In un centro commerciale di Madrid, nel mezzo della ... · Al mostro bastano pochi secondi. Qui...

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In un centro commerciale di Madrid, nel mezzo della confusione di unpomeriggio di acquisti, qualcuno osserva i bambini che giocano.Sarebbe facile sceglierne uno e rapirlo. Molto facile, se solo la mammasi allontanasse...Ecco, una mamma si distrae. Per un attimo lascia la mano del suopiccolo per guardare una vetrina. Abiti colorati, scarpe meravigliose. Èlontana. Quanto basta. Al mostro bastano pochi secondi.Qui inizia l’incubo, all’improvviso. Eppure c’è qualcosa di peggio d’unincubo che ha per involontario protagonista un bambino indifeso. Èquando lo stesso incubo si ripete a distanza di tempo. Prima uno, poiun altro...Non c’è nemmeno il tempo di respirare per i personaggi principali diquesto thriller che ha convinto i lettori spagnoli salendo al vertice dellaclassifica dei libri più venduti: Ana Arén, ispettore di polizia, e InesGrau, giornalista e scrittrice, sprofondano in un’indagine ad altatensione che le vede allo stesso tempo predatrici e prede.

Carme Chaparro (Barcellona, 1973) è giornalista e anchorwoman inprogrammi televisivi e radiofonici spagnoli dedicati all’informazione.Non sono un mostro è il suo primo, acclamato romanzo, vincitore tral’altro del “Premio Primavera de Novela”.

Carme Chaparro

Non sono un mostro

Traduzione di

Sara Cavarero

Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzionidell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasianalogia con fatti, luoghi e persone reali è assolutamente casuale.

Non sono un mostrodi Carme ChaparroTradotto in accordo con Meucci Agency, Milano

ISBN 978-88-93-90044-7

Titolo originale dell’opera: No soy un monstruo© 2017 Carme ChaparroPublished by arrangements with MunárrizMárquez Dos Passos, S.L. All rights reserved.

Copyright © 2017 Società Editrice Milanese

A Berna, Laia ed Emma, che mi ancorano alla felicità.A mamma. Per tutto.

A mio padre.

Now they’d come so far, and they’d waited so long, just toend up caught in a dream where everything goes wrong.

BRUCE SPRINGSTEEN, The price you pay

Quiero escabar la tierra con los dientes, quiero apartar latierra parte a parte a dentelladas secas y calientes.

Quiero minar la tierra hasta encontrarte y besarte la noblecalavera y desamordazarte y regresarte.

MIGUEL HERNÁNDEZ, Elegía

Voglio riprovarci subito. Oggi.Non mi serve un bambino qualsiasi.Devo scegliere bene. Altrimenti questi mesi passati a mettere a

punto il piano, tutto quel lavoro e tutto quel pensa e ripensa sarannostati inutili. E pure quel che accadrà dopo. Il successo o il fallimento ditutto dipendono dal bambino che sceglierò oggi pomeriggio.

Ecco perché non va bene un bambino qualsiasi.Devo fare molta attenzione. È il momento decisivo e non posso

sbagliare. Non a questo punto.

Per esempio, quel bambino laggiù. Avrà cinque anni, o forse qualcunoin più. Se provassi con lui? Vorrei che fosse già tutto finito...

Comunque no, a guardarlo bene non è adatto.È troppo grande, tanto per cominciare, e poi è troppo attaccato alla

mamma. Non le molla mai la mano e la guarda di continuo percontrollare che ci sia, che quella mano sia unita a un braccio unito aun corpo con la testa di sua madre. Finché andrà così, il suo mondosarà un paradiso.

Ma se poi si mette a piangere e non la finisce più? Se passa tutto ilgiorno immobile, morto di paura?

Non va bene.Devo continuare a cercare.

Una bambina, magari? No. Troppo rischioso. Sono tutte troppoprincipessine. Me ne serve uno coraggioso. Un bambino che si credaun supereroe.

Eccone lì un altro. Cosa dicono i suoi vestiti? Le scarpe di solitodanno parecchie indicazioni. Non è molto alto, avrà quattro anni. E haappena mollato la mano della mamma. Cos’ha visto? Cos’è che haattirato la sua attenzione?

Forse potrebbe andare. Forse. Magari questo è il mio giornofortunato.

Al solo pensiero mi viene l’acquolina in bocca e fremo come unafoglia.

Lo riguardo e scatta il colpo di fulmine. Sì, è lui. Quel bambino saràla salvezza. Il gioco ha inizio. Questa volta sul serio.

È il punto di non ritorno.

1Inés

Nei film americani ci sono sempre ciambelle. Le ciambelle sono unsegnale inequivocabile: siamo di fronte a un incontro fra persone chesoffrono di una qualche dipendenza. Dall’alcol. Dall’amore.Dall’insuccesso. Quando la telecamera si muove in una stanzailluminata dalla patetica luce dei neon, che puzza di urina stantia –l’odore non si sente attraverso lo schermo, ma lo intuisci; acido evomitevole, ti si insinua nelle narici come se stessi infilando il naso inun bagno pubblico – sai già che qualcuno sta per svelare il proprioscheletro nell’armadio.

Ma qui siamo in Spagna e, tanto per cominciare, durante gliincontri terapeutici ciambelle non se ne vedono. Se non altro non sirischia di fondare i Diabetici Anonimi. Comunque, se finisci in ungruppo di Anonimi Dipendenti Da Qualcosa con ogni probabilità latragedia in corso è così grande che assistere a quelle riunioni è l’unicaalternativa al suicidio; l’ultimo tentativo prima di barricarti in casa conuna buona bottiglia di whisky e due flaconi di quelle pastiglie che inteoria ti dovrebbero aiutare – così, almeno, sostiene il tuo medico –,ma che invece no, non servono proprio a niente.

Tutti quelli che oggi sono qui con me preferirebbero di gran lunga

essere morti. Meglio morti che in questa stanza. Meglio l’infernoaddirittura – perché questo è ciò che alcuni pensano di meritare – chestare qui e ora.

Però qualcosa li ha trascinati qui. Uno strano mix di senso di colpa,dolore, rabbia e istinto di sopravvivenza. È l’ultimo legame con la vita,perché tutti loro sanno che starebbero meglio morti. Come me. Anchese non ne ero consapevole. Non ancora.

Do un’occhiata alla stanza. Il primo che vedo è un uomo calvo erobusto, che si è infilato la felpa di uno trent’anni più giovane e unpaio di pantaloni di uno vent’anni più vecchio, come se fosse fatto deiritagli di altre persone. Non riesce nemmeno ad aprire gli occhi. Daquanto non guarda qualcosa o qualcuno? Da quanto non mette unpiede davanti all’altro perché vuole andare da qualche parte e nonperché si lascia portare? Da quanto non prende anche solo un bicchierd’acqua perché lo vuole davvero, con un ordine diretto dal cervelloalla mano? Hai sete, allunga il braccio, afferra con le dita, solleva ilbicchiere, avvicinalo alla bocca, bevi. Se si potesse entrare nella suatesta, si vedrebbe che è tutto (in)occupato da un immenso vuoto, unbuco in cui risuonano sempre le stesse frequenze, scivolando acascata da un estremo all’altro del cranio, una dietro l’altra. Ogni tantoil pensiero resta sospeso nell’occhio del ciclone – non sa, non ricorda,non si dispera –, ma è soltanto un’illusione di venti deboli e cielilimpidi. La tempesta in cui vive non gli dà tregua. È stata colpa tua. Èstata colpa tua. Non meriti di vivere.

