Impresa sociale di comunita'

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L’impresa sociale di comunità: dalla defi nizione all’azione Paola Piazzi, Sergio Remi

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Nel corso degli ultimi anni la struttura dei bisogni sociali si è profondamente modifi cata e sempre più spesso le problematiche tradizionali sono affi ancate da problemi più com-plessi e urgenti, che riguardano in particolare: anziani non autosuffi cienti a domicilio, persone a rischio di povertà, minori con problemi educativi, donne disoccupate spesso con fi gli in giovane età. I modelli di intervento esistenti sono in grado solo in piccola parte di affrontare questi problemi. Anche le imprese sociali, che si sono sviluppate velocemente a partire dagli anni ’80 e risultano oggi piuttosto consolidate, sembrano avere perso parte della loro capacità innovativa e stanno sempre più adottando modelli gestionali e di produzione dei servizi uniformati a quelli degli enti pubblici.Il progetto Equal Restore (Rafforzare l’Economia Sociale Trentina Organizzando Reti) è un progetto fi nanziato dalla Comunità Europea, che intende ricercare una risposta alle nuove esigenze di welfare emergenti dalle realtà locali.L’opportunità individuata è stata quella di creare sul territorio alcune imprese sociali di comunità intese come organizzazioni che operano nei sistemi di protezione sociale producendo beni che incrementano la coesione sociale, attraverso processi dinamici di inclusione e sviluppo locale. Sono contraddistinte da un approccio che riconosce il carattere multidimensionale ed evolutivo dei bisogni e dunque la necessità di rispondervi attraendo e combinando risorse di natura diversa. Per poter progettare queste attività, si è defi nito a livello concettuale e applicato le ca-ratteristiche istituzionali delle imprese sociali di comunità, quindi individuato gli indicatori di performance e dimostrato l’esistenza di un valore aggiunto sociale rispetto ad altri modelli organizzativi e di governance. In un secondo momento si sono individuati i requisiti normativi e giuridici relativi al funzio-namento e alla gestione delle imprese sociali di comunità, con riferimento alla normativa nazionale e comunitaria.

In questa serie di “quaderni” sono pubblicati i report derivanti dalla ricerca effettuata sulle imprese sociali di comunità. Il primo report riporta la sintesi dello studio di buone prassi a livello nazionale nel quale è possibile cogliere le principali caratteristiche delle imprese sociali di comunità a partire dal modo in cui queste imprese utilizzano in termini operativi le dimensioni fondanti della loro identità, ovvero quella comunitaria e quella imprenditoriale.Il secondo report descrive la nozione di governance rimandando, in termini generali, agli assetti proprietari e ai processi decisionali dell’impresa, a chi controlla e al come viene controllata l’impresa, per perseguire quali scopi e in relazione a quali interessi. In questo

Prefazione ai “Quaderni di Restore”

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E 08 ambito, l’elemento che più connota il sistema di governance delle imprese sociali di

comunità è dato dal coinvolgimento di stakekolder diversi (per numero e tipologie) che contribuiscono a defi nire la mission e il percorso di sviluppo dell’impresa stessaIl terzo report affronta il tema della qualità come processo di formalizzazione dei fattori che contribuiscono a identifi care e valorizzare le peculiarità di queste imprese. Si è quindi cercato di evidenziare e far emergere i fattori di identità nei quali si riconoscono le realtà che stanno cercando di costruire imprese sociali di comunità o che stanno emergendo dal dibattito in corso sulle nuove forme di gestione delle imprese socialiIl quarto report è fi nalizzato ad individuare i limiti del welfare locale analizzando gli aspetti organizzativi e gestionali delle imprese sociali e verifi cando le condizioni e le opportunità di implementazione delle imprese sociali di comunità sul territorio Il quinto è fi nalizzato, ad individuare il posizionamento dell’impresa sociale di comunità all’interno del welfare trentino, evidenziandone opportunità e vincoli per la defi nizione di sviluppo per queste realtà imprenditoriali.Il sesto defi nisce, offre metodologie e strumenti per la valutazione della qualità nelle imprese sociali, mentre il settimo quaderno indaga se e quale tipo di bilancio sociale possa supportare la dimensione comunitaria dell’impresa sociale, in particolare miglio-rare la sua capacità di coinvolgimento degli stakeholder e la sua partecipazione a reti di governance territoriale.Questo ottavo e ultimo quaderno racconta le undici sperimentazioni di impresa sociale di comunità sviluppate nell’ambito del progetto Equal Restore e realizzate in provincia di Trento, descrivendo processi e percorsi di queste esperienze pilota.

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INTRODUZIONE La lezione di Restore: elementi di apprendimento .......................................................................................... 11per innovare le politiche di welfare di Flaviano Zandonai

PARTE PRIMA: L’IMPRESA SOCIALE DI COMUNITÀ1. L’impresa sociale di comunità ............................................................................................................................... 172. La comunità locale come risorsa di sviluppo ..................................................................................... 203. L’attualità del modello cooperativo: fare comunità nella modernizzazione ... 254. L’impresa sociale nell’epoca del “capitalismo personale” .................................................. 285. Produrre senso (e responsabilità) ...................................................................................................................... 326. Accompagnare il welfare mix del “sindaco imprenditore” .................................................. 34

PARTE SECONDA: I CASI1. Carzano: la famiglia cooperativa come strumento di coesione sociale ............ 432. Trento Nord: il catering multietnico ................................................................................................................. 473. Giudicarie: fare coalizione per costruire il distretto dell’economia solidale ... 504. Lavis: l’impresa sociale nella fi liera hard della subfornitura manifatturiera ..... 535. Tres: l’autosuffi cienza energetica di una piccola comunità ............................................... 556. Vigolo Vattaro: dalla comunità ospitale alla rete di servizi di ........................................... 59 assistenza e cura7. Prabubolo: l’inserimento lavorativo in agricoltura per la ....................................................... 62 valorizzazione dei beni comuni8. Alta Val Di Non: l’impresa sociale nell’economia dell’intrattenimento ................. 659. Val di Sole: il convento di Terzolas nei circuiti del turismo dell’incontro ............ 6510. Arco di Trento: Bar Salute .......................................................................................................................................... 7211. Pergine: un tentativo (fallito) di progettazione urbanistica partecipata ............... 75

Indice

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La lezione di Restore: elementi di apprendimento per innovare le politiche di welfareFlaviano Zandonai

I gestori di Restore sanno bene che i risultati di questa iniziativa e di altre progettualità simili non coincidono solo con gli indicatori di impatto proposti nei formulari e nei docu-menti di programmazione, ma riguardano piuttosto il raggiungimento di quegli obiettivi che sostanziano l’impostazione strategica del progetto e, più in generale, della sua linea di fi nanziamento. Nel caso di Restore, e dell’intera azione Equal che lo ha co-fi nanziato, l’obiettivo era di creare connessioni stabili e biunivoche tra interventi settoriali (inclusione, pari opportunità, occupabilità, ecc.) e processi di sviluppo socio economico a livello lo-cale. Nella fase conclusiva è dunque necessario non solo chiudere le singole attività, ma soprattutto, come insegnano i teorici del project cycle management, “portare a sistema” l’innovazione. In questo modo si potrà realizzare un duplice obiettivo: in primo luogo garantire la continuità di quanto sperimentato oltre l’orizzonte progettuale; in secondo luogo contribuire al rinnovamento delle politiche ordinarie di sviluppo, arricchendole con gli apprendimenti realizzati “in corso d’opera”.

Quale è stato il contributo di Restore da questo punto di vista?In termini generali si può sostenere che il progetto ha ulteriormente confermato come in Trentino (e in altri contesti) la creazione d’impresa nell’ambito dei sistemi di welfare rappresenti, come indicava l’ormai famoso libro bianco “Delors”1, un “bacino” tutt’altro che esaurito per migliorare aspetti sostanziali della qualità della vita quali inclusione, benessere, occupazione, ecc. Si tratta quindi di andare oltre un approccio meramente sperimentale, riconoscendo che le iniziative d’impresa per la protezione e la coesione sociale rappresentano un vero e proprio “asset” territoriale, disponibile soprattutto in ambito locale. Negli ultimi anni, grazie anche a risorse dedicate come quelle dei fondi strutturali europei, si sono potute avviare e consolidare numerose iniziative imprendito-riali che hanno saputo far emergere bisogni insoddisfatti, non limitandosi però ad attività, pur lodevoli, di advocacy, ma impegnandosi contestualmente nella produzione di beni e servizi in grado di rispondere a tali esigenze. Si tratta in particolare di cooperative sociali che producono servizi socio-assistenziali ed educativi e che organizzano percorsi di inserimento lavorativo per fasce deboli della popolazione, ma anche di altre soggettività

Introduzione

1 Delors J. (1994), Crescita, Competitività, occupazione, Commissione dell’Unione Europea: Libro Bianco sullo sviluppo. Unione Europea, Bruxelles.

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E 08 nonprofi t – associazioni, fondazioni, ecc. – oltre che di forme imprenditoriali a governan-

ce “ibrida” che hanno consolidato reti composte da più soggetti pubblici e privati.Restore ha contributo in modo decisivo a precisare i tratti di un inedito modello impren-ditoriale – l’impresa sociale di comunità – che risulta particolarmente adatto ad opera-re con effi cacia nelle dinamiche, spesso non agevoli da “leggere” e da governare, dei sistemi di welfare contemporanei. Di questa forma d’impresa, il progetto ha analizzato i contorni teorici2, i sistemi di governance3 e i rapporti con suoi principali interlocutori pubblici4. Inoltre ne ha valutato il profi lo di qualità5 e defi nito il sistema di rendicontazione sociale6 oltre a studiarne le condizioni di fattibilità nel sistema di welfare Trentino7. Que-sta poderosa azione di sviluppo è stata sostenuta non solo attraverso la produzione di conoscenza di tipo tecnico-gestionale8, ma anche attraverso alcune sperimentazioni sul campo, i cui “cantieri” sono descritti in questa pubblicazione.

Da questo crogiolo di rifl essioni teoriche, analisi empiriche e azioni di sviluppo l’impresa sociale di comunità emerge nella forma di coalizione composta da attori diversi, radicati in ambito locale ma strutturalmente connessi a contesti più ampi, che si costituisce in-torno ad attività specifi che di produzione attraverso le quali risponde a fi nalità protezione sociale riconosciute come di “interesse generale”. Questa soluzione gestionale sembra possedere alcuni attributi fi nalistici e strutturali che la rendono concorrenziale rispetto ad altre modalità oggi adottate per coordinare la produzione di beni di welfare. L’impresa sociale di comunità, infatti, non è certamente riconducibile alle forme di neo-municipali-smo che vedono alcuni enti pubblici, soprattutto locali, (ri) appropriarsi del governo ma anche della produzione del welfare (magari attraverso agenzie e società controllate). Ma d’altro canto la stessa forma d’impresa non può essere interpretata come mero esito di politiche di outsourcing (ancora da parte di soggetti pubblici ma non solo) che frammentano il welfare in prestazioni di servizio sempre più ineffi caci rispetto al carattere complesso – perché dinamico e multidimensionale – dei bisogni emergenti. Va notato, peraltro, che proprio su questo ultimo fronte una parte non residuale delle forme orga-nizzative e giuridiche più coerenti con questo modello d’impresa – cooperative sociali

2 Demozzi M, Zandonai F. (a cura di) (2007), L’impresa sociale di comunità. Defi nizione, processi di sviluppo e struttura organizzativa, Quaderni di Restore 01, Trento.3 Fazzi L. (2007), Governance, partecipazione e impresa sociale, Quaderni di Restore 02, Trento.4 Bombardelli M., Mendola R. (a cura di) (2008), L’impresa sociale di comunità nel quadro normativo vigente: opportunità e vincoli, Quaderni di Restore 05, Trento.5 Bertin G., Sonda G., Margheri C. (a cura di) (2007), I fattori di qualità dell’impresa sociale di comunità, Quaderni di Restore 03, Trento; Bertin G., Sonda G., Palutan C. (a cura di) (2008), Defi nire e valutare la qualità nelle imprese sociali Percorso metodologico e strumenti di analisi, Quaderni di Restore 06, Trento.6 De Vogli S. (a cura di) (2008), Il bilancio sociale: strumento dell’impresa sociale di comunità, Quaderni di Restore 07, Trento.7 Boccagni P., Zandonai F. (a cura di) (2007), I limiti del welfare trentino. Le culture regolative dei servizi, il ruolo delle imprese sociali, i bisogni emergenti, Quaderni di Restore 04, Trento.8 Demozzi M., Zandonai F. (a cura di) (2008), Impresa sociale di comunità. Strumenti per la creazione e la gestione, Edizioni 31, Trento.

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08e altre organizzazioni di terzo settore – hanno subito una “deriva” che le ha portate ad adottare in maniera acritica strategie e comportamenti riconducibili più agli attributi delle istituzioni di stato e mercato piuttosto che a quegli elementi di peculiarità di cui si trova riscontro nel dettato normativo di riferimento9 e soprattutto nelle loro culture originarie.

Il recupero della dimensione comunitaria delle imprese che già si defi niscono e sono normate come “sociali” rappresenta quindi una questione dirimente per giungere ad una legittimazione sostanziale e non meramente formale di questa nuova forma di regola-zione della vita economica e sociale. I principali elementi di “valore aggiunto” derivanti dall’avvio di nuove imprese sociali di comunità o dalla ristrutturazione di imprese sociali in senso comunitario sono i seguenti.In primo luogo è possibile integrare a livello locale soggetti che svolgono ruoli diversi – anche non specialistici – nell’ambito della protezione sociale, superando così la già citata tendenza alla frammentazione per ricomporre attività e servizi in forma di beni relazionali che rispondono ad esigenze “complessive” della vita delle persone e delle comunità locali (si pensi, a solo titolo di esempio, a temi “caldi” come salute, sicurezza, formazione). La produzione di beni di welfare nell’ottica dell’impresa sociale di comunità non prevede quindi di accentrare in un singolo soggetto la produzione, ma piuttosto di valorizzare le vocazioni e le competenze specifi che di ognuno (anche quelle nascoste o di cui si è scarsamente consapevoli), inserendole in una rete che assume la conforma-zione di una “fi liera” basata su attributi di localizzazione territoriale, di specializzazione d’ambito e di integrazione funzionale.In secondo luogo le imprese comunitarie sono in grado di attrarre risorse di diversa natu-ra (da transazioni di mercato, da redistribuzione, da donazioni, economiche e non, ecc.) che altri soggetti (sia pubblici che privati) non considerano tali o, nel migliore dei casi, considerano come residuali. Si tratta quindi di un notevole elemento di valore, soprattut-to in una congiuntura come quella attuale dove si assiste ad un ridimensionamento del sostegno pubblico al welfare. Per un’impresa sociale si tratta quindi di mettere in atto percorsi di attivazione, “ibridazione” e redistribuzione di risorse facendo leva su di un ampia platea di stakeholder comunitari e non, adottando a tal fi ne necessarie procedure di rendicontazione rispetto alle fi nalità e ai risultati ottenuti.In terzo luogo si può operare per una maggiore interazione tra attività di programmazio-ne e di implementazione delle politiche legate al welfare e più in generale allo sviluppo locale nel suo complesso, favorendo così un allargamento della governance territoriale anche a quei soggetti, come le imprese sociali, che pur essendo di natura privata per-seguono chiare “fi nalità pubbliche”. In molti contesti si sono avviati in questi ultimi anni percorsi di policy making, la cui effi cacia è comunque direttamente legata alla capacità di creare uno scambio biunivoco con le prassi di servizio.

9 A livello nazionale il principale riferimento è la legge sull’impresa sociale (n. 118/05 e successivi decreti). Per quanto riguarda invece il contesto trentino importanti elementi di riconoscimento si possono trovare nella nuova legge di riforma del welfare (l.r. n. 13/07).

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E 08 In quarto luogo si può garantire una maggiore condivisione delle informazioni e del-

le conoscenze, agendo soprattutto sui legami di natura fi duciaria già esistenti o da stimolare tra singole persone e organizzazioni, in modo da superare (o quantomeno ridurre) le consistenti “asimmetrie informative” che determinano in buona parte la qua-lità delle relazioni tra gli attori del welfare (produttori, fruitori, fi nanziatori).Infi ne, consentire un più facile accesso all’esercizio dell’attività d’impresa anche a soggetti che non detengono signifi cative quote di capitale economico, ma che sono comunque disponibili a “mettere in gioco” altre risorse, ad esempio in termini di moti-vazioni di natura estrinseca – legate alla qualità delle relazioni interne e all’equità come principio di regolazione del governo organizzativo – che in imprese con una esplicita fi nalità sociale possono trovare un’adeguata soddisfazione.

L’aver non solo defi nito ma soprattutto sperimentato l’impresa sociale di comunità ha consentito al progetto Restore di individuare con una certa precisione alcuni elementi di attenzione o snodi critici che caratterizzano i percorsi di sviluppo di queste iniziative. Essi fanno riferimento ai principali elementi costitutivi di questa particolare forma d’im-presa ovvero mission, sistema di governance, processi produttivi, capitale umano.> Rispetto alla mission risulta di cruciale importanza il carattere dinamico e co-costruito

degli obiettivi di “interesse generale” dell’impresa. Nessuno degli stakeholder coinvol-ti, per quanto rilevante, è in grado di avocare a sé in via esclusiva la determinazione di ciò che si defi nisce come interesse generale in una comunità, perché signifi cherebbe adottare modalità semplifi cate di lettura dei bisogni ma anche di individuazione delle risposte più adeguate.

> Rispetto alla governance pare necessario garantire non solo basse barriere per l’ac-cesso agli organismi decisionali, ma contemporaneamente prevedere precise assun-zioni di responsabilità da parte dei portatori di interesse coinvolti, pena il rischio di disgregazione della coalizione comunitaria a causa dell’assenza o della scarsa entità dei “costi di uscita”. Inoltre occorre bilanciare la presenza degli stakeholder istituzio-nali (enti pubblici, imprese, ecc.) e delle espressioni meno formalizzate del tessuto comunitario, in quanto la preponderanza degli uni a scapito degli altri può generare squilibrio nelle azioni di sviluppo promosse da queste imprese: da un lato potrebbero emergere diffi coltà nel sostenere iniziative imprenditoriali con carattere di continuità ed effi cacia; dall’altro un’eccessiva formalizzazione dei network tra soggetti locali e non, rischia di involvere in senso autoreferenziale.

> Rispetto alla produzione emerge la rilevanza di attività di natura “pre-imprenditoriale” che non prevedono cioè la presenza di processi produttivi già pienamente strutturati, ma piuttosto lo svolgimento di attività di empowerment del tessuto comunitario in modo da creare le condizioni per l’avvio di un’iniziativa d’impresa in grado di fun-zionare a fronte di bisogni non sempre strutturati in domanda di servizi e a risorse differenziate e non immediatamente fruibili.

> Rispetto al capitale umano è possibile sottolineare l’esigenza di rafforzare le compe-tenze di costruzione e gestione di reti (networking) a tutti i livelli dell’organizzazione,

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08evitando che il “portafoglio” di relazioni dell’intera organizzazione coincida con quello in possesso di un numero limitato di dirigenti.

Oltre al suo oggetto di intervento, un ulteriore importante elemento di apprendimento di Restore riguarda la sua forma di gestione. La “partnership di sviluppo” costituita da rilevanti attori locali (enti pubblici, imprese sociali e soggetti della conoscenza) ha rap-presentato una modalità gestionale inedita, strettamente legata al successo del pro-getto. La presenza di un organismo in forma reticolare radicato localmente e integrato “verticalmente” a livello meso (grazie alla rete di sostegno provinciale e alle iniziative di mainstreaming in ambito inter-regionale) e macro (grazie al progetto transnazionale) ha garantito, infatti, una maggiore coesione interna delle “fi liere” settoriali (le sperimentazio-ni territoriali), ma anche più opportunità di interagire con i processi di sviluppo locale. È quindi necessario individuare anche per il sistema gestionale e di governo alcune condi-zioni per la permanenza e la continuità nel tempo.La questione è cruciale perché pone al centro della discussione l’impostazione dei fondi strutturali. Ma esistono anche altre motivazioni, più concrete. Ad esempio, i progetti europei del prossimo periodo di programmazione confermeranno a livello di gestione l’impostazione di Equal, ed inoltre altre linee di fi nanziamento (sia pubbliche che private, come le fondazioni bancarie) intendono proporre, e in qualche caso rafforzare, il carat-tere reticolare della gestione (si pensi agli “organismi intermediari” per le sovvenzioni globali che distribuiscono “piccoli sussidi per l’inserimento lavorativo”).Ecco quindi qualche indicazione, tutta da verifi care, utile soprattutto ad alimentare il dibattito.> In primo luogo, la fase di progettazione dovrebbe essere oggetto di attenta valu-tazione non solo per quanto riguarda il contenuto delle singole attività, ma anche guar-dando all’impostazione e al funzionamento dell’organismo di gestione. Si potrebbero, ad esempio, premiare attività di networking che insistono per tutto l’arco di esecuzione del progetto, come elemento sostanziale della missione della partnership di sviluppo.> In secondo luogo dovrebbe esserci maggiore attenzione rispetto alle modalità adot-tate per dare sostegno alle sperimentazioni, valutando positivamente tutte quelle iniziati-ve volte ad “accreditare” il progetto all’interno dei sistemi istituzionali dove si defi niscono e si implementano le politiche locali, anche per recuperare nuove risorse aggiuntive rispetto al fi nanziamento comunitario.> Infi ne, bisognerebbe stimolare forme di governance che, da un lato, confermino il carattere multi-stakeholder delle partnership, ma, d’altro canto, contribuiscano a raffor-zare i legami di interdipendenza attraverso una più chiara formalizzazione di ruoli e di responsabilità non solo rispetto alla specifi ca quota di budget o fase di pertinenza, ma soprattutto rispetto alle fi nalità del progetto. È necessario, in altri termini, passare ad una modalità di gestione basata sull’attribuzione di responsabilità di processo e non solo rispetto all’esecuzione di uno specifi co compito.In defi nitiva, la ricerca di una maggiore coesione delle partnership rispetto agli obiettivi dei progetti può contribuire non solo alla replicabilità di progetti come Restore, ma più

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E 08 in generale al rafforzamento di un paradigma di sviluppo incentrato sulla dimensione

locale. Si tratta, va ribadito, di un contesto dove forme organizzative come l’impresa sociale di comunità potranno trovare, anche in futuro, il loro ambito privilegiato di azione, ricercando così in forma autonoma nuove opportunità di crescita e di affermazione.

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Desideriamo ringraziare Michele Odorizzi, vicepresidente della Federazione Trentina della Cooperazione e coordinatore del progetto Restore, Pietro Scarpa consigliere delegato allo sviluppo del consorzio Con.Solida e referente generale delle sperimentazioni.Li ringraziamo innanzitutto per quanto hanno creduto nell’idea dell’impresa sociale di comunità e per il loro impegno affi nché non rimanesse solo un’idea.Li ringraziamo poi per averci coinvolti nel percorso di conoscenza e valutazione delle imprese sociali di comunità nate nell’ambito di Restore, percorso che è poi diventato questo quaderno. Infi ne ringraziamo i referenti delle singole sperimentazioni che si sono resi disponibili a raccontare e a raccontarsi.

