Impronta

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numero spaciale dedicato a Guido Lana

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Al nostro caro professore

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EDITORIALE

Questo editoriale è dedicato ad un professore speciale, storico nel liceo classico “Massimo D'Azeglio” di Torino, Guido Lana. Mi rivolgo a voi appena arrivati nella nostra scuola, voi che non avete avuto l'opportunità di ascoltare la voce di questo grandissimo Uomo, di coglierne il sorriso, di parlarci anche solo per qualche minuto. Voglio raccontarlo a voi, voglio far sì che possiate conoscerlo un poco attraverso queste parole. Quando mi iscrissi alla quarta ginnasio, ricordo con precisione che tutti, compresa la sottoscritta, spe-ravano di avere Lana come professore di lettere: si diceva che le sue lezioni fossero meravigliose, piene di passione e di umanità. Purtroppo non è mai stato un mio docente e non ho mai potuto assistere ad una delle sue leggendarie spiegazioni, tuttavia ebbi l'onore di conoscerlo ugualmente. Quando c'era bisogno di schierarsi dalla parte dell'istruzione pubblica, lui era lì, in prima fila, schierato al fianco dei suoi allievi, spalla a spalla. Le volte in cui qualcuno aveva bisogno di consigli o di aiuto, era sempre disponibile, tanto che nasceva quasi spontaneo un desiderio di confidarsi con lui, anche senza conoscerlo. Camminava con la sua figura allungata per i corridoi angusti della nostra scuola, spesso portando dei libri con sé, rivolgendo a tutti un dolce sorriso, indimenticabile. Nelle assemblee pomeridiane lo si vedeva spesso seduto, con il microfono in mano, pronto a spiegare le nuove riforme, a discutere e a rispondere alle domande di noi studenti. Quando si infervorava, ini-ziava a gesticolare elegantemente, portando le mani in avanti, verso i suoi interlocutori. Ricordo come fosse ieri un episodio che ha a che fare anche con il nostro giornalino scolastico e che, sebbene possa sembrare poco significativo, in questi giorni mi è spesso tornato in mente. Due anni fa, proprio in questo periodo dell'anno, stavo vendendo le copie dell'Impronta, in particolare del così detto “numero 0”, dove ogni anno ci divertiamo a proporre la descrizione dei nostri professori. Tra di questi vi era anche Lana. Era sabato, ormai era suonata la campanella che segnava la fine delle lezioni e nessuno era più interessato a comprare il giornalino, malgrado il prezzo non superasse i cin-quanta centesimi. Delusa, con la cassa praticamente vuota, stavo per consegnare il mediocre risultato del mio sforzo in vicepresidenza, quando proprio il professor Lana si avvicinò a me chiedendomi una copia. Gliene porsi una e lui mi diede due euro, allora gli cercai il resto tra le monete che avevo a dispo-sizione, ma lui insistette affinché tenessi ogni centesimo. Quel giorno andai a casa soddisfatta, non tanto per il fatto di aver guadagnato quei pochi spiccioli in più, ma per la fiducia che quel docente aveva dato a noi redattori dell'Impronta. Lui aveva fiducia nei suoi allievi, rispettava il loro lavoro, la loro fatica. Dava il meglio, perché solo così poteva tirar fuori il meglio dai suoi studenti. Grazie Professore La porteremo nel cuore.

Tutta la redazione

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Ricordo del preside

Ciao Guido, non ti illudere di aver lasciato il “tuo” D’Azeglio. Non ti illudere che, a settembre, non ti cercheremo tra i nostri corridoi, le nostre aule, in sala Insegnanti: perché avremo sicuramente ancora bisogno di te, del tuo sorriso, delle tue parole, della tua comprensione, della tua saggezza, del tuo equilibrio e, soprattutto, della tua mitezza d’animo. Hai provato a giocarci un brutto scherzo… ma noi non ci caschiamo! Il D’Azeglio ha bisogno della tua alta professionalità. Il D’Azeglio ha bisogno della tua presenza: non puoi tradire così le tue ragazze e i tuoi ragazzi. Non sarebbe giusto e non avrebbe senso. Ricordati che dopo le vacanze, che hai tanto atteso con la felicità di un uomo rinato a nuova vita per poter stare accanto ai tuoi cari senza il fardello del passato, …. ti aspettiamo. Non ti illudere, quindi, ma – ti prego – cerca di illudere tutti noi: non puoi venirci a mancare così.

Salvatore

Ti ricordiamo così

Ricordo dei colleghi

Caro Guido, ci stringiamo intorno a Francesca, Michele e Marco in questo momento, increduli di quanto è capitato.

Ti abbiamo salutato ieri, terminato l’anno scolastico, con cento progetti per l’anno venturo. Ti abbiamo visto sereno come sempre e come sempre capace di trasmettere serenità. La serenità di chi crede nella vita, di chi crede in ciò che fa, di chi crede nei valori della cultura e della scuola, nell’ascolto dell’altro e nel dialogo.

Ti ricordiamo così, come un uomo nel quale il dialogo – educativo e relazionale – è diventato senso di vita, come un uomo che ha dato al “mestiere di insegnare” un significato profondo, come un uomo sempre attento, disponibile, interessato a tutto, “curioso” della molteplicità del mondo, con un sorriso che, più di una volta, ha saputo spiazzarci, trasformando un momento di tensione o di difficoltà in un momento positivo, di costruzione di senso. Un uomo che ha sempre creduto in una scuola comunità di vita, formata da studenti, da insegnanti, dal perso-nale tutto e che per tutti ha sempre avuto un’attenzione particolare e personale.

Caro Guido, ci lasci una eredità impegnativa: un’idea di scuola forse lontana dalla società in cui viviamo, una scuola capace di formare le donne e gli uomini di domani sulla base di valori e di ideali e non solo di conoscenze e competenze. Ed è l’idea di scuola in cui crediamo, da sempre. Una scuola fondata sull’ “agape”, che è poi quello che resta.

