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in collaborazione con

Unione Giuristi Cattolici Italiani

Unione Romana

Famiglia e lavoro: tutele e prospettive

Atti dell’incontro di studio, Roma aprile

a cura diFabrizio Ciapparoni

Contributi diFabrizio Ciapparoni, Francesco D’Agostino

Giuseppe Dalla Torre, Fabio Massimo GalloAndrea Giordano, Marco Lavalle, Marco Mariscoli

Giampiero Proia, Stefano Zapponini

Copyright © MMXVIAracne editrice int.le S.r.l.

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via Quarto Negroni, Ariccia (RM)

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con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: febbraio

Indice

Fabrizio Ciapparoni Presidente Unione Romana Giuristi Cattolici Docente Storia diritto medievale e moderno già Università Teramo Francesco D’Agostino Presidente nazionale U.G.C.I. Docente Filosofia del diritto, Università Roma Tre Giuseppe Dalla Torre Presidente Tribunale Città del Vaticano Docente Diritto Canonico Università Lumsa, Roma Fabio Massimo Gallo Presidente Sezione lavoro e Previdenza Corte d’Appello Roma Giampiero Proia Docente Diritto del lavoro, Università Roma Tre Avvocato del Foro di Roma Stefano Zapponini Presidente Amministratore delegato Guida Monaci spa Andrea Giordano Procuratore dello Stato Avvocatura Distrettuale Palermo Unione Giuristi Cattolici Roma Marco Lavalle Avvocato del Foro di Frosinone Marco Mariscoli Avvocato del Foro di Roma Unione Giuristi Cattolici Roma

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Famiglia e lavoro: tutele e prospettiveISBN 978-88-548-9138-8DOI 10.4399/97888548913881pag. 7–9 (febbraio 2016)

Presentazione

Dopo un lungo iter parlamentare che parte dal 1879, nel 1886 viene approvata, su proposta del ministro dell’Agricoltura Industria e Commercio prof. Domenico Berti, quella che si con-sidera il primo atto della legislazione sociale italiana: la legge dell'11 febbraio n. 3567 “sul lavoro dei fanciulli”

Erano trascorsi sette anni di inchieste, di discussioni e di progetti tendenti all'origine a regolare il lavoro delle donne e dei fanciulli. Durante questi anni la classe politica arrivò, gra-dualmente, in questo delicatissimo settore, ad abbandonare, non senza lotta, i principi del liberalismo puro, del laisser faire, per giungere ad ammettere un intervento statale per tutelare tutti co-loro che per età o altre ragioni non erano idonei a salvaguardare i propri interessi, in particolare, con questo primo intervento, i lavoratori minorenni.

Nel corso dei dibattiti, infatti, era emersa una incredibile condizione di sfruttamento dei fanciulli — insieme alle donne le così dette “mezze forze” — che, alle volte al di sotto dei nove anni, all’epoca, ammontavano a 90.000 unità su un totale com-plessivo di 328.000 lavoratori dipendenti dell’industria, rasen-tando, quindi, il 30% della forza lavoro.

L’indirizzo socio–umanitario oggettivo che sembra caratte-rizzare la legge, non è il solo, perché alla decisione finale aveva contribuito notevolmente il carattere sanitario, cioè la rimozione del rischio di una inadeguadezza fisica delle future generazioni di operai e militari. E ciò risulta dal dibattito e dalle proposte presentate per un “Codice sanitario”.

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Ma le prospettive che allora forse furono lasciate in ombra, ma che oggi maggiormente ci interessano, è il legame tra la fa-miglia e l’attività lavorativa, che sono gli aspetti principali della vita quotidiana di ogni persona e che il vivere insieme riceve sostegno dal lavoro.

Il diffuso fenomeno dei piccoli lavoratori ha la sua ragione di essere nelle scarse retribuzioni dei genitori lavoratori che non permettevano loro un accettabile stile di vita per la solidità dell’intera famiglia. L’indigenza, in un sistema economico–politico in cui il rapporto di lavoro era lasciato alla libera con-trattazione fra le parti, non poteva che essere risolto logorando ancora il capitale umano più debole offrendo braccia lavoratrici senza badare troppo alla loro idoneità per l’impiego negli opifi-ci, nelle cave e nelle miniere.

