che patrimoniali, solleva la

questione di legittimità costituzionale proprio nei confronti dell’art. 4 della legge

1423/1956 e dell’art. 2ter della legge 575/1965 nella parte in cui non era previsto che

il procedimento camerale si svolgesse in udienza pubblica su istanza dei

“giustiziabili”.

La Corte campana, dunque, pose la questione in seguito alla pronuncia della Corte di

Strasburgo ritenendo che fosse necessario affrontare il problema anche alla luce

dell’art. 6 della CEDU.

                                                            284 Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo), Sent. dell’8 luglio 2008, caso Perre ed Altri c. Italia (ricorso n. 1905/05) e Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo), Sent. del 5 gennaio 2010 caso Buongiorno e Altri c. Italia (ricorso n. 4514/07). 285 A. BALSAMO - V. CONTRAFATTO - G. NICASTRO, Le misure patrimoniali cit., p. 283

156  

Non potendo risolvere la questione in via interpretativa, in quanto il Tribunale

ritenne impossibile applicare in via analogica le disposizioni contenute nell’art. 441,

comma 3, c.p.p. ( che disciplina il giudizio abbreviato prevedendo la possibilità di

udienza pubblica se ne fanno richiesta tutti gli imputati) per diversità di struttura dei

procedimenti, non poté far altro che denunciare la questione di legittimità

costituzionale, asserendo che le norme indicate erano in contrasto con i principi

disposti dagli accordi internazionali e conseguentemente in contrasto con l’art. 117,

1° comma della Costituzione.

Il ragionamento del Tribunale casertano, inoltre, pone in evidenza un rapporto di

regola ed eccezione esistente nell’ambito della norma che disciplina il giudizio

abbreviato, stabilendo appunto che il procedimento si svolge in camera di consiglio a

meno che tutti gli imputati non richiedano la celebrazione dell’udienza pubblica.286

Rapporto completamente inesistente nelle norme, un tempo in vigore, che

disciplinavano il vecchio procedimento di prevenzione patrimoniale antimafia e che

non consentivano, dunque, la possibilità dell’udienza pubblica.

Tra l’altro, se la “segretezza” dell’udienza camerale nel giudizio abbreviato ex art.

441 c.p.p., come messo in rilievo dalla dottrina, è giustificata, e per altro

contemperata dalla previsione del comma 3 della stessa norma, nell’ottica di una

ricompensa riconosciuta dall’ordinamento all’imputato, per aver contribuito alla

realizzazione dei principi di speditezza ed economia processuale, così non è per il

procedimento di prevenzione patrimoniale che non rappresenta nessun rito

alternativo ma si fonda esso stesso, come moderno processo al patrimonio, su canoni

diversi di accertamento, più snelli e finalizzati alla prevenzione antimafia.

Proprio per questo, a maggior ragione, sembrava inevitabile che la questione fosse

posta d’innanzi alla Consulta non potendo essere risolta a livello interpretativo.

                                                            286 Sul punto cfr. Nigro in G. BIONDI, Il procedimento penale cit., p. 66. “Una norma così concepita dimostra che il legislatore, nel tentativo di contemperare i diversi valori in gioco, ha considerato rilevanti, da un lato, l’esigenze di celerità processuale e riservatezza dell’imputato, e dall’altro lato, l’opposto interesse alla celebrazione del processo coram populo quale garanzia nell’esclusiva e solidale disponibilità degli imputati. In altri termini, alla base del meccanismo legislativo sta la presunzione che il principio della pubblicità sia lesivo dell’immagine e della dignità dell’imputato, sicché la forma camerale del rito rappresenta la giusta ricompensa dell’ordinamento per il suo contributo alla maggiore speditezza dell’attività processuale: a emergere è il solo aspetto deteriore del principio, connesso allo strepitus fori. L’inevitabile corollario affida alla concorde volontà di tutti gli imputati il potere di superare tale presunzione, onde giovarsi del controllo dell’opinione pubblica sulla regolarità del processo”. 

157  

Puntualmente, a tale questione, ha posto fine la sentenza della Corte Costituzionale

tesa ad eliminare la rigidità della legislazione interna in contrasto con i principi

contenuti nell’art. 6 § 1 della CEDU e dell’art. 117 Cost.

In verità, prima dell’intervento del Giudice delle leggi, si era espressa una parte della

giurisprudenza di legittimità volta a orientare costituzionalmente la lettura della

norme in questione prevedendo l’applicazione analogica dell’art. 441 c.p.p.287

Tornando all’esame della sentenza costituzionale, la Consulta era stata adita proprio

in riferimento alla ritenuta incostituzionalità dell’art. 4 della legge 1423/1956 e

dell’art. 2ter della legge 575/1965.

Il giudice a quo, dunque, aveva ritenuto violate le norme contenute negli artt. 111 e

117 della Cost. per il contrasto, rispettivamente, con il principio del giusto processo e

con quello che pretende il rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.

La sentenza della Corte Costituzionale, n. 93/2010 ha infatti dichiarato la illegittimità

costituzionale delle norme denunciate “nella parte in cui non consentono che, su

istanza degli interessati, il procedimento per l'applicazione delle misure di

prevenzione si svolga, davanti al tribunale e alla corte d'appello, nelle forme

dell'udienza pubblica”.

Il ragionamento seguito dalla Consulta parte proprio da quella giurisprudenza della

Corte europea, ormai da ritenersi consolidata in materia, tracciando un percorso che

da quelle pronunce giunga all’analisi della norma internazionale specialmente sotto il

profilo della compatibilità costituzionale interna.

È escluso, afferma la Corte Costituzionale, che la norma internazionale, assunta

violata nei giudizi celebrati a Strasburgo, possa ritenersi in contrasto con il sistema di

tutele previste dalla Costituzione repubblicana.

Si legge, infatti, nel provvedimento in esame che “l’assenza di un esplicito richiamo

in Costituzione non scalfisce, in effetti, il valore costituzionale del principio di

pubblicità delle udienze giudiziarie: principio che - consacrato anche in altri                                                             287 Cass. Sez. II, 18 novembre 2008 n. 46751, Sabatelli e altri, Rv. 242803 che afferma: “Benché la l. n. 1423 del 1956, art. 4 preveda la trattazione in camera di consiglio, nulla vieta che il giudice, seguendo un’interpretazione costituzionalmente orientata, applichi analogicamente la disposizione di cui all’art. 441 c.p.p., la quale prevede che il giudizio abbreviato si svolga in camera di consiglio, ma che se tutti gli imputati ne fanno richiesta, abbia luogo in pubblica udienza, cosi facendo venire meno i profili di contrasto con la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo”.      

158  

strumenti internazionali, quale, in particolare, il Patto internazionale di New York

relativo ai diritti civili e politici, adottato il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo con

legge 25 ottobre 1977, n. 881 (art. 14) - trova oggi ulteriore conferma nell'art. 47,

paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea(cosiddetta Carta

di Nizza), recepita dall'art. 6, paragrafo 1, del Trattato sull'Unione europea, nella

versione consolidata derivante dalle modifiche ad esso apportate dal Trattato di

Lisbona del 13 dicembre 2007 ed entrata in vigore il 1° dicembre 2009”.288

La Consulta riconosce inoltre lo sforzo effettuato dalla Corte di Strasburgo di aver

definito correttamente, nell’ambito del giudizio di sua competenza, l’essenza del

procedimento di prevenzione patrimoniale, il quale essendo “un procedimento

all’esito del quale il giudice è chiamato ad esprimere un giudizio di merito, idoneo ad

incidere in modo diretto, definitivo e sostanziale su beni dell'individuo

costituzionalmente tutelati, quali la libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.) e

il patrimonio nonché la stessa libertà di iniziativa economica, incisa dalle misure

anche gravemente «inabilitanti» previste a carico del soggetto cui è applicata la

misura di prevenzione”, è ovvio che l’esigenza di garantire la pubblicità dell’udienza

è più che fondata a pare della Corte Costituzionale.

Il discorso condotto sino a questo punto, però, ha la sua validità fin quando si faccia

riferimento, come la stessa Corte di Strasburgo aveva già rilevato, al primo grado di

giudizio ovvero a quello in appello.

Diversamente accade nell’ambito del giudizio innanzi alla Suprema Corte di

Cassazione alla quale si può ricorrere, nel solo ambito dei procedimenti di

prevenzione antimafia, soltanto per violazione di legge.

