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N° 4 - 2004 Luglio/Agosto Spedizione in abb. post. art. 2 comma 20/C legge 665/96 - Filiale di Roma MARCELLO LIPPI Nuovo Commissario Tecnico della Squadra Nazionale

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N° 4 - 2004Luglio/Agosto

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MARCELLO LIPPINuovo Commissario Tecnico

della Squadra Nazionale

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La squadra Italiana all’Olimpiade di Atene 2004

Claudio GentileGiandomenico Mesto e Alberto Gilardino

Claudio Gentile con Luciano Castellini e Claudio Culini

LA NAZIONALE OLIMPICA ITALIANAALL’OLIMPIADE DI ATENE 2004

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SOMMARIO

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5di Gianluca VialliL’ITALIANO E L’INGLESE,PENSIERI DI UNA NOTTE INSONNE

SCUOLAALLENATORI

49di Salvatore SicaLA COSTRUZIONE DEL “COGNITIVO”NEL GIOCO DEL CALCIO GIOVANILE

SCUOLAALLENATORI

24di Simone FugalliL’IMPORTANZA DELLA MESSA INAZIONE IN ATLETI EVOLUTI

SCUOLAALLENATORI

34di Franco FerrariEUROPEI U.21 – GERMANIA 2004SCUOLAALLENATORI

47di Roberto MenichelliCONSIDERAZIONI SU ALCUNI ASPETTIDELLA FASE DI NON POSSESSO DI PALLA

SCUOLAALLENATORI

Per richiedere copie arretrate del Notiziario inviare una richiesta scritta indirizzata a:F.I.G.C. Settore Tecnico Via G. D’Annunzio 138, 50135 Firenze. Non saranno accettate richieste effettuate per telefono.

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FotografiaFoto SabeItalfoto GieffeArchivio Settore TecnicoFoto Archivio Museo del Calcio

StampaSTILGRAFICA s.r.l.Via Ignazio Pettinengo, 31/3300159 ROMATel. 06/43588200Spedizione in abbonamento postalecomma 27 - art.2 - legge 28/12/1995 n.549 Roma

Autorizzazione del tribunale diFirenze, del 20 maggio 1968 n.1911

Finito di stampare nel settembre 2004

Le opinioni espresse negli ar-ticoli firmati non riflettononecessariamente l’opinioneufficiale del Settore Tecnico.Tutto il materiale inviato nonsarà restituito. La riproduzio-ne di articoli o immagini èautorizzata a condizione chene venga citata la fonte.

DirettoreEnzo BearzotDirettore ResponsabileFino FiniComitato di RedazioneLuigi Natalini (coordinatore)Felice AccameAntonio AcconciaFabrizio CattaneoFranco FerrariLuca GatteschiGianni LealiMario MarellaFranco Morabito

Paolo PianiM. Grazia RubenniGennaro TestaGuido VantaggiatoLeonardo VecchietMarco VianiAzeglio Vicini

4di Enzo BearzotEDITORIALE

46di Luigi “Cina” BonizzoniIL DRIBBLATORE È UN CREATIVO?CERTO E MOLTO

FONDAZIONE«MUSEO DEL CALCIO»

33di Felice AccameLA PARTITA DELLA SETTIMANACENTRO STUDI E RICERCHE

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ED

ITO

RIA

LE

EDITORIALE

C on l’arrivo di Marcello Lippi sulla panchina azzurra si apre una nuova pa-

gina nella storia della nostra Nazionale, reduce da prestazioni inferiori al-

le attese sia ai Mondiali del 2002 che agli Europei di quest’anno.

La scelta della Federazione è caduta su un tecnico di grande esperienza e di asso-

luto valore: lo dimostrano i suoi numerosi successi ottenuti in carriera alla guida

di squadre di club. L’impegno che lo attende non è facile considerato che fra Cam-

pionato e Coppe gli spazi per le squadre azzurre sono sempre più compressi, il che

non agevola certamente il suo lavoro. Ma le premesse perché possa far bene ci so-

no tutte, i Mondiali in Germania nel 2006 sono già dietro l’angolo e rappresenta-

no l’occasione migliore per archiviare definitivamente le recenti delusioni.

L’augurio che, unitamente a quello del Settore Tecnico, gli rivolgo è che possa

avere l’opportunità di operare in un ambiente sereno e che l’Italia sappia ri-

conquistare quel ruolo di primo piano che ha quasi sempre ricoperto in ambito

internazionale.

Vivi complimenti a Claudio Gentile ed alla Nazionale Olimpica che, poco dopo

aver conquistato l’ennesimo titolo continentale per Nazionali Under 21, ha vin-

to la medaglia di bronzo ai Giochi olimpici di Atene. E’ stato un risultato di por-

tata storica: erano 68 anni che gli azzurri non salivano su un podio a cinque cer-

chi, l’ultima volta fu a Berlino nel 1936 quando la squadra di Vittorio Pozzo si

aggiudicò l’oro battendo in finale l’Austria per 2-1.

L’Italia Under 21 ancora una volta ha dimostrato talento e carattere a conferma

dell’assoluta qualità dei nostri vivai: strada sulla quale le nostre Società dovran-

no continuare ad investire per poter contribuire in misura rilevante allo sviluppo

del calcio nazionale.

Enzo Bearzot

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SCUOLAALLENATORITECNICO-TATTICA

Pubblichiamo un estratto dalla tesi presentata da Gianluca Vialli

al termine del corso Master che illustra le differenze peculiari tra

il calcio inglese e quello italiano relativamente alla figura del cal-

ciatore. (Prima parte)

L’ITALIANO E L’INGLESE,PENSIERI DI UNA NOTTE INSONNE

ualche mese fa, in una notte d’inverno, non riuscivo

a dormire. Il mio pensiero si dibatteva tra Italia ed

Inghilterra, riflettendo sul calcio delle due nazioni. In

preda alle divagazioni della mia mente, presi carta e

penna e buttai giù i miei pensieri, di getto. Ciò che

segue è il frutto della mia notte insonne.

Mai visto gli inglesi togliere il piede dall’accelerato-

re. Vanno sempre a tavoletta. Il ritmo è elevatissimo, non ci sono

pause. L’arbitro fischia pochisssimo, i calciatori adorano lo scon-

tro fisico, lo accettano e non richiedono l’assistenza del fisiotera-

pista-massaggiatore, se non in casi gravi.

Lo spettatore si eccita ed applaude situazioni di gioco quali il tac-

kle difensivo e il cambio di gioco per il terzino che si spinge in avan-

ti o per l’ala che attende molto larga nella posizione tipica di chi

intende, una volta ricevuto il pallone, puntare l’avversario diretto.

Il tackle è “applaudito”, incoraggiato, apprezzato; invoglia il gio-

catore a mettere l’avversario diretto sotto pressione immediata;

non c’è temporeggiamento né attesa. Il giocatore inglese, una

volta recuperata la posizione più o meno arretrata a seconda dei

dettami dell’allenatore, si getta sull’avversario con grinta, deter-

minazione e coraggio.

Due le possibilità: il difendente ruba la palla ed innesca un imme-

diato contropiede condotto a velocità vertiginosa oppure, fallen-

do l’intervento, permette all’avversario di lanciarsi verso la porta

opposta creando una sicura azione di pericolo (raramente, c’è, in

effetti, una terza possibilità, quella del fallo, poco probabile

comunque grazie al riconosciuto fair play tipicamente britannico

e la evidente ritrosia degli arbitri a fermare il gioco).

Comunque vada il ritmo è garantito, la mentalità dei giocatori è

offensiva, di conquista, di attacco anche nella fase di difesa, quan-

do il primo obiettivo è la conquista,il più velocemente possibile,

del pallone piuttosto che la difesa ermetica della propria porta.

Questa è la mentalità che ritroviamo nel DNA del popolo britan-

nico. Isolani, maestri nel difendersi con decisione se attaccati,

comunque amanti dell’avventura e coraggiosi conquistatori del

territorio altrui, quasi questo fosse l’unico vero motivo per cui

valga la pena scendere in campo.

Il latino, l’italiano in particolare, è invece più avverso alla domi-

nazione in terra straniera, non è interessato al territorio nemico,

si tiene stretto il suo, ma è disposto a sottomettersi pur di non

compromettere il suo quieto vivere.

Ha grande inventiva, gli piace l’arte ed il tocco di genio, apprezza

la classe e adora il proprio eroe. è individualista e insubordinato,

pronto ad alzare bandiera bianca alle prime difficoltà.

Fa di necessità virtù, si ingegna, si arrovella, diventa maestro di

tattiche difensive con le quali compensa il poco coraggio e la

scarsa forza d’urto. Con il pallone tra i piedi l’italiano è un artista

individualista, un creatore di gloria personale, scostante ma

geniale, studia l’avversario nelle sue debolezze e piazza il colpo

vincente, con classe ed eleganza.

La difesa del proprio territorio è costante, attenta, passiva, quasi

involontaria. L’arguzia tattica, la furbizia è universalmente rico-

nosciuta, temuta per la sua capacità di annientare ogni velleità

avversaria di gioco e di spettacolo. La spasmodica difesa della

rete e la conseguente necessaria pazienza nell’attendere l’aper-

tura di un varco buono, una breccia tra le maglie avversarie, ne

hanno fatto un maestro di strategie difensive.

Con cautela, spesso con un pò di rassegnazione, si manda avanti

Q

L’ITALIANO E L’INGLESE,PENSIERI DI UNA NOTTE INSONNE di Gianluca Vialli*

*Tesi di fine studio del Corso Master 2003/2004 per l’abilitazione ad allena-tore professionista di 1ª Categoria.

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SCUOLAALLENATORITECNICO-TATTICA

un incursore, qualche volta due, al massimo tre. A loro il compito

di colpire l’avversario al cuore, frenarne lo slancio, violandone il

territorio poco custodito.

Il resto della squadra rimane bloccato in difesa pronto a ricomin-

ciare a respingere l’assedio avversario nel caso la sortita dei com-

pagni venga neutralizzata. L’italiano teme il britannico per la sua

superiorità fisica, per il suo straordinario coraggio, il suo spirito di

squadra, la sua voglia di sottometterti e convertirti al suo credo

tattico: forza, ritmo, coraggio e sempre avanti!

Il britannico non teme l’italiano. Non lo invidia, lo deride e lo com-

patisce, non c’è niente in cui vorrebbe assomigliargli. Sotto sotto,

però, sa che non può sottovalutare la furbizia, la malizia, l’impre-

vedibilità, la bravura nella tecnica e tattica difensiva e la capacità

di ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo offensivo.

Il britannico è fiducioso, quasi arrogante, se trova lo spiraglio col-

pisce, se non lo trova continua testardo all’attacco per soddisfare

la necessità di assaporare il gusto della vittoria.

Non teme l’avversario per principio e questo lo rende fortissimo

ma anche vulnerabile.

L’italiano è avaro e concede poco, lo spettacolo lo lascia fare agli

altri, assorbe le energie dell’avverario e si prepare ad usarle con-

tro di lui, con calma, grande pazienza, come un serpente a sona-

gli, si prepara a colpire mortalmente chi lo minaccia.

L’italiano può risultare pericoloso. Come uno specchio emana luce

riflessa, è fragile, si può rompere ma se non stati attento ti puoi

anche tagliare profondamente, fino a farti dissanguare.

IL CALCIATORE

I primi calci

Il primo pallone, non di cuoio, naturalmente, spesso è stato un

SuperTele di gomma, di quelli che si trovavano una volta al

mercato. Chi ha visto un bambino di tre o quattro anni calcia-

re un pallone, che a momenti gli arriva al ginoccho, sa che, a

quell’età, non vi è una matrice calcistica definita: il bimbo ita-

liano è uguale a quello inglese, a quello cinese, a quello vene-

zuelano etc.

I sentieri calcistici si separano poco più avanti, magari già nelle

prime partitelle tra coetanei e, per quelli che avranno poi la for-

tuna di fare del calcio una professione, quei sentieri continuano

a separarsi sempre più, a causa di tanti fattori: climatici, cultura-

li, sociali, economici. Questi sentieri separati,che allontanano tra

loro i calciatori di vari paesi, non sono congenitamente una brut-

ta cosa. è grazie alle loro peculieari differenze che vi è una scuo-

la calcistica italiana diversa da quella inglese o da quella brasi-

liana o tedesca. Questa varietà arricchisce il calcio e mette a con-

fronto vari modi di interpretare e vivere il nostro sport. Si tratta

di un’opportunità didattica importante ed è con questo spirito

che questa ricerca è stata avviata. L’idea è di fare un’analisi com-

parata fra due delle più importanti scuole calcistiche del mondo

e, magari, di trarre qualche conclusione che possa aiutarle a svi-

lupparsi in un modo più sano, più professionale e, soprattutto,

più sportivo.

Quasi tutti noi calciatori abbiamo iniziato a formarci non in qual-

Marcello Lippi

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che società sportiva e neanche all’oratorio, ma nelle prime parti-

telle tra amici. Chi gioca nel parco, chi in strada, come faceva Pelè

col suo ormai celebre pallone fatto di stracci. è qui che si impara-

no le prime nozioni, seppur ruvide, di tecnica e tattica. Io giocavo

in un cortile, uno spazio quasi tanto largo quanto lungo. In un

“campo” del genere, era quasi impossible non sfruttare le

“fasce”. Forse, seppur in minima parte, è anche per questo che,

anni dopo, da “grande”, sono diventato uno di quegli attaccanti

che amava svariare su tutto il fronte d’attacco, sfruttando gli

spazi e facilitando gli inserimenti dei compagni.

“Da maggio a settembre si giocava in spiaggia” - ricorda

Marcello Lippi, nato e cresciuto a Viareggio - “Poi, ci si spostava

in pineta. Usavamo due pini per ogni porta, gli altri pini erano i

difensori che dovevi scartare. A volte giocavamo con le scarpe,

spesso a piedi nudi. Il calcio si impara lì, non a fare due ore di

scuola calcio.”

È stato così anche per Ray Wilkins: “Tutti i giorni, dopo la scuola,

ci si trovava al parco che, nel mio caso, era proprio davanti a

casa” – spiega - “e, nei giorni di festa, l’appuntamento era per le

9 di mattina. Tutti puntuali. La sera poi, le nostre partite si spo-

stavano in casa. Il campo era il corridoio, una porta era la porta

di casa, l’altra quella della cucina. Ovviamente non potevamo

usare un pallone vero e, allora, ci si arrangiava con un pallonci-

no.”

Sven Goran Eriksson non ha raggiunto, da calciatore, i livelli di

Lippi e Wilkins, ma l’iter è stato lo stesso anche a qualche migliaio

di chilometri da Viareggio, in Svezia.

“Da bambino iniziavamo a giocare appena si scioglieva la neve e

smettevamo soltanto con le prime nevicate in autunno,”- rac-

conta - “Per tutto il resto del tempo giocavamo sempre. Sempre,

sempre, sempre.”

I tempi sono un pò cambiati, per tutti noi. Quando ero bambino,

non c’erano nè Internet, nè la Playstation. La mia televisione

riceveva due canali, oggi ne riceve centinaia. Il doposcuola

significa quasi esclusivamente giocare con gli amici. Quasi sem-

pre a pallone.

“Molti bambini oggi hanno il computer e preferiscono restare

chiusi in casa” - afferma Wilkins - “e poi,in Inghilterra, è

aumentata la criminalità. Io non manderei mai i miei figli a gio-

care nel parco dove giocavo io. Di questi tempi, ci sono troppi

balordi in giro.”

Ma non sono solo la TV, il computer e la criminalità a rendere più

difficile le partitelle spontanee tra bambini. Vi sono anche altri

importanti fattori sociali. Quasi tutti i paesi dell’Europa occidenta-

le hanno visto un’esplosione del ceto medio. Il diploma, se non la

laurea, sono ormai alla portata di una grossa fetta della popola-

zione e quindi il ceto medio di oggi non è più quello di una volta.

“I giovani oggi hanno mille altri impegni”- spiega Lippi - “Si

gioca meno, molto meno. I genitori, giustamente, non vogliono

tirare su ragazzi che sanno solo giocare a calcio. Io invece, il fine

settimana, la mattina giocavo nel campionato Allievi, al pome-

riggio, sotto falso nome, giocavo in Prima Categoria.”

Sotto questo profilo, tutta l’Europa è paese.

“La qualità della vita è migliorata tantissimo e forse ha un pò

penalizzato, o cambiato, il modo in cui ci si avvicina al calcio” -

afferma Eriksson -“Quarant’anni fa, noi giocavamo in strada e le

macchine non passavano quasi mai. Oggi non è così nè in Svezia,

nè in Italia, nè in Inghilterra. I bambini, anche piccoli, se giocano

a calcio, lo fanno in squadre organizzate, con allenamenti, due o

tre volte la settimana. Poi basta.”

Nel mio caso, sono passato dal cortile all’oratorio, e poi al

Pizzighettone, la squadra locale. Ma, anche una volta entrato nel

calcio più o meno organizzato del Pizzighettone, a 11 anni, ho

sempre trovato tempo e modo di continuare a giocare in cortile.

Non vi è dubbio che una parte del Vialli calciatore è nata li’. Ma

se i giovani di oggi non passano più interminabili giornate a rin-

correre il pallone sotto casa con gli amici, come e dove si forma-

no i nuovi calciatori?

È naturalmente impossibile rispondere senza tenere conto dei

profondi cambiamenti sociali ed economici che hanno investito

l’Europa post-bellica. Il forte salto nella qualità della vita ha avuto

effetti che hanno toccato ogni aspetto dell’esistenza quotidiana

di italiani ed inglesi, calcio compreso. L’esplosione demografica

dei centri urbani, unita alla popolarità dell’automobile, ha reso

sempre più raro, per la maggior parte della popolazione, il calcio

“da strada” o “da cortile”. Se una volta un quartiere era compo-

sto da venti case a tre piani, oggi, magari, vi si trovano dieci

palazzine, ognuna a venti piani. Chiaro che il viavai di persone

durante la giornata è assai più intenso, rendendo più difficile

qualsiasi partitella tra bambini.

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SCUOLAALLENATORITECNICO-TATTICA

“hooligans” al commercialismo sfrenato, al fatto che i suoi cam-

pioni spesso sono “mercenari”.

Forse è anche per questo motivo che per tanti anni il calcio ingle-

se è riuscito ad imporre un tetto di stipendio massimo, abolito sol-

tanto negli anni sessanta, di venti sterline alla settimana.

Un’ingaggio che, tradotto in valori attuali, equivale a circa 50 mila

sterline lorde l’anno, o circa 70.000 . Si tratta naturalmente di

un’ottimo stipendio per un’attività “normale”, una di quelle pro-

fessioni cioè che un’individuo può svolgere per quarant’anni. Ma

le carriere dei calciatori erano brevi anche allora (anzi, nella mag-

gior parte dei casi più brevi che adesso) e, di conseguenza, mol-

tissimi ex-calciatori di quegli anni sono stati poi costretti a tro-

varsi un’altro impiego, quasi sempre poco redditizio, e tantissimi

sono morti poveri. Al tempo stesso, vi era la famosa ed infausta

clausola “retain and transfer”. I calciatori restavano “proprietà”

del loro club anche dopo il termine del contratto. Se la società

non li voleva più, poteva licenziarli. Altrimenti restavano di pro-

prietà del club, subendo una decurtazione dell’ingaggio del ses-

santa per cento e senza la possibilità di sistemarsi altrove, salvo

che con il consenso della società. Tutto ciò mentre gli stadi erano

pieni e i botteghini facevano festa, rendendo milionari i proprie-

tari delle società.

Nel 1962, grazie alla Professional Footballer’s Association (PFA:

l’assocalciatori inglese) ed all’impegno di Jimmy Hill, ex-stella del

Fulham, i calciatori sono riusciti ad abolire il tetto salariale ed otte-

nere lo svincolo - seppur con parametro - al termine del contratto.

“I calciatori venivano trattati dalle autorità come venivano trat-

tati gli operai e coloro che lavoravano nelle miniere, cioè male,”

spiega Gordon Taylor, figlio di sindacalisti ed oggi amministratore

delegato della PFA. “Oltre all’ingiustizia palese del sistema la

situazione faceva si’ che soltanto le classi meno agiate entravano

nel mondo del calcio. Logico, perchè chiunque aveva la possibili-

tà di studiare o imparare un mestiere sapeva che avrebbe potuto

contare su un futuro migliore, mentre il calcio offriva, nella

migliore delle ipotesi, soltanto qualche anno di stipendi tutto

sommato modesti. L’abolizione del tetto salariale è stata impor-

tantissima perchè ha permesso a molta gente come me o come

Steve Coppell, ragazzi non certo ricchi, ma di un ceto sociale

medio e non proletario, di giocare a calcio. Se fosse stato ancora

in vigore il tetto salariale, i nostri genitori ci avrebbero mandato

Contemporaneamente, se nell’immediato dopoguerra l’automo-

bile era alla portata soltanta dei benestanti, negli ultimi trent’an-

ni tale “privilegio” si è rapidamente esteso un pò a tutti. Quindi,

nelle città, più densità di popolazione e più automibili e,quindi,

meno calcio giocato per strada.

Se questo discorso vale per chi cresce negli agglomerati urbani,

nelle campagne e nelle zone di montagna si sono verificati feno-

meni opposti che hanno contribuito all’insorgere del problema.

