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monografia italo scelza

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a mio padre

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italo scelza

in itinereper “Progetto”: Memorie e Macchine

testo diMarcello Carlino

edizioneNUOVA STAMPA

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Amministrazione Provinciale di AvellinoOPERA

con il patrocinio del

Ministero per i Beni e le Attività Culturali

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Il catalogo monografico dell’artista avellinese Scelza è la prima opera illustrata,

realizzata con il contributo della nostra Amministrazione.

Il valore e l’importanza di questo lavoro ripaga ampiamente il nostro sforzo.

Scelza ci ha per altro fatto dono di un suo trittico di grandi dimensioni, già esposto

alla Quadriennale di Roma e che farà parte della nostra pinacoteca.

Il trittico è dedicato alla nostra terra e il titolo, “Gli uomini della ricostruzione”,

ricorda quanto sia stato duro per la Provincia di Avellino intraprendere la lunga opera

di ridare vita alle proprie genti.

Il nostro compito è quello di promuovere manifestazioni artistiche, in ogni loro

forma, che pongano la nostra terra ed i nostri figli all’attenzione del Paese.

Il Presidente dell’Amministrazione Provinciale

Ing. Francesco Maselli

Avellino, 10.09.1999

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Il percorso della memoria di Italo Scelza si legge in questo catalogo che l’Amministrazione Provinciale di Avellino ha voluto dedicargli quale figlio di questa terra e promotore della sua conoscenza fuori dagli angusti confini della nostra realtà.Questa raccolta è riferita ai suoi quarant’anni di attività. Tutta la sua carriera viene qui ripercorsa nelle sue varie fasi, nelle sue diverse espressioni e moti dell’animo. E’ fortemente leggibile, nell’opera di Italo Scelza, una indissolubile connessione tra artista e territorio e tra artista e società. Fin dagli esordi, traspare il suo impegno nel denunciare il disagio dell’uomo nella società industriale, l’allontanarsi dalla terra e da una realtà contadina che sembrano avere lapide nel ferro del trattore.Il sogno dell’artista, che deve e può cambiare la realtà sociale, sembra disperatamente dissolversi nelle assenze bianche delle sagome umane nei deserti industriali.Ma non è l’uomo a soccombere, è il deserto a rimanere solo. L’uomo perde la bianca angoscia attraverso catartici “inabitacoli” di interiorità, riscoprendo la voglia di rimettere le mani su cose che per troppo tempo ha abbandonato. A suon di musica, egli ricostruisce lo scenario della propria esistenza. Ridipinge le strade, le piazze, riprende le tradizioni popolari danzando, godendo del rumore dei propri passi sul legno del palcoscenico. Gli “stucchi colorati dal sole” ci aprono gli occhi su cose che da troppo tempo non venivano guardate, e ci restituiscono il barocco di Catania ed in generale il barocco di casa nostra. In barba alla parvenza di morte del deserto industriale, noi ci appropriamo dei suoi frutti, dei suoi scarti, rendendoli matericamente vivi nella plasticità dei mosaici. Noi, “le sagome senza volto” siamo stati raccontati da Italo Scelza attraverso la sua “humanitas” pregna della memoria dei luoghi e dei materiali e dei luoghi della memoria. Questi sono quelle stanze della mente che ci salvano da naufragio della società e dalla fine del sogno. L’uomo naufraga sulla “zattera” dell’ideologia, ma si salva rivolgendosi a più profondi e duraturi valori, approdando alla memoria di sé.Le linee generatrici di Mondrian portano dritte al passato, riappropriamocene tracciando una evoluzione di una nostra personale poetica. L’ Amministrazione Provinciale, con questo catalogo, inaugura un impegno con i cittadini dell’Irpinia: d’ora in avanti chi ha fatto conoscere la nostra terra e chi si è imposto quale figlio di questa terra, non potrà non essere onorato dal ricordo della sua terra.

Giampaolo Palumbo Assessore alle Politiche Culturali Provincia di Avellino

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Edizione a cura di

Francesco Ruggiero Sebastiano Palumbo

Patrizia Basile

Testo diMarcello Carlino

Testimonianze diVito Apuleo

Italo AvellinoEnzo Bilardello

Mario De MicheliFloriano De Santi

Guido GiuffréDomenico Guzzi

Mario LunettaDaniele MajoneDario MicacchiDuilio MorosiniGiuseppe NeriCarlo Pedretti

Paolo PortoghesiGianni Pozzi

Franco SimonginiSergio Zuccaro

BiografiaGraziella Fargnoli

Foto diMimmo Capone

Alfio Di BellaSandro FiloniFranco MulasItalo ScelzaOscar Savio

TraduzioniDaniela CapaldoSimona Bernabei

Pierfrancesco Paolini

Realizzazione grafica diLoreto Pantano

Piero Luigi Albery

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IN ITINerePer “PrOgeTTO”: MeMOrIe e MAcchINe

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Case a Salento, 1959 /60 - tecnica mista cm 70x100

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Italo Palumbo in arte Scelza nasce ad Avellino nel 1939.

Negli anni cinquanta è a Napoli per motivi di studio. Nella città

partenopea viene influenzato pittoricamente da due dei suoi

insegnanti: Spinosa e Corrado Russo, grossi esponenti, allora,

della pittura astratta-informale a Napoli e nel mezzogiorno. Il

suo trasferimento a Roma avviene per gradi, intorno al 1961

sostando per ragioni di insegnamento in Ciociaria; tiene

continuamente contatti con l’ambiente artistico romano

esponendo a Roma nel 1964 alla Galleria “Passeggiata di

Ripetta”. Senza escludersi dalla vita artistica ciociara, conosce il

pittore Domenico Purificato che lo presenta in una mostra

personale ed il critico d’arte Duilio Morosini che lo recensisce

positivamente in una mostra del “Gruppo 5”, operante negli

anni sessanta in Ciociaria.

Era il periodo in cui a Roma nacque, fondato dai critici

Micacchi, Morosini, Del Guercio e dai pittori Attardi, Calabria,

Farulli, Guerreschi, Gianquinto, Vespignani, Romagnoni il

gruppo del “Pro e Contro” e gran parte dei giovani artisti che

orbitavano intorno all’ambiente artistico romano venivano

affascinati dalle operazioni culturali di quel gruppo. Risale al

1968, stimolato da Antonello Trombadori, il vero impatto con il

grande centro urbano; lo precede in provincia una attività di

ricerca in cui i fatti del mondo, i grossi problemi politici e

artistici impegnano la sua coscienza.

L’interesse per la macchina si accentua ed il fascino per un tipo

di pittura più netta ed essenziale l’avvia al discorso pittorico

all’interno di una dimensione industriale tecnologica-urbana

che lo aveva interessato già precedentemente nel periodo in

cui, girando per le campagne ciociare, dipinge bozzetti di

trattori per eseguire poi un grande quadro sull’affrancazione

delle terre, commissionato dall’Alleanza contadina di

Frosinone.

In questa occasione conosce Carlo Levi che lo incoraggia a

continuare la sua ricerca sul sociale.

L’interesse pittorico è rivolto, in questo inizio, a Mondrian -

l’importanza della linea come generatrice di immagini - e a

Léger - assimilazione della civiltà industriale al suo nascere

attraverso vie di dinamismo pittorico .

Espone a Roma nel 1971, presentato dal critico Guido Giuffrè,

alla galleria “Ciak”, ed è sostenuto da una critica positiva.

Intanto i rapporti con artisti e critici diventano sempre più

frequenti. Si serve della geometrizzazione tenendo presente

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anche il linguaggio formale di alcuni realisti tedeschi - come -

Crossberg - nella sua possanza. Tiene alcune mostre personali

a Modena, Brescia, Cortina d’Ampezzo e Bari. È in continua

ricerca e desideroso di conoscere - prende studio a Milano per

potersi inserire nell’ambiente culturale ed artistico del

capoluogo lombardo. Conosce i critici Vittorio Fagone e

Raffaele De Grada, frequenta Mario De Micheli e i pittori

Ruggero Savinio, Dino Vaglieri ed Ernesto Treccani.

La tensione ed il dinamismo della metropoli lo affascinano,

intanto la situazione socio-politica del paese è in piena crisi e

di conseguenza la sua ricerca riflette il momento storico.

D’improvviso, il suo mondo si disintegra e cade in un lacerante

pessimismo dove l’uomo sembra abbia perso la propria

dimensione di vita; ciò nonostante resta l’illusione che lo stesso

non sia disposto ad escludersi completamente.

Partecipa nel 1973 ad un’importante operazione di gruppo sul

territorio in rapporto all’artigianato locale promossa da Dario

Micacchi per il comune di Gualdo Tadino, “Immaginazione e

potere” (Editori Riuniti), con gli artisti e con lo stesso critico

contemporaneamente partecipa ad un’altra operazione

territoriale sul nucleo industriale di Ottana, promossa dall’ENI,

esperienze queste che offrirono agli operatori l’occasione per il

recupero di un rapporto tra arte e popolo, tra cultura e lavoro.

In questa occasione conosce Gianquinto, Basaglia, De Vita, e

R. Vespignani che lo presenta in una mostra personale alla

galleria Nuova Pesa di Roma. Partecipa sempre nel 1973 al XXI

Premio del Fiorino di Firenze - Biennale internazionale di Arte

- e contemporaneamente tiene una personale a Firenze alla

galleria S. Croce.

Nel 1977 il Comune di Bettona (Perugia) unitamente al

Comune di Anagni organizzano una retrospettiva con una

raccolta di 80 opere dal 1965 al 1977, corredata da una

monografia edita dalla galleria “Lastaria” allora operante in

Roma. L’artista si accinge, nello stesso periodo, a sperimentare

l’uso del video-tape assemblando immagini e suoni sui

drammatici avvenimenti politici e culturali del ‘77.

In quell’anno viene nominato docente all’Accademia di Belle

Arti di Reggio Calabria da dove si trasferisce poi all’Accademia

di Belle Arti di Firenze, infine a Roma, tuttora sede del suo

insegnamento di pittura.

Subito dopo si dedica ad una ricerca sulla condizione umana,

nasce una serie di opere che rappresentano ambienti ristretti,

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angusti, drammaticamente rappresentati dove è evidente il

tragico frantumarsi delle cose. Questa serie di dipinti, intitolati

“Inabitacoli” sono esposti nel 1980 nella galleria “Carte Segrete”

in Roma. Successivamente l’amore per la dinamica teatrale lo

porta a intraprendere una serie di dipinti, in cui, la forza e la

persuasività del suo lavoro stanno proprio in una lucida e

incalzante re-invenzione della realtà. Questa serie di quadri

viene esposta nel 1981 in una personale nella galleria “Le Ore”

di Milano presentata dallo scrittore Michele Prisco, e poi ad

Arezzo nella galleria d’arte comunale presentata da Dario

Micacchi, completata da una più ampia raffigurazione di studi

su balletti contemporanei ispirati a Béjart e Linpsay Kemp. Il

ciclo delle opere non fu terminato. Nel 1982 una parte di

queste opere viene esposta alla galleria d’arte comunale di Jesi

in una mostra organizzata da Dario Micacchi intitolata “La

Ruota del presente - una situazione romana”.

Nel 1983 partecipa alla rassegna “De umbris idearum”

intervento sulla macchina della memoria di Giordano Bruno

organizzata da Gianfranco Proietti e tenutasi al Convento

occupato di via del Colosseo in Roma - riproponendo il suo

discorso artistico in una selezione di opere pittoriche, raccolte

sotto il tema “macchina della memoria” ispirate appunto agli

scritti del filosofo nolano.

Nel 1984 l’interesse si sposta su di una ricerca particolare

riguardante il barocco catanese, dovuta alla sensibilità e alla

disponibilità del gallerista Virgilio Anastasi che gli commissiona

un’operazione culturale straordinaria tutta articolata intorno ai

problemi del patrimonio artistico di Catania. Il lavoro nasce

formando un laboratorio di ricerca, in cui operano uno

scenografo ed un ebanista, dove si ricostruisce un clima

artigianale che fu proprio della ricostruzione della città dopo il

terremoto del 1693. P. Portoghesi, che lo presenta nel volume,

così scrive: “Italo Scelza ci mette di fronte, dopo averli

decontestualizzati, brandelli di città, frammenti di architettura

scelti in funzione della loro densità, della loro ricchezza

formale. Il barocco meridionale, le cornici di pietra intagliata

servono di spunto per una indagine fredda su alcuni

catalizzatori della memoria collettiva, all’interno dei quali il

pittore ritrova la sua immagine rimossa.

Queste opere su Catania, intitolate “Gli stucchi colorati dal

sole” sono esposte prima a Roma nella galleria “L’Ariete” di via

Giulia e poi nello splendido palazzo Gottifredo di Alatri, sede

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Hiroscima, 1963 - olio su tela cm 160x140

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Roma ore 24, 1965 - olio su tela cm 160x120

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Morire a Madrid, 1964 - olio su tela cm 140x160

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del Museo Civico. Le caratteristiche di questo momento sono

sia lo studio delle forme classiche di pale; polittici; trittici ecc.,

sia l’uso del supporto pittorico che diventa legno e vive in

simbiosi con esso. Nasce così un suo modo di fare pittura che

ancora oggi perdura.

Nel 1985 la mostra tenuta all’“Art-message” di Roma è tutta

incentrata sul tema di un polittico “Il giardino degli ornelli” che

verrà esposto subito dopo a Castel Sant’Angelo in occasione di

una rassegna intitolata “Un panorama di tendenze” curata da

Luciano Luisi.

Nel 1986 partecipa alla XI Quadriennale di Roma con un

grande trittico intitolato “Gli uomini della ricostruzione” dipinto

a ricordo del terremoto dell’ 80 in Irpinia, sua terra natale.

Nello stesso anno l’amministrazione comunale di Supino,

luogo della Ciociaria, dove Italo Scelza lavora nel suo studio di

campagna, gli commissiona un’opera per la Sala Consiliare e

che egli intitola “La valle degli ornelli” in cui rappresenta le

varie fasi della nascita e della storia del paese ciociaro.

Gli viene ordinato poi dal giovane collezionista Ivo Ruzza un

trittico, che rappresenta una sorta di allegoria della campagna

e il cui titolo si presta ad una interpretazione ambigua: “Il

gioco degli scuri”.

Si dedica successivamente ad una grande scenografia. Il

Comune di Nola gli commissiona la realizzazione in legno e

cartapesta di una grande struttura alta 31 metri che deve

rappresentare l’arte ed il mestiere del sarto, in occasione della

festa dei “Gigli”. Il giglio, la cui realizzazione si basa su due

concetti fondamentali, uno scultureo-architettonico e l’altro

pittorico-surrealista, occupa la piazza della città, che si

trasforma in palcoscenico, e la grande guglia ne diventa la

protagonista principale. Gli studi preparatori ed il plastico del

Giglio del Sarto vengono esposti all’interno di una chiesa

sconsacrata. Interessato, come sempre, alla cultura di altri

paesi, decide di avere un’esperienza nell’America del Nord. Ne

1989 espone in Canada, al Columbus Centre di Toronto, una

serie di 50 opere che richiamano l’attenzione di un folto

pubblico. Successivamente alcune di esse vengono esposte a

San Francisco. Soggiorna per un periodo di tempo a New York

dove prende contatti con il mondo artistico americano.

Ritornando in Italia, per i Mondiali di calcio, gli viene

commissionato dall’EDMA editrice - Modena, una grande

edizione grafica intitolata “Itinerario 90”.

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In occasione di un concerto eseguito nell’Aula Magna

dell’Università “La Sapienza” di Roma con musiche di

Monteverdi dal Coro Franco Maria Saraceni diretto dal Maestro

Giuseppe Agostini, Italo Scelza cura la scenografia eseguendo

con materiale di recupero (cartone e legno) due grandi cavalli

che raffigurano il combattimento di Tancredi e Clorinda e che

fanno da fondo alla tragedia in musica ispirata Tasso. G.

Agostini scrive in questa occasione..... “Scelza è uno specialista

della venerazione per la memoria storica come tale ma

rivissuta, rieducata e riedificata con lo spirito inquieto e

dialettico della cultura contemporanea”.

In questo periodo Italo Scelza ha due importanti commesse:

una dal Comune di Sesto Fiorentino, con quattro grandi

mosaici che esegue con tre giovani artisti già suoi allievi

all’Accademia di Firenze; l’altra dal Comune di Arpino e

dall’amministrazione provinciale di Frosinone per affrescare la

Sala Consiliare del Comune della Città natale di Cicerone e del

Cavalier d’Arpino. Quest’ultima opera, per ragioni burocratiche,

non è mai stata eseguita.

In questi ultimi anni di riflessione ideologica e pittorica, Italo

Scelza rivede e interpreta un’opera dell’800 francese, “La

zattera della medusa” di Theodore Géricault che rappresenta

l’ammutinamento e il naufragio al largo della costa africana di

una nave francese con la conseguente lunga odissea dei

superstiti.

L’opera viene presa ad esempio e trasfigurata in una serie di

dipinti su legno dove ipoteticamente si avverte il grande

dramma del naufragio dell’uomo di oggi e la disfatta di ogni

ideale.

I dipinti sono prima esposti nella galleria “Ca’ d’oro” di Roma e

poi a Catania presso la moderna “Art Club”. Partecipa poi a

Vasto alla 2ª rassegna di tendenze “Dall’informale alla nuova

figurazione” a cura di Floriano De Santi.

Italo Scelza espone per conto dell’Hammer Museum di Los

Angeles una serie di opere dedicate a Leonardo. Curatori della

mostra e del volume sono Giuliano Allegri, direttore della Casa

Editrice “La Bezuga” di Firenze e il prof. Carlo Pedretti

responsabile artistico del museo Hammer. La mostra su

Leonardo diventerà itinerante e sarà esposta in importanti città

italiane, europee ed americane (Miami, Los Angeles, Stoccolma,

Malmo, Goteborg, Catania, Roma, Amalfi, Anagni).

Nel 1994 è invitato a tenere un corso di pittura presso

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l’HUMBOLD University, in California. In quella occasione

esegue un grande trittico ispirato alla foresta delle Sequoie. Il

dipinto è di proprietà della Pinacoteca Universitaria.

Nel 1995 espone una serie di Cartoni ispirati alle Isole di

Leonardo nella Galleria L’Indicatore di Roma, a cura di Pino e

Teresa Purificato.

Sempre nel ’95, espone al Castello di Fumone una serie di

opere che continuano il ciclo di Leonardo.

Nel 1996 l’artista è impegnato in una serie di interventi

culturali, tra questi ricordiamo l’omaggio che il teatro “L’Agorà”

di Roma gli rende traducendo alcune sue opere in immagini

teatrali con la regia di Enrico Antognelli.

Nello stesso anno partecipa alla rassegna curata da Loredana

Rea e Massimo Carrillo “Omaggio al Cinema di Carlo Ludovico

Bragaglia”.

Nel 1997 partecipa alla mostra “Arte a Roma” nella galleria

Civica di Arte contemporanea della capitale.

A caratterizzare questo lungo percorso artistico di

ITALO SCELZA è stata la stretta amicizia con gli scrittori, i poeti

e i musicisti; con loro non sono mancate delle vere e proprie

collaborazioni, perché nelle sue ricerche storico-pittoriche

quasi sempre i poeti e i musicisti hanno partecipato. Per citare

alcune di queste occasioni, ricorderemo una delle ultime

fatiche di SCELZA su Leonardo. “Schemata”, è infatti il titolo

della pubblicazione che ha visto protagonisti i musicisti

Giuseppe Agostini, Fabio Agostini, Luca Salvatori, Antonio

D’Antò e Lorenzo Pietrandrea, i poeti Mario Lunetta, Paolo

Guzzi, Claudio Rendina, Lamberto Pignotti, Sergio Zuccaro e

Gianni Godi. Nel 1997 SCELZA partecipa ad una serie di

rassegne in Ciociaria, a Boville Ernica, Veroli e Alatri. Nel 1998

tiene una mostra personale a Roma presso l’accademia di

Egitto esponendo una serie di quadri sulle Piramidi, in

occasione produce con Gianni Godi un video-clip a tema. Nel

1999 tiene una personale a Roma alla Galleria ca’ d’Oro, una al

Palazzo della Regione ed una terza mostra nella Chiesa

sconsacrata del “Triggio” di Avellino. Nel 2000 terrà una grande

antologica organizzata dal comune di Anagni, città dei Papi, in

occasione del Giubileo, a New York aeroporto Kennedy a cura

dell’”Alitalia” e a Toronto nella storica “ Casa della Corte”.

Didascalie foto1 - Gente di città, 1961 - tecnica mista cm 40x50 2 - Il cammino, 1962 - tecnica mista cm 50x30 3 - La spiaggia Niza, 1962 - tecnica mista cm 30x454 - Crocifissione, 1963 - tecnica mista cm 30x50 5 - Omaggio a Michelangelo, 1964 - olio su tela cm 160x1206 - La terrazza, 1964 - olio su tela cm 220x220 7 - Terrazzo a Sperlonga (Particolare), - tecnica mista cm 250x1108 - Moto a Roma, 1965 - olio su tela cm 110x1809 - I trattori della valle del Sacco (particolare), 1966 - olio su tela cm 500x130 10 - Omaggio a Kafka, 1967 - olio su tela cm 100x7011 - Il volto nella struttura, 1968 - olio su tela cm 160x12012 - La Vigna del Polvino, 1968 - olio su tela cm 160x12013 - Le immagini del tempo, 1970 - tecnica mista cm 60x50 14 - Le immagini del tempo, 1970 - tecnica mista cm 60x50

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SOMMArIO

Biografia

Presentazione

La città

Le costruzioni

Gli oggetti

Le immagini del tempo

Inabitacoli

La danza, il teatro

Interni

Gli stucchi colorati dal sole

Le grandi scenografie

L’uomo l’ambiente

Il mosaico e la piscina

La zattera

La casa rossa di Humboldt

Le macchine di festa

Le isole di Leonardo

Desertiade

La città morta

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PER “PROGETTO”: MEMORIE E MACCHINE

A considerare alcune delle opere di Scelza, che appartengono

a questo decennio prossimo a scadere, e a chiudere il secolo,

colpisce la funzione, di motore e di perno, che vi svolge la

memoria: quella memoria cui sono solite richiamarsi,

dichiarandone la centralità, le più recenti autobiografie

scelziane, scritte in catalogo per mano d’autore, e della quale,

già nel 1980, rendeva testimonianza, riconoscendone fin dal

titolo il valore fondante e l’energia costruttiva, un intervento

dedicato al grande eretico di Nola, a Giordano Bruno.

Sono esercizi di memoria, infatti, le riscritture e le

rielaborazioni compiute, con puntualità e scrupolo analitico,

con acribia, su modelli iconici e, in specie, su un unicum

testuale di Géricault; sono lavori di memoria quelli che si

improntano, intrattenendoli in uno studio e in un confronto e

derivandone ispirazione e materia (e cifre e logiche di

composizione da restituire e da riusare), ai modelli progettuali

e, si direbbe, ai protocolli di ricerca di Leonardo.

La memoria è per Scelza, intanto e in essenza, memoria di

arte, di stili e di tradizioni pittoriche, di iconografie (nel testo

e in margine ad esso) che hanno sollecitato l’immaginario

collettivo e animato in profondo percorsi di cultura. La

memoria è, in forza di ciò, riconoscimento dell’opera (quella

che si va facendo: l’opera nel suo farsi) quale complesso,

multiplanare itinerario di viaggio fra segni, codici e linguaggi

espressivi, quale esplorazione anche a ritroso che rincontra e

rivede (e lo fa di necessità, secondo una prassi voluta e

inevitabile) il già fatto, quale cammino e procedura

intertestuale. Epperò - lo comprova che si dialoghi, come in

uno spazio mentale, con protocolli di ricerca, e dunque con

qualcosa che non è stasi o conclusione, ma movimento,

apertura, divenire; e ne reca conferma che le variazioni sul

tema di un ipotesto costruiscano una articolata sequenza di

discorso - la memoria non è qui ristretta nelle forme chiuse di

una sterile citazione; non è una memoria, insomma, che

incorre in una paradossale conversione e che, alle corte, si

piega ad un’autonegazione e ad una abiura, neutralizzandosi

in un mero, smemorato allineamento di reperti, nel quale

l’originalità e l’autenticità stanno per intero, valori residuati

solo in pallide tracce e evanescenti, dalla parte del citato,

mentre l’atto della citazione non può caricarsi di alcun

significato forte e, scontata una definitiva fine della storia,

non può pensarsi come progetto né può pensare un futuro

(si penserà, semmai, come coazione a ripetere, come sbiadito

e innocuo divertimento o, all’estremo, come delirio

claustrofilo e resa senza lotta al nonsenso): che è poi quanto

ha trovato riparo, consentendo un ampio stuolo di fautori e

di laudatori, sotto l’ombrello capace e protettivo dell’ideologia

del postmoderno.

All’ideologia del postmoderno la pittura di Scelza non cede

nemmeno un poco; ed è proprio la memoria il suo punto di

resistenza, la sua leva di opposizione: una memoria la cui

pratica, a me pare, deve molto ad una indicazione, o meglio

ad un principio filosofico, di Giordano Bruno.

Si sa che il pensatore, condannato dall’inquisizione romana e

morto sul rogo, sosteneva che la conoscenza non è solo

scienza, ma anche heroico furore e spasmodica tensione (ad

altissima temperatura poetica), dovuta certo, a parte subjecti,

ad una smania incoercibile di trovare un senso pieno

all’umano stare al mondo, ma pure ingenerata, a parte

objecti, dalla provvisorietà o dalla trasmutabilità del vero: una

trasmutabilità ed una provvisorietà, inscritte, per dir così,

nell’ordine dell’universo. E infatti egli, benché fosse nella

filosofia della natura assai vicino alle teorie copernicane,

sostenne con straordinar ia lungimiranza, in c iò

differenziandosi da Copernico, che non si dà un centro

immobile dell’universo, neanche il sole possedendo questa

prerogativa o essendo investibile di tali predicati.