La seconda è una ragazza giovane, con i capelli unti e pantalonitalmente larghi che potrebbe starci tutta in una sola gamba. Daquant’è che non pensa a se stessa come essere umano? Stringe laborsa così forte che ha le nocche bianche, come se quello fosse il suounico appiglio alla vita, senza il quale precipiterebbe nel buco nero dacui sta cercando di uscire. Chissà cosa le è successo... È poco più diuna bambina. Dovrebbe farmi pena.

Ma io cosa ci faccio qui? Cosa ci faccio in mezzo a queste animeperse? Il mio editore – sì, cazzo, ho un editore – ha deciso cheun’esperienza del genere potrebbe farmi trovare l’ispirazione per ilprossimo libro. Dopo il successo mondiale del mio primo romanzo, Unbosco buio, non fa che pressarmi perché mi rimetta a scrivere.

Ne sono talmente ossessionata da pensare che abbia corrotto lagente che incontro ogni giorno, tipo le donne delle pulizie in ufficio,che mi guardano ostili spingendo i carrelli pieni di detersivi. Scrivi unaltro libro. Scrivi un altro bestseller. Scrivi un’altra gallina dalle uovad’oro.

Per fortuna l’essere umano non ha ancora capacità telepatiche.All’inizio è stato un approccio delicato. Adesso ho la sensazione che

il mio editore sia disposto a qualsiasi cosa, o quasi, pur di darmiqualche idea. A volte mi chiedo fin dove potrebbe spingersi peroffrirmi un argomento su cui scrivere. E per quanto continui aripetergli che io ho sempre avuto soltanto un libro dentro e non saròmai più in grado di scriverne un altro, lui – con tutta la redazione –insiste nel dire che invece lo posso fare, basta partire con quel clic chetrasformerà il mio MacBook in un diarroico processore di testi. Ma ionon ho idee. Ne ho avuta una sola. Per un solo libro.

In pratica, sono qui solo per guadagnarmi un po’ di pace. Se luipensa che stia lavorando a qualcosa, si placherà.

Ma non è semplice. Il rischio di essere riconosciuta è alto. E non miconviene, non qui e non ora. Non mi lasceranno restare, se scopronochi sono. Mi sono travestita varie volte, con trucchi e parrucche, perprecedenti lavori e oggi mi sono messa lenti a contatto scure e unaparrucca bionda corta. Con un fondotinta giallastro e un po’ dicorrettore violaceo sotto gli occhi sembro pure un po’ più fragile,come se la mia pelle emanasse tristezza.

In sintonia con l’ambiente.E anche se non è la prima volta che mi faccio passare per qualcun

altro, c’è sempre un dettaglio che alla fine mi smaschera: la voce. Ètalmente particolare che non riesco a camuffarla. Le esse alla finedelle parole scivolano in un suono insolito, quasi non riuscissi afermare in tempo il fonema e mi scappasse tra i denti come lacioccolata calda su una pallina di gelato. Árboleszsz. Cosaszsz.Nemmeno la logopedista è riuscita a correggermi. Secondo lei è unacaratteristica che mi dà personalità.

Così me ne dovrò stare zitta, almeno per oggi.Per fortuna non ci sono ciambelle per rompere il ghiaccio con

quattro chiacchiere. E per fortuna il conduttore della terapia è

puntuale e va dritto al sodo. O forse nemmeno lui ha una gran vogliadi stare qui e vuole farla breve, allontanarsi da queste anime arroccateall’inferno per non rischiare di finirci anche lui.

«Volete prendere posto? Prego...» ci chiede, voce melliflua.Prima di venire, mi sono informata un po’ su di lui: noioso. Su

Facebook solo fotografie culinarie, strade di Madrid e qualche libro. Unsolitario da manuale. Uno triste. Spero mi renda le cose facili, nel casoavessi bisogno di informazioni.

«Seduti, prego.»E ci sediamo.Senza guardarci. Intimiditi. Vergognandoci di noi stessi. O forse

vergognandoci di quello che stiamo per ascoltare, come vecchiepettegole che origliano al confessionale. Sfiniti dal piacere edall’imbarazzo.

«Oggi Lucía ha qualcosa da raccontarci, vero?»La ragazza della borsa inizia a parlare.E io scopro che avrei preferito non ascoltare.

2Ana

«Come hai detto che si chiama?»«Arén. Ana Arén. I veterani la chiamano Trenta e lode.»«Per come scopa?»«Ah, ah, ah. Dai, abbassa la voce. Nessuno l’ha testata qui dentro,

sia chiaro. No, il soprannome è dovuto alle iniziali del suo nome: AA. Èil punteggio massimo, come prendere trenta e lode a un esame.» LuisArcos sgranò gli occhi, tracciando con le mani le supposte doti fisichedell’ispettore capo.

«Trenta? Io le darei un trentacinque. Ha un culo da urlo» replicòJosé Barriga il quale, poco più che ventenne e con un fisico che facevaonore al suo cognome, “pancia”, forse non era la persona più adatta aesprimere opinioni in merito.

«Tu sei quello nuovo, vero?» La voce risuonò alle sue spalle.L’agente Charo Domínguez aveva ascoltato tutta la conversazione enon aveva potuto trattenersi. «Lo vuoi un consiglio? È gratis. Nonguardarle il culo. Guardale i piedi. Vero che sembrano piccoli? Be’, seti molla un calcio dove so io, ti stende. La Arén ha un caratteraccioleggendario. Non ti conviene sfidare la sorte, ragazzo.»

«Da una così mi faccio prendere a calci anche nelle palle» sorrise il

nuovo acquisto, senza capire una parola di ciò che gli aveva detto lacollega. «Non potete immaginare quanto mi eccita una superiore indivisa.»

«Signorine, piantatela di ridere come iene» li fece trasalire un’altravoce. Le persone che stavano sentendo quella conversazione eranodecisamente troppe. «Allora, tu saresti quello nuovo?»

«Ehm» farfugliò Barriga, spaventandosi alla vista delle mostrineche gli erano apparse davanti di colpo. «Ehm, commissario, sì,signore, commissario. Sì.»

«Ehi, non mi sembravi così perplesso un secondo fa.»«Ecco, signore, non volevo...»«Cammina, dai, che inizi proprio bene,» scattò il commissario

Bermúdez «non mi va di cominciare a dire parolacce a quest’ora. Mel’ha vietato il medico. Mi fa male alla salute. E se fa male alla miasalute, fa male anche alla vostra. Forza, tutti in sala riunioni. Adesso.E tu» guardò sornione il nuovo arrivato «vedi di non farti sentiredall’ispettore capo, o non ti resterà abbastanza pelle sul culonemmeno per pulirtelo con un cotton fioc. Mi sono spiegato?»

La sala riunioni puzzava di rancido. L’intero edificio puzzava dirancido, a dire il vero. D’altronde, da decenni lì tutto si impregnava deisudori e dei fluidi corporei delle decine di migliaia di agenti e detenutipassati in quelle stanze.

Si dice che tutti i commissariati abbiano lo stesso odore, ma non ècosì. Di certo, l’odore era diverso per il torturatore Melitón Manzanas eper il terrorista caduto nelle sue mani, per l’agente novello cheemanava paura da tutti i pori e per il vecchio poliziotto che ne avevafin sopra i capelli.