Il tuo Liceo tutto

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Quando le parole non bastano

All'inizio di questo nuovo anno avremmo inserito nella nostra presentazione degli insegnanti del liceo anche quella del professor Guido Lana . Più o meno sarebbe stata così. Già da tempo è una celebrità del D'Aze, uno dei professori più amati da tutti gli studenti. La priorità di Guido è di instaurare nella classe il miglior clima possibile, per un dialogo aperto e sincero. Ci sarà da studiare, ma grazie al suo aiuto e a quello dell'impareggiabile “bibbietta” del lessico, alla fine lo farete senza astio. I racconti delle avventure dei suoi bimbi e la sua mano sempre pronta a darvi il five renderanno la classe più unita, come una seconda famiglia. (dall'Impronta – n° 0 anno X). A volte le parole non bastano per descrivere le persone, ma questa, in sintesi, è la presentazione migliore che si possa fare del professor Lana, sia come insegnante, sia come uomo. Non è possibi-le separare questi aspetti della sua personalità, perché si completano a vicenda e l'uno influenza l'altro. Ma che professore era Guido Lana? Guido era un docente fuori dal comune. Le sue armi vincenti erano il sorriso, la gentilezza e il suo grande senso di umanità. Con esse cercava di “scavalcare la cattedra” e incontrare veramente i suoi studenti, convinto che la scuola è davvero maestra di vita solo se insegnanti ed alunni colla-borano insieme per fare “qualcosa che sta loro a cuore”. Così era solito esprimermi riguardo a questo: “Grazie a voi ho potuto sperimentare una volta di più quanto sia bello riunirci per lavo-rare a qualcosa che ci sta a cuore […] La cosa che mi sta più a cuore dirvi è che senza di voi, sen-za ciascuno di voi, ragazzi carissimi, que-sto non sarebbe stato possibile: nessuno di noi potrebbe costruire un tempo bello come lo sono stati questi due anni” (dal messaggio di fine anno per le 5° A ed E). Un altro obiettivo di Guido, oltre a quello di passarci delle conoscenze e renderci un gruppo unito, era quello di dare un signi-ficato alla scuola che avremmo frequenta-to per cinque anni e rispondere ad alcuni interrogativi che sorgevano spontanei. Co-sa serve studiare il latino e il greco se tan-to conosciamo già la traduzione di tutti i testi che ci sono pervenuti? Non è forse una perdita di tempo passare tante ore a studiare due lingue morte? Non sarebbe meglio studiare al loro posto due lingue moderne? Anche questo lo faceva in modo originale, non imponeva la sua idea come un dogma, ma, come un compagno di viaggio con un po' più di esperienza, ci proponeva la sua risposta. Per lui il liceo classico era la scuola che si pone l'obiettivo di conoscere meglio l'uomo sotto tutti i suoi aspetti, perché nessuno è completamente estraneo a quello che accade nel mondo. Questo concetto lo riassumeva in una frase di Terenzio che ci propose il primo giorno della quarta ginnasio: “homo sum, humani nihil a me alienum puto” (sono un uomo, nulla di ciò che umano mi è estraneo). Guido era anche un amante del sapere. Per questo favoriva fra di noi il dibattito e il libero con-fronto di idee, ritenendo che incontrare un'altra persona e conoscere le sue idee rappresenti per l'uomo una grande occasione di arricchimento. Infine, ma forse è la cosa più importante, Guido era un maestro di vita! Il suo insegnamento è riassunto dalla bellissima poesia Itaca del poeta greco Kavafis, che riportiamo qui di seguito.

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ITACA

Quando ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga fertile in avventure e in esperienze.

I Lestrigoni e i Ciclopi o la furia di Nettuno non temere,

non sarà questo il genere d'incontri se il pensiero resta alto e il sentimento fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.

In Ciclopi e Lestrigoni, no certo né nell'irato Nettuno incapperai

se non li porti dentro se l'anima non te li mette contro.

Devi augurarti che la strada sia lunga

che i mattini d'estate siano tanti quando nei porti - finalmente e con che gioia -

toccherai terra tu per la prima volta: negli empori fenici indugia e acquista

madreperle coralli ebano e ambre tutta merce fina, anche aromi

penetranti d'ogni sorta, più aromi inebrianti che puoi,

va in molte città egizie impara una quantità di cose dai dotti.

Sempre devi avere in mente Itaca

- raggiungerla sia il pensiero costante. Soprattutto, non affrettare il viaggio;

fa che duri a lungo,per anni, e che da vecchio metta piede sull'isola, tu, ricco

dei tesori accumulati per strada senza aspettarti ricchezze da Itaca.

Itaca ti ha dato il bel viaggio,

senza di lei mai ti saresti messo in viaggio: che cos'altro ti aspetti?

E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso

Già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.

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Caro Guido, la scuola è iniziata senza di te, ma è un’assenza solo fisica: sentiamo che la passione che ci hai tra-smesso, la passione per la “nostra” scuola, ci proietta sereni ad affrontare un nuovo anno, con i suoi impegni, con le sue delusioni, ma sempre con quel sorriso che a te non mancava mai. Vor-remmo rivedere il tuo sguardo forzatamente severo che incontrava il nostro quando sbagliavamo-qualcosa e quel tuo sorriso che ci gratificava per i nostri successi, a cui aspiravamo anche per te, perché tu fossi fiero di noi. Tu stesso ci hai detto che per lontani che fossimo saremmo sempre stati fianco a fianco e a questo noi crediamo, continueremo a credere e cercheremo ancora una volta di renderti orgoglioso di noi, perché, fuori o dentro queste mura, sappiamo che ci sarai. Per darci forza e per starci accanto come hai sempre fatto. Grazie, Guido!

La tua I A

Questa poesia è una perla di saggezza. Con essa Guido voleva insegnarci che nella vita l'importan-te è porsi sempre un obiettivo. Non conta se per raggiungerlo occorre faticare e impiegare molto tempo. Se avremo saputo superare gli ostacoli, se veramente ci stava a cuore, una volta raggiun-tolo ci troveremo più saggi e più grandi, conosceremo meglio noi stessi e il mondo.

Queste le ultime parole che ha scritto alle sue classi: in esse c'è un riferimento proprio a Itaca:

Ecco, è che uno passa molto tempo a cercare qualcosa che valga, che continui a valere anche do-po che è stato, che nel tempo continui a sorprenderci col suo ricordo, senza sbiadire; è che uno crede sulla fiducia di certi maestri che ogni giorno, ogni singola ora, ogni singolo in-contro vanno vissuti e curati come unici, ma il senso di quelle ore, il senso di quegli incontri non è che sia sempre così chiaro; è che uno lo sa di avere la sua Itaca, ma a volte la bussola impazzi-sce, le carte nautiche, bagnate di acqua di mare, diventano poco leggibili, i compagni non colla-borano alla manovra; è che tu parti pieno di entusiasmo, sì, ma le cose si fanno difficili, o sem-plicemente noiose, passa qualcuno e ti dice "Va be', dai, tanto...", e ti viene voglia di sederti lì e non muoverti più. "Tanto..."