Su tale argomento è intervenuta nuovamente la Consulta con la sentenza n. 80

dell’11 marzo 2011 con la quale ha espressamente dichiarato infondata la questione

di legittimità costituzionale relativa alla pubblicità dell’udienza per quanto concerne i

giudizi d’innanzi alla Corte di Cassazione affermando che le pronunce della Corte

europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, si riferiscono esclusivamente alle

udienze celebrate d’innanzi ai Tribunali e Corti d’Appello.

                                                            288 Corte. costituzionale 8 marzo 2010, n. 93

159  

In particolare la previsione legislativa, che regola la celebrazione del giudizio di

cassazione in camera di consiglio, si salda con quanto disposto dall’art 611 c.p.p “in

forza del quale la Corte di cassazione procede in camera in consiglio – oltre che, per

regola generale, «quando deve decidere su ogni ricorso contro provvedimenti non

emessi in dibattimento, fatta eccezione delle sentenze pronunciate a norma

dell’articolo 442» – anche, e prima di tutto, «nei casi particolarmente previsti dalla

legge»”.289

Nell’ambito dei procedimenti di prevenzione, infatti, la Consulta, nella sentenza in

esame ha espressamente stabilito da un lato che la precedente sentenza del 2010, tesa

a dichiarare l’illegittimità costituzionale di quelle norme del procedimento che non

consentivano la possibilità di forme di pubblicità dell’udienza, sia sufficiente a

garantire la conformità dell’assetto legislativo interno alle garanzie previste dalla

CEDU.

Dall’altro, la Consulta, ha inoltre affermato che “la valenza del controllo immediato

del quisque de populo sullo svolgimento delle attività processuali, reso possibile dal

libero accesso all’aula di udienza – uno degli strumenti di garanzia della correttezza

dell’amministrazione della giustizia – si apprezza, difatti, secondo un classico,

risalente ed acquisito principio, in modo specifico quando il giudice sia chiamato ad

assumere prove, specialmente orali-rappresentative, e comunque ad accertare o

ricostruire fatti; mentre si attenua grandemente allorché al giudice competa soltanto

risolvere questioni interpretative di disposizioni normative”.

Un altro profilo affrontato nella stessa sentenza del 2011 è la possibilità di richiedere,

per la prima volta, l’udienza pubblica nel giudizio d’innanzi alla Corte di Cassazione.

La risposta della giurisprudenza costituzionale è stata senz’altro negativa avendo

sottolineato che la Corte di Strasburgo “ha avuto modo di affermare che il principio,

in forza del quale la pubblica udienza non è richiesta nei gradi di impugnazione

destinati alla trattazione di sole questioni di diritto (o concernenti comunque materie

le cui peculiarità meglio si attagliano a una trattazione scritta), vale anche quando

l’udienza pubblica non si è tenuta in prima istanza, perché l’interessato vi ha

                                                            289 Corte costituzionale 11 marzo 2011, n. 80

160  

rinunciato, esplicitamente o implicitamente, omettendo di formulare la relativa

richiesta”.

Se così non fosse si riconoscerebbe alla parte privata l’arbitrio di decidere il

momento della celebrazione dell’udienza pubblica (se nei gradi di merito ovvero in

quello di legittimità), arbitrio sicuramente in contrasto con la corretta

amministrazione della giustizia e dunque con i relativi principi costituzionali.

7. Il giudizio di impugnazione

Le impugnazioni, in materia di misure di prevenzione, sono disciplinate dall’art. 10

del Codice delle leggi antimafia, richiamato dall’art. 27 nell’ambito del Titolo II,

Capo II dedicato, appunto, alle misure di prevenzione patrimoniali.

Il procedimento d’impugnazione, dunque, viene disciplinato dall’art. 10 del d.lgs.

159/2011 che sostanzialmente ricalca la disciplina previgente cristallizzata nella

norma contenuta nell’art. 4 della legge 1423/1956, oggi abrogata con l’entrata in

vigore del Codice Antimafia.

Tale disciplina opera un ulteriore richiamo a quelle che costituiscono le disposizioni

processual – penalistiche contenute nel codice di rito e disciplinano il procedimento

di esecuzione penale agli artt. 666 e ss. del codice di procedura penale vigente.

In verità il richiamo è direttamente alle disposizioni che regolano i procedimenti

aventi ad oggetto le misure di sicurezza.

Le norme prese in considerazione sono quelle contenute negli artt. 678, 679 e 680 del

c.p.p.

Per espressa previsione dell’art. 678 del codice di rito è stabilito che, in questi casi, si

proceda a norma dell’art. 666 c.p.p.

Ne consegue che anche nell’ambito del giudizio d’appello, innanzi alla Corte

d’Appello, l’udienza è camerale, nella quale si attivano tutte le garanzie

precedentemente descritte, nell’ambito del procedimento applicativo per

l’applicazione della misura di prevenzione e cioè nell’ambito del giudizio di primo

grado.

In particolare v’è da sottolineare che anche per quanto concerne l’udienza camerale,

nell’ambito del giudizio d’appello, resta ferma la garanzia della pubblicità

dell’udienza qual’ora l’interessato ne faccia richiesta, esclusa l’udienza d’innanzi alle

161  

sezioni della Corte di Cassazione non essendo quest’ultima competente a giudicare

nel merito, in considerazione del fatto che il ricorso in Cassazione, infatti, è

consentito solo per violazione di legge.

Sull’interpretazione di tale ultima disposizione si è espressa anche la Corte

Costituzionale contribuendo a definire i confini ermeneutici della violazione di legge

nell’ambito del procedimento di prevenzione patrimoniale.

La diatriba nasce dalla questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di

Cassazione, nell’ambito del procedimento di prevenzione patrimoniale, con un

ordinanza del 26 novembre 2003 n. 158, con la quale la Suprema Corte denunciava

l’asserita incostituzionalità dell’allora art. 4 della legge 1423/1956 relativamente alla

parte in cui non consentiva l’assimilazione della manifesta illogicità della

motivazione della sentenza alla violazione di legge, unico motivo, espressamente

previsto, in base al quale è possibile promuovere il ricorso per Cassazione.

Le norme della Carta Costituzionale, che si assumevano violate, riguardavano quelle

contenute negli art. 3 e 24 Cost.

In effetti, ritenevano i supremi giudici, era incostituzionale la disposizione dell’art. 4

della legge 1423/1956 “nella parte in cui limitando alla sola violazione di legge il

ricorso contro il decreto della Corte d’appello in materia di misure di prevenzione,

esclude la ricorribilità in cassazione per vizio di illogicità manifesta della

motivazione, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lettera e), del codice di procedura

penale”.290

La Consulta, però, dopo aver premesso che tutta la questione sollevata si fonda sulle

differenze esistenti tra vizio di violazione di legge processuale e i vizi riconducibili

alla motivazione, prendendo a modello la struttura del procedimento penale, ha

dichiarato infondata la questione sollevata dalla Cassazione in quanto non si è tenuto

conto che i rilievi sostenuti erano basati su un “confronto tra settori direttamente non

comparabili, posto che il procedimento di prevenzione, il processo penale e il

procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza sono dotati di proprie

peculiarità, sia sul terreno processuale che nei presupposti sostanziali”.291

                                                            290 Corte costituzionale 5 novembre 2004, n. 321 291 Ibidem 

162  

Altro principio generale, che vige nell’ambito del procedimento di prevenzione, è

quello della tassatività dell’impugnazione.

A tale riguardo, infatti, “si è escluso che possono essere impugnati provvedimenti

diversi da quelli specificamente dichiarati impugnabili, in particolare con riferimento

al sequestro ed alla cauzione”.292

Su tale profilo “le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza

Giovinazzo del 1985, hanno affermato il principio dell’ammissibilità

dell’impugnazione soltanto nei confronti del provvedimento definitivo che dispone la

confisca”.293

In riferimento al sequestro, infatti, non è ammessa l’impugnazione tipica del ricorso

proposto d’innanzi alle sezioni della Corte di Appello, non solo per quel che

concerne il principio di tassatività, operante nella materia della prevenzione, ma è

esclusa anche in considerazione della funzione sostanziale del sequestro.

