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Raffaella Sarti DA SERVA A OPERAIA? TRASFORMAZIONI DI LUNGO PE- RIODO DEL SERVIZIO DOMESTICO IN EUROPA* [*ringrazio la casa editrice il Mulino per avermi permesso di mettere online sul mio sito- web questo articolo in formato word. L’articolo è pubblicato nella presente versione, dotata di Appendice, sul sito http://www.mulino.it/edizioni/riviste/scheda_fas cicolo.php?isbn=10459&ilmulino ] 1. La cuoca di Lenin e le altre Una parte di questo articolo è stata presentata il 10 febbraio 2005 al seminario «La cuoca di Lenin e le altre. Passato e presente del servizio domestico», insieme a un intervento di Asher Colombo di prossima pubblicazione su «Polis». Il seminario era rivolto ai partecipanti al progetto Cofin «Nazionalità, genere e classe nel nuovo lavoro domestico. Cambiamenti nella famiglia italiana ed evoluzione dei sistemi migratori» 1 . Scelto, con un pizzico di ironia, «[email protected]» come indirizzo di posta 1 Parti di questa ricerca verranno pubblicate su «Gender and History» e nel rapporto finale del «Servant Project» finanziato dalla Commissione europea (www.servantproject.net).Sono state inoltre presentate al seminario «Models of Domestic Service» (Monaco di Baviera, 11-14 settembre 2003) e al seminario «Le trasformazioni del servizio domestico in Europa. Uno sguardo di lungo periodo (dal Cinquecento ad oggi)» (Bologna, Istituto Cattaneo, 26 settembre 2003). Ringrazio i partecipanti per i suggerimenti.Ringrazio poi Claudia Alemani, Marzio Barbagli, Asher Colombo, Piergiorgio Corbetta, Patrizia Delpiano, Giancarlo Gasperoni, Silvia Salvatici e Peppino Sciortino per il contributo che in vario modo hanno dato al lavoro; di nuovo Asher Colombo, e poi Ludmila Fialová, Jesús Mirás Araujo, Ellinor Platzer, Ellen Schrumpf, Rebecca Spagnolo, Sølvi Sogner, Gunnar Thorvaldsen, Lise Widding Isaksen e Matthew Woollard per avermi permesso di citare lavori inediti o fornito dati. ? Il coordinatore nazionale è Raimondo Catanzaro. Le università coinvolte sono quelle di Trento, Bologna, Milano (Statale e Bicocca) e Bari (vedi il sito web: cofin2004.cine- ca.it/cgi-bin/relazioni/form-vis_form.pl). POLISó, XIX, 1, aprile 2005, pp. 91-120

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Raffaella Sarti

DA SERVA A OPERAIA? TRASFORMAZIONI DI LUNGO PERIODO DEL SERVIZIO DOMESTICO IN EUROPA* [*ringrazio la casa editrice il Mulino per avermi permesso di mettere online sul mio sito-web questo articolo in formato word. L’articolo è pubblicato nella presente versione, dotata di Appendice, sul sito http://www.mulino.it/edizioni/riviste/scheda_fascicolo.php?isbn=10459&ilmulino]

1. La cuoca di Lenin e le altre

Una parte di questo articolo è stata presentata il 10 febbraio 2005 al seminario «La cuoca di Lenin e le altre. Passato e presente del servizio domestico», insieme a un intervento di Asher Colombo di prossima pubblicazione su «Polis». Il seminario era rivolto ai partecipanti al progetto Cofin «Nazionalità, genere e classe nel nuovo lavoro domestico. Cambiamenti nella famiglia italiana ed evoluzione dei sistemi migratori»1. Scelto, con un pizzico di ironia, «[email protected]» come indirizzo di posta elettronica del progetto, è parso naturale che una variazione sul tema costituisse il titolo del seminario introduttivo. Il riferimento è alla famosa frase di Lenin (tratta da un articolo apparso su «Proveshcheniye» nell’ottobre del 1917), secondo la quale in un regime comunista anche una cuoca dovrebbe essere in condizione di amministrare lo stato: riferimento appropriato, mutatis mutandis, a una ricerca che mira a cogliere il ruolo e le caratteristiche del nuovo lavoro domestico.

1Parti di questa ricerca verranno pubblicate su «Gender and History» e nel rapporto finale del «Servant Project» finanziato dalla Commissione europea (www.servantproject.net).Sono state inoltre presentate al seminario «Models of Domestic Service» (Monaco di Baviera, 11-14 settembre 2003) e al seminario «Le trasformazioni del servizio domestico in Europa. Uno sguardo di lungo periodo (dal Cinquecento ad oggi)» (Bologna, Istituto Cattaneo, 26 settembre 2003). Ringrazio i partecipanti per i suggerimenti.Ringrazio poi Claudia Alemani, Marzio Barbagli, Asher Colombo, Piergiorgio Corbetta, Patrizia Delpiano, Giancarlo Gasperoni, Silvia Salvatici e Peppino Sciortino per il contributo che in vario modo hanno dato al lavoro; di nuovo Asher Colombo, e poi Ludmila Fialová, Jesús Mirás Araujo, Ellinor Platzer, Ellen Schrumpf, Rebecca Spagnolo, Sølvi Sogner, Gunnar Thorvaldsen, Lise Widding Isaksen e Matthew Woollard per avermi permesso di citare lavori inediti o fornito dati.

? Il coordinatore nazionale è Raimondo Catanzaro. Le università coinvolte sono quelle di Trento, Bologna, Milano (Statale e Bicocca) e Bari (vedi il sito web: cofin2004.cineca.it/cgi-bin/relazioni/form-vis_form.pl).

POLISó, XIX, 1, aprile 2005, pp. 91-120

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Ruolo e caratteristiche del personale di servizio sono al centro anche di questo articolo, che – in primo luogo – descrive le attese relative alla presenza e funzione dei lavoratori domestici che agitavano i sonni dei nostri antenati, circa un secolo fa, e – in secondo luogo – cerca di verificare se tali previsioni si siano realizzate ricostruendo le trasformazioni del lavoro domestico salariato nel corso del Novecento in Italia e in altri paesi europei, alla luce, in particolare, delle politiche attuate dai singoli stati.

2. Servizio domestico: addio!

«Quando due signore del ceto medio discorrono insieme, nove volte su dieci dedicano il loro cicaleccio alle serve», sosteneva Riccardo Bachi nell’aprile del 1900. Ne «enumerano i difetti insopportabili, ne riportano la fenomenale imperizia», osservano che «che le “serve oneste e fidate” diventano ognor più rare e che è “beato chi può farne senza”». E tali lamentele sono le stesse in Italia, in Francia, in Spagna, in Inghilterra, in Olanda… (Bachi 1900, 24-25; vedi anche Piette 2000, 329-332).

Ovviamente le lagnanze sui servi non erano una novità (Müller-Staats 1987). Tuttavia tra fine ’800 e inizio ’900 i domestici divennero un problema davvero serio: ovunque si sentiva ripetere che il servizio domestico era in crisi. Espressioni come servant problem, servant shortage, great question, crise de la domesticité, «crisi delle domestiche», Dienstbotenfrage, Hausflucht costituivano il vocabolario di un dibattito intenso e preoccupato2. Il problema non era solo europeo. «Sulle due sponde dell’Atlantico i datori di lavoro incontrano le stesse gravi difficoltà nel tentativo di assicurarsi lavoratori domestici qualificati», scriveva Lucy Maynard Salmon (1901, 2783), che pure

2 Vedi anche Bouniceau-Gesmon (1896); Cusenier (1912); Stillich (1902); Kesten-Conrad (1910); Popp (1912); Bachi (1900); Levi (1908), che pur parlando di crisi nota la presenza di domestici disoccupati; Schiavi (1908); Giusti Pesci (1913); Rignano Sullam (1914); Salmon (1901); Rubinow (1906). Tra gli studi recenti, vedi, sull’Italia: Reggiani (1992); sulla Francia: Guiral e Thuillier (1978); Martin-Fugier (1979, 33-38); sul Belgio: Piette (2000, 327-311); sulla Germania: Ottmüller (1978); Müller (1985); Zull (1984); Wierling (1987); Pierenkemper (1988); Janßen (s.d.); sull’Austria: Tichy (1984, 16-23); sull’Inghilterra: Horn (1975, 151-165); McBride (1976, 28 e passim); sulla Norvegia: Schrumpf (2002); Thorvaldsen (2005).

3 Il capitolo sull’Europa fu aggiunto nella seconda edizione; la prima è del 1897.

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sottolineava le differenze tra i due contesti. Agli occhi di altri autori la situazione negli Stati Uniti appariva anche più seria che nel vecchio continente (ivi, 275-276). Fermo restando l’interesse di un’analisi comparativa (Sarti 2005b), è all’Europa che dedicherò la mia attenzione nelle prossime pagine.

Qui, una parte dell’opinione pubblica sognava i domestici del buon tempo antico, obbedienti e fedeli: figure idealizzate, naturalmente, che però si cercava di far rivivere (o, più correttamente, di creare ex novo) attraverso un’intensa propaganda che esaltava il valore del servizio domestico. «En trois mots j’aurai dit toute ma pensée: Elle est dans la maison; Elle sera de la maison, Si elle est pour la maison», recitava l’incipit di un breve testo francese del 1906 dedicato a La domestique che sintetizzava questo approccio conservatore, grondante di retorica, in cui le buone serve erano completamente asservite (è proprio il caso di dirlo) agli interessi dei padroni, che a loro volta erano incoraggiati a stimolare e compensare tanta dedizione con un comportamento paternalistico e protettivo. Al contempo, si cercava di sviluppare la formazione professionale di cuoche, governanti e fantesche, visto che il problema era quello di trovare personale preparato, oltre che fedele (Guiral e Thuillier 1978, 230-237; Müller 1985, 247; Piette 2000, 366-388, 399, ecc.).

Altri, invece che sognare un improbabile ritorno a un passato immagi-nario e zuccheroso, confidavano in un futuro migliore, in particolare co-loro che riconducevano la crisi alle condizioni di lavoro dure e arretrate, per non dire schiavili (Popp 1912), del servizio domestico, al quale molte ragazze preferivano altri impieghi: in fabbrica, dove c’erano limiti chiari all’orario di lavoro, ma anche in negozi, hotel o altre sedi dove erano meno controllate e dove, soprattutto, sfuggivano a quello stigma di inferiorità sociale che appesantiva la vita delle domestiche 4. Lucien Deslinières sosteneva, ad esempio, che con il diffondersi dell’istruzione e del benessere sarebbe diventato sempre più difficile trovare dei servitori (1899, 369-371). Ma sarebbe stato «inammissibile» perpetuare «la miseria e l’ignoranza per facilitare il reclutamento di domestici»: la «marcia del progresso» era «ineluttabile» e andava seguita. Non c’era comunque da preoccuparsi: lo sviluppo dei servizi sociali e nuove soluzioni tutte da inventare avrebbero garantito uno stile di vita non meno piacevole di quello già sperimentato. La resistenza ad entrare a servizio era vista da alcuni esponenti della sinistra come segno di un

4 Ad esempio, Salmon (1901, 278-279). Sulle interpretazioni della crisi e le soluzioni proposte, vedi Zull (1984, 52-198); Wierling (1987, 183-222 e 283-296); Janßen (s.d.); Reggiani (1992); Piette (2000, specie 362-367).

