Improvvisazione. Ontologia di una pratica...

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1 Improvvisazione. Ontologia di una pratica artistica di ALESSANDRO BERTINETTO* La ricerca estetologica affronta spesso sfide teoriche particolarmente complesse, che si collocano al crocevia tra pratica artistico-musicale e riflessione speculativa. Concetti, ad esempio, come interpretazione, improvvisazione, esecuzione, originalità appaiono come autentici labirinti nei quali si rischia di smarrirsi e non ritrovarsi. Alessandro Bertinetto, nel suo recente volume Eseguire l’inatteso. Ontologia della musica e dell’improvvisazione, dialogando criticamente con le teorie più in voga nell’ambito dell’ontologia della musica, propone un percorso denso e originale, che punta a riconfigurare l’ontologia musicale alla luce di un’esplorazione filosofica dell’improvvisazione. Proponiamo ai nostri lettori l’introduzione e il secondo capitolo del libro, pubblicato da Il Glifo, ringraziando l’editore per la gentile concessione. Introduzione La caratteristica fondamentale del fare musica è l’improvvisazione Derek Bailey L’improvvisazione è la forma più naturale e diffusa di fare musica Stephan Nachmanovitch Ne Il pensiero dei suoni 1 mancava, per motivi di spazio, un capitolo dedicato specificamente all’ontologia della musica. Questo libro intende espressamente colmare quella lacuna. Il suo taglio è però diverso. Mentre il volume del 2012 era di carattere introduttivo, questo ha natura più marcatamente teorica. Non si limita a presentare e discutere le diverse posizioni filosofiche relative all’ontologia della musica, ma intende difendere due tesi, che s’intrecciano e si accavallano anche nell’ordine dei capitoli. Per un verso, intendo discutere il carattere specifico dell’ontologia dell’improvvisazione musicale. Per altro verso, voglio sostenere come proprio l’improvvisazione, che sfugge alle sistemazioni rigide del mainstream dell’ontologia della musica, ci aiuti a riformare l’ontologia della

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Improvvisazione. Ontologia di una pratica artistica

di ALESSANDRO BERTINETTO*

La ricerca estetologica affronta spesso sfide teoriche particolarmente

complesse, che si collocano al crocevia tra pratica artistico-musicale e

riflessione speculativa. Concetti, ad esempio, come interpretazione,

improvvisazione, esecuzione, originalità appaiono come autentici labirinti

nei quali si rischia di smarrirsi e non ritrovarsi. Alessandro Bertinetto, nel

suo recente volume Eseguire l’inatteso. Ontologia della musica e

dell’improvvisazione, dialogando criticamente con le teorie più in voga

nell’ambito dell’ontologia della musica, propone un percorso denso e

originale, che punta a riconfigurare l’ontologia musicale alla luce di

un’esplorazione filosofica dell’improvvisazione. Proponiamo ai nostri

lettori l’introduzione e il secondo capitolo del libro, pubblicato da Il Glifo,

ringraziando l’editore per la gentile concessione.

Introduzione

La caratteristica fondamentale

del fare musica è l’improvvisazione

Derek Bailey

L’improvvisazione è la forma più naturale e

diffusa di fare musica

Stephan Nachmanovitch

Ne Il pensiero dei suoni1 mancava, per motivi di spazio, un capitolo

dedicato specificamente all’ontologia della musica. Questo libro intende

espressamente colmare quella lacuna. Il suo taglio è però diverso. Mentre il

volume del 2012 era di carattere introduttivo, questo ha natura più

marcatamente teorica. Non si limita a presentare e discutere le diverse

posizioni filosofiche relative all’ontologia della musica, ma intende

difendere due tesi, che s’intrecciano e si accavallano anche nell’ordine dei

capitoli. Per un verso, intendo discutere il carattere specifico dell’ontologia

dell’improvvisazione musicale. Per altro verso, voglio sostenere come

proprio l’improvvisazione, che sfugge alle sistemazioni rigide del

mainstream dell’ontologia della musica, ci aiuti a riformare l’ontologia della

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musica nel suo complesso, stabilendo il primato del performativo, del

pratico e dell’estetica sull’ontologia. L’improvvisazione – questa almeno la

mia convinzione – rende così un ottimo servizio all’ontologia della musica

come ontologia di una pratica artistica.