Sebbene non va dimenticato il vizio originario del ragionamento giuridico, in virtù

del quale si dichiarava la natura amministrativa del procedimento di prevenzione, e

nonostante il processo di giurisdizionalizzazione dello stesso, sia ormai consolidato,

tuttavia non è possibile sostenere la tesi della impugnabilità di alcuni provvedimenti

come appunto il sequestro di prevenzione.

Rispetto a quest’ultimo, infatti, non è ammessa l’impugnazione nelle forme del

ricorso d’innanzi alla Corte d’Appello, anche in ragione della natura strumentale del

provvedimento.

Non va dimenticato che il sequestro è atto preliminare, a sorpresa, generalmente

disposto d’urgenza e inaudita altera pars, prima che si possa espletare il

contraddittorio camerale.

                                                            292 L. FILIPPI - M.F. CORTESI, Il Codice delle misure di prevenzione cit, p. 162 293 L. FILIPPI - M.F. CORTESI, Il Codice delle misure di prevenzione. Sul punto cfr. anche G. GARUTI (a cura di), Trattato di procedura penale: Modelli differenziati di accertamento,diretto da SPANGHER, volume VII, Tomo I, UTET, p. 630

163  

8. L’udienza camerale d’innanzi alle sezioni di Corte d’Appello

Oggetto d’impugnazione, nel grado d’appello, secondo l’ormai citato articolo 27,

comma 1 del Codice Antimafia, sono, nel campo delle misure di prevenzione, i

provvedimenti che dispongono la confisca dei beni sequestrati (oltre ai

provvedimenti che dispongono la revoca del sequestro, la restituzione della cauzione,

la liberazione delle garanzie, la confisca della cauzione e l’esecuzione sui beni

costituiti in garanzia).

Sono altresì impugnabili i provvedimenti di decadenza da licenze, concessioni o

iscrizioni nei confronti dei terzi ex art. 68, comma 3 del Codice delle leggi antimafia,

che richiamano la disciplina contenuta nell’art. 27, comma 1 e 2 del Codice delle

leggi antimafia.

L’appello va proposto nel termine di dieci giorni dalla comunicazione del

provvedimento ed è “privo di effetto sospensivo. Al riguardo, la giurisprudenza ha

precisato che al giudice di appello non è conferito alcun potere autonomo di

sospensione dell’esecuzione del decreto emesso in primo grado e costituente oggetto

del giudizio di impugnazione (Cass. Sez. VI 2 luglio 2004, n. 33161, Ganci, Rv.

229765)”294

I soggetti legittimati a proporre l’appello sono identificati dall’art. 10, comma 1 del

Codice delle leggi antimafia che stabilisce che “il procuratore della Repubblica, il

procuratore generale presso la corte di appello e l’interessato hanno facoltà di

proporre ricorso alla corte di appello, anche per il merito”.

Anche l’udienza, nel processo d’appello, è camerale, fermo restando la facoltà del

prevenuto di chiedere che l’udienza si svolga con la presenza del pubblico.

Le norme, anche in questo caso, richiamabili sono quelle contenute nell’art. 666

c.p.p. che disciplinano pure il giudizio di primo grado d’innanzi alle sezioni misure

di prevenzione del Tribunale.

In particolare va specificato che, secondo le norme richiamate, il Presidente del

collegio fissa la data dell’udienza in camera di consiglio, provvedendo a farne dare

avviso, almeno dieci giorni prima, al Pubblico Ministero, all’interessato e al suo

difensore.

                                                            294 A. BALSAMO – C. MALTESE, Il Codice Antimafia cit. p. 51

164  

In conseguenza, inoltre, delle modifiche apportate dal d.lgs. 159/2011, “alla luce del

nuovo dettato normativo di cui all’art. 10, comma 2, Codice delle leggi antimafia,

che recepisce la pronuncia della Corte costituzionale n. 93/2010, l’avviso de quo

dovrà contenere anche l’avvertimento che, su istanza dell’interessato, l’udienza potrà

svolgersi anche alla presenza del pubblico”.295

Nell’udienza del procedimento d’appello, come nel giudizio di primo grado, viene

rispettato il principio del contraddittorio e lo si evince, ancora una volta, grazie

all’applicazione delle norme del codice di rito che prevedono la partecipazione

necessaria del Pubblico Ministero e del difensore e la possibilità, per l’interessato di

interloquire, se compare e ne fa richiesta.

L’appello può essere proposto con l’intento delle parti di ottenere dal giudice una

riforma della decisione, nel merito, del primo giudice.

Considerazione certamente ovvia ma che permette di individuare i provvedimenti

che possono essere oggetto dell’impugnazione.

In particolare saranno oggetto dell’impugnazione, da parte del Pubblico Ministero, i

decreti pronunciati dal Tribunale, di confisca o di revoca del sequestro, a seconda

delle determinazioni raggiunte dallo stesso in seguito alle risultante delle indagini

patrimoniali.

Sarà, invece, oggetto dell’appello da parte dell’interessato e del difensore il decreto

di confisca dei beni già sottoposti a sequestro.

Tale prospettiva serve per sottolineare, inoltre, il principio giurisprudenziale, che

pure trova applicazione nell’ambito del giudizio d’appello di prevenzione, per il

quale “ il convincimento del giudice dell’appello si forma sulla base non soltanto

delle risultanze emergenti dal fascicolo di primo grado, ma anche sulla base di fatti

nuovi e delle acquisizioni probatorie disposte nel corso del procedimento di

impugnazione”.296

Questo nel pieno rispetto della regola del divieto di refeormatio in pejus, “stante il

carattere giurisdizionale del relativo giudizio, di tal che nel caso di appello proposto

                                                            295 L. FILIPPI - M.F. CORTESI, Il Codice delle misure di prevenzione cit, p. 178 296 F. FIORENTIN (a cura di), Le misure cit. p. 424

165  

dalla parte privata, non può conseguire l’applicazione di misure più gravose per

l’interessato”.297

Parte della giurisprudenza di legittimità, infatti, ha affermato il principio per il quale,

intanto il divieto sopra citato riguarda il dispositivo del provvedimento, non la

valutazione delle prove ne le argomentazioni giuridiche formulate dal primo giudice,

e che nel procedimento di prevenzione sussiste la possibilità di un costante

adeguamento della situazione di diritto a quella di fatto, la quale può modificarsi in

senso favorevole o contrario al prevenuto.

Ne consegue che il giudice d’appello ben può fondare il suo convincimento su

elementi a carico del proposto non esaminati in primo grado.298

Per altro orientamento giurisprudenziale, invece, al giudice d’appello sarebbe

precluso tale sindacato proprio dalla individuazione dei motivi d’appello che

circoscrivono inevitabilmente il sindacato del giudice d’appello.

Risulta vigente, inoltre, nell’ambito di tale giudizio di impugnazione, il principio,

secondo il brocardo latino tantum devolutum quantum appellatum, sancito dall’art.

597 c.p.p. che è rubricato “Cognizione del giudice d’appello” e che stabilisce al

comma 2, premesso che l’appello sia proposto dal Pubblico Ministero e si tratti di

una sentenza di condanna, “(…) il giudice può, entro i limiti della competenza del

giudice di primo grado, dare al fatto una definizione giuridica più grave , mutare la

specie o aumentare la quantità della pena, revocare benefici, applicare, quando

occorre, misure di sicurezza e adottare ogni altro provvedimento imposto o

consentito dalla legge”.

Il provvedimento di confisca perde efficacia se la Corte d’Appello non decide

sull’impugnazione entro il termine perentorio di un anno e sei mesi.

Secondo l’art. 27, comma 6 del Codice delle leggi antimafia, è prevista

l’applicazione dell’art. 24, comma 2 del Codice delle leggi antimafia stabilendo cosi

che nel caso di indagini complesse o compendi patrimoniali rilevanti tale termine

può essere prorogato con provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria

procedente, per periodi di sei mesi e per non più di due volte.

                                                            297 Ibidem 298 Ivi, pp. 424, ss.

166  

Per quanto concerne le inammissibilità, nessun dubbio sorge circa l’applicabilità

dell’art. 591 c.p.p. che disciplina le ipotesi, appunto, dell’inammissibilità

dell’impugnazione.

8.1 (segue) L’opposizione nelle forme dell’incidente di esecuzione

In tale contesto non può non farsi riferimento al mezzo di opposizione nelle forme

dell’incidente di esecuzione.