Allora ecco quello che poco per volta mi si sta facendo chiaro. Mi sto rendendo conto che questi due anni di scuola che ho potuto fare con voi continuano a ve-nirmi in mente a frammenti, a momenti vividi, senza sbiadire, con il loro cuore vivo; mi accorgo che ogni giorno vissuto con voi, ogni ora, ogni parola scambiata con ciascuno di voi sono stati veri, e io non ne scarterei neanche uno; semmai, se mai potessi, vorrei riviverli adesso, che di voi ho capito più cose; adesso, guardando indietro alla rotta seguita, vedo le tratte in cui, con gli strumenti di bordo ... "in riparazione", ho navigato a vista, seguendo voi: anche senza carte nautiche la navigazione andava liscia come l'olio.

Così ora abbiamo in comproprietà un tesoro, che appartiene a ciascuno di noi: se dovesse capi-tarci il giorno in cui le ore siano troppo senz'anima, in cui le carte siano proprio illeggibili,[...], ecco, quel giorno noi sapremo di avere questo tesoro a cui attingere. Cerchiamoci quel giorno, per lontani che siamo, per quanto tempo sia passato, e in un attimo saremo di nuovo noi, perché la storia che abbiamo scritto in questi due anni è per sempre.

A volte le parole non bastano per descrivere le persone: è il caso di Guido Lana, una persona me-ravigliosa, che non finiva mai di stupirci e che forse non finirà mai di farlo!

Alberto Revelli I E

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Dieci anni fa ho trascorso una notte nel piazzale del San Giovanni Bosco con i miei allievi che salivano pochi alla volta a salutare, con un permesso speciale ad ospedale chiuso, Guido, il loro professore, che si stava spegnendo. Io non avevo voluto salire: mi sembrava che fosse una cosa tra loro e lui. Il rapporto con il proprio professore non può essere condiviso se non con i propri compagni. E poi Guido lo conoscevo da vent’anni prima, dagli anni dell’Università, e di lui volevo conservare un ricordo diverso, non quello in un letto d’ospedale. Guido, miracolosamente secondo molti, allora si è ripreso: sono andato a trovarlo e dopo qualche tempo abbiamo ripreso i nostri rapporti da colleghi, fatti di molte attività condivise, di disponibilità nei confronti delle molteplici cose che si fanno a scuola al di là dell’insegnamento, di corsi di aggiornamento, di passione civile, di ore trascorse assieme a parlare. A parlare poco di noi, un po’ più dei suoi figli e di mio nipote, molto dei nostri allievi. I nostri, i suoi allievi… Tante volte mi è capitato di dovermi assumere un compito molto gravoso, quello di dover essere il professore di liceo di quei ragazzi che avevano avuto lui come inse-gnante al ginnasio. Spesso mi è sembrato di dovermi intromettere quasi da intruso in un rapporto forte e particolare. I ragazzi di Guido sono sempre stati “strani”: la sua scuola li ha formati ad essere grandi anzitempo, inte-ressati in modo forte ai problemi sociali, curiosi e talvolta un po’ polemici. Guido li ha fatti crescere presto dando loro fiducia, coinvolgendoli nella dimensione educativa, facendo sì che lo sentissero sempre al loro fianco anche quando i voti erano bassi. E dei suoi, dei nostri rapporti con i ragazzi, parlavamo: gli chiedevo magari di leggere assieme un tema per darmi un giudizio e suggerirmi qualche strategia per affrontare i problemi e lui lo faceva volentieri, mostrando sempre una conoscenza puntuale dei suoi ex-allievi. Una conoscenza da professore che aveva ben chiare le difficoltà degli studenti, ma anche da amico: e il discorso passava quasi inevitabilmente dagli errori al carattere della persona. Perché ogni allievo, anche quello che aveva palesemente sbagliato indirizzo di studi, era una persona, con cui instaurare un rapporto. La scuola è una comunità strana: si percorre una parte del cammino della propria vita assieme, si condivi-dono tante cose, ci si aiuta a vicenda (anche gli allievi aiutano l’insegnante e in molti modi), e si finisce con diventare amici, chi più chi meno, magari in relazione al carattere più o meno aperto. Con Guido era facile diventare amici: quasi tutti gli allievi che ha avuto come insegnante lo possono testimoniare. L’attenzione all’altro, il farlo sentire importante, il proporsi in modo naturale come punto di riferimento (“O capitano, mio capitano!”), non potevano che sfociare in un rapporto d’amicizia. Per Guido l’essere amico era cosa facile: quando, dopo l’ultimo suo trapianto, ci siamo ritrovati su Facebo-ok, gli ho scritto che ero contento di poter conversare senza disturbarlo. Mi ha risposto che un amico non disturba mai. Se ne è andato in silenzio, lasciandoci con progetti a metà e senza lasciarci il tempo di un ultimo saluto. Una vita piena e ricca si chiude in un momento “alto”. Si potrebbe ricordare quanto nella seconda lettera a Timoteo Paolo dice di sé: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede.” Guido ha combattuto la buona battaglia e ha conservato la fede nell’uomo, nella bontà dell’uomo, che è un’idea cristiana. Un collega e un amico: i due termini sono inscindibili. Guido era ed è un amico e un insegnante. Non rie-sco a pensare a lui se non in questo modo. E come amico e insegnante mi lascia indubbiamente un compi-to oneroso a cui finora ho fatto fronte con difficoltà. Cercherò di impegnarmi di più per evitare che i miei futuri allievi, che non hanno conosciuto Guido, non rischino di essere privi di un insegnante amico.