Innanzitutto l’emigrazione verso le città ha ridotto le popola-

zione di molte zone rurali, un fenomeno accelerato dal declino

nel tasso di natalità negli anni 70. Al tempo stesso, il benessere

generale ha fatto si’ che cambiassero le esigenze domestiche

della famiglia media. Nei centri rurali, una volta, vi era una den-

sità di popolazione paragonabile a quella delle città. Oggi, nei

centri dei paesi, in palazzi dove una volta abitavano cinque o sei

nuclei famigliari, se ne trovano magari due o tre, spesso com-

posti solo da anziani. Le giovani famiglie con bambini tendono,

oggigiorno, a spingersi unfuori dei centri abitati, alla ricerca del

verde e di appartamenti più spaziosi. Una migrazione resa pos-

sibile - ancora una volta - dall’automobile. Il problema è che

queste famiglie finiscono in zone dove le case sono distanti tra

loro e non vi è quel contatto quotidiano che genera le amicizie

tra bambini, quel rapporto che, in passato, sfociava in partite di

calcio in strada.

A monte di tutto ciò vi è il fatto che i bambini di oggi hanno molte

più distrazioni ed opportunità che in passato. Se questo fenome-

no è rilevante in Italia, lo è ancora di più in Inghilterra, dove vi è

maggiore stratificazione sociale e dove il calcio, per vari motivi, è

comunque sempre stato lo sport delle classi lavoratrici.

Il calcio, nato da una costola del rugby, ha per tantissimi anni

faticato a fare breccia negli interessi delle classi agiate inglesi,

che gli hanno sempre preferito il “fratello maggiore” (il rugby)

oppure il cricket. Questi due sport, rugby e cricket, fino a pochis-

simi anni fa si sono contraddistinti per un dilettantesimo inte-

gralista, assai diverso dal calcio che, fin dalle prime battute, non

ha evuto esitazione nel ricompensare economicamente i suoi

atleti. In una visione semplicistica, questo può essere uno dei

motivi che spiega perchè rugby e cricket, nell’immaginario tradi-

zionale inglese, restano sport “puri”, mentre il calcio è spesso

considerato vittima di varie contaminazioni, dalla piaga degli

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all’università, non certo a giocare a pallone.”

L’eredità culturale di questo passato signfica che, ancora oggi, in

molti luoghi, il calcio è visto come lo sport degli ignoranti, dei buz-

zurri, dei volgari, di coloro che non hanno mai avuto l’opportunità

di cimentarsi in uno sport “nobile” come rugby o cricket. Non a

caso, nelle scuole private inglesi, dove tutt’ora vengono sfornate la

future classi dirigenti, il calcio viene considerato uno sport “mino-

re” e, addirittura, in molte non viene praticato affatto.

Viceversa, in Italia, il calcio non ha subito la stessa stigmatizza-

zione sociale. Come tutti gli sport, naturalmente, richiede sacrifi-

co e fatica, con pochissime possibilità di arrivare al professioni-

smo e, quindi, la maggioranza dei professionisti tende a proveni-

re dal ceto medio o medio-basso.Tuttavia, non mancano gli esem-

pi di calciatori italiani cresciuti in famiglie benestanti - da Lionello

Manfredonia ad Andrea Pirlo - che hanno avuto successo nel

mondo del calcio.

“In Italia ho conosciuti calciatori cresciuti poveri ed altri cresciuti

ricchissimi - racconta Marcel Desailly - L’estrazione sociale varia

tantissimo. In Inghilterra vengono quasi tutti da un background

proletario. Non ci sono figli di medici o avvocati. Credo che sia

anche perchè il calcio in Italia è visto in maniera diverso. Per una

famiglia borghese avere un figlio calciatore è un vanto, in

Inghilterra è, non dico una vergogna, ma sicuramente il sengo

che i genitori in qualche modo hanno fallito.”

Tutto ciò però, come si è detto, sta cambiando. La stratificazione

sociale in Inghilterra è assai più marcata, ma anche li’, come in

Italia, si va verso una struttura socio-economica con un’enorme

ceto medio, pochi ricchi e pochi poveri. Lo stereotipo sociale del

figlio di operai o minatori (come poteva essere un Giovanni

Trapattoni o un Bobby Charlton) che giocava a pallone in strada

sotto casa è cambiato. Oggi, anche nei quartieri più poveri, non

mancano le scuole calcio, spesso affilliate a società. Può capitare

che un bambino, dall’età di sette anni, giochi a pallone esclusiva-

mente sotto l’occhio di adulti, che possono essere allenatori,

maestri o genitori-volontari.

Questo fenomeno da un lato fa si’ che i bambini siano più segui-

ti e quindi può essere consideratoun fatto positivo. D’altro lato

però, essendo il calcio praticato sotto la supervisione di adulti, la

preparazione tecnica degli adulti stessi diventa assolutamente

fondamentale. Non solo, ma spesso significa che le nuove gene-

razioni - o quantomeno, coloro che hanno tirato i primi calci dagli

anni 70 in poi - riflettono ancora di più la cultura calcistica del

loro Paese. Già, perchè se si osserva un gruppo di bambini di otto

anni d’età che giocano a pallone, tra di loro si notano poche dif-

ferenze da Paese a Paese. A quell’età il calcio è solo un gioco, al

massimo si cerca di emulare l’idolo visto in TV. Cosi’ il bambino

italiano tenta il colpo di tacco alla Francesco Totti, mentre quello

inglese magari si cimenta in uno stacco di testa come Alan

Shearer. Le differenze complessive,però, sono minime.

Appena si inseriscono i bambini in un contesto regogalato dagli

adulti però, tutto cambia. Si comincia ad assorbire, sia conscia-

mente che inconsciamente, la filosofia dell’adulto. E tra Italia ed

Inghilterra le differenze sono notevoli. è qui che i sentieri indivi-

duali iniziano a separarsi per davvero.

Cosa insegniamo ai bambini e come glielo insegniamo?

Il calcio giovanile inglese ha tradizionalmente svolto una funzio-

ne pedagogica, al punto che il football dei quattordicenni ha

avuto poco da spartire con quello dei professionisti. Anzi, fino ai

primi anni 90, la Football Association era dominata non da ex-cal-

ciatori, presidenti di società o allenatori, ma da insegnanti o espo-

nenti del calcio amatoriale, spesso a livello locale. Gente che

aveva priorità ben diverse dai loro colleghi italiani. Se in

Inghilterra il calcio era un veicolo per fare sport nel senso più

puro del termine e, di conseguenza, un mezzo per insegnare i

Ray Wilkins con la maglia del Milan

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SCUOLAALLENATORITECNICO-TATTICA

valori del Barone di Coubertin basati sull’ etica e sul fair play, in

Italia, la Federcalcio è spesso stata politicizzata e, in pratica, è

stata uno strumento delle società. Le quali, logicamente, erano

più interessate ad un movimento che potesse produrre buoni cal-

ciatori piuttosto che insegnare i valori della sportività.

“In Italia si insegna a giocare bene a pallone, ma senza i valori

che ti permettono di vivere il calcio in maniera sana e corretta”-

afferma Marcel Desailly - “In Inghilterra si insegnano i giusti valo-

ri, ma quanto alla tecnica e la tattica... Lo vedevo io stesso para-

gonando i ragazzini che vedevo al Milan con quelli che vedo al

Chelsea. In Italia facevano le stesse cose che facevamo noi in

prima squadra. In Inghilterra, fanno due giri di campo, mettono

su i pettorali gialli o blù, e poi via con una partitella a tutto

campo.”

La frase di Marcel mi stimola due riflessioni immediate. La prima

è che, grazie anche a questo primo impatto con il calcio organiz-

zato, il giovane calciatore italiano comincia a vedere il suo sport

come un lavoro, una professione, mentre quello inglese lo vive

come un gioco (ma di questo parleremo più avanti). La seconda è

che le differenze tecniche e fische tra i giocatori si spiegano anche

con questo diverso approccio.

“Fisicamente, e sto parlando per generalità, naturalmente vi sono

eccezioni, non vi sono particolari differenze genetiche tra inglesi

ed italiani” - afferma Tony Colbert, preparatore atletico

dell’Arsenal, distruggendo cosi’ un vecchio mito”breriano - “Le

differenze ci sono, ma sono dovute al tipo di lavoro svolto in gio-

vane età, a partire dagli otto anni.”

“Innanzitutto, il calciatore inglese tende ad essere un pò meno

coordinato di quello straniero - aggiunge –“ è una cosa che si

nota subito negli esercizi che facciamo. Gli stranieri sono meno

macchinosi, più agili. Detto questo, il calciatore inglese è un vero

e proprio diesel. Corre per novanta minuti, sempre alla stessa

velocità. Gli manca forse l’esplosività per arrivare primo sul pal-

lone, ma continua comunque a correre. Lo straniero, viceversa, è

più abituato alle accelerazioni ed alle pause. Non ha la stessa

resistenza ma, in compenso, ha spesso più forza esplosiva. A mio

avviso questo è un risultato diretto del tipo di lavoro svolto da

piccoli. Noi inglesi, tradizionalmente, ci alleniamo quasi sempre

con la palla e spesso in partitelle, otto contro otto, cinque contro

cinque. Si corre in continuazione. Voi invece fate più esercizi spe-

cifici, più allenamenti mirati a migliorare la base tecnica.Vi è poi

un’altro fattore importante - conclude - Voi siete più bravi nell’i-

dentificare i giocatori tecnicamente dotati e svilupparli. Noi inve-

ce siamo più orientati verso quelli che sanno lottare e correre,

anche pur non avendo la base tecnica.”

In poche parle Colbert ha toccato molti argomenti, riassumendo

e spiegando molte cose. Ad esempio, l’ammirazione inglese per i

giocatori grintosi è sviscerata. Non a caso in Nazionale, special-

mente negli anni ottanta e nei primi anni novanta, si sono visti

elementi dai piedi ruvidi ma che però garantivano il massimo

impegno. E forse non è una coincidenza che quando il Leeds

United ha voluto ricordare, con una statua al di fuori di Elland

Road, il grande Leeds dei primi anni 70, il giocatore prescelto non

è stato l’elegante ala Johnny Giles o il bomber Peter Lorimer, ma

bensì il mediano interditore Billy Bremner.

Tutto ciò incide tantissimo anche nei rapporti con il pubblico e

con la stampa. Gli spettatori inglesi criticano la squadra sol-

tanto quando si convincono chequesta manca d’impegno. E,

quando una squadra perde o pareggia, la stampa si interroga

non sui moduli o sulla scelta della formazione, ma sulla “man-

canza di passione e grinta”. Come se il compito principale di

un’allenatore fosse quello di infondere la voglia di vincere e di

lottare nei giocatori.

Sven Goran ErikssonSven Goran Eriksson

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fortuna di avere ottimi allenatori, sia sotto il profilo tecnico sia

sotto il profilo umano, raramente ho avuto insegnamenti partico-

lari in merito. Non è che, ad esempio, noi attaccanti venivamo

incoraggiati a buttarci al minimo contatto o, peggio ancora, a

simulare. Però la simulazione non veniva vista come un’imbroglio,

bensi’ come un atto di furbizia. Quando capitava che un nostro

avversario si procurava un rigore, ingannando l’arbitro con una

caduta in area di rigore, l’atteggiamento dell’allenatore non era

quello di condannare l’avversario per avere simulato.

“è stato furbo!” - ci diceva (più o meno, sono passati tanti

anni...)- “Voi difensori dovete fare più attenzione, non dovete

dargli l’opportunità di cadere.”

Al tempo stesso, per noi attaccanti la simulazione era vista come

un modo di vendicarci per le molte botte subite in ogni zona del

campo. Era quasi come se, lontano dall’area di rigore, fossimo

condannati a subire pedate e gomitate varie ma, una volta in

prossimità della rete avversaria, potevamo rifarci, guadagnando

un rigore o facendo espellere l’avversario.

Non era certo un grande esempio di lealtà sportiva, ma del resto,

anche a livello giovanile, in Italia la priorità è quella di vincere, di

migliorare la classifica. Spesso gli allenatori non sono uomini che

lavorano solo per il piacere di insegnare questo sport (e i suoi

valori) ai ragazzi. Sono persone che nutrono ambizioni personali,

che vogliono vincere a livello giovanile, magari per guadagnarsi

la possibilità di allenare a livello professionistico.

“In Italia, nelle giovanili si impara scaltrezza e malizia tattica” -

afferma Lippi - “Si gioca, poi, per tutta la settimana successiva,

si pensa solo a preparare la prossima gara. Si è ossessionati dalla

classifica. Negli altri paesi non sanno nulla di tutto questo. Si

pensa solo a giocare ed a migliorare. Il risultato è secondario.”

L’enfasi che mettiamo sul risultato in Italia non ha solo risvolti

negativi. Il calciatore italiano è più evoluto tatticamente ed è più

portato a mettersi al servizio della squadra.

“Gli italiani sono latini particolari, un pò come gli argentini”

afferma ancora Lippi- “Siamo tosti, ma tecnici. E poi abbiamo

un qualcosa che nessun altro paese europeo può vantare, a parte

forse la Francia. Siamo molto evoluti tatticamente, abbiamo una

versatilità che gli altri non hanno.”

Però il calcio non è una cosa statica e la situazione sta cambian-

do anche in Inghilterra, come conferma Andy Cale, responsabile

Colbert ha ragione anche quando parla del tipo di preparazione

che si fa in Italia. Io stesso ricordo di avere fatto, da giovane, gli

stessi esercizi decine di migliaia di volte. Palleggi, stop, dribbling,

destro, sinistro etc; a me piaceva e non ci facevo caso, ma ripen-

sandoci mi accorgo di avere fatto cose che, probabilmente, i miei

coetanei inglesi non hanno fatto. Anche per questo motivo i cal-

ciatori inglesi - e, di nuovo, stiamo parlando per generalità, le

eccezioni ci sono sempre - tendono ad essere meno coordinati e

meno tecnici. è un aspetto che ha notato anche Desailly.

“Abbiamo tutti notato un certa rigidità nei giocatori inglesi quan-

do sono arrivati in Inghilterra, portati da allenatori stranieri, certi

esercizi che prima non c’erano,” afferma il francese. “Questo

riflette anche illoro modo di giocare, non tanto adesso, ma piut-

tosto di quando erano più giovani. L’inglese tende ad avere una

base forte e potente, mentre per loro la coordinazione non è

necessariamente una cosa particolarmente importante.”

Vi è poi l’aspetto tecnico. In Italia è curato molto di più, per molti

motivi (alcuni dei quali vedremo più avanti), anche se il divario

tecnico tra i due paesi si sta lentamente chiudendo.

“Tecnicamente i difensori erano bravi quanto me, ed io dovevo

essere il centrocampista di qualita” - afferma Wilkins - “Non mi

credevo certo scarso tecnicamente, ma al Milan ho rimediato

delle vere figuracce in allenamento. Quando si giocava a torello

ed eravamo in mezzo io e Mark Hateley, si finiva soltanto quan-

do Mark rifilava una pedata a qualcuno. Altrimenti saremmo

andati avanti in eterno, con noi due in mezzo.”

In Italia si è anche più bravi nell’identificare i ragazzi di talento in

giovane età, grazie all’organizzazione capillare dei club. è raro

trovare un elemento che a metà carriera gioca nei dilettanti e poi

si ritrova in Serie A. In Inghilterra invece i casi sono più frequenti,

vedi Kevin Phillips o Ian Wright.

“Se uno ha un pò di abilità è più facile venire fuori perchè viene

individuato dalle societa” - spiega Lippi - “In questo siamo bravi,

anche perchè vi è un’organizzazione maggiore, non sfugge nulla.

In questo ci siamo affinati particolarmente negli ultimi anni. Vedo

una differenza rispetto ai miei tempi. Quando si giocava in pine-

ta c’era addirittura chi era più bravo di me, eppure non è venuto

fuori. Oggi è più difficile che succeda.”

Tornando al discorso dei valori, viceversa, anche se ho avuto la

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per il calcio giovanile della Football Association: “Negli ultimi

anni ci siamo trovati in una situazione particolare”- afferma - “Si

è sempre pensato che la filosofia di base nell’istruire i giovani

fosse quella dell’insegnamento dei valori e dello sviluppo umano.

Come filosofia è sicuramente giusta, però la natura del calcio è

tale che si vuole innanzitutto vincere. Anche perchè la struttura

del calcio giovanile inglese è cambiata. Adesso che vi sono acca-

demie in molti club e si spende tanto per mantenerle, certi club

stanno privilegiando l’importanza della vittoria, anche per quan-

to riguarda i giovani.”

In effetti, il calcio inglese nell’ultimo decennio ha sperimentato

vari assetti nell’organizzazione del movimento giovanile, a testi-

monianza che gli stessi inglesi non erano pienamente soddi-

sfatti con la struttura precedente. Se da un lato l’insegnamento

di valori e fair play era encomiabile, è altrettanto vero che i cal-

ciatori inglesi tendevano ad avere notevoli lacune tecniche e

professionali.

“In Inghilterra hanno più fair play, certamente”- afferma Desailly

- “Ma hanno anche più fobie perchè vengono da un background-

culturale mediamente più basso. Hanno meno coscienza dell’im-

portanza del loro lavoro. I giovani qui fanno sempre delle” stron-

zate”. In campo si impegnano, è vero, ed hanno rispetto per l’av-

versario. Ma fuori dal campo non riescono a capire che quello che

stanno facendo è un lavoro e che avrà un’impatto sul loro futuro.

Il giovane italiano invece è già professionista. è serio, è prepara-

to, è attento nel mangiare e nel bere.”

Charles Hughes, leggendario e controverso ex-direttore tecnico

della Football Association, segnò per tanti anni la filosofia del cal-

cio inglese con la sua visione di un football giocato ad alta velo-

cità, in cui si doveva arrivare a tirare in porta con un massimo di

tre passaggi (ma di questo parleremo più avanti). Hughes capi’

che, per migliorare, i giocatori più bravi dovevano allenarsi con

quelli di pari abilità. Per questo motivo Hughes creò un sistemo di

scuole calcio (“Centers of Excellence”) dislocate nel territorio

nazionale, con una specie di “superscuola”, il Centro di Lilleshall,

per i sedici quattordicenni più dotati. Si trattava di programmi

biennali e, da Lilleshall, passarono elementi come Steven Gerrard,

Michael Owen e Sol Campbell.

Vi era però un problema di fondo nella filosofia di Hughes, come

spiega John Barnwell, presidente della League Managers

Association (LMA, l’associazione degli allenatori inglesi):

“Charles Hughes ha fatto tante ottime cose, ma nella sua filoso-

fia non vi era spazio per gli ex-giocatori” - spiega Barnwell - “Per

lui gli allenatori dovevano essere insegnanti e, ovviamente, non

ci sono molti ex-calciatori professionisti che poi vanno a fare i

maestri di scuola. Vi era molta teoria e poca pratica. Per questo

abbiamo chiesto un’inversione di rotta alla Football Association.”

L’inversione di rotta è arrivata nel 1996 con la famosa riorganiz-

zazione voluta e studiata dal nuovo direttore tecnico, Howard

Wilkinson. Venne chiuso il centro di Lilleshall e i vari centri regio-

nali vennero sostituiti da accademie gestite direttamente dai club

oppure, nei club più piccoli, da strutture denominate “centers of

excellence” ma comunque sotto il controllo delle società. In

aggiunta, queste accademie iniziano a lavorare con i bambini dal-

l’età di sette anni, gettando le basi per uno sviluppo appropriato.

La Football Association pone requisiti minimi per il riconoscimen-

to da parte della FA di un’accademia o di un “center of excellen-

ce” . Requisiti che dovrebbero, tuttavia, garantire la giusta pro-

fessionalità, sia da parte dei ragazzi, che dallo staff tecnico.

“Si sono accorti che il sistema precedente comportava costi

enormi e che, nel caso del centro nazionale di Lilleshall, alcuni

ragazzi non volevano andare, oppure le loro famiglie non voleva-

no lasciarli andare cosi’ lontano” - afferma Cale - “Senza conta-

re che, col nuovo sistema, le società sono più coinvolte nello svi-

luppo dei giocatori o, quantomeno, possono vederlo da vicino.”

Non è un fattore da sottovalutare. Anche se i club non potevano

vincolare un giovane fino ad una certa età, comunque preferiva-

no averlo sotto mano e curarne lo sviluppo, piuttosto che affidar-

lo alla Football Association. Il nuovo sistema è mirato ad intro-

durre una maggiore professionalità e migliori basi tecniche e tat-

tiche, proprio per colmare il ritardo nei confronti di altri paesi.

“Da ragazzo nessuno mi ha insegnato ad essere professionisti”-

afferma Wilkins - “E da adulto, anche se giocavo per il club più

importante d’Inghilterra, il Manchester United, ho imparato cosa

significasse il professionismo solo quando mi sono trasferito al

Milan alla bella età di 27 anni. Le accademie possono contribuire

al miglioramento tecnico del calciatore inglese, insegnando

anche cose importanti come l’alimentazione ad esempio. Quando

ero nelle giovanili del Chelsea, il nostro pranzo pre-partita era

una bisteccona con un’intera pagnotta. Invece, i giocatori del

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Milan, anche i ragazzini, mi sembravano banchieri o avvocati,

gente di una serietà totale che viveva per il calcio. Ogni dettaglio

veniva curato nei minimi particolari,

tutto l’opposto dell’Inghilterra”- ammette ancora Wilkins -

“Anch’io, non mi comportavo certo nel modo professionale. Se

c’era da giocare il sabato, non avevamo problemi nell’uscire il

venerdi’ sera, ad esempio. Diverso era anche il nostro atteggia-

mento verso l’alcool. Ricordo che al Milan, alla fine del pranzo,

rimanevano spesso bottiglie di vino ancora mezze piene sul tavo-

lo. Da noi non sarebbe mai successo, ogni bottiglia sarebbe stata

scolata fino in fondo...”

Le accademie inglesi sono ancora alla ricerca della giusta formu-

la e di una loro precisa identità. Identificare le lacune, come ha

fatto encomiabilmente Wilkinson, è una cosa, trovare le giuste

soluzioni è un’altra. Tutti sono d’accordo che il calcio inglese deve

cambiare, ma non tutti concordano sul modo giusto per farlo.