Tale istituto consente l’impugnazione avverso tutti quei provvedimenti sfavorevoli al

prevenuto e non altrimenti impugnabili, fatta eccezione per quei provvedimenti per i

quali il nuovo Codice delle leggi antimafia, prevede uno specifico mezzo di reclamo,

ovvero l’impugnazione da parte di terzi che, pur vantando diritti reali sui beni

oggetto del procedimento di prevenzione, non sono potuti intervenire

tempestivamente in giudizio e dunque non hanno potuto esperire le proprie difese.

La Cassazione ha sostenuto, per esempio, che avverso il provvedimento di sequestro

non è ammessa impugnazione ma opposizione d’innanzi allo stesso giudice, nelle

forme dell’incidente di esecuzione, esperibile anche dai terzi intestatari dei beni

oggetto dei provvedimenti.299

Per quanto concerne l’intervento dei terzi, che impugnano il provvedimento di

confisca successivamente alla sua pronuncia, quando siano titolari di diritti reali di

garanzia vantati sul bene oggetto della confisca e non siano stati messi in condizione

di partecipare al procedimento di prevenzione, di particolare interesse risultano due

pronunce di merito del Tribunale di Napoli.

Nel decreto del 20 ottobre 2009 e in quello del 13 agosto 2010, il Tribunale

ripercorre l’iter giurisprudenziale della Corte di Cassazione rispetto a recenti

pronunce che la corte territoriale ha valutato in contrasto con gli orientamenti

prevalenti anche della stessa Corte Suprema.

In particolare ci si riferisce a quelle sentenze della Cassazione volte a definire,

l’incidente di esecuzione, non definibile nel procedimento in camera di consiglio ex

art. 666 c.p.p. ma bensì nelle forme previste dall’art. 676 c.p.p. che richiama l’art.

                                                            299 Cass., 10 aprile 2008, n. 17827, Di Vincenzo, Rv. 239855

167  

667, comma 4, c.p.p. e dunque in un procedimento senza formalità che si chiude con

un provvedimento de plano.

La differenza tra i due orientamenti, avverte il Tribunale di Napoli, risulta evidente

“atteso che il procedimento ex art. 666 c.p.p consente il pieno dispiegarsi del

contraddittorio tra le parti e al Tribunale di svolgere i necessari accertamenti.

Laddove il procedimento de plano di cui all’art. 667 co. 4° c.p.p. (previsto, come si

vedrà, per diverse e più semplici ipotesi) mal si concilia con la complessità

dell’incidente di esecuzione promosso dal terzo in sede di prevenzione”.300

Attesa dunque la finalità della promozione dell’incidente di esecuzione, da parte del

terzo titolare di diritti reali, che non sia stato posto in condizione di partecipare alle

udienze camerali del procedimento di prevenzione, la giurisprudenza della

Cassazione, precedente alle sentenze nn. 5044/09 e 16934/09, aveva correttamente

individuato, si legge nei decreti del Tribunale di Napoli in esame, il procedimento

camerale ex art. 666 c.p.p. quale procedimento idoneo a decidere sulle istanze

promosse dall’exstraneus.

Il ragionamento del giudice di merito, passa in rassegna la giurisprudenza, ormai

ritenuta pacifica, che dal 1986 al 2008 definisce lo scopo dell’intervento del terzo, il

quale, non essendo messo in condizione di prendere parte al procedimento di

prevenzione, neanche era legittimato a chiedere la revoca del provvedimento di

confisca che, divenuto definitivo, era esecutivo anche nei confronti dei terzi non

intervenuti.

Il corollario di tale impostazione è che il rimedio previsto dal legislatore deve essere

quello che permette al terzo interveniente di esperire le proprie difese e richiedere

tutti gli elementi utili al fine di predisporre le difese stesse.

Finalità che con il procedimento ex art. 667, comma 4, c.p.p. non si sarebbero mai

realizzate in considerazione del fatto che “il giudice dell’esecuzione provvede in ogni

caso senza formalità”.

Del resto la copiosa giurisprudenza della Cassazione, ancora si inserisce in tale solco

quando afferma, a Sezioni Unite Penali, che “in ordine ai limiti soggettivi di

esperibilità della revoca, sono legittimati a proporla quanti abbiano partecipato al

                                                            300 Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione, cc .15 giugno 2010, dep. 13 agosto 2010, Reg. Gen. C.C. n. 43/10, Reg. Dec. n. 121/2010/B, Pres. Cozzi, Est. Menditto 

168  

procedimento di prevenzione o siano stati messi in grado di parteciparvi. In tal modo

simile richiesta non è in tesi proponibile da chi, pur dovendo intervenire perché

formalmente titolare dei beni sequestrati, non sia stato chiamato a partecipare al

procedimento e comunque non vi abbia partecipato, secondo quanto invece prescritto

dal quinto comma dell'art. 2 ter legge n. 575 del 1965.

In questo caso, l'esistenza delle condizioni per la dichiarazione dell'inefficacia del

provvedimento (esecutivo anche nei confronti del terzo non intervenuto) può e deve

farsi valere, secondo pacifica giurisprudenza, mediante il ricorso ad incidente di

esecuzione (cfr., da ultima, Cass. sez. VI, 29 settembre 2005, n. 41195, Cristaldi e

altri).

Incidente nel quale il terzo formalmente titolare, senza preclusioni derivanti dal

procedimento di prevenzione cui non ha partecipato, potrà svolgere le sue deduzioni

e chiedere l'acquisizione di ogni elemento utile”.301

Altro profilo che deve essere indagato riguarda la identificazione dei terzi che sono

legittimati a proporre incidente di esecuzione.

Sebbene parte della giurisprudenza della Cassazione aveva inizialmente fatto

riferimento ai soli terzi “ai quali il bene appartiene”, cioè ai terzi titolari dei diritti di

reali di godimento, successivamente la stessa S.C. si è espressa in senso favorevole

anche nei confronti dei terzi titolari dei diritti reali di garanzia.302

                                                            301 Cass, SS. UU. Penali, 8 gennaio 2007, n. 57, Auddino 302 Cass. Sez. I, 25 maggio 2006, n. 30783 secondo cui” il creditore ipotecario, (…) , rientra tra quei terzi che possono vantare “l’appartenenza” del bene “i quali sono chiamati nel giudizio di prevenzione se quivi il loro titolo “risulta”…e possono quindi intervenirvi spontaneamente per “svolgere in camera di consiglio le loro deduzioni e chiedere l’acquisizione di ogni elemento utile ai fini della decisione sulla confisca”; partecipazione peraltro non necessaria né prevista a pena di nullità, ma soltanto eventuale (su quest’ultima affermazione la giurisprudenza è assolutamente costante)…infatti finchè la confisca non sopravvenga non può essere negato l’interesse attuale del titolare dell’ipoteca di intervenire quantomeno “ad adiuvandum” per evitarla. E’ d’altra parte pacifico che la posizione del terzo legittimato, non chiamato né intervenuto nel giudizio di prevenzione può formare oggetto di incidente d’esecuzione e trovare in tal sede tutela. Egli pertanto ha la scelta tra l’intervento, che gli fornisce la garanzia del doppio grado di merito, e la difesa in sede incidentale, ove è previsto un solo grado di merito, ma il ricorso per cassazione ha la sua normale estensione e non è limitato alle sole ipotesi di violazione di legge, come invece avviene nel procedimento di prevenzione….E’ oltretutto da notare che, attesa la pubblicità prevista per il sequestro dalla legge n. 575 del 1965, art. 2 quater, il terzo diligente è posto in grado di esercitare tempestivamente il diritto d’intervento”

169  

9. L’udienza camerale d’innanzi alle sezioni della Corte di Cassazione

Il decreto della Corte d’appello è ricorribile in Cassazione (senza effetto sospensivo)

solo per violazione di legge, da parte del pubblico ministero e dell’interessato, entro

dieci giorni dalla comunicazione o notificazione dell’avviso di deposito del

provvedimento secondo quanto dispone l’ art. 10, comma 4, d.lgs. n. 159/11,

riproduttivo dell’art. 4, comma 11, della legge 1423/1956 abrogata con l’entrata in

vigore del c.d. Codice delle leggi antimafia.

La nuova disciplina prevede che il ricorso sia deciso nel termine ordinatorio di trenta

giorni dalla sua presentazione.