Ora, come una ipotesi siffatta porti a ricusare, per principio,

qualsiasi monocentrismo, e autorizzi, al contrario, un

policentrismo di per sé antidogmatico e fertile di significative

potenzialità culturali, è cosa su cui altri ha già discusso

lungamente, e utilmente; lo si dia per assodato, qui, e se ne

ricavi, del tutto conseguentemente - del resto, l’intervento

bruniano del 1980 aveva per nome aggiunto La macchina

della memoria - che giusto l’inesistenza di una stella fissa o di

un motor immobilis e l’ammissione del policentrismo

governano il viaggio della memoria di Scelza.

Non si tratta, cioè, nel caso, di procedere a ritroso, finché ci si

imbatte in un punto (una immagine, una figura, un

linguaggio, uno stile) che è, o si accetta, per fermo e

immodificabile, sottratto alla dialettica del confronto. E non si

tratta neppure di un percorso, ad imbuto, verso il fuoco della

prospettiva: dal molteplice (l’esperienza in cui siamo gettati)

all’uno (l’origine, l’archetipo stagliato come un’isola felice). Il

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punto che si incontra, invece, è soggetto a spostarsi anch’esso

ed è colto in movimento, dimensione che si rinnova e si

arricchisce come in una sollecitazione energica e tenace, o in

un fecondo divenire; e non è unità semplificatoria e

riducente, preordinata e limitativa, è complessità polimorfa e

polisensa - perforata da aperture, da spiragli di passaggio, da

scorci - la stazione raggiunta nel viaggio, tanto che sembra

che da essa si debba ripartire, e anzi non si possa che

ripartire, senza soluzione di continuità, senza smettere il

cammino della ricerca. Nel che la memoria rintraccia la sua

fattualità, la sua concretezza storica, il suo ruolo agonistico e

attivo, nient’affatto nostalgico o pago di una verità data e

immutabile, da accettare tal quale; e frappone una distanza

incolmabile da quella memoria (o statica, o inerte, o disattenta

e rinunciataria) la cui meta e il cui effetto sono al dunque, lo

si sia voluto e programmato o no, l’amnesia (così nelle

pratiche ispirate all’ideologia del postmoderno; così

purtroppo, e sempre più frequentemente, nella cultura di

oggi).

Scelza usa la memoria dinamicamente, la incarica di un

compito propositivo, storicamente attivo, di analisi laica e di

ricerca e di rilancio della complessità.

Si guardi, per reperirne esempi con valore di prova, ad alcune

opere del ciclo “leonardesco”. Intanto è loro caratteristica, più

volte sottolineata, la disponibilità al movimento, il loro

costruirsi e materiarsi di movimento. È movimento rotatorio

quello innescato dalla struttura come di trottola di una base

circolare raggiata (che ripropone alcuni modelli - frammenti

di macchine, parti di congegni scientifici - tracciati dai disegni

di Leonardo) e trasmesso (con esiti di sfrangiamento e di

moltiplicazione centrifuga dell’immagine, la quale pare girare

vorticosamente come su un perno; una sorta di rotore

compariva, sbalzando un motivo analogo, in una tela del

1982, Le immagini che ruotano) alla figura di fanciulla

sovrastante, profilata secondo canoni quattrocenteschi e

sbozzata su iconografie leonardesche, che rotando compone

una sfera (sferica, appunto, come la terra o come la

rappresentazione tradizionale, geometrica e simbolica,

dell’universo). È sventagliamento di oggetti e materie nello

spazio, a partire da un nucleo che accumula (un accumulo di

tensione, appunto) piani inclinati, setti prospettici, ingranaggi

e tiranti e corde, quello che si produce, quasi a seguito di una

esplosione, nell’Isola di Leonardo, che sta dabbasso come

sede di innesco. Dinamiche spiraliformi e moti a pendolo,

precisi come in un meccanismo ad orologeria, frequentano

pressoché tutti i pezzi in mostra in Macchine di festa.

Dire di questi movimenti in atto, e in opera, significa, al

tempo stesso, dire che per essi, o intorno ad essi, la memoria

si rende occasione di incontro, e lievito e incremento nel

dialogo, di linguaggi diversi. La forma quasi di sezione di una

conchiglia, in un cartone, racchiude e tende la figura

femminile in proscenio, e la inarca e la stilizza, fino a che

essa prende sembianze somiglianti al liberty. Un reticolo,

fatto di materia da arte povera, e provvisto di segnali che

rinviano ai collages delle avanguardie storiche o alla

numerologia costruttivistica, stringe in una morsa e soffoca,

altrove, un nudo che parrebbe di maniera umanistica e che,

nella stretta, sta per deformarsi e per accostarsi alla tipologia

di un prigione michelangiolesco (altre figure e stilemi da

Michelangelo, e in particolare la mano della creazione,

altrove Scelza ha frequentato). Sotto i Ponti di Leonardo la

corrente si avvolge in fibre di colore intrecciate e trasporta

relitti la cui fattura, talora, deve alla iconografia del cubismo:

quei vortici a treccia, a loro volta, non appaiono distanti dalle

silhouettes, prossime all’astrazione, in uso nella stagione

simbolista a cavallo tra Ottocento e Novecento, o dalle

rappresentazioni dinamico-plastiche tra pre-futurismo e

futurismo (penso a Medardo Rosso e al primo Boccioni). Nel

mentre, il cielo colorato dalla pirotecnia, che proietta in alto

materie e oggetti, richiama palesemente i cieli surrealisti, da

Chagall a Mirò.

Il variare di queste esperienze e l’attraversarle e il riusarle

nella loro ricchezza, avendo cominciato da Leonardo e

ricominciando una volta incontratolo da vicino, pennello a

pennello, nella multiformità della sua arte (un arte come

ricerca e come progetto), contiene più significati insieme:

non c’è fatto (o scritto o detto o dipinto) che non si rifaccia (o

riscriva o ridica o ridipinga) quando viene portato, quando

irrompe come cosa viva nel tempo qui ed ora dell’esperienza;

non c’è studio (o confronto o dialogo) che non si allarghi e

non c’è memoria vera che sia monodirezionale o la cui

pienezza non sia un’escursione a largo raggio, una catena di

associazioni, una sistema di ponti che mette in relazione e in

tiro dialettico il simile e il dissimile; non c’è esperienza

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29

creativa che non sia, perciò, essendo anche altro, ricerca e

progetto, dove progetto, alla lettera, è un gettar(si) fuori, oltre

il consueto, verso il futuro.

Ha parentela metonimica con il progetto, nella sua giusta

accezione semantica, la nascita, battuta in tema e installata a

fulcro di senso, i cui segni si colgono nella forma ovoidale,

nel nucleo raggiato inscrittovi, nel cordone ombelicale che ne

fuoriesce legato ad una macchia che è quasi una sagoma

antropomorfa: la memoria, nel suo senso pieno, è anche -

antifrasticamente - preludio, inizio, nascita; e non si dà

nascita completa - nascita che sia promessa e speranza -

senza memoria. Se Leonardo è il genio più grande

dell’umanesimo, dedicargli un’esperienza di studio e di

ricerca è per Scelza, con tutta probabilità, volgersi a

quell’umanesimo e indicare la necessità di un nuovo

umanesimo, che si costruisca incontrando i linguaggi, le

anime e le forme che hanno segnato la nostra storia e che

dobbiamo ritrovare, investire di domande, riusare per

prestarle al futuro, per “pro-gettarle”, con un lavoro di

memoria. E solo in un nuovo umanesimo, che si configuri

quale cammino aperto e consapevole e multidirezionale di

ricerca, sta una via sia pure lunga, una alternativa, una

possibilità di rinascita, della cui urgenza e della cui

indifferibilità siamo invitati a farci persuasi.

Quale sia il perché, e quali siano il contesto e le prospettive

storiche entro cui si giustificano un bisogno e una volontà di

rinascita, a me sembra sia detto da Scelza nel ciclo

immediatamente precedente, intitolato alla Zattera e

realizzato tra gli ultimi anni Ottanta e i primi Novanta. È

Géricault, stavolta, l’interlocutore.

La scelta di confrontarsi con l’opera del pittore romantico,

che traeva spunto da un fatto realmente accaduto - il

naufragio della nave «La Medusa» - , appare tutt’altro che

occasionale o preterintenzionale. Potranno essere intervenute,

come spesso accade, suggestioni d’un attimo e in parte

immotivate, seduzioni di strutture, di orchestrazione pittorica

e di colore, che si sono nel tempo solidificate e sedimentate

fino a costituire l’incipit e dare abbrivo alla ricerca; ma non

v’è dubbio, a mio avviso, che sia stato il tema iconografico, in

aggiunta al fatto che esso venisse elaborato da Géricault in un

periodo storico cruciale, in un’epoca di svolta, a rafforzare e

determinare in Scelza la volontà di un corpo a corpo - di

analisi, di interpretazione e di riscrittura - con La Zattera della

Medusa.

Niente più di un naufragio, infatti, include il senso

dell’apocalisse, di un’era che finisce, di un destino che si

compie: con i relitti di cui la natura e la storia e la dialettica

del potere disseminano la superficie tutta d’intorno, con le

rotture e le frammentazioni che ogni rivolgimento comporta,

con l’angoscia e con l’orrore e con la disperazione che

accompagnano la fine e la morte, con i tentativi di scampare

al disastro e di resistere e di riprendere e di ricominciare.

Elementi, questi, che Géricault aveva preso in attenta

considerazione, compulsando dapprima i documenti e i

resoconti della sciagura avvenuta in mare, dandosi poi a

minutissimi studi anatomici e raccogliendo infine il tutto nel

complesso, accurato, veemente racconto su tela.

L’iconografia del naufragio, ripresa da Géricault e che

Géricault aveva a suo volta ripercorso in un viaggio della

memoria (guardando fra gli altri a Michelangelo e a

Caravaggio) e riformulato, diviene in Scelza la metafora (di

significato tanto più forte, poiché liberata da qualunque

impegno di documentazione e di trascrizione realistica) di

un’apocalisse storica, della mutazione epocale che

sopravviene negli ultimissimi anni Ottanta: con sistemi politici

e sociali che vacillano e rovinano e cadono, con ideologie

prima e a lungo trainanti che si eclissano sembrando non

trovare più spazio nella storia, con una falsa bonaccia (di

seguito alla tempesta devastante e contagiosa) che pare fatta

di rassegnazione all’esistente o di inerme accettazione

dell’ineluttabilità delle cose e che però a malapena copre

gorghi di contraddizione (i cadaveri, i vinti, i relitti del

naufragio non ancora restituiti dal mare).

La memoria, in questo ciclo pittorico scelziano, lavora a

trovare strumenti e tarare linguaggi, innestando registri e stili,

per riferire ancora del presente e irrompervi. Anche gli

affioramenti del mito, che punteggiano il discorso, hanno una

pertinenza all’attualità: essi dicono di mitologie al crepuscolo

(che è fra i nomi e i titoli adoperati), o di un crepuscolo degli

dei (e delle ideologie) che chiude il sipario sul passato (e su

ciò che nel passato era valore ingiudicato, sacrale) senza

escludere nuove mitopoiesi (e qui la tensione proiettiva e lo

slancio dinamico delle muse, garanti e protettrici delle arti,

che paiono fendere acqua e aria, hanno molto di

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30

emblematico; emblematico è, in rapporto a loro, l’ornello,

pianta della manna, che le fiancheggia e le accompagna e le

sostiene) e senza rinunciare a pensare e a fingere nuovi

scenari. Perché il naufragio è apocalisse, ma è pure

palingenesi; e Scelza a me pare ponga l’accento, in questo

ciclo ispirato a Géricault, più sulla palingenesi che

sull’apocalisse: sul nuovo inizio, insomma, che è da sperare,

e da cercare (e da cercare facendo appello alla memoria e a

un nuovo umanesimo), in quella che ora si mostra come una

terra desolata, una landa sconvolta abitata dalla morte e dal

senso della fine.

Sebbene il quadro della rappresentazione si incentri

ricorrentemente su immagini di devastazione (assi e pali e

alberi spezzati), la semantica di un nuovo inizio è in realtà

inscritta, in questi testi pittorici di Scelza, con segno tanto

marcato e insistito da mostrarsi dominante: a ribadire che la

responsabilità di un compito attivo e propositivo (la volontà

di sperare, la tenace resistenza all’accettazione dell’esistente)

non può scomparire dall’orizzonte ideologico e dal campo di

tensioni e dai compiti dell’arte. Proprio la forza centrifuga

degli elementi, catapultati a raggio sul mare dal piano della

zattera, palesemente richiama, in una con la distruzione, ma

come polo antagonista, la dimensione costruttiva di un

metaforico tendersi in volo, di uno sfuggire alla stretta, di un

librarsi verso un altrove nel quale altri scenari e altri destini,

altre utopie siano pensabili ed abbiano spazio. Chi ha

sottolineato come questo ciclo scelziano sia caratterizzato da

affioramenti del rimosso, e dalla libertà concessa a dinamiche

inconsce, ha certamente ottime ragioni, purché si aggiunga,

però, che ritorni o liberazioni siffatte, e quel “che” di

manipolazione ludica che si ravvisa nei legni e nelle tavole (e

nella reiterazione variata - quanto alle stesse tecniche

adoperate - dell’iconografia del naufragio; l’ascolto del

rimosso si coglie, del resto, anche nel fatto che Géricault sia

qui interpretato e praticato in una chiave preminente, quella

visionaria), risponde appunto ad un disegno culturale

riconoscibile: di richiamare e rianimare, per un nuovo

umanesimo, anche le risorse del soggetto prima solo in parte

sfruttate (le risorse più recondite, quelle di norma immolate

sull’altare del super-Io, del controllo sociale e della logica

dell’arte) e di prestarle alla attivazione di ulteriori potenzialità

del lavoro artistico, alle aperture di altre frontiere di discorso.

Di raccoglierle, insomma, nell’ambito di un progetto.

Non casualmente, infatti, tra la zattera, i cui frammenti sono

sparsi tutti d’intorno come semi di ricostruzione che potranno

attecchire e fruttificare, e l’ isola leonardesca con utopici cieli

surrealisti sovrastanti, che è il luogo per antonomasia in cui si

esprimono fantasia e ragione, concorrendo a disegnare un

“più umano” diverso futuro, (il futuro in cui, inoltre, le

scissioni e le fratture, le divisioni dell’io sono ricomposte e il

soggetto è recuperato nella sua totalità intera), si dà un filo di

continuità nettissimo, forte ed evidente, tanto che questa

esperienza non potrebbe essere, di fatto, senza quella. E non

casualmente, nelle assi di legno dell’imbarcazione sconnessa

e violata dai marosi, se è dato rintracciare parecchie

suggestioni o sintonie (dal tema e dall’impianto delle

crocifissioni tardocinquecentesche fino alle sequenze di

scritture lignee di Ceroli), si ha netta l’impronta, a mio

giudizio, delle sculture di Mastroianni, nelle quali, secondo

una cifra stilistica costante, il senso della distruzione

(racchiuso nei bracci di ferro minacciosi e inquietanti, che

assomigliano a congegni bellici) si connette immancabilmente

alla energia costruttiva (tradotta in un dinamismo

d’ascendenza futurista) dello slancio plastico che organizza la

materia e le conquista spazio e respiro.

Certo è che la vocazione plastica della pittura di Scelza è

cocciuta, tenace, di una fisicità prepotente; e non le basta il

peso dei corpi, presi in una serrata dialettica di pieno e di

vuoto, scavati dalla luce (spesso da una rasoiata di luce) e

modellati da violente escursioni chiaroscurali (e questa è una

delle anime del Gioco degli Scuri, del 1986, polivalente già

nel titolo): corpi che il linguaggio della nuova figurazione

piega e volge dal realismo barocco all’espressionismo,

secondo una cifra di stile che Scelza non ha mai dismesso.

Quella vocazione plastica ha bisogno di un habitat più vasto

in cui realizzarsi: ha bisogno di fuoriuscire dalla superficie

dipinta per prolungarsi e diramarsi all’esterno, per interagire

e comunicare confacendosi in pieno al ruolo e al compito

pubblico dell’arte. Si spiega siffattamente perché, almeno da

vent’anni a questa parte, nella produzione artistica di Scelza

le installazioni abbiano così tanta rilevanza, sia da sole sia in

rapporto, come di testo tridimensionale con il testo

bidimensionale a fronte, con le tavole e i legni e i cartoni e le

tele; e si spiega allo stesso modo perché le sue elaborazioni,

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31

e gli eventi a cui esse sono legate, si connotino comunque

per una prospettiva di intervento sul territorio. Un progetto

non è tale davvero, del resto, se non in riferimento alla

determinatezza storica e geografico-culturale di un contesto e

in riferimento ad uno specifico orizzonte d’attesa. In

riferimento ad un territorio, insomma: un territorio come

corpo, organismo vivente con le sue memorie, con i suoi

valori da ritrovare e da restituire contro i disvalori imperanti,

con un suo umanesimo da strappare alla barbarie che lo

incalza: un territorio da riottenere e da abitare. Sono pensate

per il territorio, per esservi immerse e per darne

testimonianza, per estrarne una storia altra da quella corrente

e per improntarvi l’immagine e il senso di una possibile storia

a venire, di segno radicalmente diverso (il segno della “festa”,

il segno di una vita collettiva recuperata), le opere degli

Stucchi colorati dal sole, un intervento, del 1984, compiuto

nella città di Catania: un intervento, tutt’altro che ispirato alla

logica di una estetizzante decontestualizzazione (di una

enucleazione di elementi fine a se stessa, di un gratuito

piacere del testo), in cui la messa in scena barocca di alcuni

lineamenti peculiari e distintivi della città, occultati da una

frequentazione abitudinaria o disturbata, comunque corriva

(una frequentazione ad occhi chiusi, che lascia semmai

guardare, non più vedere), significa per allusioni la messa in

piazza dell’intera città, la sua uscita in pubblico, dunque la

sua agibilità, la riappropriazione che essa fa di sé, il restauro

e il ripristino che essa realizza della propria identità

conculcata e negata. Stucchi e balconi, e legni e cartoni, nella

loro polimatericità, oltreché nella loro esuberanza plastica,

nella loro matrice officinesca e artigianale (e, talora, collettiva)

e nella loro fattura, nello stabilire una continuità e un nesso

dialettico tra interno ed esterno (che è prodotto culturale

elettivo del barocco e, in specie, dell ’architettura

borrominiana), appartengono alla categoria delle macchine,

che sono un po’ il filo conduttore unitario - la struttura

invariante - delle esperienze scelziane degli ultimi vent’anni.

Macchine come coacervi barocchi, macchine teatrali (che

erano in uso nelle rappresentazioni secentesche e

accompagnavano, nel finale, il colpo di scena), macchine

sacrali e rituali, macchine di festa: macchine come ciò che di

articolato e complesso l’uomo realizza, in forza di esperienza

e passione e conoscenza: macchine come meccanismi e

congegni realizzati per intero dal lavoro di progettazione,

dalla fantasia e dalla ragione umane: strumenti la cui struttura

consiste in un rapporto cinematico di componenti e una cui

funzione, tra le altre, è anche la trasformazione e la

trasmissione di energia.

Un sottotitolo come La macchina della memoria, di sigla e

di chiosa all’intervento bruniano del 1980, a questo punto

riassume e dichiara in essenza le ragioni di fondo delle

esperienze artistiche successive di Scelza. Ha valore di

pronostico quel nome, macchina, che emblematicamente

carica di tensione dinamica e di forza propulsiva la memoria;

ma ha anche valore retrospettivo e serve a precisare, a mio

parere definitivamente, gli ambiti e i contorni del lavoro

pittorico dell’artista nel decennio, e poco più, precedente.

Il confronto con l’universo tecnologico che allora Scelza

veniva rea l izzando, convergendo con a l t r i che

sperimentavano su oggetti “sociali” analoghi un loro

linguaggio “neofigurativo” (si è fatto, opportunamente, il

nome di Calabria, di Turchiaro), mi pare si caratterizzi, infatti,

per il suo polimorfismo e la sua polivalenza: per il fatto di

essere condotto, insomma, da più angoli prospettici e di

tenere in conto, dunque, diversi punti di vista.

Il susseguirsi di elementi tubolari è talvolta un vero e proprio

labirinto (e il labirinto è caos, ma pure ordine; è sintomo di

smarrimento e di erranza ed è, insieme, un simbolo di sfida; e

nasce come sfida, nella mitologia classica, il labirinto), che

dall’interno, dal chiuso di una fabbrica si trasferisce nello

spazio esterno della città (coniugando, nel mentre,

industrializzazione ed urbanesimo). La sinusoide di una scala

di ferro (con sotto un’ombra d’uomo reclina) indica un

percorso di alienazione e, allo stesso modo dell’edificio che è

un montaggio di solidi geometrici in forma di tritacarne, con

sopra il collo di una torre sottile e, all’apice, un orologio privo

di lancette, che ha molto di un occhio prensile e inquisitorio,

capace di una ferrea vigilanza censoria, di un dominio

incontrollato e assoluto (è Città, del 1973), appartiene alla

famiglia delle macchine infernali, come quelle che, lugubri e

minacciose, e profetiche, fanno sovente da sfondo al bianco

e nero dei vecchi capolavori del cinema espressionista (e

macchine infernali sono gli Altiforni, realizzati nei primi anni

Settanta). Una simil-olivetti per dattiloscrivere, ma inquadrata

di lato sicché la sua funzione abituale è gran in parte

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32

occultata, negata (e, intanto, il “taglio” laterale della

rappresentazione appare, a tutti gli effetti, un modo di

trattamento straniante dell’oggetto da pop art citato e dei

dettagli iperrealistici che punteggiano la sua superficie), e i

contenitori con pertugi e fughe di porte e fili elettrici non si

sa a cosa collegati, e di che cosa motori (gli abitacoli sono

quinte teatrali, piuttosto, e i serbatoi misteriosissimi congegni,

o scatole di sorprese; siamo tra il 1974 e il 1975), li diresti

invece, senza tema d’errore, macchine celibi (sul modello

delle macchine sceniche barocche e di una strabiliante

invenzione delle avanguardie), stornate dall’uso corrente e

forse da qualunque uso. Infine, se il lirismo (magari

dietro suggerimento di una mitologia

contadina declinata su un futuro di

progresso, del quale è fatta

richiesta alla civiltà delle

macchine: così mi sembra

d i l e g g e r e n e l l a

Affrancazione delle terre,

un’opera ormai più che

trentenne) può investire

e c o p r i r e o r d i g n i

tecnologici e mutarsi in

l i r ismo della materia

(quella, in alcune tele di

S c e l z a , a c c e l e r a t a

vertiginosamente e deformata

dalla corsa libera e potente, rombante

di luce, di una moto), e se il montaggio di

paesaggio naturale e paesaggio industriale può

ingenerare sospens ioni e microc l imi meta f i s ic i

(particolarmente indicativa, sotto questo profilo, Fabbrica

del 1972), pure c’è il controcanto di una tuta di protezione e

di un fantoccio meccanico a vietare ogni estatica illusione, a

confutare idilli stordenti; e il garbuglio di strutture tubolari,

prossimo ad essere una macchia raggrumata di colore, andrà

attribuito, quanto alle sue motivazioni profonde, ad un

impeto gestuale di sapore liberatorio (ad una imposizione del

gesto pittorico oltre le costrizioni mimetiche, fuori della

gabbia di un universo perfettamente regolato e ordinato), e

tuttavia, in alleanza con il lavorio erosivo del tempo, vorrà

significare, anche, una implosione del mondo macchinizzato

e, insieme, sarà segno di crisi e di critica, di deliberata e

ironica cancellazione in sequenza dei luoghi tecnologici

deputati e della topografia simbolica della città. Ecco, il

“doppio carattere” di quelle matasse filamentose di tubi e,

insomma, la varietà delle declinazioni del tema della

macchina, non segue alcuna storia puntuale e lineare che

riguarda la civiltà tecnologica in cui siamo immersi: secondo

un tracciato che va dall’attrazione alla ripulsa, dal mito alla

demistificazione, dall’utopia alla disillusione, dal sogno al

risveglio. La varietà e la polivalenza dei ruoli e degli usi - e le

macchine di produzione, le macchine di tortura, le macchine

di festa - sono, invece, presenti contemporaneamente, in

azione simultanea, in tutte le fasi di questa

stagione d’esordio di Scelza. E si

r e n d o n o , a l d u n q u e ,

manifestazioni e sintomi della

curiosità golosa e vorace ma

c o n s a p e v o l e ,

dell ’attenzione critica

epperò propositiva e

capace di progetto e di

speranza, con le quali la

sua arte, fin dall’inizio, si

volge alla modernità e la

vive.

Marcello Carlino

Page 35: in itinere

33

FOR “PROJECT”: MEMORIES MACHINES

In considering some of Scelza’s paintings, that belong to this

expiring decade, at the end of this century, strikes us the

role, of motor and hinge, that the memory develops: that

memory, which the most recent scelzian autobiographies,

written in catalogue by himself, are used to relate, and to

that same memory that, since 1980, an intervention

dedicated to the magnificent heretic of Nola, Giordano

Bruno, bore witness, recognising just from the title the basic

value and the constructive energy.

Infact, rewriting and rielaboration are exercises of memory

accomplished with punctuality and analytic diligence, on

iconic patterns and, in particular, on a textual unicum of

Géricault; they are works of memory, which refer to the

planning patterns and, or better, to the research files of

Leonard.

Memory is for Scelza memory of art, stiles and painting

traditions, of iconographies (in the text and in its edge)

which have stimulated the collective imaginary and have

deeply animated cultural paths. Memory is, for this reason,

the recognition of a work as a complex, multiform itinerary

of voyages among signs, codes and expressive languages,

even as a backward exploration, that meets and sees again

(and does it necessarily according to a wished and inevitable

praxis) what has been just done, as an intertestual

procedure. But memory is not here pressed on the closed

forms of a sterile quotation; it is not a memory that runs into

a paradoxical conversion and that, in short, complies to a

self-negation and to an abjuration, neutralising itself in a

forgetful alignment of reperts, where the originality and the

authenticity are completely on the side of the mentioned

author, while the quoted act cannot burden itself with any

strong meaning and cannot be thought as a project, neither

as a future: all this, then have found a cover, to allow a

large band of supporters and praisers, under the capacious

and protective umbrella of the post-modern ideology.