Giorgio Brandone

Un collega e un amico

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Qualche anno fa ho smesso di venire a scuola in bicicletta e ho cominciato a percorrere a piedi ogni mat-tina il viale di Corso Vinzaglio. E’ strano ma, pedalando, gli alberi mi erano sfuggiti. Amavo quel tratto di strada, è vero, ma ne coglievo una generica bellezza torinese, una atmosfera ombrosa e familiare. Poi invece una mattina mi è capitato di notare che era inverno e non per il freddo o per la poca luce, ma perché avevo finalmente guardato un albero. Era un bagolaro scurissimo, alto, nudo, con la corteccia lustra di umidità. Era fermo e vivo, era l’inverno. Da quel giorno è scattato in me un senso degli alberi colpevol-mente tardivo, sebbene giustificato in parte da una vita trascorsa quasi esclusivamente in città. Ho ricordato un gioco che facevo da bambina con mia sorella, durante i viaggi lunghi in auto, per inganna-re la noia. Una delle due pensava una cosa e l’altra doveva indovinarla, la forma più artigianale e modesta di lettura del pensiero con cui ci intratteniamo. C’erano domande ammesse per indovinare; la prima era sempre uguale e diceva: Animale, Vegetale, o Minerale? Per molti anni mi è rimasta in mente questa gerar-chia dell’esistere: più in alto il regno animale, il nostro, mobile e agguerrito, tenace e voluttuoso, poi il ve-getale, mite e radicato, all’instancabile ricerca di acqua e luce e, infine, il silenzioso e paziente regno mine-rale, il cui cammino si dispiega in tempi per i quali la nostra breve Storia deve avere il senso e l’importanza di una scaramuccia in cortile, tra bambini. Da quando ho incominciato ad accorgermi della nobiltà degli alberi, naturalmente, la gerarchia si è andata rovesciando e mi è cresciuta dentro la speranza di poter assomigliare un giorno veramente a un pruno. Non hanno smesso di piacermi i giochi del pensiero, uno tra i quali, vecchio come quello degli indovinelli, è associare le persone che conosco a qualcos’altro che ne contenga una sorta di algoritmo della personalità. Va da sé che in passato mi capitava di farlo con gli animali, ma ormai sono passata agli alberi. In certi casi la somiglianza è fisica e non richiede sforzi di immaginazione (vi faccio qualche esempio: avete mai visto una persona più inconfondibilmente betulla della prof. Levrero, un uomo più quercia del prof. Nebiolo, una donna più magnolia della prof. Imarisio?). Altre volte invece occorre lavorare un po’ di più per scoprire, che so, il ciliegio che si nasconde nella prof. Fornaro. C’è l’olmo Pasero, il nocciolo Robert, il jacaranda Riva, Gruppi, senza dubbio un nespolo; c’è l’acero Forchino, il glicine Sada, il mandorlo Trabuc-chi, la mimosa Tomba, Pizzo, il larice bianco, il noce Brandone, l’acacia Cerrato, la palma filifera Zanghì, il castagno Perotti, il pioppo Lomater e Ziino, il tiglio. Potete continuare voi, scoprire l’oleandro, il salice, la paulonia, il platano e il ligustro che popolano la scuola. E’ un gioco che appassiona e intenerisce, facilitan-do la simpatia per tutti gli alberi-persona che vi stanno intorno. Certi giorni entro in classe e vedo meli in fiori, bellissimi, come quelli di Normandia che descrive Proust. Succede anche di finire in un roveto e allora bisogna, con pazienza, ricordarsi la dolcezza delle more e non i graffi che ci si procura a raccoglierle. Poi ci sono le giornate di giungla, faticose e soffocanti, quando ogni albero in classe sembra crescere per i fatti suoi e intossicare l’aria di anidride. Ma ci sono giorni di assolata fotosintesi, nei quali si respira a meraviglia. Guido Lana era il nostro pino loricato, un albero di cui voglio raccontarvi qualcosa di più. “Questa specie rara prende il nome di loricato dal caratteristico aspetto “corazzato” a placche della cortec-cia nell’esemplare adulto, che ricorda la lorica, corazza formata da piastre metalliche utilizzata dagli anti-chi soldati romani. L’incontro con questa pianta lascia sbalordito anche l’osservatore più distratto. Il pino loricato si artiglia con le radici sulle rocce delle creste sommitali di montagna, affondando la propria vita nei sassi esposti al vento incessante che li modella in figure di complicata bellezza. Ha scelto la roccia e l’al-ta quota come palcoscenico della propria vita millenaria. E’ un albero forte, straordinario e unico; il suo legno, ricchissimo di resina, lo protegge dai processi di degradazione ben oltre la fine del periodo vegetati-vo. Capace di resistere alle tempeste di neve e di vento che sferzano con violenza i crinali delle montagne, indifferente alla siccità estiva e al torrido sole mediterraneo, il pino loricato è un vero gigante della natura, un albero le cui forme sembrano suggerire un’origine magica, quasi un frutto del volere degli dei.” Sentite anche voi il ritratto del prof. Lana contenuto in questa descrizione? Il faticoso privilegio delle cime che abbiamo avuto in dono di intuire accanto a lui: un albero d’alta quota, davvero.

Susanna Basso

Alberi

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Guido insegnava latino e greco e farsi amare dagli studenti proponendo paradigmi, consecutio temporum o periodi ipotetici non è impresa da poco; ma a lui riusciva con naturalezza. E non perché il suo insegna-mento mancasse di rigore, ma semplicemente perché credeva in quello che faceva. Quando, scoraggiata, gli dicevo che non erano più tempi per le nostre discipline, mi rispondeva che quella che affrontavamo era una sfida, una sfida che dovevamo vincere, contro la superficialità, l’approssimazione, la stupidità di una cultura omologante. A questo rischio dovevamo sottrarre i nostri allievi; e il latino e il greco erano lo stru-mento giusto per farlo. Guido insegnava l’antico convinto della lezione di Augusto Rostagni che niente fosse così utile a compren-derlo come l’esperienza delle cose moderne, lo insegnava senza mai cadere nella pignoleria un po’ gretta che è rischio professionale dei filologi. Voleva che lo studio fosse, per i suoi studenti, la ricerca di un senso: il senso di una poesia, di un periodo storico, ma anche di una versione da IV ginnasio. Perché se a cercare un senso ci si allena a scuola, sulle pagine dei libri, forse, è più facile darlo anche alla propria vita. E, allora, a noi tocca raccogliere la sfida.