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081. L’impresa sociale di comunità

Questo testo racconta undici sperimentazioni di impresa sociale di comunità realizzate in provincia di Trento. Undici casi che descrivono i processi di trasformazione di diversi territori trentini dentro la modernità, dando voce, forma e sostanza ad una rinnovata voglia di mutualismo.Queste esperienze sono state sviluppate nell’ambito del Progetto Equal Restore, un pro-getto europeo gestito dalla Federazione Trentina della Cooperazione in collaborazione con l’Università di Trento (ISSAN), il Consorzio dei Comuni Trentini e l’Istituto Regionale di Ricerche Scienze Sociali Trentino. Restore è una sigla ottenuta unendo le iniziali della frase: Rafforzare l’Economia Sociale Trentina Organizzando Reti.Il Progetto nasce per promuovere nuovi modelli di impresa sociale che siano espressio-ne delle comunità locali del territorio trentino, con particolare attenzione per le periferie, le aree di recente urbanizzazione e i piccoli comuni. Nucleo centrale dell’intero percorso è la realizzazione di alcune esperienze pilota di imprese sociali di comunità, che offrano nuove opportunità di occupazione e si vadano ad innestare nell’ambito di comunità locali che si auto-organizzano imprenditorialmente per dare risposte a propri specifi ci bisogni. Espressione del territorio, le imprese sociali di comunità sono organizzazioni private o pubblico-private senza scopo di lucro che producono in modo professionale e continua-tivo beni e servizi fi nalizzati al miglioramento della qualità della vita delle persone e delle comunità locali. L’obiettivo di perseguire l’interesse generale delle comunità richiede un’organizzazione capace di valorizzare risorse locali – sociali economiche e territoriali – di diversa natura. Per questa ragione prevedono sistemi di governo e gestione basati sulla presenza di soggetti diversi: utenti, lavoratori, volontari, associazioni, imprese profi t, enti pubblici e privati. Ognuno di essi è chiamato, secondo le proprie possibilità, a dare un apporto secondo principi di partecipazione e mutualismo.Il mutualismo è tema certamente storico e quindi ormai di lunga data, ma che oggi richiede di essere rivisitato alla luce delle tante trasformazioni sociali di cui più o meno quotidianamente siamo testimoni. In questo scenario si vanno delineando diverse forme di auto-organizzazione dal basso, storiche e innovative, che rispondono ai bisogni com-plessi di una società in transizione come quella attuale. È, infatti, questa la specifi cità dell’impresa sociale di comunità: non solo un’impresa orientata al sociale, erogatrice di servizi alla collettività, ma un modello di infrastrutturazione sociale adeguato ai tempi. Tramontate o in via di dismissione le tutele della contrattazione e del welfare fordista, oggi la vita sociale non trova sponde su cui appoggiarsi per assorbire il rischio diffuso, che ciascuno avverte come proprio e personale. Riemerge con forza una domanda di auto-organizzazione, di condivisione che può e deve trovare risposta nella crescita di forme auto-organizzate di mutualismo, tutela, rappresentanza dei bisogni sociali.Le politiche tradizionali di welfare hanno sempre assunto le politiche sociali come com-pensazione o rimedio ai “guasti” provocati dal mercato. In questo modo “sociale” e “mercato” rappresentavano i poli alternativi di un discorso pubblico entro cui ricercare

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E 08 solo una sorta di equilibrio tra dinamiche fra loro antagoniste. Da un lato, il mercato che

avvantaggia pochi soggetti, destruttura il sistema di relazioni sociali, dissolve apparte-nenze e identità, dall’altro, le politiche sociali che intervengono a ricomporre i cocci con servizi di protezione, assistenza, recupero; in ogni caso, “dopo” che il tessuto sociale si è frantumato. Il privato sociale è stato parte integrante di questo discorso pubblico. Ma, se da un lato è riscontrabile un inglobamento dell’impresa sociale nel più ampio sistema pubblico di erogazione di servizi socio-assistenziali – di cui l’impresa sociale spesso è un terminale sul territorio – dall’altro lato, la recente e consistente crescita del settore no profi t evi-denzia l’affermarsi di tendenze che hanno a che fare con una più ampia concezione di welfare, che incrocia le tematiche dello sviluppo economico e della coesione sociale in una prospettiva di sviluppo locale.È una tendenza lenta e progressiva di cui poco si parla. Mentre si sfarinano i distretti produttivi, crescono sul territorio i microdistretti del sociale. Dal ‘96 al 2003 le piccole società cooperative sono cresciute del 12%. Sono 6.150 in tutta Italia queste strutture che fanno welfare locale, di comunità. Si aggregano in reti come quella del Consorzio Gino Mattarella (CGM) che, con 1200 tra cooperative e consorzi, rappresenta la più importante rete italiana di cooperazione sociale. Vi lavorano 35mila addetti più 5mila volontari, con un’età media di 29 anni e un reddito di 800 euro al mese. Per numero, sono più degli operai Fiat in Italia. Per stipendio, prendono meno di un metalmeccanico. Si occupano di quel ciclo antico che chiamiamo welfare, fatto di infanzia, lavoro, famiglie, previdenza e vecchiaia. Gestiscono asili comunali e aziendali, cooperative per l’inseri-mento lavorativo di personale svantaggiato e comunità per il disagio psichico. Senza le cooperative sociali il nostro welfare sarebbe oggi ben poca cosa. È come se, nell’iper-moderna società globale, si fosse scongelata una memoria antica, fatta di luoghi e azioni di comunità, che aveva avuto il suo momento forte agli albori del’900. Stiamo oggi assistendo ad un processo di espansione di quel campo di attività che non appartiene né allo stato né al mercato, e che ha come fi nalità ultima quella di produrre coesione ed inclusione sociale, senza trascurare aspetti come la competitività del siste-ma, la razionalizzazione delle risorse e la messa a valore di ogni singolo aspetto della vita produttiva e riproduttiva. In molti casi, sono state le stesse cooperative sociali a “creare” il loro mercato, e cioè, a mobilitare una domanda di prestazioni, attraverso la “differenziazione funzionale” del servizio pubblico. Questo è avvenuto attraverso percorsi e sperimentazioni molteplici. La cooperativa di tipo B, ad esempio, anticipa cronologicamente la nascita dei servizi per l’impiego dei disabili dell’amministrazione nell’operatività locale del modello del welfare to work; è una forma di organizzazione del bisogno d’integrazione sociale attraverso il lavoro preesistente alle politiche di esternalizzazione di servizi degli Enti Locali, in seguito divenuti il principale “mercato” di queste imprese. Analogamente, taluni servizi di edu-cativa territoriale e di assistenza domiciliare per gli anziani non esistevano alcuni anni prima, così come non esistevano le residenze per utenti dei servizi di salute mentale prima della chiusura degli ospedali psichiatrici, né le comunità di recupero per tossico-

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08dipendenti prima del boom dell’eroina negli anni ’70. In altri casi ancora, l’azione delle imprese sociali ha stimolato una risposta istituzionale all’esigenza, espressa da ampi settori della collettività, di maggiore libertà nella scelta dei servizi, o di diversifi cazione e qualità delle prestazioni. Questi esempi sono richiamati per evidenziare come la crescita del terzo settore non sia da ricercare prevalentemente nel contenimento della spesa pubblica, o nell’esternalizza-zione dell’amministrazione pubblica, quanto nella capacità di organizzare una domanda presente in modo diffuso nella società, cui in precedenza si offrivano risposte in termini di welfare di prossimità, fatto di economia domestica o di reciprocità gratuita, per sod-disfarla mediante soluzioni strutturate sotto il profi lo imprenditoriale e professionale. Il processo, in altri termini, si è connotato come mediazione dell’innovazione sociale e suo trasferimento in ingegneria istituzionale, o, se si vogliono utilizzare altre categorie, come imprenditorialità volta a colmare un “buco strutturale” dell’economia, in questo caso pubblica. I dati sulla crescita del settore no profi t evidenziano come le politiche sociali possono, a buon diritto essere oggi assunte, al pari del mercato, come produttrici di ricchezza e di occupazione. Senza naturalmente assimilare i problemi sociali a quelli di mercato e senza negare le specifi cità proprie delle politiche socio-assistenziali, occorre perseguire con forza una “nuova via”. Quella che coniuga protezione sociale e solidarietà sociale da un lato, con produzione di reddito e di nuove opportunità economiche dall’altro. Ma, di nuovo, non nel senso di limitarsi a sommare le due cose, promovendo un po’ l’una e un po’ l’altra. Ma nel senso di vedere le potenzialità di mercato, e quindi di lavoro, delle poli-tiche sociali. Data, infatti, una base di interventi per loro natura “fuori mercato” e destinati a rimanere tali in quanto rivolti a soggetti in ogni caso esclusi dal mercato, una politica autenticamente riformatrice non può fare a meno di cimentarsi con le sfi de del mercato a partire dal modo stesso di intendere gli interventi in campo sociale. Non si tratta tanto di privatizzare, portando sul mercato gli attuali circuiti di previdenza, assistenza e di cura; quanto di dare un maggior potere di selezione e di spesa ai diretti interessati, favorendo le forme di mutualismo e di condivisione che possono nascere “dal basso”. L’obiettivo fondamentale è quello di sostenere più alti livelli di socialità avviando azioni di economia solidale (di welfare mix) che sappiano riconciliare i valori dell’imprenditoria-lità e della solidarietà. In altri termini, un “progetto per il sociale” non solo fi nalizzato a raccogliere le “vittime della competitività”, ma orientato a ridurre le barriere tra risorse (fi nanziarie, umane, organizzative) per una progettualità sociale capace di valorizzare il ruolo e l’impegno del terzo settore, che, unendo solidarietà e imprenditorialità, genera occasioni di lavoro e fl essibilità.La qualità dei servizi di previdenza, assistenza e di cura può crescere, a costi contenuti, se si mettono in campo capitali personali e reti relazionali capaci di rispondere a bisogni complessi, con una sensibilità e una dedizione che spesso devono eccedere la pura convenienza economica. Sfruttando il meccanismo della socialità e della comunità, le cooperative sociali rappre-

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E 08 sentano i luoghi in cui la gente ritrova il gusto di auto-organizzarsi per trovare, in termini

autoimprenditoriali, una risposta ai propri bisogni. L’impresa sociale di comunità punta, infatti, a rendere imprenditoriale il sociale, tradizionalmente considerato improduttivo, a trasformare in ricchezza risorse e culture inutilizzate o spesso trattate come costi. La ricchezza presente nel sociale, e generalmente considerata improduttiva, è compo-sta di quattro risorse essenziali: > risorse umane inutilizzate, ossia quella rilevante quota di cittadini costituita da di-

soccupati, immigrati, malati, carcerati, alcolisti e tossicodipendenti, uffi cialmente non esclusa dal lavoro, ma nei fatti tagliata fuori ciclo della produzione;

> culture d’impresa, competenze e conoscenze escluse dalla produzione. Ci riferiamo a quelle capacità di invenzione e di rischio espresse dai mondi ‘marginali’ e neu-tralizzate, costrette a vivere in ghetti, o a sopravvivere negli interstizi dell’economia informale;

> risorse pubbliche inutilizzate, come edifi ci pubblici, beni culturali e ambientali abban-donati a se stessi o, peggio, sottoposti ad azione volontariamente corrosiva, ma an-che le piazze o i giardini trasformati in terre di nessuno;

> risorse pubbliche, come quelle assistenziali e quelle legate alla formazione e alla am-ministrazione, trattate come costi.

Queste risorse sono ritrattate dall’impresa sociale di comunità e trasformate da costi in ricchezza e patrimoni pubblici. Ciò avviene, quando il soggetto cui è rivolto un servizio è coinvolto nella sua progettazione, o quando il territorio è attivato, sollecitato a partecipa-re, a fornire proposte, sviluppare idee.Quando il welfare di prossimità non tiene più e quanto alla spesa pubblica da sola non basta, le cooperative sociali si posizionano in mezzo. Attualizzano l’azione di comunità, pur avendo presente che, come avverte lo storico inglese E. Hobsbawn,10 “mai il termine comunità è stato usato in modo tanto insensato come nei decenni in cui le comunità nel senso sociologico del termine sono diventate sempre più diffi cili da trovare nella vita reale”. Comunità è una parola pesante in una società che celebra come mito e rito l’individua-lismo compiuto. Ma così nascono le cooperative sociali. Rispondono ad un bisogno di comunità, in assenza della comunità. Ciò porta la rifl essione alla questione più grande del fare società, che non è solo questione sociale.

2. La comunità locale come risorsa di sviluppo

Il mondo delle cooperative sociali coniuga in modo nuovo due meccanismi antichissimi, precapitalistici: il meccanismo della solidarietà sociale che rimanda alla teoria del dono, e il meccanismo cooperativo-mutualistico che ha infrastrutturato il passaggio delle società

10 E. Hobsbawn, The age of extremis, cit. in Z. Bauman, Voglia di comunità, Laterza, Roma, 2001.

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08locali dall’economia agricola all’economia industriale. Oggi questi meccanismi rappre-sentano il massimo della modernità. Certamente non bisogna riproporre il passato, ma si deve ricordare che gli elementi di auto-organizzazione del sociale hanno le loro radici nel passato.Nella realtà trentina, le teorie del dono rimandano ad un mondo agro-silvo-pastorale, dove il donare una mucca a chi l’aveva persa permetteva di conservare l’equilibrio e la sopravvivenza della comunità stessa, dove la manutenzione del territorio era garantita delle antiche regole degli usi civici e dove l’economia era infrastrutturata da micro au-tonomie funzionali d’uso collettivo quali la segheria, la cantina, il macello, o il caseifi cio ternario. Un’attitudine ad auto-organizzarsi attorno ai propri bisogni che dava luogo a istituzioni di comunità come sono ad esempio, ancora oggi nei paesi trentini, i vigili del fuoco volontari o il consorzio elettrico comunale.Il mercato nello sviluppo capitalistico agli albori del ‘900 creò un vuoto di socializza-zione: distrusse la vecchia economia, l’agricoltura, la famiglia patriarcale. Non riuscì a dare una risposta ai bisogni della gente, compresi i bisogni delle persone e dei territori collocati alla periferia del nuovo sistema industriale in formazione. Il vuoto di socializza-zione divenne allora il terreno di sviluppo di un’alternativa possibile, ovvero della forma di impresa cooperativa. Mutue, cooperative, leghe ed associazioni condividevano un obiettivo fondamentale: fornire beni e servizi al minor costo possibile, per servire l’interesse reciproco dei membri della comunità e, in senso più ampio, garantire un servizio d’interesse comune che lo Stato era ancora lungi dall’assicurare. Nascono i circuiti mutualistici del credito, della previdenza e della tutela contro le malattie. Nascono le cooperative di consumo. Nasce un fi orente movimento di cooperative agricole e di cooperative di produzione. E, insieme a queste imprese, nasce un movimento cooperativo che fa da collante e da guida alle singole iniziative.Lo sviluppo trentino si è tradizionalmente formato sulle reti corte della comunità e del-l’identità locale, e la dimensione cooperativo-mutualistica costituisce uno dei fondamen-ti dello sviluppo socio-economico trentino dove gli alti livelli di coesione sociale hanno tradizionalmente alimentato i processi di crescita economica delle comunità locali. Le piccole reti corte identitarie e comunitarie si sono evolute dolcemente in rapporto con la modernizzazione. Si è reagito alla modernità che veniva avanti spostando verso l’alto il baricentro identitario e comunitario passando dalla comunità di paese alla comunità di valle per poi evolversi verso un’identità di provincia autonoma. È in questa transizione che si sviluppa il sistema cooperativo che fa sistema del piccolo agricoltore portandolo a produrre latte, formaggio, mele, miele, piccoli frutti in forma cooperativa. Così come le pro-loco sono state nei fatti i primi motori locali di quella economia del turismo e dell’intrattenimento che realizza una rete di accoglienza in grado di reggere la modernizzazione turistica, il sistema delle banche di credito cooperativo è diventato l’autonomia funzionale di valle che accompagna quel mix tra attività delle famiglie, attività agricola, attività turistica e cooperazione diffusa. Oggi, anche in una situazione come quella trentina, relativamente protetta dallo statuto

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E 08 di autonomia, la globalizzazione si fa sentire e mette sotto sforzo le società locali. I mu-

tamenti riguardano i processi materiali di creazione del valore economico e dunque le strutture economico produttive, ma anche il ruolo e il sistema delle relazioni degli attori che alimentano le forme di convivenza sulle quali si è storicamente fondato lo sviluppo locale del Trentino.Il confl itto che ne nasce non è solo connesso alla diffusione di modelli di consumo e di organizzazione del territorio omologanti, ma anche al fatto che la globalizzazione porta ine-vitabilmente con sè un aumento del clima competitivo capace di spiazzare economie locali e modelli produttivi che non hanno saputo sviluppare quelle competenze distintive che con-sentono di trovare spazio e ruolo nei processi di modernizzazione economica e sociale.Per governare i processi di modernizzazione e globalizzazione è fondamentale, oggi come allora, ripartire dalle comunità locali, avendo chiaramente presente che di fronte a processi di innovazione economica e istituzionale che vengono calati dall’alto, molte società locali fanno fatica a metabolizzare la modernità che avanza. In molte realtà locali emerge una sorta di “malessere antropologico” determinato da due categorie tipiche della modernità: > da una parte lo sradicamento, il sentire venir meno le proprie radici identitarie, comuni-

tarie, sostituite da modelli sociali, culturali e di uso del territorio, spesso omologanti;> dall’altra lo spaesamento, il sentirsi letteralmente “senza più paese”, di fronte a pro-

cessi di erosione dei beni pubblici, ai processi di spopolamento ed invecchiamento della popolazione.

Emerge quindi spesso un atteggiamento di “localismo”, che è in parte generato da timori per i troppo rapidi processi di modernizzazione, ma che in larga misura si appoggia an-che su solide e perfettamente comprensibili esigenze di mantenere le proprie tradizioni, la qualità del proprio territorio, la qualità delle relazioni sociali che caratterizzano ancora, in queste aree, la dimensione comunitaria.Questa domanda di “localismo”, o se vogliamo di autogoverno dei propri processi di sviluppo da parte delle comunità locali, va adeguatamente interpretata, accompagnata e valorizzata nell’ambito delle politiche di sviluppo locale. Iniziative come i Patti territoriali realizzati in Trentino, ma anche altre iniziative più o meno istituzionali di coinvolgimento delle comunità locali su alcune grandi scelte strategiche di sviluppo, evidenziano come nelle comunità locali trentine vi sia ormai una consapevolez-za generalizzata che assumere la modernità come riferimento per le proprie strategie di sviluppo, non signifi ca negare la tradizionale identità di un territorio; al contrario, un’iden-tità locale forte è oggi il presupposto per stare nella modernità. Si sta nella globalizzazione se si hanno competenze distintive, riconoscibili, diffi cilmente riproducibili e banalizzabili, capaci di produrre valore aggiunto nelle reti globali. Vi è la consapevolezza che modernizzazione non signifi ca necessariamente compromissione dell’ambiente e dei rapporti sociali, al contrario è possibile osservare:> come la qualità di un territorio sia un bene considerato sempre più prezioso anche sul

piano economico, molte realtà territoriali e imprenditoriali hanno imparato a fare della qualità ambientale un proprio vantaggio competitivo ed un’opportunità di business;

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08> come i meccanismi di coesione sociale, di identità locale e la vivacità della cultura locale siano considerate una precondizione essenziale per sviluppare offerte e com-petenze distintive e nel determinare, di conseguenza, l’effi cienza e lo sviluppo del territori montani, in un’ottica di modernizzazione sostenibile.

Nelle economie locali delle tante valli trentine, hanno ormai preso corpo culture dello sviluppo che pongono il territorio e la sua qualità al centro dei propri processi di crescita, sono cresciuti interessi economici fondati su una duplice specializzazione: geografi ca da un lato, ed economica dall’altro. Il che, sempre più spesso, si traduce in politiche di qualità dei prodotti, della vita e dell’ambiente circostante e in una declinazione di questi aspetti in tutti i settori di attività economica e sociale (turismo, agricoltura, agroalimenta-re, industria, servizi sociali).Chiaramente, le comunità locali trentine non sono tutte uguali, esprimono differenti ca-pacità di raccordarsi con la moderna economia dei fl ussi.Sul territorio troviamo comunità depotenziate dove i fl ussi della modernizzazione si ma-nifestano attraverso l’erosione di beni pubblici e fenomeni di spopolamento. Qui la do-manda di sviluppo si esprime principalmente attraverso il mantenimento del reticolo locale che consente di fare comunità (il mantenimento del negozio11 o del bar di paese, di un minimo di struttura sanitaria, della scuola, di piccole autonomie funzionali locali quali la latteria, il macello, la cantina sociale). Solo in alcuni casi la comunità locale è in grado di darsi quel minimo di organizzazione interna per tentare di valorizzare alcune potenzialità inespresse, principalmente in campo turistico, agricolo, artigiano (un po’ di agriturismo, un prodotto locale, un bene ambientale o culturale da valorizzare).Sul territorio troviamo poi comunità inerziali. Sono le comunità collocate ai margini dei fl ussi, quelle che soltanto indirettamente sono toccate dai processi di sviluppo che inte-ressano territori contigui o poli di sviluppo da cui queste comunità sono dipendenti (ad esempio i territori che gravitano maggiormente sulle aree urbane o che sono prossimi ad aree di forte sviluppo turistico). Il problema dello sviluppo per queste comunità è connettersi a quei fl ussi che le coinvolgono solo in maniera tangenziale. La domanda di territorio si esprime a volte rivendicando quelle infrastrutture che potrebbero consen-tire un’integrazione con vicini poli di sviluppo (a seconda i casi: la strada, l’impianto di risalita, l’area artigianale o servizi e funzioni urbane qualifi cate…) altre volte sviluppando confl ittualità per le esternalità che si è costretti a subire (a seconda i casi: traffi co, inqui-namento, seconde case, quartieri dormitorio…). Anche queste realtà a volte faticano a strutturare forme coalizionali e progettualità locali forti, prevalentemente per il fatto che le proprie risorse strategiche sono assorbite dai vicini poli di sviluppo.Sul territorio troviamo poi comunità operose, ovvero realtà territoriali in cui gli attori locali sono reattivi alle sollecitazioni dei fl ussi. In queste aree il problema consiste nell’innesca-re processi di sviluppo capaci di fare rete corta di territorio per sviluppare poi rete lunga di mercato. Emblematiche sono quelle realtà locali trentine che fanno patto territoriale,

11 Si veda il caso di Carzano.

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E 08 distretto, fi liera produttiva. La domanda di territorio è funzionale alla valorizzazione di

specifi cità locali e all’integrazione del sistema locale. Ciò signifi ca che la montagna, il suo ambiente, le sue tradizioni, la sua agricoltura, il suo artigianato costituiscono un’unica of-ferta. Specifi cità geografi ca e specifi cità economica diventano indistinguibili. La monta-gna è un unico prodotto e come tale viene promosso. Le progettualità in questi contesti si sostanziano con un intreccio di fattori di sviluppo sia materiali che immateriali e a volte giungono a delineare anche forme di autogoverno e di proiezione esterna delle proprie dinamiche di sviluppo (associazioni e unioni di comuni, agenzie di sviluppo, politiche di sviluppo integrato e sostenibile, azioni di marketing territoriale, politiche distrettuali e di fi liera12, la creazione di multiutilities dei servizi13, di marchi di territorio,….). Sul territorio troviamo, infi ne, comunità “glocali”. Il riferimento è a quegli attori e a quei territori montani che hanno già elaborato un proprio rapporto con la globalizzazione (in Trentino il riferimento può essere fatto all’area metropolitana di Trento e Rovereto e ai “di-stretti” turistici più affermati). Qui il tema dello sviluppo è l’effi cienza delle reti che connet-tono il locale con il globale. Queste comunità glocali si costruiscono attorno a qualche “autonomia funzionale”, dando a questo termine un’accezione ampia, comprendente tutte quelle strutture che hanno come mission la gestione dei fl ussi: > i fl ussi di merci e persone che rimandano alle questioni delle grandi infrastrutture, delle

piattaforme logistiche, ma anche al tema delicato dell’immigrazione e dei modelli di accoglienza14;

> i fl ussi di sapere, informazione, competenze che rimandano alle questioni dell’univer-sità, della formazione, dei poli tecnologici, dell’innovazione, dei nuovi lavori cognitivi;

> ci sono poi i fl ussi fi nanziari che rimandano all’ingresso di grandi gruppi bancari su questo territorio, al processo di aggregazione delle Casse Rurali, al ruolo delle fonda-zioni bancarie e private a supporto dello sviluppo locale15;

> i fl ussi turistici che rimandano alla crescita di un’articolata economia dell’intratteni-mento16.