In considerazione della tassatività del dato letterale della norma, che circoscrivi i

motivi di impugnazione alla sola “violazione di legge”, sembrerebbe escluso,

dunque, che il ricorso stesso possa essere promosso per vizio di motivazione quale

erro in procedendo, contemplato dalla lettera c) dell’art. 606 c.p.p.

Sarebbe esclusa, cioè, l’ipotesi che il vizio di motivazione potesse rientrare

nell’alveo della violazione di legge in quanto contrastante con una norma penale

prescritta a pena di nullità.

La questione ruota attorno al concetto di manifesta illogicità della motivazione che

non sarebbe censurabile mediante il ricorso per cassazione.

Diversamente intesa la questione, dibattuta in giurisprudenza, per la quale non di

manifesta illogicità della motivazione si tratterebbe ma di vizi cosi evidenti da

ritenerla meramente fittizia e apparente e dunque inesistente.

Si è andato consolidando, dunque, un orientamento della giurisprudenza “che ha

ammesso l’impugnazione in cassazione nei casi nei quali la motivazione, sebbene

formalmente presente in senso grafico e strutturale, sia, però, inficiata da vizi così

macroscopici da oltrepassare i confini della manife-sta illogicità e da risolversi in una

motivazione meramente fittizia e “apparen-te”, tanto da presentare fratture ed aporie

argomentative così vistose da ren-dere incomprensibili le ragioni della decisione”.303

Da tale prospettiva, allora, il ricorso si attiva non sulla manifesta illogicità della

motivazione, carattere che sarebbe escluso dal vaglio della Suprema Corte, bensì

                                                            303 T. BENE, Questioni aperte in tema di impugnazioni nel procedimento di prevenzione, in Archivio penale 2012, n.3

170  

sulla inesistenza di motivazione o manchevole dei requisiti minimi di coerenza e

completezza tale da rendere il provvedimento viziato in quanto non rispondente alle

norme processuali che impongono la motivazione del provvedimento stesso.

Non è proponibile il ricorso per saltum in virtù del principio di diritto

dell’osservanza dei gradi della giurisdizione, previsto espressamente dal codice di

rito del 1930 (art. 211), tuttora operante nel vigente ordinamento (S.C. sent. nn.

3962/96, 6618/10).

Va inoltre specificato che la questione è dibattuta, in dottrina, anche alla luce della

natura giuridica del provvedimento conclusivo del procedimento di prevenzione.

Secondo l’interpretazione giurisprudenziale, infatti, tale provvedimento veste la

forma del decreto ma “ha natura sostanziale ed efficacia di sentenza”, opinione

consolidata, ritenendo applicabili le disposizioni relative ai requisiti indicati per la

sentenza, ai sensi dell’art. 546 c.p.p.”304

Da un lato, quindi, la giurisprudenza ha escluso che il decreto di confisca, conclusivo

del procedimento di prevenzione patrimoniale, possa essere impugnato, direttamente,

con un ricorso alla Corte di Cassazione senza aver previamente esperito l’appello.

Nonostante l’orientamento giurisprudenziale, la dottrina fa riferimento alla

sostanziale equiparazione del provvedimento di confisca antimafia alla sentenza in

base alla quale non sarebbe difficile, allora, riconoscere, anche in questo caso, la

legittimità del ricorso per saltum avente ad oggetto il decreto di confisca, senza che

sia stato esperito preventivamente l’appello.

In conseguenza di tale divieto va convertito in appello l’eventuale ricorso per

cassazione proposto avverso il provvedimento adottato dal Tribunale all'esito del

primo grado di giudizio (S.C. sent. nn. 5630/09, 6618/10).

Il limite posto all’impugnativa comporta che non è consentito dedurre il vizio di

motivazione, ai sensi dell'art. 606, comma primo, lett. e), c.p.p.

“Per le medesime ragioni non è configurabile il vizio della mancata assunzione della

prova decisiva, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), c.p.p. previsto soltanto

per il giudizio dibattimentale (S.C. sent. n. 8641/09).

                                                            304 Ibidem

171  

La Corte di cassazione provvede, in camera di consiglio, entro il termine ordinatorio

di trenta giorni dalla presentazione del ricorso.

Nell’ipotesi in cui il provvedimento di confisca fosse annullato dalla Suprema Corte,

si pone il problema della trasmissione degli atti al giudice che ha pronunciato il

provvedimento cassato.

Si era ritenuto applicabile, insomma, l’art. 611, comma 1, lettera a) c.p.p. in

riferimento alle ordinanze cassate.

La soluzione prospettata non è accettabile, non solo alla luce del fatto che non di

ordinanza si tratta ma di decreto di confisca, ma specialmente in considerazione del

fatto che al decreto di confisca viene generalmente riconosciuto carattere sostanziale

di sentenza, per cui “il giudizio deve essere rinviato ad un’altra sezione della stessa

Corte d’appello o, in mancanza, alla Corte d’appello più vicina, determinata con i

criteri indicati dall’art. 175 disp. att. c.p.p., come d’altronde la giurisprudenza

affermava già nella vigenza del Codice del 1930 ed ha confermato anche di

recente”.305

Non trovano applicazione le disposizioni sulla pubblicità dell’udienza (Corte cost.

sent. n. 17229/09)”.306

La legittimità della celebrazione dell’udienza a porte chiuse è stata sancita, per altro,

da ulteriore sentenza della Corte Costituzionale.

Con la sentenza 11 marzo 2011, n. 80, la Consulta ha ritenuto inesistente il contrasto

con l’art. 6 della CEDU, in considerazione del fatto che la cognizione in Cassazione

è limitata ai soli “vizi di legge” e dunque alle mere questioni di diritto.

                                                            305 L. FILIPPI - M.F. CORTESI, Il Codice delle misure di prevenzione cit, p. 185 306 F. MENDITTO, Le misure di prevenzione personali e patrimoniali. La confisca ex art. 12 sexies l. n. 356/92, Giuffrè 2012 

172  

Conclusioni

L’istituto giuridico delle misure di prevenzione patrimoniali, ha rappresentato una

vera e proprio rivoluzione copernicana nell’ambito del contrasto giudiziario, e non

solo, alle organizzazioni di stampo mafioso.

La lotta alla mafia, infatti, doveva necessariamente eseguirsi sugli aspetti economici

delle organizzazioni criminali, atteso che proprio quest’aspetto rappresenta il cuore

pulsante delle consorterie mafiose.

Gli anni recenti lo hanno dimostrato ampiamente, se si considera che le maggiori

inchieste della magistratura hanno consentito di sgominare potentati finanziari e

cellule mafiose, ben insediate nelle regioni del Nord Italia.

La “nuova” frontiera, dunque, è proprio quella rappresentata dal contrasto

patrimoniale e dalla sottrazione dei patrimoni alle mafie.

Ne deriva che l’analisi degli istituti giuridici del sequestro e della confisca di

prevenzione, e del procedimento previsto per la loro applicazione, è operazione che

deve essere condotta con la massima scrupolosità, specialmente in vista della

specifica finalità di contrasto alla criminalità organizzata, evitando

strumentalizzazioni garantiste e interpretazioni di comodo.

Lo stesso Giovanni Falcone, all’indomani dell’approvazione della legge “Rognoni –

La Torre” ebbe a dire che:

La rilevanza delle indagini bancarie nell’ambito della repressione della criminalità

organizzata è, ormai, legislativamente sancita dai recenti provvedimenti antimafia

(cfr. legge La Torre e istituzione dell’Alto commissario per la lotta alla criminalità

mafiosa).

A prima vista, il campo di applicazione delle nuove norme sembra riguardare,

soprattutto, le misure di prevenzione; ma trattasi di una impressine erronea.

Le misure di prevenzione erano state disciplinate, in origine, per infrenare, sotto

l’aspetto personale, la pericolosità sociale dell’individuo. Lo spostamento

dell’ottica della prevenzione anche ai risvolti patrimoniali ha comportato la

necessità di introdurre in questo campo istituti giuridici come il sequestro e la

confisca di beni e di disciplinare il procedimento per l’applicazione di misure

patrimoniali.

Tale esigenza, ovviamente, non sussisteva per il procedimento penale, nel quale gli

istituti del sequestro e della confisca sono da tempo previsti, e non era stata

173  

certamente la carenza di norme che aveva impedito di svolgere indagini e adottare

misure dirette a colpire la potenzialità economica delle organizzazioni mafiose.