“Personalmente, credo che adesso che il calcio è diventato feno-

meno globale, dobbiamo anche ragionare al di fuori del nostro

continente”- spiega Barnwell - “Ad esempio, noi ci rifacciamo

molto all’Europa, magari trascurando un pò la scuola sudameri-

cana. Eppure i sudamericani hanno avuto grandi successi, proprio

perchè hanno saputo incorporare aspetti “europei”’ nelle loro

caratteristiche sudamericane.”

Comunque sia, che ci si rifaccia alla Francia o al Brasile, adesso

che i giovani inglesi operano in una struttura più professionale si

sente di più la pressione di vincere. E non è sempre facile bilan-

ciare la missione pedagogica e di sviluppo con i risultati.

Afferma Cale: “Per anni, in ogni fascia di età, si faceva giocare i

ragazzi più grossi e forti, perchè erano loro, visto il nostro modo

di giocare, che potevano meglio garantire la vittoria. Poi ci siamo

accorti che molti di questi ragazzi non progredivano tecnicamen-

te. Erano bravi a sedici anni, quando le doti fisiche facevano la

differenza, ma con il passare degli anni quando gli altri colmava-

no il disavanzo fisico, andavano in crisi perchè non eranno all’al-

tezza tecnicamente. Allora si è provato a puntare su giocatori tec-

nici, senza guardare la stazza. Il problema è che questi si trova-

vano a giocare contro avversari grossi il doppio e rimediavano

enormi batoste. Questo serviva a poco, perchè si deprimevano e

basta. Allora si è cercato di trovare una via di mezzo, privilegian-

do la tecnica unita ai mezzi fisici.”

Non è un cammino facile per molti motivi. E non sono pochi a sot-

tolineare che ci vorrà tanta pazienza.

“Tradizionalmente noi siamo sempre stati pieni di grinta, mentre

gli altri erano più bravi tecnicamente”- spiega David Platt, alle-

natore dell’Under 21 - “Le altre scuole di calcio si sono accorte

di questo ed hanno cercato di diventare grintosi quanto noi,

mentre noi inglesi abbiamo cercato di migliorare tecnicamente.

Il problema è che è più facile insegnare la grinta che la tecnica.

Ed è per questo che vorrà del tempo per arrivare ai livelli delle

altre nazioni.”

Wilkins sottolinea che vi sono certi rischi associati alle accademie.

I famosi valori di una volta si stanno via via sgretolando. Non è

rarovedere, come lo era una volta, calciatori inglesi che si lascia-

no andare al primo contatto fisico. Ed anche se i “cascatori” ven-

gono stigmatizzati e non elogiati come “furbi” o “intelligenti”,

come avviene in Italia, qualcosa sta cambiando in negativo anche

in Inghilterra.

“Con l’introduzione delle accademie troppi giocatori si sentono

arrivati”- afferma ancora Wilkins - “Io da ragazzo pulivo le scar-

pe di quelli della prima squadra. Erano i miei idoli e cercavo di

imparare da loro. Oggi non c’è più il rispetto di una volta.

Pensano che tutto gli è dovuto e questo non mi piace.”

Forse le lamentele di Wilkins sono solo i mugugni di un vecchio

professionista. O forse qualcosa sta cambiando veramente. Senza

dubbio la nuova generazione di calciatori inglesi - da Michael

Owen a Frank Lampard, da David Beckham e Steven Gerrard -

sono atleti veri che, sotto il profilo del professionismo hanno poco

da invidiare ai colleghi italiani. Il rischio sottolineato da Wilkins è

che apprendano da noi non solo le virtù, ma anche i vizi.

Il vento, nemico numero uno

Creare un’ambiente professionale con allenatori preparati è

indubbiamente importante ed aiuta a spiegare, in parte, perchè il

calciatore italiano è diverso da quello inglese. Ma vi sono altri fat-

tori, elementi al di fuori del controllo anche del miglior settore

giovanile del mondo. Mi riferisco ai fattori climatici.

Per anni si è pensato che il calcio nordico era diverso da quello

latino perchè lassù faceva più freddo, pioveva più spesso e tirava

più vento. Molte di queste considerazioni però venivano fatte

sulla base di luoghi comuni e non con precisi dati metereologici

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alla mano. Per questo motivo abbiamo deciso di analizzare pro-

prio questi dati (VEDI APPENDICE 1) per capire quali sono e quan-

to posssono incidere le differenze climatiche.

Abbiamo analizzato cinque città campione (Firenze, Milano,

Napoli, Palermo e Roma per l’Italia; Birmingham, Leeds, Londra,

Manchester e Newcastle per l’Inghilterra). In effetti, in ogni città,

le temperature massime e minime sono più alte in Italia e, con-

temporaneamente, il tasso di piovosità (calcolato in giorni di

pioggia annuali) è sensibilmente più alto in Inghilterra.

Le temperature tuttavia non incidono eccessivamente: Newcastle,

la città con la minima più bassa (4,9 gradi centigradi) non è

comunque in condizioni “polari”. Le minime italiane sono tutte

concentrate in una fascia relativemente mite (dai 7,8 di Milano ai

10,6 di Roma) salvo Palermo, dove la minima annuale è di ben 16

gradi. Questo potrebbe spiegare, almeno in parte, la relativa

carenza di calciatori professionisti provenienti dalla Sicilia: con un

tale calore diventa più difficile correre ed allenarsi e magar, anche

per questo motivo, molti calciatori siciliani tendono ad essere più

delicati fisicamente. In ogni caso, sia Italia che Inghilterra posso-

no essere considerati paesi adatti per il gioco del calcio.

Abbiamo analizzato in maggior dettaglio le variazioni stagionali

in due città campione, Londra e Milano. I dati rivelano che a

Milano vi è un’escursione termica assai maggiore.Ad esempio, tra

Dicembre e Febbraio, Milano è sensibilmente più fredda di

Londra, mentre l’opposto si verifica in estate. In altre parole,

Londra tende ad avere meno “estremi” di temperatura di Milano.

Questo significa che i bambini milanesi sono esposti ad una varie-

tà maggiore di condizioni climatiche.

Milano, complice la minore piovosità, vanta un numero maggiore

di ore di sole quotidane. Comunque anche rispetto a questo

aspetto, non vi è una differenza radicale: in inverno, i londinesi

hanno a disposizione una media di 90 minuti di sole, contro i 144

dei milanesi. Dati divergenti, ma non certo tali da trarre chissà

quali conclusioni.

Il dato climatico più rilevante, invece, potrebbe essere quello rela-

tivo al vento. Ognuna delle città inglesi prese in considerazione è

sensibilmente più ventosa di quelle italiane. La differenza minore

minore si ha tra Palermo (6,1 km/h di media mensile) e Londra

(8,3 km/h di media mensile), ma generalmente il tasso di vento-

sità è spesso il doppio in Inghilterra rispetto all’Italia.

Cosa comporta l’incidenza del vento? Parlando con vari colleghi

ho riscontrato ciò che sospettavo da tempo: che il vento,o la sua

mancanza, incide sullo sviluppo di un giovane calciatore italiano

o inglese più di qualsiasi altro fattore climatico.

“Una delle prime cose a cui mi sono dovuto adattare appena arri-

vato in Inghilterra è stato il clima” - spiega Arsene Wenger - “E

non mi riferisco alla temperatura o alla pioggia, ma in particola-

re al vento. Il vento rovina tutto, ti costringe a fare solo un certo

tipo di esercizio, tutto votato alla velocità e al movimento conti-

nuo. È rarissimo che si abbia l’opportunità di lavorare tranquilla-

mente sulla tecnica o la tattica. Devi tenere i giocatori sempre in

movimento, altrimenti si raffreddano. E questo si ripete fin da

quando sono bambini.”

Anche per questo motivo Wenger sta pensando di introdurre nel

centro sportivo dell’Arsenal, London Colney, speciali barriere anti-

vento. Un’esempio di tecnologia al servizio dello sport, anche se

l’efficacia di tutto ciò è ancora da verificare.

“Se vuoi lavorare sulla tecnica, devi avere le condizioni giuste per

farlo”- concorda Wilkins - “Quasi tutti i miei ricordi degli allena-

menti che facevo da piccolo sono associati ad un freddo intenso

ed a un gran vento. Chissà perchè non ricordo mai sedute soleg-

giate anche se, indubbiamente, ci saranno state. è una cosa che

riscontro anche da allenatore. Se vuoi dire qualcosa ad un gioca-

tore, devi calcolare l’orientamento del vento e sincerarti che sia

alle tue spalle, altrimenti non sente niente. è chiaro che in quelle

condizioni è più facile, e forse più logico distribuire i pettorali,

mettere giù due coni per le porte e fare una partitella.”

Nel rispetto della par condicio devo sottolineare che non tutti

sono d’accordo.

“È possibile che il tempo e il freddo possano incidere” - afferma

Desailly - “Un allenatore vuole fare un piacere ai giocatori, vuole

tenerli riscaldati e quindi li fa giocare. Però non credo che sia un

fattore determinante.”

In effetti, dando un rapido sguardo per l’Europa, troviamo scuole

“nordiche” come l’Olanda che ha saputo produrre giocatori dal-

l’alto tasso tecnico, oppure il Portogallo, paese assai ventoso, che

ha contribuito un numero consistente di elementi dotati tecnica-

mente. È chiaro che però in questo discorso incidono molti altri

fattori e che le condizioni metereologiche sono soltanto un’a-

spetto. E in ogni caso, le eccezioni ci saranno sempre.

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Modi diversi di intendere la vita

Tutto ciò contribuisce a spiegare in parte lo sviluppo diverso dei

giovani italiani ed inglesi. Ma vi è un’altro aspetto, più soggetti-

vo e difficile da catalogare, che incide tantissimo: la diversa

matrice culturale dei due paesi. Qui si svaria nella sociologia, nel

culturale e forse anche nella storia e nella politica. Ritengo però

che questi aspetti siano di fondamentale importanza per capire il

problema.

I luoghi comuni non sono, ovviamente, Vangelo, ma comunque

spesso contengono una base di verità. Vi è un’analogia che trovo

azzeccata nel descrivere l’approccio italiano ed inglese al calcio,

quella del pugilato. Se il calcio inglese fosse un pugile, affronte-

rebbe l’avversario con i pugni bassi, senza pensare a difendersi,

ma puntando soprattutto a colpire l’avversario. Due pugili inglesi

si affronterebbero cosi’: porterebbero colpo su colpo e, alla fine,

quello che resta in piedi vince l’incontro. Il pugile italiano, invece,

si comporterebbe in maniera diversa. Penserebbe innanzitutto

alla protezione personale, a bloccare i colpi dell’avversario,

sapendo che, finchè resta in piedi, può ancora sperare di portare

il colpo del KO. E quando il pugile italiano attacca, lo fa quasi

sempre sfruttando lo spiraglio che gli concede l’avversario, maga-

ri perchè si scopre troppo nel tentativo di attaccare.

Continuando la metafora pugilistica, l’inglese è uno di quei pugi-

li dilettanti che pratica il suo sport per puro divertimento. Si alle-

na poco e, quando lo fa, bada soprattutto ad affondare i colpi.

Viceversa, il pugile italiano è sempre in palestra, studia l’avver-

sario, cercando di carpirne i segreti ed i punti deboli. Per l’inglese

è un divertimento, per l’italiano è un lavoro (se non adddirittura

un modo per sopravvivere). Un’analogia che sentiremo ancora.

“Fino a qualche anno fa il calciatore inglese si applicava poco in

allenamento” - afferma Colbert - “Era convinto che l’allenamen-

to che si faceva dal lunedi’ al mercoledi’ era del tutto irrilevante.

Soltanto il giovedi’ cominciava ad entrare in palla, magari perchè

voleva essere sicuro di fare bella impressione sul mister prima

della gara del fine settimana. Adesso le cose stanno cambiando

anche perchè le nuove generazioni capiscono l’importanza del

lavoro e i vecchi stanno scomparendo.

“Per me è una questione innanzitutto di intelligenza” – aggiun-

ge ancora Colbert - “Non di preparazione, ma di intelligenza. Il

giocatore intelligente impara dai propri errori, quello meno intel-

ligente commette gli stessi errori giorno dopo giorno. Forse in

passato l’allenamento del giocatore inglese era basato soprattut-

to sulla brutalità e non sull’intelligenza. Ai giocatori che avevano

il potenziale per migliorare non veniva data l’opportunità.”

L’Arsenal è un caso spesso citato che illustra perfettamente que-

sto concetto. Prima dell’arrivo di Wenger, con il tecnico George

Graham, praticava un gioco all’inglese, basato sull’intensità

difensiva e sulla ruvidità del contropiede. I difensori centrali bada-

vano soprattutto a spazzare il pallone, scavalcando il centrocam-

po, gli esterni portavano palla in percussione e poi la cedevano ad

un centrocampista oppure crossavano dalla tre quarti. Schemi

prevedibili, tradizionali, ma efficaci.

“Se il tuo ruolo era quello di un esterno di centrocampo, facevi

solo quello, restavi sulla fascia esterna ed andavi avanti e indie-

Clima rigido e vento riducono la possibilità di effettuare esercizi tecnici fondamentali

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tro” - spiega Platt - “Non ti accentravi mai, non creavi spazio per

il terzino. Vi era una rigidità tattica che a volte poteva funziona-

re, ma quando non funzionava non c’erano alternative.”

Wenger era arrivato tra lo scetticismo generale, anche perchè

nelle stagioni precedenti aveva allenato in Giappone. Gli inglesi,

già diffidenti nei confronti degli stranieri, nutrivano seri dubbi sul

nuovo tecnico francese. Wenger stesso ammette che, prima di

arrivare, temeva il peggio.

“Al mio arrivo ho notato che vi erano ben otto giocatori oltre i

trent’anni” - spiega - “Per un nuovo allenatorequesto fatto è

come una bomba ad orologeria. Vi era il rischio che i veterani,

soprattutto all’Arsenal, dove avevano vinto con i metodi di

Graham, avrebbero rifiutato i miei metodi, sapendo di godere del-

l’appoggio di stampa e tifosi. Un nuovo allenatore sarebbe stato

tentato di cederli, ma era impensabile cacciare in un colpo solo

otto giocatori, specialmente per uno come me, che arrivava dal

Giappone. E poi non mi sembrava giusto, mandarli via solo perchè

erano veterani ed inglesi ed erano abituati a metodologie diver-

se.“Cosi’ ho tentato un approccio diverso” – aggiunge- “Ho cer-

cato di convincerli che, seguendo i miei metodi, avrebberi potuto

prolungare le loro carriere. Lo ammetto liberamente, ho giocato

anche sull’aspetto economico. Molti di loro guadagnavano all’e-

poca 250.000 sterline lorde all’anno. Eppure erano veterani in un

club importante che avevano vinto coppe e scudetti. Sono fiero del

fatto che mi abbiano ascoltato e abbiano avuto fiducia in me.

Grazie anche alla loro applicazione molti hanno giocato fino ai 37,

38 anni ed hanno firmato contratti importanti.”

In effetti giocatori come Tony Adams, Nigel Winterburn e Lee

Dixon hanno sempre ammesso che Wenger ha rivoluzionato la

loro visione del calcio. Hanno cominciato a preparsi in maniera

più professionale, curando gli aspetti dietetici e fisici, hanno

imparato a praticare un calcio diverso, spesso più complesso.

“Sta tutto nell’intelligenza dei giocatori ed in questo siamo stati

fortunati all’Arsenal” - spiega Colbert - “Ragazzi come Lee Dixon

erano inglesi fino all’osso, abituati in una certa maniera, ma

hanno avuto l’intelligenza e l’apertura mentale di fidarsi di

Wenger. Sono la prova che, se è vero che il calcio abitua in una

certa maniera, si può sempre cambiare. Ma solo se si ha l’intelli-

genza di base.”

Molti hanno la sensazione che l’Arsenal di Wenger sia l’eccezio-

ne, più che la regola, nel calcio inglese. Le metodologie italiane,

si pensa, non funzionerebbero in Inghilterra, perchè il calciatore

inglese deriva da una matrice culturale diversa. E qui il discorso si

fa un pò più complesso. Il calciatore inglese è sicuramente più

portato a seguire gli ordini, anche se, a volte non capisce il per-

chè di un particolare ordine o esercizio.

“C’è una storiella che mi piace raccontare” - spiega Wenger - “In

Giappone, se l’ allenatore ordini ai giocatori di correre ad alta

velocità e sbattere contro un muro, lo fanno senza battere ciglio.

Poi, quando si spaccano la testa e cadono per terra, ti guardano

e si sentono persi. Si sentono traditi dal loro allenatore, verso il

quale nutrono una fiducia totale. Il giocatore francese, come

quello italiano, di fronte all’ordine di correre a tutta velocità con-

tro il muro ti guarda e dice: Si’, lo faccio, ma prima fallo tu.. Si

fidano, ma fino ad un certo punto e bisogna prima dimostrargli

l’efficacia dell’esercizio.Quello inglese infine, per certi versi, è

come il giapponese” conclude Wenger. “Si butta a tutta velocità

contro il muro e si sfascia la testa. Però poi si rialza e ripete l’e-

sercizio. Non si sente tradito dal tecnico e non si interroga sulla

bontà dell’esercizio. Lo fa e basta.”

Secondo Wenger il giocatore inglese è più portato a seguire gli

ordini anche perchè si sente fortemente legato al tecnico. Lo con-

SCUOLAALLENATORITECNICO-TATTICA

David Platt con la maglia della Sampdoria

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sidera un compagno di battaglia ed è pronto a fare di tutto per lui.

“Qui in Inghilterra si sente spesso l’espressione. ‘Do a job for the

manager’ (‘Fallo per il mister’)” - spiega Wenger - “Oppure si

sente il tecnico che dice che i ragazzi non lo hanno seguito oppu-

re la stampa che accusa i giocatori di non avere seguito l’allena-

tore. C’è un attaccamento ed una tendenza a fare quadrato intor-

no al tecnico che non esiste in altri paesi.”

Wenger cita l’esempio della stagione 2003-04, quando Claudio

Ranieri, allenatore del Chelsea, veniva spesso attaccato dalla

stampa. Il tecnico romano era per tutta la stagione in odore di

esonero, ma i suoi giocatori, in particolari gli inglesi come John

Terry e Frank Lampard, lo difendevano regolarmente a spada trat-

ta. Difficilmente si assiste a cose del genere in Italia.

“È nel sangue degli inglesi, è un atteggiamente quasi militare” -

concorda Wenge - “Si seguono gli ordini dei superiori sempre e

comunque e non ci si arrende mai, anche quando si è sotto di tre

gol e mancano due minuti al termine. Non a caso, quando vanno

in guerra gli inglesi vincono quasi sempre, mentre gli italiani...”

Questa ubbidienza totale però può essere un’arma a doppio

taglio. Il calciatore inglese esegue gli ordini, ma non sempre capi-

sce, o gli interessa a capire, cosa sta dietro a certi ordini.

“Gli inglesi sono sicuramente molto ubbidienti e credo che que-

sto sia anche dovuto in parte a come sono preparati a livello gio-

vanile” - spiega Giovanni Vaglini, ex-preparatore atletico alla

Juventus che ha lavorato con me al Watford - “In Inghilterra non

ho mai visto uno di loro dirmi di no. Però pochissimi avevano il

coraggio o l’umiltà di chiedermi perchè facevamo determinati

esercizi. E non sembravano interessati a dialogare, nè con me,

nè con i giocatori più esperti. Per loro l’allenamento era come

timbrare il cartellino. Arrivavano, davano l’anima per tre ore e

poi se ne andavano. Per uno come me, che veniva dalla

Juventus, era un pò come tornare alle scuole medie dopo avere

lavorato all’università.”

È d’accordo anche Eriksson anche se, come ammette, lui ha avuto

la fortuna di lavorare con il meglio del calcio inglese.

“Premesso che io ho visto soltanto il top e quindi non posso dire

come sono le cose a livello di club, ma lo spirito di sacrificio e la

voglia di lavorare degli inglesi è straordinaria” - spiega il CT

inglese - “Non ci sono mai discussioni, seguono ogni ordine fino

in fondo. In Italia no, sono tutti pronti a discutere. Ma perchè fac-

ciamo questo? Ma non è meglio se facciamo quest’altro? Forse è

anche una caratteristica dei latini...”

Questa tendenza a criticare o analizzare gli ordini ricevuti può

essere una cosa negativa se porta all’indisciplina o alla polemica

continua. Ma può anche essere un’opportunità per il dialogo, per

l’autoriflessione, per vedere dove si può migliorare.

“Un’atleta esperto, abituato ad allenarsi bene, conosce il suo

corpo meglio di chiunque altro” - afferma Vaglini - “E, a quel

punto, è chiaro che un dialogo con il preparatore atletico diventa

fruttifero. Se poi capisci il perchè di un certo esercizio, trovi il

modo di applicarti al meglio. Ma se non fai altro che seguire gli

ordini, è chiaro che rischi di perdere qualcosa.”

Il senso critico del calciatore è indubbiamente una cosa impor-

tante ed il calcio italiano, in genere, ha saputo trarne beneficio.

L’analisi continua porta ad una certa versatilità, ad un’apertura

mentale maggiore.

“In Inghilterra sono convinti di essere i maestri del calcio, che il

calcio è quello li’, non può essere migliorato” - afferma Lippi - “E

quindi fanno le stesse cose o, al massimo, fanno quello che gli

dicono di fare. Da noi ragioniamo in modo diverso. Ognuno pensa

di saperla più lunga dell’altro. Il nostro cervello è più movimen-

tato, più dotato di senso critico. Anche per questo noi siamo più

portati a cambiare, a dialogare. Se una cosa non funziona, ne

proviamo un’altra. Questo vale sia per le caratteristiche degli

allenatori, sia per il modulo in campo. Questa è la mentalità che

bisogna instaurare, anche se poi si rischia di pagare un prezzo.”