Scelza painting doesn’t give up even a little to the post

modern ideology, and it is just memory its resistance point,

its opposition lever: a memory that refers, I think, to a

suggestion or - better - to a philosophic principle of Giordano

Bruno.

We know that the thinker, censured by Roman Inquisitor

and suffered at the stake, affirmed knowledge is not only a

science, but also a heroico furore, a spasmodic strain (in a

very high poetical temperature), due certainly, a parte

subjecti, to an incoercible fever to find a full meaning to the

human life in the world, but generated also, a parte objecti,

by the temporaries and transmutability of truth: a

temporaries and a transmutability written in the laws of

universe. Infact, although he was near to the Copernican

theories concerning the philosophy of nature, he affirmed

with extraordinary far-sightedness, unlike Copernico, that

there was not an unmoveable centre in the universe.

Now, many people have just discussed, for a long time and

without success, as a such hypothesis could incite to refuse -

on principles - any monocentrism and could authorise, on

the contrary - an antidogmatic polycentrism, fertile of

significant cultural potentialities; let it is ascertained, in this

contest, so it derives, on consequence, that just the

inexistance of a fixed star or of a motor immobilis and the

admission of polycentrism, rule the memory journey in

Scelza, on the other hand, the brunian intervention in 1980,

had as an added name “La macchina della memoria”.

There is no matter to go backwards, until we run into a

point (an image, a figure, a language, a style) that is or can

be accepted, as steady and unmoveable, conceded to the

dialectic of comparison. And it has nothing to do with a

funnel path, towards the prospective focus: from the

multiplicity (the experience where we have thrown ourselves)

to the unity (the origin, the archetype).

Scelza uses memory in a dynamic way, committing it in a

propositive and historically active task, of laic analysis,

research and complexity flinging. In finding examples with

value of test, we look to some paintings of the cycle “after the

manner of Leonard”. For one thing, their characteristic,

already underlined, is the availability on movement. It is a

rotator movement that is primed by the structure as a

spinning top with a circular radial base (that reproposes

some patterns - fragments of machines, parts of scientific

apparatus - traced by Leonard’s designs) and conveyed

(with results of fraying and centrifugal multiplication of the

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34

image, that looks like spinning vortically as on a pin; a kind

of this rotor appeared also on a painting, in 1982, “Le

immagini che ruotano”) to the figure of an overhanging girl,

outlined according to the fifteenth-century canones and

roughed on Leonard’s iconographies; that figure turns

around and forms a sphere (spherical, exactly, like the Earth

or like the traditional, geometrical and symbolical,

representation of the Universe). It is a fanning of objects and

materials in the space, as from a nucleus that accumulates

(a tension accumulation, exactly) inclined planes,

perspective sectors, gearing, tierods and ropes, all that is

produced after an explosion, like in the “Isola of Leonardo”,

that is in the bottom like primer centre. Spiral-shaped

dynamics and pendulous swings, accurate like in a

clockwork, haunt almost all the showed pieces in “Macchine

di festa”.

Saying about these movements, in act and in work, means,

at once, saying that, for them or all round them, the memory

becomes an occasion of meeting for different languages. A

plain art made of grid, with signals that send to the collages

of the historical vanguards, holds - as if in a vice - and

stifles, somewhere, a nude of humanistic style, that - in the

vice - is becoming disfigured and similar to the typology of a

Michelangelesque prison (somewhere Sc. has haunted other

Michelangelesque figures and, in particular, the hand of

Creation). Under the “Ponti di Leonardo” the stream wraps

up itself in interwoven colour fibres and carries wreckage

whose workmanship - sometimes - reports to the cubism

iconography. Those plaited whirlpools, once more, are not

different from the silhouettes, next to the abstraction, used

in the symbolist season between the nineteenth and twentieth

century or by dynamic-plastic representations between pre-

futurism and futurism (I think to Medardo Rosso and the

first Boccioni) In the same moment, the coloured sky by

pyrotechnics, that projects on high material and objects,

recalls manifestly surrealistic skies, from Chagall to Mirò.

The variation of these experiences, the going across them

and reusing them in their copiousness, having begun from

Leonard and beginning again once that he meets him very

closely in the variety of his art (an art as research and

project) includes other meanings: there is not an event (or

writing or word or painting) that is not made up (or written

or expressed or painted again) when it’s carried in the time

of the experience; there is not study (or comparison or

dialogue) that is not widened and there is not true memory

whose fullness is not a large-ray excursion, a chain of

associations, a bridge system that puts in touch and in a

dialectical situation the like and the unlike; there is not

creative experience that is not, for this reason, research and

project, where the project, literally, I mean throw out oneself,

towards the future.

The birth has metonymical relationship with the project, in

its right semantic meaning; the birth is beaten in theme and

set up as a sense lynch-pin, whose signs are individuated in

the ovoid-shape, in the inwriting radial nucleus, in the

umbilical cord tied up to an anthropomorhous shaped stain:

the memory, in its full meaning, is also - antiphrastically -

prelude, beginning, birth: and there is not a full birth - a

birth that is a promise and hope, too - without memory. If

Leonard is the greatest genius of Humanism, a study and a

research experience dedicated to him, can mean for Scelza,

in all probability, to turn himself to that Humanism and to

grasp the necessity of a new humanism, that is built meeting

languages, souls and shapes that have marked our history:

we have to find them again, shoot them questions, reuse and

lend them to the future, to “pro-ject” them with a memory

work. And only in a new Humanism, that shows itself as an

open, conscious and multidirectional course of research,

there is a long way, an alternative, an opportunity of

renaissance.

Whatever the reason, the context and the historic prospects,

in which a need and a will of renaissance are justified, it

seems to me that it has been said by Scelza in the

immediately previous cycle, entitled “Zattera” and realised in

the last years of Eighties and at the first of Nineties. But, for

this time, Géricault is his interlocutor.

Choosing to compare himself with the work of art of the

romantic painter, that took inspiration from a real fact - the

wreck of “the Medusa” ship -, it is not a question of occasion

or unintentionity. As it often happens, might have the

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35

suggestions of a moment occurred, seductions of structures,

of pictorial orchestration and colour, that have solidified

and sedimented so much themselves in the time that they

have set up the incipit and given gather way to the research;

but there is not doubt, in my opinion, that it has been the

iconographic item, worked by Géricault in a crucial

historical period and in a era of changing to strengthen and

determine in Scelza the will of analysis, interpretation and

ri-writing with “La zattera della Medusa”, as in a hand to

hand fighting.

The wreck iconography, taken from Géricault and that he

himself also had run again in a memory journey (looking at

Michelangelo and Caravaggio, among others), becomes in

Scelza the metaphor (of a strong meaning, because freed

from every engagement of documentation and realistic

transcription) of an historical apocalypse, of the epochal

mutations in the last years of Eighties: with political and

social systems that wobble, spoil and pull down, with trainer

ideologies that disappear because they seem to find not space

in the history anymore, with a false dead calm (after the

devastater and infection storm) that seems to made of

resignation towards everything that is in existence. Or by

unarmed acceptance of things ineluctability that hardly

covers whirlpools of contradiction (bodies, beaten, wrecked

pieces not already rendered from the sea).

Memory, in this scelzian pictorial cycle, works finding

instruments and calibrating languages, inserting registers

and styles, to report about present and to break into. Even

the emergencies of myth, that mark the discourse, have a

pertinence to the actuality: they talk about towards the end

(that is among the used names and titles) or about a twilight

of gods (or of the ideologies) that drops the curtain on the

past (and on all that has a sacral, iniudged value in the

past) without excluding new “mitopoiesi” (and here the

projective tension and the dynamic fling of the Muses,

guarantees and protectresses of arts that seem to cut water

and air, are very emblematic; emblematic is, in relation to

them, the manna-ash - the manna tree, that flanks, escorts

and supports them) and without resigning to think and

imagine new scenaries. The wreck is apocalypse, but

palingenesy, too; and Scelza - in my opinion - places the

accent, in this cycle inspired to Géricault, more on the

palingenesy than on the apocalypse: on the new beginning,

that we have to hope and to look for (and to look for

appealing to the memory and to a new Humanism), in a

waste and troubled land, where death and end-sensation

live.

Although the representation sight centres itself recurrently on

destruction images (broken axles, poles and trees), the

semantics of new beginning is written, in reality, in these

Scelza pictorial texts, with a so marked and persistent sign to

show itself dominant: to confirm the responsibility of an

active and intentional task (the will to hope, the strong

endurance to the existing acceptance) cannot disappear

below the ideological horizon, below the tensions field, below

the art tasks. Just the centrifugal force of the elements,

catapulted radiantly on the sea from the raft level, recalls

manifestly, together with the destruction but also as

antagonist polo, the constructive dimension of a

metaphorical stretching in flight, of a slipping from a pang,

of a soaring towards another place where other scenaries,

other destinies, other utopias can be imaginable and can

have some space. Who has pointed as this scelzian cycle is

characterized by removal emergence and by freedom

accorded to unconscious dynamics, has certainly excellent

reasons, on condition that it is added that the returns or

such liberations, and “everything of ludic manipulation that

is recognised in the woods and in the tables (and in the

varied reiteration of the wreck iconography; the listening

removal is gathered also in the reason that here Géricault is

interpreted and practised in a preminent key, that is

visionary) answers just to recognisable cultural design: to

recall and reanimate, for a new Humanism, also the subject

resources exploited before only in part (the most recondite

resources, those usually are sacrificed on the altar of the

super-ego, of the social control and of the art logic) lending

them to the activation of further potentialities of the artistic

work, to the opening of other discourse frontiers. To pick up

them, to conclude, in the ambit of a project.

Not casually, in fact, a very clean continuous thread there is

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36

between the raft, whose fragments are strewn all around like

reconstruction seeds, that will be able to take root and bear

fruit, and the Leonard isle with utopian surrealist overhung

skies, because it is the place “par excellence”, where fantasy

and reason express themselves contributing to draw “more

human” different future (a future, also, in which, scissions,

breaks, and “ego” divisions are recomposed and the subject

is recovered in its whole totality. This continuous thread is so

strong and obvious that this experience could not exist,

really, without that one. And not casually, we can trace

many suggestions or syntonies, in the wooden boards of the

disjoined and surge broken boat (from theme and plant of

late-sixteenth century crucifixions to the sequences of Ceroli’s

wooden-writings). We can feel the clear trace, in my

opinion, of Mastroianni’s sculptures, in which, according to

a steady stylistic code, the destroying sense (contained in the

menaced and worrying iron arms, that are like war

machines) links itself, inevitably, with the constructive

energy (put in a futurist ancestors dynamism) of the plastic

fling that organized the material and gets it space and

breathing.

The plastic vocation of Scelza painting is certainly

obstinate, strong and of an overbearing physics; and it is not

enough the bodies weight, taken in a concise dialectic of

full and empty spaces, hollowed by the light (often by a

razor-slash of light) and modelled by violent “light and

shade” excursions (and this is one of the souls of “Gioco

degli Scuri”, in 1986, that is polyvalent even in the title):

bodies that the new figuration language folds and turns

from the Baroque realism to the Expressionism, in conformity

with a style that Sc. has never given up. That plastic vocation

needs a vaster habitat in which realising itself: it needs to go

out the painted area stretching and branching outside, to

interact, communicate and to agree completely with the rule

and the public task of art.

In this way it is possible to explain because, in his artistic

production of the later twenty years, the installations have so

much prominence, either alone or in connection with tables,

woods, cartoons and painting, as in a tridimensional text

with a bidimensional one on the opposite page; that it is

possible to explain also how Scelza elaboration, and the

events to which they are linked, distinguish themselves in

any case for a prospect of presence on the territory. On the

other hand, a project is not really the some if it is not

reported to a historical and geographic-cultural exactitude

of a contest and in reference to a waiting specific horizon.

In conclusion, in reference to a territory: a territory is like a

body, a living organism with its own memories, its own

values to refind and return against the prevailing disvalues,

a sort of its own Humanism to snatch out to the barbarity

that presses it: a territory to achieve again and in which live.

The paintings Stucchi colorati dal Sole are thought for the

territory, to be soaked inside, bear witness, extract another

history from that current, to impress the imagine and the

sense of a new possible history, of a radically different sign

(the sign of the “festivity”, the sign of a new recovered

collective life). The paintings Stucchi colorati dal Sole are an

intervention made in Catania in 1984, an intervention, of

course, not inspired to the logic of an aesthetic

decontextualization (of a self- turned enucleation of

elements, of a free pleasure of the test). In this work the

baroque performance of some particular outlines of the

town, hidden by a usually or troubled habitual visiting (an

habitual visiting with closed eyes, that let more look at than

see), means allusively the performance of the whole town, its

turning out in public, so its feasibility, its self-appropriation,

the restoration of its frustrate and denied identity that the

same town realises.

Stucco-works and balconies, woods and cartoons, belong to

machine category in their variety of materials and also in

their plastic exuberance, in their workshop and handcraft

die (and collective, sometimes) and in their making, in

finding a continuity and a dialectic link between interior

and exterior (all this is a chosen cultural product of Baroque

and, in particular, of borrominian architecture). In fact,

the machine is a little the unitary thread - the invariable

structure - of Scelza experiences of his last twenty years.

Machine like baroque piles, theatrical machine (that were

used in seventeenth-century representations and

accompanied the “coup de théatre”, in the ending), sacral

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and ritual machines, machines of festivity: machines like all

that of articulate and complex man can realise, for

experience, passion and knowledge: machines like

mechanisms and apparatus realised interlay by a project

work, by human fantasy and reason: instruments whose

structure consists in a kinematic relation of components

and whose function , among the others, is also the

transformation and energy transmission.

A sub-title as “La macchina della memoria”, marks and

comments to the brunian intervention in 1980, at this point

sums up and declares essentially the basic reasons of Scelza

next artistic experiences. That name, machine, has a

prognostic value and loads, emblematically, the memory

with dynamic tension and propulsive force: but it has also a

retrospective value and serves for specifying, definitively in

my opinion, ambits and edges of his pictorial work in his

former ten-year period.

The comparison with the technological universe that Scelza

was realising in that time, drawing together with others that

were experimenting their own “new-figurative” language on

“social” objects (it was named, opportunely, Calabria and

Turchiaro) seems to me being characterised for its

polymorphism and its polyvalence: this comparison, in fact,

is led from more perspective corners and so it has to consider

different points of view.

The tubular elements sequence is sometimes a really true

labyrinth (and labyrinth is chaos, but order too; it is a

dismay and wandering symptom and, together, a challenge

symptom; on the other hand, it is born as a challenge, in the

classic mythology), that moves from the interior, from a

factory enclosure, to the town outside (matching, meanwhile,

industrialization and urbanization). The sinusoid of an

iron stair (with below a man’s bending shadow) points out

an alienation path and belongs to the family of the infernal

machines, like those, gloomy and threatening, that often are

the background to the black and white old masterpieces of

the expressionist cinema (and infernal machines are

Altiforni , realised in the first Seventy years). Similar is the

building in City, in 1973, that is an assemblage of a mincer

shaped geometric solids, with a slim tower over and, on the

top, a handless watch, similar an inquisitorial eye, able of a

strong censorial supervision and of a uncontrolled and

absolute dominion. At last, the lyricism (perhaps suggestion

of a rural mythology waned on a future of progress, that is

required by the machine civilisation: so I intend in

Affrancazione delle terre, a more then thirty-year-old

painting) can also invest and cover technological implements

and changing itself into a lyricism of the material ( in some

Scelza paintings, that material dizzily accelerated and

deformed by the free, potent, light roared run of a motor-

bike. At last, the assemblage of natural and industrial

landscape can also generate suspense and metaphysical

microclimates (from this point of view particularly

indicative, is Fabbrica in 1972), but there is the contrast

between a protection overalls and a mechanic puppet to

forbid every ecstatic illusion, and confuting stunning idylls.

And the embroilment of tubular structures, on the point of

becoming a clotted stain of colour, will be attributed to a

gesture surge of liberating smack, and nevertheless, in

alliance with constant work of erosive time, it will mean an

implosion of mechanised world. All this will be a sign of

crisis and criticism, of a deliberated and ironic striking off

in sequence of the deputed technological places and of the

symbolic topography of the town.

That is the “ double character” of those threadlike skein of

pipes and, in short, the variety of the machine theme

declinations that does not follow any punctual and linear

history that concernes the technological civility in which we

are soaked: according to a lay-out that goes from the

attraction to the repulsion, from the myth to the

demystification, from the utopia to the disillusion, from the

dream to the reawakening. The variety and the polyvalence

of rules and uses - and the production machines, torture

machines, festivity machines - are, instead, present in

contemporaneity, with a simultaneous action, in all the

phases of his Scelza beginning season. And so are given

manifestations and symptoms of a greedy and voracious but

aware curiosity , of the a critical attention, that is also

propositive and able of a project and a hope, with whom

his art, from the beginning, turns towards the modernity

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IPOTeSI dI creScITA TecNOlOgIcAlA cITTA’

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...Poi la tua fuga su una collina ciociara: i boschi, le montagne

tutte intorno, la solitudine dei campi divennero nutrimento

quotidiano. Nacquero in quella pace, i i tuoi piccoli anelli,

«come una manciata di coriandoli», come un esercito di

bocche di ramoscelli gridanti dalle erbe all’uomo il loro

accorato legame. Sulla collina l’amicizia di Aldo Turchiaro si

aprì fiduciosa alla scelta delle tecniche migliori e

all’approfondimento delle problematiche proprie della pittura.

Finché volesti Roma (1967).

Furono duri i primi tempi: alzarsi all’alba era una necessità per

raggiungere la scuola lontana, ma erano contro il sole

nascente che si stagliavano gli infiniti tubi tutti intorno alle

strutture in cemento armato grattacieli dell’EUR: quelle

strutture ti affascinavano, ti stordivano e subito divennero

elementi della tua anima. Non più dalle erbe, ma da un mare

di metallo, le bocche di ramoscelli mutate in alberi giganteschi

invitavano al riposo tra tanti colori.

Ecco: cominci a costruire con ogni sorta di metallo visioni di

un mondo in cui ogni struttura è legata a un geometrismo

esasperato e insieme sospesa nel vuoto, in un assurdo e quasi

folle incrociarsi di panchine, sedie a sdraio, nuvole-uccelli e

piccoli uomini fatti di gesso; perché anche questi in realtà non

sono uomini ma soltanto oggetti che ricordano l’uomo, piccoli

automi. Nell’orditura delle mille cose presenti, ferme o

sospese nello spazio, nel gioco dei blù, rossi, dei grigi lucenti,

il gesso degli uomini seduti, al confronto, è sì affermazione di

finitezza, di accettazione supina dell’arcano, ma anche di

serenità, di gioioso adattamento a una nuova realtà fantastica

nella quale ogni interrogativo non ha più senso e tutto è

diventato un balletto senza requie nell’infinito azzurro del

nulla.

Sogno? Volontà di evasione da una realtà angosciosa in cui

sembra che l’uomo abbia perduto ogni traccia di spiritualità e

che ogni fiducia in lui va smarrendosi ?

Può darsi, ma soprattutto bisogno di tradurre in poesia del

colore vertigini dell’anima, amplessi strazianti col mistero del

nostro vivere e del nostro morire.

E cosa è un tuo « HABITAT»? Immagine di una consapevolezza

costruttiva nell’ambito di una dimensione urbana, ma anche

porzione di cristallo dalla quale traspare la tua pena segreta,

la tua speranza dolente di un mondo fatto di bellezza e di

amore.

E di silenzio anche. Quel silenzio di cui, per tua mano, erano

pervasi i disegni dei tuoi primi allievi e che ora ritorna.

Ma, ora, l’urlo è dentro le immagini, perché tutto è immerso

nel vuoto: porte e finestre viste come frammenti di una realtà

metafisica, sono indicative di un’esperienza che non consente

più illusioni sull’abitabilità umana di una città.

Le immagini successive, materiali plastici e metallici,

fabbriche, hangars, stadi, edifici ci danno la conferma di una

vocazione costruttivista, legate come sono al mondo della

tecnica. Esse sono costruite con un geometrismo allucinante e

se indubbia è la presa che afferra per un deciso nitore

cromatico, si sente tuttavia che una sorta di ambiguità viene

alla superficie per il dramma incombente: da un lato il fascino

della bellezza che è conquista dell’uomo - il prodigio

tecnologico è ormai incontestabile - , dall’altro la paura che è

nell’inconscio, come uno spettro che è in noi, che a mano a

mano ci divora, vanificando ogni tentativo di liberarcene: la

macchina perfetta che abbiamo costruito per inseguire un

sogno, ci scoppierà tra le mani e sarà la fine...

Daniele Majone

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Mare a Pozzuoli, 1968 - olio su tela cm 70x120

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A MAN FROM THE SOUTH IN THE MEGALOPOLISApril 1972

UN MERIDIONALE NELLA MEGALOPOLIAprile 1972

Italo Scelza, che proviene dal «profondo Sud» dell’Irpinia,

racconta nelle sue tele l’angoscia del meridionale che incontra

la megalopoli. Una angoscia, che si manifesta con degli ampi

squarci bianchi su tappeti metallici di tubi rosso minio, ma che

conserva una poesia antica e delicata. Può esserci poesia in una

struttura metallica, in una metropoli schematica e impersonale?

Scelza risponde affermativamente anche se questa poesia è

piena di nostalgia e di angosce. Non è l’alienazione

consumistica; è la grande solitudine dell’uomo nella megalopoli.

Nell’efficace «Piazza d’ltalia», nel «Giardini Pubblici», nel «Grande

Albero», nella gamma degli azzurri puliti e dei rossi aggressivi

nella loro monotonia e vastità, si ritagliano solitarie delle

sagome bianche senza volto: gli uomini della grande città. La

solitudine degli uomini separati dalla struttura urbanistica o

dalla selva di tubi scarlatti. L’uomo, la fabbrica, la città. I tre

elementi delle megalopoli che però si trovano su piani diversi:

sembrano vicini e frammisti, ma sono talmente lontani perché

su dimensioni diverse che non si incontrano mai. Si possono

confondere, ma non si incontrano. Questo il messaggio che

Italo Scelza trasmette con le sue tele con pudore e molta poesia,

senza violenza ma con molta angoscia? E con una tecnica

pittorica veramente importante che ripudia il facile e

l’impreciso. Eppoi gli «alberi»: gli strani alberi di Italo Scelza fatti

anch’essi di tubi aggrovigliati. Alberi decorativi, tracciati

minuziosamente a mano con migliaia di cerchi grigi, verdi, blu,

gialli, viola: alberi o ciminiere? Decorazione non «natura», come

è il «verde» nelle grandi città. Metafisico fantastico e metafisico

surreale? Entrambi. Perché le megalopoli sono sempre più

fantastiche e sempre più surreali. Scelza coglie questa realtà nei

suoi «alberi» che sono, assieme alle sagome bianche e agli

squarci candidi e angosciosi, i temi ricorrenti di questa sua

prima «personale» cui il giovane pittore meridionale è giunto

dopo una intima crisi che gli aveva fatto appendere al chiodo

tavolozza e pennelli. L’impatto col metallo risveglierà poi la sua

vena pittorica, la sua indole poetica fatta di angosce e paure

che il pittore esalta con la nitidezza della sua grafia, con la

chiarezza dei suoi colori. Nessun crepuscolo, molta solitudine.

Dove andrà Italo Scelza? Una risposta c’è, a nostro avviso,

nell’ultima delle sue tele: «il Grande prato». Un quadro notevole.

Uno squarcio di pianura composto da un tappeto di tubi verdi,

azzurri, marrone che si perde nell’orizzonte: la campagna

metafisica di domani ?

Italo Avellino

Italo Scelza, coming from the “deep South” of Irpinia, narrates

in his paintings the anguish of the Southern man meeting the

megalopolis. His anguish expresses itself through big white

lacerations on metallic rugs made of minium red pipes, but it

keeps an ancient and delicate poetry. Can poetry exist in a

metallic structure, in a schematic and impersonal metropolis?

Scelza affirms it can exist, even though this poetry is full of

anguish and nostalgia. It is not the alienation of the consumer

goods era; it is the deep loneliness of man in the megalopolis. In

the effective “Piazza d’Italia”, in “Giardini Pubblici”, in

“Grande Albero”, ir the range of clean blue and red colours,

aggressive in its monotony and vastity, there are solitary white

shapes with no face: men in the big city. The solitude of men

kept away from the urbane structure or from the wood of scarlet

pipes. Man, factory, city. The three elements of a megalopolis are

on different levels: they seem near and mixed, but in fact they

are very far, because they find themselves in different dimensions

that never meet. They can get mixed, but they never meet. This is

the message Italo Scelza is conveying through his paintings,

showing chastity and poetry, but also a deep sense of anguish,

and through a very important pictorial technique refusing what

is easy and not precise. And then there are “trees”: the strange

Italo Scelza trees also made of entangled pipes. They are

ornamental trees, drawn in detail by hand through thousand of

grey, green, blue, yellow, violet circles: are they trees or

chimneys? They are more a decoration than “nature”, like

“green” spaces are in big cities. A fantastic metaphysical or a

surrealistic metaphysical element? Both, because a megalopolis

is more and more fantastic and metaphysical. Scelza portrays

this reality in his “trees” that, together with the white shapes and

the innocent and painful lacerations, are the most significant

topics of his first one-man exhibition, which the young Southern

painter has attained after a long crisis, during which he had

stopped painting. The impact with metal will wake his pictorial

creativity, his poetry made of anguish and fears exalted by the

painter through his shining graphics, and his clear colours.

There is no dusk, but still a deep loneliness. In what direction is

Italo Scelza going? We think the answer is in his last painting:

“il Grande Prato”. This is a remarkable picture portraying a

plain structured as a rug of green, blue, brown pipes dissolving

in the distance: is this the metaphysical country of tomorrow?