Chiara Fornaro

Memorie

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Gli ex studenti non dimenticano

Siamo la III C del 2000 e Guido Lana era il nostro professore. Cucendo e tagliando e ricucendo, questo è ciò che vo-gliamo ricordare. Abbiamo scritto in tanti, ognuno un po', e poi abbiamo organizzato i nostri ricordi. Siamo di nuovo la nostra classe, grazie al nostro Professore. Per festeggiare la fine del ginnasio andammo una sera a mangiare una pizza con Guido. Quella sera ci lesse ad alta voce una lettera, un tema… per una volta era lui a scriverne uno e non noi! Ricordo bene quella lettera “semi-seria”, come la definiva lui… e ricordo che ce la spedì a casa, quell’estate (era il 199-7), da serbare per ricordo. La conservo ancora, ma non ho bisogno di andarla a cercare per ricordare quelle parole… Lui era fatto così: insegnava qualcosa anche quando parlava del più e del meno. Ricordo come finiva quella lettera: “Insomma... chi ce l’ha il coraggio di chiamarmi Guido?” Già, perché da quel momento smetteva di essere il nostro professore e diventava un amico. Purtroppo il mio carattere schivo e riservato mi ha sempre impedito di coltivare con lui un vero rapporto di amici-zia… non sono più andata a mangiare la pizza con lui, dopo quella sera, non ho più chiacchierato molto con lui, dopo la fine del ginnasio, sebbene il suo saluto e il suo sorriso fossero sempre lì, magari dietro la porta d’ingresso del D’A-ze, o magari davanti alla segreteria con lui il suo “pat pat” sulle spalle, che solo chi l’ha conosciuto può capire di cosa parlo. Era importante per me quel “pat pat”, molto importante. Guido è stata la prima persona che ha creduto davvero in me, e non è una frase retorica… è stato davvero uno dei po-chi, forse il primo, che in quel periodo abbia creduto in me, certamente molto prima che cominciassi a crederci io. Te lo faceva capire che ci credeva, ogni giorno, quando in classe ti trattava come un adulto e, proprio per questo, non faceva sconti a nessuno, perché stare lì, in quell’aula era “proprio solo responsabilità nostra”. Questo ricordo di Guido: che ha sempre creduto in ciascuno di noi. Ed è una cosa enorme, ragazzi, davvero enorme. Io personalmente di Lana serbo strette così tante cose che scandiscono il mio quotidiano che non saprei neanche e-numerarle. Ricordo tanti fatti entusiasmanti delle sue lezioni, come il giorno in cui ci chiese di scrivere un tema per il giorno seguente, in cui dovevamo esporre - ed esporci - dichiarando cosa pensavamo del fumo nei luoghi pubblici, o almeno così mi par di ricordare. Aveva un modo deliziosamente delicato ed intelligente di ascoltare e conoscere gli altri raddrizzandone solo l'ortogra-fia. Ricordo gli occhi terrei di paura, i nostri, quando, al momento dell'interrogazione, Lana faceva volteggiare i terri-bili dadi a ventiquattro facce, la più efficace messa in scena a buon mercato dell'implacabile aleatorietà (per l'appun-to) del fato. Allora ci sembrava un rigore ingiustificato, e gli avremmo volentieri concesso di apparirci un po' meno imparziale, per sottrarci a quel patema. Solo col tempo - e lontani da quel rito - si capì che non era uno scrupolo d'im-parzialità il suo, bensì un abile escamotage per indurci a non perder dei pezzi, a non trascurare neanche una lezione, neanche un libro dell'Odissea, forti del fatto di esser stati interrogati la lezione precedente; sapeva, Guido, che quel libro forse non ce lo avrebbe restituito nessuno. Nel dubbio, ci induceva a studiarlo. Niente nella didattica di Lana era solo rigoroso come appariva, tutto era sempre molto più sottile e meditato; nulla era affidato al caso, neanche i dadi. Alcuni suoi insegnamenti, come per tutti noi che siamo stati suoi studenti, li ho fatti miei al punto da renderli le lenti con cui spesso mi affaccio al mondo. Sicuramente quando quest’autunno ci siamo ritrovati, lui nel coordinamento 8 ottobre per la difesa della scuola pub-blica, io come generica aspirante insegnante e fervente sostenitrice dell'istruzione pubblica, ho ritrovato tante tracce di quell'eredità. Tra le sue virtù meno gridate - oltre all'esondante altruismo e alla contagiosa vitalità - ho riconosciuto il valore per il linguaggio e per la precisione. L'importanza categorica di non abbandonarsi mai ad una scelta sciatta, la fatica della ricerca del vocabolo più prossimo, nell'ineludibile approssimazione, la messa al bando di parole come "cosa" ( che tra l'altro ho usato circa dieci righe fa) o "problema". C'erano dietro, e l'ho capito solo col tempo, non inutili accademici-smi, nè estetismi da strapazzo, bensì il valore sacrale di cui investiva la trasmissione, la comunicazione e prima anco-ra il riconoscimento del dialogo con se stessi. In fondo scegliere bene è anche capire meglio cosa si vuole dire, è pen-sare meglio, o almeno un po' più a lungo, nello sforzo di farsi capire senza sconti (in verità era un po' purista, mi cor-resse un "eclatante" in un tema, qualificandolo come francesismo, francamente davvero un po' eccessivo...). Ognuno di noi poi avrà vissuto un Lana diverso, il mio si nasconde dietro ogni virgola che anticipa un "ma", tanto quanto dietro ogni sforzo per scacciare l'indifferenza. In questa città (Parigi), dove al di là di ogni retorica povertà e solitudine si palesano in ogni dove, e la gente incede solo grazie ad atroci paraocchi, c'è oggi più di prima un suo sor-riso largo e accogliente che mi permette di non voltare lo sguardo. Insomma era un Giusto, non nel senso paninaro degli anni '80, per quanto certi cinturoni da texano aprano ad inter-pretazioni meno convenzionali.