Si potrebbe continuare…. Qui il problema dello sviluppo è fare in modo che i fl ussi non sorvolino il territorio o, ancor peggio, vi atterrino con pure logiche di sfruttamento desta-bilizzando le forme di convivenza consolidate a livello locale. Il tema è come elaborare un rapporto con la globalizzazione che veda un protagonismo forte degli attori locali e che sia capace di arricchire e valorizzare la dimensione locale. I sistemi locali trentini letti attraverso le categorie dei fl ussi e delle identità locali disegna-no una geografi a articolata, con differenti problematiche e strategie di sviluppo locale. È fondamentale che le politiche di sviluppo locale sappiano accompagnare, in modo integrato, tutte queste diverse dimensioni comunitarie, identitarie, territoriali e che si

12 Si vedano i casi delle Giudicarie e di Lavis.13 Si veda il caso di Tres.14 Si veda il caso di Trento Nord.15 Si veda il caso di Prabubolo.16 Si vedano i casi della Val di Non e della Val di sole.

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08fondino sulla consapevolezza che, a fronte dei processi di apertura connessi ai processi di globalizzazione, le realtà locali appaiono sempre più come un bacino entro cui le virtù della cittadinanza hanno modo di diventare risorsa di sviluppo economico e moltiplica-tore di benessere. Un accettabile grado di coesione sociale, intesa come dotazione di beni relazionali e virtù civiche, costituisce non solo un patrimonio delle forme di convivenza, ma anche un fattore di competitività del tessuto economico. Le categorie di identità e comunità locale, in rapporto ai processi di modernizzazione, possono fornire un’importante chiave di interpretazione dei diversi contesti locali per impostare politiche di sviluppo che, da un lato, sappiano valorizzare gli elementi di mo-dernizzazione sostenibile presenti nelle realtà locali, anche in quelle considerate margi-nali, e dall’altro, valorizzino il ruolo ed il protagonismo delle comunità locali nella piena applicazione del principio di sussidiarietà e di autodeterminazione dei propri percorsi di sviluppo.La costruzione di reti di coesione sociale, economica ed istituzionale è la specifi cità del-l’impresa sociale di comunità. Una specifi cità che si esprime nella capacità di costruire comunità artifi ciale a fronte della dissoluzione della comunità originale indotta dai pro-cessi di modernizzazione.In tal senso, la cooperativa sociale di comunità rappresenta una sorta di ritorno alle origini – ma anche un elemento di innovazione - nell’ambito del movimento coopera-tivo. Un movimento cooperativo in grado di recuperare, attualizzandolo, il programma originario di rifondazione del rapporto tra cittadinanza e statualità, fondato su elementi di protagonismo dal basso, sull’intreccio tra volontariato e professionismo sociale, sulla produzione di reti di autogoverno delle comunità.

3. L’attualità del modello cooperativo: fare comunità nella modernizzazione

Durante la lunga stagione fordista, che ha caratterizzato la seconda metà del secolo scorso, l’organizzazione sociale è stata garantita dalle capacità di integrazione della grande impresa e della pubblica amministrazione (welfare). Le capacità di collaborazione e integrazione dal basso espresse dal movimento cooperativo hanno trovato una pro-pria nicchia importante, sia sul piano economico, sia sul piano sociale, ma comunque relegata a culture politiche (bianca o rossa) e realtà territoriali (Trentino, Emilia Romagna, Toscana,….). L’organizzazione fordista suggeriva ai portatori di bisogni (consumo, welfare) e di risorse (lavoro, competenze, risparmio) la soluzione della delega alle grandi tecnostrutture del-l’impresa e della pubblica amministrazione: una soluzione comoda, priva di rischi (appa-renti), e tale da incentivare il disinteresse per le relazioni sociali e per il signifi cato politico delle stesse: tutte cose delegate, anch’esse, ai professionisti della rappresentanza e ad amministratori competenti.La grande impresa fordista assumeva su di sé il rischio, forte delle sue capacità di con-

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E 08 trollo e di negoziazione schermando i suoi contraenti: esentava dal rischio il lavoratore

dipendente cui era garantito un posto di lavoro, una professionalità, una vita remunerata al servizio dell’azienda; toglieva le castagne dal fuoco allo Stato, cui era garantito un fl usso crescente di entrate per alimentare i servizi di welfare. Il welfare era pubblico, garantito, universale: un diritto soggettivo.Il lavoro dipendente si proponeva come “classe generale” e dunque rappresentante anche di quel lavoro autonomo, indipendente, atipico che – in quanto lavoro – poteva essere differente solo in superfi cie, ma doveva avere, si supponeva, gli stessi bisogni, le stesse capacità, le stesse tutele del lavoro dipendente. La grande impresa pretendeva per sè tutto il palcoscenico della teoria e della pratica, lasciando alla piccola impresa ruoli di comparsa o poco più. Poi qualcosa è saltato: le grandi organizzazioni fordiste si sono spogliate dei rischi as-sunti in precedenza, riportandoli sulla società, ovvero su tutte le persone. Le grandi imprese hanno cominciato a dimagrire, mentre la quota occupazionale nelle piccole imprese è cresciuta. Il lavoro dipendente è entrato in sofferenza, mentre i nuovi lavori sono in grande maggioranza fuori norma. Il welfare pubblico e universale ha cominciato a scricchiolare, lasciando spazi crescenti ai privati, al volontariato, a forme mutualistiche di azione. Tutto è posto a rischio, e tutto deve dunque trovare una nuova normazione.Oggi, sono sempre più numerosi i singoli e i gruppi che si sentono, consapevolmente o inconsapevolmente, “orfani del fordismo”. Curiosamente questa categoria comprende anche chi, come il sindacato, vedeva l’ordine fordista come controparte da contrastare e costringere alla trattativa. La scena politica si divide oggi tra un neofordismo conserva-tore che cerca di difendere tutto il difendibile ed un postfordismo fondamentalista, che usa la clava del mercato, della deregulation e della tecnologia per scompaginare l’ordine fordista, però senza preoccuparsi di ricostruire un nuovo ordine, dotato di senso, al posto della casa fordista demolita.Il venir meno delle garanzie offerte dalle tecnostrutture ha cominciato a cambiare gli at-teggiamenti delle persone, perché ciascuno percepisce che non basta farsi rappresen-tare da qualche partito o da qualche sindacato ad un tavolo di trattative aperto presso lo Stato o presso la grande impresa che tutto controlla e tutto garantisce. Lavoratori, consumatori, imprenditori, risparmiatori, cittadini si trovano sempre meno “protetti” dai sistemi esperti (tecnostrutture pubbliche e private) e comprendono che bisogna diventa-re più autonomi e più intelligenti per gestire i propri rischi, senza delegare troppo. Si diffonde la consapevolezza che bisogna darsi da fare per trovare risposte auto-orga-nizzate al rischio incombente e diffuso. Man mano che il rischio si diffonde, ci si rende conto del fatto che i diversi rischi che gravano su una persona non possono essere più affrontati individualmente. La strada maestra è dunque quella di assumere rischi in comune in maniera consapevole. È di nuovo il momento della condivisione auto-orga-nizzata.Nel momento stesso in cui si ha una condivisione consapevole dei rischi comuni, si sta facendo cooperazione: ci si dota di forme di condivisione auto-organizzata e volontaria per affrontare bisogni comuni e per valorizzare risorse che possono meglio rendere se

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08utilizzate insieme. La condivisione auto-organizzata e volontaria non è soltanto a carat-tere mutualistico, ma ha un aspetto imprenditivo: ci si imprenditorializza insieme per con-dividere le perdite e i profi tti di attività dall’esito incerto. Che poi, questa imprenditorialità condivisa prenda la forma di società a responsabilità limitata, di società cooperativa o di un’associazione no profi t è semplicemente un aspetto di tecnica giuridica. La ri-diffusione del rischio nel corpo sociale promette di aprire una stagione di speri-mentazione e di ricerca delle forme più adeguate per gestire i rischi in modo condiviso, sociale. È una stagione in cui comunità vecchie e nuove possono rinascere dal basso, acquistando peso e spessore dopo essere state de-potenziate dalla concorrenza del welfare fordista, e in cui comincia nuovamente a contare – per avere accesso ai circuiti comunitari – la partecipazione diretta delle persone, la condivisione di una visione del mondo o di progetti da realizzare, l’assunzione di responsabilità collettive.È questo il grande spazio in cui la cooperazione può ritrovare di nuovo un vento a fa-vore: quando molte persone, abituate a una logica individualistica, prendono coscienza dell’importanza dello stare insieme, in quel momento l’orologio della storia comincia di nuovo a battere le ore della cooperazione.Per accompagnare questo processo non è suffi ciente “trattare” con lo Stato per ot-tenere più occupazione, più welfare e più servizi, ma diventa fondamentale favorire lo sviluppo delle condizioni sociali di self-employment, dei servizi universali che “abilitano” le persone a crescere e rischiare, e delle comunità in cui diventa possibile condividere bisogni e risorse. L’impresa sociale di comunità ha spazi crescenti di progettazione e sperimentazione di processi di integrazione e coesione sociale nuovi, per l’elaborazione di nuove forme di rappresentanza, ed anche di nuove istituzioni postfordiste. Contrariamente a quanto pensano e dicono i fondamentalisti del postfordismo, non abbiamo semplicemente bi-sogno di meno istituzioni e di meno regole. Abbiamo invece bisogno di nuove istituzioni e di nuove regole.In tal senso, l’impresa sociale di comunità è uno strumento che consente di ricostruire dal basso le istituzioni e le organizzazioni che servono per rispondere ai bisogni. Avendo presente che la ricomposizione dei bisogni e degli interessi ha perso i suoi automatismi. Oggi ci si deve mutualizzare tra diversi, non esiste più la comunità naturale di riferimento, non esiste più la comune condizione operaia (industriale o agricola) di un tempo, manca l’accezione del lavoro come principio ordinatorio del sociale. Il lavoro si pone oggi all’in-terno di un’altra prospettiva: quella di un capitalismo personale che, andando oltre l’oriz-zonte individualistico in cui fi no ad oggi è cresciuto, comincia a risocializzare l’economia degli investimenti personali, recuperando il senso collettivo del lavorare e del produrre. Il mutualismo deve oggi entrare in relazione con la nuova composizione sociale e le nuove forme di lavoro, sia attraverso l’innesto di nuove pratiche su quei soggetti della società di mezzo che hanno mantenuto viva e sviluppato la tradizione nascosta del mutualismo (credito cooperativo, fondazioni bancarie e private, cooperazione sociale, volontariato, mutualismo del capitalismo molecolare, etc.), sia attraverso le carsiche vie dell’auto-organizzazione dei nuovi soggetti sociali.

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E 08 4. L’impresa sociale nell’epoca del “capitalismo personale”

Durante la lunga stagione fordista lo “stare insieme” e il “lavorare insieme” non sono af-fatto usciti dall’agenda politica o dalle possibilità del vivere quotidiano. Il riferimento non lo troviamo tanto o solo nel mondo della cooperazione, che per quanto importante non ha certo svolto un ruolo egemone (perlomeno a livello nazionale), ma nel sorgere e nel rapido svilupparsi di forme di capitalismo personale che si sono proposte come alterna-tiva praticabile – e spesso vincente – rispetto al modello fordista della grande impresa.Nei distretti industriali, ad esempio, centinaia di imprese e migliaia di persone hanno imparato a “stare insieme” e a “lavorare insieme”. Magari diffi dando l’uno dall’altro, sal-vo riconoscersi nelle virtù ideali del comune territorio. Nelle catene di fornitura, terzisti e committenti imparano a lavorare in rete, mettendo insieme ordini e rischi, capitali e competenze. L’organizzazione sociale non ha cessato di esprimere forme di integrazione a base ter-ritoriale in cui persone, imprese, interessi diversi si ingegnano a mettersi in rete, a fare del rapporto con l’altro una risorsa produttiva. L’esperienza della piccola impresa ha mostrato come sia possibile lavorare in un altro modo, ossia dando potere, intelligenza e responsabilità a chi è direttamente a contatto con i problemi ed a chi è direttamente interessato a risolverli, evitando al tempo stesso di frammentare gli interessi e le già scarse energie dedicate ai problemi. Il capitalismo personale, quello di una piccola azienda appartenente ad un distretto, dei lavoratori autonomi di seconda generazione, dei lavoratori atipici, dei nuovi lavorato-ri della conoscenza, ha caratteristiche straordinariamente simili a quelle di un’impresa cooperativa: > Si tratta di una forma di auto-organizzazione. Il piccolo imprenditore non delega ad

altri il problema di trovarsi il lavoro, i clienti o i fornitori. Moltissimi neo-imprenditori si sono “messi in proprio” perché non avevano un lavoro soddisfacente come lavoratori dipendenti, o perchè era l’unico modo di inserirsi nel mercato del lavoro; la neo-im-prenditorialità, il mettersi in proprio nasce spesso da un bisogno di auto-organizzarsi, per soddisfare un problema che il mercato, nel suo automatismo, non risolve in modo soddisfacente.

> La condivisione a prima vista sembra essere un evidente elemento distintivo del socio di una cooperativa e non del “capitalista personale”. In realtà nel capitalismo persona-le ci sono molti elementi di condivisione. La piccola impresa, in Italia, non sarebbe mai potuta diventare un’impresa moderna se avesse operato in modo isolato. Il piccolo imprenditore non può essere moderno, quindi all’altezza delle sfi de competitive, se non appartiene a un circuito più grande. La vita dell’impresa dipende dalle dotazioni di capitale cognitivo e capitale relazionale che è dato da forme di condivisione con il sistema di subfornitura, con il territorio di cui fa parte, con la famiglia e le relazioni personali.

> Mentre la condivisione realizzata dalle cooperative è volontaria, cioè implica una deci-sione, una scelta personale, nel capitalismo personale questa condivisione è, in gran

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08parte, involontaria (fenomeni di emulazione, contaminazioni e scambi di innovazione nella supply chain, diffusione di competenze a livello locale). E, anche nei casi in cui è volontaria (consorzi, reti, distretti, comunità professionali), si organizza in modo da dare luogo a soluzioni reversibili. I fornitori e i clienti restano di solito gli stessi e si fi dano l’uno dell’altro, rinnovando i contratti che li legano. Ma si tratta ogni volta di una scelta che viene fatta daccapo, senza alcuna garanzia a priori di continuità e di dipendenza reciproca.

Il capitalismo personale è oggi composto dagli artigiani, dai commercianti, dai piccoli imprenditori, dai professionisti del lavoro autonomo. Ma anche dai lavoratori “della co-noscenza” cioè quei lavoratori che investono su se stessi – sulla propria carriera pro-fessionale – dentro e fuori le aziende. E poi da tutte quelle professioni nate intorno alla New Economy e alle ICT. Infi ne, il lavoro autonomo di seconda generazione e il lavoro di primo ingresso, comprendendo in questa categoria le forme di lavoro atipico, part-time o temporaneo, le partite I.V.A., i collaboratori coordinati e continuativi ecc. I capitalisti personali sono coloro che nell’intraprendere una propria attività vedono pos-sibilità di affermazione soggettiva, di promozione di sé; non necessariamente la sempli-ce emancipazione da uno stato di bisogno, ma la possibilità di affermare un progetto, un’idea, un proprio disegno di realizzazione. In questo è messa inevitabilmente in gioco la soggettività delle persone, i loro interessi, ma anche i loro gusti, gli orientamenti etici e culturali e perfi no gli affetti e le passioni. Questa composizione sociale, che ha dato vita alle forme organizzate di capitalismo per-sonale nei distretti industriali, nelle catene di fornitura, negli accentramenti metropolitani, ha fatto propria l’istanza dell’auto-organizzazione, vicina agli ideali e alla tradizione del movimento cooperativo; realizza forme di condivisione oggettiva che potrebbero, anche queste, essere vicine alla logica della cooperazione. Ma rimane soggettivamente lonta-no dallo spirito della condivisione volontaria, propria della cooperazione, perché non ha perseguito la condivisione come orientamento personale e come criterio di interazione sociale. Oggi però le cose stanno cambiando. L’evoluzione del capitalismo personale, in epoca postfordista, punta a rendere volontaria – e non più involontaria, spontaneistica – l’ade-sione a forme di condivisione auto-organizzata. Gli attori del capitalismo personale co-minciano a capire che se vogliono andare avanti nel loro sviluppo devono soggettiva-mente non solo ammettere la condivisione, ma anche organizzarla, promuoverla, assu-merla come bandiera a livello territoriale e di fi liera produttiva. Dopo aver avuto i vantaggi imprevisti e non programmati dello stare insieme, cominciano a pensare e a credere a forme condivise di azione, valutate ex ante e vincolanti nelle prospettive future. Le forme che cominciano ad essere trovate per sviluppare piani di investimento di in-teresse comune e per assumere rischi condivisi non sono troppo differenti – almeno nello spirito – da quelle che hanno caratterizzato in passato il movimento cooperativo: anche adesso si tratta di rendere collettivi i bisogni e di valorizzare insieme le risorse di ciascuno. Anche se le forme destinate a svolgere ruoli di comune interesse possono assumere una

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E 08 forma privatistica (consorzi, associazioni, gruppi di impresa, comunità professionali, ac-

cordi di fi liera, piani di distretto, patti territoriali, nuove strutture di rappresentanza, ecc.) la loro costituzione materiale richiama un fi ne mutualistico di reciproco riconoscimento, di condivisione dei rischi e dei fi ni, di partecipazione ad un tessuto sociale che si dota delle risorse di cittadinanza necessarie per abilitare le forze dei singoli, consentendo loro di diventare capitasti personali competitivi, non destinati all’estinzione, all’esclusione o alla marginalità.Oggi, l’investi mento a rischio sulle proprie capacità professionali è una pratica neces-saria per accedere al mercato del lavoro e di conseguenza sempre diffusa a tutti i livelli e in tutti i ruoli dell’organizzazione sociale. Questo impone l’attivazione di politiche che promuovano la cultura di impresa e l’autoimprenditorialità come mezzi di inclusione so-ciale, focalizzandosi in particolare sull’individuo: sulle sue competenze, responsabilità, diritti, autonomia, capacità di assunzione del rischio. Nel capitalismo personale l’attività economica propriamente intesa si confonde con la vita personale e da questa in certa misura fi nisce per dipendere. Le nuove forme del lavoro portano nella sfera produttiva e rendono rilevanti – dal punto di vista immediatamente produttivo – bisogni di welfare inerenti alla vita privata, cui i nuovi lavoratori devono trovare risposta pena la riduzione del tempo lavoro disponibile per la produzione o la riduzione della motivazione con cui ci si impegna nella carriera professionale. Il welfare diventa in tal senso, un fattore produttivo, una “risorsa abilitante” che consente alle persone di rispondere effi cacemente alle esigenze produttive perché i servizi di wel-fare danno loro un retroterra adeguato alla copertura dei loro bisogni di base. La casa, la scuola per i fi gli, la mobilità, la salute, la qualità della vita, la previdenza e l’assistenza, il rischio di un reddito che non può essere dato per sicuro, ma che non può lasciare scoperta la famiglia che su di esso conta, sono problemi personali che intersecano la vita lavorativa e imprenditoriale. È quindi dentro gli abiti della riproduzione sociale che le onde lunghe delle trasformazioni sociali tendono ad innescare tentativi di risposta al disagio della tarda modernità.All’interno di questo discorso, il capitalismo personale può fornire nuove opportunità di notevole interesse, perché non è solo un modello nuovo e originale di produrre. Rap-presenta anche un fattore di inclusione sociale che merita la dovuta attenzione da parte delle istituzioni pubbliche. Si pensi alle sempre più numerose imprese fondate e gestite da immigrati extracomunitari. Abituati a pensare il lavoro degli immigrati solo in termini di offerta a basso costo di forza-lavoro e di occupazione di posti che la manodopera ita-liana non è più disponibile a ricoprire, ci troviamo ora a fare i conti con una generazione di neo-imprenditori che nei settori più diversi produce e compete alle stesse condizioni di tutti gli altri imprenditori. Al contempo, non possiamo più pensare il problema dell’in-clusione solo in termini di politiche sociali a favore degli immigrati, replicando lo schema che assimila l’extracomunitario all’indigente tout court. Il capitalismo personale stravolge i termini del problema. Intanto l’esperienza di lavoro autonomo consente un inserimento nel mercato del lavoro in attività non residuali e non necessariamente giocate sulle variabili di costo. In secondo luogo, non diversamente

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08che per gli imprenditori italiani, mobilita e sviluppa competenze lavorative e relazionali che sono tipiche del nuovo lavoro imprenditoriale. Tutto questo costituisce in sé un potente meccanismo di integrazione nelle comunità locali che si fonda certamente sulla ricchezza prodotta, ma anche sul riconoscimento delle capacità e sulla stima verso gli sforzi compiuti per ricoprire la posizione di imprenditore. Infi ne, proprio queste risorse di reddito e riconoscimento sociale sono suscettibili di allargamento oltre la cerchia dei di-retti imprenditori benefi ciari: i legami che questi ultimi intrattengono con le rispettive co-munità immigrate possono innescare meccanismi imitativi ed emulativi tali da estendere ad una platea più ampia di soggetti i benefi ci dell’inclusione sperimentata da alcuni.Utilizzando il concetto di capitalismo personale, la rappresentazione dei bisogni e delle opportunità può essere organizzata con riferimento non ad una particolare categoria (il lavoro autonomo) che si contrappone ad altre categorie; ma con riferimento ad un mo-dello di sviluppo (il capitalismo personale) che, caratterizza l’economia italiana, identifi ca un interesse di tipo generale, o meglio un terreno di azione in cui gli interessi di fondo delle nuove forme del lavoro si intersecano con quelli del sistema generale.Il capitalismo personale non è il terreno elettivo degli egoismi individuali temperati dagli automatismi del mercato, ma, al contrario, è il contesto adatto per far crescere una nuova rete di comprensione e di protezione sociale, da parte di coloro che corrono rischi simili e sentono bisogni simili. Dai rischi e dal bisogno diffuso, nasce la forza – anche produttiva – delle comunità che forniscono alle persone la solidarietà di un contesto comunitario a base famigliare, amicale, locale, professionale, intellettuale.Emerge oggi l’esigenza di accompagnare il processo di “imprenditorializzazione del la-voro” con attività di animazione, sensibilizzazione e formazione alla cultura di impresa volte a incrementare la dotazione di capitale umano (che è costituto dalle competenze, dalle abilità, dalle capacità dei soggetti di assumersi il rischio di un’attività imprenditoria-le) e con politiche coalizionali volte a rafforzare la dotazione di capitale sociale, ovvero il patrimonio di reti e relazioni attivabili a fi ni produttivi (fi liere produttive, forme consortili, associative, cooperative, contaminazioni tra vecchia e nuova economia ecc.). Tali po-litiche coalizionali dovranno creare, al contempo, un ambiente favorevole alla crescita dell’imprenditorialità, facilitando l’accesso alle reti, ai saperi, ai servizi, all’innovazione, al credito e favorendo il rapporto con la burocrazia e la concorrenza ecc.Emerge l’esigenza di puntare sulla promozione di azioni fi nalizzate a garantire le pari op-portunità, la diffusione del lavoro a tempo parziale e delle forme di integrazione del reddi-to; la realizzazione di iniziative per la conciliazione tra vita familiare e vita professionale.Emerge infi ne l’esigenza di rendere l’occupazione indipendente meno precaria, aumen-tando il grado di autonomia dei soggetti e riducendo la dimensione del rischio e dell’in-certezza. L’obiettivo è estendere le forme di tutela, garanzia e rappresentanza alle forme di lavoro autonomo attualmente non coperte, attraverso la sperimentazione di nuove forme locali di mutualismo e protezione sociale (previdenza, maternità, malattia ecc.).