Dopo cinque anni, il 15 maggio 1891, dal Pontefice Leone XIII è promulgata la lettera enciclica Rerum Novarum la cui in-titolazione «Sulla condizione degli operai» (De conditione opi-ficum), ponendo in evidenza la crudezza della condizione ope-raia, manifesta per la prima volta la posizione ufficiale della Chiesa nei confronti della così detta “questione sociale”, sino ad allora testimoniata riservatamente solo dall’apostolato del laica-to cattolico.

Nella sua stimolazione al riconoscimento di un diritto alla formazione di una proprietà privata conseguente al reddito della «giusta mercede», il pontefice la definisce «patrimonio dome-stico», proprio, quindi, di una famiglia istituzione sociale tutela-ta nei propri diritti.

La lettera enciclica promulgata il 15 maggio 1931, Quadra-gesimo anno, dal Pontefice Pio XI nel celebrare, appunto, il quarantennio intercorso con la precedente enciclica leoniana, con estrema chiarezza dichiara che la mercede dell’operaio deve essere sufficiente al sostentamento proprio e della sua famiglia (merces operario suppeditanda est, quae ad illius eiusque fami-liae sustentatinem par sit) evidenziando la dimensione familiare del lavoro umano.

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Dal 1948 la nostra Carta costituzionale riconosce essere “il lavoro” l’elemento fondante della collettività politica italiana e tutela la dignità personale del lavoratore ed il decoro della sua famiglia.

Oggi a distanza di 124 anni da quell’atto normativo, che da alcuni viene riconosciuto come la nascita di quel complesso di norme del nostro ordinamento giuridico che disciplinano il la-voro come fenomeno sociale ed economico, è ragionevole so-stenere che molto è stato edificato e molto è stato abbattuto.

A questo punto vale la pena interrogarsi se nel corso degli sviluppi societari e politici è stato costruito quanto dovuto ed è stato cancellato quanto da sopprimere.

L’Unione Romana Giuristi Cattolici ha inteso affrontare il tema “Famiglia e lavoro: tutele e prospettive” analizzandolo at-traverso i contributi del Magistrato del lavoro (F. M. Gallo), del Docente universitario Avvocato (G. Proia), dell’Imprenditore (S. Zapponini), avvalendosi anche del concorso di giovani pro-fessionisti soci dell’Unione stessa (A. Giordano, M. Lavalle, M. Mariscoli).

Fabrizio Ciapparoni Presidente Unione Romana Giuristi Cattolici

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Famiglia e lavoro: tutele e prospettiveISBN 978-88-548-9138-1DOI 10.4399/97888548913882pag. 11–18 (febbraio 2016)

Premessa

Lavoro di Dio e lavoro umano 1. Gli antropologi collocano la “scoperta del lavoro” tra la fine del paleolitico e l’inizio del ne-olitico. Nel paleolitico gli esseri umani sono cacciatori e racco-glitori, vivono cioè cacciando prede e raccogliendo frutti o ve-getali per alimentarsi. Cacciare e raccogliere non sono pratiche che abbiano un carattere propriamente umano: anche gli animali cacciano, anche gli animali raccolgono e brucano. Nel paleoliti-co il lavoro non esiste. Gli uomini cominciano a lavorare quan-do inventano strumenti da lavoro, utilizzando i quali essi posso-no dilatare la loro capacità di procurasi alimenti e di meglio proteggere la loro vita quotidiana (come costruendo capanne). Anche gli animali, apparentemente, hanno i loro strumenti, ma gli strumenti degli animali sono strumenti biologici incorporati nel loro corpo dell’animale. Il ragno tesse la tela perché il suo organismo produce la particolare sostanza prima con cui la tela è fatta. Quando invece l’uomo prende un pezzo di ossidiana, e la modella come strumento, non usa il suo corpo, ma il suo lo-gos. Ecco perché nel momento in cui gli antropologi trovano tracce di un uso di pietre di ossidiana capiscono che colui che le ha utilizzate era un essere umano a pieno titolo, apparteneva cioè ad una cultura, in cui era nata, sviluppata e consolidata una capacità progettuale e quindi squisitamente antropologica, per-ché meta biologica. L’essere umano si caratterizza esattamente per questo. L’uomo è l’animale che non solo costruisce, ma progetta; in questo si distingue radicalmente da qualsiasi altra specie animale, che può costruire (come i castori, come le api, come gli uccelli), ma non è in grado di progettare. Mentre gli