Italo Avellino

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Tra le tante ipotesi sull’esito di una crescita tecnologica postulata come alienante, questa di Italo Scelza non è poi la peggiore, e si direbbe anzi, stando al giuoco sottile dell’ironia che la pervade, ch’è da sottoscrivere senz’altro, a scanso di più temibili approdi. Troppi discorsi su codesti approdi, facili profezie spontanee o indotte di tanta giovane pittura fino a ieri, sono stati sgambettati dal loro stesso pessimismo: non tanto per essersi fatti più realisti del re, quanto per l’acquisita coscienza di uno spreco, soggettivo e oggettivo, che avrebbe potuto in verità assumersi in linea di principio prima ancora d’essere registrato nei fatti. Scelza, diciamolo subito, non è epigono di un’arte denunciataria che ha fatto il proprio tempo, se mai ha avuto un tempo proprio; la sua pittura non ha semplici o facili equivalenti verbali, non è insomma, per smentirci prontamente, un’ipotesi, bensì appunto pittura, con tutta l’autonomia, la complessità e la specificità che ne consegue. Evitata con questa pregiudiziale la remora della prevaricazione socio-politica vediamo ora liberamente qual’è il mondo prospettato dalla fantasia di Scelza, sicuri dunque che di fantasia appunto si tratta e non di programma ideologico. Quel mondo si desume facilmente dalla lettura dei singoli quadri, seppure lettura ancora parziale e di comodo espositivo. Da una parte si vede un «Giardino pubblico», di null’altro costituito che di una serie di piani orizzontali in fuga verso un orizzonte inesistente, con panchine, che sono astratte prospettive mentali, popolate di omini di gesso, e la vegetazione ridotta ad alberelli assai poco verdi ed assai poco lussureggianti. Nell’«Albero sulla fabbrica», sui tetti rossi dell’opificio, tagliati ed appena visibili, quasi emarginati come appendice d’un mondo superato, giganteggia un albero di trucioli metallici, di retìna tagliata in brevi filtri ricurvi, sul quale gli stessi omini gessosi, quasi membri anonimi di un medesimo anonimo esercito, se ne stanno come in vacanza, si direbbe assunti in eterna vacanza. Il «Grande albero» è una sorta di sagra dai colori vivaci, come una manciata di coriandoli che prendono corpo e diventano selva di tubi colorati, cespugli metallici, sedie a sdraio sospese in un festoso tecnicolor dove gli uomini si aggirano o siedono smemorati. Nella «Piazza d’Italia» non sono manichini né statue silenti, ma fredde squadre d’acciaio a misurare uno spazio asettico, un ordinatissimo labirinto di tubi sul quale operai senza volto sono intenti a un lavoro misterioso. Si potrebbe continuare, ma ognuno vede, nella breve caratterizzazione che se n’è data, i tratti di un mondo snaturato, dove tutto è fittizio ed inutile. La natura ha preso la consistenza assurda di un metallo, a sua volta quasi organico

e come verminoso; le strutture urbane seguono una lucida follia senza storia né scopo, non hanno funzione alcuna e non sono in alcun modo utilizzabili - eppure risultano abitate da uomini che sembrano trovarsi a tutto loro agio. È indifferente che l’albero nasca dalla terra o resti sospeso nel vuoto, e i tubi che popolano la «Fabbrica sulla spiaggia» sono animata congerie da cui si leva un brusio indecifrabile. Il sogno di Scelza non è quello di Chagall, manca del sorriso e della malinconia, del dolce, accorato, appassionato stupore che sono di un vecchio mondo in cui si è vissuto e amato e sofferto. È piuttosto il sogno reale e allucinante di Gregorio Samsa, o quell’altro, cui ci conducono i binari scorrevoli di questa vertigine tecnologica, laica e consumistica.Ma siffatta lettura è ancora parziale, e Scelza non è moralista ma poeta. Se l’uomo di codesto suo strano mondo non sembra registrare alcun disagio bisogna pure riconoscere che l’ambiente in cui esso vive compie uno sforzo considerevole per confortarlo.Un bioccolo spumoso di detersivo levato dal vento a offendere, a contaminare la chioma pure farraginosa di un albero è in realtà nuvola, gigantesca farfalla che si posa tra grigi verdeazzurri. L’albero non frutta rifiuti, tubi o ferraglia, ma questi son frutti sognati, dove il vermiglione canta sull’oltre mare e il bianco vi s’accorda vibrante. E nel giardino, la singolare verzura ricciolata, come di bigodini non ancora tolti, si leva in volo, a sciogliere nella fantasia i nodi della ragione. L’artista, in altre parole, si muove lungo una prospettiva scelta con la partecipe coscienza di appartenere a un tempo che di scelte non ne lascia troppe - e lo dimostra il cammino compiuto dalla sua pittura, da una materia corposa e da una visione mossa, anzi sommossa da una spinta romantico-espressionista, all’approdo di queste calcolate politezze; ma su quella prospettiva opera poi con ammirevole fedeltà alla matrice lirica ch’è la sua più profonda, ad essa riducendo ogni assunto intenzionale, che senza smentirsi cambia tuttavia natura, e il giudizio si colora d’ironia, e lo sgomento stupisce in una estasi incantata e disincantata insieme. Prendiamo coscienza, sembra voler dire Scelza, dello slittamento pericoloso e assurdo che stiamo vivendo; ma la sua pittura confonde la semplicità di quel concetto, lo smentisce e lo arricchisce, ne annega il senso letterale in quello di un’esperienza ben più complessa e implicante, dove la ragione è quella appunto della fantasia, e non v’è rischio senza la salvezza - limitante quanto risolutiva - dell’arte.

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IPOTESI SULL’ESITO DI UNA CRESCITA TECNOLOGICARoma, 1971

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La piazza d’Italia, 1970/71 - olio su tela cm 180x220

Page 48: in itinere

46

La fabbrica sulla spiaggia, 1970/71 - olio su tela cm 155x147

Page 49: in itinere

47

La primavera di plastica, 1970/71 - olio su tela cm 125x125

Page 50: in itinere

48

Albero alla Magliana, 1970 - olio su tela 150x160

Page 51: in itinere

49

GARDENS OF THE FUTUREPaese Sera, Novembre 1971

There will be a day when you have quarters and gardens

with a lot of space, and where everything is going to look

cleaner, as if washed by a tanker. Polaroid plates (for

rational dosing and filtering of light) will protect and

regenerate daily in its large spaces your sight, put on test by

work. Undergrounds with thermic power stations and

irradiation plants of ultraviolet rays, now urban structures,

will guarantee climatization and eliotherapy in colder

seasons. You will breathe air and you will absorb water with

no smog e no bacteria: purified by huge ozone distributors.

From this world, analysed with screens and filters (in which

neurosis will be a memory of the past), from this very rational

habitat, you will look at the Fourier Falansterio as if looking

at a prehistoric episode of utopistic philosophy. This could be

one of the ways of reading the futurist fable painted by young

Italo Scelza (Ciak Gallery). Of course, as with all fables, this

too has a moral.

The moral consists, as obvious, in saying that everything

would be too clear, too frozen, too tediously “hygienic” to

reflect our desires; that if in today world there is too much

disorder, in that Falansterio (distorted projection, with a light

hand, of certain little promises made, but not kept, by tv

consolers of the moment) there is too much order. In other

words, the moral says that we do not need such a number of

corrections to our discomfort.

As if to say, as a conclusion: do not “rebuild” nature, make it

better (or, at least, do not abandon it to what technology is

doing at its back, prevaricating it). Give us half of what you

are foretelling, which will be enough for our life to be human

(and will leave a little margin to our legitimate “appetite for

disorder’’).

Should we interpret this as a funny invitation to read such

representation of utopia upside down? No, this is an

exaggeration. Scelza is a lyrical artist, and he does not want,

or cannot drive us to touch a complete fraud, hidden behind

such a clear representation of the possible future, as his

rappresentation is.

Giuffré is right in his preface, when saying that the possible

deception about the meaning of such a painting is in that

limbo of enchantments where the artist lives and makes

others live.

Duilio Morosini

I GIARDINI DEL FUTUROPaese Sera, Novembre 1971

Verrà il giorno in cui avrete quartieri e giardini con uno spazio

da vendere ed in cui tutto vi apparirà più che pulito, passato

all’autoclave. Nelle sue grandi distese, lastre di polaroide (per il

dosaggio e filtraggio razionale della luce) proteggeranno e

rigenereranno quotidianamente la vostra vista messa alla prova

dal lavoro. Sottosuoli con centrali termiche ed impianti di

irradiazione di raggi ultra violetti - diventati servizi urbani - vi

garantiranno climatizzazione ed elioterapia nelle stagioni più

impervie. Respirerete aria ed assorbirete acqua senza smog e

senza batteri: depurate da giganteschi distributori di ozono. Da

questo mondo, passato al vaglio di tanti schermi e filtri (nel

quale la nevrosi resterà un brutto ricordo del passato), da

questo razionalissimo habitat, guarderete al Falansterio di

Fourier come ad un preistorico episodio della filosofia

utopistica. Ebbene, questo potrebbe essere uno dei modi di

leggere la favola avveniristica dipinta dal giovane Italo - Scelza

(Galleria Ciack). Naturalmente, come tutte le favole, anche

questa ha la sua morale.

Una morale che consiste - è ovvio nel dire che tutto ciò sarebbe

troppo nitido, troppo terso, troppo ibernato, troppo

noiosamente «igienico» per corrispondere ai nostri desideri.

Che, se nel mondo di oggi, c’è troppo disordine, in quel tale

Falansterio (proiezione distorta - da una mano leggera - di certe

più spicciole promesse che ci vengono fatte - e non mantenute

- dai televisivi consolatori di turno) ci sarebbe troppo ordine. In

altre parole che non abbiamo bisogno di una tale dovizia di

correttivi al nostro disagio. Come dire, per concludere: non

«ricostruiteci» la natura, miglioratecela (o, perlomeno, non

abbandonatela alla prevaricazione che la tecnica sta

esercitando, oggi, alle sue spalle). Dateci, insomma, la metà di

quanto profetizzate, che basterà all’umana misura alla nostra

vita (e lascierà al nostro legittimo «appetito di disordine» quel

minimo di margine che gli ci vuole). Ebbene, dobbiamo

interpretare tutto ciò come uno spiritoso invito a leggere a

rovescio questa figurazione dell’utopia? No, non esageriamo

Scelza è un lirico, e, come tale, non intende - né può - indurci a

toccare con mano una totale impostura, occultata dietro una

tanto limpida rappresentazione del futuribile, quale è la sua. Ha

ragione - ecco - , il prefatore - Giuffrè - la dove dice che

l’equivocabilità circa il significato di una pittura come questa,

resta pur sempre sospesa nel limbo degli incantamenti di cui

l’autore vive e fa vivere.

Duilio Morosini

Page 52: in itinere

50

Per come stanno, oggi, i rapporti tra arte e società, non credo

sia di qualche utilità derivare dalle opere più certe di un

pittore o magari di una corrente viva qual è quella attuale dei

giovani neometafisici attivi tra Roma e Bologna (di contenuti

urbani e non mitici mediterranei) una ricetta di pittura della

realtà con una pronta indicazione ideologica di maggiore

utilità sociale, di più efficace comunicazione, insomma di un

lirismo urbano al servizio della lotta di classe.

Questa del lirismo urbano è una ricerca in atto e va lasciata

libera, anche se ora aiutata o contraddetta nell’analisi e nei

risultati da noi che facciamo cronaca e critica. Anche perché è

difficile dire, oggi, se si riesca a dare forma esatta al senso

storico-esistenziale del tempo e dell’ambiente nostri più con

la potenza del comico e dell’ironia, oppure con la violenza

del terribile, oppure ancora con la grazia del lirismo metafisico

che dà evidenza all’apparizione di nuovi segni, oltre quelli già

manifestati nello spazio del quadro, d’una «profondità abitata»

contemporanea tutta da conoscere e da far conoscere. E

lascerei posto anche all’ipotesi che si debba, invece,

sgomberare il campo dell’esperienza di tutti o quasi tutti i

vecchi segni, magari per dare soltanto evidenza contestatrice

e provocatoria al rifiuto vero, al vuoto, al nulla.

Lo si potrà dire per un’esperienza di tempo lungo. Intanto,

ciascuno, artista o storico o cronista, o anche negatore di tutto

ciò, stia dentro il tempo, contribuisca a fare quello che egli

crede sia il nostro tempo, con senso umano ricco e esatto,

tendenzioso e combattente ma senza ricette per mentire sul

fatto di tenere o no in pugno la vita.

Italo Scelza, dal 1969 in qua, ha avviato una ricerca solitaria,

che è nella sua natura, nel suo modo di vedere e pensare, ma

con lo sguardo bene attento alle ricerche tra analitiche e

visionarie di altri giovani: ha visto la «tessitura» visionaria di

verdi, azzurri, grigi e bianchi dei fantasmi sociali di Ennio

Calabria, ha visto anche la favola primitiva e ironica «alla

maniera del Doganiere Rousseau» sulla natura che si mangia

la tecnica che va dipingendo Aldo Turchiaro.

Le immagini di città e di natura che qui presenta Italo Scelza

sono ricche di significati e la serenità della visione è come la

preparazione a un’apparizione altra portatrice di significati

altri. I quadri sono sempre costruiti con energia, grazia, ironia.

Il fatto che il mondo sia dipinto come uno spazio dove

l’immaginazione può muoversi con movimenti quasi musicali,

di balletto - il «ballet mécanique» di Fernand Léger, perché no?

-, non significa cancellazione o svista dei contenuti tragici e

violenti del mondo, anzi.

Italo Scelza parte dalla realtà ma corre avanti con

l’immaginazione. Venuto alla città da luoghi di antica

campagna e di più antica natura, ora ne restituisce

un’immagine costruita dal punto di vista della città, con le

idee e l’esperienza della città industriale, tecnologica e

consumistica.

Le occasioni poetiche per quella che diventerà l’immagine

visionaria possono essere le più quotidiane e banali: i

materiali plastici e metallici dei cantieri, le fabbriche, le

macchine industriali, le vernici, i vapori chimici, il gioco e il

conflitto di tutto ciò con l’antica natura: ne viene fuori un

«palcoscenico» lirico neometafisico con un balletto di forme e

colori bene armonizzati tra il minerale e l’organico. E quello

che poteva essere un carattere originale ma sperduto in

un’immagine tradizionale della natura - il costruire «tubista»

già usato da Léger negli anni venti e da Malevic realista

cubista alcuni anni prima - viene ripetuto ossessivamente,

anche se con grande armonia, fino a diventare un carattere

tipico e fondante per la metafora. Ha capito il lirismo urbano

di Titina Maselli.

Tutte le immagini sono molto costruite e non c’è posto per

niente che non sia costruito e non segua, nella crescita, un

metodo, una geometria; le piazze d’Italia (De Chirico forse ci

si orienterebbe borbottando ma abbastanza soddisfatto), i

giardini, le spiagge, le valli, le case, gli alberi, le nuvole, le

acque è tutto ricondotto alla visione di una fabbrica generale

con sagome di troppo grande e incontrollabile.

L’immagine ironica ha una sua calcolata ambiguità: c’è bellezza

delle cose ma anche spettralità. Da pittore intensamente lirico

com’è, Italo Scelza lascia all’uomo, e non alla tecnologia e alle

macchine, il significato e la prospettiva della costruzione.

Dario Micacchi

I CONTENUTI URBANIAprile, 1972

Page 53: in itinere

51

...Italo Scelza starts from reality, then goes on to imagination.

He moved to the city from places of old country origin and

from an even older landscape, and he now gives us back a

picture filtered by the urban viewpoint, based on ideas and

experiences of the industrial, technological city, a city of

consumer goods.

The poetic inspirations of what becomes the visionary image

can be very common and off everyday life: plastic and

metallic materials used in construction sites, factories,

industrial machines, paints, chemical exhalations, the game

and conflict of modernity with old nature; the result is a

lyrical and neometaphysical “stage” where a dance of forms

and colours is performed, a harmony between the mineral

and the organic elements. What could be an original feature,

but lost in a traditional image of nature - the “tubist”

structuring already used by Léger in the 20s and by realist

cubist Malevic some years before that - is here repeated

obsessively, even though with deep harmony, to become a

typical and basic feature of metaphor. He has an

understanding for the urban lyricism of Titina Maselli.

All images are structured pretty much, and there is no place

for what is not built and does not use a method, a geometry

in growing; the Italian squares (De Chirico would probably

look at them grumbling, but he would be rather satisfied), the

gardens, the beaches, the valleys, the houses, the trees, the

clouds, the waters, everything is united in a vision of a

factory with too big and uncontrollable figures.

The ironic image shows a calculated ambiguity: there is beauty in

things, but also a ghostly feeling. Italo Scelza is an intensely lyrical

painter leaving to man, and not to technology or to machines, the

meaning and perspective of building.

Dario Micacchi

URBAN CONTENTSAprile, 1972

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52

Canta un inno, auguri di primo maggio: «Compagno sole, /

non drizzare gli aculei, non sgattaiolartela! / Ordina / alle

nubi / di liberare le strade. / La festa odierna / è la festa dei

lavoratori. / E non sabotare: / Sorgi e illumina!».

Majakovsky

A hymn sings, have a happy first of May: "Comrade sun, /do

not erect your stings, do not run away! / Order / clouds / to

free the streets. / Today's feast / is workers feast. / And do not

sabotage: / Rise and illuminate!"

Majakovsky

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53

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54

Officina uno, 1972 - olio su tela cm 170x170

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Stadio, 1972 - olio su tela cm 150x150

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Officina tre, 1972 - olio su tela cm 120x120

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Case al Salario, 1972 - olio su tela cm 100x110

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58

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glI OggeTTI

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60

... ecco un altro materiale d’uso ed anche assai

volgare, portato alla poesia con invenzione

luminosa. Mi riporta alla terra e alle stagioni Italo

Scelza con il suo trittico di verdi, bleu e con

bianchi poeticamente rubati alla pittura murale

delle sacre pareti umbre: colore-materia di una

Italia che si può amare, colore-materia di un

Mediterraneo che può essere ancora grembo, di

una natura da vivere dentro la storia con

naturalezza, con dolcezza, con amore che mi

riporta all’antica arte.

Dario Micacchi

... there is another material of use, and very

popular too, carried to the poetry with a light

invention. Italo Scelza carries me again to the

earth and to the seasons with h is trittic of green,

blue and white poetically rubbed from the mural

painting of the umbre sacral walls: color-material

of a lovely Italy, color-material of a Mediterranean

that can be still womb, of a nature that can be

lived into the history withty, with sweetness, with a

love that carries me again to the old art.

Dario Micacchi

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61

Page 64: in itinere

Quella dell’ironia è una linea maestra nella vicenda artistica del nostro novecento, e lo è con una varietà di gradazioni tanto ricca quanto composita, dall’iroso sarcastico al beffardo acidulo al satirico blando, finalmente alla grazia sorridente, all’umorismo lieve, al capriccio. I busti per una galleria da allestire idealmente contro il tetro museo della retorica patria o del pigolìo intimistico non mancano, magari senza sovrabbondare: e computando doverosamente e con onesta sapienza gli imprestiti e gli incroci e le generose contaminazioni tra creatività figurativa e creatività letteraria, per esempio, peraltro plateali in epoca di avanguardie storiche, si può abbastanza agevolmente giungere a riempirne tutte le nicchie. Svevo e Palazzeschi, tanto per cominciare, occuperebbero forse le due più grandi, e comunque le due più visitate: loro che, quanto a amicizia e frequentazione di artisti non sono secondi a molti, nel secolo.E coi risultati che sappiamo. Tra l’altro, in modi anche imprevedibili e di grande iniziativa fantastica, a me pare che il palazzeschiano lasciatemi divertire! continui a lievitare, e a dar frutti, almeno in tutta una già matura fase dell’operosità di un pittore giovane come Italo Scelza, tra il ‘69 e il ‘72: naturalmente, con tutta la capacità evocatrice di sottile disagio che ogni «divertimento» e ogni lirica grazia oggi comportano.Colpiva, nelle sue tele di questi anni recenti, una sorta di innocenza impassibile che si trasformava di colpo in identificazione magica con gli oggetti e col paesaggio. Quanto di allucinato emergeva da quelle spettacolose vegetazioni cilindriche, da quelle fantasie ballerine di tubi in cui restavano come impigliati in una giostra, sedie, macchinari, omìni pallidi e sfocati bioccoli nuvolosi di detersivo, non implicava comunque da parte del pittore alcuna soggezione feticistica. Il suo occhio coglieva la loro aggregazione geometrica e la loro disintegrazione plastica e cromatica con assoluta, gioiosa imperturbabilità: il baratro con tutto il suo orrore si apriva sempre un attimo prima, o un attimo dopo. Quella che Lacan chiama jouissance, marcava il fiabesco universo tecnologico di quel periodo della figurazione scelziana di significati dai quali rimaneva costantemente assente qualsiasi oscurità viscerale, qualsiasi buio dell’angoscia. Lo spettacolo fruiva di una luce totale, mediterranea, abbagliante: e l’unico coefficiente di malessere veniva comunicato, stranamente, dal rigore fanatico dell’esecuzione, dall’esibizione tranquilla e quasi impudica delle forme che celebravano una coesistenza pacifica (il cui prezzo non veniva enunciato se non dall’esiguità minuscola delle sagome umane, tanto simili a innocui ectoplasmi) tra mondo della tecnica, mondo vegetale e presenza dell’uomo. Le opere e i maestri che la pittura di Scelza aveva attraversato con la sua deliziosa turbolenza venivano immediatamente alla mente e allo sguardo, per sparire subito dopo, pacatamente travolti dopo l’uso dalla sua grazia felice, dalla sua (im) pertinente ironia: Mirò e le «piazze d’Italia» di De Chirico debitamente degradate al livello dell’ovvio, il Léger «tubista», Malevic, la Maselli spogliata della sua più caratteristica aggressività. Da questo viaggio pieno

di coincidenze non certo casuali veniva fuori un’autonomia liberata senza sforzo: la faccia di quel viaggiatore lirico che era Italo Scelza era una faccia ben sua. Sono vicende appena di ieri; ma tutti sappiamo quante cose siano successe, quante prospettive cambiate, quante monete svilite da appena poche ore a questa parte. Sulla tersa cosmogonìa scelziana dev’essere passato un brivido, che ne ha cancellato la proliferante vivacità e il luccicante splendore, costringendolo di colpo a una riduzione violenta, seccamente traumatica. L’occhio odierno di Scelza non è più occhio di Tarzan che segue con quieta festevolezza la gloria esuberante di una giungla sia pure artificiale: è l’occhio del cacciatore bianco, omicida e possibile vittima al contempo, carico di sospetto e di allarme. Ed è fisso su un obiettivo alla volta: una macchia per scrivere arancione, che occupa interamente il fondo bleu della grande tela, con la leva di scorrimento pronta a scattare come una mannaia, in un clima di esecuzione la cui emozionalità timbrica agisce tanto brutalmente da eludere qualsiasi sollecitazione di neutralismo pop; o ancora un oggetto-serbatoio realizzato su una ricca scala di verdi, che scatena una suggestione enigmatica, intrigante: un quadro che agisce sullo spettatore per gradi, con sinuosa perfidia, e il cui fascino profondo produce una lenta, pertinace aggressione sull’incauto che vi si esorbitano da ogni naturalismo «magico» o «metafisico» in virtù del drammatico frantumarsi delle linee e del colorismo vivacissimo; o la «valvola» che assume, in una specie di repentina «zummata», aspetto di moschea, una mostruosa moschea carica di bianco, calcinata e metallica, sormontata da un minareto molto fallico, incivettito, come da uno stemma che meno surrealista e meno magrittiano non potrebbe essere, da un improbabile orologio privo di lancette: capriccio e ironia contro il bieco sfondo scuro dentro cui si staglia il profilo malvagio, gelido di una costruzione mica tanto ospitale.Su queste chiavi si muove la recentissima pittura di Scelza. La sua «felicità» terrestre sembra definitivamente incrinata, e comunque messa in crisi dallo spaventoso «raziocinio» di eventi della nostra storia di oggi non più misurabili in termini figurativi che non implichino la tragedia, l’angoscia, infine una disperazione senza romanticismo. La fermezza e la lucidità del pittore in questo confronto non lasciano dubbi sull’esito espressivo, sulla sua implacabile ricchezza metaforica, sulla sua spesso lancinante acutezza visionaria. Pur «congelati» dalla sapienza del suo attuale PROGETTO, i doni di Scelza (la sua corposità sensuale, la sua immediata fisicità) e le contraddizioni della sua ideologia e della sua storia personale (il suo costante rapporto di amore-odio, di attrazione-rigetto con la macchina e il manufatto tecnologico) continuano a possedere una carica straordinariamente attiva e a sprigionare una densità stilistica tutt’altro che frequente tra gli artisti italiani della sua generazione. Mario Lunetta

62

UNA “FELICITà” TERRESTRE DEFINITIVAMENTE INCRINATA

Page 65: in itinere

A TOTALLY UNDERMINED MUNDANE "HAPPINESS"

63

Irony is a crucial reference for art in the XX century in its

various rich and compound tones: from angry-sarcastic, to

mocking-sharp, eventually to smiling grace, light humour,

fancy. There are quite a few busts to create a gallery fighting

against the grey museum of national rhetoric or of intimist

peeping, even without exaggeration: and if, for example, we

seriously and honestly consider what literature lent art, and

the crossings and rich contaminations between the two

creative forms, very clear in the epoch of historical avant-

gardes, we can easily refer to them to fill up all niches.

Svevo and Palazzeschi to begin with, would be placed into

the two largest, maybe most popular niches: not many people

in this century had friends among artists as they did. And we

know the results of such friendships. I think that Palazzeschi’s

“Let me enjoy myself!” (“Lasciatemi divertire!”) influenced, in

a manner unpredictable and full of fantastic grace, an

already mature phase of a young painter’s activity between

1969 and 1972: that of Italo Scelza.

We must take into account, of course, the slight awkwardness

that every “divertissement” and lyrical grace provoke

nowadays.

What caught one’s attention in Scelza’s recent paintings, was

a kind of impassive innocence, transforming quickly into a

magical identification with objects and landscape.

There was no hint of feticism in the hallucinated visions of

the painter: spectacular, cylindrical vegetation, moving

fantasies made of tubes in which, as a merry-go-round,

chairs, machines, little pale men and focusless washing

powder clouds were entangled.