Si giustifica così anche l’apparente natura paradossale del titolo. Non

sarebbe fuori luogo domandarsi: come si può eseguire l’inatteso? Posso

eseguire un’istruzione che è già disponibile, non qualcosa che non solo non

c’è, ma neppure è atteso o previsto. In inglese il verbo “to perform” ha un

significato neutro e, magari con l’eccezione relativa alla riproduzione della

musica registrata, lo si può usare indifferentemente per tutte le forme del

fare musica; il che vale anche per tutte quelle pratiche artistiche, come la

danza e il teatro, che, come la musica, sono appunto intese come ‘arti

performative’. Invece, il verbo italiano “eseguire”, ma anche il verbo

“interpretare” (che meglio rende la dimensione creativa dell’attività di uno o

più musicisti che suonano un’opera musicale), presuppongono che ci sia già

qualcosa (una composizione) appunto da eseguire o interpretare: qualcosa di

atteso, anche da parte dell’ascoltatore che conosce il programma del

concerto che si appresta ad ascoltare. Invece, nell’improvvisazione – in virtù

della coincidenza d’invenzione e performance – è proprio l’inatteso a

diventare il clou dell’esperienza estetica, sebbene pure l’affermazione che

questo inatteso sia eseguito non possa non suonare ossimorica e addirittura

paradossale. Il paradosso si dissolve non soltanto chiarendo, come farò, i

presupposti dell’improvvisazione, che – ancorché inattesa – non è ex nihilo;

ma anche e soprattutto se si sostiene, come intendo sostenere, che quanto

accade nell’improvvisazione è il paradigma di ciò che avviene sempre

nell’esperienza musicale, la quale è appunto l’esperienza di una pratica

performativa. La musica non è reale come opera (attesa); la musica reale è

sempre quella (per principio inattesa) della performance. Anche

l’esecuzione o l’interpretazione di un’opera musicale sono di per sé

costitutivamente inattese e inattesa è sempre la realtà concreta dell’opera,

che vive soltanto nella performance. La logica del rapporto

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opera/performance così come del rapporto tra le varie opere e tra le diverse

performance dev’essere quindi intesa nei termini dell’articolazione

(tras)formativa dell’improvvisazione, in cui ciò che accade ora è inaudito,

(tras)forma il senso del passato e il suo senso sarà a sua volta (tras)formato

da ciò che accadrà dopo. Insomma, quanto accade nel microcosmo di una

specifica situazione improvvisativa è il paradigma concettuale per

comprendere quanto accade nel macrocosmo dell’ontologia musicale nel

suo complesso, laddove questo comporta il primato delle pratiche, della

performance e dell’estetica sull’ontologia in tema di filosofia della musica.

Almeno, questa è la tesi che cercherò di articolare nel corso del libro.

Tuttavia, per non illudere il lettore, è bene mettere le mani avanti.

Sebbene argomenti che guardando all’improvvisazione possiamo capire il

primato dell’estetica sull’ontologia in tema di filosofia dell’arte, questo

volume non spinge molto a fondo l’esame filosofico dell’estetica

dell’improvvisazione (su cui mi sono comunque già soffermato in altri

lavori, qui ogni tanto richiamati). Infatti, al tema specifico dell’estetica

dell’improvvisazione (nel contesto generale dell’arte e non soltanto in

quello specificamente musicale) dedicherò presto un saggio, già in

preparazione, rivolto in particolare a smontare il trito luogo comune della

natura imperfetta di questa pratica e ad argomentarne invece il carattere

paradigmatico per la creatività artistica.

Il presente volume ha la seguente articolazione. Nel capitolo 1 presento e

discuto, mostrandone i problemi, i modelli più diffusi di ontologia della

musica in ambito analitico, quelli basati sull’ideale della fedeltà all’opera

(Werktreue). Nel capitolo 2 esamino le specifiche qualità ontologiche

dell’improvvisazione musicale, discutendone i principali tipi (non-

intenzionale, reattiva, consapevole), i peculiari aspetti teorici e i rapporti con

la composizione e l’interpretazione, soffermandomi estesamente anche sulle

questioni dell’intenzionalità e dell’espressività. Nel capitolo 3, senza entrare

nei dettagli dei diversi generi di improvvisazione nelle varie pratiche

musicali, mostro che l’improvvisazione di per sé sfugge a quelle costruzioni

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ontologiche che riducono la musica nei termini di oggetti (concreti e