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animali vivono nell’immediatezza (e ci vivono benissimo, per-ché sono perfettamente calati nel loro ambiente), l’uomo tra-scende l’immediatezza, attraverso i suoi progetti, cioè grazie al-la sua capacità di tener insieme presente e futuro. Il tener insie-me presente e futuro si manifesta attraverso quella pratica fati-cosa e insieme affascinante che è il lavoro. 2. Non c’è dubbio, come diceva Cesare Pavese, che «lavorare stanca». Nella Teogonia di Esiodo, Ponos, il dio del lavoro, ha come sorella Algea, “colei che fa piangere”. Ma non c’è nem-meno alcun dubbio che il lavoro, per quanto faticoso, sia affa-scinante. La comprensione e l’accettazione di questo paradosso non è stata però immediata: ha richiesto, anzi, secoli e secoli di elaborazione culturale. Nell’età classica il lavoro era visto con disprezzo e ritenuto degno esclusivamente della condizione ser-vile. Platone racconta della figura, per lui stravagante, del sofi-sta Ippia, che, rinunciando al lavoro degli schiavi, amava “lavo-rare”, cucinandosi il cibo, cucendosi gli abiti e arrivando perfi-no a costruirsi da solo la casa, pur essendo di una grandissima e ricchissima famiglia ateniese. Perché tante fatiche? Perché evi-dentemente, per Ippia, uomo straordinariamente moderno e in anticipo sui tempi, il lavoro, pur se faticoso, doveva dargli un sottile e profondo piacere. 3. Per i latini il lavoro era fatica, era “negatività pura”, era ne-gotium, perché tale da rendere non possibile il godere dei piace-ri, non sempre volgari, dell’otium. Eppure ad un certo punto nell’antichità si aprono spiragli. Cicerone insiste nel dire che l’ozio va coniugato con la dignità (otium cum dignitate), per e-vitare che esso diventi qualche cosa di disdicevole. Siamo agli inizi di una nuova sensibilità. 4. Grazie all’avvento del cristianesimo si impone un nuovo pa-radigma, che altera radicalmente, e definitivamente, l’idea del lavoro. La ragione è palese. Chiunque legge la Bibbia vede che Dio è descritto, sia pur metaforicamente, come colui che “lavo-ra”, e per diversi giorni, et requievit die septimo. Quando la ri-velazione ebraica venne dilatata dal Vangelo, la dimensione creatrice, “laboriosa”, di Dio Padre venne ulteriormente qualifi-cata dalla sua dimensione trinitaria: del Figlio si sottolinea in-

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fatti espressamente nel Credo niceno che è consustanziale al Padre, al punto che attraverso di lui tutte le cose sono state fatte (per quem ominia facta sunt). In altre parole il Dio trinitario non “lavora” da solo: la sua potenza creatrice si manifesta nel conte-sto “relazionale” della Trinità. Anche se l’espressione “creazio-ne familiare” è certamente inappropriata, essa può però essere utile per farci intendere che, poiché la relazionalità è iscritta nella logica dell’Essere di Dio, essa non può essere assente in alcuna delle sue manifestazioni. 5. Il verbo greco che noi traduciamo con il verbo “creare” è poiein, cioè “fare”. Dio “fa” il mondo esattamente come un co-struttore fa una casa, prima progettandola e poi realizzandola. Quindi gli uomini, fatti ad immagine e somiglianza di Dio, non possono in alcun modo disdegnare il lavoro. Anzi nel lavoro umano sarà possibile vedere il riflesso del lavoro divino e in ogni lavoro umano, per quanto minimo, sarà possibile percepire una scintilla del lavoro divino, un vero e proprio amore per le cose, in quanto “ben fatte”. 6. Di qui conseguenze di notevole rilievo. Oltre al fatto che il lavoro è tanto più autentico quanto più in esso si realizza una dinamica di “partecipazione relazionale” (e la famiglia di tale partecipazione è la dimensione prima), si comincia altresì a per-cepire che il lavoro umano può essere fatto bene o fatto male. Questa percezione è ancora la nostra. Lo si vede se si riflette che non ha senso dire, se non per approssimazione, che un cal-colatore lavora bene o che lavora male. Una macchina o funzio-na o non funziona. Se funziona la utilizziamo fino a che funzio-na e resiste all’usura; se non funziona non la biasimiamo, ma semplicemente o la ripariamo o la buttiamo via. La funzionalità di una macchina non è rapportabile alla logica del lavoro. Chi lavora non è la macchina, ma colui che l’utilizza. Non si assu-mono infatti gli operai perché “funzionino”, come ingranaggi di una catena di montaggio, ma perché lavorino alla catena di montaggio, controllandone la funzionalità e inserendosi nei suoi processi. È per questo che neanche i tayloristi estremi hanno mai pensato che il miglior operaio sia quello che lavora comeuna macchina, perché quanto più si cerca di far lavorare un ope-