Ogni commissariato ha un suo specifico odore. Ce ne sono alcuni incui aleggia un vomitevole fetore di tabacco e piedi che nessundeodorante per ambienti riesce mai a eliminare del tutto. In altri sisente ancora il Varón Dandy, profumo usato per decenni dagli agenti,ancora presente nell’armadietto di qualche veterano. In certi prevaleuno sgradevole tanfo di sudore accumulato fin dalla costruzionedell’edificio.

Tutti i commissariati, comunque, hanno in comune l’odore dellapaura.

Il commissariato di Ana Arén puzza anche di perversione. Le paretisprigionano un lieve odore di vecchio beccato a farsi una sega davantiai cancelli di una scuola. Si trova in una zona residenziale – anche se,quando è stato costruito ormai sessant’anni fa, era circondato dabaracche –, con molte scuole e molti arbusti dietro cui nascondersi perguardare senza essere visto. Psst, psst, sussurravano gli esibizionisti aibambini quando vederli passare non bastava a farli eccitare e avevanobisogno di essere guardati. Quanto più i bambini si spaventavano,tanto più gli veniva duro. Sì, così, sì, sì.

Negli anni Settanta la Spagna aveva ben altro di cui occuparsi chenon di questi porci, ma per Luis Bermúdez era diventata una faccendapersonale. Da quando era entrato come poliziotto in prova, Bermúdezne aveva visti molti di quelli e niente lo disgustava di più. Li avrebbestrangolati con le proprie mani: quelle facce da santerellini e quegliocchi da pesce lesso spesso nascondevano i pedofili più attivi. Negliultimi anni, il commissario aveva capeggiato la lotta tecnologica controquei mostri. Era stato uno dei primi poliziotti in Spagna a rendersiconto che ormai quegli schifosi non si rifugiavano più dietro i cespuglio in macchina, bensì dietro programmi informatici che nascondevano iloro IP, gli indirizzi internet utili a localizzarli. Prima ancora che daicommissariati spagnoli scomparissero tutte le Olivetti, Bermúdezaveva portato nel suo i migliori esperti informatici del corpo. Avevafatto di tutto per formare una squadra di agenti che scovassero queimalati quando i modem dovevano ancora chiamare per collegarsi allarete e si pagava a minuti di connessione.

C’era un turnover continuo. Pochi poliziotti sopportavano ditornarsene a casa tutte le sere con gli occhi pieni delle immagini dibambini sottoposti a terribili abusi sessuali. Sono scene impossibili dacancellare, da dimenticare. Un agente che si occupa di pedofilia ininternet resta segnato per sempre, il suo cervello non riuscirà mai aresettarsi del tutto.

Da molti anni ormai, i suoi superiori avevano tolto al commissarioBermúdez il controllo di quella squadra di segugi informatici, trasferitanella madrilena centrale di Canillas e pomposamente ribattezzata BIT,Brigada de Investigación Tecnológica, e recentemente riconvertita inUIT, Unidad de Investigación Tecnológica. Gli agenti destinati a

quell’unità non si dedicavano soltanto a smascherare pedofili, compitooriginario del gruppo. Ormai in rete circola ogni sorta di delinquenza.Tutto il putridume, la crudeltà, la depravazione del pianeta compressiin zero e uno per far circolare la malvagità alla velocità della luce.

Ana Arén, l’ispettore capo al comando del gruppo minorile del Serviciode Atención a la Familia, il SAF, di Madrid, si appoggiò sul bordo diuno dei tavoli posti in fondo alla sala, con le braccia e le gambeincrociate, in posizione di relax. Non le piaceva sedersi davanti. Dalfondo si vedeva tutto meglio. La vita si osserva in modo piùdettagliato se si apre la prospettiva e si mette a fuoco proprio nelladirezione opposta rispetto a quella verso cui sono rivolti tutti. A voltela reazione dell’occhio che guarda fornisce maggiori informazioni di ciòche quell’occhio sta vedendo.

«Buongiorno, capo.» Charo Domínguez le si sedette accanto.«Ciao, Charo. Come va l’inserimento nel nuovo posto?»«Non così nuovo, Ana, sono quattro mesi che sto nella squadra»

rispose l’ufficiale di polizia, bevendo un sorso dal piccolo thermos concui si presentava ogni giorno al lavoro, una strana miscela di tè, lattee miele. «Aspetta di conoscere quello nuovo. L’ho beccato che parlavadel tuo culo.»

Ana preferì cambiare argomento. Non era dell’umore giusto perarrabbiarsi.

«Come fa a piacerti quella schifezza che bevi tutte le mattine?»«Ma senti chi parla, la donna che beve Coca-Cola a colazione.

Quella sì che stura il sistema digestivo» rise qualcuno alle sue spalle.Il viceispettore Javier Nori si era avvicinato frettolosamente alle

loro spalle. Era in ritardo per l’inizio del turno. Aveva ancora le guanceun po’ arrossate. Sicuramente è andato a correre, ha perso lacognizione del tempo e non si è accorto dell’ora, pensò Ana. È un casodisperato.

«Ripeti talmente spesso la stessa cantilena, Nori, che ormai lariconosce persino Shazam» ribatté. «Comunque sia, se togliamo lacorsa e i computer, a te sembra tutto strano, Azotón.»

Al viceispettore Javier Nori quel soprannome, Azotón, era statodato dai compagni della sua prima destinazione, il commissariato del

Distretto II di Barcellona, sulle Ramblas, perché era l’azote, il flagello,dei ladri di moto del quartiere Ciutat Vella. Era stato lui a creare ilprimo archivio digitale del crimine su due ruote in città e l’avevasempre con sé in uno dei primi PDA che uscirono sul mercato e cheall’epoca, a metà anni Novanta, costavano quasi più di quanto oggicosta un computer.

«Ti giuro, Ana, che se qualcuno qui dentro dovesse sentire comemi chiami, la mia vendetta non conoscerà limiti.» Nori fece cenno ditagliare la gola al suo capo.

«Azotón? Ti chiamano Azotón?» Charo rise così tanto che per poconon le cadde di mano il beverone.

«E tu, signorina Castillos, stai zitta o trovo subito un soprannomeanche per te, mi riesce abbastanza bene. Un uomo non vive soltantodi corsa e computer.»

Ana aveva recuperato Charo dal suo ruolo di vigilante dei “castelli”,nome con cui i poliziotti si riferivano alle ambasciate e ai consolati. Laragazza stava marcendo in lunghissimi e noiosissimi turni di vigilanza,sempre per strada, a proteggere i diplomatici e le loro famiglie, acontrollare le residenze ufficiali, ma anche tutto l’ecosistema del lussoin cui si muovevano. Si erano conosciute a una conferenza sullasicurezza e Ana aveva subito intuito che la giovane poliziotta aveva uncervello sopraffino e molta voglia di fare. Lo stava dimostrando. Inpochi mesi era diventata una delle migliori investigatrici delcommissariato. Aveva una straordinaria capacità deduttiva.

«Nori, non senti la mancanza dei tuoi jihadisti?» replicò Charo. «Iodei miei diplomatici proprio no. Per niente. E meno ancora dei lorofigli. Mi hanno fatto passare certe notti.»

«Bene, un po’ di silenzio, per favore» chiese il commissariodall’altra estremità della sala. «È importante. Sono appena uscito dauna riunione con i commissari generali.»