soprattutto astratti) ripetibili. Sostengo che queste ontologie fedeli

all’ideologia della fedeltà all’opera (e in particolare la corrente oggi più in

voga: l’ontologia type/token) non sono in grado di afferrare in modo

convincente le proprietà ontologiche dell’improvvisazione per riuscire a

rendere conto del suo peculiare carattere estetico. Anzi, queste ontologie

rendono assai ardua sia la comprensione del carattere estetico

dell’improvvisazione, sia quella del significato che l’improvvisazione può

avere per la musica nel suo complesso. Il capitolo 4 prosegue questa

discussione mediante il confronto tra improvvisazione e registrazione, che

propone alcuni interessanti problemi estetici e filosofici. Nel capitolo 5

difendo la tesi che focalizzare l’attenzione sull’improvvisazione, invece che

anzitutto sulle opere musicali, è un modo per riconfigurare il discorso

dell’ontologia musicale, rendendolo coerente con le pratiche artistiche ed

estetiche. L’ontologia della musica costruita a partire dall’improvvisazione

mette in luce l’aspetto finzionale/costruttivo del concetto di opera, il

carattere energetico della musica come attività che si svolge qui e ora e

quindi il primato della performance, della prassi e della loro dimensione

estetica. Ciò emerge con particolare vigore, tra l’altro, con la pratica

jazzistica della contraffattura. L’indagine sulla contraffattura che svolgo nel

cap. 6 mostra, infatti, sia la povertà di quelle ontologie della musica che non

riescono a rendersi conto dei propri presupposti ingiustificati sia, ancora una

volta, l’interesse che l’improvvisazione può rivestire per un’indagine

ontologica della musica esteticamente (ed ermeneuticamente) consapevole.

Concludo l’argomentazione generale nel capitolo 7, che è dedicato alla

comprensione della normatività, della temporalità e della interattività

dell’improvvisazione. Anche grazie alla ripresa di alcuni concetti

dell’ermeneutica di Gadamer, sostengo che la normatività improvvisativa è

il modello per articolare l’ontologia della musica (e dell’arte) nel suo

complesso, in modo coerente con la tesi del carattere (tras)formativo delle

opere e delle pratiche musicali. Dimostrando che la logica normativa

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dell’improvvisazione può essere adottata per impostare l’ontologia della

musica nel senso del primato dell’estetica e della pratica artistica, chiudo

così il cerchio di tutto il discorso del libro.

Riassumendo e puntualizzando queste righe introduttive, il mio

suggerimento è di guardare alla connessione tra ontologia musicale e

improvvisazione in senso inverso rispetto alla via battuta da una parte

cospicua delle teorie oggi disponibili nell’ambito dell’ontologia musicale.

Invece di provare a incastrare l’improvvisazione musicale in rigide scatole

ontologiche precostituite (un’operazione destinata al fallimento), la strategia

che intendo seguire consiste nel riconfigurare l’ontologia musicale alla luce

di un’esplorazione filosofica dell’improvvisazione. Per evitare inutili

fraintendimenti, preciso subito che non ho affatto l’assurda pretesa di

identificare la musica con l’improvvisazione. Sosterrò piuttosto quanto

segue:

(1) l’improvvisazione in senso stretto mette in primo piano aspetti

importanti della musica – in primis il suo essere energia, attività,

performance – che l’indagine ontologica non può e non deve trascurare;

(2) una nozione estesa di improvvisazione è fondamentale per articolare

un’ontologia della musica fondata sulla prassi estetica, secondo cui l’opera

musicale è da intendersi come finzione che vela un reale processo di

(dis)continua e differenziale (tras)formazione creativa.

Capitolo 2

L’ontologia dell’improvvisazione musicale

L’obiettivo di questo capitolo è esplorare le caratteristiche dell’ontologia

dell’improvvisazione musicale, a partire dalla tesi che, a prescindere dai

diversi tipi e stili di culture così come dalle differenti pratiche e generi

musicali, l’improvvisazione è da intendersi come un processo in cui attività

creativa e attività performativa costituiscono il medesimo evento generatore.

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1. Il concetto di improvvisazione

Il termine ‘improvvisazione’ ha connotazioni semantiche

tendenzialmente negative. Che s’intenda l’azione dell’improvvisare o il suo

risultato, nel linguaggio ordinario esso spesso sottintende non soltanto

l’estemporaneità e l’imprevedibilità di modalità di agire che si scontrano

con procedure standardizzate, calcolabili, reiterabili, bensì anche la

mancanza di preparazione con cui si procede all’azione, la trascuratezza e

l’imprecisione con cui la si svolge, l’inadeguatezza degli strumenti di

fortuna adoperati per fare qualcosa in una situazione di emergenza2.

Ciononostante, nella vita quotidiana ricorriamo in continuazione

all’improvvisazione. L’esecuzione di un’azione qualsiasi, per quanto

progettata, programmata, regolata, determinata, sembra comportare un

grado, magari minimo e limitato, d’improvvisazione. Per dirla con S. Leigh

Foster3:

L’esecuzione di ogni azione, a prescindere da quanto sia predeterminata

nelle menti di chi la svolge e di chi ne è testimone, contiene un elemento

d’improvvisazione. Il momento dell’esitare meditando su come eseguire

esattamente un’azione già profondamente nota, tradisce la presenza

dell’azione improvvisata.