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«progresso morale immenso» ed espressione di quel nuovo sentimento della propria dignità e indipendenza che, a detta di molti, andava diffondendosi nelle classi popolari: il «microbo della redenzione del quarto stato» stava contagiando anche servi e serve5.

Tale resistenza contribuiva a stimolare la ricerca di soluzioni nuove che rendessero i padroni più indipendenti dai domestici e il ricorso ad essi meno necessario (Horn 1975, 153). D’altronde, le nuove forme di produzione e di vita sociale stavano sfondando le «salde vetuste mura» della «vecchia patriarcale forma domestica», e «la trasformazione della vita casalinga» inevitabilmente apportava anche «una rivoluzione nel servizio domestico». «Esso non sarà più, anzi… domestico», sentenziava Bachi: «verrà sostituito da un servizio di indole collettiva, non più degradante; cangerà le serve in operaie» (1900, 40, corsivo nell’originale). E immaginava lavoratrici salariate impiegate in ristoranti cooperativi o municipali o in altre istituzioni. L’inglese Elizabeth Lewis, da parte sua, proponeva di introdurre cucine collettive (culinary depôts) in ogni strada da cui i pasti venissero inviati alle famiglie. Si sarebbero così eliminati molti problemi e sprechi, e ne sarebbe derivata una riorganizzazione complessiva della sfera domestica: un esercito di certified day-housemaids si sarebbe recato quotidianamente a casa dei datori di lavoro, con una drastica riduzione dei domestici coresidenti e un miglioramento delle relazioni tra datori di lavoro e lavoratori6.

Se l’idea dei pasti a domicilio era condivisa dalla femminista, attiva in Francia, Jeanne Schmahl (1901, 449), la soluzione delle cucine collettive piaceva anche alla socialista tedesca Lily Braun7 e, prima di lei, ad August Bebel, che aveva suggerito di abolire le cucine private, vero luogo di abbrutimento per milioni di donne, introducendone di collettive dotate di riscaldamento, luce elettrica e tutti gli apparecchi più moderni, in modo da ridurre i costi e rendere il lavoro più semplice, veloce e sicuro. Riscaldamento centrale, illuminazione elettrica, conduttore per l’acqua calda, lavanderie centralizzate, macchine per

5 Per la prima citazione, vedi É. Vandervelde, L’exode rural et le retour aux champs, Paris, 1903, p. 224, citato in Piette (2000, 351); per la seconda, Levi (1908, 12 e 27). Secondo il famoso analista sociale inglese Charles Booth, un «very independent spirit» pervadeva i domestici (Horn 1975, 151).

6 E. Lewis, A Reformation of Domestic Service, in «Nineteenth Century», gennaio 1893, citato da Horn (1975, 155). Idee simili circolavano anche in Francia e in Belgio: Guiral e Thuillier (1978, 242-243); Piette (2000, 395).

7 Janßen (s.d.); Müller (1985, 172; sul previsto sviluppo di case senza persone di servizio, vedi pp. 172-178). Su Braun vedi anche Walser (1986, 104-109).

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pulire, ascensori, congegni per mandare lettere e giornali, porte elettriche, aspirapolvere, «aspirabatteri» e mille altre diavolerie da lasciare a bocca aperta avrebbero portato, secondo Bebel, una rivoluzione della vita domestica che avrebbe implicato la scomparsa sia delle serve (di cui peraltro già ai tempi suoi la maggioranza faceva tranquillamente a meno) sia delle padrone. Si trattava solo di capire in quanto tempo tutti avrebbero potuto godere di tali innovazioni (Bebel 1910, cap. 27, sezz. 3 e 4). Ma non mancava chi si dava da fare per accelerare la trasformazione: all’esposizione universale di Bruxelles del 1910 l’avvocato ed editore Charles Didier propose un électro-bungalow dove tutto, dal lavaggio dei piatti all’inceratura dei pavimenti, veniva fatto meccanicamente (Piette 2000, 390). Citando una commedia di Cratete (senza dubbio Le bestie) che metteva in scena un mondo in cui ogni cosa si faceva da sola e nessuno aveva servitù, Bachi sosteneva che tale sogno plurimillenario, un tempo deriso, andava «cangiandosi in realtà», e annunciava come «imminente il giorno in cui, presso di sé nessuno avrà servo o fantesca». Ben presto «operaie indipendenti… saranno chiamate, ad eseguire determinati lavori entro le case e nelle istituzioni cooperative, senza cessare per questo di convivere colle proprie famiglie, senza che per esse sia, come oggi, distrutta quell’istituzione famiglia di cui pure le padrone si atteggiano a così gelose conservatrici» (1900, 44-45).

Che la coresidenza dei domestici con la famiglia padronale dovesse essere superata era idea ampiamente condivisa. La sottoscrivevano molti socialisti riformisti e riformatori sociali (Zull 1984, 190-198). La invocavano tanto i membri dell’Unione professionale dei lavoratori domestici russi, nel 1918 (Spagnolo 2005b), quanto l’apostle of democracy Lucy Maynard Salmon, secondo la quale il superamento della coresidenza avrebbe comportato maggiore indipendenza personale e sviluppo di attività specializzate (Salmon 1901, 267). La ribadiva un’altra americana, Christine Frederick, missionaria di un nuovo modo razionale di gestire la casa basato su principi tayloristici e autrice di testi di enorme successo anche in Europa. A suo avviso, «finché il lavoratore domestico non smetterà di vivere con noi [datori di lavoro], non risolveremo il problema». Il problema, naturalmente, era la servant question. E aggiungeva: «non vedo alcuna ragione pratica per cui non dovremmo avere dei domestici – domestici specializzati – al nostro servizio che hanno la loro vita indipendente a casa loro e di giorno ven-gono a lavorare da noi» (Frederick 1914, 178). Proprio la diffusione delle donne di servizio non coresidenti appariva una possibile soluzione della crisi anche ad alcuni di coloro che non ritenevano affatto

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imminente la scomparsa del servizio domestico, come il radicale francese Émile Corra (1908, 21), che lo reputava insostituibile, o il socialista tedesco Edmund Fischer che, considerando improbabile l’abolizione dell’economia domestica singola e prevedendo invece una crescente domanda di servizi, pensava che le tappe dell’evoluzione avrebbero dovuto essere: «schiava, serva, aiuto-domestico, operaia della casa» (Schiavi 1908, 57).

Pur nella varietà di posizioni, coloro che si muovevano in un’ottica di progresso, piuttosto che di conservazione o restaurazione, condividevano dunque spesso l’idea che la vecchia domestica coresidente fosse (e dovesse essere) sostituita da altre figure: donne delle pulizie, operaie di stabilimenti cooperativi o addirittura elettrodomestici. Presto «la vecchia serva del passato sarà diventata un mito, un essere leggendario di cui qualche intellettuale contesterà forse un giorno l’esistenza», sosteneva un autore, fiducioso del fatto che tutti i servizi per cui era necessaria la «collaborazione attiva di persone esterne alla famiglia (ménage)» sarebbero stati svolti da «forze elettriche»8.

Queste utopie tecnocratiche affascinano anche molte femministe: confidare nella casa meccanizzata, senza domestici, permette di sfuggire a un angoscioso dilemma. Se da un lato, infatti, le femministe esaltano la solidarietà femminile e proclamano di lottare per garantire un futuro migliore alle donne – le donne tout court, e dunque anche le serve – dall’altro spesso possono dedicarsi anima e corpo alla militanza solo grazie al fatto di avere domestiche. A render difficile l’impegno a favore delle persone di servizio concorre la constatazione che molte casalinghe sgobbano da mane a sera senza orario né salario. Non è dunque facile impegnarsi per i diritti delle serve quando il lavoro domestico delle padrone di casa (con o senza servitù) non è soggetto ad alcuna limitazione e non frutta alcun diritto. Non a caso il primo Congresso femminista (Bruxelles, 1897) evita accuratamente la questione delle domestiche; e il secondo Congresso internazionale delle opere e istituzioni femminili (Parigi, 1900), non approva la risoluzione, proposta da Eliska Vincent, a favore della regolamentazione dell’orario di lavoro delle domestiche e della possibilità che ispettori ne controllino l’applicazione (Fraisse 1979, 38-44; Martin-Huan 1997, 72-74; Piette 2000, 399-406). In una prima fase, almeno, la solidarietà delle femministe borghesi verso le domestiche fatica a farsi concreta.

8 Gringoire, Hier et demain, in «Le soir», 1° febbraio 1907, citato in Piette (2000, 391).

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Neppure i socialisti brillano per attivismo, sebbene al congresso di Erfurt del 1891 la socialdemocrazia tedesca stabilisca che i domestici debbano essere parificati agli operai e che anche per loro debbano valere le rivendicazioni fatte per i lavoratori di fabbrica. Lo stesso Karl Kautsky, autore del programma marxista approvato dal congresso, sostiene che i servi non costituiscono, per i socialisti, un terreno di reclutamento promettente, poiché non contestano l’ordine sociale esistente. D’altronde, come «potrebbero desiderare la scomparsa dei ricchi?» (Müller 1985, 252). Nel contribuire a tale scarso interesse per i domestici, ai pregiudizi proletari sui servi si affiancano quelli sulle donne: in Italia, Alessandro Schiavi denuncia che i socialisti, quando si cerca di convincerli dell’opportunità di organizzare le domestiche, «o non vi ascoltano, o vi guardano ammiccando degli occhi, in un modo che non sapete se sia più offensivo per voi o per la classe in favore della quale perorate» (1908, 57).

Sebbene sospetti e pregiudizi siano duri a morire (Martin-Huan 1997; Piette 2000, 352), gli anni tra l’800 e il ’900 vedono un fermento di attività e rivendicazioni da parte dei domestici e dei loro sostenitori appartenenti a diversi schieramenti. A Berlino, nel 1899, nasce un movimento, stimolato da giornalisti e circoli femminili liberali, che riesce a imporsi all’opinione pubblica e dimostra, con la sua stessa esistenza, la parziale infondatezza dell’immagine della domestica incapace, per quanto sfrontata, di una reale opposizione al datore di lavoro. Non a caso negli anni successivi, in particolare dal 1904, cresce l’impegno dei socialdemocratici tedeschi a favore dei domestici e la loro influenza su di loro, pur destinata a rimanere limitata (Müller 1985, 247-252; Wierling 1987, 284).

Tutti i socialisti tedeschi aspirano a migliorare le condizioni dei domestici grazie all’abolizione della legislazione speciale (Gesindeord-nungen) che ne regola il rapporto di lavoro e implica la dipendenza personale dal padrone. Con lo sguardo rivolto al futuro, i marxisti pensano però soprattutto al superamento della sfera domestica privata, mentre i riformisti, convinti che tale superamento sia tutt’altro che prossimo, si impegnano a rendere meno pesante la vita quotidiana dei domestici. Mirano pertanto all’introduzione di contratti collettivi, alla definizione dell’orario di lavoro, a salari decenti, al miglioramento delle condizioni di vita nella casa padronale (Zull 1984, 190-198): un programma che ha parecchi punti in comune con quello dei socialisti riformisti di altri paesi e di molti riformatori sociali (Levi 1908; Giusti Pesci 1913; Rignano Sullam 1914).