Questo senso critico porta il calciatore italiano a vedere il calcio

più nel suo insieme ed anche per questo gli italiani sono più ricet-

tivi ai dettami tattici.

“Il calciatore italiano è stimolato dai vari sistemi di gioco e dai

movimenti che devono fare i giocatori” - spiega Platt - “Queste

cose interessano poco al giocatore inglese. Me ne accorgo quan-

do parlo di tattica con i miei giocatori. Dopo venti minuti mi

accorgo di averli persi, lo si capisce dalle loro espressioni. Il gio-

catore italiano invece è ben felice di sentire discorsi tattici. Anzi,

se io da allenatore non faccio una sola seduta tattica nell’arco

della settimana, il calciatore inglese o non se ne accorge o se ne

accorge ed è contento. Il calciatore italiano invece va in campo

terrorizzato. Per lui la tattica è importante perchè sa che è un

ingrediente importante, anche se a volte un pò noioso, del calcio.

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TECNICO-TATTICA

E non si sente preparato e questo gli da fasitidio, perchè per lui il

calcio è un mestiere, prima che un gioco.

Anche per questo gli allenatori britannici non impongono sistemi

tattici sofisticati” – aggiunge - “L’unico che ci prova un pò è Sir

Alex Ferguson, ma lui, per certi versi, se lo può permettere, per-

chè è al timone da tanti anni ed è una figura che comanda il club

con il pugno di ferro. Gli altri allenatori non si trovano in quelle

condizioni.”

Si torna quindi al discorso della professionalità ed al fatto che

l’inglese vive il calcio come un gioco, l’italiano come un lavoro. Su

questo concordano un pò tutti.

“In Italia il calcio non è più uno sport, è un lavoro, un’industria” -

afferma Wenger - “Avete perso qualcosa. Siete troppo severi, i

giocatori non si divertono più. è raro vedere sorridere un calciato-

re italiano in campo o in allenamento. è concentrato al massimo e

pensa solo a quello. In Inghilterra ridono, si divertono e danno il

massimo lo stesso. Basta vedere l’ambiente che c’è negli spoglia-

toi prima di una gara. In Italia o in Francia sono tesi al massimo,

concentrati sulla partita, sui loro compiti individuali. In Inghilterra

sembra una discoteca. C’è musica, divertimento, casino.”

Ma da cosa deriva quest’atteggiamento diverso? In teoria noi ita-

liani dovremmo essere i creativi, quelli che si divertono, mentre gli

inglesi dovrebbero essere quelli tristi, seri, abbottonati. Ma quel-

lo è un luogo comune.

“Secondo me invece la cultura latina è più razionale, più portata

all’analisi e all’autocritica di quella inglese” - afferma Wenger -

“La cultura di un paese è dettata da quello che si impara a scuo-

la. Noi francesi abbiamo Descartes, la sua razionalità è la base di

tutto il pensiero e la cultura francese. Voi italiani avete

Macchiavalli, anche li’ è tutta razionalità. Qui invece, magari per-

chè sono un isola, sono più portati allo scontro, alla passione di

un duello. E, naturalmente, alla guerra. Quando un’inglese scen-

de sul campo di battaglia, si butta e basta. L’italiano o il france-

se fa i suoi calcoli.”

Qualche modesta proposta...

Abbiamo sviscerato le differenze nello sviluppo dei giocatori,

quanto incidono i fattori esterni, quelli culturali, quelli sociali,

quelli organizzativi. Ma adesso viene il difficile. Avendo identifi-

cato i due sentieri diversi, come facciamo a trovare quello giusto?

Oppure c’è da mettersi li’ con il machete in mano e tracciarne un

terzo, intermedio?

Secondo Wenger, un tecnico che ammiro, vi sono degli ingredien-

ti di base fondamentali per la crescita giusta di un giocatore.

Innanzitutto, occorre riconoscere la fragilità del giovane e la vul-

nerabilità dei ragazzi.

“La gente vede solo il giovane calciatore che guida la fuoriserie

o che ha il conto in banca pieno di miliardi” - spiega Wenger-

“Non riconoscono che spesso un calciatore di vent’anni ha dovu-

to fare più sacrifici ed ha preso più decisioni importanti rispetto

alla persona media. Per questo occorre un’ambiente ottimista,

anche perchè, al di fuori dello spogliatoio, vi è tanta negatività

tra i tifosi e tra la stampa. E tutto accade cosi’ in fretta. Entro 23

anni bisogna avere imparato il mestiere, altrimenti, salvo alcune

eccezioni, è troppo tardi. Poche altre professioni ti fanno cresce-

re cosi’ in fretta. A quarant’anni George Bush era un alcoolizzato

ed un fallito. Pochi anni dopo è diventato Presidente degli Stati

Uniti. Nel calcio sarebbe impensabile!”

Oltre a creare un ambiente positivo, Wenger cerca calciatori che

possiedono tre qualità umane che lui ritiene fondamentali. Tre

qualità che non possono essere insegnate.

Claudio Ranieri

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“La prima è la motivazione” – spiega - “Io non credo che un gio-

catore possa essere motivato. Deve essere motivato in partenza

e devèessere una motivazione sana, che viene da dentro. Se le

motivazioni deve darle l’allenatore, siamo già nei guai. Ho visto

tanti campioni che non sono motivati o che le sono soltanto sal-

tuariamente. Io pesonalmente faticherei a lavorare con loro,Poi

vi è l’intelligenza” –aggiunge - “Io ho conosciuto più persone

intelligenti nel calcio che non all’università. Sto parlando adesso

di calciatori di successo. Chi non capisce certe cose difficilmente

arriva ad un certo livello. Infine vi è la resistenza mentale, la

capacità di reggere allo stress. Le pressioni esterne sono notevo-

li e, come ho detto, il calciatore è spesso per natura fragile. Per

questo occorre individuare chi sa reggere l’impatto con l’ester-

no.”

Wenger parla delle qualità psicologiche necessarie per formare

un calciatore e sono sostanzialmente d’accordo. Sotto questo pro-

file aggiungerei che è importante, specialmente in Italia, trovare

la giusta tensione.

Purtroppo in Italia non è l’orgoglio la molla che ci spinge a lavo-

rare di più o a restare concentrati. è la paura di perdere, il terrore

di dare ad altri i motivi per criticarti. Questo terrore si nota anche

prima della gara. In uno spogliatoio inglese sono tutti rilassati

prima della gara, in uno italiano si vedono tante facce terrorizza-

te dall’ipotesi della sconfitta. Perchè perdere significa un’altra

settimana di critiche, di contestazioni, di ritiro. A tutto ciò contri-

buiscono anche i giornali, certo, perchè in Italia i giocatori li leg-

gono, in Inghilterra no. Però è tutto l’ambiente che diventa pesan-

te, soffocando il calciatore.

Alla fine della gara il giocatore inglese stringe la mano all’avver-

sario e tutto finisce. L’inglese sa che, avendo dato il massimo, nes-

suno può dirgli niente. L’italiano invece non lo può fare, perchè, al

fischio finale già è angosciato da una serie di domande. E adesso

cosa succede? Uscirà dallo stadio tranquillamente? Insulteranno

sua moglie? I giornalisti lo tempesteranno di telefonate? Verrà

portato in ritiro? Gli taglieranno l’ingaggio?

C’è che dice che la famosa furbizia italiana fa parte della nostra

indole. Per questo c’è chi si procura i rigori ingannando l’arbitro.

è nel nostro DNA. Io ci credo solo in parte. Secondo me fa parte

della nostra cultura attuale, ma non è detto che debba sempre

essere cosi’. La riprova è quello che succede ai calciatori italia-

ni che vanno all’estero. Penso a Benito Carbone o a Paolo Di

Canio o anche il sottoscritto. Nei primi mesi in Inghilterra tutti

noi abbiamo giocato come abbiamo sempre fatto in Italia: usan-

do un pò di mestiere per procurarci rigori e punizioni. Poi però

ci siamo tutti accorti che in Premier League questo non era

accettabile. I compagni non ci elogiavano certo quando succe-

deva, anzi spesso venivamo presi in giro, “i soliti italiani”, ecc.

Per non parlare dei tifosi. Quelli avversari ci insultavano, i nostri

si vergognavano di noi. Cosi’, tutti noi, nel giro di pochi mesi,

abbiamo cambiato atteggiamento. E non è stato difficile farlo,

segno che, forse, l’inganno o la furbizia non sono nel DNA degli

italiani ma, invece, è l’ambiente che porta i giocatori a compor-

tarsi cosi’.

In Italia si ha l’opposto. L’anno scorso, Jay Bothroyd, attaccante

inglese del Perugia, è stato criticato dal suo allenatore, Serse

Cosmi, perchè in una gara il difensore lo ha strattonato in area

ripetutamente e lui ha cercato di rimanere in piedi. Invece di

fare la figura del leale e del corretto, Bothroyd ha fatto la figu-

ra dell’ingenuo. è chiaro poi che se hai come presidente il presi-

dente del Midddlesbrough, che, anche in caso di retrocessione

non caccia gli allenatori e non punisce i giocatori, certe cose

non le fai. Se invece hai il presidente che ha avuto Bothroyd, il

discorso cambia...

C’è chi controbatte che comunque la pressione dell’ambiente

porta i giocatori italiani ad essere più concentrati e più professio-

nali. In effetti una maggiore pressione porta ad una maggiore

concentrazione. Sir Alex Ferguson viene spesso citato come esem-

pio di un tecnico britannico che tiene sotto pressione i suoi gio-

catori, creando la cosidetta “siege mentality”, o mentalità di chi

è assediato. Sir Alex però lo fa in maniera più sana. A spronare i

suoi però non è la paura di sbagliare, è il fatto di sentirsi soli con-

tro tutti, isolati dal resto del mondo.

Io credo che sia possibile unire un grande professionismo ad un

approccio sano. Molti olimpionici ne sono la prova vivente.

Ricordo il marciatore Maurizio Damilano, medaglia d’oro a

Mosca. Quattro anni dopo, a Los Angeles, fini’ al di fuori delle

medaglie, pur essendo tra i favoriti della vigilia. Quando gli chie-

sero i perchè di questo fallimento, rispose semplicemente: “Non

ho saputo tenere il loro passo.”

Ecco, questo è un professionismo sano. La coscienza di avere dato

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SCUOLAALLENATORI

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TECNICO-TATTICA

tutto e il sapere accettare la sconfitta. Nel calcio però la sconfit-

ta è vissuta come un dramma e la paura di perdere è la motiva-

zione maggiore. Con conseguenze spesso disastrose.

Ad esempio, la furbizia è figlia della paura di perdere. In Italia si

è portati spesso a pensare che l’avversario sia più forte anche

quando non lo è (ricordo ai mondiali nippocoreani prima di

Italia-Ecuador quando Ulisses De La Cruz - buon giocatore, ma

non certo Maradona e nemmeno Cafu - fu trasformato in una

specie di spauracchio condizionando l’intera squadra). Cosi’ si

pensa più ad impedire al diretto avversario di giocare. è una sto-

ria che si ripete in ogni settore del campo. Basta che un esterno

fermi le avanzate del terzino o che un interditore blocchi il tre-

quartista e l’elogio del tecnico è assicurato, al di là del risulta-

to. Si pensa a vincere le partite personali, quasi sempre impe-

dendo all’altro di sviluppare il suo gioco, invece di imporre il

proprio gioco.

Sotto questo profilo direi che abbiamo molto da imparare dagli

inglesi. E non mi riferisco soltanto a giocatori ed allenatori, ma a

tutto il mondo del calcio, stampa e tifosi compresi. Serve un cam-

biamento a livello culturale e, per averlo, probabilmente bisogna

tirare in ballo grossi concetti come il rispetto per l’avversario, il

rispetto per il lavoro dei calciatori, l’educazione civica e sportiva.

In un mondo ideale, bisognerebbe trovare più allenatori italiani

con il coraggio di non ricorrere a trucchetti antisportivi come la

simulazione ed il coraggio di perdere ed affrontare le conseguen-

ze a viso aperto. è chiaro però che questo discorso diventa diffi-

cile se poi i tifosi ti distruggono la macchina e ti insultano la

moglie, se i giornalisti di danno del cretino e se il presidente

minaccia di esonerarti alla prossima sconfitta. L’esasperazione è

tale che questo tipo di comportamento da parte degli allenatori

diventa quasi una forma di autodifesa, un tentativo disperato di

difendere quello che hanno conquistato.

Ci vogliono presidenti illuminati, leader che non hanno paura

della stampa o dei tifosi, ma che credono in una certa visione

del calcio. Basta, ad esempio, con i ritiri punitivi, che spesso

vengono fatti non per motivi sportivi, ma per evitare le critiche

di tifosi e giornalisti. Un grande presidente, come quello che

ho avuto io alla Sampdoria, è capace di difendere e divulgare

certi valori. Il problema è che la maggioranza non sente la

necessità di comportarsi in questa maniera. Per loro conta solo

vincere.

Ci vuole un’educazione sportiva insegnata nelle scuole. Non

importa che uno diventi calciatore o tifoso o avvocato, i valori

della trasparenza, della disciplina, dell’educazione, della lealtà,

del rispetto e del dialogo sono valori universali, applicabili a qual-

siasi professione. Se riesco a trasmettere questi valori ad un uomo

quando è un ragazzo, quando assorbe tutto come una spugna,

quando poi crescerà ed andrà sugli spalti a tifare diventerà uno

capace di applaudire se la squadra gioca bene e perde. Diventerà

uno che continua ad andare allo stadio anche dopo una retroces-

sione, perchè è spinto dall’amore per i suoi colori, non soltanto

dalla vittoria.

Tutto ciò è importante naturalmente, ma astratto. E mi rende

conto che servono anche proposte concrete, attuabili a breve

termine.

Non è facile, ma si potrebbe iniziare con una società che, ad ogni

livello - giocatori, allenatore, presidente - si prefigga di fare le

cose diversamente. Niente lamentele contro gli arbitri, niente

pressioni eccessive interne, niente simulazioni o trattenute in

area. Contemporaneamente, bisognerebbe garantire al tecnico la

massima tranquillità: si vince o si perde con lui. Tutto ciò andreb-

be accompagnato da un campagna-stampa che spieghi esatta-

mente cosa si vuole ottenere. E magari anche un dialogo con i

tifosi, aiutandoli a capire che giocare e comportarsi in quella

maniera è un punto d’orgoglio.

Fantacalcio? Forse, ma non è detto che se qualcuno avesse il

coraggio di provarci la cosa non potrebbe funzionare. E magari

l’opinione pubblica stessa prenderebbe ad esempio quest’ap-

proccio e, poco a poco, cambierebbe il nostro modo di intende-

re il calcio.

Alla fine i giocatori rispondono a quello che vuole la gente. Se

l’atteggiamento del pubblico è quello di fischiarli al primo errore,

saranno più esitanti a provare il passaggio spettacolare ma

rischioso. In Inghilterra, il pubblico chiede innanzitutto impegno

ed uno spirito arrembante. Se ci sono questi due elementi, è pron-

to ad applaudire anche in caso di sconfitta.

Anche qui, però, non sono tutte rose e fiori. Il fatto di venire sem-

pre applauditi, a patto che ci sia l’impegno, tende ad inibire lo svi-

luppo tecnico dei giocatori inglesi. Del resto, se ogni passaggio

sbagliato viene perdonato (a patto che venga seguito da un furio-

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so recupero), perchè mai cercare di migliorare tecnicamente?

Purtroppo per gli inglesi il loro stile di gioco non tende a fare

migliorare la tecnica individuale, a differenza di quello italiano.

L’attaccante inglese viene cercato più spesso, ma con palloni qua-

litativamente inferiori, lanci lunghi o passaggi in profondità.

Quindi, lavora quasi sempre per la spizzicata di testa, o il fallo

laterale o, nella migliore delle ipotesi, la difesa del pallone per

fare salire i compagni, a cui segue quasi sempre un passaggio

breve ad un centrocampista o un esterno. C’è molto meno dialo-

go con il resto della squadra anche perchè ricevono palla quasi

esclusivamente da difensori o dalle ali e, comunque, il grosso del

loro lavoro sta nel finalizzare o nel restituire il pallone ed andare

in profondità.

Anche per questo motivo i centrocampisti centrali inglesi - con

qualche eccezione, vedi Wilkins, Paul Gascoigne o Glenn Hoddle -

sono tradizionalmente stati interditori, bravi a riconquistare il pal-

lone, spesso in seconda battuta, e smistarlo sulle fasce, piuttosto

che creare gioco centralmente, dialogando con le punte.

Viceversa, l’attaccante italiano riceve meno palloni, ma di mag-

giore qualità e quindi è più portato a facilitare l’inserimento di un

centrocampista. Inoltre, le marcature più rigide in Italia costrin-

gono i nostri attaccanti ad essere più tecnici e più bravi nei movi-

menti, perchè altrimenti non vedrebbero mai il pallone.

Qui, per arrivare ad una soluzione, occorre lavorare sulla tecnica,

cosa che gli inglesi stanno già, in parte, facendo. è chiaro che se

le punte sono capaci di fare più cose, il gioco diventa più varie-

gato, esigendo un maggiore tasso tecnico anche dai centrocam-

pisti centrali e, di riflesso, dai difensori che devono marcare le

punte sul fronte opposto, ma sono anche i primi ad impostare lo

sviluppo del gioco.

In Inghilterra serve una maggiore professionalità ed una maggio-

re enfasi sugli aspetti tecnici in allenamento, specialmente nel

lavoro con i giovani. Va detto che il calcio si sta già muovendo in

questa direzione, ma fino a poco tempo fa il discorso era ben

diverso.

La settimana tipica di un club inglese era questa: liberi la dome-

nica ed il mercoledi’, ci si allenava il lunedi’, il martedi’, il giove-

di’ e il venerdi’. Le doppie sedute erano totalmente sconosciute e

gli allenamenti stessi erano ben diversi da quelli italiani. Si arri-

vava verso le 10, alle 1030 si era in campo e ci si allenava fino a

mezzogiorno. Poi si faceva una doccia, si mangiava qualcosa e,

per le 13.30, si era già sulla via di casa. Era assai raro per un

inglese passare più di tre ore e mezzo al campo d’allenamento,

mentre per un italiano è normale restarci cinque o sei ore, o anche

fino a otto ore nei giorni in cui fa la doppia seduta.

Diversi sono anche le tipologie di allenamento. Un’allenatore

inglese, se ha un’ora a disposizione, tipicamente fa mezz’ora di

lavoro fisico e mezz’ora di divertimento, spesso una partitella.

Tutto diverso dal tecnico italiano, che in un’ora di lavoro dedica

magari una ventina di minuti agli aspetti tecnici. Ricordo che Nils

Liedholm,addirittura, tutti i giorni faceva fare una mezz’ora di

tecnica individuale: i risultati si sono visti.

Il calciatore inglese spesso è convinto che uno Zinedine Zidane

gioca cosi’ perchè è nato tecnico. Ovvio che Zidane ha certi doni

naturali, ma è altrettanto ovvio che se ha raggiunto certi livelli è

anche perchè lavora in continuazione sulla tecnica. Bisogna tra-

smettere questo concetto agli inglesi. è chiaro che poi vi sono

aspetti esterni - vedi il discorso precedente del vento - che inibi-

scono un certo lavoro tecnico. Ma se si fa della tecnica una prio-

rità il tempo si trova.

L’altro grosso aspetto su cui il calcio inglese deve e può lavorare

è la professionalità, il cosidetto allenamento invisibile. Hanno

fatto passi importanti negli ultimi anni, con l’introduzione di pre-

paratori atletici ed una maggiore cura degli aspetti dietetici, ma

hanno ancora ampi margini di miglioramento. L’importante è che

trovino il modo di migliorare senza raggiungere il professionismo

esasperato che abbiamo noi in Italia.

Per certi versi l’Inghilterra è un caso particolare. Da un lato vi è

una certa esterofilia, una certa accettazione che il loro calcio deve

per forza cambiare in un mondo globalizzato. D’altro canto però

resta una certa diffidenza ed un certo attaccamente alle tradizio-

ni. La parola ad Eriksson: “Aperti? Si’ penso che oggi un pò lo

sono in Inghilterra,” - afferma - “Per forza lo sono, hanno un

commissario tecnico straniero e, ormai, in Premier League, gli

inglesi sono appena il 30, 35 per cento, tutti gli altri sono stra-

nieri. Però ti accorgi ogni giorno che il calcio è nato qui e se tu vai

a parlare con il presidente della Premier League ti ricorda che il

campionato inglese resta il migliore del mondo e che non hanno

nulla da imparare dagli altri. Quindi...”

Segno che c’è ancora tanto da lavorare.

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SCUOLAALLENATORI

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TECNICO-TATTICA

APPENDICE 1: DATI CLIMATICI

A: Media Mensile Temperatura (Max/Min)

B: Giorni di pioggia (minimo 1 mm di pioggia o neve)

C: Media Max Vento Mensile (km/h)

Italia

Città A B C

Firenze 20.1/ 9.1 91.7 2.8

Milano 17.2/ 7.8 85.5 4.7

Napoli 20.5/10.5 89.2 5.2

Palermo 21.1/16 74.3 6.1

Roma 20.3/10.6 73.9 1.9

Inghilterra

Città A B C

Birmingham 12.8/5.1 128.3 8.1

Leeds 12.8/6.2 134.1 9.1

Londra 14.4/7.0 109.5 8.3

Manchester 12.8/6.2 138.6 9.4

Newcastle 12.3/4.9 123.0 11.2

CONSIDERAZIONI DI BASE:

* Come previsto (e prevedibile), i maggiori centri urbani inglesi

hanno temperature medie di gran lunga inferiori a quelli italiani.