La capacità dell’impresa sociale di rispondere a queste esigenze fa si che questa si inserisca con un ruolo di protagonista nell’alveo del capitalismo personale. Anzi, essa

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E 08 stessa è un soggetto del capitalismo personale. Il lavoro nell’impresa sociale è per de-

fi nizione caratterizzato da elementi di auto-organizzazione e condivisione volontaria, un lavoro ricco di soggettività, valori, passioni e relazioni, in cui le persone cercano un ruolo nella società che sia profi ttevole, ma anche carico di signifi cati e perciò un lavoro che non soddisfa solo bisogni individuali, ma fornisce anche un ritorno valoriale per il senso che gli altri gli attribuiscono.Nel capitalismo personale si lavora comunicando, mettendo in gioco soggettività e valori declinati sul piano, molto concreto, della comunicazione sociale. In tal senso il lavoro nell’impresa sociale non è dissimile da quelle professioni che fanno della comunicazione il principale contenuto di valore economico e lavorativo.L’impresa sociale di comunità è uno dei nuovi attori che si presentano sulla scena pub-blica disegnata dalla fi ne dello stato assistenziale. Un nuovo attore il cui profi lo deriva dal fatto di collocarsi sul discrimine tra diversi sistemi. Anzitutto, il sistema del Welfare, di cui certamente ripropone le fi nalità di inclusione sociale e di tutela dei soggetti, in particolar modo di quelli più deboli. In secondo luogo, il sistema del mercato, del quale condivide le logiche di impresa che devono informare anche le nuove forme di inclusione sociale e le forme di autosostentamento economico e fi nanziario. Tuttavia, le profonde differenze dalle logiche dello Stato e del mercato risiedono nel fatto che fi nalità e modalità d’azione dell’impresa sociale (di comunità) sono rappresentate dalla costruzione del legame sociale. ovvero dalla costruzione delle reti di relazioni at-traverso cui ricercare l’inclusione dei soggetti, il soddisfacimento di bisogni individuali e collettivi di una comunità e l’autosostentamento dell’impresa.

5. Produrre senso (e responsabilità)

Auto-organizzazione signifi ca costruzione del legame sociale e comunitario dal basso, in base all’iniziativa delle persone che, al contrario di quanto fanno gli “individui” (isolati), mettono in gioco il capitale sociale (il patrimonio di relazioni e di fi ducia) di cui dispongo-no. La ricerca di qualità implica la costruzione di reti sociali ed economiche che mettono insieme, prima di tutto, il senso che le persone danno alle loro iniziative congiunte. Condividere progetti assumendosene rischi e responsabilità signifi ca, infatti, anche as-segnare un senso alle cose, elaborare la propria identità, collocandosi in un campo di possibilità non vincolato ai soli requisiti di effi cienza economica. In queste scelte, che riguardano il senso e il fi ne attribuito alle cose, torna ad essere importante il punto di vista etico-culturaleL’impresa-comunità si legittima in base ad una ricerca di senso capace di motivare, legare, mobilitare le energie personali di lavoratori, consumatori, risparmiatori, imprendi-tori, cittadini intorno a disegni condivisi e a rischi assunti in comune. Oggi sempre più ciò che tiene insieme l’economia è il senso delle cose, la ragione per cui le cose si fanno, il loro signifi cato. Questo vale per tutti i livelli dell’azione.I lavoratori cercano un senso nel loro lavoro, in modo da poter esercitare la propria fun-

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08zione con autonomia, intelligenza e assunzione di rischio. La ricerca di senso, di auto-realizzazione, è ciò che spinge ad investire in un’attività autonoma. Ma anche ciò che induce a fare un determinato lavoro, a stare in una determinata impresa, e anche a stare in cooperativa con altri, invece che per conto proprio, è principalmente un problema di senso. Ci sono lavoratori in cerca di senso che, rispetto al lavoro, danno la preferenza alle offerte che, dal loro punto di vista, sono maggiormente dotate di senso. Nella con-correnza per attrarre i lavoratori migliori la spunteranno non solo le imprese che paghe-ranno di più, ma anche quelle che riusciranno a conferire un senso al lavoro che incrocia la sensibilità e le preferenze dei potenziali lavoratori. Le persone sono, infatti, disposte a rinunciare a parte della carriera se il lavoro che fanno ha senso (ed il lavoro nell’impresa sociale ne è la dimostrazione).La ricerca del senso non riguarda solo i lavoratori, interessa anche i consumatori. Sem-pre più consumatori elaborano modelli di consumo più qualifi cati, razionali e sostenibili, ne sono un esempio i modelli di consumo etico e solidale o i gruppi di acquisto o ancora le banche del tempo in cui ci si scambia bene e servizi, all’insegna della gratuità. Viviamo in un’economia dell’immateriale dove quello che conta sono i signifi cati e le esperienze connesse al consumo. Noi comperiamo gli oggetti per il signifi cato che hanno, non per la loro prestazione effettiva. La nostra società è sempre più basata sui signifi cati delle cose, sulla loro immaterialità. Per questo dobbiamo aspettarci che si sviluppi una forma di consumo del signifi cato, cioè associata al signifi cato, e che questa forma non prenda solo l’idea della pubblicità e della moda, ma prenda sempre più la forma delle comunità. Oggi i nuovi signifi cati del consumo si fanno nelle comunità: comunità reali, di gente che sta insieme e che fa delle cose, che trasforma in fattore di produzione la propria identità, cultura, il proprio territorio oppure comunità virtuali di gente che naviga in Internet e che comunica. Emerge un nuovo modello di consumo che nasce dallo stare insieme, dal condividere, dal fare comunità. Le comunità di consumo esistono, si stanno sviluppando anche in forma virtuale e stanno proponendo valori alternativi al mercato, ma adeguati al contesto postfordista.Gli stessi imprenditori si domandano se il loro mestiere implichi qualcosa di più di un pro-cesso di calcolo asettico e di arricchimento speculativo, cercando ragioni più complesse che giustifi chino e legittimino il loro ruolo. I temi della qualità dei prodotti, della identità dell’azienda, del suo legame con il territorio che sempre più viene utilizzato come brend, dell’attenzione all’ambiente, della responsabilità sociale dell’impresa, della tracciabilità dei prodotti, del rapporto con i consumatori, qualifi cano la produzione di un numero cre-scente di imprese. La produzione fl essibile richiede un sempre più largo impiego di capi-tale sociale, di origine territoriale e aziendale, ed il ricorso alla creatività delle persone. Le imprese fanno business community nei distretti e nelle fi liere produttive, ma anche con i loro clienti. In misura crescente le imprese sono portate ad interagire con le comunità di consumatori capaci di apportare signifi cativi contributi, sotto molteplici punti di vista, alla defi nizione del prodotto. Un ragionamento del tutto simile può essere fatto per il welfare. Accanto alla tradizio-nale offerta del welfare pubblico, si moltiplicano le proposte, le iniziative di altri modi di

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E 08 rispondere ai bisogni sociali – attraverso le privatizzazioni, il mutualismo, il volontariato,

il terzo settore – capaci di restituire intelligenza e potere decisionale alla domanda. La domanda non va solo messa in campo con l’ideologia o affi dandola al libero mercato: la domanda, in settori critici come il welfare, va organizzata. Essa può diventare capace di valutazioni intelligenti sulla qualità dei servizi e di assunzioni consapevoli di rischio e responsabilità nella mutualizzazione dei propri bisogni, solo se qualcuno si dà da fare per mettere insieme le persone che hanno bisogni e preferenze simili, per affi ancarle ad un sistema informativo/formativo che le metta in grado di capire la situazione e scegliere con cognizione di causa, e, infi ne, per creare nuovi signifi cati condivisi.Il recupero di un orizzonte più vasto della sola effi cienza dei mezzi è oggi una necessità imprescindibile in varie dimensioni dell’economia, non solo per motivi etici ma per motivi economici: non si produce valore solo ottimizzando l’uso dei mezzi, in funzione di fi ni dati, ma rigenerando i fi ni e il senso delle azioni di migliaia di soggetti economici, ciascu-no dei quali deve mobilitare la sua intelligenza, condividere progetti, assumere rischi e responsabilità, elaborare rifl essivamente regole rivedibili dialogando con altri.Nell’economia della conoscenza, la risorsa primaria che produce valore economico non è l’”egoismo razionale” di individui concorrenti, condannati ad agire isolatamente l’uno dall’altro, ma è la capacità di più persone e imprese di cooperare consapevolmente nella produzione e nell’uso del sapere sociale. Nel circuito che consente alle conoscenze di essere scambiate e condivise, i comportamenti cooperativi generano, infatti, un gioco a somma positiva, in cui ciascuno è in grado di utilizzare creativamente il sapere prodotto da altri, aumentandone in questo modo il valore e la produttività.Si tratta di fare emergere, dal basso, l’energia diffusa delle mille persone, dei mille gruppi sociali, dei mille territori che, producendo sapere sociale, auto-defi niscono e auto-or-ganizzano la qualità della produzione, del lavoro, del consumo e della vita civile di cui hanno bisogno. È evidente che rispetto alla produzione di senso, la cooperazione sociale può esprimere importanti progettualità sia recuperando i propri valori fondativi di solidarietà, mutuali-smo, comunità, sia esplorando le nuove forme di produzione di senso.

6. Accompagnare il welfare mix del “sindaco imprenditore”

Oggi, fra i tradizionali riferimenti alle antiche appartenenze e le logiche della compe-tizione globale si incunea prepotentemente la categoria territorio: è sul territorio che si dispiega la catena del valore, è sul territorio che si realizza la mobilità spaziale e la fl essibilità temporale della forza-lavoro, è sul territorio che la società è messa al lavoro, è sul territorio che si dispiegano i grandi processi di esodo, di resistenza, l’altra faccia della globalizzazione, o di regionalizzazione fatta di aumento delle differenze territoriali. È su questo nuovo paradigma, quello del territorio, che vanno ricercate soluzioni per accompagnare la transizione in atto. Per le amministrazioni pubbliche si pone la necessità di seguire le trasformazioni in cor-

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08so e di accompagnarle verso esiti non dissolutivi della coesione sociale. Ma, lo stesso compito attende anche il complesso di strutture sociali (rappresentanze degli interes-si, associazionismo cooperativo, organizzazioni non governative, autonomie funzionali, etc.) che rappresentano l’intelaiatura di quella coesione. Da tempo, la pratica di molte amministrazioni pubbliche è indirizzata a coinvolgere in forme partenariali gli attori locali nella defi nizione delle linee strategiche di sviluppo eco-nomico e sociale del proprio territorio. Un indirizzo al quale si ispirano tanto i programmi dell’Unione Europea quanto le amministrazioni locali. L’approccio nasce dalla consape-volezza che il dinamismo delle società locali si alimenta di iniziative che tendono a rico-struire un ambiente favorevole allo sviluppo, a partire dalle peculiarità e dalle ricchezze di ciascun territorio. Tali iniziative combinano le dimensioni economiche con quelle sociali, la preoccupazione della crescita con quella della coesione, la sfera pubblica con quella privata, le innovazioni con i saperi contestuali. La loro ricchezza risiede precisamente in questa mistura che si adatta, in ogni realtà, a formule diverse.Ad operare in tal senso è anche la Legge 328/2000 nell’ambito della programmazione di un sistema integrato di interventi e servizi sociali: gli enti locali sono chiamati ad eserci-tare funzioni di progettazione, programmazione e realizzazione dei servizi sociali in rete, indicando priorità e ambiti di innovazione sulla base di indicazioni e pratiche concerta-tivo-coalizionali provenienti, tra l’altro, da organismi non lucrativi di utilità sociale, della cooperazione, del volontariato che insistono su un determinato territorio.La logica della concertazione e della programmazione negoziata introduce uno stretto legame tra politiche per lo sviluppo e politiche per il sociale e ha portato all’organizzazio-ne di una serie di iniziative incentrate sugli interessi locali per favorire una mobilitazione di risorse pubbliche e private per lo sviluppo del territorio in termini economici, lavorativi e del sociale.È in questo contesto che si muovono oggi le imprese sociali: da destinatarie dei processi di esternalizzazione dei servizi sociali, esse diventano soggetti proponenti che affi anca-no attivamente l’ente locale nella stessa fase di progettazione dei servizi e di valutazione della qualità erogata. Questo ha implicato lo sviluppo di una nuova cultura progettuale: lo sviluppo di com-petenze di ricerca-azione, animazione, concertazione, progettazione partecipata, che esulano – almeno in parte – dai tradizionali modelli operativi e di relazione dell’impresa sociale. L’impresa sociale oggi assume sempre più il complesso ruolo di meta-organiz-zatore dei fattori contestuali di sviluppo sociale, ma anche economico, di un territorio. È in questa nuova dimensione che si colloca l’impresa sociale di comunità. I casi illustrati nei capitoli seguenti evidenziano la volontà di essere soggetti attivi del territorio, soggetti di integrazione che favoriscono l’emergere di una domanda sociale, la quale non si ri-volge più ad un’offerta istituzionale codifi cata, ma si auto-organizza per trovare risposta ai propri bisogni mobilitando un complesso di risorse, materiali e immateriali, presenti sul territorio.Riposizionare l’impresa sociale all’interno di un meccanismo di coalizione signifi ca ridefi -nire anche il suo sistema di relazioni in un contesto in cui gli attori del privato sociale pos-

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E 08 sono dialogare con il mondo delle rappresentanze degli interessi (industriali, artigianali,

del commercio e turismo, dell’agricoltura). Assistiamo a progetti in cui l’impresa sociale promuove reti ben più ampie della comunità di fruitori del servizio, che coinvolgono isti-tuzioni e attori tradizionalmente distanti dal mondo e dalla cultura dell’economia sociale. Le fi liere produttive, i sistemi turistici locali, le economie agricole, diventano il contesto operativo dell’impresa sociale di comunità, in cui attivare nuove iniziative imprenditoriali e realizzare nuovi inserimenti lavorativi.Il territorio è sempre più un elemento culturale e strategico per le imprese che operano nel sociale. La cooperazione sociale partecipa e si immerge sempre più nelle vicende del territorio. Il territorio permette di fare il salto di qualità, progettare passaggi ambiziosi, avviare nuove imprese, organizzare gruppi di utenti, valorizzare beni comuni inutilizzati o sotto utilizzati, sostenere le amministrazioni pubbliche nell’offerta di servizi rispondenti ai nuovi bisogni di una società che si fa sempre più complessa. Si tratta di un salto di qualità di non poco conto: da portatrice di bisogni e domande so-ciali, l’impresa sociale diventa portatrice di soluzioni, professionalità e competenze che possono aiutare l’ente locale nel sempre più diffi cile ruolo di governo delle dinamiche di sviluppo del territorio.Oggi, in un contesto di razionalizzazione e progressiva riduzione della spesa pubblica, è in particolare sull’ente locale che preme una domanda sempre più intensa in termini di sostegno allo sviluppo e di erogazione di servizi sociali. Nel processo che ha condotto gradualmente la spesa pubblica verso livelli di governo sempre più decentrati ha giocato un ruolo cruciale l’idea che, dovendo assecondare le esigenze dei cittadini, l’intervento pubblico sarebbe stato più effi ciente avvicinandosi il più possibile ai contribuenti, proprio nell’erogazione di quei servizi direttamente fruibili e monitorabili dal cittadino stesso. Si assiste, nei fatti, ad un processo di “customerizzazione” dell’Ente locale, per cui i Comuni diventano i soggetti di .front-offi ce rispetto alla società civile e come tali sono sottoposti al giudizio dei cittadini rispetto ai servizi di cui fruiscono.Il progressivo trasferimento di deleghe e responsabilità rischia, però di trasformare l’Ente locale nel soggetto debole della fi liera istituzionale: è ai sindaci che rimane in mano il cerino acceso, vicino alla benzina del disagio sociale, dei processi di destrutturazione delle società locali e dei problemi di sviluppo economico del territorio.Il venir meno di tutta una serie di strutture intermedie coinvolte dal declino del sistema nazionale di protezione sociale ha scaricato sui sindaci una serie di incombenze relative alle forme di disagio: lavoro, immigrazione anziani, giovani, servizi sociali, problematiche di assetto del territorio e aggregazione, anche culturale, sono gli aspetti più visibili della domanda.I piccoli comuni sono spesso i soggetti, che più di altri vivono le diffi coltà di stare con-temporaneamente dentro i processi di buona amministrazione e dentro i processi più ampi di programmazione e governo dello sviluppo. Se si guarda al profi lo della buona amministrazione si vede come anche nei piccoli comuni sia cresciuto il grado di com-plessità delle questioni da affrontare per erogare servizi adeguati alla evoluzione dei bisogni dei cittadini:

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08> le problematiche relative alla gestione urbanistica e alla compatibilità ambientale o anche la semplice gestione delle funzioni ordinarie di progettazione delle opere pub-bliche e di manutenzione del territorio;

> i problemi connessi all’organizzazione dei servizi sociali e educativi e di quelli per l’impiego;

> l’organizzazione dei servizi pubblici locali (energia, risorse idriche, smaltimento dei rifi uti, trasporti) da collocare entro ambiti territoriali ottimali e a fronte dei problemi di sostenibilità economica delle piccole municipalizzate;

> l’area della fi nanza, sia per quanto riguarda la gestione ordinaria delle entrate e della spesa, sia per il ricorso a eventuali strumenti di fi nanza innovativa;

> i problemi connessi all’organizzazione dei servizi nei tanti Comuni soggetti a fenomeni rilevanti di presenze turistiche stagionali;

> l’area della semplifi cazione amministrativa per garantire procedure effi cienti e rapide;> i servizi per le relazioni con il pubblico per offrire informazione e trasparenza sull’azione

amministrativa;> la necessità di predisporre strumenti di comunicazione atti a rendicontare socialmente

i risultati dell’attività amministrativa, quali i bilanci sociali o di mandato;> l’area della informatizzazione, con particolare riferimento alla presenza sul web, per i

suoi aspetti strettamente funzionali prima ancora che di immagine.Ne deriva una complessità di quadro dell’azione amministrativa che riporta al tema della qualità politica degli amministratori degli enti locali e più in generale delle risorse profes-sionali di cui dispone per stimolare la spinta motivazionale di adesione convinta e attiva alla cultura dello sviluppo e per far fronte alla richiesta di competenze specialistiche e tecnicalità sempre più avanzate. Questa situazione di debolezza e diffi coltà non è però subita passivamente. In molti comuni riemerge la fi gura storica del “sindaco-imprenditore” che si fa carico, dal punto di vista dell’agire amministrativo, dello sviluppo del suo territorio e della sua comunità.Specialmente nei piccoli comuni, sono molti i sindaci impegnati nella costruzione di una diversa cultura sociale e nella promozione di politiche di coesione sociale e sviluppo lo-cale. Questi Sindaci sono impegnati attivamente nella costruzione di identità produttive e politico-culturali che consentono di realizzare politiche municipali di sviluppo locale, di volta in volta, indirizzate a:> garantire la tenuta residenziale e occupazionale anche attraverso la promozione

dell’autoimprenditorialità e delle attività di integrazione di reddito;> garantire l’accesso ai servizi anche attraverso l’infrastrutturazione telematica e la

diffusione della cultura informatica;> sperimentare nuove politiche di welfare community;> promuovere la certifi cazione del territorio e delle sue produzioni;> promuovere e certifi care reti di ospitalità diffusa;> potenziare il carattere di multifunzionalità delle attività economiche, con particolare

riferimento a quelle agricole e commerciali;

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E 08 > promuovere una maggiore qualità della progettazione edilizia e l’edilizia eco-

compatibile, gli interventi di risparmio energetico, l’utilizzo di fonti alternative;> promuovere la rivitalizzazione dei rapporti e dei servizi di vicinato;> promuovere iniziative imprenditoriali che mirano a recuperare il “saper fare” locale

nei diversi ambiti dell’artigianato artistico e tradizionale, delle produzioni alimentari tipiche, dell’ospitalità turistica, della fruizione e manutenzione del territorio;

> promuovere politiche culturali volte alla valorizzazione delle tradizioni e dei luoghi e delle strutture associative che le mantengono vive. .

Sempre più i sindaci interpretano il loro ruolo di sostegno allo sviluppo locale con il diretto investimento da parte delle Amministrazioni comunali in iniziative imprenditoriali, di valenza sia economico e sia sociale, che devono successivamente essere gestite da privati o attraverso la costituzione di società miste pubblico-private.Nei territori più marginali i comuni si sentono spessi chiamati a svolgere un ruolo di sup-plenza nei confronti di un’imprenditorialità privata che fatica ad emergere, o non emerge affatto, per mancanza di cultura imprenditoriale o a causa della scarsa redditività econo-mica di investimenti pensati per la loro prevalente funzione sociale.In Trentino la realizzazione dei patti territoriali ha dato forte impulso a tali investimenti con progettualità pubbliche riguardanti, ad esempio, la gestione imprenditoriale di aree protette, il recupero e la valorizzazione turistica di edifi ci di proprietà comunale, l’avvio di vere è proprie attività produttive di interesse collettivo, la gestione imprenditoriale di servizi alla comunità o fi nalizzati alla manutenzione del territorio o, ancora, a qualifi care l’offerta riservata ai turisti.Tale approccio delle amministrazioni si scontra però spesso con la mancanza di specifi -che competenze interne riguardanti: > la valutazione e attivazione del capitale sociale necessario alla realizzazione degli in-

terventi;> la conduzione di pratiche di animazione, di concertazione e di progettazione parteci-

pata; > la defi nizione di modelli istituzionali-societari di natura pubblico-privata, per la gestio-

ne delle azioni progettuali.Ecco che allora l’impresa sociale di comunità, in linea con le nuove esigenze dell’ente locale, rappresenta un prezioso bacino di competenze, capace di fare del welfare locale un fattore produttivo. In virtù della radicata presenza territoriale, della riconosciuta capacità di leggere le do-mande emergenti ed elaborare risposte innovative capaci di coniugare la dimensione sociale e la dimensione economica, le cooperative sociali si sono già ritagliate uno spa-zio signifi cativo nei servizi di welfare locale.D’altra parte, ed è l’aspetto su cui si concentra la presentazione dei casi nei successi capitoli, l’impresa sociale di comunità si sta proponendo per la capacità di elaborare progetti complessi di sviluppo e di welfare locale, intorno ai quali mobilitare partnership di attori pubblici, soggetti del credito, fondazioni, imprese profi t, università e centri di ricerca.