I fermenti rivoluzionari di inizio secolo non mancano di

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coinvolgere i domestici. Nel 1905, in Russia si sviluppano associazioni di servitori che portano alla nascita della Professional’nyi soiuz zhenskoi i muzhskoi prislugi (Unione professionale dei domestici maschi e femmine). All’incontro di fondazione, cui partecipano circa 1.500 persone, viene fatta una lunga serie di rivendicazioni: anzitutto maggior rispetto, e poi contratto di lavoro, giornata di otto ore, giorno libero settimanale, ferie annuali di un mese, orari fissi concordati per i pasti, possibilità di avere le chiavi della casa padronale, stanza singola separata, letto con materasso, cuscino, lenzuola e coperte, cibo fresco di buona qualità, lo stesso mangiato dai padroni, almeno un piatto di carne al giorno, possibilità di invitare ospiti e di offrire loro the zuccherato a spese dei datori di lavoro.

Alcuni sindacati locali chiedono, inoltre, una riforma delle modalità di assunzione e licenziamento, con l’introduzione di uffici di collocamento pubblici e la possibilità, per i domestici che lasciano un posto di lavoro, di rimanere nella casa dei padroni fino all’assunzione di un nuovo impiego, o la creazione di strutture residenziali per disoccupati. Il successo degli scioperi organizzati da questo sindacato – 5.000 persone in piazza a Mosca all’inizio di novembre, altre migliaia a San Pietroburgo pochi giorni dopo – dà grande visibilità ai problemi della categoria, anche se la repressione costringe presto l’Unione ad interrompere l’attività. Questa tuttavia riprende, sotto altre forme, fin dal 1906: nel 1907 verrà presentato alla Duma, pur senza successo, un vasto programma a favore dei domestici: orario massimo di 9-10 ore giornaliere, controllo delle condizioni di lavoro da parte delle autorità, ambienti salubri, assicurazione in caso di infortunio o disoccupazione, congedi di maternità, uffici di collocamento (Spagnolo 2005a; 2005b). Richieste che ancor oggi molte «badanti» russe, ucraine e moldave impiegate in Italia sottoscriverebbero e che in parte restano (ahinoi) attuali.

Le iniziative, più o meno radicali e di successo, si moltiplicano in tutt’Europa. Qualcosa si muove anche in Italia. Pullulano, naturalmente, quelle cattoliche, di stampo prevalentemente conservatore (Sarti 2004). Ma ci sono anche alcune azioni di protesta (Molajoni 1904, 19); nascono associazioni di difesa dei domestici (ivi, 26-27; Levi 1908, 26, Schiavi 1908, 56); i servitori maschi si ribellano alla regola che li vuole sbarbati e, sentendo dimidiata la loro virilità, rivendicano il diritto all’onor del mento (vedi il numero unico de «Il domestico», aprile-maggio 1907); a Milano, la Società umanitaria e l’Unione femminile creano un ufficio di collocamento, con dormitorio e pensione, e organizzano corsi di economia domestica (Rignano

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Sullam 1914); ad Arzignano (Vicenza) le domestiche scendono addirittura in sciopero (Levi 1908, 42); e comunque dei problemi della categoria si parla, e non mancano le proposte per migliorarne le condizioni di lavoro (Giusti-Pesci 1913; Reggiani 1992).

Le condizioni del servizio domestico diventano, insomma, una questione ineludibile in tutt’Europa. Non a caso sono a programma al II Congresso femminista (Bruxelles, 1912). Non solo: il rapporto preparato da Marcel Cusenier è accolto positivamente. Esso propone di fare del lavoro domestico un vero lavoro; di migliorare le condizioni lavorative degli addetti; di proteggere la maternità; di applicare al servizio domestico la legislazione relativa agli infortuni sul lavoro; di regolamentare gli uffici di collocamento (Piette 2000, 409-410).

Pare dunque che il futuro possa essere radioso: mille riforme sembra-no poter rendere meno dura la vita dei domestici coresidenti che comunque, a detta di molti, sono destinati a ridursi fortemente o a scomparire, sostituiti da lavoratori domestici esterni, operai di stabilimenti collettivi, macchine. «La vera serva è morta o sta per morire», sentenzia Ada Negri sul «Corriere della sera» l’11 maggio 1907 (Reggiani 1992, 152). Un secolo fa, l’idea che la realtà stesse rapidamente cambiando era condivisa tanto da persone che notavano (spesso con rammarico) che trovare un (buon) servo stava diventando sempre più difficile, quanto da persone che pensavano che i domestici sarebbero stati rimpiazzati (e dovessero esserlo) da un nuovo tipo di lavoratore, più indipendente e simile all’operaio, quanto – infine – da persone che lottavano per instaurare una società nuova, senza alcun tipo di servitore.

Molte di loro sarebbero probabilmente stupite se sapessero che oggi i lavoratori domestici, anche coresidenti, non sono affatto scomparsi e stanno anzi probabilmente diventando più numerosi di quanto fossero qualche anno fa. E reagirebbero con sorpresa sentendo quello che oggi spesso si ripete: le persone di servizio non sono un lusso ma una necessità (Andall 2003; Alemani 2004). E resterebbero a bocca aperta constatando che, oggi, ci sono molte persone disposte a lavorare come colf o «badanti», e non solo ragazze analfabete o quasi, ma addirittura medici e ingegneri, laddove ai tempi loro l’espansione dell’istruzione (a parte quella professionale) era vista come elemento che riduceva l’offerta di domestici.

Ma dunque che cosa è successo nel secolo circa che ci separa da loro? Perché tante previsioni si sono rivelate errate? Cercherò di rispondere a queste domande, esaminando come sono cambiati il numero e il tipo di lavoratori domestici presenti in Europa nel corso

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del ’900. Per ragioni di spazio non tratterò invece il problema delle loro condizioni di lavoro, di cui mi sono occupata in altri saggi (Sarti 2000; 2005a).

3. Crisi economica e scelte politiche: paesi a confronto

Per capire se le previsioni di inizio ’900 si siano in seguito realizzate, sarebbe necessario disporre di dati precisi sul numero e il tipo di persone di servizio presenti nelle singole realtà. I censimenti della popolazione presentano enormi problemi di comparabilità, ma costituiscono la fonte principale per analisi del genere su base nazionale e per confronti internazionali di lungo periodo (Sarti 1999; 2001; 2005b). Nella tab. 1 ho riportato i dati censuari relativi a diversi paesi europei, cercando, ove possibile, di eliminare o almeno attutire alcune evidenti difformità. Ho però evitato di annullare quei cambiamenti nel tempo delle categorie impiegate che appaiono come il riflesso di trasformazioni della vita sociale o della mentalità (Sarti 1999; 2001). Ne emergono tendenze che, sebbene non vadano prese per oro colato, appaiono per molti versi significativi.

Alla luce di tali dati, nei primi due decenni del ’900 la previsione che i domestici stessero per scomparire pare avverarsi. In Italia, così come in Inghilterra e Galles, Germania, Francia, Belgio o nei territori cechi, la percentuale di lavoratori domestici sul totale della popolazione attiva si riduce sensibilmente9. Sembra aver ragione Augusta Moll-Weiss che nel 1921, dopo aver notato che la guerra ha accelerato la diminuzione del personale domestico, si chiede: «forse che le nostre serve torneranno, ora che la guerra è terminata, e che un grandissimo numero di fabbriche viene chiuso?». No, è la sua risposta, non torneranno, e bisogna attrezzarsi a semplificare la vita domestica (1921, 107).

9 In Inghilterra e Galles, le charwomen (donne delle pulizie non coresidenti) erano l’8% dei domestici nel 1901, il 9,3% nel 1921. Salvo diversa indicazione, i dati censuari citati in queste pagine sono tratti dalle fonti della tab. 1.

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Trasformazioni del servizio domestico in Europa 101

Ma negli anni successivi le cose cambiano: dalla Norvegia all’In-ghilterra, dalla Spagna all’Italia, dalla Francia al Belgio, si assiste a un’inversione di tendenza (tab. 1; Simonton 1998, 201, fig. 9.3; per il Belgio, Gubin 2001, 58). In Francia il fenomeno è in realtà appena percettibile, in particolare se se si analizzano tutti i domestici, che sono il 3,2% degli attivi nel 1926, il 3,3% nel 1931 e nel 1936. Appare lievemente più marcato se si concentra l’attenzione sulle domestiche, che tra il 1926 e il 1936 passano dall’8,7 all’8,9% delle donne attive10.

10 Se si usano i dati originali dei censimenti francesi, anziché quelli corretti da Marchand e Thelot (1991), l’inversione di tendenza appare più netta: si passa dall’8,0% del 1921 al 9,1% del 1936. Non manca, all’epoca, una certa consapevolezza del fenomeno: nel 1936 la Jeunesse ouvrière chrétienne française nota la presenza di operaie disoccupate che diventano domestiche

TAB. 1. Percentuale di domestici nella popolazione attiva di diversi paesi europei (1851-2001)

Decennio Svezia Nor-vegia

Inghilt.e Galles

Ger-mania Belgio Francia Spagna Italia Rep.

Ceca1850-59 10,1 3,7 5,4 6,11860-69 10,2 5,6 5,0 11,4 3,6 7,81870-79 11,8 11,5 5,3 5,7 3,2

1880-89 13,8 9,2 5,7 6,05,8 5,7 4,1 8,1

1890-99 12,1 12,0 8,1 6 5,34,8 3,1

1900-09 12,6 11,2 6,4 5,1 4,54,4 4,1 3,0 3,5

1910-19 13,3 10,3 5,0 4,4 2,9 3,1

1920-29 10,8 7,7 4,3 3,53,2 2,4 3,4

1930-39 12,3 8,2 3,93,9 3,3 4,5 2,9

3,2 3,0

1940-49 7,9 4,01950-59 2,9 6,4 5,0 4,1 2,9 5,1 1,9

1960-69 2,2 5,3 5,0 2,3 2,72,5 1,9

1970-79 1,3 3,9 3,9 0,6 1,8 1,21980-89 0,05 2,7 0,4 0,6 1,4 3,4 0,91990-99 0,005 3,3 0,32000-01 3,1 0,7Fonti: vedi appendice.

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Altrove la crescita è più sensibile: in Italia nel 1936 l’incidenza delle persone di servizio sul totale degli attivi (3,2%) è addirittura più alta che nel 1901 (3,0%); in Inghilterra tra il 1921 e il 1931 si passa dal 7,7% all’8,3%; in Norvegia dal 10,8% al 12,3% (tra 1920 e 1930). Alla lista bisogna aggiungere gli Stati Uniti (Stigler 1946; Chaplin 1978) e anche l’Unione Sovietica, dove i domestici non sono affatto cancellati dalla Rivoluzione di ottobre, sebbene si introduca una legislazione volta a migliorarne le condizioni di lavoro e dal 1923-24 venga lanciato un ambizioso progetto che mira a trasformare i servitori domestici (domashniaia prisluga) in lavoratori domestici (domashniaia rabotnitsa), con un’operazione non solo nominalistica. Significativamente, tale progetto nasce come reazione alle accuse di arretratezza rivolte al crescente numero di donne che vanno a servizio: certo le 460.000 domestiche rilevate nel 1926 sono poca cosa rispetto al milione e più degli anni precedenti alla rivoluzione, ma il loro numero sta crescendo, e nel 1929 sono 527.000 (Spagnolo 2005a; 2005b).