* Detto questo, entrambi i paesi vantano, per la maggior parte

dell’anno, un clima che possiamo considerare adatto al gioco

del calcio, almeno per quanto riguarda la temperatura.

* Quando fa più freddo si tende a correre di più e, viceversa,

quando fa più caldo, si gioca a ritmi più compassati. Ma i dati

sopra dimostrano che in Italia raramente vi è un caldo eccessi-

vo, salvo nei mesi estivi (quando comunque il campionato è fer-

mo e le squadre sono in ritiro). Allo stesso tempo, anche se in In-

ghilterra le temperature sono inferiori, raramente raggiungono

livelli talmente bassi da inibire il gioco. Interessante notare co-

me la minima londinese ad esempio è di poco più bassa della

minima di Milano.

* La differenza maggiore si ha nei dati sul vento. In ogni centro

analizzato, le città inglesi sono sensibilmente più ventose di

quelle italiane. Un dato che potrebbe rivelarsi fondamentale.

* Nella tabella non sono elencati dati relativi all’escursione ter-

mica. Va segnalato però che in Italia, specialmente al Nord e al

Centro, vi è un escursione termica assai maggiore rispetto alle

città inglesi. Facciamo un confronto tra Milano e Londra, due

aree geografiche che producono una buona fetta dei calciatori

professionisti in Italia ed Inghilterra.

TEMP. MAX/MIN

A: Dicembre-Febbraio

B: Marzo-Maggio

C: Giugno-Agosto

D: Settembre-Novembre

Città A B C D

Londra 7.8/2.2 13.5/5.1 22.0/13 11.6/6.1

Milano 6.1/-0.9 17.5/7.2 27.6/16.3 17.4/8.5

* Si evince chiaramente che la temperatura è assai più mite a

Londra nell’arco dell’anno, senza le punte di alti e bassi che tro-

viamo a Milano.

* Interessante è anche il confronto relativo ai dati del soleggia-

mento (ossia il numero di ore di sole quotidiano nelle due città).

SOLEGGIAMENTO (media quotidiano di ore di sole)

A: Dicembre-Febbraio

B: Marzo-Maggio

C: Giugno-Agosto

D: Settembre-Novembre

Città A B C D

Londra 1.5 4.8 6,1 3.3

Milano 2.4 5.6 7.8 4.2

* Come prevedibile il sole splende a Milano come anche a Lon-

dra, anche se in misura minore. Non vi è però una differenza ra-

dicale, salvo che in estate, quando comunque a Londra si hanno

più di sei ore quotidiane di sole: quanto basta per allenarsi due

volte al giorno.

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In ricordo dell’amico Michele Pierro scomparso il30 Giugno 2004

di Mario Valitutti

Quando, nel luglio 1986, entrai per la prima volta in Via Allegri, in occa-

sione del commissariamento Carraro-Monzella, ebbi l’occasione di conoscere

Miche Pierro: un veterano del mondo federale che lavorava con l’umiltà e la pas-

sione di un neofita.

In quella estate – ma soprattutto in quella successiva, che ci vide impegnati

nella gravosa riscrittura delle Carte Federali – Michele fu uno dei più assidui ed

attivi, recando il contributo insostituibile della sua lunga e variegata esperienza

nel pianeta calcio.

Infatti la peculiarità di Pierro – che mi induce in questo viaggio della me-

moria volto a ricostruirne l’immagine – era quella di aver percorso tutte le tappe

della dirigenza federale: da quelle più modeste a livello locale e dilettantistico a

quelle di vertice che lo portarono alla vice presidenza federale.

Ed in ognuna di esse portava il segno della rettitudine, dell’umiltà, della

competenza, dell’impegno professionale e della passione, non disgiunta da un co-

stante senso dell’ironia. In definitiva, senza voler cadere nella retorica dei senti-

menti: una grande perdita per l’organizzazione calcistica italiana, una sensazione

di vuoto per coloro che gli hanno voluto bene.

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SCUOLAALLENATORI

24

PREPARAZIONE FISICA

l calcio, come tutti ci accorgiamo, è in continua evo-

luzione e, come tale, diventa esigente curare ogni

minimo particolare, tanto da ottenere non solo, pro-

gressivi step di miglioramento ma anche la riduzio-

ne dei rischi d’infortuni.

Al tal fine, prima di effettuare una competizione o

una “semplice” seduta di allenamento, si ritiene op-

portuno svolgere determinati movimenti fisici tentando di porta-

re tutte le funzioni organiche dallo stato di riposo ad un elevato

livello funzionale, per essere così più preparati alle esigenze del-

l’attività sportiva.

Infatti è opportuno già al fischio d’inizio, i giocatori debbano es-

sere pronti ad eseguire una qualsiasi azione alla massima intensi-

tà (ad esempio: uno sprint e/o un tiro) perché potrebbe anche es-

sere determinante. Quindi l’ideazione di un riscaldamento deve

andare a ritroso partendo dalla considerazione che la struttura del

giocatore stesso deve essere preparata a questa sollecitazione.

Perciò per fare uno sprint o un tiro, questi movimenti devono es-

ser eseguiti prima nel riscaldamento ad intensità crescente.

Il riscaldamento deve avere un effetto di attivazione per tutte le

attività successive, quindi deve essere sempre un processo diretto

a migliorare la capacità di prestazione e di sforzo; qualsiasi mo-

dello di comportamento diventato abituale andrebbe analizzato

per vedere quanto sia razionale, ed eventualmente modificato.

La messa in azione deve essere considerata come il momento più

importate dell’intera prestazione, non come una banale fase pre-

paratoria, sensibilizzando l’atleta a compiere quanto richiestogli,

per evitare di incombere in probabili infortuni o avere inizialmen-

te un rendimento non massimo.

IL RISCALDAMENTO FUNZIONALE

Attraverso il riscaldamento si provocano una serie di processi di

aggiustamenti sia dei sistemi di produzione e di distribuzione d’e-

nergia (metabolismo, sistemi cardiocircolatorio) che del sistema

nervoso centrale.

Fondamentalmente le esigenze alle quali deve rispondere il ri-

scaldamento sono queste:

• adattare allo sforzo l’attività del sistema cardiocircolatorio e

della respirazione (aumento della circolazione del sangue, del-

la capacità di consumo di ossigeno, diminuzione della resisten-

za al flusso ematico, economizzazione della respirazione);

• sintonizzazione tra attività e metabolismo muscolare (aumento

della temperatura muscolare e del metabolismo energetico, di-

minuzione della resistenza elastica e viscosa);

• regolazione dei processi di controllo nervoso (aumento della

velocità di conduzione nervosa e della sensibilità dei sistemi dei

recettori e quindi della capacità di contrazione e di rilassamen-

to dei muscoli, miglioramento del tono muscolare);

• miglioramento della disponibilità funzionale dell’apparato mo-

torio passivo (lo strato cartilagineo delle superfici articolari s’i-

spessisce, per cui le forze che agiscono su di esse vengono dis-

tribuite su una superficie maggiore di applicazione e quindi di-

minuisce la pressione per cm quadrato di superficie articolare)

(cfr. De Marées 1979);

• creazione di presupposti psichici ottimali (diminuzione delle

reazioni psichiche che inibiscono la prestazione, come l’ansia

pre-gara, l’apatia).

Tutto ciò viene fatto allo scopo di:

- impedire traumi muscolari, ai tendini ed ai legamenti;

- sfruttare meglio le capacità condizionali;

- riuscire ad utilizzare adeguatamente le capacità coordinative;

- aumentare la disponibilità psicofisica alla prestazione.

L’obiettivo finale rimane, come già precisato in precedenza, quel-

IL’IMPORTANZA DELLA MESSA INAZIONE IN ATLETI EVOLUTIdi Simone Fugalli*

* Tesi di fine studio del Corso di Preparatore Atletico 2003-2004

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lo di raggiungere un aumento della disponibilità funzionale di tut-

ti i sistemi di organi e della psiche.

Questo quadro riassuntivo mette in evidenza che il riscaldamen-

to è sempre un processo attivo di aggiustamento.

Nessuno dei metodi di carattere passivo, come, ad esempio, l’uti-

lizzazione di pomate e di massaggi potrebbe produrre gli stessi

effetti. Soprattutto con l’uso di pomate per frizioni non si rag-

giungono gli scopi del riscaldamento, malgrado le promesse pub-

blicitarie si ostinino nel proporle.

STRETCHING SI, STRETCHING NO

Rimanendo sempre nel discorso dei metodi a carattere passivo, lo

stretching è molto utilizzato nella fase del riscaldamento, ma ha

un effettiva validità?

Secondo Rob Herbert dell’università di Sydney “scaldare i muscoli

con lo stretching passivo prima di qualsiasi attività sportiva potreb-

be essere una perdita di tempo, perché non serve a prevenire gli sti-

ramenti e a ridurre i dolori. È solo una delle nostre credenze infon-

date riguardo come prevenire la ferite e migliorare le prestazioni”.

Piero Mognoni, fisiologo e specialista in medicina dello Sport del-

l’istituto di Tecnologie Mediche avanzate del CNR, in un articolo dal

titolo “Stretching e prevenzione per gli arti inferiori” afferma: “Ci

rendiamo conto che questa è una brutta notizia per quanti vi han-

no fatto affidamento. Tra il 1987 e il 1998, molti studi dimostrano

l’inutilità dello stretching per la prevenzione degli infortuni.

All’ultimo e più interessante studio, hanno partecipato 1538 indi-

vidui tra i 17 e i 35 anni, divisi in maniera casuale in due gruppi.

Un gruppo, dopo il riscaldamento e prima dell’allenamento, face-

va stretching passivo in sei distretti muscolari diversi, il secondo

gruppo eseguiva il semplice riscaldamento. Nessuna differenza è

stata notata tra il gruppo che eseguiva stretching e quello che

non utilizzava tale tecnica di allungamento muscolare. Tuttavia i

soggetti che ottenevano i migliori risultati in un test di corsa a

navetta avevano un rischio significativamente inferiore. La ovvia

conclusione è che un buon allenamento di base sembra essere più

efficace nella riduzione degli infortuni del mitico stretching”.

Facendo riferimento a quanto detto sopra, per noi l’uso dello

stretching ha quale obiettivo primario lo sviluppo od il manteni-

mento della mobilità articolare.

Difatti, dagli studi di Micheal Zito, risulta che la pratica di eserci-

zi dinamici, nei quali con la contrazione dei muscoli agonisti e con

il rilassamento riflesso degli antagonisti si ricerca la massima am-

piezza articolare, può provocare negli atleti variazioni croniche

della lunghezza del muscolo molto maggiori rispetto alla sola

pratica degli esercizi passivi.

È possibile inoltre affermare, sempre riguardo a questo proposito,

che, durante il riscaldamento, l’attività di flessibilità dinamica può

risultare protettiva per quanto riguarda i pericoli di traumi a

carico del tessuto connettivo (M. Zito, 1999), tanto più se gli eser-

cizi scelti nelle ultime fasi sono orientati, nella forma, verso la ge-

stualità specifica che sarà realizzata nel prosieguo della seduta o

della gara.

MESSA IN AZIONE

Affinché si possa perseguire un ottimale riscaldamento, si devono

considerare, ma soprattutto non tralasciare, determinati punti

fondamentali:

1. innalzare la temperatura muscolare con un aumento del meta-

bolismo dei muscoli scheletrici;

2. migliorare l’irrorazione sanguigna portando a maggiori quantita-

tivi di glucosio e di ossigeno e diminuendo la vischiosità interna;

3. le facce articolari sono facilitate nello scorrimento.

Il primo punto ci fa riflettere sul fatto che dobbiamo creare i con-

dizionamenti ottimali per la costruzione e la realizzazione del

massimo rendimento sportivo assicurando alti parametri fisiolo-

gici nei muscoli direttamente interessati.

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Dalla visione del grafico si evince che, quando la temperatura cor-

porea è aumentata, la trasmissione degli impulsi nervosi, l’eccita-

bilità dei nervi e dei muscoli, la contrattilità e la potenza prodot-

ta dei muscoli stessi è incrementa. La maggior parte degli studio-

si concorda nell’affermare che l’efficacia meccanica di un musco-

lo migliora quando aumenta la temperatura corporea.

Il grafico presenta un studio che dimostra che a 40° gradi il ren-

dimento nello sprint è di un 15% superiore che con un tempera-

tura corporea di 37° gradi.

L’importante per noi è sapere ancora, quanto tempo necessita il

corpo in esercizio per far innalzare la temperatura?

Come dimostra il grafico 2, con 5 o 6 minuti di attività fisica si ele-

va la temperatura muscolare dei tessuti che si stanno esercitando.

Quindi è rilevante sapere che con circa 6 minuti di lavoro fisico i

muscoli principali già raggiungono alte temperature, quindi pre-

parati per qualsiasi stimolo successivo.

Parallelamente all’elevazione della temperatura si manifestano

anche altri aspetti:

- la circolazione sanguigna e il sistema di trasporto di ossigeno

aumenta in funzione dello sforzo ad alta intensità;

- il fluido sanguigno muscolare e la vascolarizzazione aumenta;

- la capacità delle attività muscolari aumenta mentre la vischiosi-

tà muscolare diminuisce;

- la trasmissione dell’impulso nervoso e la sensibilità dei recetto-

ri nervosi aumenta;

- la coordinazione neuromuscolare aumenta;

- la tendenza a lesioni del muscolo e del tessuto connettivo dimi-

nuisce.

Conseguentemente a tutti questi cambiamenti endogeni, come ri-

peto, la temperatura incide anche sulla vischiosità, per cui i mu-

scoli avranno una maggiore coordinazione intra ed intermuscola-

re, quindi, di conseguenza, le facce articolari aumenteranno il lo-

ro scorrimento facilitando i movimenti richiesti e rendendo più

flessibile l’articolazione durante la seduta allenante, la gara, o,

semplicemente, un gesto atletico specifico come ad esempio: un

tiro in porta, o delle finte di corpo .

Con il termine mobilità articolare, quindi, s’intende la capacità di

compiere movimenti delle articolazioni di grande ampiezza.

Essa dipende essenzialmente dallo stato funzionale delle ossa che

formano l’articolazione, del tessuto connettivo che la protegge,

della muscolatura e del sistema nervoso che la controlla.

Importanti sono anche il metabolismo articolare ed i processi di atti-

vazione ed inibizione nervosa, che attraverso il sistema nervoso pos-

sono esercitare una azione negativa o positiva sulla muscolatura.

Aspetto da non sottovalutare durante questa fase preparatoria,

oltre ai minuti minimi per far innalzare la temperatura muscolare,

è l’intensità, ossia il dosaggio degli esercizi generali, in funzione

del tempo di durata. Anche perché, gli studi ci confermano che

per effettuare una partita ai massimi livelli bisogna avere a dis-

posizione scorte di glicogeno muscolare intatte tali da consentire

l’effettuazione della medesima gara senza un cedimento totale.

Se nel riscaldamento si ha un costo significativo di energia con-

seguentemente si perde la capacità di rendimento tanto da infi-

ciare tutto il lavoro svolto nella settimana, ma soprattutto , la

successiva gara.

SCUOLAALLENATORIPREPARAZIONE FISICA

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Nel grafico sopra esposto, si nota come un calciatore che esegue

un riscaldamento eccessivo nel proseguo della partita perda in

modo vistoso tali riserve di glicogeno .

Quindi, non dobbiamo pre-affaticare l’atleta con un soverchio di

esercizi intensi atti solo a depauperare energia prontamente dis-

ponibile .

Esercizi globali individuali che interessano tutte le maggiori arti-

colazioni con una intensità progressiva della durata che va dai 15

ai 25 minuti, consente di adattarsi ai fattori esterni e di prepara-

re sia a livello muscolare che a livello mentale e motivazionale il

calciatore prossimo alla scesa in campo.

LE CONDIZIONI CLIMATICHE

La temperatura ambientale ha una certa importanza per la dura-

ta e l’intensità della messa in azione. Infatti temperature elevate

permettono di abbreviarlo, anche se bisogna stare molto attenti,

poiché le prime gocce di sudore non manifestato certamente che

è stata raggiunta una temperatura ottimale di “funzionamento”

dell’apparato motorio, quindi la temperatura corporea “inter-

na”non subisce particolari incrementi in così breve tempo.

Nel caso di temperature basse, il rischio di scaldarsi poco, provo-

ca spesso infortuni, poiché il freddo può considerarsi un vero e

proprio nemico dei muscoli.

Anche l’abbigliamento non è da tralasciare: spesso si può osser-

vare che i calciatori non adattano né il loro abbigliamento, né i lo-

ro mezzi di riscaldamento alla temperatura ambientale.

Per cui abitualmente, si indossa la tuta anche in estate, quando

per l’elevata temperatura sarebbe necessario una vestizione più

leggera.

Un abbigliamento con il quale si accumula calore può favorire la

“fatica centrale” e quindi dare troppo presto la sensazione di es-

sere già pronti ad affrontare lo sforzo; questo purtroppo avviene

per una insicurezza personale iniziale o per una routine radicata

e mai corretta negli anni precedenti.

Anche l’allungamento statico, come già evidenziato in preceden-

za, può, a maggior ragione, risultare controproducente, in quanto

assumere e mantenere posture statiche per diversi secondi, che,

moltiplicati per i vari tipi di esercizi, diventano svariati minuti.

I giocatori, in queste condizioni, possono raffreddarsi e invece di

ottenere “effetti positivi” corrono il rischio, come detto, di qual-

che banale ma pregiudichevole rischio.

IL MATTINO, IL POMERIGGIO, LA SERA

Le oscillazioni dei bioritmi circadiani influenzano notevolmente la

durata del riscaldamento,

indipendentemente dalla temperatura.

Normalmente si gioca il pomeriggio, e ci si allena nelle prime ore

del pomeriggio, ossia in momenti ove vi sia ancora un picco di

rendimento.

Il discorso varia invece quando lo sforzo si richiede in momenti

differenti della giornata – ad esempio, preparazione ad una par-

tita da giocare al mattino, allenamenti mattutini, doppio allena-

mento quotidiano, partite di tornei in orari infrequenti- di regola

occorre, e si consiglia un riscaldamento più lungo ed intensivo,

differente dai quotidiani canoni in uso nella medesima squadra.

ETÁ

L’adattamento muscolare agli stimoli del riscaldamento è più len-

to negli adulti che nei ragazzi, difatti non è raro vedere giocatori

attempati, limitatamente alla carriera calcistica, iniziare circa 5

/10 minuti prima il warm-up muscolare per poi aggregarsi al

gruppo appena il preparatore atletico richiama all’attenzione l’in-

tera squadra.

Ciò avviene, non solo perché il “risveglio muscolare” è più lento

negli adulti, ma anche perché , l’adulto, come tale , ha una car-

riera sportiva alle spalle e , conoscendo il proprio fisico, consape-

volmente svolge esercizi che gli permettono non solo di arrivare

caldi alla competizione, ma anche di salvaguardare il proprio

mezzo di lavoro: il fisico.

LE CONDIZIONI INDIVIDUALI

L’impostazione del riscaldamento dovrebbe tenere conto anche

della costituzione psichica e fisica attuale dell’atleta.

Il livello di funzionalità muscolare è diverso da giocatore a gioca-

tore, quindi allenatore e giocatori debbono conoscere esattamen-

te i loro problemi e tenere conto nel riscaldamento.

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Su “Il nuovo calcio” ed. aprile 2001 pag. 32-33 viene riportata

una tabella di tutte le squadre di serie A e serie B inerenti ai pro-

pri riscaldamenti.

Da questi dati si evince che ben solo una squadra effettua il ri-

scaldamento individualizzato mentre tutte le altre lo svolgono

con corsa con o senza palla, mobilitazione alternata a stretching,

altre invece effettuano solo un preriscaldamento individuale o un

risveglio muscolare la mattina per poi svolgerlo in gruppo.

Questi dati, purtroppo, vanno contro le nostre tematiche anche

perché l’”unità significativa” come viene definito il giocatore, do-

tato di una individualità e di un proprio significato, riscaldando-

si in gruppo eseguendo tutti i movimenti richiesti al gruppo, ma

per lui insignificanti ai fini del riscaldamento, allontana sempre

più il fine richiestogli poiché ad esso servirà solo ed esclusiva-

mente individualizzare il lavoro per le qualità fisiche che lo stes-

so può offrire.

RISPOSTA ORMONALE

Alla base di aggiustamenti cardiocircolatori c’è un incremento

delle catecolamine circolanti (adrenalina e noradrenalina) e degli

stimoli eccitatori che originano dal centro cardioregolatore del

bulbo come risposta riflessa agli stimoli che prevengono da i mec-

cano e metabo recettori muscolari in seguito agli esercizi oltre la

soglia.

È stato osservato che una corsa di 30” alla massima velocità pro-

duce un incremento del livello di noradrenalina ematica più ele-

vato se successivo ad un allenamento di sprint. Né l’allenamento

di sprint, né l’allenamento di resistenza, hanno indotto modifica-

zioni nei livelli di catecolamina ematica dopo una corsa di 2 mi-

nuti al 110% del VO2max.

Al termine di un esercizio prolungato, quindi di una partita, il tas-

so di adrenalina, di cortisolo, di corticotropina, di somatropina e

di beta-endorfina nel plasma è risultato maggiore negli atleti che

non nei soggetti non allenati; l’effettiva entità dell’incremento di-

pende dalla capacità funzionale dei sistemi endocrini.

Il rapporto ottimale per la prestazione di gara tra noradrenali-

na/adrenalina è di 6:1, mentre per la prestazione di allenamento

sono tenuti come positivi rapporti di 4:1 o 7 :1; se esiste un rap-

porto inferiore a 2:1 la tensione interna è troppo elevata quindi in

questo caso o si opta per un prosieguo d’allenamento oppure se

nell’eventualità si dovrà svolgere una gara, la performance della

stessa sarà in chiave di rendimento molto scarsa.