Mentre i colleghi iniziavano a prendere posto, Ana chiuse gli occhi eannusò la decennale paura che impregnava le pareti. Le serviva aricordare dov’era e qual era il suo lavoro. Per tornare all’essenziale,alle origini della sua vocazione poliziesca, a ciò che realmenteimportava e che a volte si perdeva nella merda della routine.

«Allora, fate silenzio una volta per tutte!» urlò il commissario

Bermúdez. «Fate il piacere di ascoltare, ci sono alcuni cambiamenti.»A quel punto sì, ci fu silenzio. Cambiamenti. La parola magica. Lo

sparo davanti a cui tutti aprono le orecchie e chiudono la bocca, nellasperanza che l’impatto non colpisca loro. C’è persino chi,istintivamente, scosta un po’ il corpo, a destra e a sinistra, per far sìche il proiettile passi senza sfiorarlo. Ma il commissario non fece intempo a sparare. Squillarono diversi cellulari in contemporanea. Equesto, in un commissariato, significa brutte notizie.

Sempre.

3Inés

«Nel mio caso il numero è il trenta» iniziò a spiegare la ragazza dellaborsa, con una sconvolgente fermezza. «I trenta secondi cheseparano la mia vita di adesso da quella di prima, che non tornerà maipiù. A volte quei trenta secondi sono uno sguardo, te ne stai lì con latesta tra le nuvole, come se qualcuno ti avesse messo in pausa ilcervello, oppure guardi un paio di stivali in una vetrina, cercando distabilire se te li meriti o meno, e non ti accorgi che lui non c’è più. Poipicchierai la testa nel muro, vorrai spaccarti il cranio sull’intonaco efarti saltare le cervella, lasciando tutto sporco di sangue. E questoperché non te ne sei resa conto. Come puoi non aver notato quelvuoto? Come puoi non esserti accorta che ti scappava, che scivolavavia, che se ne andava, che non era più lì con te? La mano di tuo figlioè calda, morbida, piccola. La mano di tuo figlio sta nella tua,aggrappandosi all’unica cosa di cui ha certezza nel mondo, l’amoredella sua mamma. E all’improvviso lui non c’è più e tu non te ne seiaccorta.»

Mentre raccontava, la ragazza sembrava scollegarsi dal mondo.Ormai non guardava più niente, era come se i suoi occhi si fosserogirati verso l’interno dell’anima – in quell’eterna spirale di disperazione

in cui viveva – alla ricerca di tutto il dolore possibile, per non dovercipiù rimuginare sopra e riuscire a vomitarlo una volta per tutte,impedendogli definitivamente di ripresentarsi. Ti prego, basta, ti pregoti prego.

«Nel mio caso non è andata così, però» proseguì. «No. Perché inquel caso avrei avuto almeno una scusa: è stato un momento didistrazione, di quelli che possono capitare a tanti genitori ogni giorno.Chi non si è mai preso uno spavento del genere con un figlio?Perderlo di vista. Non sapere dov’è. Il cuore in gola. Il mondo che si fanebuloso. Finché non riappare. Perché riappaiono sempre. Be’, quasisempre. Nel mio caso, però, non si è trattato di una distrazione. Sonostata io a lasciarlo andare. Sono stata io a lasciare la mano di Bruno ea farlo morire. Sono io che l’ho ucciso.»

Come faceva a non piangere? Non riuscivo a smettere di guardarla,il suo corpo era come una calamita, la sua voce mi si conficcavanell’anima. Cercai di ricordare più dettagli possibili. La mandibolaabbandonata, come se fosse sul punto di perdere coscienza, lelasciava una smorfia grottesca sul viso. I piedi piegati all’infuori lestorcevano le caviglie in modo strano, come se le ginocchia avesserodeciso che ormai non li potevano tenere piatti a terra. I sei litri disangue del suo corpo che fluivano verso le mani, trasformate in artigliche la tenevano ancorata a questo mondo.

«Se solo fossi uscita da casa di mia madre trenta secondi prima,non sarebbe successo niente e oggi starei sgridando il mio Brunoperché ha sparso le briciole della merenda in tutta la cucina. Era untipo indipendente, fin dalla nascita. Di sicuro avrebbe sputato gliomogeneizzati. Già a tre mesi tentava di tenere il biberon da solo!Ricordo il movimento delle sue manine che cercavano di prenderlo einvece prendevano l’aria. Era...»

Gli altri la guardavano inebetiti. Dipendevano da quella storia cometossici dall’eroina. Chiudevano gli occhi per pudore, ma anche pergodersela di più, concentrandosi soltanto sul fluire della droga nellevene. Anch’io, a essere sincera. Forse è per questo che a quelleriunioni partecipano sempre in tanti, perché ognuno di noi ha bisognodi una dose quotidiana di altrui disgrazie. Siamo dipendenti dal doloredegli altri. Anch’io ero così? Avevo bisogno del dolore altrui per

sentirmi bene? O forse per lavorare? Uno dei miei cellulari vibrò, nellaborsa. Lo ignorai.

«Lucía è molto coraggiosa a raccontare la sua storia qui, a tuttinoi» interruppe lo psicologo, forse per dare un senso alla suapresenza in quella stanza. «Avete sofferto molto, tutti. Ma con ognidolore, il vostro e quello degli altri, state imparando a curarvi.»

Il dolore degli altri contribuisce a curarci? Mi sfiorò l’idea che queltizio fosse più cazzuto di quanto sembrasse. Forse era vero. Forse ledisgrazie degli altri ci fanno pensare che la nostra vita di merda non èpoi così male. E poi la pietà si coniuga sempre bene con la superbia.

«Ero a casa di mia madre» proseguì la ragazza. «Era andata lei aprendere i bambini a scuola, perché mi era venuto fuori un lavorettodi tre ore al giorno, facevo le pulizie in un ufficio e non ci lasciavanoentrare finché non erano andati via tutti, alle tre del pomeriggio, nonsia mai che disturbassimo. All’epoca stavamo insegnando a Lucas, ilmediano, a fare pipì e cacca nel water, quindi cercavamo di togliergli ilpannolino a casa per abituarlo a chiedere di andare in bagno. “Nonimporta se fa la pipì per terra, non importa se bagna i pantaloni,” midiceva mia madre “è a casa, lo cambiamo e via, perché così lui notaquando gli scappa e impara a controllarsi.” Per questo dovetti perforza dargli retta quando, già con il parka e il cappello e tutti e quattropronti a uscire da casa della nonna per tornare alla nostra, mi disse:“Pipì, mamma, pipì”. “Ma se hai il pannolino,” gli risposi “te l’abbiamoappena messo, puoi farla dentro.” “Ma nooo, mammaaa! Cheschifooo” urlò. E cosa vuoi dirgli? Sopporti. Lasciai Bruno in braccio amia madre, dissi a Edu che controllasse tutti e due, la nonna e ilpiccolo (lui si sentiva già così grande e responsabile che ne fu moltofiero) e tolsi il parka a Lucas. Quante volte ho pensato a quelmomento, a quella pipì che ha fatto la differenza tra la vita e la morte!Confesso che spesso sono stata tentata di dare la colpa a Lucas per lamorte di suo fratello. In fondo, se avesse fatto la pipì nel pannolino,adesso Bruno sarebbe vivo. Per un periodo non sono riuscita aguardarlo in faccia, ho iniziato a odiarlo, avevo bisogno di odiarlo pernon ammazzarmi. Per non ammazzarli tutti.»