The painter’s eye caught their geometric aggregation and

plastic-coloured disaggregation with an absolute and joyous

calmness: the chasm always opened one moment before or

afterwards.

What Lacan defines jouissance marked the fairy-tale

technological universe of Scelza’s imagination of that period

with meanings bearing no inner obscurity, no painful

darkness.

The scenery offered a total, Mediterranean, blinding light: the

only distress was conveyed, in a strange way, by the painting

severity, and by showing forms celebrating a peaceful

coexistence in a calm and almost chaste way (the price of

which was not described, if not through the little human

figures, that were so similar to harmless hectoplasms) between

the technological world, the plant-world, and human

presence.

The works and masters that Scelza’s art had gone through

with delicious turbulence immediately came to one’s mind

and sight, to disappear immediately afterwards, peacefully

caught after they had been used by his positive grace, by his

(im)pertinent irony: Miro and De Chirico’s “Italian Squares”

appropriately brought to the obvious, the “tubistic” Léger,

Malevic, Maselli without her characteristic aggressiveness.

This journey full of unincidental coincidences gave birth to

an easily attained autonomy: the face of that lyrical traveller,

who in fact was Italo Scelza, was one of his typical faces.

We are describing events that just happened yesterday: but we

all know how many things occured, how many perspectives

changed, how many coins became less precious in the last

few hours.

Mario Lunetta

Page 66: in itinere

64

DAL DIARIO DI GUALDO

L’idea di realizzare a Gualdo Tadino un Centro Promozionale

per l’artigianato e la piccola industria maturò dall’esigenza di

porre le basi per la rinascita culturale ed economica di una

città in cui emigrazione e sottoccupazione andavano

assumendo proporzioni preoccupanti per l’inadeguatezza

delle deboli strutture produttive artigiane.

Coscienti che il problema dell’occupazione e dello sviluppo

civile può essere risolto soltanto dal successo delle grandi

lotte in corso nel Paese per una diversa politica

programmatica, ritenemmo tuttavia possibile mobilitare a

livello locale tutte le risorse disponibili per valorizzare e

potenziare le capacità esistenti.

L’incontro degli Artisti con Gualdo Tadino vuole essere la

prima esperienza di collegamento diretto e di lavoro comune

tra artisti, artigiani, operai e giovani studenti; l’occasione per

il recupero di un rapporto organico tra arte e popolo, tra

cultura e lavoro. L’incontro vuole essere anche un esempio di

come sia possibile rivitalizzare e popolarizzare i beni culturali

troppo spesso soffocati da una concezione statica dei musei e

delle pinacoteche.

Purtroppo ancora oggi l’idea del centro promozionale di

Gualdo Tadino, non dà cenni di vita, probabilmente anche

questo tentativo di rinascita culturale viene soffocato da un

ingranaggio politico-burocratico nel quale tutti i presupposti

di nascita delle grandi lotte culturali nel Paese vengono

spesso volutamente dimenticate.

Italo Scelza

FROM GUALDO DIARY

The idea of creating in Gualdo Tadino a Centre promoting

craftsmanship and small industry came from the need to

build thefoundations for the cultural and economic rebirth

of a town, where emigration and underemployment were

becoming a really worrying problem, because of the

inadequacy of the weak productive handicraft structures. We

were conscious of the fact that employment and civil

development can be overcome only if the big fights going on

in the country to achieve a different political planning will

be successful: still we thought it would be possible to involve

all local resources we could use, to develop and give the right

value to what already existed. The Meeting of Artists with

Gualdo Tadino is the first experience in a direct connection

and common work of artists and artisans, workers, and

young students; it is the chance to rebuild an organic

relationship between art and the people, between culture and

work. The Meeting is also an example of how one can

revitalise cultural resources and make them popular, which

are too often belittled by a very static concept of museums

and art galleries. Today the project for this Centre in Gualdo

Tadino has not yet been realised. Also this attempt to make

culture live again is probably being belittled and made

impossible by politics and bureaucracy, which too often make

people forget all foundations of remarkable cultural fights.

Italo Scelza

Page 67: in itinere

65

UNA CRESCITA POETICA NELLA PRASSI

Risale al 1969 il mio vero impatto

con il grande centro urbano. Mi

precede, in provincia, un’attività di

ricerca in cui i fatti del mondo, i

g r o s s i p r o b l e m i p o l i t i c i i n

discuss ione, impegnano la mia

coscienza umana più che la mia

volontà di fare arte.

S t r u t t u r e c u l t u r a l i i n e s i s t e n t i

al l ’ intorno, scarsa possibil i tà di

stabilire rapporti con l’esperienza

altrui, una Capitale vicina ma ostile a

ogni tentativo di approccio fanno sì

che il discorso pittorico sia difficile e

lontane le soluzioni.Finché l’ansia di

sapermi inserito al più presto nel

vivo di un dibattito a livelli più alti

sull’arte contemporanea, mi spinge

verso la città definitivamente. Qui ho

modo di rendermi presto conto che il

discorso sull’arte deve essere prima

di tutto discorso di coscienza politica.

Il modello culturale è quello tipico

del la soc ie tà dei consumi con

i n t e r l o c u t o r i i n p o s i z i o n e d i

contestazione, che vanno da gruppi

i n t e l l e t t u a l i a l m o v i m e n t o

studentesco fino alle organizzazioni

della classe operaia. C’è sì diffuso un

bisogno, una ricerca di verità, ma gli

sforzi sono isolati e il capitalismo

t r o p p o m a t u r o p e r c e d e r e

minimamente di fronte ad attività

artistiche prive di un vero organizzato

respiro politico. Si tratterebbe invero

di investire il sistema da ogni lato, a

tutti i livelli, quello dell’arte in testa e

« raccogl iere intorno al la c lasse

operaia, ogni altra forza produttiva,

favorendo i l suo distacco dal la

complicità del sistema», ma i mezzi di

lotta di cui si servono gli artisti sono

soggettivi, slegati, e non può essere

d ive r samente da to che ques t i

operano ritirati in se stessi, chiusi in

una sorta di individualismo; e il

lavoro in solitudine sembra l’unico

comportamento possibile per gli

artisti nell’illusione che la solitudine

possa evitare la loro trasformazione

in puri strumenti di produzione nelle

mani del sistema. Si continua a

parlare della necessità di elaborare

«una strategia culturale in concreto,

intesa a cost i tuire dovunque è

poss ib i le s t ru t tu re d ’appogg io

alternative alle strutture ufficiali», si

afferma che una lotta si vince solo

«spingendo avanti un progresso

generale di trasformazione della

società, portando avanti, giorno per

giorno, ostinatamente, le proprie

istanze all’interno e unitariamente

alle istanze di tutto il movimento alla

cui testa è la forza rivoluzionaria più

conseguente, il proletariato», ma poi

ci si accorge che tutto resta fermo al

l ivel lo di proteste più o meno

individuali. In questa situazione

cerco di avviare un mio discorso

p i t t o r i c o a l l ’ i n t e r n o d i u n a

dimensione industriale, tecnologica,

urbana, in cui ci sia spazio per la

fantasia e, perché no?, per l’ironia e

la speranza. Procedendo, ho la

preoccupazione costante di creare

rapporti plastici, insieme di forza -

s t ru t tu re u rbane geomet r i che ,

sospese nel vuoto, congerie di tubi e

di bulloni, di architetture metalliche,

saldati gli uni alle altre - uomini

fragili e malinconici ai quali non

resta che accettare l’ambiente in cui

vivono.

Mi sono presenti in questo inizio

Mondrian - l’importanza conferita

a l la l inea come generat r ice d i

immagini - e Léger - assimilazione

della civiltà industriale al suo nascere

attraverso vie di dinamismo pittorico.

Intanto i rapporti con artisti e critici

marxis t i d iventano sempre più

frequenti e si fortifica la convinzione

Page 68: in itinere

66

che le possibilità di successo nella

lotta contro il sistema capitalistico

« s o n o s o p r a t t u t t o l e g a t e a l l a

decisione dell’artista, alla fermezza

dei suoi propositi, che tuttavia non

possono resistere che in rapporto

con le correnti più vive e attive del

pensiero moderno e più ancora con

quel committente ideale che sono

appunto tutte le forze antagonistiche

in azione dentro e contro il sistema

capitalistico». E’ progettata in questo

periodo l’attuazione di un collettivo

di lavoro con la finalità precisa che la

prospettiva finale di questa lotta

deve essere quella «di una società

futura dove l ’ar t i s ta perderà i l

privi legio di essere qualcosa di

speciale, di diverso dagli altri uomini

poiché la concentrazione del talento

artistico in singoli individui - è una

tesi di Marx - «con la conseguente

soppressione di simile dote nella

grande massa degli uomini, è una

conseguenza della divisione del

lavoro» . In tale società «non vi

saranno pittori, ma, al limite, uomini

che, tra le altre cose, si occuperanno

anche di dipingere». Non la morte

dell ’arte quindi, bensì la morte

dell’artista in quanto tale. Ma in

questa prospettiva ci si accorge che è

molto difficile, se non impossibile,

operare . I l mio lavoro in tanto

p r o s e g u e s u i b i n a r i d i u n a

prospettiva diversa: la potenza della

tecnica è ormai incontestabile; è

l’uomo ad affermarla e solo l’uomo

potrà liberarla dai motivi che la

rendono a lui osti le e nemica -

ordi ture metal l iche degl i s tadi ,

a rch i te t ture tese e lev iga te d i

padiglioni, macchine - torri, ciminiere

d’acciaio.

C o n t i n u o a s e r v i r m i d e l l a

geometrizzazione tenendo presente

anche i l l inguaggio formale dei

realisti tedeschi. Vedo Grossberg ma

mentre il mondo di Grossberg è

senza speranza perché la macchina e

la standardizzazione hanno spento la

pianta dell’amore, io non mi sento

nei miei dipinti di dimenticare del

tutto l’uomo quasi a tenere vivo uno

spiraglio di speranza e di salvezza

per lui.

E’ a questo punto che si inserisce

l’invito rivolto a 12 pittori da parte

del comune di Gualdo Tadino con la

sua proposta d i esper ienza d i

comportamento non necessariamente

l ega to a l l a p i t t u ra , che deve

esprimersi in piena libertà nell’ambito

delle strutture architettoniche della

città. Si tratta di un lavoro collettivo

che rappresenta oltre che il tentativo

d i usc i re da l le s t re t to ie d i un

esasperato individualismo anche un

passo avanti contro la coercizione

del sistema, ostile all’artista e alla sua

produzione, per salvare anche la sua

creatività dalla mercificazione. Penso

a un trittico in ceramica - dimensione

2,20x1,70 - materiale questo che può

ot tenere i mig l ior i r i su l ta t i d i

levigatezza e lucentezza cromatica -

nel quale far convergere, verso

un’oggettività lirica, esterni, interni e

f igura umana. Da una par te e

dall’altra cielo, campagna, roccia, da

cui attingere motivi di serenità, e al

centro l’uomo, roccia egli stesso,

nella sua antica dimensione operaia.

Italo Scelza

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67

Oggetto macchina, 1974 - olio su tela cm 113x100

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68

Oggetto serbatoio, 1974 - olio su tela cm 160x160

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69

La città, 1974 - olio su tela cm 120x120

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70

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LE IMMAGINI DEL TEMPO

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72

Ancora due anni fa Italo Scelza dipingeva una sorta di favola

costruttiva, un sogno moderno, una vera e propria

prefigurazione, in cui la nostra inquieta esistenza riusciva a

conciliarsi coi nitidi prodigi del mondo tecnologico. Non era

un sogno di natura positivistica tuttavia, poiché toccava

all’uomo stesso liberare le potenze della tecnica dai motivi

che ce la rendono ostile. La trama metallica degli stadi, le

taglienti architetture dei padiglioni, le sagome rigide degli

edifici razionalisti, le macchine-torri della seconda rivoluzione

industriale, le ciminiere d’acciaio, s’accampavano allora sulle

sue tele con intatto e netto splendore, si alzavano nel cielo

con strutture perfette, con totale evidenza. La sua era insomma

una visione di trasparenza, tersa come un cristallo di rocca

Utopia dunque?

Questo io mi chiedevo, presentando come oggi una sua

«personale» fiorentina. Era possibile, dentro ai violenti contrasti

della storia di cui siamo protagonisti, mantenere una simile

visione? Fino a che punto Scelza avrebbe potuto sostenere la

tensione ideale che animava così lucidamente le sue immagini

ottimistiche? Erano indubbiamente interrogativi legittimi di

fronte ai suoi quadri che rifiutavano di corrispondere, nella

loro ordinata coerenza, all’incoerenza del disordine in atto

nella realtà.

Ora Scelza ritorna con un gruppo cospicuo di opere: e ci

accorgiamo che la sua visione è mutata. La preoccupazione

nei confronti del mondo moderno, la preoccupazione

legeriana di essere nel ritmo del proprio tempo, rimane. È

caduta però la «profezia», la prospettiva o l’anticipazione

metaforica della liberazione dell’uomo. Non più quindi, nelle

sue tele, armoniche e compiute strutture, definite costruzioni,

esatti profili di macchine o strumenti, bensì il groviglio

meccanico, il relitto tecnologico, il coacervo, lo scarto. È

chiaro dunque che, oggi, Scelza propone un traslato diverso

dalla metafora di ieri. Questi «scribilli» metallici che egli

dipinge sospesi nello spazio, sullo sfondo vuoto di un telo,

questi «oggetti» rotti, inutilizzabili, vogliono appunto indicare

la fine traumatica dell’utopia. Eppure Scelza non ha interrotto

il suo discorso, anche se il senso ne appare adesso rovesciato.

Osserviamo questi quadri recenti. Il metodo e il carattere della

sua pittura non sono cambiati: egli cioè pone lo stesso

puntiglio a dipingere oggi i suoi «scribilli» metallici come lo

impiegava ieri a dipingere le sue più elaborate e perfette

architetture. È per questo che la sua pittura, come prima, è

una pittura senza ombre, di squillante timbro cromatico, netta,

ferma, scandita.

Ecco il punto: oggi come ieri, per Scelza, la pittura è

un’operazione in cui il dominio razionale dello stile è

fondamentale, ma è fondamentale perché il processo creativo

è per lui, essenzialmente, un processo di conoscenza.Come

non era neoromantica la radice della sua utopia, così non è

irrazionale l’immagine del «negativo» che egli intende

rappresentare nelle sue ultime prove. In fondo il suo giudizio

sul «negativo» prende significato proprio dalla natura o qualità

della sua utopia precedente.

Scelza intellettualizza le sue emozioni, dà loro pungente

precisione, calzante sigillo formale. Anche la rappresentazione

del «negativo» si dichiara con una fisionomia plastica limpida e

tesa. Solo la bellezza, in arte, possiede il potere della

persuasione. E Scelza ci persuade del «negativo». I suoi

«grovigli» sono quindi il motivo emblematico, enunciato con

rara perspicuità, di ciò che non funziona nella funzionalità

della società tecnologica, sono l’indice catotico celato sotto

l’apparente perfezione del sistema.

Ma si badi: al tempo stesso tali «grovigli», nella bellezza della

loro enunciazione formale, fanno ricrescere in noi il desiderio

di veder restituire il valore della strumentazione tecnologica al

servizio dell’umano. È così, nuovamente, il «negativo» si

rovescia nel suo contrario. L’utopia rifiorisce.

Mario De Micheli

LE IMMAGINI DEL TEMPOMilano 28 febbraio 1976

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73

Two years ago Italo Scelza was still painting a kind of

constructivist fairy-tale, a modern dream, a kind of

prefiguration, in which our disquieting existence succeeded

in conciling with clear prodigies of the technological world. It

was not only positivist, however, because it was a man who

had to free technology forces from what makes it hostile to us.

The metallic stadiums, the cutting architectures of pavillions,

the rigid shapes of rationalistic buildings, the machine-towers

of the Second Industrial Revolution, steel chimneys, were still

subject of his paintings bearing the same splendour, they

went up in the sky with their perfect structures, with a

complete evidence. His was a transparence vision, terse like

crystal rock, was it Utopia?

This was what I asked myself, introducing like today, his one-

man-show in Florence. Was this vision possible among the

deep historical contrasts we are witnessing? To what extent

could Scelza support the ideal tension that so clearly

animated his optimistic visions? These questions were

legitimate when facing his paintings, refusing to correspond,

in their coherence, to the disorderly uncoherence of reality.

Scelza, however, is coming back with a generous number of

works: and we realize his vision changed. What remains is

his Legerian attention to be inside the rhythm of his time.

What is not there anymore is “prophecy”, the metaphorical

perspective or anticipation of man’s liberation. In his

paintings there are no harmonious and accomplished

structures, defined buildings, exact profiles of machines and

instruments, but there is mechanical entanglement, the

crucible, the waste-material.

It is therefore clear that Scelza offers today something different

from yesterday's metaphor. These metallic “scribilli” he paints

hanging in space, on the empty background of a cloth, the

broken “objects”, no more usable, mean the very traumatic

end of Utopia. And yet Scelza has not interrupted his

discourse, even though its meaning seems inverted.

Let us observe these recent pictures. His painting method and

character have not changed: that is, he is so precise in

painting his metallic “scribilli” today as he used to be

yesterday when he painted his most elaborate and perfect

architectures. This is why his painting , like before, has no

shadows, has bright colours, is clear, firm, defined.

This is the main point: today like yesterday painting for

Scelza is something in which the rational supremacy of style

is crucial, because the creative process is for him basically a

knowledge process. His utopia was not of neoromantic origin,

in the same way as his image of the “negative”, that he is

trying to portray in his latest pieces, is not irrational. His

judgement on the “negative” derives its meaning from the

nature or quality of his preceding utopia.

Scelza’s emotions are intellectual, he makes them precise as a

sting, an appropriate formal seal. Even the representation of

the “negative” bears a clear and tense plastic character. Only

beauty in art has the power of persuasion. And Scelza

persuades us of the “negative”. His “entanglements” are an

emblem, expressed with a rare clearness, of what does not

work in the functionality of technological society, they are

hidden under the apparent perfection of the system.

Be careful though: at the same time, such “entanglements”,

in the beauty of their formal structure, make us hope again

that technological instruments will be at the service of

humanity.

So, once again, the “negative” turns into its contrary. Utopia

reflourishes.

Mario De Micheli

TIME IMAGESMilan, february 28, 1976

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Viva l’Italia, 1975 - fotogrammi dal film “Officina italiana” di Italo Scelza

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Le immagini del tempo, 1977 - olio su tela cm 120x110

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Le immagini del tempo due, 1977 - olio su tela cm 110x110

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Le immagini del tempo tre, 1977 - olio su tela cm 130x130

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Le immagini del tempo quattro, 1977/78 - olio su tela cm 130x130

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Ipotesi per un paesaggio, 1977 - olio su tela cm 190x220

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Paesaggio con nuvola, 1976 /77 - olio su tela cm 100x100

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INAbITAcOlI

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Inabitacolo uno, 1977/78 - olio su tela cm 110x110

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Inabitacolo, 1977/78 - olio su tela cm 140x140

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Inabitacolo con oggetti, 1977 - tecnica mista su cartone cm 50x30

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Inabitacolo inondato 1978 - tecnica mista su cartone cm 50x30

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Interno inabitacolo, 1977 /78 - olio su tela cm 60x60

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Inabitacolo - abitato, 1978 - tecnica mista su carta cm 120x120

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lA dANzAIl TeATrO

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Interno, 1980 olio su legno - cm 60x60

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Omaggio Lindsay Kemp, 1981 - olio su legno cm 75x110

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Laboratorio scenico

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Lindsay e lo specchio, 1981 - tecnica mista cm 45x30

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Il laboratorio della danza, 1982 - tecnica mista cm 50x70

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Omaggio a Bèjart, 1982 - tecnica mista cm 70x50

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L’uccello danzante, 1981- tecnica mista cm 70x100

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Contorsionista 1981- tecnica mista cm 70x100

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INTerNI

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Officina veneziana, 1979/80 - olio su tela cm 200x220

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Interno con gabbia, 1980 - olio su tela cm 125x135

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Interno con finestra, 1980 - olio su legno cm 100x60

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Serenella e la sedia, 1980 - olio su legno cm 60x40

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Interno fiorentino, 1980 - olio su legno cm 45x35

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Interno fiorentino uno, 1980 - olio su legno cm 60x40

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Lo stipo a muro, 1980 - olio su tela cm 140x140

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Scuro dipinto per un ritratto, 1979 - olio su legno cm 90x80

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Il gioco degli scuri - Trittico (particolare), 1981 - olio su legno cm 220x200

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Il gioco degli scuri - trittico, 1980 - olio su legno cm 220x200

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glI STUcchI cOlOrATI dAl SOle

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114

Gli anni Ottanta saranno ricordati - è facile prevedere - come

“il decennio della memoria”. In quasi tutti i campi della

cultura i temi della “registrazione”, della riemersione degli

archetipi, della memorizzazione, del ricordo, dominano

incontrastati e vengono celebrati come una sorta di vendetta

storica nei confronti dei lunghi anni dell’amnesia che hanno

preceduto questo decennio. Ma che senso ha questa memoria

protagonista? E’ sintomo di nostalgia o di distacco, di ritorno,

quello appunto che ha come insegna la memoria del

computer e i l nuovo immaginar io tecno log ico

dell’informatica?

Italo Scelza ci mette di fronte, dopo averli decontestualizzati,

brandelli di città, frammenti di architettura scelti in funzione

della loro densità, della loro ricchezza formale. Il Barocco

meridionale, le cornici di pietra intagliata servono di spunto

per una indagine fredda su alcuni catalizzatori della memoria

collettiva, all’interno dei quali il pittore ritrova la sua immagine

rimossa. Per chi vive nella città storica i segni dell’architettura

tradizionale entrano a far parte fin dall’infanzia di abitudini

visive radicate, che condizionano la immaginazione e per

questi segni la lettura storica e filologica costituisce solo una

remota possibilità. Generalmente di questi segni il nostro

inconscio dà di preferenza una lettura astorica, schiacciandoli

in un orizzonte senza tempo.

La città è una seconda natura, un paesaggio e le testimonianze

di epoche diverse concorrono a formare una identità

complessa di cui è ormai parte integrante la nostra vita

convulsa, il traffico, la visione frammentaria e disattenta

indotta dalle condizioni psicologiche in cui viviamo. Scelza,

con grande forza evocativa e con la spregiudicatezza di chi

persegue un fine istintivo, ci racconta il nostro raffronto

viscerale e ambiguo con la città, il nostro attaccamento ai suoi

sogni, la nostra rinuncia a collegarli in un tessuto rigoroso e

pedante. E’ un omaggio alla città inteso come “foresta”, alla

maniera del Milizia. “Quanto più in questa composizione

regnerà la scelta, l’abbondanza, il contrasto, e fin anche

qualche disordine, più sarà pittoresca e conterrà più bellezze

piccanti e deliziose...” Vuol essere insomma la città - sempre

secondo Milizia - un quadro variato da infiniti accidenti; un

grande ordine nei dettagli: confusione fracasso e tumulto

nell’insieme”. Scelza, con le sue ispirate riflessioni ci aiuta a

far luce su quel “grande ordine nei dettagli” che è la grande

forza delle città antiche, la grande eredità perduta da

ritrovare.

Paolo Portoghesi

The 80s will be very likely remembered as a “decade of

recollection”. In all the fields of culture ‘recording’

memorization, recollection and the re-emergence of

archetypes are the predominant timely subjects now

celebrated as a kind of vengeance against the previous years’

forgetfulness. What does recollection mean today? Is it a

symptom of nostalgia or of detachment? Is it a return to the

past or a raising interest for the memorization and the

technological imaginary of computer science?

Italo Scelza shows us scraps of towns, fragments of

architecture removed from their contest and chosen for their

formal richness and wealth. The Sicilian Baroque, the incised

stone cornices give the painter an idea for his research on

some catalyzers of everybody’s memory: inside those

fragments he can find again his repressed imago.

For people who live in ancient towns the traces of traditional

architecture become, since childhood, deep-rooted visual

habits which influence their imagination. A philosophical

and historical interpretation of such signs is only a remote

possibility. Our unconscious would rather read them

unhistorically, flattening them against a timeless horizon.

A city is a second nature, a landscape where the traces of past

epochs concur informing a complex identity of which our rest

less life, the traffic, the fragmentary heedless vision induced

by our psychological condition, are now important

components. With great creative power and the boldness of

one who pursues an instinctive aim, Scelza shows us our

visceral, ambiguous relationship with the city, our attachment

to its signs, our giving up trying to weave them into a rigorous

accurate texture. It is a homage to the city which is seen, after

Milizia’s definition, as a “forest”. “The more choice,

abundance, contrast and even more disorder will prevail in

this composition, the more it will be picturesque and full of

pungent, delicious beaties - “the city, in conclusion, wants to

be a scene varied by infinite unevenesses, a great order in

details, confusion, uproar, turmoil on the whole”.

With his inspired reflections Scelza helps us to throw a light

upon that “great order in details” which is the great strength

of ancient cities and the great lost inheritance to be

recovered.

Paolo Portoghesi

GLI STUCCHI COLORATI DAL SOLE

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115

DAGLI STUCCHI COLORATI DAL SOLE

...La scelta del materiale è, dal punto di vista qualitativo, a

favore del legno, perché esso è popolare e antico allo stesso

modo, legato al mondo dell’artigianato, quindi più vicino al

sapore antico che l’operazione comporta. Gli amici, fin dal

primo giorno, si sono trovati ad interpretare i progetti con

molta affinità. La tensione e l’ansia che mi portavo dentro in

quei giorni cresceva sempre di più. Gli stessi compagni di

lavoro ne sono stati coinvolti ed anche loro, nonostante mi

tranquillizzassero sulla riuscita dell’operazione, erano

interessati a vedere l’opera compiuta nel migliore dei modi. E

così che il “trittico Biscari”, la “loggia dei Crociferi”, “la porta

all’angolo di San Cristoforo” incominciano concretamente a

prendere forma. La ricostruzione di elementi storici è stata

analizzata attraverso una ricerca dei materiali senza la quale,

nessuno studio, poteva essere seriamente preso in

considerazione. Nascevano così alcuni bozzetti acquarellati e

matite colorate su cartoni e piccoli progetti veri e propri

pensando alla pietra, agli stucchi ed ai marmi usati dalle

maestranze di allora. Siamo a fine agosto e nella calura della

campagna, sui prati odoranti di “mentuccia” componiamo il

“trittico Biscari” formato da tre elementi in legno ricoperti di

tela grigia di cui, ogni elemento, è composto da nove moduli

così come è formata naturalmente la finestra del cortile del

Palazzo Biscari.