TRAINING AUTOGENO

Il training autogeno è un metodo di distensione e di rilassamen-

to diverso sia dal sonno che da processi affini quali l’ipnosi.

Non tutti ricorrono a tale metodo distensivo poiché il tempo a dis-

posizione è ormai diventato un fattore limitante, ma anche per-

ché non tutti credono nell’effettivo risultato dello stesso, malgra-

do studi ne confermano la piena efficacia.

Comunque, attualmente, lo stress che ne deriva ai calciatori è al-

tissimo ed a questo problema risponde egregiamente la pratica

del T.A. che non soltanto è un metodo di distensione e di rilassa-

mento, ma è anche una via per la conoscenza di se stessi ed un

potente mezzo di comunicazione fra mente e corpo.

Essendo una disciplina naturale e non farmacologia, non ha con-

troindicazioni e non può certo “intossicare”.

Il T.A., come certo, può favorire lo slancio agonistico aumentando

la tolleranza alla fatica; può contribuire ad alzare le motivazioni

per un impegno costante durante la gara.

Compattando tutte le energie psichiche sul compito, aumenta la

concentrazione ed il controllo del gesto atletico senza dispendio

di energie.

Detto ciò, si può dedurre che l’obiettivo fondamentale è l’incre-

mento del rendimento psicofisico, mentre gli obiettivi specifici se-

quenziali sono:

• destrutturazione emotiva; sviluppo concentrazione e controllo

mente-corpo;

• desensibilizzazione all’ansia della prestazione;

• attivazione motivazioni consce e inconsce;

• adesione morale al compito;

• tolleranza alla fatica/slancio agonistico.

Tale metodo andrebbe svolto quotidianamente, ma a maggior ra-

gione prima di una competizione altamente stressante, specie per

quei giocatori che non hanno il dominio delle emozioni e sono

fortemente ansiosi.

SCUOLAALLENATORIPREPARAZIONE FISICA

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REGOLE GENERALI DA SEGUIRE NEL RISCALDAMENTO

Generalmente la fase della messa in azione varia da squadra a

squadra, non solo perché vi sono presenti differenti pensieri tra i

componenti di uno staff tecnico rispetto ad un altro, ma anche

perché cambia la presenza degli atleti con qualità e caratteristi-

che differenti da soggetto a soggetto.

Pur non tralasciando le differenze qualitative di ogni singolo

giocatore, nel riscaldamento devono essere presenti i seguenti

esercizi:

1. esercizi che interessano tutto il corpo, al fine di stimolare le fun-

zioni cardiocircolatorie (esercizi globali, di mobilità articolare);

2. seguono poi esercizi ginnico-dinamici (esercizi in grado di au-

mentare la scioltezza nei movimenti alternando a fasi di allun-

go in progressione);

3. si conclude con esercizi specifici (scatti diverse distanze, eserci-

zi di tiro e di passaggio non tralasciando esercizi speciali quali

brevi accenni di 1:1).

In questi tre blocchi si possono trovare tutte le variazioni possibi-

li ed immaginabili, ed è sorprendente vedere quanto sia differen-

te l’impostazione dell’allenamento, da giocatore a giocatore, da

squadra a squadra, sebbene lo scopo sia sempre lo stesso.

Per cui il riscaldamento, spesso, assume quasi il carattere di un ri-

tuale, nel quale, anche in condizioni diverse vengono eseguiti

sempre gli stessi esercizi, con la meccanicità che deriva dall’abi-

tudine, anche se con grande fervore e concentrazione. Ma mal-

grado l’abitudine il riscaldamento deve restare sempre un pro-

cesso consapevole, e mai meccanico.

Da considerare anche la progressione degli esercizi e la conse-

guente sollecitazione che provoca ai muscoli, passando da uno

all’altro, senza tenere conto del rapporto funzionale tra le singo-

le parti del corpo, magari trascurandone completamente alcuni.

Basandosi su una checklist, essa aiuta a sviluppare un modo di

procedere funzionale e sistematico.

Partendo dalle forme più tipiche di sollecitazione la ginnastica

verrà iniziata dalla regione lombo-sacro-iliaca, che rappresenta

un problema per i giocatori.

Uno stato funzionale negativo di questa regione del corpo è al-

l’origine di numerosi fastidi più o meno cronici dell’apparato mo-

torio e di sostegno. Dato che i più sollecitati sono gli arti inferio-

ri si procederà in loro direzione, fino ad arrivare ai piedi.

La checklist prevede una progressione basata sui rapporti funzio-

nali degli arti inferiori, non tralasciando il cingolo scapolare e le

braccia, poiché all’inizio dell’allenamento o della gara un movi-

mento inavvertito o una banale caduta potrebbe pregiudicare la

prestazione.

Questa lista di esercizi consente di procedere in modo unifor-

me, è adeguata alle esigenze individuali, ma soprattutto dimi-

nuisce il pericolo di tralasciare qualche gruppo muscolare nel

riscaldamento.

CHECKLIST PER IL RISCALDAMENTO

(cominciando dal centro del corpo)

Muscoli dorsali

(parte inferiore)

Estensori dell’anca Flessori dell’anca

Estensori del ginocchio Flessori del ginocchio

Adduttori Muscoli surali

Abduttori Muscolatura della tibia

Muscolatura della nuca

con i muscoli dorsali

(parte superiore)

Muscoli del cingolo Muscoli del cingolo

scapolare e dell’articolazione scapolare e muscol.

della scapola (parte posteriore dell’articolazione

del tronco) della scapola (parte

anteriore del tronco)

Estensore del gomito Flessore del gomito

(m..tricipite) (m. bicipite)

Estensore del polso e Flessore del polso e

Delle dita della mano delle dita della mano

PRE-ALLENAMENTO O PRE-GARA

Fino ad ora abbiamo sempre trattato l’argomento del riscalda-

mento in generale senza distinguerlo, non tenendo mai in consi-

derazione la successiva fase.

Ciò è molto importante poiché a seconda di cosa ci aspetta suc-

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cessivamente dobbiamo dosare le forze, in caso di gara, o, even-

tualmente spingere un pochino in più in vista di un successivo al-

lenamento infrasettimanale.

Infatti un riscaldamento particolarmente attivo per intensità e du-

rata, di solito si verifica nella seduta di allenamento dopo il gior-

no di riposo; i giocatori di regola non lo eseguono individualmen-

te, ma sotto il controllo e la guida del preparatore; in tal modo

viene elevato l’interesse.

Riportiamo ora nella tabella che segue le maggiori differenze tra

un riscaldamento antecedente un allenamento ed una gara:

RISCALDAMENTO DIFFERENZIATO

PROPOSTE DI RISCALDAMENTO PRE-GARA

L’efficacia del riscaldamento ai fini del rendimento in gara, come

sappiamo, ha una durata di circa 15/20 minuti prima che il corpo

ritorni alla stato di quiete non trovando giovamento dal medesi-

mo riscaldamento, per cui è molto importante calcolare bene l’i-

nizio e la durata stessa della messa in azione tale da coincidere

esattamente con i 10 minuti prima della partita, giusto per il tem-

po da dedicare al cambio degli indumenti e della presentazione

ufficiale all’arbitro.

ESEMPIO NR. 1

Il prof. Sassi propone una serie di esercitazioni che ora andremo

ad esporre: dopo alcuni minuti di corsa lenta, effettua esercizi in-

dicati per l’articolazione scapolo-omerale, flessibilità generale per

il corpo, skip e corsa calciata sui 5 metri, skip-corsa calciata al-

ternata e prima di cambiare esercizi, svolge alcuni aumenti di ve-

locità in linea sempre sui 5 metri.

Poi esegue esercizi per la mobilità del tronco, del bacino alter-

PRE-ALLENAMENTO:

• HA UNA MAGGIORE QUANTI-

TA’ ED INTENSITA’

• CONTIENE UNA COMPONENTE

ALLENANTE SECONDARIA

• PUO’ FAR INSORGERE SINTOMI

DI LEGGERA FATICA

PRE-GARA:

• CONTIENE ANCHE UNA ELEVA-

TA COMPONENTE TECNICA

• NON DEVE ASSOLUTAMENTE

AFFATICARE E VA’ ASSOLUTA-

MENTE EVITATO IL DEBITO

LATTACIDO

nando questi due segmenti corporei, poi passa ancora alle spalle

e la parte alta del tronco.

Continua con la corsa laterale, corsa all’indietro a diverse veloci-

tà (molto importante per la fortificazione del ginocchio), corsa al-

l’indietro laterale e a seguire, allungamento muscolare, soprattut-

to per la zona lombare, mantenendo circa 5” fino a raggiungere

la massima lunghezza possibile compatibilmente col dolore.

Inizia a questo punto la flessibilità dinamica aumentando anche

la velocità d’esecuzione con skip e allungamento flessori, skip-

corsa calciata, circonduzioni e slanci, skip-calciata laterale, extra-

rotazione coscia e skip a seguire, calciata e intrarotazione com-

pleta, adduttori con apertura e chiusura della coscia e skip di se-

guito, scatti con aumento della velocità, della frequenza del pas-

so consigliando la riduzione dei tempi d’appoggio, e successiva-

mente, svolge alcuni allunghi ad ampia falcata. Si prosegue effet-

tuando una serie di esercizi con cui l’atleta realizza la condizione

meccanica ottimale per poter affrontare al meglio la gara.

L’ultima fase del riscaldamento, commenta il Prof. Sassi, è dedica-

to al lavoro con la palla facendo una serie di esercizi tecnici indi-

viduali per passare successivamente, soprattutto prima della vici-

na partita, ad esercitazioni con la palla ad intensità elevata tipo

“possesso palla” prima con un 5:5 per poi passare ad 1:1.

Il tempo totale della suddetta proposta varia dai 20 ai 25 minuti.

ESEMPIO NR. 2

Quest’altro tipo di riscaldamento pre-gara riguarda una squadra

che milita nel campionato di serie C1 e, a differenza del primo, ha

una organizzazione molto più dettagliata poiché in 22 minuti di-

visi in due fasi da 8 minuti più l’ultima di 6, i giocatori raggiun-

gono uno stato ottimale di pre-gara, dimostrato anche dalla fase

iniziale della partita in cui i medesimi giocatori risultavano molto

più veloci e precisi nelle prime situazioni di gioco.

Il riscaldamento inizia con una corsa blanda con palla individua-

le per 3 minuti, successivamente si lascia la palla per effettuare

una corsa blanda sui 50 metri, corsa laterale alternata, mobilità

del bacino, corsa all’indietro, corsa laterale alternata in progres-

sione sui 50 metri e ritorno blando, allungamento della catena

posteriore di massimo 20 secondi, calciata avanti e laterale sui 50

metri, calciata laterale e skip, di nuovo allungamento ileo-psoas,

quadricipite e adduttori.

SCUOLAALLENATORIPREPARAZIONE FISICA

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Ai primi 8 minuti di questa fase iniziale di “risveglio muscolare”,

si aggiunge la seconda fase includendo esercizi con la palla:

skip passaggio della palla e via per 5 metri, corsa calciata pas-

saggio di palla e via 5 metri, scatto di 10 metri, allungamento ad-

duttori, ischio-crurali e quadricipiti, andirivieni per 10 metri e pas-

saggio della palla, passaggio di palla con successivo scatto in

avanti e al fischio corsa all’indietro, passaggi di palla in cerchio

con 5 fuori e 5 dentro il cerchio e al fischio scatto di 10 metri per

tutti, allunghi in progressione sui 50 metri, allungamento della

catena posteriore includendo anche i muscoli surali.

L’ultima fase di 6 minuti è dedicata ai movimenti specifici della

gara: cambi di direzione su distanza dei 50 metri, partenza stop

ripartenza e stop, salti di testa, per poi a coppie dedicarsi alla

sensibilità con la palla con passaggi massimo 20 metri fino ad ar-

rivare ai 50 metri, infine svolgere un 1:1 per testare ulteriormen-

te le proprie condizioni fisiche.

Questo tipo di riscaldamento per certi può risultare troppo rigido

poiché chi presenta problematiche o abbisogna di un condiziona-

mento particolare evidentemente dovrà adattarsi ad esercizi a lui

meno idonei.

IL RI-RISCALDAMENTO

È in uso da qualche anno svolgere, tra il primo ed il secondo tem-

po, una sorta di ri-riscaldamento, ossia esercizi e mobilità atti a non

far abbassare la temperatura corporea ma soprattutto a mantene-

re quella elasticità muscolare che si è avuta nel primo tempo.

Considerando che il periodo d’intervallo tra il primo e il secondo

tempo è di 15 minuti, che si dedica circa 5-8 minuti alle istruzioni

tecniche dell’allenatore, rimane giusto il tempo per dei massaggi a

chi ne necessita, per reidratarsi e per effettuare degli esercizi, an-

che perché così facendo, rimane alta la concentrazione.

Si svolgono esercizi prettamente di allungamento muscolare, bal-

zi a diverse altezze, skip sul posto, corsa calciata, calciata a vuo-

to e alcuni scatti su breve distanze con cambi di direzione.

La palla non viene presa in considerazione poiché, durante que-

sta fase, è molto più importante l’aspetto fisico piuttosto che la

sensibilità del piede, anche perché sono soli 15 i minuti d’inter-

vallo, per cui un tempo relativamente corto per poter “dimentica-

re” la sensazione della scarpa da calcio con la palla.

IL SECONDO TEMPO

La tempestività nel mondo del calcio è diventata ormai una pre-

rogativa, ossia si cerca di minimizzare i possibili errori che si po-

tevano fare negli anni precedenti.

Difatti, non era insolito osservare che un giocatore delle riserve a

disposizione del mister, improvvisamente, a causa infortunio di un

titolare, doveva entrare in campo affrontando la partita senza

aver effettuato un minimo di riscaldamento.

È facile intuire come questa mancanza poteva pregiudicare non

solo la prestazione ma anche l’integrità fisica del medesimo gio-

catore.

Al fine di ovviare a questo lapalissiano errore, le squadre professio-

nistiche intorno al 15° minuto del secondo tempo fanno svolgere al-

le riserve degli specifici esercizi di allungamento muscolare sul po-

sto, mentre i probabili giocatori sub-entranti effettuano un riscalda-

mento non solo in maniera statica ma anche in chiave dinamica.

Tale lavoro preparatorio naturalmente, come visto in precedenza,

non dovrà far insorgere nel giocatore sintomi di stanchezza tali

da compromettere la successiva prestazione atletica.

IDRATAZIONE

Molto importante e sicuramente da non tralasciare, è l’idratazio-

ne dell’atleta, o meglio, l’educazione all’idratazione personale.

Il giocatore, visto gli sforzi derivanti dai vari allenamenti quoti-

diani, deve idratarsi maggiormente al fine di ristabilire l’equilibrio

non solo idrico, ma anche salino.

Alla base di ogni bevanda ci deve essere l’acqua, ma non è suffi-

ciente per calmare la sete.

È necessario sottolineare che il sudore oltre all’acqua contiene

anche sali, per cui la bevanda ideale deve contenerne in misura

adeguata.

Nelle bevande per sportivi sono presenti anche zuccheri e carboi-

drati, come fonte energetica; se la bevanda ha una concentrazio-

ne troppo elevata (quindi molto ricca in sali e soprattutto in car-

boidrati) ha dei tempi di svuotamento gastrico piuttosto lunghi,

per questo, una bevanda è veramente dissetante se permane po-

co tempo nello stomaco e viene riassorbita nell’intestino altret-

tanto velocemente.

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La concentrazione ideale deve essere con 4-6 grammi % di zuc-

cheri e di carboidrati e una frazione equilibrata di sali, con la pre-

senza di potassio e magnesio, meglio sotto forma di aspartati, che

hanno un’efficace azione anticrampi.

In pratica, sia prima che durante uno sforzo fisico che comporta

la perdita di grandi quantità di liquidi, si consiglia una bevanda

ipotonica o isotonica (rispetto al sangue), proprio per agevolare il

suo assorbimento.

CONCLUSIONI

Da questo elaborato e dai grafici trattati si evince l’importanza

della fase introduttiva ad una competizione o ad una “semplice”

seduta di allenamento infatti, incrementando progressivamente

la combustione a livello dei tessuti, si viene ad aumentare la tem-

peratura interna del muscolo e quindi a diminuire la viscosità; at-

traverso questi aggiustamenti di certo migliora anche lo stiffness

individuale importante per il giocatore.

Compito generale di tutti i preparatori atletici è quello di sensi-

bilizzare il giocatore professionista e non, a considerare questa

fase di warm-up come la più importante, poiché attraverso la

quale si riesce ad affrontare la competizione in maniera ottima-

le ma soprattutto, ad

“investire“ sulla pro-

pria condizione fisica

evitando stupidi, ma in-

fluenti infortuni.

Il calcio professionista

ormai è considerato a

tutti gli effetti come un

lavoro, un bel lavoro,

ma chi ha la fortuna di

parteciparvi, deve es-

sere anch’esso un pro-

fessionista, e per con-

siderarsi tale bisogna

curare tutti i particola-

ri non trascurando nul-

la, partendo proprio

dall’inizio.

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CENTRO STUDI E RICERCHECOMUNICAZIONE

livello di comunicazioni, or-

mai,le partite cominciano

molto prima del fischio del-

l’arbitro. Soprattutto le parti-

te che contano. A volte co-

minciano già la domenica se-

ra, a volte il lunedì, comun-

que già durante la settimana. Radio, tele-

visioni e giornali ne sostituiscono il cam-

po. Gli “schemi” sono tanti e vari: c’è chi

sottolinea il valore dell’avversario, chi fa

notare che fino ad ora ha ottenuto risulta-

ti inferiori a quelli che avrebbe meritato,

chi ricorda che, per tradizione, quello, per

la sua squadra, è sempre stato un campo

ostico. In fin dei conti sono modi di valo-

rizzare: si mette in evidenza gli aspetti po-

sitivi dell’avversario affinché la propria

squadra non sottovaluti l’impegno. Qual-

cuno, poi, ritiene giunto il momento di

esprimere tuta la propria stima nei con-

fronti della punta centrale avversaria, o

dell’allenatore, o del pubblico “così com-

petente e sportivo”. Qualcuno, an-

cora, tende a farsi “piccolino”, dis-

simulando le proprie forze reali,

nella speranza di sorprendere l’av-

versario. In qualche caso, vengono

fin emessi messaggi in codice che

gli addetti ai lavori si affannano di

decifrare con esiti incerti. Ma c’è

anche chi, soprattutto, in certi mo-

menti particolarmente delicati del

campionato, fa notare che, fino ad

oggi, la squadra che dovrà affrontare do-

menica prossima è stata “aiutata”, che ha

potuto usufruire di un numero cospicuo di

rigori a favore, o che, a danno della pro-

pria squadra, è in atto un vero e proprio

complotto. Più che di schermaglie in pre-

parazione dello scontro, allora si può par-

lare di condizionamenti della partita –

condizionamenti che, nel giro di poche

ore, investono tutti gli interessati: non so-

lo la squadra avversaria, il suo allenatore,

lo staff tecnico ed i dirigenti, ma anche il

pubblico – sia quello a favore che quello

contro- l’arbitro, i mass media, le forze

dell’ordine.

Anche qui, come in tanti altri momenti del

gioco del calcio, occorrerebbe guardare a

queste cose con senso di responsabilità e

ricordarsi di quel principio di lealtà sporti-

va al quale si è detto di attenersi. Si deve

ammettere, infatti, che, in certi casi, l’or-

chestrazione delle comunicazioni settima-

nali in previsione di una partita importan-

te, ha assunto il significato di un’argo-

mentazione finemente ricattatoria. L’aver

“previsto, un certo evento negativo (per

esempio “un rigore contro” o un atteg-

giamento intimidatorio) diventa il tentati-

vo furbesco perché la “profezia” non si

determini – proteggendosi altresì le spal-

le nel caso malaugurato in cui si determi-

ni davvero. Proseguendo su questa strada

pericolosa, presto, nel mondo del calcio,

troveranno posto – né più né meno che in

quello delle relazioni internazionali dove

la partita della domenica viene giocata

tutti i giorni e, ahinoi, si chiama “guerra”

– gli specialisti della disinformazione e

della propaganda. Paradossalmente, gli

strumenti di “queste speciali strategie di

giuoco” sono quei mass che, spesso, ven-

gono accusati di strumentalizzare le infor-

mazioni nel tentativo di far emergere con-

traddizioni “inesistenti” o di ingenerare

comportamenti incongrui rispetto all’etica

dello sport. Gli strumentalizzatori, insom-

ma, vengono strumentalizzati a

loro volta, in un gioco al massacro

senza fine, innescando complicità

difficili ad estinguersi. Ma se tutto

diventa mezzo per raggiungere i

propri scopi, il rischio – grave – è

che si perda di vista lo scopo di

tutti. Nelle astuzie dei singoli gio-

catori, insomma, chi ci perde è il

movimento complessivo del gioco

del calcio.

LA PARTITA DELLA SETTIMANAdi Felice Accame

A

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SCUOLAALLENATORITECNICO-TATTICA

e fasi finali del Campionato Europeo U.21 si sono

disputate in Germania dal 27 maggio all’ 8 giugno

2004 con la partecipazione di 8 squadre (limite di

età : classe 1981).

Obiettivi più ampi

Appuntamento ancora più importante per un dupli-

ce aspetto: da una parte si conseguiva il titolo prestigioso di cam-

pione d’Europa e dall’altra col piazzamento nei primi tre posti si

conquistava la partecipazione alle Olimpiadi di Atene in agosto

2004.