Come per altri paesi (Chaplin 1978; Gubin 2001, 58), nel caso inglese l’aumento delle persone di servizio è stato letto alla luce della depressione economica e della disoccupazione, che avrebbero costretto molti a cercare lavoro nel servizio domestico (Horn 1975, 170; Mc-Bride 1976, 112). Le autorità britanniche incoraggiarono le disoccupate a impiegarsi come domestiche, sebbene molte, in particolare tra le operaie, non fossero affatto entusiaste di questa prospettiva e in certi casi la rifiutassero. La strategia venne perseguita anche organizzando corsi di economia domestica che, agli occhi delle autorità, avevano molti vantaggi: costavano poco, fornivano una preparazione adatta anche al futuro ruolo di mogli e madri delle ragazze e assicuravano un effettivo inserimento lavorativo grazie al cronico bisogno di servitù delle classi medie, di cui tra l’altro ci si assicurava, in tal modo, un certo consenso (Pope 2000; Horn 2002).

Non solo la crisi economica ma anche le scelte politiche su come farvi fronte vanno dunque prese in considerazione per spiegare l’anda-mento della consistenza del personale domestico tra le due guerre (Sarti 2001; 2004). Nel caso italiano, appare rilevante la politica fascista volta a scaricare i costi della crisi sulle famiglie contadine che, private dei tradizionali sbocchi migratori all’estero, si videro costrette a nuove strategie di sopravvivenza, tra le quali la massiccia emigra-

(Martin-Huan 1997, 92).

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zione delle donne come domestiche11: «i mariti non trovavano lavoro, e perciò bisognava darsi da fare», spiegava una donna veneta che negli anni trenta era andata a far la balia in città (Perco 1984, 21).

Non a caso, tra il 1921 e il 1931 l’incidenza delle serve sul totale del-le donne attive fece un balzo in avanti, dal 7,2% all’11,4%. Tra gli uo-mini attivi, invece, la percentuale dei domestici non smise di declinare: 0,5% nel 1921, 0,2% nel 1936. Come mai in un’epoca di alta disoccupazione il servizio domestico costituiva un’opportunità di impiego solo per le donne? Per rispondere bisogna tener presenti anche altre scelte del regime: l’enfasi sulla «sposa e madre esemplare» e sulla destinazione casalinga delle donne (pur contraddetta, in parte, dalla mobilitazione di massa che coinvolgeva le italiane in una nuova presenza pubblica); il sostegno alla maternità in vista di una crescita demografica funzionale alla politica di potenza del regime; l’enorme sforzo per espellere le donne dal mercato del lavoro, specie dai posti più qualificati (Sarti 2004, con riferimenti).

Non stupirà dunque scoprire che tra il 1921 e il 1931 il tasso di attività femminile si ridusse dal 33,3% al 23,5%. Potrà invece stupire che il fascismo non rappresentasse una rottura: il trend negativo era iniziato già a cavallo del secolo. In parte, il declino probabilmente rifletteva reali trasformazioni del mercato del lavoro. Ma in parte era un’«illusione statistica» dovuta alla crescente tendenza a classificare le donne come casalinghe in un’epoca in cui andava rafforzandosi l’idea che esse non dovessero lavorare fuori casa (Pescarolo 1996; Patriarca 1998; Sarti 1999; Curli e Pescarolo 2003). Paradossalmente furono proprio le autorità del periodo fascista ad interrompere tale tendenza sottolineando, in vista del censimento del 1936, l’importanza di non classificare sbrigativamente le donne come casalinghe: ma si era a pochi mesi dall’aggressione all’Etiopia e dalle sanzioni all’Italia da parte della Società delle nazioni, in una fase di rafforzamento dell’autarchia, e appariva «assolutamente indispensabile» che «dal censimento risult[asse] la effettiva efficienza delle forze lavoratrici della terra» (Istat 1936, 23). Per effetto congiunto di questa impostazione statistica e della guerra d’Africa, che aveva richiamato al fronte molti uomini, nel 1936 il tasso di attività femminile risalì al 30,1%: un’inversione che emerge anche dai dati dei censimenti corretti da Vitali (1970, 144)12.

11 Questa strategia è resa possibile dal crescente squilibrio tra città e campagna e non è ostacolata neppure dalle leggi contro l’urbanesimo, dal cui campo di applicazione le domestiche sono escluse (Sarti 2004).

12 In base ad essi, tra 1881 e 1921 il tasso di attività femminile si era ridotto dal 55,1% al 41,5%. Nel decennio successivo calò al 38,3%, per risalire al 39,4% nel 1936. Il declino poi riprese, toccando il 24,1% nel 1961.

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Tali dati (ivi, 132) rivelano che, durante il fascismo, la composizione per sesso degli impiegati in agricoltura non si modificò radicalmente, mentre l’industria e la pubblica amministrazione furono caratterizzate da una forte mascolinizzazione. Nel complesso, però, il terziario conobbe una significativa crescita della presenza femminile. Insomma, più che venire espulse dal mercato del lavoro, le donne vennero sospinte verso settori marginali e/o considerati adatti alla «natura» femminile, come appunto il servizio domestico: in fondo le serve erano casalinghe a pagamento (il servizio domestico spesso non era neppure considerato un vero lavoro). Non a caso, tra il 1921 e il 1936, le domestiche, se si usa per il 1936 una categoria comparabile a quella del 1921, balzano da 380.614 a 570.083 (+33%; Sarti 2001; 2004, con ulteriori riferimenti).

In Francia, invece, la percentuale delle serve tra le donne attive registrò un incremento limitato; il loro numero assoluto, tra il 1931 e il 1936, addirittura si ridusse, nonostante anche oltralpe si registrasse un tendenziale calo del tasso di attività femminile. Nella Terza Repubblica, in effetti, nonostante la politica pronatalista e la retorica favorevole al ritorno delle femmes au foyer, non vennero praticamente adottate misure né contro il lavoro extradomestico delle donne (come invece stava accadendo in Italia)13, né a favore del servizio domestico (come stava accadendo in Inghilterra). La situazione francese era diversa da quella italiana anche per quanto riguarda i lavoratori domestici di sesso maschile, la cui percentuale sul totale degli attivi maschi rimase pressoché stabile. Questo confronto induce ad approfondire l’analisi delle politiche statali riguardo alle trasformazioni del servizio domestico, chiedendosi, per esempio, se da questo punto di vista, la Germania nazista e la Spagna franchista fossero più simili all’Italia fascista della Francia democratica.

Diversamente da quanto avvenne in tanti altri paesi, in Germania la percentuale dei domestici tra gli attivi si ridusse: gli addetti agli Häusliche Dienste (servizi domestici) tra 1925 e 1933 passarono dal 4,3% al 3,9% degli attivi (con una diminuzione dell’8,9% in valore assoluto, mentre la più specifica sottocategoria degli Hausangestellte diminuì dell’8,1%). Le Hausangestellte passarano dall’11,4 al 10,5% delle donne attive (tab. 1; Willms 1983, 35, tab. 1; Keller 1950, 76). La

13 Bard (1999, 180) ricorda un solo provvedimento discriminatorio, di portata limitata. In base ai dati originari dei censimenti, il tasso di attività femminile era il 42,3% nel 1921, il 34,4% nel 1936, mentre, in base ai dati corretti da Marchand e Thelot (1991, 179, tab. 5f) si ridusse dal 43,4% al 38,4%.

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crisi, almeno in quegli anni, non implicò dunque alcun aumento del servizio domestico: furono i nazisti a pensare che favorirne lo sviluppo potesse contribuire a ridurre la disoccupazione femminile. Fin dal 1933-34 introdussero pertanto sgravi fiscali e riduzioni degli oneri previdenziali per incoraggiare le famiglie tedesche ad assumere domestiche, anche se questo peggiorava la posizione delle lavoratrici per quanto riguarda la pensione. Nel 1934 partì il Hauswirtschaftliches Jahr für Mädel per proteggere dalla disoccupazione le ragazze che, finiti gli studi, non trovavano impiego: esse venivano collocate per un anno presso famiglie selezionate in cui avrebbero appreso il lavoro, facendo propri i valori della «vera» donna tedesca. In teoria, la presenza di queste ragazze non avrebbe dovuto comportare il licenziamento di nessuna persona di servizio, né impedirne l’assun-zione, ma in pratica era impossibile far rispettare questa condizione. Nel 1934 fu introdotto l’insegnamento di economia domestica (Haus-wirtschaftliche Lehre), che permetteva di conseguire il titolo di collaboratrice familiare diplomata dopo un biennio di corsi, lavoro presso famiglie selezionate e il superamento di un esame (Keller 1950, 80-83).

In pochi anni la situazione in Germania cambiò radicalmente. Con la ripresa economica, la domanda di persone di servizio aumentò, mentre l’offerta si ridusse: le donne potevano trovare migliori opportunità di lavoro in altri settori. Le leggi che impedivano ai lavoratori agricoli di cambiare impiego acuivano il problema, rendendo difficile sopperire alla carenza grazie alle migrazioni dalla campagna. In cerca di una soluzione, grandi città come Berlino, Amburgo e Brema abolirono le norme (introdotte nel 1934) che limitavano le possibilità di lavoro per le domestiche immigrate, mentre le organizzazioni femminili incoraggiavano le ragazze ad andar a servizio sottolineando l’alto valore morale del lavoro domestico. Ma tali strategie si rivelarono insufficienti, e nel 1938 si decise di introdurre un anno di lavoro obbligatorio, vietando alle imprese, sia pubbliche sia private, di assumere ragazze di età inferiore ai 25 anni che non avessero già lavorato un anno in agricoltura o nel servizio domestico.

In una prima fase questo provvedimento ridusse la scarsità dell’of-ferta. Ben presto, però, famiglie che non potevano permettersi una «vera» domestica cominciarono a far domanda per l’assegnazione di un’economica Pflichtjahrmädchen, mentre le ragazze, spesso duramente sfruttate durante l’anno obbligatorio, si precipitavano verso altri settori non appena libere di farlo. Insomma, neanche questo provvedimento bastò a soddisfare le richieste, né ad espandere il peso

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del servizio domestico: secondo Willms (1983, 35), nel 1939 la percentuale delle domestiche tra le donne attive era la stessa che nel 1933 (10,5%); secondo Keller (1950, 88), nel 1940 ce n’erano addirittura meno che nel 1938. La scarsità era tale che nel 1939 le domestiche furono escluse dal lavoro obbligatorio nell’industria di guerra. Si pensava che avere un aiuto in casa incoraggiasse i tedeschi a mettere al mondo quei figli di cui tanto aveva bisogno la politica di potenza del regime. Le domestiche erano dunque necessarie al loro posto, e per mantenervele fu anche introdotto un contributo dotale per quelle che restavano almeno cinque anni in famiglie con tre o più bambini sotto i 14 anni. Quando vennero presi provvedimenti contro la mobilità della forza lavoro, alle famiglie con almeno un figlio sotto i 14 anni fu permesso di assumere una persona di servizio senza richiedere alcuna autorizzazione. Dal 1941 chi impiegava più di una domestica dovette informarne l’ufficio del lavoro, che poteva assegnare la seconda, terza, ecc. ad altre famiglie; dal 1942 le donne di servizio persero la libertà di rifiutare impieghi particolarmente faticosi. Dal 1943 chi usufruiva di qualche forma di aiuto domestico fu obbligato a darne notizia alle autorità, in modo che fosse possibile individuare le domestiche che avrebbero potuto lavorare di più (ossia essere assegnate a due famiglie). Durante la guerra, le domestiche furono esonerate dal Reichsarbeitdienst e dal Kriegshilfedienst (talvolta contro la loro stessa volontà), mentre le donne tedesche a servizio all’estero furono richiamate in patria. Cittadini dei paesi occupati furono infine costretti a lavorare come domestici in Germania. Come se non bastasse, nel 1942 si proibirono le inserzioni sui giornali relative al servizio domestico, per evitare che gli addetti potessero trovare posti di lavoro migliori di quelli in cui erano impiegati. Fin dal 1940, si erano peraltro fissati tetti salariali per bloccare la crescita delle remunerazioni dovuta allo squilibrio tra domanda e offerta di lavoro domestico (Keller 1950, 89-91; Winkler 2000; Henkes 1995).