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raio come una macchina tanto più si moltiplicano le sue possibi-lità di errore. 7. Giungiamo così a uno snodo fondamentale del nostro discor-so. Scopriamo che nel lavoro umano, in “ogni lavoro umano”,c’è una dimensione spirituale. Per questo nella seconda lettera ai Tessalonicesi San Paolo ammonisce: «se qualcuno non vuole lavorare non mangi». Chi non lavora, o più precisamente chi si rifiuta al lavoro, non crea infatti nessun bene, né introduce bene nel mondo: si rivela, perciò, non degno di essere considerato imago Dei. Il lavoro quindi è un bene in sé, che per dir così “to-nifica”, cioè dona un senso pieno all’esistenza umana. A partire da questo altissimo principio, da quando si è insediato nelle co-scienze, si comincia a percepire l’emergere di un’altra categori-a, strettamente connessa a quella del lavoro, la categoria della professione. 8. Il termine professione è assente nel mondo classico. I Greci tradussero il termine della tradizione ebraica Nevì (la figura che l’avanguardia post impressionistica ha deformato in Nabi) col termine profeta, che indica l’operato di colui che “parla in anti-cipo”, cioè che “dice oggi quello che avverrà domani”. Da pro-feta deriva profezia. Lentamente dallo stesso termine deriva an-che professione. 9. Nel medioevo cristiano si usa professione in chiave stretta-mente ecclesiale, per indicare la professione religiosa, cioè l’atto con il quale si dichiara pubblicamente una scelta di vita spirituale, di carattere istituzionale e di conseguenza regolata canonicamente. Per la professione religiosa il carattere pubblico è indispensabile. Privatamente infatti si possono fare voti, ma chi vuol fare una professione di vita deve farla “pubblicamen-te”, alla presenza, reale o simbolica, della comunità che è dispo-sta ad accoglierlo e a supportare la sua scelta di vita. Nei Pro-messi sposi, per il rimorso di aver compiuto un omicidio, il gio-vane e impetuoso Lodovico decide di espiare per tutta la vita, facendosi cappuccino e assumendo il nome di Cristoforo. Alla sua pubblica professione religiosa vengono ad assistere addirit-tura i parenti della sua vittima (che si ritengono vendicati a suf-ficienza dal severo stile di vita che da quel momento in poi gui-