Un buon esempio per chiarire questa idea è offerto dal linguaggio. Le

lingue naturali funzionano in base a regole grammaticali e sintattiche, a

determinazioni semantiche, a formule pragmatiche diffuse in una comunità

linguistica, grazie a cui è possibile comunicare e (provare a) intendersi

reciprocamente. Eppure, l’uso reale del linguaggio da parte dei parlanti non

è regolato rigidamente e senza scarti da regole e automatismi. Sebbene si

parli e scriva adoperando regole, convenzioni e formule, l’uso delle

determinazioni generali del linguaggio è inventivo. Un linguaggio che

funzionasse in maniera automatica eliminerebbe la possibilità della sua

stessa realizzazione, che è costituita dall’azione reale del parlare (o dello

scrivere) da parte degli individui4. L’universale linguistico non determina

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rigidamente la sua stessa applicazione e diventa reale unicamente nei

concreti progetti di senso degli individui interagenti. L’applicazione

individuale realizza l’universale in maniere personali, che lo stesso

universale non consente di prevedere. In tal senso, l’azione del parlare è in

qualche grado improvvisata: dipende da regole, ma è comunque libera, e

può essere inventiva e creativa nella loro applicazione (su improvvisazione

e linguaggio cfr. anche cap. 7.4).

Questo tuttavia non significa che la liberta improvvisativa che attiene allo

svolgimento di ogni azione sia sempre voluta e intenzionale: lo dimostra lo

stesso esempio delle lingue ‘naturali’, ma, come vedremo presto, anche

quello dell’interpretazione musicale. Semplicemente, essa è per lo più

inevitabile. È lo svolgimento stesso di ogni azione a comportare che

l’applicazione delle regole cui l’azione deve obbedire operi in un margine

più o meno ampio di aleatorietà, indeterminatezza e imprevedibilità. Nelle

pratiche umane l’applicazione di una regola presuppone la regola, ma non è

spiegata soltanto sulla base di tale regola. Nella vita pratica la comprensione

è l’esecuzione di una regola in un processo che è governato dalla regola

ovvero il modo in cui ci si attiene ai vincoli stabiliti da una regola non

possono essere disciplinati dalla regola: infatti, la pertinenza della norma

generale al caso singolo non può essere stabilita in via generale, ma è

inventata in ogni singola occorrenza della regola. Come ha osservato Gilbert

Ryle5, nel pensare, nel parlare, nell’agire, la regola generale è applicata

“unicamente all’attuale irripetibile situazione”. O, per dirla nei termini di

Hans-Georg Gadamer6, in senso generale nessuna regola può governare la

sua esecuzione, perché l’applicazione della regola è guidata in ogni singolo

caso da atti d’interpretazione. Se lo spazio di libertà nell’applicazione della

regola varia in grande misura nei diversi ambiti della vita umana così come

in ogni singolo caso, e talvolta è molto limitata, ogni singolo caso è nuovo e

richiede un trattamento specifico. Non sempre questa libertà è la benvenuta.

In certi casi, anzi, ci si sforza di restringerne lo spazio, allo scopo di ridurre i

margini di errore e arbitrarietà dell’azione: per esempio, allorché si tratta di

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far funzionare un sistema meccanico in maniera automatica e senza

imprevisti, allo scopo di conseguire un’efficienza rigorosa.

In generale, si può affermare con Hannah Arendt che nulla garantisce il

successo nell’esecuzione di un’azione umana. Un’azione, peraltro, non può

essere meramente ‘eseguita’ (nel senso efficientistico della subordinazione

al funzionamento di un sistema automatico di regole di esecuzione).

Piuttosto, sembra si debba dire che l’azione comporta un margine di libertà

nell’invenzione dei modi del proprio svolgimento in una concreta

situazione. Viceversa, come elemento costitutivo dell’azione, la libertà

esiste veramente soltanto nello svolgimento dell’azione7.

Ecco allora il preannunciato esempio musicale. Le istruzioni per

l’esecuzione di un’opera musicale non possono regolare la loro propria

applicazione da parte dei musicisti: per quanto certi compositori abbiano

cercato di ridurre il più possibile la liberta interpretativa (cfr. § 9 e cap. 5.1),

chi esegue una composizione musicale ha a disposizione uno spazio per

l’interpretazione. Ciò è un esempio di come l’esecuzione di una regola

pratica comporti margini di indeterminatezza. Non è tutto però. Infatti,

l’applicazione della regola può essa stessa modificare in vari gradi e per

ragioni diverse la regola; e quando più avanti (cap. 7) mi occuperò della

questione della normatività dell’improvvisazione, argomenterò che

l’applicazione della regola può comportare una sua trasformazione creativa.

Più precisamente sosterrò che questo è esattamente il modo, chiaramente

esemplificato dall’improvvisazione, in cui funziona la normatività del

rapporto tra un’opera e la sua esecuzione così come, più in generale, la

liberta nell’arte e nelle pratiche umane8.