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Ripensando a Guido Lana in questi mesi, la mia mente è spesso riandata a un suo rimprovero. Me lo rivolse in quinta ginnasio, quand’era nostro professore di italiano, storia, geografia ed educazione civica. Già, anche educazione civica, a cui Guido teneva moltissimo e che spiegava in modo distaccato, a suo modo “tecnico” e sempre attentissimo ai ri-svolti della tradizione classica, come era sua convinta abitudine. Ricordo che si parlava della semplificante ma vivida dicotomia, cara a Bobbio ed anche a Lana, della “libertà da” e della “libertà per” quali linee di fondo dell’agire politico nella rimozione delle disuguaglianze civili e sociali. Chiara-mente, la dicotomia era (veniva, vorrei dire, ma Guido mi ha subito ripreso sull’ausiliare!) subito politicizzata alla grande da noi studenti, com’è giusto che sia – eravamo ancora in pieno Novecento, del resto… A quel proposito, Guido richiamò i termini di una discussione che si era svolta nell’altra quinta ginnasio di Guido in quegli anni, la C (“di là”, dicevamo talora noi, e anche loro, con rivalità ostentata). Il Professore ci riportò in partico-lare l’intervento che a quella discussione aveva dato adito; intervento che non ricordo con precisione nei contenuti, ma che – mi è facile immaginare – affermava il primato della “libertà per”, la quale avrebbe poi finito per assorbire e ricondurre a sé, forse anche eticamente, la “libertà da”. Guido rievocava i termini di quell’intervento con tono metodico e se non erro, peraltro, anche lievemente critico. Io, che non ho mai appreso l’arte di “tourner la langue dix fois dans sa bouche avant de parler”, l’ho interrotto prima che finisse. Non v’era bisogno – sbottai – di dilungarci oltre a capire: sapevamo chi era l’autore dell’argomentazione – un socialista (credo volessi intendere nel senso del socialismo reale!) – e sapevamo, dunque, dove stava andando a para-re. Tra le righe, avevo insomma detto a Guido di non perder tempo con il “dibattito”, nel senso morettiano del termi-ne. La reazione di Guido fu dura. Non tanto perché il mio intervento fosse volgare (e lo era), ma perché avevo identificato un’opinione con il suo autore, rifiutandomi dunque di esaminarla. Ed avevo, inoltre, identificato l’autore con la sua idea, mettendo così in secondo piano la persona. In Guido, suscitava allarme educativo, dopo quasi due anni di gin-nasio, l’intolleranza di uno studente quindicenne: perché il mio intervento privava la discussione di quel velo minimo di umanità che si interpone tra le persone e le idee che esprimono, e rende, in definitiva, possibile la condivisione delle idee stesse. Il senso e il valore di questo velo di umanità, del resto, è stato il grande insegnamento che Guido mi ha lasciato. Non sarà un caso che l’autore dell’intervento contro cui mi ero scagliato sarebbe divenuto un amico fraterno. Di re-cente, siamo stati l’uno testimone di nozze dell’altro. Non so se Guido abbia saputo. Guido era faticoso. Con il prontuario della punteggiatura, la mania per i libri “sconosciuti” (forse sono l’unica che ha letto “I persuasori occulti”, ma tutti ci siamo beccati “La voce delle onde”, ad esempio), le correzioni ai temi che riempivano una pagina per poi concludere con un bel 6 meno, e quella volta che interrogò una di noi, completamente afona, seduto sul suo banco, “per non creare un precedente”? Con la sua ostinazione nel non lasciare mai cadere nel vuoto un “perché”, nello sfidarci ad esporgli le nostre critiche per poi discuterne, discuterne, discuterne… Per non parlare del fatto che se capiva che avevi un problema non ti lasciava in pace, minimo minimo ti scriveva una lettera. Che meraviglia. Quante volte l’ho ringraziato dentro di me per tutte queste cose, per la quantità di tempo ed energie che ha speso (vorrei dire investito) per noi. Perché passano gli anni, ma spessissimo mentre cerco di destreggiarmi con le virgole, scelgo un libro, lavoro, parlo con le persone che amo, ecco spuntare il richiamo di un ricordo di Guido, di una frase… e le volte in cui li ascolto fun-zionano, cavolo. Il trucco è la mostruosa coerenza tra parola e azione che Guido ha sempre dimostrato e che non ho mai visto in nes-sun altro. Faccio un mestiere in cui le parole sono importantissime: usate, spese, bistrattate, consumate, distorte, sezionate, ogni giorno ne passano milioni.. E sarebbe bello poter fare come Guido, per cui ogni parola era scelta con cura ma spontanea, precisa ma sincera, pen-sata e carica di affetto per noi, per il suo lavoro, per la sua vita… diceva cose importanti ma le faceva anche, viveva come parlava, con purezza, sincerità ed energia. Così a quello che diceva ci credevi, avevi fiducia perché sotto ogni suo discorso vibravano la forza e la gioia di principi concretamente vissuti giorno per giorno… e le parole diventavano azioni capaci di spostarti di peso dal tuo cammino, dalle paure, anche solo da un momento difficile. Capaci di avvicinare un mare di gente unita, credo, non solo da un bel ricordo, ma anche da quel richiamo che, come dicevo, agisce, funziona.