L’iPhone riprese a vibrarmi in borsa. Non volevo rispondere. Nonnel momento più emozionante della storia. Ma esattamente tre

secondi dopo che aveva smesso, iniziò a vibrare l’altro cellulare, quelloprivato. E quel numero non l’avevano in molti, quindi chi mi stavacercando mi conosceva bene, o io mi fidavo abbastanza da dargli ilmio numero personale. E, chiunque fosse, doveva avere urgenza diparlarmi. Forse era qualcosa di importante. Non riuscii a identificare lachiamata; il numero che appariva sullo schermo era lungo, di uncentralino. Cercando di fare il minor rumore possibile, uscii dallastanza, abbassandomi un po’ per farmi notare meno. Dovevo passareil più possibile inosservata.

«Dove sarà quella cretina?» ruggì Manuel all’altro capo deltelefono, sempre più arrabbiato a ogni squillo, senza rendersi contoche io avevo risposto e lo sentivo. Era un casinista nato, quello. «L’hocercata sui due cellulari. Che cazzo starà facendo?»

«Manuel?» dissi a mezza voce, fingendo di non aver sentito la suacattiveria.

«Hai qualche problema alla voce? Parli strano.»«No, no,» risposi, cercando un angolino solitario fuori dall’edificio

«ero in silenzio da un bel po’ e si vede che ho bisogno di schiarirmi lavoce.»

«Tu? In silenzio? Da un bel po’? Dimmi chi ha compiuto il miracoloche gli faccio un monumento.»

«Ti piacerebbe che me ne stessi zitta, eh, capo? Un bel problema inmeno soprattutto in certi momenti...» replicai trattenendo il desideriodi attaccargli il telefono in faccia. «Allora? Cosa c’è di così urgente?Ho... ho da fare.»

«Ho bisogno di contattare subito quell’hacker che conosci.» Perchédiavolo voleva parlare con Joan?

«Lo chiamo io, se vuoi» proposi, mentendogli.Gli avevo sempre spacciato il mio contatto come un genio

dell’informatica che viveva isolato dal mondo. Uno che non rispondevamai alle telefonate e la cui identità non era nota a nessuno, nemmenoa me. Uno con cui potevi comunicare soltanto mandando determinaticodici in una casella vocale. Dopodiché dovevi aspettare. Che avessevoglia di risponderti.

«Lo chiamo subito e gli lascio il codice perché mi richiami. Ma saigià che risponde quando gli gira e parla soltanto con me, che non si

fida di nessuno.»«Provaci, Inés, provaci.»«Cosa gli devo dire? Che succede?»«Un casino.»«Un casino. Mi piace la tua capacità di sintesi» ironizzai. «Credi che

“un casino” sia un motivo sufficiente perché lui si metta in contattocon te?»

«Un casino personale. Adesso non posso entrare nei dettagli. Maho bisogno di qualcuno che mi tiri fuori da un grosso guaio.»

Ma guarda un po’, interessante... pensai. Le cose devono proprioandargli male se Manuel Grana mi chiama perché gli risolva unaquestione personale. I miei neuroni iniziarono ad applaudireentusiasti.

«Okay, capo. Gli lascio il codice nella casella e vediamo serisponde.»

Riagganciai chiedendomi cosa diavolo avesse da nascondere il miocapo per aver bisogno dell’aiuto di Joan, quando ricordai dov’ero eperché ero lì. Tornai di corsa nella stanza della terapia di gruppo.Magari sarei arrivata in tempo per sentire la fine della storia.

«Finalmente riuscii a caricare tutti e tre in macchina: Bruno accantoa me, sul suo seggiolino, Edu alle mie spalle, perché era il più grandee non avevo bisogno di tenerlo sotto controllo, e Lucas dietro il sediledel passeggero, per poterlo tenere d’occhio dallo specchiettoretrovisore; ormai era buio e le quattro gocce di pioggia che cadevanosi stavano trasformando in un forte temporale. A marzo fa buiopresto... E anche le temperature scendono molto, per questo non tolsile giacche ai bambini quando legai le cinture di sicurezza. Sì, lo so chenon va bene, e soprattutto se i giacconi sono parka pesanti comequelli che avevano loro. Le cinture non aderiscono bene al petto e, sec’è uno scontro, il loro corpicino si proietta con tale forza in avanti cherischiano di decapitarsi. Ma era tardi e avevamo una gran fretta.C’erano ancora i bagni da fare, la cena, la tetta a Bruno, i pigiami damettere, le favole delle buonanotte e tutto quello che i due più grandisi sarebbero inventati per allontanare il più possibile il momento diandare a letto. Così li feci salire e partimmo. Tra il paese di mia madree il nostro c’erano soltanto cinque chilometri. La strada era stretta,

c’erano parecchie curve e non era illuminata, ma la conoscevoperfettamente. Quante volte, da adolescente, l’avevo percorsa all’alba,anche a piedi, di ritorno a casa dopo una nottata di festa! Avrei potutoguidare a occhi chiusi, anche quella sera che stava diluviando. Destra,cinquanta metri, cambio di pendenza, un po’ a sinistra e di nuovo unbreve rettilineo. Il tergicristallo non era sufficiente, si vedeva appena,e non arrivava nessuna macchina in senso contrario, sull’asfalto non sivedeva la luce di nessun faro, quindi potevo guidare piano e tranquillaal centro della strada. Improvvisamente le ruote slittarono sull’asfalto.Fu una cosa quasi impercettibile e delicata, ma l’auto perse aderenza,scivolò un po’ e rimase incagliata in qualcosa. Non riusciva ad andareavanti. Tirai il freno a mano, accesi le luci di emergenza e abbassai ilfinestrino per vedere cosa stava succedendo. Forse era caduta dellaghiaia sulla strada ed eravamo bloccati. Non vedevo nulla e l’unicorumore che si sentiva era quello dell’acqua che scendeva dal cielo. Mivoltai. Edu e Lucas erano addormentati. Soltanto Bruno era ancorasveglio. Aveva fame. Presto si sarebbe messo a frignare chiedendo ilsuo latte. Dovevo sbrigarmi.»

Lucía si agitò inquieta sulla sedia. Benché non perdesse la calma econtinuasse a sembrare lontana da lì, si percepiva il crescere del suodolore, si vedeva, quasi, l’anima uscirle da dentro, come se il suocorpo si stesse rovesciando dall’interno. Diedi un’occhiata alla stanza.Guardavano tutti a terra. Si vergognavano di ascoltare un raccontocosì intimo e doloroso, come vecchie pettegole di paese. Ma nonpotevano farne a meno. Erano dipendenti dalla tragedia.

«Io non lo sapevo, ma quella era l’ultima volta che avrei vistoBruno. Il mio bambino se ne stava lì, nel suo seggiolino sul sedile delpasseggero, illuminato dalla piccola luce interna della Peugeot. Èl’ultima immagine che ho di lui, e porca puttana, è un’immagine dimerda. Non si vedevano né la fossetta sul mento né quelle ciglialunghissime che facevano innamorare tutti. L’ultima volta che l’hovisto, Bruno era un volto arancione pieno di ombre di cui a malapenariuscivi a intravedere la conca degli occhi. Improvvisamente qualcosacolpì con molta forza la macchina, la mia portiera, e iniziammo ascivolare verso destra. Andremo fuori strada, pensai. Dio mio,andremo fuori strada.»