Per altro, l’art. 24 della legge La Torre ha disposto l’applicazione, anche ai

procedimenti penali concernenti associazioni di tipo mafioso, delle norme

riguardanti le indagini patrimoniali e bancarie, il sequestro e la confisca, previste

per il procedimento di prevenzione.

È divenuto, quindi, obbligatorio – e non più riservato, come nel passato alla

discrezionalità dell’istruttore – l’espletamento di indagini bancarie e patrimoniali al

fine della adozione di misure – come il sequestro e la confisca – che, a torto neglette

nel passato, costituiscono, invece, efficacissimo strumento di lotta contro la

criminalità mafiosa. E, quindi, va ribadito, contrariamente ad alcune interpretazioni

di comodo della legge La Torre, che questo strumento legislativo non indulge

affatto a scorciatoie pericolose e, tutto sommato, insufficienti nella lotta contro la

criminalità, e le misure di prevenzione, seppur rese più incisive, mantengo sempre

funzione strumentale e accessoria nella difesa sociale.

Sembra opportuno soggiungere che, sicuramente, la funzione complementare delle

misure di prevenzione emergerà nell’applicazione delle stesse, poiché l’identità

delle indagini patrimoniali e bancarie rispetto a quello del processo penale porrà in

evidenza utili elementi di prova pienamente sfruttabili nell’ambito della

giurisdizione penale e viceversa.307

In questa lunga citazione del magistrato Giovanni Falcone, si intravede anche

l’orientamento degli istituti giuridici in esame.

La difesa sociale, a cui Falcone faceva riferimento, oggi si concretizza con l’effettivo

riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie, cosi come prevede la legge 7 marzo

1996, n. 109 come modificata ed integrata dal d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159.

L’immobile che viene sottratto alle organizzazioni criminali, e dunque effettivamente

restituito alla collettività mediante interventi socio-educativi, con specifici scopi di

reinserimento e partecipazione democratica, rappresenta la vera vittoria dello Stato

sulle mafie, nella misura in cui quell’immobile diviene da posizionale a relazionale,

in grado cioè, di far ruotare intorno ad esso, le istituzioni e la società civile in un

progetto permanente di rieducazione delle persone e del territorio.

                                                            307 G. FALCONE, L’acquisizione delle prove nei procedimenti penali concernenti associazioni mafiose, con particolare riferimento agli accertamenti bancari, in G. FALCONE, La posta in gioco, interventi e proposte per la lotta alla mafia, BUR, 2010, pp. 207 ss.

174  

La dimensione sociale, allora, non può essere esclusa, se si considera che nell’ambito

dello studio, avente ad oggetto il fenomeno della mafia, durante tutto il percorso

giurisprudenziale e dottrinario, che ha condotto alla definizione giuridica del reato di

associazione mafiosa, ex art. 416bis c.p.p., si è proprio partiti col considerare le

caratteristiche sociali di tale fenomeno.

Sicché, successivamente alle affermazioni che hanno condotto all’individuazione

dell’elemento strutturale della mafia, nella “carica intimidatoria autonoma”,

quest’ultima “non nasce dal nulla, ma trae pur sempre origine da comportamenti

umani: in particolare da una pregressa – e più o meno antica – pratica di violenza e di

intimidazione coltivata sistematicamente in guisa tale da determinare, in una certa

fase di evoluzione del sodalizio stesso, il prodursi di quel risultato”.308

È chiaro che tale risultato, al quale si fa riferimento, è ottenuto proprio grazie al

potere del dominio mafioso che, tra le altre cose, si fonda sulle enormi disponibilità

economico-finanziarie di cui le organizzazioni mafiose dispongono.

Ma perché possa essere giocata, in modo vincente, la partita sul terreno del riutilizzo

sociale dei beni confiscati alle mafie, è ovvio che innanzitutto sia vinta quella

condotta dall’autorità giudiziaria nell’ambito del procedimento di prevenzione

patrimoniale.

L’interesse, dunque, è quello di coniugare aspetti sociali e giuridici in una materia

che tocca entrambe le sfere di competenza e che negli anni ha visto lo scambio di

opinioni tra magistrati della prevenzione e operatori sociali, cooperatori ed

associazioni che, a livello nazionale, operano perché si diffonda, anche nel resto

dell’Europa, la cultura del riutilizzo sociale dei patrimonio sottratti alle mafie.

Tale ultimo confronto si è realizzato proprio alla vigilia dell’approvazione del Codice

Antimafia, in un assise gremita309, di esperti, operatori del diritto ed esponenti della

società civile, per suggerire e proporre le necessarie modifiche di un testo legislativo,

che, attualmente, non risponde alle esigenze proprie della materia in oggetto, sia dal

                                                            308 G. TURONE, Il delitto di associazione cit., p. 125 309 Il riferimento è alla Conferenza – dibattito che si tenne il 7 luglio 2011 presso la sala delle conferenze della Camera dei Deputati a Roma. Nell’incontro, che fu fortemente voluto dal Centro Studi ed Iniziative culturali “Pio La Torre”, furono presentate le proposte di modifica al Codice Antimafia da parte dei magistrati della prevenzione e dalle associazioni che maggiormente si occupano di riutilizzo sociale dei beni sottratti alle organizzazioni mafiose. Alcune di quelle modifiche trovano oggi cittadinanza all’interno del testo del Codice Antimafia.

175  

punto di vista dell’applicazione della relativa giurisdizione che per quel che concerne

l’aspetto sociale.

Fortunatamente la legge – delega 13 agosto 2010, n. 136, con la quale il Parlamento

ha delegato il Governo alla redazione del Codice Antimafia, prevede all’art. 2,

comma 4 che “entro tre anni dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo di

cui al comma 1, nel rispetto delle procedure e dei principi e criteri direttivi stabiliti

dal presente articolo, il Governo può adottare disposizioni integrative e correttive del

decreto medesimo”.

Questo significa che il Codice delle leggi Antimafia è ancora un cantiere aperto su

molti aspetti problematici che sono denunciati dalla stessa autorità giudiziaria

competente.

Un risultato importante è stato ottenuto, con il tentativo della redazione di un testo

che raccogliesse la maggior parte delle disposizioni, ma va rilevato che in molti

aspetti è evidente che il codice è redatto sulla base di una scarsa conoscenza della

materia.310

Così nell’ambito dell’avviso di fissazione dell’udienza, resta irrisolto il problema

legato ad una adeguata informazione circa gli elementi di fatto che hanno motivato la

proposta.

Mentre, infatti, il legislatore si limita a precisare che il presidente fissa la data

dell’udienza e ne fa dare avviso alle parti, la prassi applicativa non è univoca.

In riferimento, oltretutto, ai principi del giusto processo ai quali pure il giudizio di

prevenzione è ispirato, sarebbe necessario che il legislatore prevedesse

espressamente che alle parti venga data informazione degli elementi di fatto che

hanno motivato la proposta.

Altro problema, dal punto di vista processuale, concerne la fissazione di termini

perentori che non corrispondono all’effettiva esigenza dello svolgimento del

procedimento di prevenzione.

                                                            310 Sul punto F. Menditto in Codice Antimafia, commento organico cit., in Prefazione

176  

Solo rendendo inattaccabile il processo al patrimonio delle organizzazioni mafiose,

prevedendo anche l’istituzione di sezioni specializzate, potrà condursi una efficace

fase di prevenzione.

L’ingresso del Codice Antimafia, nel nostro Ordinamento giuridico, rappresenta

certamente un tentativo importante di riordino della normativa antimafia, ma perché

possa portare ad effettivi risultati, è necessaria un’ azione di effettivo coordinamento

delle norme e piena aderenza alla prassi applicativa.

177  

Appendice di approfondimento: intervista a Franco la Torre figlio di Pio e

presidente di Freedom, Legality and Rights in Europe (Flare)

La breve intervista a Franco La Torre, familiare dell’Onorevole Pio La Torre, segue

un percorso che parte dalla memoria del deputato del PCI, che propose la legge, oggi

nota come legge Rognoni – La Torre, e che ha rappresentato una vera e propria

rivoluzione copernicana, nell’ambito del contrasto giudiziario alle organizzazioni

criminali di stampo mafioso. L’intervista continua affrontando gli aspetti politici e

sociali che rappresentarono il contesto nel quale maturò quella proposta legislativa

basata anche su un particolare attivismo delle varie federazioni del Partito

Comunista, in Sicilia, confluite in quella relazione di minoranza del 1976 che

duramente criticò la relazione di maggioranza dell’allora Commissione parlamentare

d’inchiesta sul fenomeno della mafia. Le ultime domande sono rivolte all’impegno di

Franco La Torre, attualmente presidente della rete internazionale “Flare”.