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08I casi presentati sono solo alcuni esempi di azione locale, non generalizzabili all’universo del sistema no profi t – trentino e italiano – che tuttavia esprimono una linea di sviluppo di particolare importanza ai fi ni del posizionamento futuro delle imprese sociali. Un ruolo che si gioca anche e soprattutto nella capacità di produrre, intorno a progetti con re-quisiti di fattibilità e credibilità, reti organizzative ben più ampie del tradizionale schema cooperativa sociale - amministrazione pubblica. In questo modello le imprese sociali di comunità si connotano anche come produttori di saperi e network appropriabili per nuovi scopi.È da questo punto di vista che l’impresa sociale di comunità, appare in grado di fare valere la consolidata attitudine a tradurre pratiche sociali in disegno istituzionale, in crea-zione intenzionale di nuovi rapporti societari. Si tratta di una risorsa preziosa, da rilancia-re oltre la comunità locale, per farne un modello di infrastrutturazione sociale adeguato ai tempi, adattabile attraverso reti nazionali di scambio di esperienza e di promozione, anche al altri contesti territoriali..Come è stato notato,17 il problema strutturale dell’Italia non consiste tanto nella scarsità di risorse sociali (di capitale sociale), quanto della capacità di esprimere un progetto di società ed un correlato disegno istituzionale appropriato alla modernizzazione del pae-se. Un disegno che, lungi dall’essere elaborato dall’alto, deve al contrario fondarsi su saperi che si alzano dal territorio (magari anche da un piccolo comune di montagna) ed innervano i corpi intermedi in crisi della società e delle istituzioni.È questa l’opportunità e la sfi da dell’impresa sociale di comunità.

17 A. Bagnasco, “Società fuori squadra”, Il Mulino, Bologna 2003.

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2. I casi

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081. Carzano: la Famiglia Cooperativa come strumento di coesione sociale

Il mantenimento delle reti minute che consentono di fare comunità è uno dei principali ambiti di intervento delle imprese sociali che operano nei piccoli comuni di montagna. Sono diverse le piccole realtà trentine che vedono la chiusura dei servizi commerciali di vicinato. A causa di processi migratori o di pendolarismo verso aree di maggiore con-centrazione di funzioni produttive e di servizi, questi esercizi commerciali vedono ridotta la loro attività. È questo anche il caso di Carzano un piccolo comune di 500 abitanti della Valsugana orientale. La Valsugana orientale, da Roncegno ad Ospedaletto, costituisce un territorio abba-stanza omogeneo caratterizzato da piccoli comuni collocati a mezza costa che gra-vitano attorno al centro di Borgo Valsugana, in cui si concentrano le principali funzioni produttive e terziarie della valle. Lo sviluppo industriale del fondovalle, caratterizzato dalla presenza di piccole e medie imprese, ha condizionato il modello di sviluppo del territorio, ed in particolare di questi piccoli comuni, determinando fl ussi di pendolarismo giornaliero verso le imprese del fondovalle ed una mancata diversifi cazione dell’econo-mia di questi paesi nei settori dell’agricoltura e del turismo.In molti comuni del Trentino la funzione commerciale è garantita dalla presenza delle Famiglie Cooperative che si trovano spesso ad operare in una situazione di scarsa red-ditività economica, pur fornendo un fondamentale servizio sociale: ed è proprio questa la situazione da cui prende avvio la sperimentazione condotta a Carzano nell’ambito del progetto Equal Restore.Il modello progettuale adottato ed il tipo di impresa sociale di comunità che ne conse-gue, può risultare un modello replicabile e facilmente adattabile per sostenere le attività dei punti vendita delle cooperative nelle zone svantaggiate. L’idea di fondo è che i circa 200 punti vendita cooperativi che attualmente presidiano i piccoli comuni trentini e han-no diffi coltà a raggiungere la sostenibilità economica, anziché chiudere, possano trovare un modello di sostenibilità diversifi cando i servizi erogati alla comunità locale.L’intervento nasce originariamente dall’esigenza del Comune di Carzano e della Famiglia Cooperativa Bassa Valsugana di comprendere i motivi della scarsa frequentazione del punto di vendita della cooperativa. Si trattava, in particolare, di individuare le cause e le alternative per evitare la chiusura del punto di vendita e le inevitabili conseguenze che si sarebbero prodotte sul sistema di vita - lavoro - servizio nel paese, collegate a questo potenziale evento.Il rischio di chiusura del punto di vendita e la situazione di fragilità della rete di relazioni sociali amicali e di aiuto reciproco stavano confi gurando sempre più l’atmosfera della comunità di Carzano in quella di un paese dormitorio.Questa situazione di disagio ha fatto incontrare, grazie all’intervento della Federazio-ne Trentina della Cooperazione, la forte sensibilità dell’Ente Comunale e della Famiglia Cooperativa con il progetto Equal Restore. Fra l’amministrazione comunale e la Famiglia cooperativa esisteva già un rapporto di collaborazione: il comune di Carzano, consape-vole dell’importanza di mantenere attivo il punto vendita, aveva già cercato di aiutare la

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E 08 Famiglia Cooperativa concedendole il locale gratuitamente e facendosi carico dei costi

di luce e di riscaldamento. La prima azione dell’intervento ha visto il coinvolgimento delle associazioni che già ope-ravano nel comune di Carzano, nello specifi co: il Gruppo Alpini, i Vigili del fuoco volonta-ri, l’Associazione donne di Carzano, il Gruppo amici della montagna, il Gruppo anziani e pensionati. L’azione ha coinvolto anche un gruppo di giovani del paese.Dopo alcuni incontri che hanno visto la partecipazione dell’assessore comunale alla cultura, del direttore della Famiglia Cooperativa e delle associazioni di volontariato, si è capito che il problema del punto vendita si inseriva all’interno di un più ampio ragiona-mento sullo sviluppo del Comune di Carzano. Pertanto l’obiettivo è stato orientato all’in-dividuazione di risorse locali capaci di dare vita ad un centro aggregativo e multi servizi che consentisse una frequentazione del punto vendita, non solo per la spesa quotidiana, ma anche per altre attività. L’obbiettivo di mantenere il servizio commerciale era il fattore chiave per avviare il con-fronto fra bisogni e disponibilità dei soggetti individuali e collettivi di Carzano, per avviare un processo partecipativo e per accertare se la comunità era disponibile ad investire e ad impegnarsi in funzione dei propri stessi bisogni.Come in tutti gli interventi di sviluppo locale la fase di concertazione sugli obiettivi del-l’intervento, è quella che ha mostrato le maggiori diffi coltà e che ha richiesto il maggiore impegno da parte del gruppo promotore. Si è trattato, infatti, di vincere una certa inerzia delle associazioni ad incontrarsi e collaborare, proprio per la chiusura di fondo che ca-ratterizzava il vissuto nella comunità.Un fatto importante è stato l’inserimento dell’intervento nell’ambito del progetto Equal Restore che ha permesso di superare molte diffi denze rispetto alle attività e agli impegni che si andava proponendo durante le fasi di incontro. Il fatto di collocare l’iniziativa in un progetto di interes-se europeo è stato l’elemento che ha permesso di superare l’individualismo e di formare un gruppo di interesse locale che fungesse da contenitore, in cui unire le diversità in nome dello sviluppo di un’impresa sociale di comunità. Un ulteriore importante fattore di legittimazione dell’intervento è stato il fatto che i contenuti della proposta e la metodologia impiegata sono stati presentati all’Assessorato Provinciale alla Cooperazione che si è dichiarato interessato a sostenere la prosecuzione della sperimentazione.L’impresa sociale di comunità è stata proposta alle locali associazioni con una moda-lità partecipativa ed organizzativa nella quale ciascuno poteva cogliere l’occasione in cui sperimentare nuove formule di partecipazione allo sviluppo della comunità. Il primo importante risultato raggiunto è stato quello di far uscire dall’individualità le associazioni convincendole a lavorare in una logica di gruppo per lasciare spazio a nuove relazioni capaci di far emergere e circolare le esperienze, ma anche creare un peso specifi co diverso in termini di capacità di azione. In questa logica un ruolo particolarmente impor-tante lo ha assunto il tema della responsabilità. Responsabilità di tutti gli attori, compresi i cittadini, che sono i primi utenti/operatori dei servizi offerti dall’impresa sociale di co-munità, proprio perché l’animazione socio economica e culturale della propria comunità è un patrimonio di tutti.

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08Grazie al concetto di impresa sociale di comunità è stato possibile coinvolgere gli abitanti di Carzano nella realizzazione delle attività, che loro stessi hanno indicato in un apposito questionario, e promuovere la sperimentazione di forme di reciprocità e solidarietà tra i cittadini per migliorare la qualità della loro vita nel paese.Per l’elaborazione e diffusione del questionario, incentrato sui bisogni e sulle disponibi-lità della comunità, è stata fondamentale la collaborazione del gruppo giovani, tra cui vi erano diversi laureati. Su 150 nuclei famigliari intervistati 62 si sono dichiarati disponibili a svolgere lavoro di volontariato, mentre altri 21 si sono dichiarati disponibili a contribuire fi nanziariamente all’iniziativa. Sulla base delle indicazioni dell’indagine condotta presso la cittadinanza, è stata avviata la sperimentazione di nuovi servizi che la famiglia cooperativa offre con il contributo della stessa comunità e che sono relativi: alla creazione della “banca di mutuo aiuto” che consente la gestione organizzata delle attività di volontariato realizzate a livello locale, all’apertura di un punto di aggregazione culturale, alla realizzazione di attività per bam-bini, ragazzi e anziani.Sulla base della proposta di un consulente esterno, che ha individuato la forma giuridica e le modalità operative più adatte al funzionamento dell’impresa, le associazioni e la cit-tadinanza sono stati coinvolti anche nell’elaborazione dello statuto dell’impresa sociale di comunità.La progettazione operativa dell’intervento ha reso necessario il ricorso a diverse com-petenze esterne. Uno dei temi chiave dell’impresa sociale di comunità è, infatti, quello di coniugare la logica dell’agire sociale con specifi che competenze e professionalità che spesso non sono patrimonio degli operatori.Per la messa a punto delle proposte educative è stata coinvolta un’esperta dell’area infanzia e adolescenza del Consorzio delle Cooperative Sociali Trentine (Con.Solida).Per l’attivazione del centro culturale si è ricorsi alla consulenza de il “Sistema Cultura Valsugana” che si è dichiaro disponibile anche a fornire gli arredi e la strumentazione tecnologica, necessari al funzionamento e alla gestione della “banca del mutuo aiuto”.Per la necessaria formazione sulle attività di gestione, organizzazione e implementazione dei servizi dell’impresa si è ricorso al sostegno specializzato di una formatrice e coacher (per far sperimentare sul campo le conoscenze acquisite in fase di formazione) che ha affi ancato e sta tuttora affi ancando:> la manager di comunità, per sviluppare in via principale le competenze indispensabili

a creare reti relazionali per la costruzione, la promozione e la gestione dell’impresa;> l’addetta della Famiglia Cooperativa che gestisce lo sportello di accesso ai servizi

dell’impresa;> i membri delegati del comitato di gestione dell’impresa per migliorare la loro capacità

direttiva e gestionale e per dotarli di strumenti agili di individuazione e formulazione degli obiettivi operativi correlati agli obiettivi strategici per sostenere e far procedere il progetto.

La realizzazione di un bollettino informativo ha consentito di raggiungere e coinvolgere un numero maggiore di persone. Questo strumento permette, infatti, di mantenere attivo

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E 08 l’impegno delle associazioni e l’attenzione della comunità di Carzano sulla possibilità

di utilizzare sia i servizi culturali e ricreativi organizzati dall’impresa, sia di interagire nel-l’ambito della “banca del mutuo aiuto” dando a tutti i cittadini l’opportunità di donare del tempo a chi ne ha bisogno e/o di soddisfare proprie specifi che esigenze attraverso l’aiuto di altri membri della comunità.Oggi gli abitanti di Carzano, attraverso le associazioni, il bollettino di informazione e lo sportello hanno la possibilità di essere coinvolti sempre di più e quindi diventare i veri protagonisti del funzionamento dell’impresa. Lo stesso Comune di Carzano ha maturato la consapevolezza che un simile modo di procedere offre un mezzo nuovo di gestire e indirizzare le risorse della comunità verso il soddisfacimento di bisogni sociali che l’ente locale, da solo e con risorse scarse, non riuscirebbe ad affrontare. L’intervento ha fa-cilitato i contatti tra i soggetti della comunità e rinforzando i legami sociali in generale. Questo è anche riscontrabile nell’incremento di fatturato del punto vendita della Famiglia Cooperativa aumentato del 30% e dovuto alla maggior frequentazione del punto vendita da parte degli abitanti di Carzano. Attualmente è in corso un’apertura dell’operatività dell’impresa sociale di comunità anche verso i comuni limitrofi , con i quali possono es-sere studiate iniziative di comune utilità.

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082. Trento Nord: il catering multietnico

In Trentino non si individuano particolari contraddizioni sociali legate al fenomeno dell’ espansione metropolitana, perlomeno non con l’intensità riscontrabile in altre aree del Paese. Vi sono comunque aree, prevalentemente concentrate lungo la Valle dell’Adige, che in anni recenti hanno vissuto un consistente processo di espansione edilizia ed in cui si manifestano le tipiche problematiche indotte dalla concentrazione di fl ussi e dalla perdita di identità e coesione sociale.Una di queste aree è la zona di Trento Nord caratterizzata dalla forte concentrazione di funzioni terziarie, zone produttive, grandi infrastrutture e poli della logistica ed in cui la funzione residenziale è cresciuta senza identità. La forte densità dell’edifi cazione, l’ele-vata presenza di stranieri, l’alta mobilità residenziale non hanno consentito l’innescarsi di meccanismi di prossimità e di vicinato. Il tessuto sociale risulta di conseguenza parec-chio frammentato e il tasso di disoccupazione femminile elevato.L’intervento del progetto denominato Infusione è stato motivato – più che in altri casi – dal contesto (territoriale e politico) che non dall’oggetto del progetto (imprenditoriale). Vi era, infatti, una chiara volontà espressa dall’Assessorato alle politiche sociali del Co-mune di Trento, di intervenire in quest’area, considerata una delle località più deboli e con più diffi coltà della città.Si è pertanto deciso di agire sulla base di queste motivazioni, cogliendo l’occasione offerta da Equal Restore, per attivare un intervento che prevedesse il coinvolgimento delle donne disoccupate immigrate, residenti a Trento nord. Gli obiettivi posti alla base della sperimentazione erano due: contribuire alla crescita dell’occupazione femminile e migliorare le forme di convivenza sul territorio. Se il primo obiettivo poteva trovare uno strumento nella creazione di un’impresa sociale di comunità ed in una specifi ca politica occupazionale, il secondo obiettivo si presentava più complesso da perseguire, perlo-meno nel breve periodo. L’intervento è partito senza una specifi ca idea di business, su cui coinvolgere le po-tenziali utenti. Si è quindi iniziato coinvolgendo le donne della zona – con il supporto dei poli sociali, delle circoscrizioni e degli organismi comunali – per capire quali erano le loro potenzialità, le loro esperienze, i loro desideri per poi, successivamente, avviare un’attività. Inizialmente il confronto è stato particolarmente complicato soprattutto per le diverse culture di provenienza delle donne. È comunque emersa una prima idea di attività che coincideva con l’opportunità di costituire un’impresa multiservizi che avesse il proprio core business nella ristorazione multietnica. Questo servizio sarebbe poi stato affi ancato da un servizio di carattere culturale individuato, sempre sulla base delle esigenze delle donne, nella realizzazione di una biblioteca con testi in lingua originale.L’idea di progetto ha potuto appoggiarsi a diverse competenze già presenti nel circui-to della cooperazione trentina, in particolare si è venuta a creare una partnership con l’esperienza Barycentro della cooperativa Samuele che nel 2005 aveva già dato vita ad un esperimento di pubblico esercizio abbinato ad un’attività di prevenzione primaria.

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E 08 Una volta individuata l’idea imprenditoriale una delle questioni da risolvere immediata-

mente era quello della localizzazione della sede fi sica in cui svolgere l’attività. Da un incontro avuto con il presidente della locale circoscrizione era emerso che c’era in zona un complesso ITEA (Istituto trentino per l’edilizia abitativa) di circa 90 nuclei abi-tativi, per un’utenza di più di 200 persone, che stava per essere ultimato. Le dimensioni della struttura costituivano un’opportunità d’insediamento, anche alla luce del fatto che nelle immediate vicinanze non erano presenti servizi di ristorazione. Per cui sono iniziate le trattative con ITEA. ITEA stava vivendo un periodo di grandi cambiamenti: da istituto pubblico si stava tra-sformando in Società per Azioni, quindi non sapeva ancora se e quanto poteva investire in un progetto di rilevanza sociale. Il dialogo è comunque proseguito ed il progetto è attualmente in attesa di sapere se gli sarà concesso questo spazio. Il contatto con ITEA ha comunque prodotto un primo importante risultato. L’istituto ha recepito con interesse l’idea di creare dei “servizi di prossimità”. Per il caso in questione si è concordato che la sede dell’impresa sociale di comunità possa funzionare come centro servizi ed informazione e fungere da luogo di mediazione di piccoli confl itti che possono emergere a livello condominiale. In tal senso è stata garantita la formazione di una persona che sarà in grado, almeno per un’ora al giorno, di fornire a tale scopo le sue competenze. L’idea si è concretizzata nella stesura di un protocollo di intesa fra ITEA, Con.Solida, Federazione Trentina della Cooperazione e Comune di Trento per riprodurre questo modello anche negli altri complessi residenziali ITEA.Nell’ attesa di una localizzazione defi nitiva, attualmente il progetto Infusione si appoggia alla cucina di Barycentro che è utilizzata come laboratorio. La progettazione dell’impresa ha, infatti, proseguito nel suo percorso. È stata avviata l’attività di formazione delle donne, sia riguardante la gestione di un’im-presa cooperativa – nessuna delle donne coinvolte ha delle competenze tecniche specifi che, quali la capacità di mantenere la contabilità, di utilizzare il computer ecc. – sia riguardante gli specifi ci aspetti della ristorazione, come ad esempio la normativa HACCP. Una delle donne, che aveva maggiore disponibilità di tempo sta attualmente conducendo uno stage di formazione lavoro presso Barycentro, con l’intento di portare le competenze acquisite all’interno della nuova impresa.Con le stesse donne, sono stati formulati diversi piani di impresa, uno dei quali è stato valutato da ISSAN (Istituto Studi Sviluppo Aziende Nonprofi t). Il business plan è stato in particolare incentrato su un servizio di catering per eventi medi e piccoli che presti attenzione alle varie esigenze alimentari (pasti multietnici, pasti vegetariani, piuttosto che privi di glutine, ecc.). Si è osservato, infatti, che i servizi di catering offerti nella provincia di Trento non prestano molta attenzione a queste specifi cità. Sono state realizzate alcune prime importanti esperienze di catering in occasione di eventi che hanno coinvolto dalle 30 alle 300 persone: il Festival dell’economia di Tren-to è stata una prima occasione di lavoro concreto, seguita da un servizio organizzato nell’ambito della Fiera Fa la cosa giusta. Il gruppo di donne della nascente impresa Infusione ha gestito l’attività di ristorazione con un buon riscontro di pubblico. Questo è

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08stato importante per testare la tenuta del gruppo di fronte ad un impegno pubblico e ha rafforzato e rinnovato la motivazione delle donne per questo progetto.A fronte di un iniziale coinvolgimento di 15 donne di diverse nazionalità il gruppo è at-tualmente è attualmente composto di 7 donne prevalentemente di origine africana: sia musulmane, sia cattoliche. Il gruppo si presenta coeso, tra loro parlano in francese. An-che la determinazione è buona, l’idea di incentrare il progetto sulla preparazione di pasti caldi e sul servizio di catering è nata sulla base dei loro desideri e delle loro esperienze, di conseguenza sono abbastanza identifi cate in quello che è lo spirito del progetto. Spesso però sono mortifi cate a causa dei tempi di realizzazione. A ciò si deve l’alto tasso di abbandono iniziale. La tempistica burocratica per dar vita all’iniziativa impren-ditoriale non si concilia con la tempistica delle donne, che vedono in questo progetto un’importante possibilità di lavoro e di integrazione sociale.

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E 08 3. Giudicarie: fare coalizione per costruire il distretto dell’economia sociale

Sono molte le analogie tra il concetto di distretto industriale, che ha innervato lo svilup-po economico del nostro Paese, ed il concetto di distretto sociale. Il termine “distretto” rimanda ad una capacità di lavorare in rete – non solo tra imprese – e di impostare stra-tegie intenzionali di sviluppo condiviso su base territoriale. Il concetto di distretto sociale trova in Italia un importante riferimento nella legge 328/2000 che sancisce l’importanza di un’altra dimensione dell’azione pubblica in campo sociale: quella relativa all’assetto istituzionale ed organizzativo del “sistema integrato di interventi e servizi sociali”. All’interno di questo quadro evolutivo gli enti locali sono oggi chiamati ad esercitare funzioni di progettazione, programmazione e realizzazione dei servizi so-ciali in rete, indicando priorità e ambiti di innovazione sulla base di indicazioni e pratiche concertativo-coalizionali provenienti, tra l’altro, da organismi non lucrativi di utilità socia-le, dalla cooperazione, dal volontariato che insistono su un determinato territorio.L’impresa sociale è oggi impegnata a sviluppare competenze di ricerca-azione, anima-zione, concertazione, progettazione che esulano – almeno in parte – dai tradizionali mo-delli operativi e di relazione, per assumere il più complesso ruolo di meta-organizzatore dei fattori contestuali di sviluppo di un territorio. Si tratta di superare la dimensione di un rapporto esclusivo con l’ente pubblico, come orizzonte all’interno del quale si possano attivare politiche sociali, per aprirsi ad una dimensione di rete più ampia, che raccolga tutti i referenti ed i portatori di interesse, a partire dagli utenti, dai lavoratori, dalle impre-se, dai soggetti della rappresentanza. Incrociare il concetto di distretto produttivo con il concetto di distretto sociale non è semplice. Si tratta di costruire un rapporto con l’impresa – in particolare la piccola im-presa – che spesso vive la dimensione della cooperazione sociale come un concorrente sovvenzionato con risorse pubbliche. Lo stesso avviene con le imprese di maggiori di-mensioni che spesso riducono il concetto di social responsabity ad una semplice que-stione di marketing e di immagine aziendale.A recuperare il rapporto con le imprese e con il territorio, in un’ottica di concertazione, ci hanno provato nelle Giudicarie, un territorio della provincia di Trento che, anche in virtù della vicinanza con i distretti della pedemontana lombarda, è oggi caratterizzato da una consistente presenza di piccole e medie imprese manifatturiere ed in cui il vitalismo delle amministrazioni locali ha favorito il diffondersi di una cultura coalizionale applicata anche alle politiche sociali.I soggetti promotori della sperimentazione Equal Restore nelle Giudicarie sono un grup-po di imprese sociali che già da alcuni anni hanno avviato un processo di forte avvi-cinamento e confronto, non solo sul piano “societario” e della “gestione d’impresa”, ma anche sul tema trasversale del lavoro per i disabili e per le persone in situazione di grave marginalità sociale. Si tratta di tre cooperative sociali (due cooperative di tipo A – il Bucaneve e l’Ancora – ed una cooperativa di tipo B – Lavori in Corso –) aderenti a Con.Solida e di un’associazione di famiglie con problemi di handicap e disagio sociale (Comunità Handicap).