Insomma, i nazisti fecero uno sforzo enorme per espandere il servizio domestico, ma senza ottenere i risultati sperati: negli anni ’30 il peso delle domestiche tra le donne attive non cambiò e rimase più basso che nel 1925. Essi intervennero nel settore anche con alcune linee guida che, pur senza essere vincolanti, miravano a regolare l’orario di lavoro e le relazioni tra il datore di lavoro e lavoratrice/tore. Né lo trascurarono nell’ambito della politica razziale: le leggi per la protezione del sangue e dell’onore tedesco (1935) vietarono agli ebrei di impiegare domestiche tedesche di meno di 45 anni, e questo per ridurre il rischio di rapporti sessuali tra le due «razze» (Bock 2001, 363-364).

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Anche le leggi razziali italiane del 1938 si occupavano di domestici: proibivano agli ebrei di avere al proprio servizio «cittadini italiani di razza ariana» (art. 12 del r.d.l. n. 1728 del 1938, convertito nella legge n. 38 del 1939). Il codice civile del 1942, inoltre, dedicò sette articoli al rapporto di lavoro domestico (artt. 2240-2246). Ma gli interventi dei fascisti volti a regolare il settore erano ben poca cosa rispetto a quelli delle autorità tedesche, tanto più alla luce del fatto che anche i (tardivi) articoli del codice non cambiavano in modo significativo la precedente deregulation del rapporto di lavoro domestico. Partendo dal riconoscimento della specificità di tale rapporto, non estendevano alle persone di servizio molti dei diritti di cui ormai godevano altre categorie di lavoratori (è significativo che nello stato fascista, di stampo corporativo, i domestici non vennero mai riuniti in una «corporazione»: Sarti 2001, 191; 2004, 37). D’altronde, a quanto mi risulta, non fu preso alcun provvedimento specifico volto, in modo esplicito e diretto, ad espandere il settore. L’aumento del numero delle lavoratrici domestiche, pur perfettamente coerente con le idee fasciste relative al ruolo femminile, fu una conseguenza della politica fascista relativa alle donne in generale o ad altri settori.

Il fascismo e il nazismo perseguirono in modo contraddittorio i rispettivi ideali della «sposa e madre esemplare» e della donna tutta dedita a Kinder, Küche und Kirche (De Grazia 1992; Bock 1992; 2001, 320-389). Paradossalmente, il numero, la percentuale e la composizione per sesso delle persone di servizio cambiarono più nell’Italia fascista, ben poco interventista in tale campo, che nella Germania nazista, impegnata in tutti i modi a sviluppare il settore. Paradosso nel paradosso, in Italia tale mutamento fu coerente con l’ideale di donna proposto dal regime. Se giudicate a partire dal servizio domestico, le contraddizioni relative al ruolo femminile sembrano dunque maggiori in Germania che in Italia.

E la Spagna? In base ai dati censuari, nel 1930 le domestiche erano addirittura il 30,9% delle donne attive: una percentuale molto più alta di quella rilevata, in quegli anni, in Francia (8,7%), Italia (11,4%), Germania (10,5%) e Inghilterra (26,3%), dove pure le lavoratrici domestiche erano numerosissime. In Spagna, tuttavia, le addette al servicio domé-stico avevano un’incidenza sul totale della popolazione (1,4%) più bassa, ad esempio, che in Germania, dove le Hausangestellte erano l’1,9%: l’alta percentuale tra le donne attive dipendeva dal limitato tasso di attività delle spagnole, pari al 9,1%, se calcolato sull’intera popolazione femminile (contro il 34,2% in Germania e il 18,6% in Italia). Nonostante tali differenze, il servizio domestico, in Spagna, tra

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gli anni ’20 e ’50 stava subendo trasformazioni simili a quelle avvenute in Italia tra le due guerre. Tra il 1930 e il 1950, la già altissima percentuale di domestiche crebbe ulteriormente, arrivando a toccare il 31,3% delle donne attive, mentre (come in Italia) l’incidenza dei domestici maschi tra gli attivi si ridusse dallo 0,6 allo 0,2%. Al tempo stesso, di nuovo come in Italia, il processo di femminilizzazione avanzò a grandi passi: le donne erano l’88,3% degli addetti nel 1930, il 96,5% nel 1950. In Italia tra il 1921 e il 1936 tale percentuale era balzata dall’85,4 al 95% (Sarti 2004); mentre non si rileva nulla del genere né in Francia, dove la femminilizzazione procedette a ritmi molto lenti, né in Inghilterra, dove negli anni ’30 la percentuale di donne tra i domestici era addirittura più bassa, seppur di poco, che negli anni ’20.

In Spagna, la modernizzazione avviata dalla Seconda Repubblica fu presto interrotta dalla guerra civile (1936-39) e dall’avvento del franchismo che, con la sua politica di difesa degli interessi dei grandi proprietari terrieri e di autarchia economica, tendeva a favorire l’offer-ta di manodopera femminile disposta a lavorare a basso costo nel settore domestico (Colectivo Ioé 2000, 155). Il personale domestico era d’altronde concepito come «clase de actividad imprescindibile» (la cui mancanza avrebbe potuto provocare una «catéstrofe moral y social») per il funzionamento di una società basata sugli ideali cristiani e latini di cui la famiglia era «la piedra fundamental» (Garcia Araujo 1958, 57-59). Le politiche volte a realizzare il programma secondo cui «la sola missione che la Patria ha affidato alle donne è la casa»14 (in particolare allontanando dal mercato del lavoro le lavoratrici sposate) contribuivano all’importanza del servizio domestico (Muñoz Ruiz 2005). Tale importanza crebbe ulteriormente, sembra, dopo che nel 1959 venne abbandonata l’autarchia e fu avviata una politica di sviluppo che implicò flussi migratori verso le città (e altri paesi europei: Colectivo Ioé 2000, 155; Mirás-Araujo s.d.).

In conclusione, questa rapida carrellata relativa alla situazione di diversi paesi europei non sembra consentire una pura e semplice associazione tra regimi «fascisti» e crescente incidenza del servizio domestico. Altre variabili vanno prese in considerazione: nelle pagine che precedono abbiamo analizzato quelle relative all’andamento economico e alle politiche relative al lavoro delle donne. Se Germania e Italia si sono rivelate piuttosto diverse, sembrerebbero emergere

14 Pilar Primo de Rivera, salutando la vittoria del Caudillo, nel 1939, davanti a diecimila donne della Falange femminile (Bussy Genevois 1992, 227).

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maggiori elementi di somiglianza tra i casi italiano e spagnolo, dove sembra essersi verificata un’espansione del servizio domestico dovuta esclusivamente alla sua diffusione tra le donne, che pertanto sarebbe all’origine di una marcata femminilizzazione del mestiere nel periodo analizzato.

4. Welfare al Nord, famiglia al Sud, lavoratori domestici ovunque?

Negli anni ’30, mentre le donne italiane dovevano fronteggiare gli sforzi fascisti di espellerle dal mercato del lavoro o di marginalizzarle, Alva Myrdal e altre donne svedesi discutevano di come combinare famiglia e carriera. In Svezia il bisogno di donne istruite stava crescendo, e sembrava inevitabile che il «gentil sesso», negli anni successivi, sarebbe stato più coinvolto nella sfera produttiva, anche se molti uomini consideravano con preoccupazione tale eventualità a causa dell’alto tasso di disoccupazione. Myrdal pensava che, per risolvere il problema, assumere persone di servizio fosse la soluzione migliore. Ma, non appena la ripresa economica si tradusse nella creazione di nuovi posti di lavoro, divenne difficile trovare persone di servizio. Così il lavoro domestico diventò una questione di interesse nazionale, specie alla luce del fatto che il tasso di fecondità si stava riducendo, il che sembrava riflettere la difficoltà, per le donne, di conciliare lavoro e famiglia.

Poiché né i progressi tecnologici, in cui si era riposta tanta fiducia negli anni precedenti, né la diminuzione della produzione domestica

TAB. 2.Spesa sociale, lavoratori domestici e tasso di attività femminile in diversi paesi europei all’inizio degli anni ottanta

Paese% spesa sociale

sul Pil (1981)

% lavoratori domestici sulla popolazione attiva (1980-82)

Tasso di attività femminile

(1981)

Spagna 17,0 3,4 33,3Norvegia 17,9 2,7 65,9Italia 19,8 0,9 39,6Francia 22,2 1,4 55,9Germania 23,7 0,6 53,1Svezia 29,8 0,05 77,2Fonte: Oecd, Social Expenditure Database 2004 (www.oecd.org/els/social/depenses); Oecd, Labour Market Statistics 2004 (www1.oecd.org/scripts/cde). Per i dati relativi ai lavoratori domestici, vedi tab. 1. Non dispongo di dati comparativi per la Gran Bretagna.

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per l’autoconsumo si rivelarono sufficienti ad eliminare il bisogno di persone di servizio, si pensò di trasformare una parte importante del lavoro domestico in lavoro salariato alle dipendenze dello stato, progetto realizzato grazie a una crescente organizzazione collettiva del lavoro riproduttivo. Questo tipo di intervento ridusse sia la domanda sia l’offerta di lavoratori domestici, poiché gli addetti impiegati nei nuovi servizi pubblici godevano di migliori condizioni di lavoro rispetto ai domestici privati, il cui numero si ridusse drasticamente (Platzer 2006). Essi erano il 2,9% della popolazione attiva nel 1950, ma solo lo 0,005% nel 1990 (tab. 1).

Anche altri paesi con sistemi di welfare ben sviluppati furono caratterizzati da una notevole riduzione dei lavoratori domestici. Nella Repubblica Federale Tedesca si ridussero dal 4,1% degli attivi del 1951 al 2,3% del 1961, fino a toccare lo 0,6% nel 1970 e nel 1980 (tab. 1). Inoltre, quelli coresidenti scomparvero rapidamente, tanto da essere rari già negli anni ’50 (Odierna 2000, 68-70).

Alla luce di tutto ciò, non stupisce che nel secondo dopoguerra autori tedeschi si chiedessero se migliorare le condizioni di lavoro sarebbe bastato ad arrestare la fuga dal servizio domestico (Hausflucht) e a tenere in vita tale occupazione (Keller 1950, 101); che autori norvegesi considerassero ormai in crisi il ruolo delle domestiche (Aubert 1955)15; e che, negli anni ’70, si parlasse della sua «obsolescenza» («that role is dying», affermava Coser 1973, 39). Al coro si univa anche qualche voce italiana. Scriveva all’inizio degli anni ’50 Gianluigi Degli Esposti, pur consapevole della «grande arretratezza» dei rapporti tra domestici e datori di lavoro: «il mutato vivere sociale, l’assorbimento da parte dell’industria di molto per-sonale femminile, la progressiva meccanizzazione dei servizi, anche quelli domestici, tendono a rendere anacronistica la stessa figura della domestica tuttofare, a meno che essa non debba servire agli ozi della signora» (1953, 58-59).