Italo Scelza

...I decided to employ wood because it is an ancient and

popular material, linked to artisanship and apt to give our

work and old time’s mark. Ever since the first day’s work my

collaborators found a great accord in the execution of my

projects. I was full of doubts and highly strung but they, who

were eager to see the work accomplished at best, reassured

me on the success of the experiment.

So the “Trittico Biscari” and the “Loggia Alessi dei Crociferi”

began to take shape. A research of the right materials is

indispensable for an exact reconstruction of historical

elements.

Thinking of the stones, the marbles, and the stuccos employed

by the ancient master builders, I draw many projects and

sketches in water-colour.

It was the end of August, in the hot and sunny country, on

the meadows fragrant of mint we composed the “Trittico

Biscari”: three elements of wood with nine modules like the

window opening on the courtyard in Palazzo Biscari.

Italo Scelza

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116

“La loggia dei crociferi”, 1980 - olio su legno a rilievo cm 220x200

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Laboratorio - Italo Scelza con lo scenografo Lino Ricciardi e il critico Dario Micacchi

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Laboratorio trittico Biscari, strutture modulari in legno intelato.

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Progetto trittico Biscari, 1983 - matita colorata intelata cm 150x140

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Trittico Biscari, visione completa, 1983 - olio su legno

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Particolare anta terza, 1983 - olio su legno cm 134x64

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La Porta all’angolo di S. Cristoforo, 1980/81 - olio su legno e tela modulare cm 225x180

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Il grANde TrITTIcOglI UOMINI dellA rIcOSTrUzIONe

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“GLI UOMINI DELLA RICOSTRUZIONE”

dipinto rappresenta uomini nudi in posizione spasmodica e pronti a voler in tutta fretta ricostruire una terra storicamente martoriata. L’opera è stata costruita ed immaginata nello studio dell’autore e i personaggi che la compongono agiscono in un ipotet ico palcoscenico dove sono rappresentati oggetti tipici di uno studio con natura morta, alle spalle visioni di architetture in rovina e paesaggio i rp ino . Ne l le due an te l a te ra l i sono rappresentate immagini di personaggi che quasi in trappola non riescono ad esprimersi

Il grande trittico “Gli u o m i n i d e l l a r i c o -struzione” è stato dipinto nel 1985 a cinque anni dal terremoto in Irpinia. Le dimensioni delle tre ante unite sono di m. 5,80 x 3,00, esse sono dipinte ad olio su tela ed incorniciate con fasce di legno in pino russo. Nella parte centrale il

c o m e v o r r e b b e r o . C h i a r a m e n t e t u t t i i personaggi sono visti in chiave metafor ica . I l dipinto è stato esposto per la prima volta nel 1 9 8 5 n e l M u s e o Medioevale di Alatri, nel 1986 alla XI quadriennale di Roma interessando grande parte della critica italiana.

“THE MEN OF RECONSTRUCTION”

middle portion of the painting there are naked men in an agonising posture, who a r e r e a d y a n d w i l l i n g t o r e b u i l d a historically suffering earth. This work was built and conceived in the author’s studio, and its characters act on a fictitious stage, on which some objects are depicted: they are typical of a still-life study with visions o f a r c h i t e c t u r a l r u i n s a n d I r p i n i a n l a n d s c a p e i n t h e b a c k g r o u n d . T h e characters painted on the two side antas seem almost trapped, they can not move

The large tryptich “the Men of Reconstruction” was painted in 1985, f i v e y e a r s a f t e r t h e I r p i n i a e a r t h q u a k e . The three joint antas are m. 5,80 X 3: they a r e o i l o n c a n v a s pa in t ings , and the i r f r ames a re made o f w o o d e n p l a t e s o f R u s s i a p i n e . I n t h e

and express themselves a s t h e y w o u l d . A l l characters are clear ly d e p i c t e d i n a metaphorical way. This painting was displayed fo r the f i r s t t ime in 1 9 8 5 i n t h e M u s e o Nazionale in Alatri, in 1985 it was part of the X I Q u a d r i e n n a l e i n Rome, when it caught

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Particolari del grande trittico, 1980

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“Gli uomini della ricostruzione” trittico, visione completa, 1980 - olio su tela cm 310x560

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le SceNOgrAFIe

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E LA PIAZZA DIVENTO’ TEATROLA LUNGA NOTTE PAGANA

THE LONG PAGAN NIGHT

Uno dei concetti per cui il barocco viene contrapposto al

rinascimento è l’aspirazione al pittorico (Wolfflin), esso tende

a sostituire le forme classiche, plastiche e lineari, con

un’immagine mossa fluttuante, inafferrabile; si cancellano i

limiti e i contorni e si definiscono i grandi effetti di profondità

spaziali. È con questo spirito, che il “Giglio del Sarto” occupa

la piazza, essa si trasforma in palcoscenico e la grande guglia

che rappresenta i mestieri del sarto, ne diventa protagonista

principale. La rivisitazione, in questo caso, non assume un

senso puramente estetico ma vuole essere anche strutturale,

rimettendo con le sue forme, ordine in un disordine che da

tempo, in quest’occasione, sfocia in un “non stile” di dubbio

gusto “Rococò”, spesso senza alcuna coerenza stilistica.

“Il Giglio del Sarto” è semplice nel suo linguaggio, ma ricco di

riferimenti storici, senza i quali quest’opera non sarebbe

potuta nascere. La sua realizzazione si basa su due concetti

fondamentali, uno scultoreo-architettonico (Bernini) e l’altro

pittorico-surrealista.

La conchiglia del grande gruppo scultoreo di base si rivela,

con il suo splendore, una forma magica che partorisce due

grandi delfini che versano acqua in una vasca sottostante; è la

rappresentazione della fede. I bassorilievi di fonte surrealista,

che adornano il grande obelisco con le immagini del mestiere

del sarto, sono interrotti in due punti da esplosioni, da una

delle quali emerge la figura del Santo in elevazione. Curioso

connubio per chi pensa che i due elementi non possano

convivere, mentre fondamentale appare il concetto di libertà

che caratterizza i due percorsi. È la libertà di non definire; la

libertà di dare al fruitore modi di letture articolate e diverse; la

libertà di fare spettacolo con grande immaginazione e di

giocare ambiguamente tra finzione e realtà. Sono queste

alcune componenti che trasformeranno la piazza e i vicoli in

un palcoscenico, sul quale tutti i nolani diventeranno attori,

danzatori, musici e giullari… e la lunga notte pagana inizierà.

Italo Scelza

One of the concepts on which the difference between Baroque

and Renaissance is based is the aspiration to the pictorial

(Wolfflin); it substitutes classical, plastic, and linear forms

with a moving, floating, unattainable image; bounds and

contours are wiped off, while the grand effects of spatial

depths are defined.

This is what inspires the "Giglio del Sarto" in relation to the

square in which it was placed: the square turns into a stage,

and the big spire representing the crafts of the tailor becomes

the main character. The revisitation in this case does not

carry an aesthetic meaning, but it also pertains to structure,

while rearranging through its forms a kind of disorder that

created a "non-style" of dubious Rococo taste, often with no

stylistic coherence.

The "Giglio del Sarto" bears a simple language, but it is rich

of historical references, without which this work would not

have been possible. It is based upon two main concepts, a

sculptural-architectural one (Bernini) and a pictorial-

surrealistic one.

The shell of the big basic sculptural group reveals, with its

splendour, a magical form giving birth to two big dolphins

pouring water into an underlying pool; this is the

representation of faith.

The bas-reliefs of surrealistic influence, adorning the big

obelisk with images referring to the crafts of the tailor, are

interrupted by explosions: from one of these the Saint elevates.

This is a unusual connection for those who think that the two

elements cannot coexist, while the concept of freedom

characterising the two structures seems fundamental.

It is the freedom not to define; the freedom to give a spectator

articulate and varied modes of interpretation; the freedom to

perform imaginatively, and to play ambiguously between

fiction and reality. These are some of the components that

will turn the square and tiny streets into a stage, on which all

people from Nola will become actors, dancers, musicians,

and jokers: ... and the long Pagan night will begin.

Italo Scelza

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134

Il laboratorio della cartapesta con due moduli in costruzione

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135

Studi e sviluppo della base del giglio , cartapesta e legno

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136

La macchina del giglio, laboratorio montaggio

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137

La grande scultura del giglio

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138

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139

jAzz

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140

Immagini di laboratorio con gli allievi dell’Accademia di Belle Arti di Frosinone al festival jazz di Supino.

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141

La grande scenografia

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142

dalla “Gerusalemme liberata”

con musiche di MONTEVERDI

eseguite dal Coro Saraceni

diretto da GIUSEPPE AGOSTINI

from “Gerusalemme liberata”

music by MONTEVERDI

performed by Coro Saraceni

direct by GIUSEPPE AGOSTINI

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TANcredI e clOrINdAMONTeVerdI e lA gerUSAleMMe lIberATA

IN cONcerTO

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144

Laboratorio

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145

Particolare della scenografia e visione completa della stessa

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146

“GIGANTOGRAFIA”

Scenografia realizzata

per l’Eurofestival

di Ferentino

“GIGANTOGRAPH”

Scenography realized for

Eurofestival

of Ferentino

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147

Visioni della scenografia “La gigantografia”

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148

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149

Il MOSAIcO e lA PIScINA

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150

Mosaico - Particolare

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151

Italo Scelza, in questa operazione assume ovviamente il ruolo

guida, vanta già non poche esperienze in questo senso. E

l'idea di riprenderle non gli piace affatto.

«La prima volta - racconta - fu a Gualdo Tadino, nel '73,

eravamo in venti autori, tutti impegnati in un grande mosaico

ispirato a Giotto. Chi ricordo? Vittorio Basaglia, Gianquinto,

Mulas, Calabria, Farulli... e tutti gli altri naturalmente. Alla fine

gli Editori Riuniti stamparono un libro dedicato a quella

esperienza con una prefazione di Dario Micacchi». «Fu la

prima - riprende - ma ce ne furono molte altre di esperienze

analoghe. A Ottana per esempio, nel '74, una terribile fabbrica

realizzata con gran dispendio di mezzi nella piana di

Orgosolo dall'Eni. E che presto andò in malora. E poi a

Saronno, in una iniziativa curata da Mario De Micheli... Erano

esperienze artistiche, ma anche di tipo sociale e l'idea era

proprio quella che l'artista potesse modificare la realtà

sociale...».

Certo, i tempi adesso sono cambiati, lo riconosce anche lui,

non c’è più l’ideologia e si crede poco alla possibilità di

intervenire nella vita collettiva. Ma Scelza crede anche che

certe esperienze, «se recuperate e continuate con intelligenza»,

possano sopravvivere.

Mosaico dunque, con gli scarti di fabbrica, su qualche muro

pubblico. Il Comune di Sesto Fiorentino dice sì e mette a

disposizione un cantiere, e alloggi per tutti. E il muro

naturalmente, scelto dopo varie ipotesi. sarà quello della

piscina comunale, in piazza Bachelet, giusto di fronte al

Museo di Doccia. Un muro né bello né brutto, stile anni ’60;

abbastanza anonimo, che ha il vantaggio però di essere in

ottima posizione, di essere già spartito in grandi riquadri

rettangolari e soprattutto, grazie all'anonima fattura, di

prestarsi ad ogni intervento.

Gianni Pozzi

Italo Scelza is obviously playing the leading role in this

project, and he already had numerous experiences like this,

and he does not at all mind repeating them.

"The first time -- he says -- was in Gualdo Tadino in 1973,

there were twenty authors, all of us involved in a large

mosaic inspired by Giotto. Who do I remember? Vittorio

Basaglia, Gianquinto, Mulas, Calabria, Farulli... and all

others, of course. In the end Editori Riuniti printed a book

dedicated to that experience with a preface by Dario

Micacchi." "It was the first -- continues Scelza -- but there

were other similar experiences. In Ottana, for example, in

74, a dreadful factory built by ENI with a lot of resources in

the Orgosolo plain. And that soon went "to pieces". Then in

Saronno with a project directed by Mario De Micheli... All

these were artistic but also social experiences, and the idea

was the artist could modify social environment..."

Time has definitely changed, he too admits it, there is no

ideology anymore and one does not believe much in the

chance to modify the collective life. Scelza, however, thinks

that certain experiences, "if recovered, and continued

intelligently," can survive.

Therefore a mosaic on some public wall, made of waste-

materials from factories. The Town of Sesto Fiorentino

accepts, offers a building site and lodgings for everybody.

And the wall too, of course, chosen after various attempts.

The wall will be that of the public swimming pool, in piazza

Bagnolet, in front of the Museo di Doccia. It is neither

beautiful nor ugly, sixties style; rather anonymous; it has the

advantage of being a very interesting location, to be already

divided into big rectangular sections, and, thanks to its

anonymity, to be used in every possible way.

Gianni Pozzi

Page 154: in itinere

152

Rileggendo con più chiarezza di pensiero un'opera d'arte del

passato e riflettendo sul contenuto e sul messaggio che essa

trasmette, non si può fare a meno di sottolineare l'importanza

storica che essa ha e l'emozione che la stessa provoca in chi,

analiticamente, la legge. E' da oltre un anno che la lettura

della «ZATTERA» di Géricault assume nel mio pensiero un

preciso significato, quello che lo stesso storico del tempo,

Michelet, diede al quadro del famoso artista francese: «La crisi

di una società interna, la caduta di una ideologia, la fine di

un sogno».

Le crisi ideologiche, hanno provocato,solo apparentemente,

un congelamento di pensiero e di azione, ma il pittore, che

ha la fortuna di vivere il quotidiano non solo sul piano

realistico, ma soprattutto su quello immaginario, vive queste

crisi sì, in maniera intensa e diretta, ma le trasmette nelle sue

opere con tutta la sua forza e la veemenza immaginativa

perché esse restino e possano fissare date importanti. La

ricerca pittorica iniziata nel 1989 con studi analitici eseguiti

con tecniche classiche dalla matita, al pastello, all'acquerello

ha portato alla realizzazione di alcuni dipinti su legno di

piccolo formato per poi svilupparsi in pitture di più grandi

dimensioni fino alla esecuzione di questo grande mosaico

realizzato per conto del comune di Sesto Fiorentino, usando i

materiali di scarto delle fabbriche di ceramica del luogo.

Questo intervento sul territorio è documentato in un volume

e da una edizione grafica edita dalla stamperia d'arte «La

Bezuga» di Firenze.

Italo Scelza

Reading with a clearer mind a work of art of the past, and

thinking about its content and about the message it sends,

one cannot help underlining the historic relevance it holds,

and the emotion one feels in reading it analytically.

Reading the "RAFT" of Géricault had a very precise meaning

in my mind for more than a year, the same meaning the

historian of that time, Michelet, gave the picture of the

famous French artist: "The crisis of an entire society, the fall

of an ideology, the end of a dream."

Ideological crises caused only apparently a freezing in

thought and action, but the painter, who is lucky to live the

everyday life not only on the concrete and realistic level, but

especially on the imaginative, goes through such crises in a

direct and intense way, but he captures them in his works

with all his imaginative strength, so that they can remain

and remind important events. My pictorial work began in

1989 with analytical studies, using classic techniques like

pencil, pastel, water-colour: this brought to creating some

small paintings on wood, and then developed into larger

paintings, up to the large mosaic sponsored by the Town of

Sesto Fiorentino, made using the waste-materials of the local

ceramics factories: the experience on that territory is

documented in a volume and in a graphic edition published

by "La Bezuga" in Florence.

Italo Scelza

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153

Visione completa del mosaico cm 430x230

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154

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155

l’UOMOl’AMbIeNTe

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156

Interno con figure, 1987 - olio su legno cm 70x50

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157

Lunette, 1987 - olio su legno cm 100x45

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158

Studio, 1988 - olio su legno cm 60x30

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159

Studio, 1988 - olio su legno cm 181x40

Page 162: in itinere

160

Una modella a Firenze, 1988 - olio su legno cm 50x40

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161

La doccia sotto gli ornelli, 1987 - olio su legno cerato cm 130x100

Page 164: in itinere

162

La porta sulle nuvole, 1989 - olio su tela cm 160x120

Page 165: in itinere

163

La modella e la Badia, 1990 - olio su legno cm 105x125

Page 166: in itinere

164

Particolare del giardino degli ornelli

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165

Il giardino degli ornelli, 1989 - olio su legno cm 220x160

Page 168: in itinere

166

Page 169: in itinere

lA zATTerA

Page 170: in itinere

168

Nell’anno 1990, assai fertile di idee e di pittura, Italo Scelza ha

dipinto alcuni quadri di piccolo e medio formato - quasi

formanti una serie organica e con straordinaria immaginazione

strutturati su alcune idee molto coerenti nella riflessione tra

presente e passato - che nella struttura figurativa, pure molto

fantasmatica, ricordano la struttura, tra disperazione e

speranza, del famoso, grande dipinto La Zattera della Medusa

eseguito nel 1818-1819 da Théodore Géricault ed esposto con

esito incerto al Salon.

Nel 1816 la Francia si appassionò al tragico evento del

naufragio della nave La Medusa e degli scampati al naufragio

che, su scialuppe e una zattera, per giorni e giorni cercarono

salvezza. Si discuteva delle responsabilità a bordo e delle

responsabilità in alto nel governo.

Théodore Géricault, che era stato soldato nell’armata

napoleonica e amava infinitamente i cavalli e i soldati - e li

dipinse molte volte - aveva fatto un viaggio in Italia e aveva

riscoperto, nei resti dell’antico e in pittori francesi come

Poussin, la visione eroica. Tornato in Francia si interessò

appassionatamente al naufragio e alla zattera della Medusa.

Studiò i resoconti del naufragio nei tre momenti chiave:

quando a colpi di accetta vengono troncate le corde che

legavano la zattera alle barche che la trascinavano e la zattera

resta in balia delle onde; quando i marinai abbandonati

nell’oceano si ribellano agli ufficiali; e, infine, quando i

superstiti avvistano la nave salvatrice. Théodore Géricault

prese studio, a Parigi, vicino all’ospedale Beaujon e riuscì a

trovare un accordo con i medici per studiare, sui malati e sui

cadaveri, tutte le sfumature del dolore fisico e dell’angoscia

morale fino alla distruzione dell’organismo. Lo studio si

riempì di membra tagliate. E questo il periodo che Théodore

Géricault dipinge le sue tremende “nature morte” di membra

umane e le teste dei ghigliottinati. Nel creare le possenti

immagini di energia tesa tra disperazione e speranza,

Théodore Géricault si ricordò di Michelangelo del Giudizio

Universale e del Diluvio della volta della Sistina nonché di

Caravaggio e dei Bolognesi. Quanto ai francesi, oltre a

Poussin, teneva in conto Gros e Guérin, Girodette e Jouvenet.

Eseguì molti studi e due di essi sono ritenute da molti storici

dell’arte migliori del quadro grande (olio su tela, cm 491x716)

conservato al Louvre. Il quadro fu comprato dal signor

Dedreux-Dorey per 6.000 franchi e fu da lui rivenduto

faticosamente per la stessa somma al Louvre.

Théodore Géricault nacque a Rouen il 26 settembre 1791 e

morì a Parigi, dopo una caduta da cavallo spavaldamente

trascurata, il 18 gennaio 1824. Lo storico Jules Michelet nel

1847-48, professore al Collège de France, tenne un magnifico

corso su Géricault che fu interrotto dalle autorità alla terza

lezione.

Michelet vedeva in Géricault l’artista rivoluzionario nazionale

di Francia che non si era piegato alla Restaurazione e che con

la Zattera aveva dipinto un’immagine disperata, sì, ma anche

piena di speranza.

Scrive Michelet: “Vi fu un dialogo sconsolato, un giorno forse

del 1823, davanti all’ingresso della sala da ballo dell’Opera, tra

un amico mio, uomo di mondo, artista spiritosissimo, e un

gran giovanotto, un grand’uomo colpito al cuore, che pareva

cercare nei piaceri una più rapida morte. Parlo del primo

pittore di questo secolo, l’infelice Géricault. L’amico mio lo

vide assai triste tra quella folla allegra, le donne eleganti, le

carrozze, le luci; era vestito di gala, aveva i guanti gialli, ma

com’era cambiato! L’infinita dolcezza del suo sguardo

penetrante aveva ceduto alla durezza di quella maschera

terribile che tutti avete ammirato. Il genio ancora riluceva sul

volto suo, ma non più l’espressione della forza, anzi vi era un

ardore mortale nel far suo quel mondo che da lui fuggiva, e

nelle profonde orbite scavate aveva l’occhio del falco!” Così,

spettrale e fantasmatico, apparve a Michelet il pittore che

aveva dipinto il naufragio della Francia. Non aveva visto

venire alcuno in soccorso - aggiunge Michelet - e si era

lasciato scivolare dalla zattera.

Dario Micacchi

LA “ZATTERA DELLA MEDUSA” DI THéODORE GéRICAULT

Page 171: in itinere

169

In 1990, a very fertile year for ideas and paintings, Italo

Scelza painted some pictures of small and medium size --

almost creating an organic series, and structured with

extraordinary imagination on some ideas that were coherent

in the rethinking of past and present -- that in their figurative

structure remind of the structure, between desperation and

hope, of the famous, great picture The Raft of Medusa,

painted by Théodore Géricault in 1818-19 and exhibited at

the Salon with no big success.

In 1816 France was deeply involved in the tragic shipwreck

of La Medusa and everybody was very interested in the

survivors who tried to escape for days onboard a lifeboat and

a raft. Responsabilities on board and high up in the

government were both being discussed.

Théodore Géricault, who was a soldier belonging to

Napoleon's army, and who loved horses and soldiers very

much -- he painted both many times -- had travelled to Italy,

and had rediscovered the heroic vision in the remains of

ancient monuments and in French painters like Poussin.

Back in France, he gained passionate interest in the

shipwreck and the raft of the Medusa. He studied the

shipwreck records in the three key moments: when the axes

cut the ropes tying the raft to the ships dragging it, and the

raft is left to the mercy of the waves; when the sailors who

were abandoned in the ocean rebel against the officers, and

when the survivors see the saving ship.

Théodore Géricault took a studio in Paris near the Beaujon

hospital, and he succeeded in finding an agreement with the

doctors there to study, on ill people and corpses, all nuances

of physical suffering and of moral anguish down to physical

distruction of the organism.

The studio was full of cut body pieces. This is the period in

which Théodore Géricault paints his dreadful "still lives" of

human limbs and of the guillotined heads.

In creating the powerful images of energy expressed between

desperation and hope, Théodore Géricault remembered

Michelangelo in the Giudizio Universale and in the Diluvio of

the Sistine Chapel vault, Caravaggio, and the Bolognesi. As

far as the French are concerned, he remembered Gros and

Guérin, Girodette and Jouvenet.

He painted various studies, two of which are considered by

art historians as better than the large painting (oil on canvas,

cm. 491 X 716) kept in the Louvre. The picture was bought by

Mr Dedreux-Dorey for 6.000 francs, and it was sold uneasily

for the same amount to the Louvre.

Théodore Géricault was born in Rouen on September 26,

1791 and he died in Paris on January 18, 1824 because of a

uncured fall off a horse. In 1847-48 historian Jules Michelet,

professor at the Collège de France, held a magnificent course

on Géricault, that was interrupted by authorities during the

third lesson.

Michelet saw in Géricault the national revolutionary artist of

France, who had not been defeated by Restauration, and who

in painting the Raft had depicted a desperate image, yet full

of hope.

Michelet writes: "There was an unconsoling dialogue, maybe

one day in 1823, before the entrance to the Opera ballroom,

between a friend of mine, a man of the world, a very

humorous artist, and a strong young man, a great man

whose heart had been struck, who seemed to look for a more

rapid death in pleasures. I am talking of the first painter of

this century, the unhappy Géricault. That friend of mine saw

he was so sad among that happy crowd, the elegant ladies,

chariots, lights; he was dressed up for a gala, wearing yellow

gloves, but so much changed! The very sweetness of his

penetrating eyes was then the hardness of the terrible mask

everybody admired. The genius still shone on his face, but

energy did not, in fact there was a mortal ardour in making

the world his, that was escaping from him, and his eyes were

those of a falcon!"

So ghostly did the painter who had painted the shipwreck of

France appear to Michelet. He had not seen any soccour

coming -- adds Michelet -- and he had let himself fall slowly

off the raft.