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08Il progetto Equal Restore ha rappresentato l’occasione per formalizzare gli stretti rap-porti di collaborazione tra queste quattro realtà che si sono unite nel consorzio “Impresa Solidale soc. coop. a r.l. “ che, fra l’altro rappresenta la prima esperienza trentina di costituzione di un consorzio tra imprese sociali a base territoriale.Questa confi gurazione consortile ha rafforzato il processo di elaborazione di politiche sociali sul territorio producendo una mappatura dei servizi esistenti e raccogliendo e le buone pratiche in uso sul territorio delle Giudicarie. Ciò ha consentito anche di rafforzare il livello di interlocuzione con il tradizionale referente pubblico, in primo luogo le ammi-nistrazioni locali, ma non solo: con l’Agenzia del Lavoro è stato realizzato un percor-so formativo per migliorare il collocamento di persone con problematiche psichiatriche iscritte alla legge 68/99 (progetto “Azioni in rete”); con l’Istituto d’Istruzione Don Guetti è stato realizzato un progetto per la formazione degli adulti in ambito di impresa sociale; con il Comprensorio C8 è stato condiviso il percorso dell’Accountability; nell’ambito di Equal Restore è stata realizzata inoltre una formazione specifi ca sull’impresa sociale di comunità. L’allargamento dei rapporti di collaborazione ha coinvolto anche le Banche di credito cooperativo del territorio che hanno sostenuto l’avvio di nuovi servizi. Con uno di questi servizi, denominato Promojob, è stato possibile far partire 6 tirocini in azienda tre dei quali (che hanno coinvolto due giovani e un adulto) hanno avuto come esito l’assunzione (nel magazzino di una cooperativa di consumo, in una fabbrica, in un istituto scolastico).Il lavoro di elaborazione e di creazione di reti territoriali ha cominciato a delineare sul territorio delle Giudicarie una microfi liera attraverso la quale una persona in diffi coltà può essere accompagnata verso il lavoro. Questa offerta si struttura in cinque macro-aree principali, che rappresentano il tentativo di rispondere ai principali bisogni delle persone nel percorso verso il lavoro: autonomia personale e educazione-orientamento al lavoro, formazione delle pre-competenze lavorative, occupazione e inserimento lavorativo in cooperativa B, accompagnamento in azienda ordinaria, mantenimento del posto di lavoro in azienda ordinaria. Nel corso del 2007 questo micro-sistema locale di servizi ha coinvolto oltre centosettanta persone svantaggiate, un centinaio delle quali sono state occupate all’interno di cooperative di tipo B.La sempre maggiore ricerca di effi cacia nell’applicazione di tale modello, soprattutto in termini di fl essibilità e di personalizzazione degli interventi, ha imposto la necessità di allargare la platea degli interlocutori, con particolare riferimento al mondo delle imprese profi t e delle loro rappresentanze. Si è evidenziata, in sostanza, l’opportunità di promuovere un patto all’interno del territorio per fare in modo che lo stesso, nella sua complessità, sia in grado di assumersi una comune responsabilità rispetto ai percorsi di inclusione socio-lavorativa delle persone più deboli. A tal fi ne è stato organizzato, dopo una serie di iniziative più ristrette (per es. tavole ro-tonde o incontri individuali), un seminario locale intitolato “Impresa Sociale di Comunità per l’inclusione socio-lavorativa” che ha visto la partecipazione delle realtà implicate nelle attività di inserimento lavorativo e del mondo dell’impresa profi t.In tale occasione è stato presentato il ruolo assunto dalle imprese sociali del territorio, e

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E 08 in particolare, il percorso di innovazione intrapreso, ed è stata lanciata la proposta di una

“Intesa di comunità a sostegno dell’inclusione socio-lavorativa di persone svantaggiate e deboli nelle Giudicarie”. L’intesa è fi nalizzata a creare nelle Giudicarie una rete territo-riale stabile a sostegno dell’inclusione socio-lavorativa di persone svantaggiate e deboli, contribuendo ad:> intensifi care lo scambio di informazioni; > qualifi care ulteriormente le risorse professionali ed organizzative impegnate sul fronte

dell’inclusione socio-lavorativa;> mettere a disposizione opportunità (ad es. tirocini e distacchi assistiti in azienda,

commesse a cooperative sociali, posti di lavoro) funzionali ai bisogni di orientamento, formazione e inserimento lavorativo;

> ricercare e verifi care insieme l’applicazione di strumenti di intervento innovativi (dal punto di vista normativo, ma non solo) che possano offrire percorsi di inclusione so-cio-lavorativa sostenibili anche da persone con bisogni molto specifi ci;

> creare nuove opportunità di inserimento lavorativo anche sperimentando forme di collaborazione e integrazione – soprattutto tra cooperative sociali di tipo B e aziende private – su progetti (comuni o compartecipati) di sviluppo imprenditoriale.

Anche la Provincia Autonoma di Trento ha condiviso questa intesa di comunità, promuo-vendo l’attivazione degli istituti previsti dalla Legge Provinciale 27 luglio n.13 (Politiche sociali nella provincia di Trento) che sono fi nalizzati in particolare a:> rafforzare il rapporto tra politiche sociali e politiche di sviluppo locale, evidenziando

che le politiche sociali non sono “politiche improduttive”, ma sono “investimenti socia-li” strategici che contribuiscono a sostenere lo sviluppo del sistema socio-economico locale;

> incentivare la nascita di distretti dell’economia solidale quali luoghi di incontro e di col-laborazione, anche economica, tra i soggetti che operano nel settore dei servizi alla persona e dell’inserimento lavorativo per defi nire percorsi di recupero dell’autonomia delle persone in diffi coltà, attraverso la valorizzazione delle loro capacità lavorative;

> sperimentare tra diversi attori del territorio (non solo tra imprese sociali) nuovi stru-menti di coordinamento organizzativo e di individuazione condivisa delle soluzioni.

La discussione seguita alla proposta di intesa ha evidenziato la necessità di potenziare l’attenzione ai fabbisogni del sistema produttivo locale, ricercando modalità di maggiore integrazione delle cooperative di tipo B nell’ambito delle fi liere produttive locali e di inserimento dei soggetti svantaggiati nell’ambito delle aziende.Ed è su tale questione che oggi si gioca il futuro delle attività avviate nelle Giudicarie, ovvero sul superamento della distinzione tra politiche di integrazione sociale e politiche di promozione economica.L’evoluzione del progetto prevede il consolidamento e l’implementazione del modello coalizionale. In tale quadro si auspica, coerentemente con gli obiettivi di Equal Restore, la costituzione di un’impresa sociale di comunità, cui aderiscano enti locali e rappresentanze del mondo dell’impresa, operante sui temi del sostegno dell’inclusione socio-lavorativa di persone svantaggiate e deboli.

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084. Lavis: l’impresa sociale nella fi liera hard della subfornitura manifatturiera

L’operatività delle imprese sociali non si esprime solo nelle fi liere soft create dall’ester-nalizzazione di funzioni da parte dall’ente pubblico, ma anche nella fi lera hard della su-bfornitura manifatturiera.La cooperativa Primavera è una cooperativa di tipo B che negli ultimi anni ha lavorato sull’offerta di servizi diversi, in particolar modo servizi di pulizia e manutenzione dell’am-biente. Ma l’ambito di attività che forniva le maggiori prospettive di sviluppo era il rappor-to di produzione conto terzi che la cooperativa ha instaurato con un’impresa francese, leader nel settore degli impianti di climatizzazione dell’aria. L’attività consisteva nell’as-semblaggio dei componenti che costituiscono le pompe dei condizionatori d’aria.All’interno della fi liera di produzione la cooperativa non ha mai avuto delle commesse costanti, ma ha sempre subito l’andamento generale del mercato e le pressanti richieste connesse ai picchi di produzione.Pur sempre all’interno della logica della subfornitura, la cooperativa ha oggi accettato la sfi da della crescita: aumentare il livello qualitativo e quantitativo della produzione ri-chiesta dal committente. Per la cooperativa questo rappresenta un importante salto di qualità.Oggi la subfornitura, specialmente in alcuni settori come la meccanica, non è più la su-bfornitura dipendente di qualche hanno fa, in cui l’impresa committente esternalizzava la semplice esecuzione di una particolare fase del ciclo produttivo. Le imprese commit-tenti che svolgono il ruolo di leader di fi liera sono oggi impegnate a ridefi nire il proprio posizionamento competitivo, hanno quindi bisogno di trovare dei partner stabili e qua-lifi cati capaci di collaborare nei loro processi di innovazione e di internazionalizzazione. Sempre più le imprese di subfornitura assumono un ruolo attivo e propositivo all’interno della fi liera, svolgendo funzioni importanti nelle fasi di progettazione, industrializzazione, commercializzazione del prodotto. Fasi che implicano l’utilizzo di competenze e codici di scambio complessi. È questa la sfi da assunta dalla cooperativa PrimaveraCon l’aiuto di Trentino Sviluppo SpA, di Cooperfi di e di Con.Solida, che hanno messo a disposizione risorse, tecnologie, competenze e reti di relazione, la cooperativa è riuscita ad acquisire un capannone in zona industriale a Lavis. La produzione è iniziata da circa 4 mesi, e i dipendenti stanno aumentando: attualmente sono 15. La cooperativa non utilizza tutta la metratura del capannone per cui sta cer-cando di capire se è in grado di aumentare la produzione, diversifi cando la committenza all’interno del settore. Attualmente la cooperativa opera in un rapporto di monocomit-tenza, ma sta cominciando a valutare la possibilità di produrre anche per altre aziende.Il progetto Equal Restore sta aiutando la cooperativa ad aumentarne i livelli di specializ-zazione produttiva attraverso l’acquisizione di competenze e tecnologie, ad aumentare il numero di inserimenti lavorativi che la cooperativa può effettuare, a crearsi un mercato più stabile inserendosi nelle fi liere della meccanica che, anche in Trentino, hanno dato origine a sistemi locali di forte specializzazione produttiva.Equal Restore li sta aiutando a ragionare sul proprio duplice ruolo di impresa conto-

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E 08 terzista e di impresa sociale, e quindi a selezionare quelle che sono le cose giuste che

permettono di effettuare poi degli inserimenti lavorativi.Le cooperative sociali hanno oggi bisogno di trovare nuovi ambiti per poter effettuare degli inserimenti lavorativi. Vi sono alcuni ambiti classici, quali la manutenzione ambien-tale, il verde, la custodia che sono ormai molto standardizzati ed in cui cominciano a manifestarsi delle diffi coltà relazionali, anche fra le varie associazioni di categoria. Di conseguenza risulta fondamentale diversifi care l’offerta delle cooperative. Il consolidamento e l’evoluzione delle fi liere produttive rappresenta un importante pro-cesso nell’ambito delle nostre economie locali. Una recente ricerca di Unioncamere-Mediobanca descrive la realtà italiana come un “capitalismo a grappolo”, fatto di 4.000 medie imprese italiane che si globalizzano, pur mantenendo un forte radicamento nei territori distrettuali di origine. Queste medie imprese aggregano 140.000 piccole imprese e imprese artigiane presso cui esternalizzano l’81% dei prodotti e dei servizi di cui hanno bisogno.Fino ad oggi, l’industria e le fi liere manifatturiere non sono mai state prese in considera-zione dalle imprese sociale, perlomeno nella realtà trentina. Sono poche le cooperative che riescono ad avere queste alzate di ingegno e a collocarsi in questo settore di produ-zione, sia per i forti livelli di investimento richiesti, sia per le competenze necessarie. Una di queste è, ad esempio, la cooperativa Alpi di tipo B che lavora per la Zobele, im-portante impresa del settore legno. La cooperativa Alpi sta gestendo un intero settore dell’impresa nel ciclo di produzione dei serramenti. Attualmente in questa cooperativa sono occupate 30 persone di cui 10 svantaggiate. La cosa è molto impegnativa in quan-to la Zobele vuole che le cose siano fatte bene e subito. Altro problema che le cooperative di B devono affrontare è la necessità di collegarsi in rete, tra di loro e con le altre imprese delle fi liere territoriali. Una soluzione in tal senso potrebbe essere quella di creare una struttura consortile che permetta alle cooperative di entrare nel mercato e in rapporto con nuovi committenti, di integrarsi nella produzione scambiandosi commesse e diversifi cando le rispettive specializzazioni, di supportarsi negli inserimenti lavorativi.Obiettivo della sperimentazione Equal Restore è l’ulteriore aumento della produttività della cooperativa Primavera come opportunità per aumentare gli inserimenti lavorativi. Ma è anche l’occasione per cominciare a ragionare sul possibile ruolo dell’impresa so-ciale nella fi liera hard della subfornitura manifatturiera.

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085. Tres: l’autosuffi cienza energetica di una piccola comunità

Mutualismo non signifi ca solo occuparsi degli ultimi. La mutualizzazione dei bisogni può anche riguardare la comune gestione di beni primari necessari alla vita e allo sviluppo di una comunità. Del resto, nel corso del’900 il municipalismo – inteso come cultura della solidarietà – si dotava delle municipalizzate come di un welfare aggiuntivo: producevano servizi per i cittadini ed erano anche grandi calmieratori dei prezzi e del mercato occu-pandosi di beni primari comuni come i trasporti, l’acqua, la luce, il gas, i mercati e le farmacie comunali. Le municipalizzate sono oggi destinate a sparire. Inglobate nei gran-di processi di aggregazione e privatizzazione hanno perso il legame con la dimensione locale e si sono trasformate in grandi multiutilities che competono sui mercati globali dell’acqua e dell’energia.Negli ultimi anni – complice la crisi energetica ed ambientale – si afferma però anche un nuovo modello di municipalismo consapevole e solidale. Sono sempre di più le piccole comunità che, con il sindaco in testa, cercano di riaffermare un proprio protagonismo fondato sui principi dell’autosuffi cienza energetica locale e della gestione sostenibile delle risorse ambientali.Le tecnologie di produzione e trasformazione dell’energia consentono oggi rendimenti sempre più elevati e tendono a neutralizzare i vantaggi dei grandi sistemi centralizzati, mentre le tecnologie di gestione “intelligente” del territorio e delle abitazioni, tendono a modifi care il bilancio energetico in favore di fonti energetiche locali. Si afferma un model-lo decentrato basato sugli impianti di piccole dimensioni e sulle reti locali. In Trentino sono molte le Amministrazioni comunali, in particolare le più piccole e de-centrate, che recuperando e innovando la vecchia tradizione dei consorzi elettrici locali, hanno investito sia dal lato della produzione di energia da fonti alternative (mini-hydro, fotovoltaico, biomassa,…) sia dal lato del risparmio energetico. Tres, un piccolo comune di 700 abitanti della Val di Non è una di queste realtà. Tres è un comune di montagna a vocazione agricola che negli ultimi anni ha avviato un processo di parziale riconversione della propria economia verso un modello di turismo diffuso e sostenibile fortemente integrato nel tessuto agricolo. Dal punto di vista inse-diativo Tres è caratterizzato da un centro storico in cui sono concentrate la quasi totalità delle abitazioni. L’ampia estensione boschiva presente nel comune è gestita secondo le tradizionali regole comunitarie degli usi civici. La struttura agricola è caratterizzata dalla coltivazione della famosa mela della Val di Non, la cui produzione è conferita al sistema cooperativo Melinda. L’artigiano si è sviluppato principalmente all’interno della fi liera del legno con forti integrazioni sia con il settore edile, sia con quello agricolo.Oggetto della sperimentazione, condotta da Equal Restore, con il supporto tecnico del Consorzio cooperativo Ambiente e Lavoro, è la realizzazione di un impianto di teleriscal-damento a biomasse che fornisce energia pulita agli utenti dell’abitato di Tres.L’opportunità di tale intervento nasce dalla sensibilità dimostrata dall’Amministrazione comunale, che già in passato ha realizzato un piccolo impianto di teleriscaldamento per

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E 08 soddisfare le necessità energetiche degli edifi ci comunali alimentato con la biomassa

proveniente dagli scarti delle lavorazioni della segheria del paese. Ma l’elemento deter-minate è legato al fatto che il comune non è metanizzabile. La sua localizzazione peri-ferica lo pone all’esterno dell’anello di distribuzione del gas metano previsto dal piano provinciale. Attualmente, per soddisfare le esigenze di riscaldamento e di acqua sanitaria, la popola-zione fa ricorso principalmente all’uso del gasolio e, come da tradizione in questi luoghi, all’utilizzo della legna, sia per caldaie che focolari domestici. Questi sistemi hanno però effi cienze più basse rispetto ai sistemi centralizzati e sono molto più inquinanti. Sosti-tuire queste due forme di produzione di energia con un impianto di teleriscaldamento a biomassa centralizzato è la soluzione ottimale per dare risposta ai fabbisogni energetici locali, con una considerevole riduzione sia dei consumi di energia fossile (533 TEP), sia delle emissioni di anidride carbonica in atmosfera (1.596 ton).Una tradizione consolidata in uso in Trentino è quella delle “sorti” o “parti” di legna. A chi ne fa richiesta il comune destina una parte del legname cresciuto come legna da ardere in una particolare particella del bosco comunale. Ancora oggi, molti quintali di legna sono destinati a questo utilizzo, ma tale tradizione faticherà probabilmente a trovare una continuità con le nuove generazioni. Si presenta quindi l’opportunità di dirottare questa biomassa, con maggiori economie di scala, nel nuovo impianto di teleriscaldamento.È previsto che il recupero di materiale organico avvenga nell’ottica di sviluppare l’inseri-mento lavorativo per le persone deboli. La produzione di energia rappresenta, infatti, un ambito molto interessante dal punto di visto occupazionale di soggetti deboli che, op-portunamente accompagnati, possono essere coinvolti nelle attività di pulizia dei boschi, raccolta, lavorazione e conferimento dei materiali.Tali attività non riguardano solo la biomassa forestale: agli scarti del bosco si aggiungono i residui organici derivanti dalle coltivazioni. Il contadino una volta terminati, ad esempio, i lavori di potatura passa con la macchina trinciatrice e nel giro di 15 minuti ha tritato i rifi uti organici che possono essere valorizzati a scopo energetico. Si sta quindi ipotizzando un servizio di pulizia delle coltivazioni con la raccolta di materiale per alimentare la centrale. Tale attività comprende anche gli scarti del verde delle amministrazioni pubbliche a se-guito degli interventi di pulizia.Nella progettazione degli inserimenti lavorativi il progetto può contare sulle competen-ze maturate a livello provinciale da un’altra cooperativa di tipo B, la Evergreen, che ha sostanzialmente la stessa mission, vale a dire quella di raccogliere residui organici dai boschi per poi produrre pellet e cippato utilizzato a scopo energetico.L’intervento in corso di realizzazione a Tres si caratterizza come un’impresa sociale di comunità, non solo per le opportunità di inserimento lavorativo di soggetti deboli, ma anche perché si fonda sull’auto-organizzazione delle utenze: gli stessi utenti sono i pro-prietari della società senza fi ni di lucro e si auto forniscono il calore. Gli investitori non sono intesi in senso classico come coloro che effettuano l’investi-mento iniziale per poter godere degli eventuali utili dell’impresa, ma sono, invece, gli utenti stessi fruitori del servizio. In questo modo si intende risolvere in maniera decisa e

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08defi nitiva il problema del controllo e della gestione dell’energia, troppo spesso in mano a terzi che operano con margini di speculazione e senza realmente curare l’interesse del cliente/consumatore.A tale scopo, il progetto si è indirizzato alla costituzione di una società di tipo coopera-tivo, principalmente privata, con una partecipazione pubblica di minoranza. I cittadini/utenti, coinvolti nella compagine sociale nella veste di produttori e consumatori, sono af-fi ancati da altri soggetti coinvolti nell’attività imprenditoriale: gli artigiani del settore legno e gli agricoltori della zona, il comune, le associazioni del luogo, i servizi sociali, i consorzi elettrici locali, le casse rurali, la Provincia, ecc.L’organizzazione della fi liera costituisce l’aspetto più rilevante – e anche più comples-so – dell’intervento. La fi liera è, infatti, fondamentale per poter garantire la messa a disposizione di materia prima di buona qualità e dal costo/prezzo accessibile e piena-mente concorrenziale con le altre forme energetiche.Nel corso dell’analisi di fattibilità tecnica e fi nanziaria del progetto della centrale a bio-massa è emerso che il canale di approvvigionamento principale deve necessariamente essere il bosco coinvolgendo però nell’approvvigionamento anche i comuni limitrofi , in quanto la ripresa boschiva annua di Tres non è in grado da sola di soddisfare il fabbiso-gno energetico totale del paese. Da qui la necessità di ampliare la fi liera di approvvigionamento del materiale, diversifi can-dola nelle fonti e nelle destinazioni dei prodotti e rendendola autonoma anche da punto di vista societario. Tale strategia è stata defi nita anche alla luce della fi nanziaria attuale e degli incentivi previsti dalla legge sulla certifi cazione verde, che spingono alla creazione di fi liere corte per l’approvvigionamento energetico. Un’ulteriore opportunità è fornita dalla Legge Provinciale 11/07, che consente di affi dare la gestione del bosco di proprietà pubblica (comunale) ad un consorzio di cui il comune è membro (gestione associata) o ad una società terza privata (modalità di gestione in affi damento). Con la gestione associata il comune si unisce in consorzio con altri player, mentre in quella di affi damento è ceduto il diritto di gestione della ripresa boschiva annua ad una società agricola terza (lotti in piedi). Entrambe le soluzioni in questione sembrano adatte al caso di Tres: la scelta fra una e l’altra dipende principalmente dalla dimensione della società e dalle quantità lavorate dall’eventuale Consorzio o dalla società agricola.Si stanno attualmente valutando diverse alternative riguardanti l’estensione della fi liera (numero di realtà comunali coinvolte) per poter ampliare la copertura del fabbisogno senza dover ricorrere al mercato ed in funzione della convenienza economica dei diversi utilizzi (cogenerazione, teleriscaldamento).In ogni caso, l’aspetto cooperativistico della fi liera è centrale per il suo successo e il suo buon funzionamento. La cooperazione, infatti, permette di fare rete, incrementando notevolmente il know-how posseduto dalla società coinvolgendo nel processo più attori professionisti e non, avendo accesso a canali informativi privilegiati, creando consenso ed accettazione locale, avendo la possibilità di ottenere maggiori contributi pubblici ed infi ne mantenendo una struttura snella e fl essibile sempre pronta a adattarsi ai numerosi mutamenti del mercato.

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E 08 Con il progetto di Tres si sta sperimentando un modello tecnico, giuridico, amministrati-

vo, trasferibile in altri contesti locali, che consente di riproporre una modalità antica tipica delle municipalizzate e dei consorzi elettrici locali, che però è innovata in relazione alle moderne esigenze di gestione sostenibile e democratica delle risorse energetiche di un territorio e quindi di una comunità locale.