In effetti, le cose stavano cambiando anche in Italia: la stabilità del-l’incidenza dei lavoratori domestici sulla popolazione attiva tra il 1951 e il 1961 (1,9%) nascondeva una drastica riduzione del personale coresidente (Colombo 2005). Un’analoga stabilità, ugualmente

15 In Norvegia, secondo Sogner (2005), negli anni ’60 «il numero dei lavoratori domestici stava… avvicinandosi a zero» (anche Schrumpf 2002). I dati della tab. 1 non confortano però queste conclusioni. È possibile che la categoria «impiegata» (Personlig tjenesteyting) non comprenda solo lavoratori domestici. Purtroppo non sono riuscita a reperire informazioni sulla sua composizione. In base ai dati di Unione Europea (1998), nel 1997 erano solo lo 0,3%.

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ingannevole, caratterizzava l’Inghilterra, dove negli anni ’50 i live-in divennero appannaggio di poche famiglie al vertice della scala sociale (Giles 2001, 301; Sarti 2005b). Nel nostro paese, la trasformazione fu ancor più marcata nei due decenni successivi: nel 1981 i lavoratori domestici (coresidenti e non) erano solo lo 0,9%.

All’epoca essi erano meno dell’1% degli attivi in vari paesi europei. Significativamente, con l’eccezione dell’Italia, la loro incidenza sulla popolazione attiva risultava tanto più bassa, quanto più alta era la percentuale del Pil consacrata alla spesa sociale. Nei paesi con sistemi di welfare meno sviluppati, come in Spagna, tale incidenza era particolarmente alta: il 5,1% nel 1950, il 3,4% nel 1981 (tabb. 1 e 2). In parte, le trasformazioni del secondo dopoguerra implicarono pertanto un ribaltamento di equilibri secolari: per molto tempo, e ancora nella prima metà del ’900, i domestici (almeno quelli coresidenti) erano stati più numerosi nell’Europa centrale e settentrionale che in quella mediterranea, mentre ora in vari paesi nordici stavano riducendosi a ritmi molto più sostenuti che in paesi mediterranei come la Spagna e, in minor misura, l’Italia (tab. 1).

La tab. 2 suggerisce che i lavoratori domestici privati non sono affatto una necessità (come invece spesso si ripete: Andall 2003; Ale-mani 2004) se ci sono buoni servizi pubblici. Ovviamente tali dati non possono essere considerati conclusivi. Nei primi anni ’80 i lavoratori irregolari che sfuggivano alle statistiche erano probabilmente meno di oggi (Odierna 2000; Sarti 2004, 19), ma in ogni caso si tratta di approssimazioni. L’entità complessiva della spesa per servizi sociali in rapporto al Pil è, inoltre, un indicatore rozzo, che sarebbe opportuno affinare analizzandone la composizione: Sciortino (2004) ha recentemente mostrato che, oggi, il ricorso a personale domestico privato sembra essere maggiore dove la spesa sociale comporta trasferimenti monetari più che offerta di servizi.

Pur con tutti i loro limiti, i dati della tab. 2 suggeriscono, inoltre, che alti tassi di attività femminile non implicano necessariamente alte percentuali di lavoratori domestici sulla popolazione attiva, smentendo l’idea che l’unica possibile soluzione, in società in cui le donne lavorano fuori casa, sia quella di delegare i lavori domestici e di cura a persone di servizio. Infatti, nei primi anni ’80 la Svezia era allo stesso tempo il paese in cui la percentuale di lavoratori domestici risultava più bassa e il tasso di attività femminile più alto; i termini si ribaltavano in Spagna (tab. 2).

Va ricordato che i sistemi di welfare del Nord Europa sono basati sull’assunto che le donne, pur ampiamente impegnate nel mercato del

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lavoro, avrebbero continuato a svolgere una parte importante del lavoro di cura. Non a caso fino a tempi recenti molte erano impiegate part-time. Ma, a partire dagli anni ’80, le donne scandinave hanno cominciato a lavorare sempre più spesso a tempo pieno, mentre gli uomini hanno assunto solo in piccola parte i compiti domestici e di caring. E questo proprio nel momento in cui l’invecchiamento della popolazione e la ripresa dei tassi di fecondità stavano aumentando il bisogno di care. Svedesi e norvegesi stanno sperimentando nuove strade per rispondere a questi nuovi bisogni. La Norvegia, ad esempio, favorisce il trasferimento degli anziani in Spagna, dove il costo dell’assistenza è relativamente basso e quindi grava meno sulla spesa pubblica. Sia in Svezia sia in Norvegia i datori di lavoro hanno cominciato ad offrire servizi domestici ai loro dipendenti (talvolta solo alle donne!) come wage benefits. Allo stesso tempo, tuttavia, in entrambi i paesi si registra un ricorso crescente ai lavoratori domestici privati, anche coresidenti (Widding Isaksen 2005; Platzer 2006).

Italia e Spagna hanno un sistema di welfare molto diverso rispetto ai paesi scandinavi: esso si basa sull’assunto che le famiglie (ma sarebbe più corretto dire: le madri e le mogli) provvedano a buona parte del lavoro di cura (Saraceno 1997; Sciortino 2004). Fino a tempi recenti il sistema reggeva perché, sebbene i servizi pubblici per bambini e anziani fossero limitati, le donne che avevano un lavoro extradomestico erano poche e spesso si ritiravano dal mercato del lavoro al momento del matrimonio. Tassi crescenti di attività femminile hanno reso precario questo equilibrio16, al punto che il crollo

16 In base a dati dell’Ocse (www1.oecd.org/scripts/cde), il tasso di attività femminile, in Italia, era il 39,6% nel 1981, il 47,8% nel 2001; in Spagna era,

TAB. 3. Spesa per servizi domestici a prezzi costanti (1995) in Gran Bretagna (in milioni di sterline)

Anno Spesa Anno Spesa Anno Spesa

1963 2080 1978 993 1993 35011966 2033 1981 1134 1996 40001969 1777 1984 1433 1997 40881972 1519 1987 2163 1998 39921975 1364 1990 2805

Fonte: Expenditure on Domestic Services at Constant Prices, 1963-1998 (Selected Years): Social Trends 30 (www.statistics.gov.uk/StatBase/xsdataset.asp?vlnk=480&Pos=&Col-Rank=1&Rank=272). I servizi domestici comprendono «domestic help, childcare payments and nursery, creche and playschool payments».

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dei tassi di fecondità in Italia e in Spagna – oggi i più bassi al mondo con 1,2-1,3 figli per donna – può essere visto (anche) come risposta alle difficoltà di conciliare lavoro e famiglia quando l’impegno e l’investimento femminile nel mercato del lavoro crescono (Bettio e Villa 1998). Questa drastica risposta non basta, tuttavia, ad annullare gli squilibri, tanto più in contesti in cui l’allungamento della vita media è sensibile e di conseguenza c’è un notevole bisogno di lavoro di cura. Le famiglie, pertanto, in particolare quelle con bambini e anziani (Colombo 2005), fanno crescente ricorso a servizi domestici a pagamento. Il fatto che in Italia quasi il 60% della spesa sociale sia rappresentata da pensioni (Kubitza 2004) favorisce questa strategia (Sciortino 2004).

In conclusione, tanto nell’Europa del Nord quanto in quella mediterranea sembra essere in corso una sorta di revival del lavoro domestico salariato (parrebbe anche coresidente). In realtà, non possediamo solidi dati su cui basare questa affermazione, perché molti lavoratori domestici sono immigrati irregolari e perché, in ogni caso, gli uffici statistici non ne rilevano adeguatamente la presenza. Dagli anni ’80, a causa della drastica riduzione del personale domestico negli anni precedenti, spesso si è ritenuto inutile classificarlo in una categoria indipendente, con il paradossale risultato che mancano le informazioni proprio a partire dal periodo in cui – secondo molti studiosi (Andall e Sarti 2004, con riferimenti) – si sarebbe avviata una «rinascita» del servizio domestico. Comunque, in base ai dati censuari, tanto in Norvegia quanto in Germania la percentuale di lavoratori domestici sugli attivi sarebbe oggi più alta che nei primi anni ’80 (tab. 1). In Germania (nei territori ex-federali), secondo Mayer-Ahuja (2004), il numero degli impiegati domestici privati sarebbe cresciuto da 667 mila nel 1987 a 1,2 milioni nel 1997, mentre, secondo la Commissione Hartz, ci sarebbero oggi, in tutto il territorio tedesco, tra 1,2 e 2,9 milioni di rapporti di lavoro irregolari nel settore domestico (Sarti 2005d, con riferimenti). In Gran Bretagna la spesa per servizi domestici, dopo essere diminuita fino al 1975, ha avuto una netta ripresa dal 1978 (tab. 3). In Francia, secondo Amossé (2001), si è verificata negli ultimi anni un’«explosion de l’aide à domicile»: assistantes maternelles, gardiennes d’enfants e travailleuses familiales sarebbero cresciute dalle 261.440 del 1990 alle 538.390 del 1999. In Italia, secondo le stime di contabilità nazionale (che però suscitano varie perplessità: Colombo 2005), i lavoratori domestici sarebbero

rispettivamente, il 33,3% e il 51,9%.

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passati dai 953.900 del 1992 ai 1.049.500 del 2000. La recente sanatoria ha d’altronde fatto balzare il totale di quelli regolari dai circa 250 mila degli ultimi anni (Sarti 2004, 18) ai 600 mila circa attuali, per quanto anche in questo caso il dato vada assunto con prudenza, visto il rischio di regolarizzazione di rapporti fasulli (Inps/Caritas 2004).

Pur con tutte le cautele del caso, l’impressione è che si sia di fronte a un fenomeno rilevante, tanto più se si considera che sembra lecito aspettarsi un’ulteriore espansione dei lavoratori domestici. Fanno propendere per questo scenario le attuali tendenze demografiche e socio-economiche, specie l’invecchiamento della popolazione, i crescenti tassi di attività femminile e la difficoltà di creare nuove forme di welfare. Ma inducono a tali attese anche le politiche volte a fare dei cosiddetti proximity employments un’area di espansione dell’occupazione regolare (Cette et al. 1998; Parlamento europeo 2000): tra l’altro lo scopo sarebbe quello di creare posti di lavoro «veri», tutelati, dignitosi, ma in molti casi si è riusciti finora a creare soprattutto lavoro «grigio», precario, simile, agli occhi di molti, ai vecchi rapporti servo-padrone (Sarti 2005b, con riferimenti). Spingono, infine, a tali previsioni gli squilibri su scala globale, che fanno sì che oggi, a differenza di quanto avveniva un secolo fa, molte persone siano disposte a lavorare come domestici o «badanti» in Europa occidentale a prezzi contenuti rispetto alle disponibilità dei datori di lavoro, reali e potenziali (in Italia, tra i lavoratori domestici iscritti all’Inps, negli ultimi trent’anni gli stranieri sono passati dal 5-6% all’80% circa: Sarti 2004; Inps/Caritas 2004).