Lucía si paralizzò, smise di respirare. Se non respiri, fa meno male.Se non respiri, puoi schiacciare il dolore fino a farlo scoppiare comeuna pustola piena di pus. Il trucco sta nel trattenere il più a lungopossibile il fiato e poi lasciarlo andare piano piano, schiacciando ognivolta un po’ di più. E questo stava facendo istintivamente il corpo diLucía: si preparava all’intensità del dolore che stava per travolgerla. Dinuovo.

«Cercai di aprire la portiera, ma non ci riuscii. L’acqua che premevada quel lato l’aveva bloccata. Abbassai il vetro e uscii dal finestrino.Sapevo dov’eravamo, in un punto della strada che passava sul letto diun fiume in secca. Da qualche parte le nuvole avevano scaricato cosìtanta acqua da averlo trasformato di nuovo in fiume. Mi tolsi i tacchi.Non erano molto alti, ma era impossibile muoversi con quelli addosso.Non appena posai il piede a terra (non ero certa di averlo messosull’asfalto) mi accorsi della potenza con cui scendeva l’acqua. Perfortuna la macchina doveva essersi incagliata su qualcosa, perché aquel punto si sarebbe dovuta muovere fuori controllo. Dovevo davverosbrigarmi. Cercai di aprire la portiera di Edu, e non ci riuscii. L’acqua labloccava. Merda, merda, avrei dovuto slegarli da dentro. Iniziai acolpire il finestrino per svegliarlo. “Slegati, forza slegati, tesoro, siamoarrivati a casa e non voglio che ti bagni.” Ma non mi ascoltava. La miavoce rimbombava inutilmente tra la pioggia e il vetro, sbattendomi infaccia la mia stessa disperazione. Dovevo provare dall’altra parte, sevolevo tirar fuori di lì i miei figli. Fu una fatica immensa girare intornoalla macchina, non vedevo niente, avevo commesso l’errore di toglierela chiave dal cruscotto ed era tutto completamente buio. E poi ilrumore dell’acqua era terribile, il rumore di quella che scendeva dalcielo e di quella che inondava il fiume. Il rumore impedisce di pensare.Ma forse era la cosa migliore in quel momento. Soltanto agire. Nonpensare. Aggrappandomi a qualsiasi appiglio della macchina (e allacarrozzeria, con le unghie) passai dall’altra parte della Peugeot.Quando raggiunsi il lato destro ebbi un momento di calma. Il veicoloserviva come parapetto alla forza dell’acqua, la bloccava, e così riusciiad aprire la portiera posteriore destra. A tentoni tolsi la cintura disicurezza a Lucas (“Amore, vieni, amore, abbraccia forte la mamma”),e intanto, cercando di non suonare isterica per non spaventare i

bambini, dicevo a Edu di slacciarsela anche lui, che era moltoimportante e che doveva uscire dalla parte di suo fratello. IncastraiLucas sul mio fianco sinistro. Respirai. “Edu, tesoro, scendi, c’è acqua,non spaventarti, tieniti forte alla mamma.” Edu aveva sei anni, potevauscire di lì tenendosi forte alla cintura dei miei jeans. Non c’era altrasoluzione. La cosa più difficile fu prendere Bruno mentre tenevo Lucascon il braccio sinistro e proteggevo Edu con il mio corpo, ma ce la feci.Iniziammo a muoverci tutti e quattro, passo dopo passo, in precarioequilibrio. “Edu, sei bravissimo” urlai sovrastando il rumore dellatempesta. “Tieniti molto molto forte alla cintura della mamma. Moltoforte, amore mio, proprio come quando ti lanci dalla zipline. Moltoforte, vedrai che attraverseremo il fiume in fretta.” Non ricordo che ibambini abbiano detto qualcosa. Non piangevano. O forse sì. Forsestavano piangendo tutti e tre (forse stavamo piangendo tutti equattro), ma io non ero cosciente di nulla, perché ero concentratasoltanto a uscire da quella situazione di merda. Credevo che cel’avremmo fatta, ci credevo davvero, fin quando non abbandonammola protezione dell’auto e l’acqua ci travolse con tutta la sua forza.Rischiai di cadere. Mi arrivava a metà gamba. Scivolavo. Sprofondavo.Colpiva con sempre maggiore forza e quattro o cinque passi dopocaddi. Con un gesto istintivo, lascia andare Lucas e Bruno per cercaredi fermare il colpo con le mani. Lucas riuscì ad afferrarsi alla miamaglia, Edu era ancora miracolosamente attaccato ai miei pantaloni,ma Bruno, che aveva solo cinque mesi, scivolò e lo persi. Credo di nonaver mai urlato così forte. Tastai disperatamente con il braccio destro,in preda a un attacco di panico, fin quando localizzai la sua testa, loafferrai per i capelli e lo tirai fuori dall’acqua. Non ce la faremo,pensai, non ce la faremo. Provai a fare un passo, ma all’improvvisonon ci fu più nulla su cui camminare e sprofondammo tutti e quattro.Li tenevo stretti a me, cercando di far riemergere le loro testedall’acqua perché non affogassero, e di colpo mi resi conto dellaverità. E la verità (la maledetta, bastarda e fottuta verità) era chepotevo salvarli, ma non tutti. Non potevamo farcela tutti e quattro.Dovevo scegliere chi sarebbe vissuto e chi sarebbe morto. Avreipotuto pensare molte cose. Edu era il maggiore, il primo figlio, quelloche mi ha cambiato la vita per sempre. Lucas, il mediano, era il più

affettuoso, sempre lì ad abbracciarmi. E Bruno, Bruno sapeva dineonato, con quelle guance da mangiare. Ho pensato a lungo chetutte quelle cose sui miei figli mi passarono per la mente per deciderechi avrei mandato a morire. Ma poi ho capito che erano tutti pensierinati a posteriori perché in quel momento la mia mente era un fogliobianco e fu il mio corpo a decidere. “Mi dispiace, Bruno, mi dispiace”gli dissi piangendo. “Ti voglio bene, Bruno, ma devo lasciarti andare.Devo lasciarti andare per salvare i tuoi fratelli. Addio, Bruno, addio.Perdonami, per favore. Ti voglio bene.” E mollai la presa.

Lucía non riuscì a proseguire. Tutto il dolore fin lì trattenuto iniziò atracimare proprio come quel fiume in piena che si era portato via suofiglio. Mischiate tra i singhiozzi, si capivano soltanto due parole, che leiripeteva come un disco rotto: «Trenta secondi, trenta secondi, trentasecondi». L’aria della stanza era diventata elettrica. Venivano i brividial solo respirare. Per la prima volta colsi davvero il dolore di unamadre che perde un figlio.

E non fui in grado di sopportarlo.Uscii di corsa, senza voltarmi, indifferente al fatto che mi vedessero

o mi riconoscessero.Non riuscii nemmeno ad aspettare di arrivare a casa. Non appena

salita in macchina, cercai su Google la fine della storia. Ed eccola lì,nascosta nella cronaca di un giornale locale, datata due anni prima.«Dopo aver lasciato il neonato, la madre ha lottato per mettere alsicuro gli altri due figli. Il maggiore ha afferrato il ramo di un albero esi è salvato la vita. Lei e il figlio di mezzo, di due anni, sono statitrascinati dall’acqua, ma sono riusciti a uscire dal letto del fiumeimpazzito trenta metri più in giù. “Edu, Edu, salvate Edu, per favore, èaggrappato a un albero” ha urlato la donna prima di perderecoscienza, secondo il racconto degli agenti che l’hanno soccorsa. Unuomo, che era riuscito a fermare in tempo la macchina propriodall’altra parte della strada, ha sentito le urla e allertato i soccorsi. Itre sopravvissuti si sono ripresi dall’ipotermia in ospedale. Stannoricevendo sostegno psicologico. Gli agenti hanno dichiarato che iltorrente si è formato in appena mezzo minuto e che la grandeinondazione che ha trascinato via tutto è scesa incontrollabile comeuno tsunami. Il cadavere del piccolo Bruno è stato ritrovato ieri,

domenica, quarantott’ore dopo la tragedia, quindici chilometri più avalle rispetto alla zona dell’incidente, incagliato tra ramaglie trascinatedall’acqua. Domani verrà celebrato il suo funerale.»