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086. Vigolo Vattaro: dalla comunità ospitale alla rete di servizi di cura e assistenza

Il progetto di impresa sociale di comunità sviluppato a Vigolo Vattaro riguarda nuove modalità di gestione della struttura Casa Santa di Maria; una struttura ricettiva degli anni ’70 di proprietà della Fondazione Pastorale degli Anziani, attualmente utilizzata come casa per le vacanze estive di persone anziane.La struttura, che dispone di 36 camere, sia singole che doppie, è stata da sempre utiliz-zata come casa per le vacanze estive, come centro di riferimento per i ritiri spirituali, ma anche per momenti di incontro della comunità locale. Negli ultimi dieci anni si sono alter-nate diverse gestioni e attualmente è gestita dalla cooperativa sociale “Kaleidoscopio”.La maggior parte degli anziani che fruiscono della struttura è autosuffi ciente, ma recen-temente sono stati fatti investimenti che consentono di ampliare l’ospitalità anche ad anziani non autosuffi cienti.I servizi prevedono la totale copertura dei bisogni degli ospiti, facendosi carico del loro benessere: sono monitorati nell’assunzione dei farmaci, assistiti nel momento dell’alzata e della messa a letto, e via dicendo. Già dal momento di accoglimento delle iscrizioni è prestata particolare attenzione all’impegno assistenziale che ogni anziano richiede, in modo tale da riuscire a garantirgli tutta l’assistenza e le cure di cui necessita. Il periodo di apertura della struttura va da metà giugno a fi ne agosto. Nel 2007 sono stati ospitati 100 anziani, con una media di presenze per settimana (esclusa la prima e l’ultima) di 38 persone. Alcuni di loro si sono fermati per l’intero periodo di apertura, altri hanno prolungato la permanenza oltre il periodo preventivato. Gli anziani utenti della struttura non provengono solo dal Trentino, ma anche dal Veneto, dalla Lombardia e in misura minore dall’Emilia Romagna.Ogni anno i clienti della struttura vengono ricontattati attraverso una lettera in cui si co-munica la riapertura della struttura, il modulo di domanda di adesione e il listino prezzi. È fatta anche un’azione di promozione attraverso la distribuzione di materiale informativo in tutti i comuni, i comprensori, gli ospedali e le istituzioni pubbliche. Inoltre del 2007 l’APT della Vigolana di Vigolo Vattaro ha cominciato a promuovere Casa Santa di Maria assieme alle altre strutture turistiche della zona.Il modello organizzativo dell’attività è quello tipico della casa di riposo. Presso la struttura lavora una pluralità di fi gure professionali: vi è il personale che si occupa della pulizia della struttura e della preparazione dei pasti, il personale specializzato e qualifi cato nel-l’assistenza agli anziani, gli infermieri ed i medici.Con il supporto del progetto Equal Restore sono state sperimentate nuove modalità di gestione che prevedono il coinvolgimento della comunità locale nelle attività della strut-tura e nel rapporto con gli anziani ospitati.La prima sperimentazione ha riguardato l’affi ancamento di volontari alle persone im-piegate nelle attività di assistenza e di produzione dei servizi. Si tratta chiaramente di volontari capaci di svolgere appieno la funzione assistenziale affi datagli e che offrono

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E 08 il loro lavoro volontario per alcune ore al giorno. Diversi si occupavano anche del-

l’aspetto della ristorazione. Questo tipo di riorganizzazione ha permesso alla struttura di aumentare il numero di anziani ospitabili, nonché di accogliere anche anziani con un elevato grado di compromissione. I volontari rappresentano oggi una risorsa fonda-mentale per il funzionamento della struttura: attualmente sono coinvolte una quaranti-na di persone. Molti volontari dopo la prima esperienza confermano la loro disponibilità per le successive stagioni. Altro aspetto interessante è stato il clima di collaborazione creatosi tra volontari e gli operatori, aspetto che si è subito tradotto in un aumento della qualità del servizio. Un’altra sperimentazione ha riguardato il potenziamento delle attività di animazione che sono state aperte alla partecipazione della comunità locale. La mattina, dal lunedì al venerdì, sono organizzate attività di ginnastica dolce. Tutti i pomeriggi, si organizzano momenti di intrattenimento. Il mercoledì sera vi è l’animazione musicale, dove si canta e si balla, ed è l’animazione che registra maggior successo. L’animazione è gestita in parte da un gruppo di volontari e in parte dall’equipe del centro servizio anziani di via Belanzani a Trento. Questi propongono anche una serie di attività legate ai laboratori di manualità e attività ludiche di gruppo. Le attività di animazione organizzate presso il centro sono state aperte alla popolazione di Vigolo Vattaro e la cosa ha avuto molto successo. Molta gente del posto, in particolar modo gli anziani, ha partecipato alle attività e ne è rimasta entusiasta. Proprio per questo, nella prossima stagione estiva, si intende aumentare il coinvolgimento della popolazione tanto è che anche durante i mesi di chiusura della struttura sono stati mantenuti i rapporti, partecipando ad alcune iniziative organizzate dal locale circolo anziani e dal Comune di Vigolo Vattaro. In occasione delle festività natalizie la struttura ha organizzato un evento per gli abitanti del comune al fi ne di sug-gellare la continuazione di questa importante relazione. Con l’Amministrazione comunale si sta ragionando per rendere la struttura agibile per un periodo superiore ai due mesi estivi. Già per la prossima stagione si prevede un’apertura di quattro mesi. Casa Santa Maria sarà sottoposta prossimamente ad un importante intervento di ristrutturazione e di ammodernamento: per tale intervento è stata fatta do-manda di fi nanziamento nell’ambito del patto territoriale della Vigolana. Con il comune di Vigolo Vattaro e con altre amministrazioni locali limitrofe, si sta ragionando sui servizi che la casa potrebbe offrire alla zona. Si sta, in particolare, pensando a rendere fruibili degli spazi per l’organizzazione di eventi e attività mirate agli anziani del luogo.Oltre ad avere favorito i legami ed in rapporti di collaborazione con la comunità locale, il progetto Equal Restore ha consentito di elaborare strategie di lungo termine riguardanti il ruolo della struttura.Il primo obiettivo è intensifi care le relazioni di carattere gestionale con le cooperative coinvolte: le cooperative “Delfi no” e “Kaleidoscopio” che insieme sviluppano l’idea di servizio e la cooperativa di tipo B “Le Coste” che consentirà in prospettiva di operare nel campo degli inserimenti lavorativi.Si sta, infatti, lavorando affi nché Casa Santa di Maria diventi anche un luogo di forma-zione professionale per quelle immigrate straniere che vogliono specializzarsi nell’am-

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08bito assistenziale in vista anche dell’esame che sono tenute a sostenere affi nché il loro diploma di infermiere possa essere riconosciuto in Italia. La loro cultura infermieristica, soprattutto dal punto di vista organizzativo è molto diversa da quella italiana. La cosa molto diffi cile da insegnare è che qui in Italia non è chiesto loro di lavorare per mansioni, bensì per obiettivi. Cosa non facilmente assimilabile e che quindi richiede un periodo di esperienza lavorativa sul campo. Anche le badanti sono coinvolte nel progetto. Le badanti, generalmente, non hanno specifi che competenze in campo assistenziale e quando fi niscono di prestare servizio presso una famiglia si trovano spesso in una situazione di estrema marginalità, anche abitativa. A tal fi ne il progetto prevede di fornire loro ospitalità e formazione a fronte di prestazioni di assistenza e servizio agli anziani.Questo progetto ha trovato il consenso dell’Assessorato provinciale alla sanità e dell’Or-dine degli infermieri. Sono state sottoscritte intese che porteranno ad un ricambio infer-mieristico costante garantito anche da soggetti nazionali, oltre che da quelli provinciali. In tal senso è stato siglato un accordo con CGM e con l’Ordine degli Infermieri a livello nazionale.Vigolo Vattaro in prospettiva si caratterizzerà come un centro di formazione e di inseri-mento lavorativo di personale straniero operante nel campo assistenziale. Con partico-lare riferimento alle istanze tipiche specifi che di Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia e Valle d’Aosta, è stata costituita una rete di cooperazione sociale che si occupa sia dell’incoming, sia degli inserimenti lavorativi. L’iniziativa è collegata all’attività PromoCare, altro soggetto che opera sul fronte dell’im-migrazione e nei servizi di cura alla persona che è coinvolto in questa azione in quanto particolarmente interessato a che si diffondano e sviluppino iniziative come questa di Vigolo Vattaro.

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E 08 7. Prabubolo: l’inserimento lavorativo in agricoltura

per la valorizzazione dei beni comuni

Prabubolo è una cooperativa sociale, nata su iniziativa di altre due cooperative (Gruppo 78 e Kaleidoscopio), che si pone l’obiettivo di sperimentare le possibilità di inclusione sociale nel settore agricolo. Gli interventi di inserimento lavorativo di persone con disa-bilità raramente considerano il settore agricolo come ambito di intervento, perlomeno, in una prospettiva di impresa operante sul mercato ed economicamente sostenibile. Nonostante nell’ambito delle cooperative sociali di tipo A siano state condotte innu-merevoli esperienze con il coinvolgimento di persone con disabilita in attività agricole, le cooperative di tipo B in tale settore sono estremamente rare. Prabubolo costituisce un’importante sperimentazione fi nalizzata ad ampliare la rete di tali cooperative sociali sul territorio trentino. In questo progetto si è, infatti, inteso valorizzare la funzione terapeutico-riabilitativa del-l’attività agricola che, per le sue caratteristiche – vale a dire l’alta intensità di mano-dopera, il lavoro all’area aperta, la possibilità di svolgere mansioni con diversi gradi di complessità, la responsabilità di accudire agli animali – presenta elevate potenzialità terapeutiche e ben si presta all’inserimento lavorativo di persone con disagi psichici. L’intento è al contempo quello di rilanciale il ruolo dell’agricoltura aprendola ad una mul-tifunzionalità, comprendente i processi di inclusione sociale che nel caso di Prabubolo si riferisce all’inserimento lavorativo di persone con disturbi mentali. Il progetto è stato inizialmente implementato in una proprietà fondiaria agricola e fore-stale della Fondazione Cavalier Antonio de Pizzini di Ala. Si tratta, come del resto per molte altre fondazioni trentine, di una proprietà agricola di grande entità (circa 70 ettari) comprendente anche alcuni immobili (due edifi ci ed una stalla) che ha vissuto momenti di abbandono. Da questo punto di vista il progetto presentava anche l’opportunità di impostare un’impresa sociale sulla valorizzane di “beni comuni”, come sono spesso le proprietà delle fondazioni, vincolate per statuto a funzioni di utilità sociale o le proprietà degli Enti locali, spesso inutilizzate o sotto utilizzate.Su tale area fu sviluppato il primo progetto imprenditoriale incentrato sulla conduzione di terreni – destinati a colture orticole e a vigneto – sul ripristino delle superfi ci a pascolo e la gestione del patrimonio forestale, e sull’allevamento caprino per la produzione di latte e derivati.Il problema più grosso che il progetto dovette affrontare fu quello della disponibilità idri-ca, non suffi ciente a sostenere lo sviluppo del progetto imprenditoriale. Tale problema era conosciuto fi n dall’inizio, tanto è vero che con la fondazione fu stipulato un contratto di locazione subordinato nella sua effi cacia dal fatto che fosse risolto il problema dell’ac-qua. Nonostante diversi progetti e contatti con il consorzio irriguo il problema dell’ap-provvigionamento idrico si mostrò insormontabile.Dal fallimento di questa prima iniziativa hanno preso origine, grazie alle relazioni attivate dal gruppo promotore, due ulteriori iniziative.La prima riguarda il trasferimento del progetto nel comune di Castelnuovo, in Valsugana,

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08sulla proprietà di un’altra fondazione – la fondazione De Bellat – che ha, tra le proprie fi nalità, la promozione e valorizzazione delle attività agricole della Valsugana. Questa fondazione è proprietaria di un’area di 40 ettari, quattro dei quali furono destinati al pro-getto. L’intervento ha preso avvio con l’impianto di un vigneto e con la realizzazione di un impianto di piccoli frutti realizzato con la collaborazione della Cooperativa Sant’Orsola, impresa leader trentina nella produzione e commercializzazione di piccoli frutti, che ha sede in Valsugana.L’edifi co rurale presente nella proprietà è destinato – a seguito della ristrutturazione – alla attività di trasformazione dei prodotti, in collaborazione anche con alcuni produttori bio-logici della zona. Un ulteriore intervento ha riguardato l’organizzazione di una fattoria didattica, aperta a diverse tipologie di visitatori (scuole, turisti, gruppi, ecc.). Il trasferimento in Valsugana ha comportato una riprogettazione signifi cativa dell’inter-vento, non solo dal punto di vista dell’impresa, ma soprattutto dal punto di vista sociale. Il progetto si veniva ad inserire in una realtà – quella della Valsugana – caratterizzata da una debole presenza di imprese sociali, ed è stato pertanto accolto a livello locale come un’importante risorsa. La progettazione sociale dell’intervento ha comportato un’iniziale mappatura dei bisogni, in collaborazione con i servizi sociali e con il servizio psichiatrico di zona. La gestione ordinaria e continuativa dell’azienda è stata affi data ad un contadino della zona che collaborava già con la fondazione de Bellat e che ha maturato una signifi cativa esperienza nella coltivazione dei piccoli frutti, cui sono affi ancate, con il supporto degli operatori della cooperativa, le persone con diffi coltà, individuate in collaborazione con i servizi sociali della zona.La seconda iniziativa nasce dai rapporti che il gruppo promotore ha instaurato con il Comune di Rovereto e con il Museo Civico Storico di Rovereto durante l’esperienza di Ala. In tale contesto è nata l’opportunità di collaborare alla gestione di un’area nel bosco di Rovereto destinata ad un progetto didattico denominato“SperimentArea”. Si tratta di un’area archeologica utilizzata a scopi scientifi ci e didattici in cui sono stati realizzati un impianto per l’apicoltura, un allevamento di bachi da seta, un orto botanico con piante offi cinali, una struttura destinata alla divulgazione. La cooperativa sociale si occupa della gestione dell’area (attualmente si occupa della gestione di un ettaro sugli 11 complessivi) attraverso la realizzazione di tre inserimenti lavorativi affi ancati da due tutor part-time e da un responsabile di progetto. Le prospettive di crescita dell’impresa sociale sono legate all’intervento di ripristino am-bientale e manutenzione di tutto il bosco, su un impegno di commessa già assunto dal Comune di Rovereto e dal Comprensorio della Vallagarina. È previsto l’ampliamento della coltivazione delle piante offi cinali che saranno conferite ad un’importane impresa leader nel settore della biocosmesi. Sono inoltre già stati attivati contatti con altre am-ministrazioni locali, come ad esempio il Comune di Isera per la gestione di un maso con due ettari a vigneto di proprietà comunale. Ciò consentirà di sviluppare l’attività di coo-perazione di tipo B, e quindi l’inserimento lavorativo nel settore agricolo e del ripristino ambientale.

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E 08 La progettazione sociale dell’intervento ha trovato anche un importante riferimento nel

progetto “AccountAbility 1000” che il Comune di Rovereto ha inteso adottare per gestire in modo partecipato e trasparente il processo di programmazione delle politiche socio-assistenziali e di rendicontazione delle connesse attività. Si tratta di un progetto pilota, a livello europeo, per quanto riguarda le amministrazioni comunali e la pianifi cazione delle politiche socio-assistenziali e ha tra i suoi obiettivi anche quello di sperimentare stru-menti innovativi che possano diventare oggetto di confronto, ricerca e “buona pratica”, in particolare per gli enti delegati a livello provinciale all’esercizio delle funzioni socio-assistenziali, in conformità alle linee strategiche del nuovo welfare trentino che la Giunta provinciale sta elaborando.In tale contesto lo sviluppo di cooperative sociali di tipo B operanti nel settore agricolo e della manutenzione e valorizzazione ambientale di beni comuni inutilizzati o sotto utiliz-zati, ha importanti prospettive di sviluppo.

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088. Alta Val di Non: l’impresa sociale nell’economia dell’intrattenimento

Sono molti i territori montani collocati ai margini dei grandi fl ussi turistici che oggi ri-cercano una prospettiva di sviluppo nella capacità di attrarre i nuovi fl ussi del turismo consapevole. Si va sempre più diffondendo un modello di fruizione turistica teso alla ricerca della qualità e della diversità, non come fenomeno di èlite, ma come fatto culturale e in quanto tale universale. Il consumatore, soprattutto quello urbano, è oggi alla ricerca di sensazioni, di esperienze, di odori, di sapori, di relazioni umane. Ecco che allora affermare le proprie tradizioni agroalimentari, riaffermare la propria identità locale e qualità ambientale è il mezzo che consente a molti territori di trovare un corretto spa-zio in una dimensione turistica che non sia omologante. Valorizzare i centri storici, mantenere la qualità del paesaggio agricolo, rivitalizzare le relazioni interpersonali di paese e di borgata, salvaguardare le tradizioni locali, valorizzare le botteghe artigiane e i ristoranti con prodotti e ricette del territorio, ri-servare al turista un’ospitalità “calda” e diffusa, realizzare nelle scuole programmi di educazione al gusto, all’estetica, all’ospitalità, sono tutte azioni essenziali se si vuole fondare la strategia di sviluppo di un territorio sulla valorizzazione delle differenze e della qualità.La semplice produzione di beni e servizi non è più suffi ciente: sono invece le “espe-rienze” offerte al cliente, al visitatore, al turista, al consumatore, a costituire il fonda-mento della creazione del valore. Consumare un prodotto o fruire di un servizio funge sempre più da pretesto per vivere un’esperienza. Produrre esperienze non è comunque una cosa semplice, presuppone da un lato la capacità di sviluppare una nuova cultura dell’ospitalità e dell’intrattenimento, dall’al-tro la capacità di sviluppare un’azione di animazione – non solo turistica, ma anche territoriale – capace di coinvolgere i soggetti del territorio nella costruzione di questa offerta, in una prospettiva di sviluppo locale.È questa l’ambizione della sperimentazione Equal Restore, avviata in Alta Val di Non. Tradizionalmente legata alla monocoltura della mela, quest’area non ha signifi cative tradizioni turistiche. Comunque le risorse ambientali, culturali e sociali non mancano. Questa vasta area del Trentino si presenta come una successione di tre altipiani, separati da profonde gole e forre nei quali scorrono i corsi d’acqua che sfociano nel lago di Santa Giustina. I paesi sono situati ad una quota molto prossima ai 1.000 m slm. Sono presenti importanti percorsi storici e religiosi che si dipartono dal Santuario di San Romedio (uno dei più belli di tutto l’arco alpino) e dal Castello di Thun.La valorizzazione di queste risorse è oggi al centro delle strategie di sviluppo delle am-ministrazioni comunali che, con la realizzazione di un patto territoriale, puntano ad una maggiore integrazione tra un nuovo modello di offerta turistica ed i tradizionali settori di attività dell’artigianato e dell’agricoltura. Anche grazie a queste iniziative cominciano a diffondersi gli agriturismi, i bed & breakfast, i laboratori in cui si produce lo speck e la tradizionale mortandella. Alcuni giovani cominciano ad investire professionalmente

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E 08 nelle nuove forme di intrattenimento turistico, come il canyoning ed il rafting sui tor-

renti; accompagnano i turisti tedeschi lungo i percorsi di mountain bike, (sui laghi della zona, anche su quello di Santa Giustina, non si può fare!) Il turismo a cui si punta non è certo quello della vicina Madonna di Campiglio, ma è un turismo sportivo e famigliare più slow, più attento all’ambiente, al territorio ed ai suoi prodotti.In tale contesto, si inserisce l’attività di due cooperative sociali del territorio (La Coc-cinella e Kaleidoscopio) e dell’APT dell’Alta Valle di Non con un’iniziativa rivolta a pro-muovere il turismo sociale e dell’incontro. L’opportunità emersa nell’ambito di Equal Restore, era quella di sperimentare l’impresa sociale di comunità come strumento di crescita della cultura turistica del territorio e come ambito di sviluppo di politiche di inserimento lavorativo.L’idea iniziale era quella di costituire un’impresa cooperativa di tipo B, partecipata da diversi soggetti (APT, comuni, operatori turistici, cooperative sociali, ecc), dedicata alla promozione e gestione di fl ussi di turismo sociale. Sulla base di tale idea iniziò il lavoro di promozione rivolto ai soggetti locali (Ammini-strazioni locali, comprensorio, APT, operatori turistici). Emerse fi n da subito la diversità dei linguaggi. Il mondo della promozione turistica (rappresentato dalla APT e degli operatori) ed il mondo della cooperazione sociale erano fra loro estranei, non si co-noscevano.Anche l’incontro con le amministrazioni locali non fu semplice. I sindaci dimostrarono subito interesse per il progetto, ma interpretarono tale opportunità all’interno di uno schema di intervento sociale molto più tradizionale, fi nalizzato a risolvere proprie spe-cifi che esigenze nell’ambito delle politiche giovanili o come occasione per tentare di rivitalizzazione il tessuto delle pro loco, che negli ultimi anni aveva cominciato a mani-festare una certa crisi di partecipazione e di creatività.L’idea di un’impresa sociale di comunità partecipata dai diversi soggetti del territorio, non raccolse gli adeguati consensi. Fu giudicata troppo vincolante, e per di più ope-rante in un settore sconosciuto a livello locale – quello del turismo sociale – di cui non si comprendevano bene le fi nalità e le opportunità.Il punto di contatto fu trovato attorno al concetto di animazione: l’APT, gli operatori e gli stessi sindaci ben comprendevano tale concetto declinato in ambito turistico. La recente crescita di un’economia turistica nell’area aveva cominciato a porre il proble-ma della qualità dell’offerta, che non si poteva limitare alla crescita dei posti letto e del-le strutture di wellness. Era maturata l’esigenza – anche a livello di singoli comuni – di smaterializzare e qualifi care l’offerta turistica, operando sul piano dell’intrattenimento, della socializzazione e della comunicazione.Negli ultimi anni era cresciuta una domanda riferita alla necessità: di organizzare eventi culturali, turistici, sportivi, di promuovere i prodotti tipici dell’area, di sviluppare servizi turistici dedicati a specifi che categorie di utenti (bambini, anziani, famiglie), di sviluppa-re nuove professionalità e competenze creative capaci di valorizzare la cultura, l’iden-tità e le specifi cità del territorio.Una domanda che però in Val di Non – come in gran parte del Trentino – non trova an-

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08cora adeguate competenze e fi nisce per rivolgersi ad offerte esterne che, non essendo radicate sul territorio, fi niscono per essere omologanti.Il confronto con gli interlocutori locali ha consentito di evidenziare un fatto apparente-mente banale: l’esistenza di una domanda di servizi di animazione espressa in ambito turistico e l’esistenza di un’offerta di servizi di animazione espressa nel quadro delle politiche sociali. Due realtà che non si conoscevano, ma che pur con le proprie diver-sità, potevano ora cominciare a lavorare insieme.Il punto di mediazione fu trovato attorno al concetto di animazione territoriale in ambito turistico, ovvero, la risposta ad un’esigenza di animazione turistica capace di inglobare la dimensione del territorio e del sociale. Le competenze dell’impresa sociale potevano esprimersi, non solo nell’organizzazione di eventi e servizi per i turisti, ma anche: nell’accompagnare la crescita di un’offerta turistica locale più consapevole e attenta a valorizzare le proprie specifi cità, nella rivita-lizzazione del tessuto del volontariato e delle pro-loco, nell’attenzione alla dimensione sociale del turismo sia sul piano della domanda (anziani, disabili, gruppi), sia sul piano dell’offerta (possibilità di inserimenti lavorativi in ambito turistico), nella valorizzazione delle funzioni di incontro e conoscenza che sono connaturate all’attività turistica.Su tale prospettiva di intervento, il progetto non è riuscito a concretizzarsi in un’impre-sa sociale di comunità, ma ha comunque cominciato ad operare dando vita all’asso-ciazione Diesis, fondata dalle due cooperative sociali e dall’APT.La prima attività ha riguardato la realizzazione di un catalogo di attività di animazione rivolte in particolare alle famiglie con bambini che è stato distribuito negli alberghi, nei bar e nei punti di informazione turistica.Nell’estate 2007 sono stati avviati i primi laboratori turistici che hanno coinvolto oltre mille persone. Sono stati organizzati 25 laboratori in 15 comuni diversi. Il radicamento territoriale delle cooperative ha permesso di coinvolgere, e quindi fare incontrare, le famiglie di turisti e le famiglie del posto. Tutte le attività proposte hanno un’alta valenza pedagogico-educativa e hanno coinvolto ragazze del posto che avevano già sviluppa-to esperienze in campo sia turistico, sia pedagogico e che erano in grado di prestare un’attenzione anche a bambini in condizione di disagio. Le attività di animazione sono state sostenute da risorse messe a disposizione dal progetto Equal Restore, dalle cooperative e dall’APT che si è, in particolare, fatta carico di tutti i costi di organizza-zione e sponsorizzazione delle attività. L’esito positivo della prima esperienza estiva ha fatto sì che a Diesis fosse chiesto di organizzare le attività di animazione nell’ambito di Pomaria, l’evento legato alla raccolta delle mele che ormai ha assunto una portata di livello nazionale ed internazionale e su cui si punta per promuovere fl ussi turistici nella stagione autunnale. Nell’ottobre 2007 la sperimentazione ha partecipato al BITS Forum Europeo del Turismo Sociale con un proprio stand. Questa è stata l’occasione per organizzare un incontro con tutti i soggetti del territorio per fare un primo bilancio dell’iniziativa e decidere le modalità di prosecuzione del progetto. Sono state impostate le attività di progettazione per la stagione invernale 2007-2008 e per la stagione primavera-estate 2008. Dai due

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E 08 laboratori settimanali realizzati nella stagione 2007, si prevede di passare a 5 laboratori

settimanali. Per fare questo vi è la necessità di includere nuovi soggetti e quindi creare nuove possibilità di occupazione.L’ obiettivo dell’associazione Diesis è attualmente quello di allargare la partecipazione ad altri soggetti e di diversifi care la tipologia degli interventi realizzati sul territorio.