Aveva scritto Deslinières: «il momento in cui non si troveranno più domestici tra i francesi corrisponderà a un grado di benessere legato a un accrescimento enorme della produzione. Allora andremo a cercare domestici nel Celeste Impero, la cui popolazione troppo numerosa filtra ovunque trovi una via d’uscita» (1899, 369-370). Continuava rassicurando il lettore che i cinesi erano «eccellenti servitori» e che se ne sarebbero potuti «importare alcune centinaia di migliaia». E ciò senza neppure temere una diffusione della «razza gialla», visto che le autorità dello stato collettivista di cui Deslinières sognava la realizzazione avreb-bero potuto regolarne il flusso in base alle esigenze interne. Le sue previsioni non possono fare a meno di colpire, e non solo per la sovrapposizione di filantropismo verso i ceti popolari europei e razzismo verso gli extraeuropei, ma anche per la previsione che la domanda di lavoratori domestici sarebbe stata soddisfatta «importando stranieri»: una previsione praticamente esatta, a differenza di tante altre, anche se oggi i lavoratori domestici non arrivano dalla Cina ma da altri

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paesi (asiatici, africani, est-europei). Per Deslinières, tuttavia, il ricorso agli stranieri avrebbe caratterizzato una fase intermedia dello sviluppo. Che avesse ragione? Se così fosse, dovremmo chiederci quando il processo verso la scomparsa dei lavoratori domestici riprenderà il suo cammino.

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Appendice. Fonti della tab. 1

Nei casi di rilevazioni censuarie a scadenze quinquennali sono forniti due dati per ogni decennio.

SveziaRingrazio Beatrice Kalnins (Scb Bv/Bi) per avermi fornito i dati dei censimenti svedesi del 1950, 1960, 1970 e 1990 e Lotta Vikström per l’aiuto nella traduzione dei termini. La categoria è quella dei hushållsarbete (lavoratori domestici); nel 1970 anche le babysitter (barnsköterska) sono incluse in tale categoria, insieme ai servitori domestici (hembiträde). Nel 1990 la categoria include au-pairs (barnflicka), servitori domestici (hembiträde), collaboratrici familiari (hemhjälp), governanti (hushållerska), lavoratori domestici (hushållsarbete), assistenti private (hushållsbiträde), sovrintendenti (husmoder). I dati relativi al 1980 sono invece tratti da Statistiska Centralbyrån (1983, 49, tab. 2.3.2, categoria hushållsarbete).

Norvegia Vedi: www.ssb.no/historisk/tabeller/9-9-1t.txt (1875-1990); www.ssb.no/eng-lish/yearbook/tab/t-0601-245.html (2001). In Norvegia la popolazione attiva si riferisce alle persone di età pari o superiore a 15 anni tra il 1875 e il 1960; a 16 anni o più dal 1970; di età compresa tra i 16 e 74 anni nel 2001. Nel 1980, 1990 e 2001 sono stati considerati attivi coloro che hanno lavorato almeno 1000 ore all’anno perché «there is a good correlation between working at least 1000 hours per year and having a main occupation as the main source of live-lihood, a term used in earlier censuses». La categoria relativa al servizio domestico in teoria non dovrebbe includere servi agricoli. Tuttavia probabilmente comprende persone che hanno svolto anche lavoro agricolo a causa della difficoltà, o impossibilità, di distinguere chiaramente i servi agricoli da quelli domestici (Thorvaldsen 2005); ringrazio l’autore per avermi permesso di usare questo lavoro ancora inedito. Secondo Thorvaldsen, se si considerano tutti i tipi di servi, la loro incidenza sul totale delle persone di età pari o superiore a 15 anni era il 10,9% nel 1866, l’11% nel 1900 (cioè il 19,9% della popolazione attiva, secondo i miei calcoli).

Inghilterra e GallesMiei calcoli sui dati forniti da Woollard (2005) per il periodo 1851-1951 (ringrazio l’autore per avermi permesso d usare questo lavoro, ancora inedito). Per il periodo 1961-1991: data fornitimi dallo United Kingdom Census Customer Services (ringrazio Sue Bates per l’invio di tale materiale): Census 1961, Occupation Table England and Wales, categoria XXIII, alcuni sottogruppi, si veda infra, tavola al 10%; Census 1971, Economic Activity Table Great Britain, categoria XXIII, alcuni sottogruppi, si veda infra, tavola al 10%; Census 1981, Economic Activity Great Britain, tavola al 10%; 1991 Census Economic Activity Report for Great Britain, tavola al 10%. I dati relativi al 2001 sono disponibili sul sito www.statistics.gov.uk/StatBase/Expodata/Spreadsheets/D7526.xls, ma i lavoratori domestici sono classificati con altre categorie di lavoratori, per cui le informazioni risultano inutilizzabili ai fini del presente lavoro (per la

Questa appendice non è compresa nella versione a stampa dell’articolo su «Polis».

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classificazione usata vedasi www.statistics.gov.uk/methods_quality/ns_sec/downloads/Soc2000.doc). Woollard spiega che la popolazione attiva comprende le persone di età pari o superiore a 5 anni dal 1851 al 1881; 10 anni dal 1891 al 1911; 12 anni nel 1921; 14 anni nel 1931; 15 anni nel 1951. Per gli anni successivi è pari o superiore a 16 anni nel 1981 e 1991, da 16 a 74 anni nel 2001. In base alle istruzioni date agli ufficiali del censimento, i servi agricoli non avrebbero dovuto essere classificati come domestici. I censimenti inglesi permettono di costruire una categoria di servizio domestico selezionando alcune delle sottodivisioni incluse nella più ampia categoria delle occupazioni di servizio. Ho considerato le seguenti sottodivisioni:1851: Domestic servant (general), coachman, groom, gardener, housekeeper,

cook, housemaid, nurse, charwoman.1861: Domestic servant, coachman, groom, gardener, housekeeper, cook,

housemaid, nurse, laundry maid, charwoman, park/gate/lodge keepers (nel 1861 cuochi e nurses che non facevano parte del personale domestico vennero classificati separatamente e non qui sono considerati; le lavandaie (laundry maids) sono invece incluse perché probabilmente la classificazione si riferisce solo alle lavandaie domestiche, come nel censimento successivi.

1871: Domestic servant (general), domestic coachman, domestic groom, do-mestic gardener, domestic cook, domestic housemaid, domestic nurse, domestic laundry-maid, housekeeper, charwoman, ladies companion, park/gate/lodge keeper (not government).

1881: Domestic coachman, groom, domestic gardener, domestic indoor ser-vant, lodge/gate/park keeper (not government), charwoman.

1891: Domestic indoor service, lodge/gate/park keeper (not government), charwoman. in questo censimento domestic coachmen, grooms e gardeners non vengono classificati con i domestici ma con i loro colleghi non domestici. Inoltre, nel 1891 «all female relatives and daughters returned as “helping at home” are to be included with domestics», con una scelta diversa da quella fatta nei censimenti precedenti e successivi (Ebery e Preston 1976, 13; Higgs 1987, 59-81; Woollard 2005). Usando dati rielaborati da Charles Booth nell’Ottocento e da W.A. Armstrong nel 1972, Ebery e Preston forniscono informazioni sul numero di coachmen, grooms and gardeners (1976, 111). In base ai loro dati, nel 1891 i domestici erano il 12,6% degli occupati (calcolo mio).

1901: Other domestic indoor servants [cioè domestic indoor servants che non lavoravano in hotels, lodging houses, and eating houses], domestic coachmen - grooms, domestic gardeners, charwomen.

1911: Other domestic indoor servants [cioè domestic indoor servants che non lavoravano in hotels, lodging houses, and eating houses], domestic coachmen - grooms, domestic motor car drivers - motor car attendants, domestic gardeners, park/lodge/gate keepers (not government), day girls - day servants, charwomen.

1921: Domestic servants (indoor), charwomen, office cleaners (charwomen e office cleaners sono nella stessa categoria, non è possibile separare le une dagli altri; comunque il numero totale di persone classificate in questo gruppo è simile a quello del 1911, quando la categoria si chiamava solo charwomen). Gardeners, coachmen e grooms non sono più classificati con i domestici.

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1931: Domestic servants (indoor), charwomen - office cleaners (charwomen e office cleaners sono classificati nella stessa categoria).

1951: Charwomen - office cleaners, domestic service indoor: chefs - cooks, kitchen hands, chambermaids - housemaids - parlourmaids, other do-mestic servants (indoor).

1961: Maids, valets and related service workers n.c.c., charwomen, office cleaners, window cleaners (categoria unica per charwomen, office cleaners, and window cleaners, senza sottogruppi).

1971: Domestic housekeepers, maids, valets and related service workers n.c.c., charwomen, office cleaners, window cleaners, chimney sweeps (categoria unica, senza sottogruppi, per charwomen, office cleaners, window cleaners, and chimney sweeps).

1981: Domestic services (senza sottodivisioni).1991: Domestic staff and related occupations (senza sottodivisioni).

Germania1882-1933: Statistisches Reichsamt (1934, 16, categoria Häusliche Dienste).

Dati standardizzati in base ai criteri adottati nel 1933. I dati non comprendono la Saar.

1939: Miei calcoli sui dati forniti da Willms (1983, 176-177, tabb. A2 and A3, categoria Häusliche Dienste).

1951: Statistisches Bundesamt (1954, 126, categoria Häusliche Dienste, 30 giugno 1951). I dati per il periodo 1951-1981 si riferiscono solo alla Repubblica Federale Tedesca.

1961: Statistisches Bundesamt (1962, 151, categoria Häusliche Dienste, 30 settembre 1961; include Berlino Ovest).

1970: Miei calcoli sui dati forniti da Willms (1983, 176-177, tabb. A2 and A3, categoria Häusliche Dienste).

1980: Statistisches Bundesamt (1982, 98, categoria Hauswirtschaftliche Berufe, aprile 1980).

2001: Statistisches Bundesamt (2002, 107, categoria Haus- und ernährungswirtschaftliche Berufe, aprile 2001). Il dato si riferisce alla Germania riunificata.

BelgioPiette (2000, 42-51).1856: Nel 1856 la categoria del servizio domestico includeva: cochers,

femmes de chambre et bonnes d’enfants; servantes, nourrices, gardes-couches, portiers, concierges, valet de chambre, domestiques autres que ceux attachés aux exploitations agricoles et autres serviteurs . La percentuale fornita da Piette (ivi, 47) è 3,9%, ma rifacendo il calcolo con i dati da lei pubblicati, risulta 3,7%.

1866: La classificazione del 1866 differisce da quella del 1856 per il fatto che vi sono aggiunti i palefreniers. Sebbene le categorie impiegate fossero pressoché identiche, nel 1866 il numero di domestici era inverosimilmente più alto che nel 1856.

1880: Domestiques chargés de la manutention et de la préparation des vivres: économes, cuisiniers et cuisinières, sommeliers; Domestiques préposés aux services des personnes: valets de chambre; valets de pied, laquais, piqueurs, femmes de chambre, nourrices, bonnes d’en-fants, servantes; Domestiques chargés de conduire ou de soigner les chevaux ou les chiens: cochers de maison, cochers de fiacres, pos-tillons, charretiers, palefreniers, jockeys, entraîneurs, veneurs. In

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questo censimento portieri, guardiacaccia, guardie forestali e camerieri (non domestici) non sono più inclusi tra i domestici. Non sono comprese neanche le governanti (di cui non si sa come fossero classificate nei censimenti precedenti).