Dario Micacchi

THE “RAFT OF LEDUSA” BY THéODORE GéRICAULT

Page 172: in itinere

170

LA ZATTERA

Italosono passato lunedì mattinac’era la tua macchina sotto la tettoiatu eri uscito a pescala porta dello studio era apertaho lasciato un cartone tondo con alcune costole in vistal’ho appoggiato all’anta della portale altre ferite le avresti inferte tunecessarietiravi su con la lenza un legno dopo un altrola tela di belgio era un lusso che non volevi permettertimolti erano fradici con gli angoli spugnosi attaccati dalla muffali soppesavi mentre aumentavi il bottinoho ancorato ad una pietra il cartone per non farlo volare vial’ho cercata nel tuo giardinoprato e ornellic’era la legna per l’invernole sedie accatastate per gli amicila testa da restaurare per il caproil carro con le stanghe verso il cielole melemarce sotto l’alberole azalee spoglie e impigriteil budello di gomma per l’acqua in letargo vicino al pozzoho trovato la scheggia di porfido del vialettosotto il cipresso schiantatotu depositavi la pesca in un intrico gocciolante di sfasciumesfrangi di cime ancora legati a tavole smozzicatecerniere arrugginite di salsedinestracci che erano state veleschegge bituminose di pali maestril’arsenale povero di una migrazioneli accatastavi a caso ma già ne stimavi l’architetturasono andato via abbandonando la refurtivail cartone bello come lo scudo di Achilleho lasciato aperto il cancello di ferro dipintosarà più facile per te ospitare l’ingombro

c’erano i colori ancora gocciolanti sul tuo cavallettoho appoggiato il pollice al verde e l’ho assaggiatosapeva di naufragiol’acqua è pietosa a voltetu tiravi a riva il necessariosolo lo stretto necessariol’avevamo visto insieme a ParigiGéricault ci colò a picco lìin quel preciso momentoe anche gli approdi di levante alla televisione“un’umanità in agoniai prezzolati marinai della speranzagli straccioni immobili al vento della tragedia”il mare ti bagnò i piedisquillò anche il telefonolungamentepoi riattaccaronola radio era rimasta accesadalla finestra si vedeva la campagna difrontearrivava il fetore delle fabbricheun uccello meccanico era precipitato in un tuo quadrol’occhio metallico guardava fisso nel vuotosi componeva la zattera e si arricchivail tuo arsenale sapeva di pece raffreddatami guardavano i volti di zolfo di Palinurogli amici irriconoscibili della cosmesiDario non ce la feceallo stesso modo affondò lo Svedesepoi fu la volta di Ginotentasti l’estremo gesto della mano tesama avevi dipinto le onde troppo grandil’ammiraglio decise l’abbandononoi rompemmo gli ormeggihai fatto quello che potevii legni non tenevano piùe li incollasti con il rembrandt azzurro.

Sergio Zuccaro

a Italo Scelza

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171

“La zattera nella grande lunetta”, 1994 - olio su legno cm 105x220

Page 174: in itinere

172

La grande zattera, 1991 - olio su legno cerato cm 110x110

Page 175: in itinere

173

Particolare della grande zattera, 1991 - olio su legno cerato

Page 176: in itinere

174

Più che una “pittura di storia”, come è parso a qualche

recensore, nella sua più recente produzione figurativa, Italo

Scelza è tornato a raccontarci l’ombra della vita o - come

opportunamente s’intitola un suo trittico dell'89 - “Il gioco

degli scuri”: quell'insieme di non-fatti, non-avvenimenti che,

accompagnandoci nella nostra esistenza, si allungano e

crescono intorno a noi fino a formare un alone, uno spazio in

cui si disegna, in controluce o di sbiego, il nostro destino.

Raccontare, per Scelza, è sempre stato diverso dal raccontare

una storia allegorica. Un pittore non dovrebbe mai dedicare la

sua attenzione, secondo l’artista avellinese, a quel superficiale

intreccio di fatti, di gesti e di azioni in cui si organizza

esteriormente la vita. I

“fatti” non esistono; e

non appena si cerchi

di cogliere la vita al di

fuori della sua musica,

della sua ombra, essa

si è già dileguata, o si è

i r r i g i d i t a n e l l a

rappresentazione di sé

s t e s s a , i n u n

movimento teatrale.

Senonché, lo strano è

che Scelza non è un

pittore “scenografico”,

visivo tout court, di felicità un pò epidermica come i cosiddetti

post-moderni: piuttosto è un artista intimo, solido, concreto.

Questo paradosso ha un’origine colta. Bisogna partire da due

grandi solchi culturali che trovano, in lui, una foce spontanea

e naturale: da una parte la grande pittura italiana della fine del

Cinquecento nel suo aspetto più drammatico e nel suo

accento più visionario (Lelio Orsi, Guido Reni), e dall’altra la

poesia simbolica, Rimbaud e Mallarmé, per intenderci. L’antica

pittura emiliana fa da basamento, da ponte che assicura

effettualità e vigore alla carpenteria, mentre dai simbolisti

Scelza ha ereditato la vertigine chimerica della visione,

l’éclairage, il lampo che accende e fa essere le cose “altre” da

come appaiono.

Ma dai post-simbolisti e prima ancora dalla poetica romantica

di Géricault, Scelza ha imparato qualcosa di più, un segreto

formale. L’esperienza della pittura non ha mai fine e non si

conclude nel “testo”, nel prodotto finito: essa, al contrario,

attraversa i singoli quadri e ne esce per ricominciare a

manifestarsi in altri quadri che a loro volta sono illimitati.

Un’opera come La sedia di Veroli dell’89 o come La lunetta

degli odori dell’anno seguente è solo lo spaccato accidentale

di un processo che non smette mai di riformarsi e di

riprodursi. La pittura non può essere formata, se non a

condizioni di distruggere la visione che le dà la vita.

Si potrebbe definire Scelza un pittore da “laboratorio”, ma è

un’etichetta che lo mortifica. Egli non lavora sui materiali

m o r t i , i l m o n d o

irrompe nelle sue

tavole con una vitalità

infettiva e contagiosa.

I vecchi legni dipinti da

Scelza sono abitati dal

silenzio e dall'infinito

c o m e s e c i ò c h e

vediamo e scrutiamo a

pochi centimetri dal

nostro occhio miope

potesse restituirci il

pensiero che l’universo

è visibile, nella sua

immensità, in ogni punto, fuori dal nostro sguardo, separato

da noi, nella sua atmosfera tenebrosa, nelle sue inquadrature

inesistenti.

Per questo la tavolozza scelziana non ama la luce e non la

cerca. In Kemp è sospeso del ’90 e nel ciclo La zattera del ’91

l’orizzonte fenomenologico è tagliato in un punto qualunque,

segato, come in certe fotografie, da una linea estrema e

brutale, al di là della quale c’è il nulla: tutto ciò che l’obiettivo

non ha saputo o potuto aggiungere.

Di proposito, questi quadri di Scelza sono concepiti al limite

del nulla, tagliati e sagomati da termini tali da suggerire che il

visibile continua ad estendersi, a glorificarsi indifferente al di

fuori di noi.

Il caos della visione sembra una metafora dell’inconscio,

NEL "DOPPIO REGNO" DI ITALO SCELZA

Page 177: in itinere

175

dove l’ordine è misterioso e il tempo non misurabile; dal

quale per incontrollata associazione affiora un’immagine, un

ricordo, utili e destinati a gettare luce sulla realtà. Che l’opera

ultima di Scelza provenga direttamente dall’inconscio, è

incontestabile. In effetti non è più questione, come ne I

giardini del futuro del ’71, di personage et son double, ma di

un’acquisizione, su di sé, delle molteplicità di un sogno

meticoloso, denso di illuminazioni, germinale. E’ un

autoritratto della sua avventura, del suo stupore di aver

attraversato città, stanze, luoghi, sempre ai confini del sonno,

aprendosi alla meraviglia, tanto da essere ora, quel viaggio,

un dépassement de soi-même.

Ma è forse ancor di più: un ritratto per il quale l’autore si

proietta nella sua traccia, assume su di sé quelle rivelazioni

del passato da cui sono scaturite nell’83 lavori significativi

quali Il trittico Biscari e La loggia dei Crociferi.

Credo di aver incontrato raramente, in altri cicli figurativi di

questi anni, un terrore così angoscioso della realtà. Senza un

grido, senza un sussulto, un movimento di protesta o

ribellione, le immagini del “doppio regno” di Scelza si

escludono dal mondo.

Chi si esclude - dice Freud - si chiude: per l’anima ferita non

esiste che l’esercizio sistematico della claustrazione, che qui

viene praticato con una mescolanza di felicità e d’orrore,

perché Scelza sa bene che rinchiudersi è un gesto che insieme

salva e uccide. Mentre ne Il Poseidone di Guido dell’89 e ne

L’ornello e le muse del ’90 si nasconde dietro le sue

scenografie immaginarie, l’io viene assalito da un acutissimo

senso di colpa, che si estende fino a riconoscere in tutto ciò

che accade un peccato nascosto. E poi c’è un’angoscia ancora

più tremenda: chi gli assicura che, là fuori, la realtà esiste

ancora? Forse il mondo è soltanto un riflesso fantastico dell’Es;

e, oltre la scenografia, in quel teatro scelziano di volti

sfuggenti e di grida che lo hanno tanto impaurito, non esiste

nemmeno un’ombra che scivoli silenziosamente dentro lo

specchio.

Floriano De Santi

Page 178: in itinere

176

La zattera due, 1990 - olio su legno cerato cm 110x110

Page 179: in itinere

177

Progetto zattera, 1990/91 - olio su legno cerato

Page 180: in itinere

178

Il crepuscolo, 1991 - olio su legno, lunetta cerata cm 40x90

Page 181: in itinere

179

L’officina della zattera, 1990 - olio su legno cerato cm 50x70

Page 182: in itinere

180

LA ZATTERA DEI NAUFRAGI, TEMA CARO AGLI ARTISTICorriere della Sera 30 ottobre 1991

PAESAGGI E OMBRE LUNGHE IN UN CREPUSCOLO DI LUCEIl Messaggero 21 ottobre 1991

LA “ZATTERA DELLA MEDUSA” CON GLI OCCHI DI UN CONTEMPORANEOIl Tempo 9 novembre 1991

La zattera dei naufraghi è un tema caro alla poesia e alla

pittura, da sempre, da Omero a Shakespeare, da Paolo

Uccello a Géricault. Italo Scelza cerca di rivivere in termini

attuali l ’esperienza di Géricault, immaginata come

paradigmatica della condizione moderna, in una serie di

piccoli pannelli che costituiscono una specie di particolare

“vademecum”, oppure di un piccolo, se così si può definire,

dizionarietto del disastro. Colori vivaci pur sotto cieli

procellosi, corpi affastellati, pose manieristiche, citazioni da

altri dipinti costituiscono gli ingredienti di una pittura

movimentata, nella quale il senso del trascorrere, della storia

rapinosa degli elementi è tutto, e solo può temperarla la

gradevolezza del colore, la ricchezza di una strutturazione

cromatica che permane sempre rassicurante e confortevole in

un orizzonte che ondeggia e si frantuma. Ed effettivamente le

opere meglio riuscite mi paiono quelle nelle quali si vede il

fasciame delle navi che si disintegra creando emblemi araldici

d’invenzione, simbolo d’una signoria sulla natura

irrecuperabilmente perduta.

Enzo Bilardello

Il ricordo della “Zattera della Medusa” di Géricault è il tema

che Italo Scelza sviluppa in questa sua personale (galleria Ca’

d’Oro, piazza di Spagna 81 fino al 7 novembre). Come

fotogrammi visti alla moviola scorrono così sulla retina

dell’artista i brandelli della sconvolgente terribilità di quel

capolavoro risolvendosi in suggestioni emozionali. Ciò non

per un pedissequo omaggio ma in virtù di un gioco di rimandi

che trova Scelza impegnato ad analizzare la situazione del

vissuto leggendo di quell’opera il senso di dissipazione della

società che il suo significato racchiude. Da qui gli spezzoni di

forme, l’addensarsi delle tensioni volumetriche, l’estendersi

del tessuto pittorico sull’asperità del supporto ligneo, la

singolare luminosità dell’insieme che scandisce i dettagli e,

nello stesso tempo, li fa debordare dai limiti del quadro. Il

tutto nell’ambito di una duplicità di lettura che se angolata dal

punto di vista di un ottimismo della volontà consente di

interpretare quella frammentazione che attraversa uomini e

cose come la speranza redentiva di una possibilità di rinascita

dopo la caduta. Quasi per illusione ottica le forme, allora,

tenderanno a riassemblarsi per costruire una rinnovata unità

nel cui spazio l’uomo possa tornare a guardarsi attorno.

Vito Apuleo

Le crisi ideologiche (dice Scelza)hanno provocato solo

apparentemente un congelamento di pensiero e di azione, ma

il pittore, che ha la fortuna di vivere il quotidiano non solo sul

piano realistico, ma soprattutto su quello immaginario, vive

queste crisi, in maniera diretta e intensa, e la trasmette nelle

sue opere con tutta la sua forza e la veemenza immaginativa

perché restino e possano fissare date importanti.

Franco Simongini

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181

The castaway raft has always been a topic beloved by poets

and painters, from Homer to Shakespeare, from Paolo Uccello

to Géricault. Italo Scelza is trying to put Géricault's

experience into modern terms, imagining it as a paradigm of

human condition at present times: a number of small panels

build a kind of special "vademecum", or a small, as it were,

dictionary giving definitions of disaster.

Bright colours under yet stormy skies, disorderly put together

bodies, mannerist poses, quotations from other paintings: all

these elements are the main ingredients of a lively painting

style, for which all that matters is in the flowing of events, in

the violence of natural elements.

Only pleasant colours and a rich colour structuring can in

some way mitigate it, giving it a sense of reassurance and

comfort in a waving and disintegrating horizon.

The best works seem to be those in which you see the planking

of ships disintegrating to create imaginative heraldic

emblems, which stand for a definitely lost power on nature.

Enzo Bilardello

THE CASTAWAY RAFT, A TOPIC BELOVED BY ARTISTSCorriere della Sera 30 ottobre 1991

LANDSCAPES AND LONG SHADOWS IN A DUSK FULL OF LIGHT Il Messaggero 21 ottobre 1991

THE “RAFT OF MEDUSA“ SEEN BY CONTEMPORARY EYESIl Tempo 9 novembre 1991

The memory of the "Raft of Medusa" by Géricault is the topic

developed by Scelza in this one-man-show (Ca d'Oro gallery,

Piazza di Spagna, 81, until November 7). Like pictures seen

through a moviola, so do flow in the artist's eye bits of the

shocking terrible sense of that masterpiece, summed up in

emotional suggestions. It is not a tribute, but a game of

correspondences in which Scelza is analysing life, while

reading in that work the sense of dissipation of society it

encloses.

From this idea come the fragments of forms, the tense

volumes, painting on wooden asperity, the luminosity of the

whole that underlines details and, at the same time, makes

them go beyond the picture frame. All can be read in a

double way, that, if seen with optimism of the will allows us

to interpret such fragmentation touching men and things, as

the redeeming hope of a possible rebirth after the fall.

Like in an optical illusion, then, forms tend to come together

again, to build a renewed unity inside which man can look

around.

Vito Apuleo

Ideological crises (says Scelza) have only apparently frozen

thought and action, but luckily a painter, lives the everyday

life not only on a realistic, but also on an imaginative level,

he lives such crises in a direct and intense way, and he

passes them on his works with all his imaginative strength

and violence, so that they can picture important dates.

Franco Simongini

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182

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lA cASA rOSSA dI hUMbOldT

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La casa rossa di Humboldt - S. Francisco 1996, trittico - olio su legno cm 220x180

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187

MAcchINe dI FeSTA

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188

I would describe Italo Scelza’s painting as a form of mental

constructivism, the manipulation of objects that can only exist

as concepts, as evidence of things that have either happened,

or not yet happened, or are even imagined, a way of

reproducing the mysterious texture of waking dreams, of

dreams in sunlight. And Scelza’s work is indeed solar painting

in its alternation of images that sometimes lack human

presence, but which share the pulsation of humanity, like the

flow of blood in relation to the stream of the rivers, hints of

foamy water, in order to enliven the stillness of the sky, like

the beginning of a firework display albeit in daylight, thus a

hidden vision of a space which is

never abstract and certainly not

abstruse, but which even has

territorial connotations, where one

can identify the route, however

tortuous, towards solarity. There is

something ritualistic about this, as if

the outcome were conditioned by the

emotional experience, by the craving

to externalize, which is also the desire

to exceed oneself, by the insatiable

desire to achieve the precise

awareness of being able to transform

one's cognitive creativity into an

instrument capable of receiving those

fixed points of reference, temporal

and spatial, on which to construct the

legendary building designed to

receive that sort of nuclear power station which is the human

mind, too often considered as a sort of computer chip. Scelza'

s painting, to adopt an expression which risks sounding like a

cliché, is a universe which expands in every direction, dotted

with focal points which continually transform the patterns of

memory (the transformation is always under the control of

reason), and which can therefore assume musicals,

connotations such as the evocation of the legendary music of

the spheres, associated with the Pythagorean universe. And it

is this which enables Scelza to communicate on the same

wavelength as Leonardo. He is himself solar, optimistic,

constructive. His message reaches us loud and clear over the

ether of our feelings, anxieties, uncertainties, our suffering

and anguish, as if it had always traveled in time.

DREAMS IN SUNLIGHTIL COSTRUTTIVISMO MENTALE

Definirei la pi t tura di I ta lo Scelza una forma di

costruttivismo mentale, manipolazione di oggetti che

possono esistere solo come concetti, testimonianze di

eventi accaduti, un modo quindi di replicare il tessuto

misterioso dei sogni alla luce del Sole. E pittura solare lo

è, quella di Scelza, nell’avvicendarsi di immagini cui non

sempre è conferita presenza umana, ma che dell’umanità

condividono il pulsare come nel flusso del sangue

rapportato a quello dei fiumi, accenti d’acqua spumosa a

ravvivare l’immobilità del cielo come esordio di spettacolo

pirotecnico paradossalmente mediano, visione sottesa,

quindi, di uno spazio non mai

astratto e tanto meno astruso, ma

perfino con connotazioni territoriali,

dove si può individuare il percorso,

sia pure tortuoso, verso la solarità.

C’è qualcosa di rituale, in questo,

come se l’esito fosse predisposto

dalle esperienze emotive, dall’ansia

di estrinsecazione, che è poi di

superamento, dall ’ inappagabile

desiderio di conseguire la precisa

consapevolezza di poter fare della

propria creatività conoscitiva lo

strumento di recezione dei punti

fermi di riferimento, temporali e

spaziali, sui quali costruire il mitico

edificio destinato ad accogliere

quella specie di centrale nucleare

che è la mente umana, troppo spesso considerata alla

stregua di un chip di computer. La pittura di Scelza, per

dirla con una espressione che rischia di suonare cliché, è

un universo che si espande in ogni direzione, popolato di

punti focali che fanno della prospettiva della memoria un

continuo sconvolgimento pur sempre dominato dalla

ragione, e che può, quindi assumere connotazioni musicali

come a evocare i l leggendario suono delle sfere

dell ’universo pitagorico. Ed è così che Scelza può

trasmettere sulla stessa lunghezza d’onda di Leonardo.

Egli stesso è solare, ottimista, costruttivo. Nell’etere dei

nostri sentimenti, delle nostre ansie e incertezze, delle

nostre sofferenze e angosce, il suo messaggio ci giunge,

chiaro e distinto, come se viaggiasse da sempre nel

tempo.

Carlo PedrettiCarlo Pedretti

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I cipressi dell’isola, 1995 - tecnica mista su cartone cm 100x70

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La vergine rotante, 1995 - tecnica mista su cartone cm 130x110

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192

Le acque, 1994 - tecnica mista su cartone cm 76x56

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193

Officina schèmata (particolare), 1994 - tecnica mista su cartone cm 70x100

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194

Il ponte di Leonardo, 1995 - tecnica mista su cartone cm 90x110

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I ponti di Leonardo, 1994 - tecnica mista su cartone cm 110x150

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La cornucopia, 1995 - tecnica mista su cartone cm 70x100

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L’isola di Leonardo, 1995 - olio su legno cm 100x120

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deSerTIAde

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La luna di Giza, 1999 - olio su legno cm 70x50

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Figure a Giza, 1998 - olio su cartone cm 90x110

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Il gioco delle vergini, 1997/98 - olio su cartone cm 40x40

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Cheope e la notte, 1998 - olio su tela cm 70x45

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204

Il dittico della città morta, 1998 - olio su cartone cm 140x100

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205

La notte, 1998 - olio su cartone cm 130x110

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206

L’Oriente è stato sempre una specie di calamita, di suggestivo

magnete capace di attirare, di catturare con la forza della sua

alterità, la fantasia, l’estro creativo di molti artisti occidentali,

scrittori, poeti e naturalmente pittori. Ma quasi sempre esso è

stato vissuto e dunque rappresentato nei suoi aspetti più

vistosamente folclorici, nei suoi elementi più scopertamente

esotici. L’Oriente diventava l’occasione di evasione, pretesto

per sfuggire ai disagi della civiltà, approdo ad una realtà

edenica e dunque immobile e atemporale.

Visioni sostanzialmente false o quantomeno superficiali, di

maniera, consolatorie.

Oggi, naturalmente, un artista è più scaltrito e meno ingenuo

e difficilmente si lascia fuorviare dalle sollecitazioni di più

immediata e facile presa.

Ma allora cos’è, che cosa può rappresentare l’oriente per un

artista contemporaneo se è vero - come è vero - che al di là

delle latitudini e delle diverse sedimentazioni culturali e delle

differenti tradizioni, l’autentico problema per ogni artista -

europeo, americano o africano che sia - è quello di instaurare

un rapporto credibile seppure drammatico, tra sé e il mondo,

tra sé e la realtà, tra sé e la vita?

Questo interrogativo mi faceva sempre più pressante davanti

ad una serie di opere recenti che Italo Scelza ha dedicato

all’Egitto.

Che l ’art ista non fosse interessato all ’aspetto più

scopertamente esotico e incantato di quel mondo, che non

fosse attratto dagli elementi più suggestivamente visivi di

quella civiltà, che non si ponesse difronte a quella realtà con

la disposizione dell’illustratore, lo si capiva di colpo. L’Egitto

al quale Scelza ha attinto non è quello rutilante, folclorico,

svelato e dunque stereotipato e prevedibile dalle guide

turistiche, ma quello enigmatico, cifrato, simbolico, sottratto al

suo immaginario e riemerso dal fondo della memoria storica.

Guardando queste sue opere, in cui il dettaglio diventa più

eloquente di una dispiegata illustrazione e il simbolo (la

Piramide ridotta alla perfezione di un triangolo) più allusivo

di una rivelazione, si comprende che questo Oriente

immaginato e rappresentato da Scelza non è che un altrove,

misterioso e concreto, indecifrabile e palese, dove l’artista

raggruma le pulsioni e trasferisce gli enigmi dell’esistenza.

A rafforzare questa mia impressione che non di un luogo

geograficamente delimitato si tratta, ma piuttosto di uno

spazio metafisico, di una regione dissepolta dai fondali della

memoria, concorre un’altra circostanza e cioé che queste tele,

dalle quali è scomparsa la presenza dell’uomo (solo sullo

sfondo di una di esse si intravede una sagoma fantasmatica)

sono abitate dal silenzio e dalla notte, o meglio dal silenzio

della notte.

Tele giocate sul bleu che tende a sconfinare sul nero , solo a

volte screziato da tracce di colore più vivido, queste opere si

caricano di una marcata valenza simbolica e quello che esse

ci comunicano non è tanto il mistero delle notti orientali, un

tema per altro caro a un certo filone di decadentismo europeo,

ma la lucida presa di coscienza della condizione umana, che

sotto tutti i cieli sotto tutte le latitudini è diventata sempre più

aleatoria e drammatica.

Così i tre quadri che formano il “trittico” e che all’apparenza

rappresentano tende di beduini nel deserto si trasformano in

avamposti le cui aperture-feritoie si spalancano forse

sull’infinito, o forse, più probabilmente, sul vuoto, sul nulla.

Scelza, artista di lungo corso, che è stato sempre spinto da

un’ansia di ricerca, da una volontà di decifrare le

contraddizioni del reale e che non ha mai rifiutato di misurarsi

né con “i miraggi” della tecnologia né di confrontarsi con i

grandi temi della tradizione, è approdato, in questa fase più

recente del suo lavoro e sulla soglia del terzo Millennio, ad

una interrogazione estrema, radicale sulle sorti dell’uomo.

Giuseppe Neri

L’ALTROVE DI ITALO SCELZA

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207

L’officina dei ricordi, 1999 - olio su tela cm 220x200

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208

The Orient has always been a sort o magnete, a charmed

magnete attracting and capturing, by dint of its own

otherness, the fantasy, the creative genius of many Western

writers, poets and, naturally, painters. But it was nearly

always felt, and therefore represented, in its most gaudily

folclohristic aspects, in its most openly exotics elements. Thus

the Orient became an occasion of escape, a pretext for

running away from our civilization’s discomfors and landing

in an Edenic reality, whic was therefore motionless and

timeless.

Substantially false, or at least superficial, vision-whic are

affected and consolatory.

Obviously, today an artist is less naive and too shrewdly alert

to be taken for a ride and be a prey to immediate and facile

lures.

What is it then, what can the Orient represent for a

contemporary artist, if it is true - as indeed it is - that,

anywhere, within any cultural milieu and whatsoever

tradition, the real problem for every artist (European,

American or African) is to establish a credible - albeit

dramatic - relationship between himself and the world,

between the inner self and the outher reality, between himself

and life?

This question was becoming, for me, ever more pressing in

front of a series of recent works which Italo Scelza has

dedicated to Egypt.

That the artist was not interested in the most openly exotic

and charming aspects of that world, that he was not attracted

by the most picturequely visual elements of that civilization,

that he did not place himself in front of that reality with an

illutrator’s frame of mind, all this was immediately clear.

The Egypt by which Scelza has been inspired is obvipusly not

the flamboyant, folkloristic, “revealed” and therefore

conventional and stereotyped Egypt of baedekers and

tourists’guides, but the mysterious, crypitic, symbolic Egypt,

stripped of its “imaginary” and re-emerged from the bottom of

historical memory.

Looking at these works of his - in which the detail becomes

more eloquent than a full-scale illustration and the symbol (a

pyramid reduced to the perfection of a triangle) appears more

allusive than a revelation - one understands that this Orient,

as Scelza imagined and represented it, is nothing but an

“elsewhere”, both mysterious and concrete, indeciphearble

and evident, where the Artist conglomerates life’s pulsions

and transfers life’s riddles.

My impression that this was not a geographically delimitated

place but, rather, a metaphysical space - a region unearthed

from the depth of memory - was reinfoced by another

circumstance - the fact, I mean, that these canvases, from

which man is ever absent (only in the background of one you

see a ghost-like shape) are innabited by silence and night, or

rather by might’s silence.

A blue that tends to trespass into blackness, only sometimes

mottled by traces of a more vivid colour, prevails in these

paintings which are charged with a strong symbolic meaning;

and what they communicate to us is not so much the mystery

o Oriental nights (a theme cherished by a certain brand of

European decadentism) as a lucid awareness of the

Condition Humaine (in Malraux’ words) a condition ( or

situation) which, under whichever skies and at whatsoever

latitude, has become ever more hazardous and dramatic.