Senza che avessi il tempo di digerire ciò che avevo appena letto, ilcellulare mi tremò in mano. All’inizio pensai di essere io a tremare,invece era una chiamata in arrivo. Non me ne resi conto fino al sestoo settimo squillo, quando chi telefonava riagganciò e provò arichiamare. Era di nuovo il mio capo, Manuel. Che tormento, merda.

«Inés. Un altro bambino. È appena scomparso un altro bambinonello stesso centro commerciale di due anni fa, ricordi?»

Se ricordavo? Se ricordavo? Mi venne un crampo allo stomaco.«Vai subito lì. Ti mando uno zainetto così entri in diretta nel

telegiornale della sera. Apriamo con questa storia. Avvisami quandoarrivi.»

«Ascolta, Manuel...» iniziai a dire.«Ascolta cosa?»«Sai già che...» E cosa gli dicevo adesso? Come potevo giustificare

davanti al mio capo che non ci volevo andare? «Sai che non mi piaceoccuparmi di questioni che coinvolgano sparizioni di bambini.»

«Ma ti senti? Sai che non mi piace occuparmi di questioni checoinvolgano sparizioni di bambini» scimmiottò indispettito. «Piantala evai, Inés. Chiamami quando sei per strada e ti do più informazioni. Stoaspettando che mi confermino l’esclusiva. Se è vero quello che mi hadetto la mia fonte, sarà un colpo grosso. Molto grosso.»

4Ana

Quando Ana Arén arrivò al centro commerciale, le venne subito unagran voglia di appendere per le palle i responsabili della sicurezza.Non c’era una porta chiusa e nessuno a controllare le entrate. Se eravero che avevano appena rapito un bambino – se non si trattava di unfalso allarme –, il piccolo e il suo rapitore ormai dovevano esseremolto lontani. Per non parlare delle eventuali prove probabilmenteandate perse. Potevano essere rimaste attaccate alla suola dellescarpe di una qualsiasi delle centinaia di persone che pullulavano lìdentro, ormai irrimediabilmente sfumate in qualche casa di periferia.Ma non avevano imparato niente da quello che era successo due anniprima? Non era stata una lezione sufficiente?

«Ispettore capo. Ispettore capo!» sentì chiamare alle propriespalle. «Qui!»

Con tutta quella gente che vagava apparentemente senza meta, lefu difficile capire da dove provenisse il richiamo. L’atteggiamentodell’essere umano in un centro commerciale l’aveva sempre stupita. Lafolla fluiva lungo i corridoi in apparente disordine, vagando a caso, unpasso dopo l’altro, meccanicamente – destro, sinistro, destro, sinistro– come se fosse lì dentro solo per far passare il tempo. Lì, dove il

visitatore aveva tutto il necessario: aria condizionata in estate eriscaldamento in inverno, bagni, banche, fontane pubbliche e unasuperficie liscia su cui camminare senza timore di inciampare.

«Qui.»Ana si aspettava un’uniforme, invece a parlare era una ragazza in

borghese. Era già arrivata la Scientifica? Soltanto gli agenti del gruppoinvestigativo non indossavano l’uniforme e quella ragazza era inborghese. Di solito, sulla scena del crimine – oddio, sperava proprioche non fosse quello il caso! – veniva mandato a prenderla il poveroborsista appena uscito dall’Accademia di Polizia di Ávila.

«Ispettore capo, salve, buongiorno. Grazie per essere venuta cosìin fretta» la salutò la ragazza. «Scusi, che maleducata! Sarà latensione. Lei è un’istituzione nel corpo, lo sa? Oh, mi scusi di nuovo!Non mi sono presentata. Sono Sonia Calero, del commissariato diMadrid-Ovest. La stavamo aspettando.»

«Quando siete arrivati?»«La pattuglia è arrivata dopo dieci minuti dalla telefonata di uno dei

testimoni, secondo cui una donna urlava che qualcuno aveva presosuo figlio. Hanno capito subito che non si trattava di un falso allarme ecosì ci hanno avvisati. Io ero fuori servizio, ma stavo facendo comperequi vicino e sono venuta.»

Era lo stesso posto in cui due anni prima era scomparso Nicolás.Sembrava un incubo.

«Ragguagliami sul caso» chiese Ana, dirigendosi in tutta frettaverso il punto della scomparsa.

«Be’, stiamo interrogando la madre. E stanno cercando dilocalizzare il padre. Lei è isterica, molto nervosa, non c’è modo di farlearticolare una frase completa, quindi abbiamo chiamato un medico pervedere se può fare qualcosa.»

«Da quanto è sparito il bambino?»«Due ore. Ci hanno chiamati immediatamente, siamo arrivati quasi

subito, ma per ora non c’è traccia di lui in tutto il centro commercialené nei dintorni. Ha quattro anni, si chiama Enrique. Lei lo teneva permano. Si erano fermati davanti alla vetrina di un negozio di giocattoli,a guardare pupazzi di una roba che si chiama Paw Patrol.»

Sonia parlava molto in fretta, era difficile capirla, parlava come

camminava, inanellando parole senza mai riprendere fiato, con il ritmoserrato di una gara di marcia.

«Cosa sono? Cartoni animati?» chiese Ana.«Pare. Si vede che lei non ha figli. Oh, mi scusi, mi sto facendo gli

affari suoi! Mi scusi, eh, mi scusi. Sembra che» cercò di salvare lasituazione «siano i cartoni preferiti dei bambini, al momento. I mieinipotini li adorano. Sono cani che fanno gli agenti di polizia.»

«Cani poliziotto? Quello che ci mancava. Non gli verrà in mente diinventarsi una scimmia come giudice istruttore. Quello no, vero?» Iltono di Ana era amaro, ma Sonia rise.

«Come sa le nostre uniformi vestono molto bene, anche un cane.Comunque, guardi, abbiamo organizzato la centrale operativa lì, inquel negozio.»

Doveva essere il negozio di giocattoli, per l’appunto. Ottimaposizione per vendere, pessima per sparire. Era accanto a una delleporte che davano alla zona ascensori e alle scale di emergenza. Sequalcuno aveva preso il bambino, doveva essere stato facile filarselain pochi secondi.

Dentro, il proprietario rispondeva alle domande degli agenti, ma aquel punto forse si stava già pentendo di aver consentito di usare ilsuo negozio come base per la polizia. Senza dubbio si era offerto nonsoltanto in buona fede, ma anche perché si sentiva un po’ in colpa,visto che il bambino era scomparso proprio davanti alla sua vetrina.