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089. Val di Sole: il convento di Terzolas nei circuiti del turismo dell’incontro

Anche in Val di Sole, come nel caso precedentemente descritto riguardante la Val di Non, l’obiettivo dell’intervento Equal Restore è stato quello di sperimentare l’impresa sociale di comunità come strumento per diffondere pratiche di turismo responsabile.Forti dell’esperienza realizzata in Val di Non e quindi consapevoli delle diffi coltà di fare comunicare due mondi fra loro estranei – quello del turismo e quello del sociale – i promotori dell’iniziativa non hanno subito organizzato un evento di presentazione del progetto, ma hanno deciso di dar vita all’intervento intessendo una fi tta trama di relazio-ni, fatta di incontri individuali con amministratori, operatori, enti di promozione turistica, banche locali, fondazioni, associazioni. È stato forse questo metodo, più dedicato all’ascolto che non al confronto, che ha con-sentito di far emergere, fi n da subito, l’obiettivo del progetto, individuato, dalla gran parte degli intercolutori, nella valorizzazione del convento di Terzolas all’interno dei circuiti del turismo dell’incontro.Il convento di Terzolas è una struttura che risale al ’500, di proprietà dei frati cappuccini. Attualmente vi risiedono due soli frati che portano avanti la loro attività pastorale fatta di corsi e di esercizi spirituali, di incontri con gruppi di giovani e campi scuola per adole-scenti, di ospitalità per famiglie e persone bisognose di discrezione e silenzio.La struttura, composta dal convento e dalla casa in cui abitano i frati, si presenta in uno stato di dismissione tanto che, nel 2005, è stato presentato un progetto di ristrutturazio-ne che prevede di riconvertire parte del convento in struttura ricettiva (28 camere) con servizi ristorazione, sale per conferenze, riunioni ed organizzazione di eventi culturali. Il tutto per un costo complessivo di 3.217.000 euro, di cui: 2.412.000 coperti da un fi nan-ziamento della Provincia Autonoma di Trento ed i rimanenti 805.000 euro coperti dai frati in collaborazione con altre realtà locali.Il progetto Equal Restore, con la sua proposta di impresa sociale di comunità, è stato accolto dalla realtà locale come un’importante occasione per impostare una strategia di valorizzazione della struttura, ma anche per progettare una forma di gestione imprendi-toriale della stessa, capace di garantire la sostenibilità economica e di salvaguardare la funzione spirituale e sociale del luogo. Si è reso necessario un forte impegno riguardante la progettazione tecnica, giuridica e fi nanziaria di un’operazione molto complessa che prevede la ristrutturazione dell’im-mobile e la costituzione di un soggetto imprenditoriale che andrà a gestire la struttura secondo quattro assi di intervento – l’alberghiero, la ristorazione, la formazione e il rap-porto con la comunità – il tutto inserito in un contesto di fi nalità religiose e sociali.Nel corso della sperimentazione, il progetto Equal Restore ha incontrato gli attori del territorio per discutere sulla realizzazione dello statuto, del contratto tra proprietà della struttura e la futura impresa sociale di comunità, del piano di impresa e della defi nizione di un percorso formativo a vantaggio di tutti gli attori della comunità che hanno deciso, in termini imprenditoriali, di dar vita ad un soggetto rappresentativo del territorio, che ga-

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E 08 rantisca l’effi cienza e l’effi cacia della gestione, e che soprattutto realizzi la fi nalità sociale

dell’iniziativa. Inoltre, sono stati seguiti gli aspetti relativi all’appalto di ristrutturazione del Convento. In tali attività è stata coinvolta una pluralità di interlocutori: i Frati Cappuccini, il Compren-sorio della Valle di Sole, i comuni di Terzolas e Comune di Malè, la Cassa Rurale Rabbi e Caldes, il Consorzio BIM, l’impresa edile Cosbau SpA (incaricata della ristrutturazione del convento), il Gruppo Gioventù Francescana (coinvolto nella gestione della struttura), la Famiglia cooperativa Val di Rabbi, l’Azienda Turismo Valli di Sole e Pejo, la scuola di formazione Enaip. Tutti questi soggetti hanno manifestato l’intenzione di diventare soci dell’impresa sociale di comunità. Con il supporto tecnico della Federazione Trentina delle Cooperative è stata elaborato una proposta di statuto che prevede una nuova tipologia di socio; “Il socio di comunità”; al fi ne di garantire la democraticità del processo decisionale.È in corso di defi nizione la struttura del consiglio d’amministrazione dell’impresa sociale di comunità, che comprenderà: una rappresentante dei frati cappuccini e della Frater-nitadei cappuccini, i sindaci di Malé e di Terzolas, un rappresentante della Provincia, un rappresentante dell’impresa di servizio costituita da giovani del gruppo gioventù fran-cescana che gestirà il convento, un rappresentante eletto tra i giovani della zona che collaborano alle attività del progetto Sarà, infatti, un gruppo di giovani a gestire il nuovo convento. A tal fi ne si prevede la costituzione di una cooperativa di tipo B: i ragazzi, assunti dalla cooperativa, seguiranno la direzione, l’amministrazione, l’animazione, la cucina e i vari servizi. I rapporti tra la cooperativa e la proprietà della struttura (i frati) sono regolati da una con-venzione, che, oltre a garantire la cooperativa sulla continuità del rapporto di collabo-razione, garantisce anche i frati rispetto al mantenimento delle fi nalità etiche e religiose del progetto.Il nuovo convento fungerà da luogo di accoglienza e formazione in primo luogo per chi abita in valle. Non solo spazio di preghiera ma nucleo per seminari, corsi di formazione ad esempio per animatori turistici e amministratori locali, per insegnanti e fi gure che si occupano di disagio, recupero e reinserimento sociale, promozione della cultura locale e del turismo dell’incontro.Con.Solida accompagna l’attività del convento fornendo un supporto formativo, ma soprattutto promuovendo il ruolo di questa struttura nell’ambito dei circuiti di nuovo turismo che si vanno sempre più affermando.L’esperienza di Terzolas è stata presentata nell’ambito del BITS (Forum Europeo del Turi-smo Sociale) tenutosi a Riva del Garda nell’ottobre del 2007 e nell’ambito del convegno “Nascono i sistemi locali di turismo responsabile” organizzato da AITR (Associazione Italiana Turismo Responsabile) realizzato a Torino nel novembre 2007.L’obiettivo complessivo delle attività di formazione e di promozione è la costruzione di una “rete partecipata di turismo dell’incontro in Trentino”, da attuarsi attraverso un per-corso formativo che coinvolgerà anche altre esperienze maturate nel contesto provin-ciale, come ad esempio: l’esperienza di sviluppo turistico comunitario di Grumes (Valle

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08di Cembra), l’esperienza di gestione della casa per ferie di Passo Vezzena (Valsugana), il programma di turismo sociale di UISP Trentino ed il progetto “Parco Minerario” di Calceranica.Nel corso del 2007 il dialogo tra le diverse realtà si è progressivamente focalizzato su due necessità. In primo luogo, approfondire la conoscenza del settore turistico. Non dimentichiamo, infatti, che tutte queste esperienze provengono da mondi altri rispetto al turismo e che dunque per la prima volta si affacciano su questo articolato e complesso ambito di attività. In secondo luogo, garantire la visibilità di un segmento del settore turistico così particolare qual è quello del turismo dell’incontro. Sulla base di tali necessità è maturata la scelta di progettare un percorso formativo che supporti la costituzione della rete partecipata di turismo dell’incontro in Trentino. Saranno coinvolte complessivamente 15 persone, espresse da varie esperienze locali. I partecipanti avranno l’occasione sia di acquisire competenze specifi che riguardanti i temi turistici, sia di focalizzarsi sulla dimensione professionale dell’agire nelle diverse realtà locali, nonché in termini di sistema.Il percorso formativo sarà articolato in 105 ore di lezioni, laboratorio, progettazione e se-minari e coinvolgerà esperti, formatori, testimoni di provato livello per fornire un quadro metodologico sul turismo e la gestione evoluta dei servizi di ospitalità e per defi nire in maniera partecipata i principi guida, i valori, le caratteristiche costitutive dei prodotti/ser-vizi del turismo dell’incontro in Trentino.

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E 08 10. Arco di Trento: Bar Salute

La sperimentazione realizzata ad Arco di Trento è portata avanti da Eliodoro una coo-perativa sociale costituita nel 1998 in Basso Sarca a seguito del lavoro preparatorio di un gruppo di genitori e volontari che si proponevano di offrire un sostegno per l’inseri-mento lavorativo delle persone disabili. Nel tempo la mission della cooperativa è andata maturando ed ampliandosi, sia per numero e tipologia di utenti, sia per i servizi offerti. Attualmente, i principali servizi di Eliodoro sono:> il centro per la formazione dei prerequisiti lavorativi, che prepara gli allievi per l’inseri-

mento nel mondo del lavoro;> i tirocini formativi fi nalizzati all’inserimento lavorativo, che si svolgono in aziende della

zona, con l’affi ancamento di un tutor di Eliodoro;> il centro socio-educativo Intreccio, per il potenziamento delle capacità comportamen-

tali, cognitive e affettivo-relazionali;> il servizio educativo domiciliare per adulti disabili.Il prevalente impegno di formazione sui prerequisiti lavorativi ed il numero degli utenti coinvolti, ha con il tempo imposto un sempre maggiore investimento sul piano degli inserimenti lavorativi con la creazione di apposite strutture. La cooperativa Tandem, an-cora in fase di costituzione, ma che già si occupa di gestire il servizio di bar interno dell’Ospedale di Arco di Trento, rappresenta la risposta a tale esigenza.L’iniziativa è nata a marzo 2007, in concomitanza con l’avvio del progetto Equal Restore, e già ad aprile il bar, appoggiandosi ad Eliodoro, ha iniziato a lavorare. A breve Tandem si assumerà la gestione diretta dell’iniziativa.L’iniziativa del bar è nata da un’esigenza dell’ospedale di offrire un servizio di ristora-zione. Il bar è stato ubicato all’interno della struttura ospedaliera, ma in una posizione abbastanza decentrata, fatto questo che ha disincentivato l’investimento dei privati che erano potenzialmente interessati alla gestione. L’opportunità è stata quindi raccolta dalla cooperativa Eliodoro che ha presentato all’azienda sanitaria un progetto di inserimento lavorativo di persone in stato di disagio. L’azienda sanitaria ha subito condiviso la fi nalità sociale dell’iniziativa e, una volta valutato il piano imprenditoriale e le garanzie di fornitura del servizio, ha deliberato l’affi damento del servizio, prevedendo un canone di affi tto calmierato.Il piano imprenditoriale, redatto con l’aiuto di un commercialista, individuava il punto di pareggio in un incasso giornaliero compreso fra 200 e 300 euro. Tale importo è stato raggiunto e superato nel giro di 3 mesi.Nel bar, attualmente, lavorano due persone, una a tempo pieno ed una a part time: una di queste, che funge anche da gerente, ha già avuto esperienze lavorative in questo settore ed è di recente diventata socia della cooperativa. Nel momento in cui diventerà operativa la cooperativa Tandem l’organico sarà potenziato assumendo una terza per-sona sempre part time che sarà sostenuta dall’Azione 9, perciò l’iniziativa sarà anche sorretta dall’Agenzia del Lavoro.Il bar apre alle 7 la mattina e chiude alle 17. La mattina è il momento in cui si ha più

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08lavoro, visto che la maggior parte delle visite ambulatoriali sono concentrate in questa parte della giornata. Ad un anno dall’inizio dell’attività, il ritorno, sia sul piano economico sia sul piano dell’in-serimento lavorativo, è positivo: le persone si sono integrate molto bene, il bar ha un suo movimento e anche l’azienda sanitaria è soddisfatta del servizio erogato. Il valore di questa iniziativa risiede nel fatto che l’impresa sociale non funziona come semplice terminale ed attuatore delle politiche pubbliche, ma è un soggetto imprendito-riale che si auto-sostiene. Ciò rappresenta sempre più un’esigenza ed una condizione rispetto alle nuove iniziative di inserimento lavorativo. Considerato che le quote di occu-pazione per i disabili, previste per legge all’interno delle aziende, nella situazione locale sono oramai quasi tutte coperte, è diventato necessario trovare nuovi sbocchi lavorativi in termini imprenditoriali.La riuscita dell’iniziativa costituisce un presupposto per l’avvio di altre collaborazioni con l’azienda sanitaria. Ovviamente, dove l’azienda sanitaria è in grado di ottenere dai privati canoni d’affi tto alti, diffi cilmente si riuscirà ad avviare analoghe iniziative. Possono comunque essere diverse le situazioni in cui i margini di profi tto sono limitati (per i privati) ed in cui a prevalere è la fi nalità sociale del servizio erogato. Sono questi gli ambiti pri-vilegiati che consentono l’avvio di imprese sociali di comunità fi nalizzate all’inserimento lavorativo. Tali spazi di autoimprenditorialità sono individuabili in diversi processi di ester-nalizzazione di attività attuati dalla pubblica amministrazione.Tale fatto è testimoniato dal ruolo svolto dal comune di Riva del Garda che ha sostenuto il processo di nascita della cooperativa Tandem. Sicuramente da questo punto di vista ha giocato un ruolo importante il fatto che sul territorio non c’era nessuna cooperativa di tipo B e che quindi l’esigenza di avvio di un’iniziativa di questo tipo era molto sentita dall’ente pubblico. Un’importante opportunità di intervento è la possibilità di lavorare sull’Azione 10 che prevede la possibilità di stipulare convenzioni riguardanti lavori socialmente utili con i comuni e gli enti territoriali. Questo ha permesso di stipulare una convenzione con il Co-mune di Riva del Garda, con il Comune di Arco e con il Comprensorio per l’assunzione di 35 persone che lavoravano in diversi ambiti: dal ripristino archivi in biblioteca, ai servizi di cura e accompagnamento alla persona. Un intervento particolarmente qualifi cato, sul piano dell’acquisizione di competenze lavorative, è stato il ripristino dell’archivio dell’ex pretura di Riva del Garda, in cui hanno trovato occupazione 5 persone.Le attività di Tandem e Eliodoro si integrano in un’ottica di microfi liera che consente alla persona in diffi coltà di essere accompagnata verso il lavoro: Eliodoro fa un lavoro prepa-ratorio, di formazione in vista di un possibile inserimento lavorativo, ma non assume (si tratta, infatti, di un centro di formazione dei prerequisiti lavorativi), mentre Tandem ha il compito di avviare delle attività per poter assumere successivamente le persone. Naturalmente il ricorso al mercato esterno (quello delle imprese private) continua a ri-manere un ambito prioritario per le politiche di inserimento lavorativo, ma tale mercato funziona principalmente per persone con una disabilità lieve, mentre per le persone con disabilità più importanti diventa più diffi cile. Delle persone totalmente prive di abilità lavo-

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E 08 rative, si occupa il Centro Intreccio che organizza attività di carattere creativo, piuttosto

che lavoretti manuali molto semplici.La fi liera di cooperazione sociale fi nalizzata all’inserimento lavorativo che si sta conso-lidando nell’area del Basso Sarca non può chiaramente prescindere dall’aiuto fornito dalle amministrazioni pubbliche in termini di esternalizzazione di servizi, ma l’obbiettivo strategico è quello di cominciare a fornire servizi nell’ambito del mercato.In particolare, considerata la forte vocazione turistica del territorio, le strategie si stanno indirizzando ai servizi di ospitalità e ristorazione. La gestione del bar presso la struttura sanitaria di Arco rappresenta un’importante occasione di acquisizione di competenze. A questa iniziativa si sta affi ancando un progetto di agriturismo che sarà gestito da perso-ne disabili e che darà ospitalità a famiglie al cui interno si trova una persona con disabili-ta. Qui però la cosa è un po’ più complicata: serve un piano di impresa più dettagliato.

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0811. Pergine: un tentativo (fallito) di progettazione urbanistica partecipata

Quando il progetto Equal Restore era partito il comune di Pergine aveva affi dato all’IRRS di Trento (Istituto Regionale di Ricerca Sociale) una consulenza per la stesura del piano sociale del comune. L’istituto, nella sua attività di ricognizione e di dialogo con il territorio, aveva evidenziato la possibilità di intervenire con delle progettazioni che andassero ad incidere su due principali specifi cità di questo territorio. Pergine innanzitutto si presenta come un comu-ne composto in parte da una popolazione autoctona, ben radicata sul territorio e molto attiva socialmente in quanto residente da lungo tempo nel comune, e in parte da una componente di nuovi residenti, non necessariamente extracomunitari, poco integrata con il resto della popolazione. Pergine, in secondo luogo, è un comune composto di una pluralità di frazioni (21, situate nel raggio di circa 5 chilometri) dotate di un’autonoma vi-vacità socio-culturale ma che mostrano comunque un’esigenza di maggiore integrazio-ne e comunicazione con il centro urbano. Sulla base di tale analisi era stata individuata l’esigenza di impostare un’azione di comunità capace di dar vita a forme di auto aiuto e a rapporti di vicinato che facilitassero la comunicazione fra le due componenti della popolazione nonché fra le diverse frazioni.Su questa ipotesi progettuale e con la mediazione di IRRS, il progetto Equal Restore è entrato in rapporto con l’Amministrazione comunale di Pergine. A seguito di una serie di incontri con il comune fu individuato quello che poteva esser il focus dell’intervento: il Parco di Pergine.Il Parco di Pergine è una vasta area di circa 25 ettari situata nelle immediate vicinanze del castello e del centro storico di Pergine. La proprietà dell’area è della Provincia Automa di Trento che l’ha affi da in concessione al Comune di Pergine. Nell’area del parco trovano sede diverse strutture pubbliche: la scuola professionale, le strutture dell’azienda sani-taria per il trattamento dei malati psichici, le strutture di archivio, l’ospedale psichiatrico, le strutture operative della STET e quelle dell’azienda sanitaria. La presenza di queste strutture aveva da sempre sostanzialmente precluso l’utilizzo del parco da parte della comunità di Pergine. Di fatto, già a partire dal 2000, il Comune stava lavorando ad un progetto per la valorizzazione del parco e ad un cambiamento nella sua destinazione d’uso. Le opportunità per il progetto Equal Restore erano quelle di avviare un’azione di comu-nità incentrata su l’utilizzo del parco come luogo di socializzazione, attraverso un per-corso di progettazione urbanistica partecipata in grado di coinvolgere l’intera comunità perginese e di avviare attività di: manutenzione del verde, animazione socioculturale, ristorazione, che avrebbero consentito l’inserimento lavorativo di soggetti in diffi coltà. Si intendeva coinvolgere una serie di attori, operanti in campo ambientale, economico, sociale e culturale, sulla base del loro grado di interesse per la questione del Parco ac-compagnato dalla capacità e volontà di investire risorse e energie.L’idea di fondo era quella di costituire un’impresa sociale di comunità, partecipata dalle organizzazioni socio-culturali di Pergine e dai proprietari e concessionari delle diverse

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E 08 aree del Parco, in grado di svolgere un’attività di manutenzione e gestione del sito per

conto del Comune, di sviluppare attività di animazione socio-culturale, di piccola risto-razione e di formazione. L’obiettivo, seppur ancora ad un livello embrionale, fu condivisa anche dalla stessa Provincia. Su tale idea di base cominciò un intenso lavoro di elaborazione di un piano di fattibilità. Nella fase di progettazione dell’intervento furono organizzati anche scambi di esperienze e visite presso casi di eccellenza, con il coinvolgimento dei soggetti del territorio.Un caso particolarmente studiato è stato quello dei Giardini di Traupendorf a Merano. Questi giardini sono stati ristrutturati con un investimento della Provincia di Bolzano di 50 milioni di euro. Oggi questi giardini sono i più visitati d’Europa, con circa 400.000 visite l’anno ed un enorme ritorno economico per le casse del comune di Merano. L’in-teresse per questo caso era di individuare e comprendere tutta una serie di soluzioni collegate alla gestione di un parco urbano. Tale visita fu particolarmente apprezzata dai partecipanti che compresero le opportunità di ritorno economico connesse all’effi ciente gestione di un’area a parco.Nei fatti, a seguito dell’elaborazione del piano di fattibilità e nel momento in cui doveva cominciare il vero e proprio lavoro di animazione sociale e di coinvolgimento della popo-lazione, il progetto cominciò a scontrarsi con le logiche della tradizionale pianifi cazione urbanistica, solitamente poco attente ai processi di partecipazione sociale e alle pratiche di “progettazione dal basso”.Il Comune si era, infatti, rivolto anche ad altri esperti (urbanisti ed architetti) e successiva-mente aveva incaricato un paesaggista di progettare un’area a parco che, sugli esempi dei giardini di Merano o del Parco Sicurtà di Taleggio sul Mincio, si potesse presentare come uno dei casi di eccellenza del territorio Trentino. La stessa ipotesi di affi ancare un intervento di animazione sociale a questa logica di pia-nifi cazione urbanistica si presentò poco praticabile: le azioni proposte del progetto Equal Restore erano giudicate poco chiare, le fi nalità del progetto confuse, di conseguenza risultava inopportuno procedere con il coinvolgimento della popolazione, di cui non si comprendeva quale potesse essere il contributo progettuale. L’approccio prevalente era quello che il coinvolgimento del pubblico si sarebbe dovuto realizzare in occasione della presentazione del progetto urbanistico, al fi ne di raccogliere pareri e verifi care il consenso sociale sull’iniziativa.Ovviamente, il progetto Equal Restore non poteva condividere questa logica, anche perché se si fanno delle cose sul territorio e per la comunità di quel territorio, un minimo di coinvolgimento della popolazione deve esserci. Questa vicenda ha prodotto alcune rifl essioni all’interno de progetto, che riguardano, in particolare, il ruolo delle istituzioni nella creazione di imprese sociali di comunità. Nonostante il fatto che da tempo si vadano diffondendo in molte amministrazioni pubbli-che pratiche di partenariato nella defi nizione delle linee strategiche di sviluppo del territorio, l’auspicato passaggio da un concetto di Stato-Soggetto (che norma e pianifi ca in una logica autoreferenziale e centralistica) ad un concetto di Stato-Funzione (che accompagna le soggettualità ed i processi di crescita del territorio) è ben lungi dall’essere compiuto.

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08Di conseguenza, risulta diffi cile pensare di poter iniziare un processo di progressivo coin-volgimento e accompagnamento di una pluralità di altri stakeholder. Risulta anche diffi cile instaurare dei rapporti chiari, trasparenti, semplici tra organizza-zioni ed istituzioni quando ruoli, posizioni ed interessi si intrecciano, si sovrappongono si scambiano (basti pensare al fatto che il comune di Pergine presiede il consorzio dei Comuni trentini, a sua volta partner del progetto Equal Restore).L’ultima considerazione riguarda il fatto che quando i beni comuni sono un po’ troppo preziosi risulta diffi cile gestirli con la logica dell’impresa sociale.

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fi nito di stampare nel mese di giugno 2008

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