Andiamo pero con ordine. L’improvvisazione non è soltanto l’inevitabile

e a volte indesiderato effetto collaterale dell’esecuzione di un’azione,

dovuto alla necessità di adattare una regola o un progetto a una situazione

specifica. Oltre a questo primo tipo di improvvisazione – inintenzionale e

inevitabile, ancorché limitabile –, è possibile individuare un altro tipo di

improvvisazione: l’improvvisazione intenzionale e deliberata. Essa può a

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sua volta distinguersi in due sottospecie: l’improvvisazione reattiva e

l’improvvisazione elettiva.

La prima, che come si è visto è assai rilevante per l’uso ordinario del

termine, è “una improvvisazione coatta che coincide con la capacita di

rispondere allo svolgimento imprevisto degli eventi”9. In tal caso

s’improvvisa (intenzionalmente) soltanto perché si è costretti a farlo per

risolvere una qualche emergenza, un qualche imprevisto: qualora

l’imprevisto non fosse accaduto, sarebbe stato seguito il progetto

predeterminato, comunque adattato alla specificità della situazione. In un

mondo recalcitrante alla volontà umana, questa capacita di improvvisare è

fondamentale per consentire il successo dell’azione umana nonostante e

attraverso l’imprevisto10

. Anche in ambito musicale si tratta di una risorsa

importante. Si pensi alla situazione discussa in un articolo di Lydia Goehr11

.

Durante l’esecuzione di un brano la corda del violino si rompe; il violinista

è allora costretto a improvvisare, suonando sulle tre corde restanti, per poter

continuare la performance nel modo più efficace possibile.

La seconda forma di improvvisazione intenzionale “è una forma di

improvvisazione estetica intenzionalmente praticata”12

. Si tratta di

quell’improvvisazione ‘programmatica’, fine a se stessa e di tipo estetico,

che s’incontra nella musica, oltre che in altre arti performative (teatro e

danza) e anche in alcune tradizioni letterarie (orali), così come in certe

particolari modalità di produzione figurativa13

. È soprattutto su questo tipo

d’improvvisazione che mi soffermerò nel presente studio, sebbene la

comprensione della rilevanza paradigmatica dell’improvvisazione per

l’ontologia della musica come pratica performativa comporterà riferimenti

anche all’improvvisazione inintenzionale e reattiva.

2. L’improvvisazione artistica (performativa e non)

Riadattando la definizione di Luigi Pareyson secondo cui l’arte è di per

sé “un tal fare che, mentre fa, inventa il modo di fare”14

, è allora possibile

definire in generale l’improvvisazione come un “agire che mentre si svolge

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inventa il proprio modo di procedere”15

, ovvero, secondo l’elaborazione di

Edgar Landgraf16

, come “un’attività imprevista, imprevedibile e non

pianificata che è inventiva, come qualsiasi ‘fare’ creativo che,

volontariamente o involontariamente, si sviluppa senza seguire un piano

predeterminato”. L’improvvisazione artistica, in particolare, è un tipo di

improvvisazione intenzionale ed elettiva: è praticata intenzionalmente per il

piacere estetico che ne deriva, nel senso che è un modo, scelto dall’artista,

di produrre arte. È insomma un processo messo intenzionalmente in moto da

uno o più artisti per generare un evento o un oggetto artistico in cui

creazione ed esecuzione non solo si verificano contemporaneamente, bensì

coincidono ontologicamente.

In misura diversa, l’improvvisazione intenzionale elettiva può essere

rilevante in diverse pratiche artistiche. Tuttavia esistono differenze

importanti tra l’improvvisazione nelle arti performative e l’improvvisazione

come metodo di produzione in arti quali la scultura, la pittura e la

fotografia17

. La differenza ontologica fondamentale è questa. Nelle arti

performative – danza, musica, teatro, performance art – parliamo di

improvvisazione se processo e prodotto coincidono. Sebbene gli artisti

(come vedremo meglio nel § 6) non creino ex nihilo, e possano preparare in

anticipo elementi della performance, il processo di costruzione del prodotto

artistico davanti al pubblico è (in gran parte) il prodotto artistico fruito da

ascoltatori e spettatori. Il risultato della performance è la performance: un

prodotto effimero in un mezzo effimero. Inoltre il processo-prodotto accade

contemporaneamente alla sua percezione da parte dell’ascoltatore:

composizione ed esecuzione coincidono e si verificano mentre si svolge

anche la loro fruizione, che potenzialmente influisce sul processo di

produzione. Mentre opere durevoli (come una statua o un dipinto) possono

essere fruite in molteplici occasioni, perché continuano a esistere anche

dopo la fine del processo di produzione, ogni singola improvvisazione nelle

arti performative può quindi essere osservata e/o ascoltata soltanto una

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volta: a meno che non venga registrata, ma allora non è più (come)

improvvisazione (cfr. cap. 4).