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Quanto spesso pensavamo al Prof. Guido Lana in terza liceo? Non molto. Era passato così poco tempo dal ginnasio, lo si incontrava spesso per i corridoi, e – per usare una sua espressione – era sempre possibile farsi pat-pat sulla spalla. Ciò non significa che non fosse già allora per tutti noi il Professore per eccellenza. Era chi ci aveva letto Kavafis, era chi ci aveva trattato con considerazione, già da adulti, senza però dimenticare mai che non eravamo sullo stesso piano: lui era il professore; noi gli studenti. Era chi ci aveva insegnato che l’autorevolez-za non c’entra con l’autoritarismo, ma anche che la libertà e il rispetto reciproco non significano annullamento dei ruoli. Era chi ci aveva mostrato con l’esempio prima ancora che con le parole l’importanza di fare bene il lavoro, im-pegnandosi fino all’ultimo minuto. Era chi aveva provato a insegnarci che una sola cosa conta davvero ed è l’umanità. Essere umani, sempre. Tutto questo ci era chiaro mentre là al terzo piano studiavamo, leggevamo, andavamo a fumare sulle scale antincen-dio o nei cessi, ridevamo, ci innamoravamo, decidevamo cosa fare il sabato sera, piangevamo, autogestivamo la scuo-la, ci appassionavamo a un libro, compravamo una prevendita per una festa in discoteca, facevamo l’annuario, anda-vamo a una manifestazione, temevamo uscisse greco, ci facevamo interrogare, tagliavamo per studiare per la pro-grammata del giorno dopo, facevamo compiti in classe in continuazione, contestavamo chiunque ovunque ci portas-sero i nostri bravi professori, litigavamo furiosamente, facevamo pace e soprattutto discutevamo discutevamo discu-tevamo. Insomma: eravamo una terza liceo, una terza liceo del D’Azeglio di Torino. In tutto quel casino di emozioni e pensieri e cose da fare sapevamo già cosa il Prof. Lana ci aveva dato. Ma non ci pensavamo spesso. E in fondo era logico così. Cosa accadde? Accadde che in inverno (era gennaio, salvo errori) fu ricoverato per un problema cardiaco grave. Ecco, se ci fu qualcuno che andò e trovarlo in quei mesi furono davvero pochi. Con grande leggerezza non avevamo affatto compreso la gravità. Adesso che di anni ne abbiamo trenta ci ricordiamo ancora quanto allora tutto fosse intenso, una scoperta continua. E distraesse. Ma non sia una scusa: quasi tutti in quei mesi non ci ricordammo a sufficienza del nostro Professore. Chissà come ci sentiremmo ora se non fosse stato lui a ricordarsi di noi. Venne la fine dell’anno scolastico, erano proprio gli ultimi giorni di scuola, e ci scrisse una lettera, che è pubblicata nelle pagine di questo giornale. Non ci chiese nulla. Ma quella lettera significava una cosa orribile: nonostante ci assicurasse il contrario (“non riesco a scrivere ancora” invece che non “non riesco a scrivere più”), quello era un addio e non un arrivederci a presto. E finalmente ci svegliammo dal torpore. Il ricordo di quella notte è nitido, ancora ora dopo dieci anni. Eravamo casualmente quasi tutti riuniti per una delle tante feste che costellano l'ultimo anno del liceo, quelle feste che si fanno per cercare inconsapevolmente di perpetrare all'infinito la fresca spensieratezza di quegli anni e per e-sorcizzare l'ansia della maturità incombente! Insomma quella sera eravamo tutti insieme, forse per caso, forse no… gli ultimi giorni di liceo sono stati per noi un tale turbinio di avvenimenti funesti, che ci aggiravamo per i corridoi attoniti, increduli che un quinquennio così in-tenso potesse risolversi così amaramente. Ricordo che lasciai la festa un po' prima del tempo, un fidanzato geloso mi reclamava e a malincuore me ne andai. Qualche isolato in macchina e arriva la telefonata, secca e tagliente come una lama fredda: Lana sta morendo, noi andiamo tutti lì. Senza pensare girai il volante e mi precipitai all'ospedale, prima di allora non sapevo nemmeno che esistesse il Giovanni Bosco: eccolo lì, un casermone enorme e noi sotto infinitamente piccoli e impotenti. La luce livida delle corsie deserte di una sera d'estate e noi, tutti seduti sul marciapiede ad aspettare… A questo punto i ricordi sfumano un po', non ci facevano salire e ognuno diceva la sua: chi voleva andare e chi preferiva restare, non si sa mai… D'improvviso si sblocca qualcosa, inaspettatamente ci fanno salire tutti, ma solo uno alla volta può affacciarsi al vetro della terapia intensiva: lì ognuno di noi ha avuto il suo sorriso, pensando fosse l'ultimo. Almeno io temevo fosse così. Ricordo Guido e Francesca che mi guardavano sorridenti, sereni, uniti e luminosi come mai li avevo visti. Giusto il tempo di un Ciao, niente di più, ma mentre scrivo rivedo continuamente quel fotogramma. Siamo andati a casa contenti, speranzosi che tutto fosse risolto e così è stato. Finiti gli scritti della matura siamo tornati in quella stanza, la porta questa volta era aperta, finalmente Guido poteva di nuovo parlare e io beh… io sono svenuta lì, accanto a lui, per la gioia e la stanchezza! Che giorni intensi e indimen-ticabili quelli!

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“Se poi nel mondo del lavoro riuscirete almeno qualche volta a mettere l'uomo prima dell’efficienza, della produttivi-tà, del vantaggio economico, allora lo spirito di questa scuola non avrà aleggiato invano nelle vostre aule”. Ho letto e riletto questa frase mille volte nel corso degli anni… forse sarà perché da commercialista risulta spesso davvero difficile da concretizzare, ma la lettera di Guido è sempre stata nel mio portafoglio - ormai sgualcita e tutta ingiallita. Mai come in questi ultimi mesi, mai come quando poi con il mondo del lavoro ti confronti quotidianamente, puoi cogliere la profondità di tali parole. E’ vero, probabilmente solo con il passare degli anni ciascuno di noi ha compreso appieno la fortuna di aver incontra-to una persona così, soprattutto in un periodo tanto fondamentale come l’adolescenza. Un Maestro è per sempre un Maestro, anche se ha grandi occhioni blu da sognatore, e rimane tale anche quando poi a scuola non vai più… anche quando i ricordi sbiadiscono. Guido è stato il trait d’union tra due classi che, dopo le rivalità del ginnasio, si sono fuse in una sola… l’Uomo capace di far discutere e riflettere ragazzini di 15 anni anche sulle banalità quotidiane, il Prof che obbligava periodicamente i suoi allievi a ruotare tra i banchi, in modo tale che ciascuno di noi avesse la possibilità di conoscere un po’ meglio tutti i suoi compagni, apprezzarne i pregi, rispettarne le opinioni, tollerarne i difetti. Il ragazzone quasi quarantenne che con immensa pazienza tentava ogni giorno di spiegare il valore del tempo e l’importanza dell’impegno che si de-dicano ai propri doveri, ma anche ai piaceri della vita e soprattutto alle persone che ci sono care, l’unico insegnante che nel corso di una lunga carriera scolastica abbia visto spiegare il perché di un’insufficienza… chi di noi non ricorda i suoi famosi “Eh sì.. siamo nell’ambito del 5… 5 e mezzo”… ?!? Prima di ogni altra cosa, però, Guido era un Uomo capace di ascoltare chiunque e qualunque argomento con lo stesso interesse e uguale attenzione e, soltanto dopo aver ascoltato, parlava a sua volta. Credo sia questo il Suo insegnamento più grande e il principale motivo dell’enorme affetto che ci legherà per sempre a Lui.