Accesso alla fase finale

Alla partenza del campionato le 48 nazioni europee sono state di-

vise in 10 gruppi (8 gruppi da cinque squadre e 2 gruppi da quat-

tro); da ciascun gruppo si qualificavano a seconda della difficoltà

1 o 2 squadre, in modo da avere alla fine 16 nazioni, le quali ve-

nivano ulteriormente sorteggiate ed accoppiate in partite di an-

data e ritorno (non si sarebbero potuto incontrare solo squadre

provenienti dallo stesso gruppo); le vincenti di questo spareggio

avrebbero partecipato alla fase finale.

In pratica da sedici si qualificavano 8 squadre.

Struttura della fase finale

Le finaliste a loro volta sono state divise in due gruppi di quattro

ciascuno, con girone all’italiana ed il passaggio alle semifinali per

le prime due classificate di ogni gruppo, le quali si sarebbero “in-

crociate” successivamente in gara unica: la prima di un girone

contro la seconda dell’altro.

Le vincenti avrebbero disputato la finalissima.

A differenza del campionato precedente si è disputata anche la fi-

nale per il terzo posto, data l’importanza della classifica per la

qualificazione alle Olimpiadi.

Logistica

La struttura logistica del campionato: venivano disputate due ga-

re dello stesso gruppo nello stesso giorno ed a orari diversi (in sin-

tesi giocava un solo girone al giorno) in due città vicine, in modo

che ognuno potesse seguire le due partite quotidiane.

Grazie a questa organizzazione anche un osservatore da solo ha

avuto la possibilità di visionare tutto il campionato (solo la terza

ed ultima gara di ogni girone veniva disputata alla stessa ora, in

modo da non dare vantaggi ad alcuna squadra), perdendo quindi

soltanto due gare in tutto.

I due gironi

Il gruppo A (composto da Italia-Serbia/Montenegro-Croazia-

Bielorussia) era raggruppato nel nord ovest della Germania e

giocava nei due campi di Bochum ed Oberhausen, mentre il

gruppo B (Portogallo-Svezia-Germania-Svizzera) veniva disputa-

to negli stadi di Mainz (Magonza) e Mannheim, entrambe città

del sud ovest.

Le semifinali e le finali sono state concentrate sui due stadi di Bo-

chum ed Oberhausen.

I due gironi si sono dimostrati grandemente equilibrati, tanto da

decidersi entrambi all’ultima partita e con un alternarsi continuo

di previsioni, speranze e di smentite, gara dopo gara.

Classifica finale del Campionato:

1. Italia

2. Serbia Montenegro

3. Portogallo

4. Svezia

Italia campione d’Europa e si qualificano per le Olimpiadi (Atene

’04) anche Serbia / Montenegro e Portogallo.

Grande, splendida ed importante affermazione dell’Italia!

Pur tra le favorite all’inizio, ha iniziato il campionato con qual-

che disagio dovuto a fattori di ordine psicologico (tre squadre

dell’Est nel girone, le quali non avevano nulla da perdere contro

l’Italia: il ruolo di protagonista forse pesava troppo sulle spalle

dei giovani azzurri); di carattere fisico (qualche giocatore im-

portante veniva da infortunio e quindi da inattività, altri aveva-

LEUROPEI U.21 – GERMANIA 2004di Franco Ferrari

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no un intero e faticoso campionato nelle gambe) ed anche di ti-

po tattico (brillantemente risolto dal tecnico Gentile) con un

4:4:2 che non riusciva nelle prime gare a tenere collegato il c\c

con l’attacco (cosa che andremo a rilevare nell’analisi delle sin-

gole squadre).

Nel prosieguo del torneo è migliorata sotto tutti gli aspetti, si è to-

nificata ed ha terminato, vincendo meritatamente il campionato.

Una squadra che ha avuto nell’omogeneità del gruppo la forza

morale per non abbattersi mai e per cercare sempre il risultato,

anche nei momenti di momentanea difficoltà.

SINTESI

Andremo ad esaminare l’andamento del campionato con risulta-

ti, classifiche e brevi commenti del suo divenire ed in seguito pre-

senteremo le disposizioni tattiche generali delle singole squadre.

GIRONE ELIMINATORIO

GIRONE A GIRONE B

Serbia Monten.-Croazia 3-2 Germania-Svizzera 2-1

Italia-Bielorussia 1-2 Svezia-Portogallo 3-1

Bielorussia-Croazia 1-1 Germania-Svezia 1-2

Italia-Serbia Montenegro 2-1 Svizzera- Portogallo 2-2

Italia-Croazia 1-0 Germania-Portogallo 1-2

Bielorussia-Serbia Mont. 1-2 Svizzera-Svezia 1-3

Classifica girone A: Classifica girone B:

1.Italiap.6 1. Svezia p.9

2.Serbia Montenegro p.6 2. Portogallo p.4

3.Bielorussia p.4 3.Germania p.3

4.Croazia p.1 4. Svizzera p.1

Girone A

Come già detto, equilibrio costante su tutte le gare, sia come ri-

sultati, sia come andamento delle partite: Italia termina il girone

a pari punti con la Serbia Montenegro ed è prima in classifica gra-

zie alla vittoria nello scontro diretto.

Il passaggio alle semifinali si decide tutto nell’ultima gara, con una

continua girandola di emozioni; si giocava in contemporanea:

- si può parlare della clamorosa eliminazione della Bielorussia

che perde 2-1 contro Serbia Montenegro nello scontro decisivo

dell’ultima gara (2 espulsi ed un rigore contro, dopo essere an-

data in vantaggio in una gara dove un pareggio le sarebbe sta-

to sufficiente!); unica squadra ad avere battuto (con merito) l’I-

talia attraverso una brillante prestazione e che godeva dei pro-

nostici generali per il passaggio del turno, grazie alla posizione

di classifica ed al valore dimostrato nel torneo;

- l’Italia vince il girone (inaspettato il primo posto da come si era-

no messe le cose; se pensiamo che con un pareggio nell’ultima

gara sarebbe stata eliminata…); nelle tre gare soffre sempre nei

finali, sia per i motivi esposti in precedenza, sia per la costante

inferiorità numerica gara dopo gara (dovuta due volte ad espul-

sioni: Bonera, Del Nero ed una terza per infortunio senza possi-

bilità di ulteriori cambi: Mesto) ;

- la Serbia/Montenegro si qualifica solo rimontando la Bielo-

russia nell’ultima gara, dimostrandosi però sempre squadra to-

nica e costante;

- la Croazia stessa in caso di vittoria nell’ultima gara sull’Italia (e

l’altro incontro del girone non fosse finito in parità, e non è av-

venuto..) avrebbe avuto certezza di qualificazione…

In sintesi, fino all’ultimo non si potevano conoscere le due semi-

finaliste: una rete, anche occasionale, avrebbe potuto alterare la

classifica finale.

Un equilibrio di fatto e di campo, deciso spesso da episodi situa-

zionali o da prestazioni estemporanee

individuali o di piccoli gruppi, più che da un predominio di squa-

dra continuo.

La “formica” Serbia è la squadra che ha mantenuto inalterati i li-

velli di prestazioni e gli atteggiamenti psicofisici in questo girone

con comportamenti attenti, concentrati e determinati, uniti ad

una condizione fisica all’altezza; mentre le “cicale” Bielorussia

(specialmente) e Croazia (questa in modo ancora più evidente e

con troppi chiaro-scuri)) hanno avuto momenti o addirittura par-

tite di sbandamento, alternati a periodi splendidi: troppo alterni

e\o distratti e deconcentrati i Croati, anche all’interno della stes-

sa gara, mentre i Bielorussi, con giovani talentuosi, forse peccan-

do di presunzione dopo la splendida vittoria nella prima gara con-

tro l’Italia, si sono ritenuti paghi o già qualificati e nella seconda

gara contro la Croazia (per essi decisiva in caso di vittoria): han-

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SCUOLAALLENATORI

36

TECNICO-TATTICA

no presentato una formazione con sei giocatori diversi da quelli

della prima gara… , accusando vistosi cali di concentrazione e

sostanziale differenza tra i titolari e gli altri componenti della ro-

sa, riducendosi quindi a non dover perdere nello scontro decisivo

contro la Serbia\Montenegro (cosa avvenuta) nell’ultima gara.

Girone B

Sebbene la Svezia avesse già ottenuto la matematica qualifica-

zione con un turno di anticipo, dando dimostrazione di forza,

equilibrio ed organizzazione tattica, anche questo girone si è di-

mostrato equilibrato ed incerto fino all’ultimo, per il raggiungi-

mento del 2° posto.

Nell’ultima gara le tre rimanenti squadre avevano tutte, seppur

con percentuali diverse, la possibilità di qualificazione: prima di

tutto la Germania che nello scontro diretto contro il Portogallo

aveva a disposizione due risultati su tre; è stata sconfitta da una

squadra sino a quel momento del torneo balbettante (aveva solo

perso e pareggiato nelle due gare precedenti), che cambiava in

continuazione uomini e modulo nella vana ricerca degli equilibri e

della struttura ottimale e che sembrava sull’orlo di una crisi cla-

morosa. Inoltre non si è riuscito a capire perché la stessa Germa-

nia, dopo la vittoriosa gara d’esordio contro la Svizzera, abbia dis-

putato la seconda gara contro la Svezia, sostituendo in toto tutti i

giocatori di campo possibili (non il portiere) e facendo giocare tut-

ti gli altri componenti della rosa a disposizione: ha perso la gara.

La Svizzera, cenerentola apparente, si è comportata bene nelle

due gare iniziali e se nella terza gara contro la fortissima (finché

ha retto la condizione fisica) Svezia, avesse vinto con la stessa dif-

ferenza reti della vittoria del Portogallo sulla Germania, si sareb-

be qualificata per miglior differenza reti sul Portogallo stesso.

Come si può evincere, ci siamo trovati anche in questo girone di

fronte ad una miscellanea di possibilità per il superamento del

turno.

SEMIFINALI

Italia-Portogallo 3-1

Serbia\Montenegro-Svezia 1-1 (rigori 6:5)

FINALE 3°

Portogallo-Svezia 3-2 d.t.s.

FINALE 1°

Italia –Serbia\Montenegro 3-0

In queste due partite l’Italia si sblocca; nelle gare di semifinale e

finale cambia modulo e vince con meno difficoltà degli incontri

precedenti nel girone e consegue di slancio e con pieno merito il

titolo di Campione d’Europa.

Curiosità statistiche:

- le due finaliste (Italia e Serbia\Montenegro) non solo provengo-

no dallo stesso girone A di qualificazione, ma anche dallo stesso

gruppo iniziale in cui erano state divise le 48 nazioni europee.

- Svezia ha segnato il maggior numero di reti (11) nei tempi re-

golamentari.

- Italia con 4 reti subite è la migliore difesa.

- Nei tempi regolamentari delle 16 partite disputate sono state

realizzate 51 reti con una media di 3,2 reti a partita; nessuna ga-

ra è terminata 0-0.

- Solo due squadre ed entrambe in due incontri contro l’Italia

(Croazia 0-1 nel girone e Serbia\Montenegro in finale 0-3) non

hanno segnato almeno una rete per incontro, tutte le altre han-

no almeno segnato una rete in ogni gara disputata.

- Capocannonieri: Giardino (Ita); Elmander (Sve) entrambi con 4 reti.

ITALIA - Qualificata alla fase finale battendo la Danimarca nei

sedicesimi (0-0;1-1).

Italia inizia il torneo con un 4:4:2 a zona classico (fig.1) e cioè col

c\c in linea e due punte di cui una (Gilardino) avanzata a fare il

terminale offensivo e l’altra di movimento su tutto il fronte.

Si evidenzia sin da primo incontro una zona di campo difficile da

coprire in fase di non possesso e cioè la porzione di campo inter-

na tra i due c\c centrali ed il fronte offensivo (zona delimitata dal

tratteggio), determinata dalle caratteristiche individuali delle due

punte e dell’esterno avanzato sinistro, giocatori bravi maggior-

mente nella fase di possesso palla, i quali , pur muovendosi con

generosità ed abnegazione non riescono ad impedire la manovra

e la circolazione di palla arretrata degli avversari.

A causa di questo motivo i due c\c centrali, rimanendo in inferio-

rità numerica, sia a volte per la presenza di un 3\4 avversario, sia

spesso per l’avanzata da dietro di un avversario libero con palla ,

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non possono esercitare pressione sulla palla e quindi per mante-

nere la squadra corta, devono retrocedere per non farsi superare

e per coprire lo spazio davanti alla difesa

Inoltre nel momento di riconquista palla (molte volte quindi nel-

la nostra metà campo), a causa della pressione avversaria o per

velocizzare, si nota spesso il lancio immediato lungo per le punte

isolate (in questa situazione la squadra si allunga e le punte ri-

mangono senza appoggi immediati; in più si obbligano i c\c ad

uno spreco inutile di energie: essi avanzano per accorciare e nel

momento di arrivo in zona palla, devono retrocedere subito a co-

prire perché la palla è già stata riconquistata dagli avversari…).

Anche nel caso contrario di atteggiamento temporeggiatore av-

versario si è costretti ad un lungo possesso palla (spesso in oriz-

zontale) per avanzare e poi cercare di uscire e\o sfondare sulle fa-

sce laterali (e questo sviluppo di gioco non è molto usato nel no-

stro campionato) con la conseguenza di trovare sempre gli avver-

Fig. 1

sari già posizionati e predisposti.

Dalla gara di semifinale si cambia modulo (fig.2): si sacrifica la

posizione tattica di seconda punta e viene inserito un c\c in più

(Palombo) in una posizione a lui inusuale di c\c avanzato , com-

pito che svolge benissimo ed un giocatore offensivo viene posi-

zionato a sinistra: sembra un 4:2:3:1(4:5:1 oppure 4:4:1:1, i nu-

meri come al solito sono solo indicativi..).

Con questa mossa viene coperto lo spazio che nelle gare precedenti

aveva procurato qualche difficoltà e l’Italia dimostra equilibrio nelle

due fasi, diventa sicura e quasi sfrontata nell’affrontare gli avversari.

La squadra quindi non è più costretta ad arretrare per inferiorità

numerica o per palla libera avversaria, potendo esercitare pres-

sione e copertura in zona palla avversaria arretrata e gli esterni

avanzati non rimangono più invischiati nella circolazione palla

dei difensori avversari: data la densità in zona centrale hanno

sempre una copertura od un raddoppio.

Fig. 2

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SCUOLAALLENATORITECNICO-TATTICA

La manovra inoltre non risente più del bisogno di allungare spes-

so palla; avendo sempre un punto di riferimento a disposizione

avanzato (Palombo con caratteristiche di c\c), la palla può essere

giocata corta.

SERBIA-MONTENEGRO - Altra finalista; aveva sconfitto la

Norvegia nello spareggio-qualificazione (5-1; 0-3).

Squadra che spesso ha cambiato modulo in funzione del risulta-

to, di situazioni contingenti e dell’avversario.

Molto elastico come atteggiamento; non ha mai dato l’impressio-

ne di integralismo tattico.

Comportamento attento, ordinato; squadra tonica e di tempera-

mento, sempre pronta a ripartire con più uomini.

Manovra con privilegio di palla rasoterra, formazione di triangoli

di gioco (nel senso di dislocazione a triangolo, non di passaggi a

triangolo); in possesso i terzini si propongono appena possibile.

Nella prima gara sembra attuare un 4:4:2 molto elastico, che

spesso si tramuta in 5:3.2.

In non possesso infatti spesso n16 si accentra a dare densità e co-

pertura ai due centrali e n20 arretra a fare il 5° (vedi fig.3) men-

tre il c\c n8 si pone davanti alla difesa e n10 entra centralmente

a coprire.

In fase di possesso gli esterni difensivi si aprono e si allunga n20.

Nella prima gara contro Croazia nel 1° t. la squadra si comporta

in questo modo, poi a causa della sostituzione della punta n7 per

infortunio, fa entrare n 19 Ivanovic che si pone a destra al posto

di n20, il quale avanza nella posizione di attaccante.

Ma questo cambio (unito al risultato di vantaggio ed alla

nuova disposizione tattica della Croazia che si dispone

3:4.1.2) accentua in modo evidente il 5:3.2 , perché n. 19 si

abbassa sempre e sembra partire fisso da terzino destro:la

squadra subisce la rimonta (da 0-2 a 2-2) della Croazia, per

oi poi realizzare la vittoria all’ultimo minuto, proprio con lo

stesso n19 (forse l’unica volta in cui era avanzato oltre la

metà campo…).

Nella seconda gara contro l’Italia si dispone nel 1° t. in un pru-

dente ed asfissiante 4:4:1:1, con gli esterni di c\c che a turno (in

alcune occasioni anche entrambi) arretrano a fare il 5° .

Ma il sistema è sempre molto dinamico, perché nel momento di ri-

conquista palla, ripartono in tanti ad occupare gli spazi. Sono ra-

pidi a muoversi e mantengono il possesso principalmente rasoter-

ra. Marcano tutti in modo pressante, quindi la manovra italiana ri-

mane negli intenti e ti lasciano andare in fuorigioco sui lanci.

Nel 2° t. per rimontare una rete subita, cambia: entra una punta

(esce un c\c) e si dispone in 4:4:2 classico.

Nella gara di semifinale contro la Svezia che praticava un 4:4:1:1

molto intercambiabile a c\c, la SM si è disposta con un centro-

campo con compiti individuali ben definiti, ognuno aveva un av-

versario di riferimento ed i due terzini alti sulle ali avversarie. Va

sotto di una rete e cambia uomini e modulo: 4:4:2 col c\c a rom-

bo e l’uso del trequartista.

Nella finalissima parte con un 5:3:2 col c\c a vertice basso, poi

perdendo 1-0 , rimane in 10 per espulsione dal 33’ del 1° t. Dap-

prima si dispone in 4:3:2, poi all’inizio del 2° t. cambia uomini e

si dispone in 4:4:1 col c\c a rombo e l’uso del trequartista (cerca

di infoltire il c\c per un possesso palla più corto e di eliminare la

frattura tra c\c e punta: ma, pur migliorando la manovra, perde

peso in attacco).

Come si vede, la variabilità di sistemi di gioco e della loro attuazio-

ne non porta squilibri nel comportamento della squadra: i giocato-

Fig. 3

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ri applicano pienamente la varietà dei compiti con disinvoltura.

Squadra di temperamento ed orgoglio, raggiunge con pieno me-

rito un risultato che sulla carta sembrava insperato: possiede gio-

catori di qualità già per il presente, ma anche per il futuro (ha gio-

cato un ’86)

PORTOGALLO - Ha battuto la Francia nei sedicesimi (1-2; 2-1 e

rigori).

Squadra che, pur mancando di grandi giocatori in età come Cri-

stiano Ronaldo, Quaresma e Postiga, in partenza godeva di molti

pronostici, ma che ha stentato a trovare gioco, uomini e disposi-

zione tattica sin dall’inizio del torneo; alla fine ha conquistato un

3° posto che la qualifica per le Olimpiadi e la salva da un giudi-

zio troppo severo.

Parte in modo disastroso: perde 3-1 colla Svezia e pareggia 2-2

con la Svizzera.

In queste gare il sistema di gioco è quello classico portoghese

(fig.4), un 4:3:3 a zona con un c\c basso davanti alla difesa (n6),

due mezzali di caratteristiche differenti , due esterni avanzati ed

una punta centrale.

Pur mantenendo costante il sistema, si nota un cambiamento

continuo di uomini sul terreno di gioco (specialmente nei ruoli

delle due mezze ali e nelle ali) ed anche di posizione in campo

degli stessi (n.20 prima ala sin, poi va interno a c\c, infine ritorna

esterno avanzato; le punte che cambiano posizione e poi ritorna-

no nella stessa), nella ricerca di un equilibrio di gioco e di una si-

curezza di prestazione che non si riusciva a consolidare.

La squadra sembra slegata; non ha riferimenti e nessuno attacca

lo spazio senza palla; ognuno gioca per conto proprio e tutti vo-

gliono la palla nei piedi. A c\c non riescono a pressare ed a con-

trastare, quando la palla è in possesso della propria difesa le due

mezzali si allungano sempre, per cui dopo una manovra di disim-

pegno, si è costretti al lancio lungo in spazi densi.

In non possesso il sistema diventa 4:5:1.

Nella partita decisiva di qualificazione del girone contro la Ger-

mania cambia il sistema di gioco (fig.5), cosa che ripeterà nel 1°

t. della semifinale contro l’Italia (per poi ritornare, quando in

Fig. 4 Fig. 5

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SCUOLAALLENATORITECNICO-TATTICA

svantaggio, al 4:3:3): difesa a zona a tre difensori + 2 esterni più

alti; un c\c basso a proteggere la difesa ed un attacco a diaman-

te, con un trequartista, due ali ed una punta.

Contro la Germania ha tirato fuori il colpo a sorpresa ed ha con-

quistato una quasi insperata semifinale; nel nuovo sistema tut-

ti i giocatori hanno dimostrato spirito di sacrificio ed idee chia-

re: attacco nello spazio(ed era molto..), contropiede e continui

1:1; fine della manovra con molti passaggi e della ricerca del

possesso palla raffinato ma poco produttivo arretrato: vertica-

lizzazione immediata (ma non del lancio lungo), dopo uno o due

passaggi di scarico.

In ampi spazi gli attaccanti hanno potuto dimostrare il loro valo-

re e la loro velocità, interscambiandosi con logica e pericolosità

ed i terzini hanno potuto dare ampiezza e profondità senza sguar-

nire la difesa (a tre e protetta sempre dal c\c basso).

Nella finale per il 3° posto contro la Svezia (dalla quale aveva per-

so 3:1 nel girone B) ritorna al sistema tradizionale.

Giocatori di buona tecnica, abili nell’1:1 ma che forse per proble-

mi di personalità non sono riusciti a formare con continuità una

squadra degna della tradizione lusitana.

SVEZIA - Supera la Spagna nello spareggio-qualificazione (2-0;

1-1) e rappresenta la grande e piacevole sorpresa del torneo.