La rete, che si compone di circa trentotto organizzazioni non governative,

coinvolgendo 25 paesi dell’eurozona, nasce da un’idea della rete nazionale “Libera”

con lo scopo di mettere in campo azioni concrete di contrasto alle organizzazioni

criminali transnazionali.

Non solo informazione e sensibilizzazione a favore della cittadinanza europea sul

tema delle mafie, la rete opera anche dal punto di vista istituzionale facendo

pressione sugli organismo dell’Unione Europea al fine di armonizzare e

implementare le varie legislazioni nazionali con specifico riferimento ai

provvedimenti di sequestro e di confisca, e dunque al reciproco riconoscimento degli

ordini di sequestro, e al successivo riutilizzo sociale dei beni acquisiti a patrimonio

dello Stato.

178  

Qual è il ricordo più nitido che ha di Pio La Torre?

Il suo sorriso ampio e il suo sguardo profondo e luminoso.

La sua passione civile e il suo coraggio l’hanno contraddistinto sin da giovanissimo.

Pio La Torre era, dunque, un eroe?

Mio padre è stato coerente con i principi in cui credeva: la libertà, la,

pace, la democrazia, il progresso, la giustizia, battendosi per la loro affermazione,

attraverso il suo impegno civile, sia sindacale che politico, che hanno ispirato la sua

vita. Ha combattuto la mafia, perché questa ostacola l'esercizio di quei principi e

diritti fondamentali. E' stato responsabile, con profondo senso dello stato, onesto,

mettendo al primo posto gli interessi generali. E' stato un buon cittadino.

Non ritengo si possa definirlo un eroe.

Pio La Torre era rigoroso e coerente. Tanto da impedire che i suoi figli giocassero

nel campo di calcio di proprietà di un mafioso.311

Qual è, secondo lei, il valore di questi comportamenti? Quali i suoi pensieri quando

suo padre li esternava?

L'episodio si riferiva alla squadra di calcio in cui giocava mio fratello. Io non ero

così bravo. Mio padre, col suo esempio, oltre che con le parole, affermava i valori in

cui credeva. Io li ho compresi e condivisi.

Suo padre propose la legge che oggi porta il suo nome e che introdusse nel nostro

codice penale l’art. 416bis. L’associazione di tipo mafiosa. Si ricorda quel periodo?

Quali aspettative aveva, l’Onorevole La Torre, rispetto a quel progetto di legge?

                                                            311 L’episodio è raccontato tra le pagine del testo di G. Bascietto e C. Camarca, Aliberti, “Pio La Torre, una storia italiana”, Aliberti, 2008

179  

Non ho particolari ricordi di quel periodo, in cui elaborò e depositò la legge in

Parlamento, dove rimase, per essere approvata solo dopo la sua morte e quella di

dalla Chiesa.

La relazione di maggioranza del 1976, della prima Commissione parlamentare

antimafia, fece dissentire, sulle modalità pressoché inesistenti, con le quali era stato

affrontato il tema delle connessioni mafia-politica, gli esponenti del Partito

Comunista, tra i primi suo padre, i quali, redigendo un’apposita relazione di

minoranza, decisero di trattare espressamente questo tema, facendo nome e

cognome dei responsabili. Attualmente, come crede che sia affrontato, dalle

istituzioni preposte, tale annoso problema?

Il nodo mafia-politica è un vulnus della nostra democrazia e la politica, sino ad ora,

non è riuscita ad affrontarlo in maniera da scioglierlo definitivamente.

Nella prefazione al volume “Mafia e Politica”312, suo padre scrisse che “dopo

essersi battuti per la costituzione della Commissione parlamentare d’inchiesta, i

comunisti sono la sola forza politica che abbia collaborato, sin dall’inizio, con la

commissione fornendole numerosi documenti e relazioni”. Dott. La Torre, qual’era

secondo lei, il contesto socio-politico in cui si inquadrava la lotta alla mafia e quali

sono le condizioni in cui oggi la stessa si svolge?

Ai tempi di mio padre, in molti ambienti, la mafia era considerata un fenomeno

folkloristico, in altri veniva sottovalutata e in altri ancora ne veniva negata

l'esistenza. Oggi nessuno può negarne l'esistenza e la valenza criminale.

Come viveva questo fermento politico e sociale?

                                                            312 “Mafia e politica”, con prefazione di Pio La Torre, Editori Riuniti, 1976 che pubblica i contenuti della relazione di minoranza in contrasto con la relazione di maggioranza dell’allora Commissione parlamentare antimafia costituita con legge nel 1963

180  

Non credo che, allora, si potesse definire fermento politico e sociale, l'impegno di

una parte, non sempre maggioritaria, delle istituzioni. Alcuni partiti, PCI, PSI e MSI,

innanzitutto, insieme al sindacato, erano percepiti come forze antimafia, ma non

possiamo parlare di coscienza civica diffusa. In Sicilia c'erano donne e uomini

fortemente impegnati, ma il resto del Paese non appariva cosciente della gravità della

minaccia mafiosa.

Suo padre non si spese solo nella lotta alla mafia. Egli innanzitutto intraprese la

lotta a difesa dei contadini, a partire dalla fine degli anni ’40 e poi successivamente

con l’approvazione della riforma agraria all’inizio degli anni ’50. Poi si schierò

contro l’installazione della base missilistica a Comiso nel 1982. Ma dietro le quinte,

in un modo o nell’altro, anche in questi contesti, c’era sempre la mafia. Quali sono,

secondo lei, oggi, le declinazioni del potere mafioso?

Quelle tendenze, tipiche del cosiddetto fenomeno della globalizzazione, che la mafia

anticipa, visti i suoi interessi transnazionali, legati ai traffici illeciti, che hanno come

teatri le borse, le grandi multinazionali e gli investi economici nei quattro angoli del

pianeta. Quelle tradizionali: il controllo del territorio e dei processi decisionali

pubblici. Quelli occulti: grazie ai sodalizi politici ed economici, mirati a fermare

opgni istanza di rinnovamento, in nome di interessi retrivi e reazionari.

La legge, oggi nota come “Rognoni – La Torre”, introdusse uno strumento

importantissimo. Quello delle misure di prevenzione patrimoniale. L’aggressione dei

patrimoni mafiosi è stata un’intuizione di Pio La Torre senza precedenti. Con

l’approvazione del Codice Antimafia, secondo lei, come è stata interpretata dai

posteri l’eredità morale, civile, legislativa e culturale di Pio La Torre?

Come hanno affermato in tanti, più esperti di me, dall'ANM al Centro Pio La Torre,

da Libera alla CGIL, il Codice non riesce a raccogliere e valorizzare l'eredità della

Rognoni- La Torre, riducendosi, quasi, a un Codice delle misure di prevenzione.

181  

Lei, dallo scorso 20 febbraio 2012, è il nuovo presidente di Flare313 che, tra i suoi

obiettivi, si propone proprio di fare pressione sulle istituzioni dell’Unione Europea,

per l’attuazione di un modello di contrasto che preveda proprio la confisca e il

riutilizzo sociali dei beni di illecita provenienza. Quali sono le maggiori difficoltà

per armonizzare le legislazioni europee con la nostra legislazione di prevenzione

antimafia?

La Commissione europea ha proposto una Direttiva sulla confisca dei beni

all'approvazione del Parlamento e del Consiglio europei, e ha affermato che la

maggiore difficoltà sia proprio nella sua armonizzazione nei sistemi giuridici degli

Stati membri. La maggiore difficoltà risiede anche nella cultura giuridica di alcuni

paesi dell'UE, che ritiene che sia inviolabile la proprietà privata, sino a sentenza

definitiva. Mi auguro che una maggiore consapevolezza di ciò che è la mafia aiuti

un'evoluzione in tal senso.

Come si pone lo Stato italiano rispetto a questo progetto di armonizzazione della

legislazione?

Lo Stato italiano, grazie alla Rognoni- La Torre e alla legge sul riutilizzo sociale dei

beni, voluta da Libera e alle norme che hanno rafforzato gli strumenti di contrasto, è

nelle condizioni di accogliere la richiesta di armonizzazione.