Certamente, nel caso di arti come la pittura o la scultura l’artista può

decidere di distruggere l’opera dopo averla finita. Ciò però non toglie che,

quando l’artista lavora con mezzi e materiali duraturi e intende attribuire al

risultato del suo lavoro la dignità di opera d’arte, egli produce un’opera

almeno potenzialmente durevole: quindi, come osserva Justin London18

, non

è qui appropriato parlare di “opere durevoli in un medium effimero”. Si

tratta invece di “opere durevoli in un medium durevole”, anche se nella

fattispecie la vita dell’opera ha breve durata. Invece, nelle “opere effimere

prodotte in un medium effimero” (cioè le improvvisazioni nelle arti

performative) la coincidenza tra produzione e prodotto è ontologicamente

costitutiva: per questo si distinguono dalle “opere durevoli in un medium

effimero” (cioè, per es., le opere musicali eseguibili ripetutamente la cui

ontologia ho già discusso nel cap. 1). Tale coincidenza è essenziale

condizione di possibilità del darsi stesso del fenomeno. Inoltre, è una

coincidenza rilevante anche esteticamente. In altri termini è una risorsa

artistica: infatti, il modo in cui sono prodotti gesti, movimenti, suoni, azioni,

ecc. è qui parte costitutiva del fenomeno artistico che il pubblico percepisce

e apprezza (cfr. anche cap. 3.1).

Riassumendo, nell’improvvisazione artistica (come in qualsiasi processo

improvvisativo) invenzione ed esecuzione sono intenzionalmente

coincidenti (almeno fino a un certo punto, come specificherò più avanti).

Nell’improvvisazione nelle arti performative, inoltre, coincidono anche

processo e prodotto, sicché il tempo della fruizione da parte del pubblico

coincide con quello dell’invenzione/esecuzione.

3. La creatività come processo

Nell’improvvisazione nelle arti performative, e in particolare

nell’improvvisazione musicale (NB. da ora in poi, se non diversamente

specificato, con ‘improvvisazione’ tornerò a indicare in particolare

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l’improvvisazione musicale) conta la creatività come processo, e non

soltanto il risultato del processo19

. “L’interesse” – nota Vladimir

Jankelevitch – “si sposta dall’opera finita all’operazione, dal risultato

espresso nel participio passato-passivo al processo investigativo e

all’itinerario stesso che conduce a quel risultato”20

. L’esecuzione

improvvisata costituisce come tale un work in progress. La creatività è qui

performativa, e viceversa, la performance è creativa. Si tratta di un processo

che si svolge mentre viene ideato (e viceversa) e al contempo esibito

all’ascoltatore. L’attenzione estetica si rivolge non a oggetti già

precostituiti, già consistenti dal punto di vista ontologico sotto forma di

opere e composizioni, e alle loro particolari e ripetibili istanziazioni (le

diverse esecuzioni interpretative). Piuttosto si fa esperienza della

processualità (singolare, effimera e irreversibile) di un tipo di azione21

o di

serie di azioni, che accadono hic et nunc, grazie a cui l’oggetto

dell’attenzione estetica sorge, si costruisce, si svolge e svanisce (sebbene

possa essere ritenuto nella memoria e/o registrato mediante mezzi

audiovisivi: cfr. cap. 4). Insomma, nelle pratiche improvvisative l’attenzione

è diretta in maniera rilevante, spesso prevalente, verso l’attività attuale

dell’esecuzione, perché il processo è il prodotto22

. Lo mostra bene il fatto

che, mentre una pausa nel processo compositivo non diviene una parte della

composizione, un’interruzione dell’improvvisazione comporta un momento

di silenzio della stessa durata dell’interruzione23

.

In proposito è bene sottolineare che l’attività processuale

dell’improvvisazione dev’essere rigorosamente distinta dall’attività come

proprietà, carattere o qualità estetica di un’opera già precostituita dal punto

di vista ontologico o di una delle sue parti. Allo stesso modo in cui

un’immagine dipinta può essere caratterizzata da un marcato dinamismo,

un’opera musicale composta e codificata da una notazione può possedere un

carattere attivo o drammatico, può essere movimentata, può suggerire l’idea

di un’azione o di una serie di azioni in svolgimento (si pensi allo sviluppo,

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all’intreccio e al contrasto tematico per esempio nelle sinfonie di Beethoven,

Brahms, Čajkovskij o Šostakovič).