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derà l’esistenza del nuovo frate). In forma ovviamente depoten-ziata e secolarizzata, il professionista, “nel senso moderno del termine”, si comporta in qualche modo in modo analogo. Deci-de di dare un orientamento “definitivo” alla propria vita, dichia-rando pubblicamente quale sarà l’orizzonte di impegno lavora-tivo che da quel momento in poi egli professerà. La credibilità della professione religiosa sta nella fede del religioso, la credi-bilità della scelta professionale sta nella competenza, pubblica-mente accertata, del professionista e nella consapevolezza, da parte sua, che i suoi impegni lavorativi avranno un carattere “pubblico” (e che, proprio in quanto dotati di carattere pubblico, potranno essere meritevoli di retribuzione). 10. Se non c’è questa competenza e questa consapevolezza non è possibile parlare di professione. La professione infatti non di-pende tanto da quello che si fa, ma dipende da come lo si fa. Qui sta la differenza tra il professionista, da una parte, e il dilet-tante o l’amatore dall’altra. Luigi XVI era un abilissimo orolo-giaio (adorava smontare gli orologi e rimontarli), però non era un “professionista”, perché non sentiva alcun bisogno di dare carattere pubblico di questo che noi oggi chiameremmo un hobby. Ben diverso è il caso dell’orologiaio professionista, che si dichiara pubblicamente tale e che come tale viene prima for-mato, poi solennemente accolto dalla comunità professionale degli orologiai. Per questo la conclusione dei corsi di studio “professionalizzanti” è in genere caratterizzata da solennità di vario tipo: quando il preside o il direttore della scuola pubbli-camente mette in mano a chi termina il proprio corso di studi l’attestato finale, il diploma, la pergamena, percepiamo che l’identità del neodiplomato o del neolaureato ha acquisito una nuova e definitiva configurazione (o almeno che si è straordina-riamente arricchita). E non solo in senso operativo o tecnico, ma in un senso antropologico. Non si cada però nell’errore di rite-nere che la rilevanza pubblica della professionalità derivi da di-namiche “esterne” alla professionalità medesima: gli interventi pubblici “riconoscono” le professionalità, a volte anche attra-verso rigorose procedure burocratiche, ma non sono in grado di crearle. Esemplare, al riguardo, la trama di un piccolo capola-

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voro della letteratura francese della prima metà dell’Ottocento, Mon oncle Benjamin (1843) di Claude Tillier: al barone, nobi-luomo di provincia, che, ammalato, lo chiama al suo capezzale, lo zio Beniamino, sottoposto in precedenza da costui a innume-revoli umiliazioni a causa del suo rango piccolo borghese, spie-ga che il re, che può conferire a chi vuole e quando vuole un ti-tolo nobiliare, non è in grado di conferire a nessuno, che non sia stato in grado di conquistarsela, una laurea in medicina. 11. È a questo punto che perché nella dinamica delle profes-sioni emerge la deontologia. Deontologia è termine colto e co-me tutti i termini colti può essere fuorviante. Etimologicamente esso avrebbe una valenza analoga all’espressione “teoria del dovere “(o forse, più precisamente, dei doveri). Il termine ha acquistato nell’uso una valenza più ristretta e nebulosa, indi-cando una serie di specifici doveri etici, che gravano non sulle persone in generale, ma su coloro che esercitano una particolare professione. Prima però di utilizzare il termine in una valenza così limitata, anche se ovviamente non scorretta, è però oppor-tuno assumerlo in un orizzonte di più ampio raggio e dire che la deontologia significa semplicemente questo: poiché il lavoro umano ha sempre in sé una dimensione di bene, questo bene va accanitamente custodito e promosso da coloro che si dedicano al loro lavoro, per evitare che esso si rovesci assiologicamente e si commuti in un male. Se riteniamo che l’etica sia quella di-mensione del pensiero che cerca di salvare il bene da ogni ma-nipolazione, da ogni degradazione, da ogni capovolgimento, ne segue che dove c’è una professione c’è una deontologia, perché c’è e non può non esserci un’etica. Dove invece il lavoro si ri-duce a mera prassi funzionale, non c’è deontologia (perché in realtà non è corretto in questi casi parlare propriamente di “la-voro”). 12. Professionalità e deontologia sono dunque strettamente con-nesse e sono connesse perché nella professionalità c’è la consa-pevolezza che quello che si fa lo si fa sempre in una dimensione di bene. Con questo non si vuol dire che un professionista, co-me in generale tutti i lavoratori, sia in primo luogo un filantropo disinteressato: è ovvio che egli dal suo lavoro trae un reddito,