                                                            313 Flare (Freedom, Legality and Rights in Europe) è un network internazionale composto da 38 Organizzazioni non governative provenienti da 25 paesi in tutta Europa, bacino del Mediterraneo, Federazione Russa, Caucaso e Balcani. (http://flarenetwork.org/home/home_page.htm)

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• Cass. Sez. II, 18 novembre 2008 n. 46751, Sabatelli e altri, Rv. 242803

• Cass., Pen., Sez I, 1 dicembre 2008, n. 44601

• Cass., Sez. I, 25 febbraio 2009, n. 8510

• Cass., Sez. II, 22 aprile 2009, n. 20906, Buscema e altri, Rv. 244878

• Cass., Sez. I, 11 settembre 2009, n. 35175, Rv.245362

• Cass., Sez. I, 15 ottobre 2009, C.G., in CED Cass., n. 245374

• Cass., Sez. I, 30 dicembre 2009, G.F., in CED Cass., n. 24597

• Cass., Sez. V, 27 ottobre 2010, n. 3687 Cassano e altri in CED Cass. 249691

192  

Giurisprudenza di Merito

• Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione,

cc .18 maggio 2010, Reg. Gen. M.P. 198/98 e 21/05, Pres. Menditto

• Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione,

cc. 16 giugno 2009, Reg. Gen. M.P. n. 352/04 e 95/08, Pres. Est. Menditto

• Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione,

cc. 15 giugno 2010, Reg. Gen. M.P. 150/02 e 30/04, Pres. Cozzi, Est.

Menditto

• Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione,

cc. 27 ottobre 2010, Reg. Gen. M.P. n. 132/02, Pres. Est. Menditto.

• Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione,

cc. 20 ottobre – 5 novembre 2010, dep. 09 dicembre 2010, Reg. Gen. M.P. n.

333/04 e 219/05, Reg. Dec. n. 276/2010/A, Pres. Est. Menditto

• Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione,

cc. 7 febbraio 2009, dep. 23 febbraio 2009, Reg. Gen. M.P. n. 131/02,

154/03, 159/06, 64/08, 210/08, Reg. Dec. n. 2 /09/S, Pres. Menditto

• Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione,

cc. 19 dicembre 2007, Reg. Gen. M.P. n. 246/99 e 11/07, Pres. Cozzi, Est.

Menditto

• Tribunale di Napoli, Sezione Misure di Prevenzione, cc. 6 marzo 2006, dep. 9

maggio 2006, Reg. Gen. M.P. n. 242/03, Reg. Dec. n. 106/2006 (A), Pres.

Est. Cozzi

193  

• Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione,

cc. 23 giugno 2003, dep. 27 giugno 2005, Reg. Gen. M.P. n. 136/99 + 44/05

+ 105/05, Reg. Dec. n. 184/05 “A”, Pres. Cozzi, Rel. La Posta

• Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione,

cc. 23 settembre 1992, Proc. n. 19/89 + 141/90 + 198/90 + 152/91 M.P., Reg.

Dec. n. 305/1992, Pres. Peluso, Est. Celentano

• Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione,

cc. 12 aprile 2011, Reg. Gen. M.P. n. 143/05, Reg. Dec. n. 83/2011, Pres. –

Rel. Del Balzo (decreto irrevocabile 30 maggio 2011)

• Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione,

cc. 14 dicembre 2010, Reg. Gen. M.P. n. 112/09, Reg. Dec. n. 302/2010,

Pres. Del Balzo, Rel. Mazzeo

• Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione,

cc. 27 ottobre 2006, Reg. Gen. M.P. n. 136/99 + 44/05 + 105/05, Reg. Dec. n.

162/07 “A”, Pres. Del Balzo, Rel. La Posta

• Tribunale Civile e Penale di Roma, Sezione per l’applicazione delle Misure di

Prevenzione per la sicurezza e la pubblica moralità, cc. 5 dicembre 2005, Reg

Gen. M.P. n. 134/2005, Reg. Dec. n. 91/06, Pres. Taurisano

• Tribunale Ordinario di Roma, Sezione Misure di Prevenzione, cc. 9 aprile

2009, dep. 8 giugno 2009, Reg. Gen. M.P. n. 293/2008, Reg. Dec. n. 164/09,

Pres. Lo Surdo, Est. Casa

• Tribunale Ordinario di Roma, Sezione Misure di Prevenzione, cc. 19 maggio

2009, dep. 10 giugno 2009, Reg. Gen. M.P. n. 268/2008, Reg. Dec. n. 166/09,

Pres. Capozza, Est. Scicchitano

• Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione,

cc. 6 dicembre 2011, dep. 3 febbraio 2012, Reg. Gen. M.P. nn.

388/2000+145/09+24/11, Reg. Dec. n. 50/2012, Pres. Est. Del Balzo

194  

• Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione,

cc. 22 dicembre 2010, dep. 8 febbraio 2011, Reg. Gen. M.P. n. 151/02, Reg.

Dec. n. 27/11/A, Pres. Est. Menditto

• Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione,

cc .15 giugno 2010, dep. 13 agosto 2010, Reg. Gen. C.C. n. 43/10, Reg. Dec.

n. 121/2010/B, Pres. Cozzi, Est. Menditto

• Tribunale di Napoli, Sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione,

cc .21 luglio/16settembre 2009, dep. 20 ottobre 2009, Reg. Gen. C.C. n.

30/09, Reg. Dec. n. 151/2009/B, Pres. Est. Menditto

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Giurisprudenza della Corte EDU

• Riepan c. Austria, nº 35115/97

• Tierce e altri c. Saint-Marin, nº 24954/94 24971/94 e 24972/94

• Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo), Sent. dell’8 luglio 2008,

caso Perre ed Altri c. Italia (ricorso n. 1905/05)

• Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo), Sent. del 5 gennaio 2010

caso Buongiorno e Altri c. Italia (ricorso n. 4514/07).

• Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo), Sent. del 13 novembre

2007, caso Bocellari e Rizza c. Italia (ricorso n. 399/02).

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Ringraziamenti

Un ringraziamento va ai miei genitori e a mia sorella, che mi hanno sostenuto in questo

percorso, e assecondato e condiviso le mie discussioni e riflessioni, spinte dalla passione

per il diritto e che so, continueranno a farlo da qui in futuro.

Un ampio ringraziamento va a tutti coloro che mi hanno messo in condizione di

redigere questo lavoro, facendomi orientare nella complessa materia delle misure di

prevenzione patrimoniali.

Innanzitutto un ringraziamento a “Libera” e agli amici conosciuti in questi sei anni di

militanza associativa, nella quale ho avuto modo di maturare, ancor di più, sentimenti di

passione civile e di giustizia, intravedendo gli aspetti concreti di un attivismo antimafia,

attraverso esempi di moralità e impegno. In particolare a Geppino Fiorenza, Don

Tonino Palmese, per avermi insegnato ad operare in direzione del cambiamento sociale,

Fabio Giuliani, Tiziana Apicella e Davide Pati che mi hanno introdotto alla materia dei

beni confiscati e al riutilizzo sociale degli stessi, insegnandomi a credere nel lavoro

associativo e nell’impegno civile.

In particolare al Dott. Francesco Menditto, che ha sopportato i miei continui

interrogativi e ragionamenti, che mi ha fornito letture approfondite e sistemiche e che

mi ha fatto appassionare al tema della prevenzione, grazie al suo personale entusiasmo,

alla sua preparazione e alla sua professionalità.

Alla Dott.ssa Eugenia Del Balzo che ha permesso la consultazione dei provvedimenti

della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Napoli e per la disponibilità

operativa concessami.

Al Dott. Franco La Torre, per la sua intervista, ma non solo, per il suo continuo

impegno e per la sua testimonianza di familiare di vittime innocenti della criminalità.

Alla Dott.ssa Clelia Iasevoli, per aver creduto nella realizzazione di questo lavoro,

dandomi la possibilità di trattare e approfondire questo argomento.

Agli amici miei che mi accompagnano e sostengono sempre

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Ai familiari delle vittime innocenti di criminalità, che mi hanno accompagnato in questo

percorso in Libera, e alle vittime innocenti di criminalità, perché la sofferenza degli uni e

l’assenza degli altri oggi sono diventate testimonianza diretta del dolore che trasforma le

coscienze.