Tuttavia, così come una raffigurazione pittorica non è attiva in senso

proprio e attuale, perché è ormai fissata sulla tela (sebbene attivi siano i

processi di ricezione e fruizione messi in moto dall’osservatore, cioè le

modalità percettive e cognitive di apprendimento per cui si può sostenere

che l’osservatore costruisce, o contribuisce a costruire, l’immagine), così

nell’esecuzione di una composizione musicale l’attività musicale

effettivamente reale è la restituzione acustica (interpretativa) di istruzioni

già stabilite e codificate mediante una notazione: il grado di libertà e

inventività è limitato all’interpretazione (ma cfr. § 9); le decisioni che

l’esecutore può prendere sono ridotte al come fare per seguire istruzioni e

regole, non a che cosa fare (sebbene la distinzione tra ‘che cosa’ e ‘come’

possa non essere così netta in pratica come lo è in teoria).

Invece nella musica improvvisata l’oggetto estetico coincide in gran parte

con il processo della produzione dei suoni, con l’attività del suonare e del

cantare. Quindi, in senso proprio, il regime ontologico dell’improvvisazione

non è quello degli oggetti, bensì quello degli eventi. Essa è un’attività,

effimera, transeunte e non re-identificabile che può essere percepita

unicamente nel momento della sua creazione, cioè in fieri24

. Diversamente

da quanto sostiene Philip Auslander25

, dunque, l’improvvisazione non è

soltanto una caratteristica sociale della performance musicale, costruita nella

relazione tra performer e pubblico. Piuttosto, essa possiede qualità

ontologiche specifiche, che sono rilevanti per l’apprezzamento estetico e

che non sono il frutto di discutibili ipotesi metafisiche, come quelle proposte

dai modelli ontologici adottati nell’ambito dell’ideologia della Werktreue

per render conto dell’assioma della presunta ripetibilità dell’opera senza

perdita d’identità.

4. Improvvisazione e composizione

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Nell’improvvisazione ideazione ed esecuzione coincidono. La musica

prodotta non segue unicamente le regole e le istruzioni per l’esecuzione di

un piano prestabilito: il processo di composizione coincide con il processo

di attuazione esecutiva. La produzione di suoni (e di silenzi) è

simultaneamente invenzione ed esecuzione. Inoltre, questa coincidenza tra

invenzione ed esecuzione non è casuale, bensì intenzionale. Si tratta di una

produzione intenzionale di suoni (e di silenzi) “sotto l’impulso del

momento”26

.

Tuttavia il rapporto tra composizione e improvvisazione è più complesso

e interessante di quanto possa sembrare in prima battuta. Tematizzare il

rapporto tra composizione e improvvisazione servirà perciò a capire meglio

di che cosa parliamo quando parliamo di improvvisazione. Improvvisazione

e composizione possono essere messe in relazione sia in senso contrastivo

sia in senso integrativo. Si tratta di due diverse strategie per definire

l’improvvisazione: due strategie tra loro compatibili e reciprocamente

integrantesi27

.

* Alessandro Bertinetto è filosofo e ricercatore di Estetica all’Università di Udine. È

membro dell’Executive Committee della European Society for Aesthetics. Si occupa tra

l’altro di: filosofia classica tedesca, estetica analitica e continentale, filosofia

dell’immagine, dell’arte, della musica e dell’improvvisazione. Tra i suoi libri: La forza

dell’immagine (Mimesis 2010) e Il pensiero dei suoni (Bruno Mondadori 2012).

1 A. Bertinetto, Il pensiero dei suoni, Milano, Bruno Mondadori 2012.

2 Cfr. J.E. Anderson, Constraint-Directed Improvisation for Everyday Activities,

Doctoral Thesis, University of Manitoba 1995. 3 Cit. in G. Peters, The Philosophy of Improvisation, Chicago, The University of

Chicago Press 2009, p. 115. 4 È una celebre tesi di Wittgenstein: cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche (1953),

Torino, Einaudi 2006; cfr. anche R.K. Sawyer, Creating Conversation. Improvisation in

Everyday Discourse, Cresskill, New Jersey, Hampton Press 2003. 5 G. Ryle, Improvisation, “Mind”, New Series, 85 (1976), pp. 69-83: 77

6 Cfr. H.-G. Gadamer, Verità e metodo (1960), Milano, Bompiani 1990, pp. 358-395.

7 H. Arendt, Che cos’è libertà, in Id., Tra passato e futuro, Firenze, Vallecchi 1970, pp.

157-187. 8 Cfr. anche A. Bertinetto, Performing the Unexpected. Improvisaiton and Artistic

Creativity, “Daimon” 57 (2012), pp. 61-79.