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che ordinariamente sarà il suo unico reddito. Non dimentichia-moci mai però che, al di là dell’utile che da essa si trae, dall’esercizio di una professione deriva come effetto antropolo-gicamente primario quello “dell’autorealizzazione personale”. E questo spiega perché ordinariamente il professionista non cada in quelle dinamiche di alienazione, descritte e denunciate con straordinaria efficacia dal marxismo classico, che sono il grande rischio e spesso il tristissimo effetto del lavoro operaio (peraltro suscettibile, proprio perché lavoro “umano”, di trascendere le sue meccanicistiche dimensioni deteriori). 13. Come è possibile tradire una professione religiosa, così è ovviamente possibile tradire una professione lavorativa. L’oggetto del tradimento nei due casi non è così diverso come potrebbe sembrare sulle prime. Chi getta la tonaca alle ortiche viene certamente meno alle promesse da lui fatte a Dio; ma in realtà, come ogni peccatore, non offende propriamente Dio, ma se stesso (Geremia, 7.19). Analogamente è possibile dire del professionista: dobbiamo comprendere che colui che tradisce la sua vocazione non va percepito come chi stia recando offesa a supremi, nobili (e inevitabilmente astratti) principi etici di con-dotta; molto più semplicemente egli sta perdendo la sua identità (qualunque sia l’utilità —generalmente monetaria — che possa ottenere come prezzo del suo tradimento). La cancellazione da un albo professionale, prima ancora che sanzione deontologica, è forma espressiva di un’impossibilità ontologica: quella di po-ter chiamare professionista chi si sia rivelato indegno di eserci-tarla. Lo conferma il fatto che pochi comportamenti umani ap-paiono così disdicevoli, se non addirittura ributtanti, quanto i tradimenti deontologici. La durissima norma delle XII Tavole, Patronus, si clienti fraudem fecerit, sacer esto, non va letta co-me espressione di una legislazione penale primitiva e feroce (anche se tale lettura, ovviamente, ha le sue buone ragioni), quanto come la percezione di quanto sia insanabile la lacerazio-ne della buona fede, cioè del più alto principio regolativo della vita di relazione, prodotta da un illecito deontologico.

stode della sua professione “individuale”, ma di mantenere nel-È per questo che al professionista è richiesto non solo di farsi cu-

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lo stesso tempo e sempre la consapevolezza dell’esemplarità sociale della sua scelta di vita. 14. Se la deontologia professionale sia oggi in crisi e che gravità tale eventuale crisi possa aver raggiunto è questione che esula da queste considerazioni. Ciò che è possibile rilevare è, comun-que, il fatto che la diffusione di un pragmatico funzionalismo, tipica del nostro tempo, produce inevitabilmente i suoi effetti anche sul piano della sensibilità deontologica. Cosa dobbiamo intendere per funzionalismo? Il funzionalismo, più che una teo-ria, è una “prospettiva”, quella per la quale è irrilevante che le cose, le scelte, gli affetti siano “veri”, l’importante è che funzio-nino (Whatever works, “basta che funzioni”, è l’efficacissimo ti-tolo di uno degli ultimi film di Woody Allen). Non avendo que-sta forma di relativismo alcuno spessore teoretico, ma solo ope-ratività pratica, la sua confutazione non può a sua volta che es-sere funzionalistica: non è senza significato il fatto che nel film di Woody Allen — da cui, peraltro, a causa del suo intenzionale carattere grottesco è difficile trarre indicazioni se non estrinse-che — il protagonista tenti, e più di una volta, e non certo im-motivatamente, il suicidio. Ciò che il suicidio è per la vita bio-logica, è, nella vita socio-relazionale, la perdita di autenticità, cioè il mascheramento. Senza autenticità si può di certo “so-pravvivere”, come di certo può sopravvivere chi nasconda il suo volto dietro una maschera, giustificandosi magari col ricorso al celebre bon mot di Oscar Wilde, quando sosteneva che solo chi è mascherato è in grado di dire la verità. Noi pensiamo piuttosto il contrario e cioè che la maschera, per quanto bella essa possa essere, crea sempre e intenzionalmente una distanza tra l’essere e l’apparire. «La professionalità nasce e si afferma storicamente come una dimensione dell’essere»: una dimensione limitata, come tutte le umane cose, ma pervasa nei suoi limiti da un legit-timo e orgoglioso anelito di autenticità. A tutti i professionisti spetta il compito di tener viva questa consapevolezza e di cu-stodirla.

Francesco D’Agostino Presidente nazionale U.G.C.I.

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