Ana e Sonia superarono il gruppetto e andarono dritte verso ilretrobottega. Dietro una porta socchiusa, in quello che era un piccolosgabuzzino senza finestre né ventilazione, c’era la madre del bambino,seduta su un mucchio di scatole di giocattoli, con unosfigmomanometro al braccio. Il medico guardò Ana e le fece un cennoquasi impercettibile. Aspetta un attimo, per favore, dammi qualchesecondo, le disse con lo sguardo.

«Centosessanta su novanta. È alle stelle.»La donna non reagì. Probabilmente sprizzava adrenalina da tutti i

pori, suo figlio era scomparso da due ore. Ana aveva bisogno di quelladonna nelle sue piene facoltà. O, almeno, nelle piene facoltàconsentite dalla situazione.

«Come si chiama?» sussurrò Ana a Sonia.

«Lei Lola. E il figlio Enrique.»«Di’ al medico che le dia qualcosa per calmarsi, ma che non sia

troppo forte. Ho bisogno che sia lucida.»«D’accordo.»«Non farti sentire da lei.»«Certo, certo» annuì sollecita Sonia.«Ciao, Lola. Sono Ana. L’ispettrice Arén» si presentò Ana, con voce

dolce, sfiorandole un braccio.Ad Ana piaceva toccare leggermente le vittime. La pelle era

l’organo più grande e sensibile del corpo, due metri quadrati di purapercettibilità, il modo migliore per entrare in contatto con i sentimentialtrui e comunicare: “Sono qui accanto a te e voglio aiutarti”. Anchese a volte bisognava fare attenzione. In alcune persone, quando ildolore era molto grande, il contatto pelle a pelle causava una scaricaelettrica molto dolorosa. Se la sofferenza è estrema, la vittima siraggomitola su se stessa in posizione fetale per proteggere gli organivitali rinchiusi nel torace. E qualsiasi contatto esterno viene percepitoe si sente fisicamente come un’aggressione vitale, una botta nelcentro del dolore fisico ed emotivo.

«Lola, sono qui per trovare tuo figlio.»La donna guardò Ana come se non capisse l’esatto senso delle

parole che aveva appena pronunciato. Qui? Trovare? Figlio? Sembravastesse cercandone il significato in qualche angolo recondito delcervello.

«Devi aiutarmi, Lola, devi aiutarmi. Ogni minuto che passa è divitale importanza. Ho bisogno che mi aiuti, se vogliamo trovareEnrique.»

«Ho... io... ho già raccontato tutto alla polizia» farfugliò infine,come se stesse emergendo da un sogno. «Non so altro. Dov’è il miobambino? Dov’è?»

Lola iniziò a tremare, tra i singhiozzi. Il suo corpo si cullava al ritmodelle lacrime.

«Lola, Lola, tesoro,» insistette Ana «guardami negli occhi.Troveremo Enrique.»

«Kike, è Kike. Se si è perso e lo chiamano Enrique, non risponderà.Kike. Chiamatelo Kike.»

«D’accordo, Lola. D’accordo. Kike. Allora noi due troveremo Kike.»Ad Ana non piaceva dare del lei in quei frangenti, le sembrava

creasse una barriera: io poliziotto, sto qui, e tu, vittima, te ne staidall’altra parte. Preferiva dare del tu. Anche se a qualcuno suonavastrano.

«Cercheremo Kike, ma ho bisogno che ti concentri. D’accordo?Coraggio, tesoro, siamo insieme. Iniziamo dal principio. Cos’èsuccesso?»

«Io... io... stavamo passeggiando, gli avevo promesso che, se nonavesse pianto prima di entrare a scuola, poi l’avrei portato alla piscinadi palline. Quest’anno ha cambiato scuola, sa? Mi sono separata e nonposso più pagare la retta di quella privata. Kike sta facendo fatica aadattarsi a tutto, la casa nuova, la separazione, la scuola. Per questogli ho promesso che saremmo andati alla piscina delle palline, nonvolevo che piangesse.»

«Cosa ricordi del momento della sparizione?»«Kike...» sospirò tirando su col naso «l’unica cosa che lo calma, in

questi giorni, è la Paw Patrol. Sa, no, quei cartoni animati sui canipoliziotti e pompieri. Li adora. Arriviamo sempre tardi a scuola perchénon vuole spegnere il televisore. Perciò quando ha visto i giocattolidella Paw Patrol in vetrina ci siamo fermati. Avrebbe dovuto vedereche faccia, aveva gli occhi spalancati. Mi ha lasciato la mano perguardare meglio. Era lì con i palmi e il naso appiccicati al vetro. Seavesse potuto, ci sarebbe passato attraverso. Io, io... mi sonodistratta. Mi è arrivata una notifica di WhatsApp e ho risposto almessaggio.»

«Chi le ha scritto?»«Mio marito. Be’, il mio ex marito. Voleva tenere lui Kike questo

weekend. Non era il suo turno, quindi mi sono arrabbiata molto.»«Mi fai vedere il cellulare, per favore?» Effettivamente c’era. Il

messaggio dell’ex marito, Ricardo. Ana si voltò. «Il padre del bambinoè arrivato? L’avete trovato?» domandò a Sonia.

«No. Non che io sappia, vado a chiedere fuori. Le faccio subitosapere, ispettore.»

Il messaggio era delle cinque e tredici minuti. LOLA, DOMANI PRENDO IOKIKE, COSÌ PASSIAMO INSIEME IL WEEKEND. PER UNA VOLTA PUÒ SALTARE LA SCUOLA,

VENERDÌ. PREPARAGLI GIÀ LA BORSA E LASCIALA IN SEGRETERIA, DOMATTINA. IOPASSO A RITIRARLO ALL’USCITA.

La risposta di Lola era piuttosto lunga: lei era stufa e chi diavolocredeva di essere, lui, e comunque non aveva nessuna intenzione didargli il bambino. Che se necessario avrebbe fatto cambiare laserratura e chiamato la polizia.

Il messaggio del marito era stato inviato alle diciassette e tredici.Lola aveva risposto alle diciassette e diciannove.

«Lola, hai risposto subito al messaggio?»«Sì. Appena ho ricevuto la notifica ho preso il cellulare e ho

risposto.»«Ma secondo questi orari hai impiegato sei minuti a rispondere.»«Io... io... ho risposto subito, glielo giuro.»Il messaggio del marito sembrava scritto di proposito per

innervosire la moglie. Per provocare una sua reazione. Sei minuti perun messaggio di cinque righe erano troppi. Ma chi può dire? ForseLola aveva scritto e cancellato e poi riscritto e ricancellato varie volte,fino a trovare le parole giuste per comunicare quel che voleva. Se luil’aveva fatta inferocire non c’era da stupirsi che avesse faticato ascrivere un messaggio soddisfacente.

«Ispettrice, può venire un momento?» Sonia la chiamò dalla soglia.«Non abbiamo trovato il marito» sussurrò portandola in un angolo indisparte. «Il cellulare continua a non prendere. E lei sa, vero?»

«Nella maggior parte delle sparizioni di minori il colpevole èqualcuno della famiglia o una delle persone più vicine. Ma magari è alcinema oppure se la sta spassando con la ragazzina per cui ha lasciatola moglie o è in riunione.»

«Al lavoro dicono che è uscito dopo pranzo.»«Non possiamo fissarci solo sull’ipotesi che sia stato il padre del

bambino, Sonia. Può darsi di sì, ma anche di no. Ora come ora nonpossiamo scartare nessuna possibilità. Se vogliamo salvare Kike,dobbiamo tenere la mente ben aperta.»