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9 D. Sparti, Il potere di sorprendere. Sui presupposti dell’agire generativo nel jazz e nel

surrealismo, in G. Ferreccio - D. Racca (a cura di), L’improvvisazione in musica e

letteratura, Torino, L’Harmattan Italia 2007, pp. 77-91: 88. 10

Cfr. Ph. Alperson, On Musical Improvisation, “Journal of Aesthetics and Art

Criticism” 43 (1984), pp. 17-29: 24; S. Cavell, Music Discomposed, in Id., Must We Mean

What We Say?, New York, Charles Scribner’s Sons 1976, pp. 180-212: 198-199. 11

L. Goehr, Improvising Impromptu, Or, What to Do with a Broken String in The

Oxford Handbook of Critical Improvisation Studies, vol. 1, ed. by G.E. Lewis and B.

Piekut, Oxford, Oxford University Press (forthcoming). 12

D. Sparti, Il potere di sorprendere, p. 89. 13

Come l’action painting di Pollock: cfr. D. Racca, Jackson Pollock: una pittura che

danza, in G. Ferreccio - D. Racca (a cura di), L’improvvisazione in musica e letteratura, pp.

117-127, M. Senaldi, L’improvvisazione nell’arte contemporanea, in F. Cappa - C. Negro

(a cura di), Il senso dell’istante. Improvvisazione e formazione, Milano, Guerini 2006, pp.

105-118, F. Vercelone, Oltre la bellezza, Bologna, Il Mulino 2008, pp. 158-9. 14

L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività (1954), Milano, Bompiani 2010, p. 59;

cfr. A. Bertinetto, Improvvisazione e formatività, “Annuario filosofico” 25 (2009), pp. 145-

174. e A. Bertinetto, Formatività ricorsiva e costruzione della normatività

nell’improvvisazione, in A. Sbordoni (a cura di), Improvvisazione oggi, Lucca, LIM 2014,

pp. 15-28. 15

D. Sparti, Il corpo sonoro, Bologna, il Mulino 2007, p. 123. 16

L. Landgraf, Improvisation as Art, London, Continuum 2011, p. 16. 17

Cfr. A. Bertinetto, Immagine artistica e improvvisazione, “Tropos” 7/1 (2014), pp.

225-255. 18

J. London, Ephemeral Media, Ephemeral Works, and Sonny Boy Williamson’s ‘Litle

Village’, “Journal of Aesthetics and Art Criticism” 71 (2013), pp. 46-47. 19

R.K. Sawyer, Improvisation and the Creative Process: Dewey, Collingwood, and the

Aesthetics of Spontaneity, “Journal of Aesthetics and Art Criticism” 58 (2000), pp. 149-

161: 152. 20

V. Jankélévitch, Dell’improvvisazione (1955), Chieti, Solfanelli 2014, p. 23. 21

Ph. Alperson, On Musical Improvisation, p. 24. 22

L.B. Brown, Musical Works, Improvisation, and the Principle of Continuity, “Journal

of Aesthetics and Art Criticism” 54 (1996), pp. 353-369: 364. 23

A titolo esemplificativo si ascolti l’interruzione da parte di Thelonious Monk nella

versione di The Man I Love registrata da Miles Davis nel 1954: cfr. C. Cannone, Sur

l’ontologie de l’improvisation, in A. Arbo - M. Ruta (éd.), Ontologie Musicale.

Perspectives et débats, Paris, Hermann 2014, pp. 279-320: 283. 24

Cfr. L.B. Brown, Musical Works, Improvisation, and the Principle of Continuity, pp.

356, 360, 365. 25

Cit. in N. Cook, Beyond the Score. Music as Performance, Oxford-New York, Oxford

University Press 2013, p. 297. 26

Cfr. Ph. Alperson, On Musical Improvisation, pp. 17-29; L.B. Brown, Musical Works,

Improvisation, and the Principle of Continuity, pp. 353-369 e Id. “Feeling My Way”. Jazz

Improvisation and Its Vicissitudes - A Plea for Imperfection, “Journal of Aesthetics and Art

Criticism” 58 (2000), pp. 113-123; L.B. Brown, Phonography, Repetition and Spontaneity,

“Philosophy and Literature” 24 (2000), pp. 111-125.; R.K. Sawyer, Improvisation and the

Creative Process: Dewey, Collingwood, and the Aesthetics of Spontaneity, pp. 149-161; S.

Davies, Musical Works and Performances, Oxford, Clarendon Press 2001, pp. 11-19; M.

Santi (ed.), Improvisation. Between technique and Spontaneity, Cambridge, Cambridge

Scholar Publishing 2010. 27

Cfr. R. Kurt, Komposition und Improvisation als Grundbegriffe einer allgemeinen

Handlungstheorie, in R. Kurt - K. Näumann (Hrsg.), Menschliches Handeln als

Improvisation, Bielefeld, Transcript 2008, pp. 17-46: 22-26.