Thus the three paintings making up the “Trittico” and

apparently representing Bedouins’ tents in the desert

transmogrify themselves in outposta, whose embrasures - or

slit-like openings - perhaps overlook infinity or, more

probabbly, nothingness - the void.

Scelza, an artist of long standing, who has always been

pushed forwards by an anxiety of research, by a will to

compete both with technology’s “mirages” and tradition’s

major themes, has arrived, in this new phase of his work, on

the threshod of the Third Millennium, at an extreme, radical

interrogation on Man’s destiny.

Giuseppe Neri

ITALO SCELZA AND HIS “ELSEWHERE”

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L’uomo di Khan-El-Khalil, 1998 - olio su cartone cm 70x100

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ESSENTIAL BIOGRAPHYBIOGRAFIA ESSENZIALE

Italo Scelza, pittore e docente di pittura all’Accademia di Belle

Arti di Roma, nasce ad Avellino nel 1939. Negli anni ‘50 è a

Napoli per ragioni di studio. Nel 1960 soggiorna in Ciociaria,

per poi trasferirsi a Roma. Nel 1970 prende studio a

Milano. Dal 1962 è presente senza interruzioni nelle più

importanti gallerie italiane. Sempre attento nell’annotazione

del momento sociale dell’arte, è un nome ricorrente nelle

mostre di forte tensione storica. I suoi primi interventi sul

territorio iniziano nel 1973 a Gualdo Tadino (Immaginazione

e Potere - Editori Riuniti), nel 1974 a Saronno (L’Uomo e la

città), (Festival Mondiale della Gioventù di Berlino), nel 1979

(Le Piazze di Messina: Ipotesi per un gioco), nel 1980 (De

Umbris Idearum - La Macchina della Memoria di Giordano

Bruno). E’ specialista della venerazione per la memoria

storica come tale ma rivissuta, e riedificata con lo spirito

inquieto e dialettico della cultura contemporanea. A questo

proposito si possono citare due interventi importanti: Gli

Stucchi Colorati dal Sole (lettura del fiammeggiante Barocco

di Catania) con testimonianza di Paolo Portoghesi e La Piazza

diventò Teatro rigenerazione della possente manifestazione

dei Gigli di Nola. Nel 1986 partecipa alla XI Quadriennale con

un grande trittico Gli Uomini della Ricostruzione e nello

stesso momento dipinge un altro trittico Il Gioco degli Scuri.

Nel 1989 inizia l’esperienza americana soggiornando prima in

Canada tenendo una mostra personale a Toronto e poi in

California tenendo una mostra in S. Francisco. Le sue opere

sono in molte collezioni pubbliche e private sia in Italia che

in Europa. Negli ultimi due anni Italo Scelza rilegge

pittoricamente La Zattera della Medusa di Théodore Géricault,

l’opera ottocentesca nella quale il grande pittore francese

avverte il dramma dell’uomo di oggi. Scelza vive attualmente

tra Roma e il suo studio di campagna in Ciociaria nel territorio

di Supino.

Tra i suoi ultimi studi interessante la sua ricerca su Leonardo

in collaborazione con il Prof. Carlo Pedretti, con il patrocinio

dell’Hammer Museum di Los Angeles.

Italo Scelza, Artist and lecturer of painting at the Accademia

di Belle Arti of Rome, was born in Avellino in 1939. He lived

in Naples during the 1950S enabling him to study there. In

1960 he moved to Ciociaria, and after that to Rome. In 1970

he opered a studio in Milan. From 1962 onwards he has

been in the most important Italian art galleries. Always

aware of the social meaning of art, he is a current name in

exhibitions of strong historic tension.

His first attempts in this sphere started in 1973 at Gualdo

Tadino (Imagination and Power-Editori Riuniti), in 1974 at

Saronno (Man and the City), (The World Youth Festival in

Berlin), in 1979 (The piazzas of Messina: Hypothesis for a

Game) in 1980 (De Umbris Idearum - The Memory Machine

of Giordano Bruno). He is a specialist in the veneration for

the historic memory, like so but relived and recostructed with

a restless spirit, and in touch with contemporary culture. We

can refer to two important events regarding this: The

Coloured plaster figures of the Sun (reading of the blazing

Barocco of Catania) with the testimony of Paolo Portoghesi

and The Piazza becomes Theatre, a regeneration of the

powerful manifestion of the lilies of Nola. In 1986 he

participated in the XI Quadriennale with a large tryptich The

Men of Reconstruction and at the same time he painted

another tryptich Il gioco degli Scuri. In 1989 he started his

American experience living first in Canada and holding a

personal exhibition in Toronto and then in California

holding an exhibition in San Francisco. His works are in

many collections both public and private, in Italy and the

rest of Europe. In the last two years Italo Scelza has re-read

pictorially La Zattera della Medusa of Theodore Géricault, the

18th century work with which the great French artist feels

man’s drama of today.

Scelza now lives partially in Rome and partially in his studio

in the Ciociaria countryside in the territory of Supino.

Amongst his latest interesting studies, is his research on

Leonardo in collaboration with Professor Carlo Pedretti,

under the auspices of the Hammer Museum of Los Angeles.

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ITALO SCELZA, “I DISASTRI DI UNA TERRA”Avellino, 23 novembre 1999

comunque piegato al prioritario impegno del far pittura.Parimenti, avendo citato Metafisica e Surrealtà, vorrà dirsi che il luogo dell’accennato estraneamento trae, sì, dall’una e dall’altra, tenendo però a mente gli assunti di un dialogo tra Sigmund Freud e Salvador Dalì nel quale il primo dice al secondo che quel che lo interessa della sua pittura non è l’inconscio, ma il “metodo della simulazione”. E pur tenendo a mente che de Chirico parlava di “sogno allo stato di veglia”. Frase che, ovviamente, ne allontana gli esiti da quella “onnipotenza del sogno”, celebrata da Andrè Breton nel “Manifesto del Surrealismo” del 1924, e che condusse al misconoscimento, dopo la prima elezione a referente, del Metafisico da parte dei surrealisti.Freud e de Chirico, in fondo, asseriscono il medesimo

concetto. Poiché il “metodo della simulazione” dichiara la presenza della coscienza (un pittore sa bene, infatti, che un dipinto è costruzione di elementi fondamentali e per nulla casuali), così come sostanzialmente cosciente è lo “stato di veglia” del sogno dechirichiano.Credo di poter dire che la pittura di Scelza, nei suoi vari momenti e passaggi, si collochi comunque in questo ambito. Che è estraniante in q u a n t o a c c e t t a l ’ i n c o n g r u o (apparente) quale formulazione composit iva ed interlocutoria; estraniante, ancora, perché non rigetta la memoria storica (si veda il recente ciclo leonardesco, introdotto da Carlo Pedretti ed esposto a Los

Angeles). Il che, si badi, non vuol pur dire che il pittore non sappia e profondamente non viva le condizioni del quotidiano.Qui giunti, sembrerebbe più agevole avvicinarsi alle odierne litografie, nate da disegni ed acquerelli compiuti de visu nei giorni del terremoto. Perché queste parlano, comunque, di storia. Perché, comunque, la catastrofe è essa stessa estraniante.Precisamente, quindi, nelle corde di Scelza.Basterebbe osservare la pagina ove, rastremato nel segno grafico (che è sintesi mentale e, quindi, culturale) è il Palazzo de Concilis. E poi, seguitando a parlar di storia e di memoria, non è dubbio che, quanto meno foneticamente, “I disastri d’una terra” evochino i goyeschi “disastri della guerra”.

Quando un artista, come nel caso odierno di Italo Scelza, rende omaggio alla propria terra: a quanto di drammatico è accaduto, segnandola profondamente, alla propria terra, non è solo un momento di gratificazione della memoria della quotidianità, ma una maniera ulteriore per affermare presupposti e radicamenti culturali, prima ancora che umani. Si avverte, ne “I disastri di una terra” insomma (il terremoto di Avellino), non solo la partecipazione ad un dolore che può dirsi corale (distruzioni, affanni, perdite, morte), ma un dolore più profondamente segreto. In sintesi, è il rapporto che ognuno conserva del trascorso.Un artista, dicevo, a sua volta conserva e rivela una memoria ulteriore. Che è, naturalmente, il proprio modo di intendere l’arte che si dà in chiave di ismo e che, per quanto possano esser profonde le lacerazioni –o propr io perché assolutamente profonde- appaiono chiarissime dagli esiti generati dalla memoria, appunto.D’altra parte, in “Primi saggi di filosofia delle arti” pubblicato in “Valori Plastici” nel 1919, Alberto Savinio scriveva che “L’Arte nasce dal fecondo grembo della Memoria”.E’ in questa chiave, allora, che vanno lette e considerate le immagini che Scelza propriamente dedica alla memoria del dolore corale, e a quella del suo dolore umano e culturale.I termini memoria ed ismo conducono, perciò, a riflettere circa lo spazio che il pittore occupa oggi, e su quello in cui il suo segno s’inserisce. Discorso che, a sua volta, rimanda ad una riflessione ulteriore su quella che chiamerò la fortuna (o la sfortuna) delle arti figurative degli anni Sessanta e Settanta (decenni in cui Scelza avvia e matura la sua esperienza): momenti di pittura intesi da pochi. Tra l’ultimo informale e le prime sperimentazioni, infatti, molti hanno creduto di poter fare a meno della storia. La quale, per un artista, è la “memoria” di Savinio.Qual è, dunque, l’ambito di Scelza? Si crede di poter dire che questo s’identifica nella situazione di un realismo estraniante (ricordo un quadro d’anni settanta dal titolo Piazze d’Italia) che, per esser tale, prende fiato e corpo sulla meditazione dei codici surreali e, per via di questi, metafisici. Il che per nulla esclude i termini di un impegno anche ideologico (un altro quadro dello stesso periodo: Officina uno), ma sempre e

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La città morta, 1999/2000 - olio su cartone cm 60x50

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Page 216: in itinere

214

BIBLIOGRAFIA

BRUNO ANATRA Presentazione Mostra personale - Roma, 1962

GIUSEPPE SCIORTINO Fantasia espressionistica - «La Fiera letteraria» - 21-6-1962

ARTURO BOVI Giugno Frusinate - «Il Messaggero» - 3-7-1963

GIUSEPPE PENSABENE Capo Palinuro -«Il secondo d’Italia» - 14-7-1963

FRANCO MIELE Un mondo ricco di suggestioni - «Il Popolo» - 29-6-1963

MARIO GIUSE ROMAGNA La dimensione lirica - «Unione Sarda» 19-5-1964

DOMENICO PURIFICATO Presentazione al Catalogo - Mostra personale - Napoli, 1964

DUILIO MOROSINI Alle soglie dell’espressionismo astratto - «Paese Sera» 20-7-1964

TONINO CASATELLI Madrid 64 - «Gazzetta Ciociara» - 10 aprile 1964

CARLO GIACOMOZZI Tensione metafisica - «Vita» - 25-6-1965

ALFONSO CARDAMONE Memoria e storia di un artista - «L’Avanti» - 15-2-1966

ANTONELLO TROMBADORI Presentazione al Catalogo «testimonianze sul Viet-Nam» - 1963

DAVID GAETA Presentaismo - Italo Scelza - Cinema Sud - 1968

GUIDO GIUFFRé Presentazione al Catalogo - Mostra personale Galleria «Ciak» - Roma, 1971

ITALO AVELLINO Un meridionale nella megalopoli - Vie Nuove - 2-2-1972

DARIO MICACCHI Natura e città delle opere di Scelza - «L’Unità» - 12-11-1971

SANDRA ORIENTI L’Aggressività tecnologica di Italo Scelza - «Il Popolo» - 16-11-1971

LUIGI SCRIVO Il poetare di Scelza - Arti e lettere contemporanee - 8-11-1971

LUCIANO MARZIANO Progettazione di una società estetica - «Il Margutta» 12-11-1971

DUILIO MOROSINI I giardini del futuro - «Paese Sera» - 18-11-1971

PAOLO RICCI Saggio critico - Rassegna di Mezzogiorno - Napoli marzo 1972

DARIO MICACCHI Presentazione al Catalogo - Mostra personale di Modena - Maggio 1972

DARIO MICACCHI Il linguaggio dei giovani - «L’Unità» - 21-4-1972

DARIO MICACCHI Italo Scelza - «Mediterraneo» - Edizioni Graphis 69 - Firenze

DARIO MICACCHI Saggio critico - Catalogo Rassegna Genazzano - 8-10-1972

FERRUCCIO VERONESI «Il Resto del Carlino» - 17-4-1972

MARIO DE MICHELI Presentazione al Catalogo - Personale Galleria «S. Croce» - Firenze

FRANCO SIMONCINI «Vita» - 7-7-1973

RENZO VESPIGNANI «Estasi tecnologica» - Testimonianza

GUIDO GIUFFRé Presentazione mostra personale «Arte Cortina» - Cortina d’Ampezzo, agosto 1973

DARIO MICACCHI Saggio critico «Immaginazione e potere» - Gualdo Tadino, settembre 1973

ITALO SCELZA Esperienze e immagini sociali - «Arte Contro» - Milano, 10-11-1973

MARIO DE MICHELI «L’arte presente» - Una pittura lucida - Amalfi, luglio 1974

DARIO MICACCHI «Una esperienza in Sardegna» - Saggio critico - Edizioni E.N.I. - Agosto 1974

ITALO SCELZA Testimonianza XXVIII Premio Suzzara

MARIO DE MICHELI Saggio critico - «L’uomo e La città» - Saronno, settembre 1974

MARIO LUNETTA Presentazione Catalogo - Mostra personale «Fante di Fiori» - Bari, novembre 1974

GERARDO PEDICINI Presentazione catalogo - Mostra personale - Nola

SABATO CALVANESE «Il lavoro Tirreno» - febbraio 1975

ELVIRA CASSA SALVI «Scelza e tecnologia» - Corriera di Brescia, maggio 1976

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DARIO MICACCHI «Unità» - 5-10-1976

DARIO MICACCHI Segnalazione Bolaffi per la pittura 1978

DANIELE MAIONE «Il fantastico di Scelza» - Presentazione Catalogo personale Anagni

COSTANZO COSTANTINI «Intervista con l’autore» - «Alla ricerca di spazi alternativi» - «Il Messaggero» 13-12-1977

FRANCESCO VINCITORIO «L’alienazione Urbana» - «L’Espresso» 3-7-1977

CARLO GIACOMOZZI «Metafisica della Fabbrica» - «Vita» 7-10-1977

DARIO MICACCHI «Quando la città diventa allarmante» - «L’Unità» 7-10-1977

MARIO DE CANDIA «Inabitacoli» - «La Repubblica» 10-4-1980

DARIO MICACCHI «Frammenti di una tempesta da tenere a debita distanza» - «L’Unità» 3-4-1980

GIANCARLO OSSOLA «Ecologia e Utopia» - «L’Unita» 6-2-1981

ALBERICO SALA «L’Uomo e il suo habitat» - «Corriere della Sera» - 18-11-1981

SERGIO SEVESO «L’officina di Scelza per una nuova pittura» - «L’Unità» 27-1-1981

MARIO DE CANDIA «La Macchina della memoria» - «La Repubblica 20-2-1983»

FRANCESCO VINCITORIO «Un visionario figerativo» - «L’espresso» 6-3-1983

DINO PASQUALI «La personale di Scelza fa riconciliare con la pittuta» - «La Nazione» 24-2-1983

PAOLO PORTOGHESI Catalogo - «Gli stucchi colorati dal sole» - 1983

GIANFRANCO PROIETTI Catalogo - «Gli stucchi colorati dal sole» - 1983

COSTANZO COSTANTINO «I ricordi si colorano col sole» - Messaggero - 1984 - mercoledì 12

CARMINE BENINCASA «Gli anni 80 ovvero il decennio della memoria» - Leader arte

DARIO MICACCHI «Scelza e il sangue del barocco catanese» - L’Unità - 28 ottobre 1985

DARIO MICACCHI «Italo Scelza: un barocco che chiude ombre e sangue» - L’Unità - 20 novembre 1985

JOLENA BALDINI (Berenice) «Di mostra in mostra» - Paese sera - 1986

MARIO DE CANDIA «Il giardino di Scelza» - Repubblica - 14 febbraio 1986

RENATO CIVELLO «L’inedito d’Italo Scelza» - Secolo d’Italia - venerdì 28 febbraio 1986

GIANFRANCO PROIETTI «La seduzione affascina l’uomo» - Italo Scelza - Penthouse

TONINO DE LUCA «Provocazioni ecologiche nell’arte di Italo Scelza» - Il Tempo

MARCELLO FIORIMANTI «Italo Scelza e la ciociaria» - Il Messaggero

FERRUCCI VERONESI Italo Scelza - «Città del Mundial» - Il Resto del Carlino

MICHELE FUOCO «Gli itinerari di Italo Scelza» - La Gazzetta di Modena - 2 giugno 1990

GIUSEPPINA RADICE «I Naufraghi» - Espresso Sera - 12 aprile 1992

FRANCO SIMONGINI «La Zattera di Italo Scelza» - Il Tempo - 9 novembre 1991

ALFREDO NOTO «Credo nell’uomo e nella pittura» - Quigiovani - novembre 1991

FLORIANO DE SANTI Presentazione mostra personale alla Galleria «Cà d’oro» Roma e «Arte Club» Catania - 1991

FLORIANO DE SANTI «Felicità e Orrore» - Brescia 24 Ore - dicembre 1991

ENZO BILARDELLO «La Zattera dei naufraghi» - Corriere della Sera - mercoledì 30 ottobre 1991

VITO APULEO «Speranza redentiva» - Il Messaggero - 21 ottobre 1991

ALFREDO NOTO «Verso l’Europa» - L’Umanità - 6 novembre 1991

RENATO CIVELLO «Italo Scelza l’epopea della crisi» - Il Secolo - dicembre 1991

ANGELO LIBRANTI «Italo Scelza» - Rugantino - 30 ottobre 1991

ALFREDO NOTO «Scelza all’Europarlamento» - Momento Sera

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MARIO LUNETTA Rispuntano capolavori nascosti - «Roma» il piacere dell’immagine - febbraio 1992

COSTANZO COSTANTINI «Presentazione Editrice Grafica» - Schémata 1994

CARLO PEDRETTI «Presentazione catalogo» - Schémata 1995

LOREDANA REA «L’opera come lo specchio della memoria» - Flash Magazine 1995

RENATO CIVELLO Italo Scelza, La “Forma” del mistero. “Secolo 1999”

GIUSEPPE NERI L’altrove di Italo Scelza.

RICCARDO SICA « Nuovo Meridionalismo» 1999

SERGIO ZUCCARO « La Zattera»

DOMENICO GUZZI « I disastri di una terra » 1999

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BIOGRAFIA

Alcune mostre personali:

1962 Galleria Passeggiata di Ripetta, Roma.1964 Galleria La Mansarda, Napoli / Palazzo del Governo, Avellino.1965 Galleria Linea, Salerno / Galleria Le Muse, Colleferro.1967 Galleria La Navicella, Cagliari.1971 Galleria Ciak, Roma. 1972 Galleria Tassoni, Modena.1973 Galleria La Nuova Pesa, Roma / Galleria S. Croce, Firenze / Galleria Arte Cortina, Cortina d’Ampezzo.1974 Galleria Fante di Fiori, Bari.1975 Galleria Centro Arte, Nola / Galleria Il Portico, Cava dei Tirreni.1976 Galleria S. Benedetto, Brescia.1977 Antologica di pittura, Badia di Bettona (Perugia) - Comune di Anagni.1980 Galleria Carte Segrete, Roma.1981 Galleria Le Ore, Milano.1983 Galleria Comunale d’Arte Contemporanea, Arezzo.1984 Mostra itinerante Galleria Arte Club, Catania.1985 Galleria Art Message, Roma.1986 Galleria Ariete, Roma / Galleria S. Vitale, Bologna.1987 Galleria Fierarte, Frosinone.1989 Galleria Carrier, Toronto (Canada).1992 Galleria Ca’ d’Oro, Roma.1993 Galleria Arte Club, Catania.1995 Castello Longhi de’ Paolis, Fumone.1997 Galleria L’Indicatore, Roma.1999 Chiesa del Carmine, Avellino2000 Antologica, Sala della Ragione, Anagni / Galleria The Court House, Toronto / Sala Alitalia per l’Arte, Aeroporto “J.F. Kennedy”, New York.

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Alcune mostre collettive:

1962 IV Premio Nazionale di Anagni (premiato).1965 III Premio di Pittura Città di Ariano (2° premio).1967 Rassegna regionale di pittura sull’affranca- zione delle terre, Frosinone (1° premio).1968 Testimonianza sul Vietnam con Calabria, Caroli, Florida, Mattia, Gismondi, Rea, Loreti e Turchiaro.1969 Ricerche e ipotesi in Irpinia / Rassegna di grafica internazionale, Roma.1971 Indagini sull’aspetto surrealista di pittori contemporanei, Roma / Rassegna di grafica internazionale Galleria Ciak, Roma.1972 VII Rassegna del Mezzogiorno, Napoli / Ras segna della Giovane Pittura Italiana, Genaz- zano / Gli artisti al Festival del P.C.I., Roma / 100 artisti italiani per il popolo del Vietnam, Galleria Bevilacqua La Masa, Venezia / II Premio di Pittura Lunigiana Menhir d’Oro 1972, Villafranca Lunigiana / Rassegna d’arte Montesilvano.1973 XXI Premio del Fiorino Biennale Internazio nale d’Arte, Firenze / XXVI Premio Suzzara, Mantova / XVII Premio Campigna, Forlì / V Edizione Incontri Silani, Cosenza / Rassegna Nazionale di pittura, Anagni / Immaginazio- ne e potere Esperienza di gruppo, Gualdo Tadino / Festival Mondiale della Gioventù, Berlino / Esperienze di immagini sociali, Milano.1974 Gli artisti italiani con il Cile, Galleria Alzaia, Roma, Genova, Milano / Il Cile come la Comune, Milano, Parigi / L’arte presente, Amalfi / VI Edizione di Grafica Incontri Sila- ni, Cosenza / XXVII Premio Suzzara, Manto- va / V Edizione del Premio Mazzacurati, Giulianova (fuori concorso) / V Premio

Biennale di pittura, Castelnuovo Magra, La Spezia (1° premio) / L’uomo e la città, Biblioteca Civica, Saronno.1975 Egemonia-Esperienza grafica, Galleria La Nuova Pesa, Roma, Ascoli Piceno, Palermo.1976 XXVIII Premio Suzzara Evidenza dell’imma gine, Paliano / XIII Premio del Disegno Gal- leria Le Ore, Milano.1978 I Biennale di Reggio Calabria.1979 Il Figurativo alle soglie degli anni ‘80 Palaz- zo Cariati, Napoli / Galleria d’Arte Moderna, Palermo.1980 50 artisti per la Galleria Le Ore, Milano / Artificina-Parola e immagine Museo archeo- logico, Reggio Calabria / Ecologia interni esterni mostra di gruppo Galleria Tavazzi, Roma / Leonardo Chàteau sarriod de la tour, Vallée d’Aoste.1982 Mostra Nazionale Arte e Ferrovia, Roma, Torino, Prato / Mostra Nazionale La coope- razione e la società in crisi, Perugia, Livorno, Genova, Napoli / La Ruota del Presente una situazione romana, Comune di Jesi. 1983 De Umbris idearum - intervento sulla mac- china di Giordano Bruno - , Napoli, Roma, Venezia. 1985 XI Quadriennale di Roma.1988 Progetta la rappresentazione del “Giglio” a Nola.1992 Esegue una grande scenografia presso l’Uni- versità “La Sapienza” di Roma ispirata alla “Gerusalemme Liberata”.1994 Esegue a Sesto Fiorentino un grande mosai co.1995 A cura di Carlo Pedretti e Giuliano Allegri esegue una serie di dipinti e una pubblica- zione grafica ispirate a Leonardo, Amalfi, Anagni, Roma, Los Angeles, Stoccolma, Miami.1997 Arte a Roma, Galleria Comunale di Roma /

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BIOGRAFIA

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Città museo, Boville Ernica.1998 Mostra Gruppo 5, Veroli.1999 Mostra internazionale di disegno, Ino-cho Paper Museum, Kochi, Giappone.2000 Immagine d’impegno-impegno d’immagine, Roma.

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Didascalie foto:

Pag. 8 - La casa nel giardino degli ornelliPag. 19 - Italo Scelza con Renzo VespignaniPag. 37 - Italo Scelza nello studio di via Pienza a RomaPag. 47 - Italo Scelza con Nino Gian Marco, Andrea Volo (Majakovsky)Pag. 68 - Italo Scelza con Mario SassoPag. 92 - Italo Scelza nello studio del giardino degli ornelli a SupinoPag. 104 - Italo Scelza nello studio di V.le Regina Margherita a RomaPag. 122 - Italo Scelza con Gian Maria VolontéPag. 130 - Italo Scelza - Festival Jezz Supino con Gaetano FranzesePag. 140 - Italo Scelza a Sesto FiorentinoPag. 146 - Italo Scelza fotografato da Romano Sileone nello studio di SupinoPag. 158 - Italo Scelza ad Humbolt - AutoscattoPag. 174 - Italo Scelza nello studio di HumboltPag. 182 - Il paracadute di Leonardo - Castello di FumonePag. 205 - Studio per l’opera Fides et Retio

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Si ringraziano i collezionisti:Alberto Sughi, Aldo Sica, Alfredo Pellegrino, Antonio Caruana, Antonio Fazio, Benito Grasso, Carlo Mollica, Carlo S. Vitale, Danilo Scarchilli, Domenico Mariani, Emilia Argenziano, Fabio Agostini, Giancarlo D’Agostino, Gianfranco Della Rocca, Gianfranco Proietti, Gianni Puma, Giulio Barletta, Guido Materazzo, Ivo Ruzza, Ralf Menert, Jleana Catarisano, La Rosa Leda, Levy Diane, Maurizio Concutelli, Pina Fornato, Pippo Zagari, Quinto Pasquazzi, Raffaele Troncane, Tony Porcella, Vincenzo Giordano

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