1890: Stessa classificazione che nel 1880.1900: Stessa classificazione che nel 1880.1910: Domestiques chargés de la manutention et de la préparation des vivres

(y compris les servantes); Domestiques au service des personnes; Do-mestiques chargés de conduire les chevaux etc. In questo censimento vengono aggiunte due nuove categorie: 1) femmes de ménage, frotteurs et cireurs; 2) dame, demoiselle de compagnie, lectrice, sténographe ou dactylographe (en dehors d’une entreprise industrielle et commerciale ou d’un service public). Seguendo Piette, non le ho considerate. Se le avessi incluse, la percentuale dei lavoratori domestici sul totale degli attivi sarebbe 5,9%. Governanti e personale di ristoranti e hotel non sono inclusi.

FranciaMarchand e Thelot (1991, 187, table 6t). I dati sono stati uniformati dagli autori. Si vedano le pp. 80-85 per le definizioni di popolazione attiva e i metodi usati. La categoria di domestiques de la personne include: domestiques, femmes de ménage, cochers, cuisiniers, nourrices, dames de compagnie, em-ployés des rentiers (mentre i cosiddetti ouvriers des rentiers non sono compre-si, né sono compresi domestiques des exploitations agricoles, gardiens e concierges : ivi, 109 e 103).

Spagna1860-1887: Dubert (2006). Ringrazio l’autore per avermi permesso di far

riferimento a questo lavoro inedito. 1900: Ine (1907, 216-219, categoria sirvientes domésticos). Il censimento

non riporta il totale della popolazione attiva. L’ho calcolato io sottraendo dal totale le seguenti categorie: personas que viven principalmente de su rentas (categoria IX), miembros de la familia (tutte donne, categoria IX-55-a), improdudctivos, profesión desconocida, (categoria XII).

1930: Ine (1930, 8-9, categoria servicio doméstico). Il censimento non riporta il totale della popolazione attiva. L’ho calcolato io sottraendo dal totale le categorie XXIII-XXVII, cioè rentistas y pensionistas, problación escolar, improdudctivos, miembros de la familia, profesión desconocida.

1940: Ine (1945, 11 e 15, categoria servicio doméstico). Il censimento non riporta il totale della popolazione attiva. L’ho calcolato io sottraendo dal totale le categorie XXIII-XXVII, cioè rentistas, retirados, alumnos primera enseñanza, estudiantes, acogidos, hospitalizados, presos, mendigos, etc., sin trabajo, sin profesión, miembos de familia, niños pequeños, desconocida.

1950: Ine (1959, 588-590, 593-597, categoria servicios domesticos y análo-gos). In questo censimento la popolazione è classificata anche in base al luogo di lavoro. In base a questa classificazione, le persone impiegate nel servizio domestico risultavano il 4,9%.

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1981: Ine 1985 (75 e 76-77, categoria servicios personales y domesticos). La popolazione attiva include la popolazione di età pari o superiore a 16 anni.

ItaliaMiei calcoli sui censimenti della popolazione italiani. Per maggiori dettagli Sarti (1999; 2000; 2001). Per quanto concerne la popolazione attiva, nel primo censimento (1861) ho costruito io stessa la categoria degli attivi sottraendo dal totale della popolazione i «possidenti», i «poveri», le persone «senza professione» (Istat 1867, 79); lo stesso dicasi per il 1871, in cui ho calcolato gli attivi sottraendo dal totale della popolazione di fatto la categoria 17, che comprende «personale a carico altrui» e persone «senza professione», e la categoria 5 («proprietà mobiliare e immobiliare»; Istat 1876, 174-177); per gli anni dal 1881 al 1961 ho usato i dati relativi alla popolazione attiva forniti da Vitali (1970, 327); per il 1971 e 1981 quelli direttamente reperibili sui censimenti. Mente nei primi due censimenti le tabelle relative alla popolazione per professioni non escludevano i bambini, nel 1881 e 1901 tali tabelle includevano le persone di età pari superiore a 9 anni; dal 1911 al 1961 le tabelle relative alla popolazione per professioni o la popolazione includevano le persone di età pari o superiore a 10 anni; nel 1971 e 1981 quelle di età pari o superiore a 14 anni. Fino al 1981, la maggioranza dei censimenti italiani permette di costruire una categoria di servizio domestico a partire da alcune delle sottocategorie in cui si articolano più ampie classificazioni. Il censimento del 1991 fornisce invece dati a un livello di aggregazione che non permette di individuare gli addetti ai servizi domestici (i relativi raggruppamenti della classificazione professionale – 5.5.3.2, 8.4.2.1 e 8.4.2.2 – non compaiono in nessuna delle tabelle pubblicate; nel 2001 sono disponibili solo i dati relativi agli occupati nei «servizi domestici presso famiglie e convivenze» (dawinci.istat.it/daWinci/jsp/MD/dawinciMD.jsp?a1=m0GG0a0W&a2=m00Y8001W&n=1UH95909OG07F&v=1UH17O09OG000000000), peraltro presenti anche in altri censimenti, tra cui quello del 1991 (Istat 1995, 108, tav. 2.24, e 339-355, tav. 4.22): tra 1991 e 2001 risultano comunque cresciuti dallo 0,7% all’1,3% degli occupati. Per il periodo 1861-1881 ho considerato le seguenti categorie:1861: Categoria domesticità, senza sottocategorie (Istat 1867, 79 e 102-103).1871: Impiegati privati, intendenti e maggiordomi; camerieri senza speciale

qualificazione; governanti, servi, domestici, portinaj, guardiani etc., nutrici e balie (Istat 1876, 310-312). Senza impiegati privati, intendenti e maggiordomi la percentuale dei domestici sarebbe il 3,1%.

1881: Intendenti ed esattori privati, scritturali e copisti (solo privati); governanti e damigelle di compagnia; nutrici; cuochi, credenzieri e dispensieri; servitori domestici, portinaj e fantesche (Istat 1884, 682-683). Senza i primi due gruppi (intendenti, ecc., scritturali, ecc.) la percentuale dei domestici sulla popolazione attiva sarebbe il 3,7%.

1901: Governanti, camerieri, cameriere, nutrici, servitori, cuochi, sguatteri, portieri e altre persone addette ai servizi domestici . Gruppo unico. Intendenti, maestri di casa, segretari, contabili, esattori, scritturali non sono più classificati con i domestici (Istat 1904, 28-29).

1911: Domestici. Gruppo unico (Istat 1915, 24).1921: Addetti ai servizi domestici (comprende domestici, cuochi, portieri;

balie, damigelle di compagnia, governanti ed istitutrici). Gruppo unico (Istat 1927, 11; Istat 1928, 188*-189*).

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1931: Domestici, cuochi, balie, damigelle di compagnia, governanti ed istitutrici, autisti, ecc. Nel 1931 i portieri vengono classificati in una sottocategoria diversa da quelle in cui sono classificati i domestici (Istat 1935, 112 ss.). Se si sommano i portieri ai domestici, creando così una categoria più simile a quella del 1921, la percentuale sulla popolazione attiva risulta il 3,1%. Per avere una categoria più o meno analoga a quella del 1921, oltre ai portieri andrebbe però sommato anche il «personale di servizio o di fatica dipendente da professionisti ed artisti (esclusi gli autisti)» (classe 50, n. d’ordine 268, n. convenzionale D76). Trattandosi di pochi individui, la percentuale sul totale della popolazione attiva resterebbe comunque pari al 3,1%.

1936: Ascensoristi, grooms; cuochi; dame di compagnia; domestici; guardarobieri, dispensieri, ecc.; nutrici e balie; maggiordomi, cerimonieri, maestri di casa; sguatteri e basso personale di cucina. Nel 1936 i portieri vengono classificati in una categoria completamente diversa. Questo censimento distingue le persone che lavorano nell’ambito dell’economia domestica da quelle che lavorano in altri settori. Per ognuna delle sottocategorie qui elencate, ho considerato solo gli impiegati nell’economia domestica (Istat 1939, 742-743 e 735-736).

1951: Maggiordomi e simili; domestici; nutrici e balie; altri (Istat 1957, 568-569).

1961: Professioni inerenti ai servizi domestici (Istat 1967, 46-47).1971: Domestici (Istat 1977, 7). 1981: Domestici (Istat 1985, 347).

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Istat***

1867 Statistica d’Italia. Popolazione. Parte I. Censimento generale (31 dicembre 1861), Firenze, Barbera.

1876 Statistica del Regno d'Italia. Popolazione classificata per professioni. Culti e infermità principali. Censimento 31 dicembre 1871 , vol. III, Roma, Regia tipografia.

1884 Censimento della popolazione del Regno d'Italia al 31 dicembre 1881 , vol. III, Popolazione classificata per professioni o condizioni, Roma, Tipografia bodoniana.

1904 Censimento della Popolazione del Regno d'Italia al 10 febbraio 1901 , vol. III, Popolazione presente classificata per professioni o condizioni , Roma, Tipografia nazionale di G. Bertero e C.

1915 Censimento della Popolazione del Regno d'Italia al 10 giugno 1911, vol. IV, Popolazione presente, di età superiore a dieci anni, classificata per sesso e per professione o condizione (Tav. VI) , Roma, Tipografia Nazionale di G. Bertero e C.

** L’Istituto National de Estadistica fu creato nel 1945. Per il nome esatto degli uffici statistici spagnoli nel periodo precedente si veda: www.ine.es/ine/historia.htm. Si è qui preferito indicare «Ine» anche per il periodo precedente al 1945 in modo da poter elencare in ordine cronologico tutti i censimenti spagnoli analizzati.

*** A rigore l’Istat nasce nel 1926; in precedenza era presente una divisione di statistica generale presso il ministero dell’Agricoltura, industria e commercio. Si è preferito indicare «Istat» anche per il periodo precedente al 1926 in modo da poter elencare in ordine cronologico i censimenti italiani impiegati. Per una breve storia dell’Istat si veda: www.istat.it/Istituto/storia.html.

Page 45: In questa rubrica vengono recensiti solo libri sulla … Sarti-Polis... · Web viewIn base ai dati originari dei censimenti, il tasso di attività femminile era il 42,3% nel 1921,

1927 Risultati sommari del censimento della popolazione eseguito il 1° dicembre 1921, vol. XIX, Regno d'Italia, Roma, Stabilimento poligrafico per l’amministrazione dello stato

1928 Censimento della popolazione del Regno d’Italia al l 1° dicembre 1921, vol. XIX, Relazione generale, Roma, Stabilimento poligrafico per l’amministrazione dello stato.

1935 VII Censimento generale della popolazione, 21 aprile 1931 – IX, vol. IV, Relazione generale, Parte seconda, Tavole (Ristampa), Roma, Tipografia I. Failli.

1939 VIII Censimento generale della popolazione 21 aprile 1936-XIV, vol. IV, Professioni, parte II, Tavole, B) Industria, commercio, ecc. - condizioni non professionali, 1. Regno, Roma, Tipografia Failli.

1957 IX Censimento generale della popolazione, 4 novembre 1951, vol. IV, Professioni, Roma, Stabilimento tipografico Fausto Failli.

1967 10° Censimento generale della popolazione, 15 ottobre 1961, Vol. VI, Professioni, Roma, Soc. A.B.E.T.E.

1977 11° Censimento generale della popolazione, 24 ottobre 1971 , vol. VI, Professioni e attività economiche, tomo 2, Professioni, Roma, A.B.E.T.E.

1985 12° Censimento generale della popolazione, 25 ottobre 1981, vol. II, Dati sulle caratteristiche strutturali della popolazione e delle abitazioni, Tomo 3, Italia, Roma, Istat.

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