E ci siamo ritrovati 11 anni dopo. Non ci era riuscito il decennale della maturità, nonostan-te a qualcuno fosse venuta in mente l'impresa titanica di organizzare la rimpatriata che dopo settimane di mail, di “su su ragazzi risponde-te...” e di “allora chi c'è?” si è conclusa in un disarmante nulla di fatto. Una prospettiva im-maginabile, che però in qualcuno, in me ad esempio, ha lasciato l'amaro in bocca. Cinque anni iniziati per sorte, vissuti come una vita, ai mille all'ora, con il mondo tutto lì, in quella stanza e poi finiti in un soffio e di colpo. In troppi casi senza nessuna scia. Ci voleva, come spesso accade, un’ esplosione, un trauma. E la morte lo è, anche se fa venire i brividi schiac-ciare sulla tastiera le cinque lettere che non smettono di far paura nemmeno se cresci. An-zi. La sua morte più di tutto. Guido era un pro-

fessore di quelli tosti. Votacci, un sacco di compiti e nemmeno la soddisfazione di prendersi un 4 e chissenefrega. Perché no, bisognava rimediare, tornare sulle cose mille volte per impararle davvero e perché non conta il voto, ma conta sapere, più ancora capire. E questo mi è rimasto dentro. Credo sia rimasto dentro a tutti noi. Non lasciar passa-re niente senza averlo valutato davvero e profondamente. Così è stato anche tra di noi, credo. Con tutti i problemi, le difficoltà, le differenze che per forza vengono a galla crescendo e allontanandosi. Eppure quella sera, davanti a una birra improbabile e con le lacrime ricacciate dentro perché non era nostro il ruolo di chi piange, non per noi che non lo vedevamo da anni, quella sera eravamo di nuovo la terza C, con tutti i momenti e le emozioni che lui ci aveva inse-gnato a mangiare fino alla polpa. Riuscire a farlo tutti i giorni è l'esame più difficile, ma lui ce l'ha insegnato bene. Interrogandoci e ri-interrogandoci finché non fosse proprio sicuro che l'avevamo imparato a dovere.

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L'altro giorno, una mia amica che lavora in un'agenzia pubblicitaria mi dice che sono proprio un bell'esempio di "JCD - jeune cadre dynamique", come dicono in Francia. Eppure oggi constato nuovamente che "jeune" non lo sono mica più tanto ("cadre" non lo sono ancora, e "dynamique" non lo sono mai stato): sono passati già undici anni dalla matu-rità, e ancora di più da quando ero seduto in classe, talvolta attento, talvolta sonnecchiante, ad ascoltare il Professor Lana, che ci parlava di Grecia e di Roma, di Paesi lontani, di poeti greci, di scrittori giapponesi, di Ettore e Odisseo ("Ulisse" è scorretto). Tanti anni... eppure la figura, il volto di Guido mi sono rimasti impressi in modo indelebile: me lo vedo di fronte, du-rante le spiegazioni, durante i nostri dibattiti di classe, non allegro, non triste, con quell'aspetto familiarmente distac-cato, appoggiato, quasi seduto sull'angolo della cattedra, autorevole e coinvolgente; con i suoi jeans scuri e un maglio-ne caldo, norvegese, a disegni geometrici orizzontali: le maniche quasi sempre rimboccate scoprono la fragile ma-grezza dei suoi avambracci, sui quali in due anni di ginnasio abbiamo imparato a riconoscere i percorsi irregolari di arterie e vene, rese così evidenti dalla malattia. E poi quei due occhi azzurri, così ricchi e profondi, interlocutori così umani e veri che ci sostengono e ci spronano sempre, anche quando la voce del Professore deve dire "tra il quattro e il cinque", o quando la sua mano deve stracciare il bigliettino minuziosamente miniato il giorno prima. Non sono mai stato uno studente modello e, se devo pensare ai miei anni peggiori, da studente, credo che gli anni del ginnasio compaiano molto alti in classifica. Tanta pigrizia, e "troppe altre cose da fare", qualcuno diceva... Molti pro-fessori non hanno dimostrato alcun interesse, per loro non ero che un estraneo; alcuni mi hanno sempre asseconda-to, per loro ero ancora un bambino (e forse era vero, almeno in parte); uno di essi mi ha trattato da uomo, con quella serietà che, adolescenti, spesso non riusciamo a non confondere con severità, e con quell'umanità cosciente del fatto che il ginnasio è davvero una palestra. Benché il suo bagaglio fosse già colmo di tesori, benché in Egitto avesse già imparato così tanto dai dotti, sono sicuro che Guido avrebbe voluto continuare ancora a lungo il suo viaggio: Itaca però gli si è concessa così presto... anch'essa ammaliata dalla semplice grandezza di quest'uomo. Noi, ancora un po' "jeunes", almeno nell'animo, noi che abbiamo la fortuna di navigare ancora da una sponda all'al-tra, noi che attribuiamo forse troppo valore alla madreperla, e troppo poco all'ebano, ci auguriamo davvero che la strada sia lunga e avventurosa: come ci disse, tanto tempo fa, un dotto d'Egitto, uno degli incontri che sempre ricor-deremo tra i più belli e fecondi del nostro viaggio: si chiamava Guido.

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Traverso questa terra che senza voi è deserto

so sulla vostra parola

remote oasi ma certe

un sorriso impresso

per sempre segna il cammino

Guido Lana

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In ricordo di Guido Lana è stato aperto ed è disponibile il seguente Conto Corrente:

CREDITO PIEMONTESE VIA XX SETTEMBRE, 3 TORINO

INT.: OGGERO FRANCESCA MARIA / LICEO CLASSICO D'AZEGLIO IT 57 S 05010 01000 000000000101

Ciò che ho sempre ammirato, e anche un po’ invidiato, di Guido era la sua “facilità”. “Facilità” nel-lo stringere rapporti veri con le persone, “facilità” nell’entusiasmarsi per progetti, attività, impe-

gni, “facilità” nel cogliere il punto centrale in una discussione. Metto questo termine tra virgolette perché sia chiaro che non si trattava di qualcosa che derivasse

da superficialità, ma al contrario dalla profondità, dallo spessore umano di Guido.

Eugenio Gruppi

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Ringraziamo tutti coloro che hanno collaborato all’elaborazione di questo numero.