Pur avendo superato l’ostacolo Spagna, non godeva in partenza

di grande credito, essendo stata sorteggiata in un girone con Ger-

mania e Portogallo, invece ha superato con stupefacente disin-

voltura il proprio girone, vincendo con merito tutte le gare e di-

mostrando di essere una grande squadra con acume tattico, per-

sonalità, forza e prestanza fisica.

Il risultato finale (4° posto) non la premia per le prestazioni of-

ferte; in semifinale è stata raggiunta al 90’ (1-1, ormai strema-

ta), per poi perdere ai rigori; e nella finale per il 3° posto ha per-

so 3-2 d.t.s.

Giocatori apparentemente poco spettacolari (a parte qualche ec-

cezione, vedi la punta ed un paio di c\c), ma in realtà tutti dotati

di buoni fondamenti tecnici e difficili da superare nell’1:1, anche

a c\c. Sanno pressare ed indirizzare l’avversario.

Squadra che ha mantenuto sempre lo stesso atteggiamento tatti-

co, disponendosi con 4 difensori in linea a zona, 5 c\c , di cui uno

più avanzato ed una punta centrale (4:5:1- 4:4:1:1- 4:3:3).

La cosa importante che risalta subito è come tutti i giocatori ab-

biano chiaro il concetto di ripartizione logica di spazio da difen-

dere o da attaccare; a c\c interscambiano molto, ma la squadra

mantiene sempre l’equilibrio e l’ordine.

La Svezia parte in tutte le gare inizialmente con un atteggiamen-

to prudente; si ritira verso la propria metà campo, crea densità e

fa pressione sulla palla; sulle fasce danno sempre copertura o ad-

dirittura raddoppiano; il c\c copre bene lo spazio davanti alla di-

fesa e la squadra rimane sempre corta.

Sembra voler volutamente lasciare in principio la superiorità ter-

ritoriale agli avversari, per poi crescere di ritmo e pericolosità du-

rante la gara e molte volte finire da dominatrice in campo.

I difensori sono bravi nel marcare o anticipare e di testa sono abili.

Si nota una lucida e chiara organizzazione difensiva; ognuno sa

sempre come comportarsi, anche perché trova sempre un compa-

gno vicino in aiuto.

Durante le gare, nel momento di forcing avversario ed a risultato

acquisito, non esita a disporsi in un classico 4:1:4:1 con uno

schermo difensivo davanti alla difesa, il quale fa da “libero “ ad

un c\c che si dispone in linea a 4.

Fig. 6

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Nel momento di possesso palla tutti partecipano alla gestione

della stessa; la squadra si allunga e si allarga, attaccando lo spa-

zio vuoto, ma sempre ciascuno ponendosi in appoggio al posses-

sore. Tutti hanno tecnica di base e tattica individuale; la squadra

generalmente sembra partire al piccolo trotto, ti fa giocare, sem-

bra subire, per poi colpire l’avversario con affondi micidiali in con-

tropiede.

La punta n9 è uno splendido attaccante di riferimento: corre, lot-

ta, sa giocare, è pericoloso e permette alla squadra di salire.

Sui d’angolo contro si sono sempre disposti a zona, non preoccu-

pandosi della marcatura individuale dell’avversario. (fig.7).

Escludendo il portiere (in mezzo ai pali e pronto ad uscire), ecco

le posizioni di partenza (i numeri rappresentano le posizioni, non

i numeri dei calciatori): n.1-n.7 sui due pali; n.2 fuori sul primo pa-

lo, ma dentro lo specchio di porta; n.3 davanti al primo palo ma

dentro l’area piccola; n 4,5,6 disposti lungo il limite dell’area pic-

cola; n8 centrale, appena fuori area piccola e n.9,10 dentro limi-

te area rigore.

Tutti a zona ed ognuno si muoveva per andare ad ”attacca-

re”palla.

BIELORUSSIA - Ha superato la Polonia nelle gare dei sedicesimi

(1-1; 4-0).

Eliminata a sorpresa nell’ultima gara del girone dalla Serbia\Mon-

tenegro, quando sembrava la favorita per il 1° posto.

Disposizione tattica difensiva solita dei paesi dell’Est europeo: di-

fesa 1:3:1, con un libero, un marcatore, due terzini ad uomo nel-

la zona ed un c\c davanti basso come punto di copertura ed equi-

librio; due ali che in non possesso non devono farsi superare dai

rispettivi terzini, un c\c di fantasia e due punte di movimento

(1:3:4:2 col c\c a rombo (fig.8).

La squadra appena possibile cerca la manovra con passaggi ra-

soterra e si muovono tutti nelle zone di appartenenza per parte-

cipare al gioco. Atteggiamento iniziale di prudenza: danno campo

agli avversari per poi partire in contropiedi veloci, ma non con

palle lunghe in profondità: ripartono tutti in ampiezza e ciascuno

attacca lo spazio in avanti; hanno logica, perché in questo modo

diventa difficile pressare il p.p. che ha sempre soluzioni di appog-

gio in ampiezza e profondità (anche arretrata). In difesa, se oc-

corre, non disdegnano la palla in tribuna. Ottimi fisicamente e do-

tati di tecnica e tattica individuale; risplende il n10.

Fig. 7 Fig. 8

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SCUOLAALLENATORITECNICO-TATTICA

Nella seconda gara contro la Croazia cambia 6 giocatori rispetto

alla prima partita ed il sistema di gioco sembra adattarsi all’av-

versario : 1:2:1:4:2 (fig.9).

Il n19 sale sul 3\4 avversario e lascia la marcatura a n20 e n6 (che

stringono), ma quando occorre, si abbassa ed arretra sulla linea

dei due marcatori (e si ritorna al solito 1:3); n5 rimane sempre li-

bero. I due esterni 16-7 salgono molto e coprono solo i diretti av-

versari (Croazia è disposta con 3:4.1:2). N13-10 sui c\c avversari.

In questa gara c’è volontà, ma la qualità dei giocatori è diversa;

c’è caldo, il ritmo è basso e dominano le difese.

CROAZIA - Supera la Scozia nello spareggio dei sedicesimi (2-0; 0-1).

Squadra che parte con un modulo nel 1° t. della prima gara

(3:4:2:1, fig 10) per poi mutarlo nel 2°t .e mantenerlo per il resto

del torneo (3:4:1:2, fig 11).

Nella prima gara inizia in modo disastroso, forse per l’emozione

(derby sentito), forse per la tenacia e la forza degli avversari (Ser-

bia\Montenegro) , forse per il caldo (si gioca di pomeriggio), ma

forse anche per la propria disposizione tattica che non consente

alcuna manovra.

Fig. 9

Fig. 10 Fig. 11

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I giocatori si dimostrano lenti nel possesso, senza ritmo ed il gio-

co sembra inventato in continuazione; i due 3\4 non dimostrano

corsa nello spazio e sono poco veloci e poco determinati nella tra-

smissione palla e quindi diventano molto prevedibili nei passaggi.

All’inizio del 2°t. la Croazia perde 2-0, ma con due cambi e la

nuova disposizione tattica (toglie un 3\4 ed un esterno e mette

una seconda punta ed un nuovo c\c e spostando a ds il c\c prece-

dente n8 : 3:4:1:2) la squadra sembra un’altra: gioca, domina, im-

pensierisce; rimonta lo svantaggio e sembra addirittura in condi-

zione di vincere, quando al 90’ viene trafitta da una palla prove-

niente dal fondo sinistra e facile da leggere (ingenuità difensiva).

Nella seconda gara (contro Bielorussia) va in vantaggio, ma si fa

raggiungere di nuovo verso la fine della gara su un cross dal fon-

do sinistra ed un avversario solo in area centrale tra i difensori

tocca di testa all’indietro per la conclusione di un compagno ….

Nella terza gara si gioca tutto contro l’Italia: se vince e l’altro in-

contro del girone non finisce in parità , si qualifica.

In questa gara parte e gioca meglio (perché di sera?) e nei primi

20’ impaurisce l’Italia, facendo girare bene la palla ed ha due oc-

casioni, poi subisce la rete ed accusa il colpo. Nel 2°t. rimane in

superiorità numerica per espulsione avversaria e costringe l’Italia

ad una affannosa difesa, ma senza esito.

Squadra che ha lasciato sempre dei dubbi: ha qualità oppure questo

è il livello attuale? Quali i motivi di prestazioni così altalenanti?

SVIZZERA - Ha eliminato la Repubblica Ceca negli spareggi di

qualificazione (1-2; 2-1 e rigori).

Squadra che ha dimostrato forza fisica, corsa, determinazione,

agonismo e collaborazione reciproca come armi migliori.

Giocatori tecnicamente validi.

Difesa sempre attenta e presente; quando possibile, escono in

manovra e sanno far girare bene la palla.

La disposizione in campo è stata di due tipi: 4.4:1:1 con n10 a co-

me 3\4 ed una punta giovanissima rapida ed interessante (’86)

(fig.12).

Classici movimenti del 4:4 in linea: due coppie di giocatori sulla

fascia che interscambiano e si sovrappongono (2-7 a ds e 3-8 a

sin.); una punta tecnica, mobilissima e molto pericolosa, con un

3\4 alle spalle (n10) tecnico, ma poco mobile. Il 3\4 dopo un av-

vio promettente, cede alla forza fisica avversaria.

In altra occasione la Svizzera si presenta con un canonico 4:2:3:1,

cambiando 5 giocatori sul terreno (fig 13).

Fig. 12

Fig. 13

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SCUOLAALLENATORITECNICO-TATTICA

Fig. 14

In questa nuova disposizione, conforme alle qualità dei giocatori in

campo, si evidenziano il gran lavoro su tutto il fronte del n.20 che

parte da 3\4; la forza, la corsa, la resistenza e la prestanza fisica del-

l’ala ds n21 che sa difendere bene la palla; la tecnica del n10 che

messo all’ala sn in una zona ben delimitata ha meno campo da co-

prire e meno avversari in raddoppio; l’abilità costante del mobilis-

simo n9 e due c\c con compiti prettamente di raccordo (9-18).

La squadra assolve bene i compiti e trova più spazio da occupare

i fase di attacco. Il risultato numerico di classifica non rispecchia

il valore di questa formazione.

GERMANIA - Ha eliminato nello spareggio di qualificazione la

Turchia (1-0;1-1).

La grande delusione di questo torneo.

Pur partendo con una promettente vittoria nella prima gara, è in-

cappata in due clamorose sconfitte nelle partite successive e, mal-

grado il sostegno di un pubblico generoso, non è riuscita a supe-

rare il girone di qualificazione.

Una nota: non ha mai giocato la stessa formazione (nemmeno

una quota base fissa); la squadra parte con una determinata scel-

ta e vince; nella seconda partita si cambia tutto ed entrano in

campo i panchinari della gara precedente (in pratica gli altri gio-

catori della rosa, sostituendo tutto il possibile: le rose infatti era-

no formate da 22 giocatori, di cui 3 erano i portieri…, riconfer-

mando in campo solo il portiere ed un giocatore (non era possi-

bile fare altrimenti: i calciatori di campo rimasti fuori nella 1° ga-

ra erano in tutto 9..) ; nel terzo incontro fa un mix delle due gare

precedenti e cambia posizione in campo di alcuni giocatori.

Squadra fisicamente forte, ma senza cambi di ritmo; con un alto

tasso di agonismo e volontà; che ha cercato fino all’ultimo il ri-

sultato, ma spesso l’irruenza ha ottenebrato la lucidità.

Hanno prevalso corsa ed agonismo sulla tecnica e sull’organizza-

zione di squadra; spesso si cerca la percussione individuale piut-

tosto che la manovra organizzata. Poca corsa senza palla, si muo-

ve solo chi desidera ricevere palla… e nessuno ha dimostrato di

saper e\o voler creare spazio per un compagno …

Tutti portano palla e cercano di infilarsi individualmente, ma

pochi sanno saltare l’uomo (eccetto n 13, tecnico, che solo se

va a sinistra cerca l’1:1), per cui il gioco diventa scontato e

prevedibile.

Poco gioco sulle fasce; appena possono, crossano, indipendente-

mente dalla posizione in campo.

Eppure hanno giocatori individualmente validi e con potenzialità…

In difesa hanno giocatori marcatori incredibili fisicamente ed an-

che molto logici nell’1:1, ma devono migliorare nella tecnica di

base ed avere più chiaro il concetto di copertura reciproca..

Bravi nella posizione su palla leggibile, ma in difesa sono sempre

attratti dalla palla e dall’avversario che in quel momento hanno

davanti e non badano a ciò che può succedere dietro (non con-

trollano lo spazio più pericoloso..)

In generale in non possesso tutti sono attratti solo dalla palla,

non solo i difensori, per cui vengono bene i raddoppi, se l’avver-

sario rallenta un attimo.

Tre gare disputate e tre sistemi di gioco diversi (fig.14-15-16).

Prima gara con un 4:3:3 molto elastico: n7 spesso si alza a ds a

c\c ed in contemporanea si chiude il n4 a fare il 3° ; n13 (tecnico)

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entra molto spesso a fare il 3\4 con l’allunga-

mento del n19 e la squadra sembra assumere

spesso l’aspetto del 3:4:1:2

Nella seconda partita (fig.15) cambiano uomini

e sistema di gioco, un 4:4:2 classico col c\c in li-

nea ed il n16 (unico sopravvissuto assieme al

portiere) ora c\c, mentre nella prima gara ave-

va giocato da difensore centrale.

Nel terzo incontro (fig.16), 4:4:2 col c\c a rom-

bo ed una nuova formazione con un altro cam-

bio di posizione al n16 (ora terzino ds) e n 7

(tutto ds) a terzino sn ed entrambi sono parsi

spaesati e fuori ruolo, infatti n16 sarà sostitui-

to dal n6 che va c\c sin, con l’arretramento di n

18 a lat.ds.

Verso la fine, perdendo 1-2,la Germania mette

una terza punta e vanno tutti in avanti a cerca-

re la palla alta..

Marinelli, Gentile e Gravina

Fig. 15 Fig. 16

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FONDAZIONE«MUSEO DEL CALCIO»

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STORIA

no dei più demoniaci “presti-

pedatori” del dribbling è stato

e rimane Omar Sivori, oriundo

italiano di scuola argentina”.

Sono parole di Gianni Brera, il

quale scrisse inoltre del gioca-

tore della Juventus:

“È un normotipo vicino al brevilineo.Le sue

gambette, ancorché tozze, si muovono se-

condo una coordinazione straordinaria.

Egli è inoltre capace di scatti relativi, cioè

brevi, che sembrano irridere gli avversari,

tanto sono improvvisi. Quando corre diste-

so lo fa con quelle falcatine di quei carat-

teristici cavallucci mongoli dalla lunga cri-

niera e le gambe pelose. Ma correre non gli

piace.Non è nemmeno veloce, suppongo:

avere scatto relativo non significa correre

veloce: significa avere il guizzo per arrivare

primi sulla palla. Impadronitosi di quella,

Sivori non è più propriamente un calciato-

re bensì un ballerino classico o, se preferi-

te, un “espada”. Sivori sa far tutto con la

palla, persino il portiere, ma i pezzi più for-

ti del suo repertorio sono costituiti dai suoi

dribbling. “Dribbling” è termine del gergo

calcistico inglese. In italiano è stato tradot-

to con “scartare” cioè evitare con sveltez-

za, mutare improvvisamente posizione, as-

sumerne un’altra e così tagliare fuori l’an-

tagonista. Si dribbla con una finta appena

accennata ed una spinta di piede improv-

visa a superare l’avversario dopo averlo

sbilanciato. Il dribbling gli è sovente servi-

to a perpretare il “tunnel” oppure a vibra-

re il colpo di “espada” conclusivo (1).

Il discorso ora scivola su un altro giocato-

re argentino, Diego Armando Maradona

che abbiamo avuto il piacere di ammirare

nel Napoli e nella Nazionale del suo Paese

e di cui fu il capo carismatico, un autenti-

co protagonista con una spiccata persona-

lità. “El pibe de oro” era chiamato.Partiva

da metà campo e finiva la sua corsa dopo

aver semitao per strada quattro, cinque

avversari.Maratona dava luce all’audacia,

alla scaltrezza, alla tecnica dando momen-

ti di gioia e di bellezza a tutti coloro che

assistevano alla partita.

Abbiamo detto di Sivori e Maradona, ma

potremmo citare molti altri dribblatori, da

Meazza a Cesarini, da Grillo a Rivera, da

Di Stefano a Schiaffino o a Platini, ai tanti

che hanno costituito col loro tocco magico

la rivincita dell’artista sulla robotizzazione

del gioco del calcio.

La domanda che corre è se il dribblatore sia

un creativo.”Certo, e molto!” ha affermato

il docente di psicologia della scuola allena-

tori spagnola, Santiago Coca. Ed ha aggiun-

to: “Il dribblatore è un giocatore che ha

grande fiducia in se stesso, che conosce le

proprie responsabilità ed è dotato di note-

vole personalità. È un creativo se creare si-

gnifica fornire una concezione nuova di ciò

che si fa. Il dribbling è creazione perché si

distacca dalla routine alla quale spesso ci si

abitua. Il dribbling è creazione e rivela le ot-

time caratteristiche del calciatore che non

evita di metter in mostra sé stesso. Se crea-

re vuol dire trasformare la realtà con la qua-

le si è in contatto giornalmente, imprimen-

do a questo atto il nostro linguaggio corpo-

rale, allora il dribbling è azione creativa. Il

dribblatore offre una delle chiavi della crea-

tività: costruire o presentare una risposta di-

versa volgendo a proprio vantaggio ciò che,

apparentemente, è contro.

“Il dribblatore - scrive ancora Santiago

Coca – proprio per le qualità speciali che

possiede, si distingue dagli altri perché

sente il bisogno di esprimersi in maniera

diversa. Egli si sente padrone delle diverse

azioni di gioco e di potere tenere sotto

controllo il pallone: si ritiene indipenden-

te, sicuro, incline a spezzare la routine col

desiderio di richiamare l’attenzione su di

sé. È logico ammettere che i migliori cal-

ciatori vogliano dimostrare tutto ciò e

questo accede ai dribblatori geniali. È pro-

prio questo desiderio di “autoaffermazio-

ne” che caratterizza la personalità creati-

va del dribblatore” (2).

Viene da dire che i dribblatori tipo Sivori,e

Maradona, abbiano una marcia in più.

(1) da “I campioni vi insegnano il calcio” di GianniBrera, edizioni Longanesi e &

(2) da “Dribbling” di Luigi “Cina” Bonizzoni, edizio-ni Società Stampa Sportiva

IL DRIBBLATORE È UN CREATIVO?CERTO E MOLTOdi Luigi “Cina” Bonizzoni*

U

* Direttore Tecnico

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SCUOLAALLENATORICALCIO A 5

a relazione esistente tra il Calcio a 5 e quello a 11

risulta tale in quanto i principi di tattica individuale

e collettiva sono gli stessi. La conoscenza e l’appli-

cazione di questi principi permettono l’esecuzione di

una corretta fase di non possesso di palla, sia ad uo-

mo che a zona, che tende a ridurre al minimo i pos-

sibili errori con relativo rischio di subire segnature

avversarie.

Nel Calcio a 11, negli ultimi anni, si è notevolmente ridotto il nu-

mero di squadre che praticano una marcatura ad uomo in favore

di un’organizzazione a zona più o meno pura. Di tendenza diffe-

rente risulta l’applicazione della fase di non possesso di palla nel

Calcio a 5, nel quale la maggior parte delle squadre adotta una

difesa di tipo individuale o mista. Poche sono quelle che pratica-

no la zona.La marcatura individuale prevede, da parte del difen-

sore, di farsi carico ed essere responsabile di un avversario prece-

dentemente determinato. Differenti sono le interpretazioni di

questo tipo di organizzazione difensiva. Alcuni privilegiano una

marcatura ad uomo nella quale un determinato difensore mar-

cherà sempre un particolare avversario, indipendentemente dalla

posizione che andrà ad occupare. L’organizzazione difensiva è ba-

sata complessivamente sulle capacità individuali dei singoli cal-

ciatori nell’opporsi in modo efficace nelle situazioni di uno contro

uno, sapientemente addestrati durante gli allenamenti. Anche le

coperture reciproche sono limitate.

Altri tecnici,invece,sempre nell’ambito di una marcatura di tipo

individuale, orientati verso un’ottica diversa rispetto alla prece-

dente, laddove risulta possibile, preferiscono dar rimanere i propri

difensori nelle loro posizioni di maggior efficacia attraverso l’ese-

cuzione di corretti cambi di marcatura. Si può preveder di scalare

soltanto alcune marcature soprattutto quando si hanno i giusti

tempi di gioco. Altrimenti verrà mantenuto il controllo del proprio

avversario.Potremmo identificarla come una difesa di tipo misto.

Una scelta, di qualsiasi natura essa sia, può comportare vantaggi

e svantaggi. Con riferimento alla difesa individuale, chi si orienta

nel mantenere marcature fisse avrà certamente il vantaggio di

abbinare in modo corretto le caratteristiche di un difensore in re-

lazione a quelle dell’avversario che dovrà marcare. Lo svantaggio,

se così può essere considerato, sta nel fatto che quel particolare

avversario da controllare può portare il marcatore a difendere ed

ad occupare zone di campo in cui risulta più vulnerabile e nelle

quali non si esprime secondo le proprie caratteristiche.

La difesa individuale, in genere, può andare incontro ad evidenti

difficoltà quando i difensori si trovino a dover marcare avversari

che giocano, in fase di possesso di palla, con movimenti coordi-

nati, aventi l’obiettivo di aprire spazi per gli inserimenti e indurre

i difensori a scoprire zone di campo pericolose come quella anti-

stante l’area di rigore.

Con riferimento a quest’ultima considerazione, appare importan-

te che i difensori mantengano la possibilità di offrire coperture ai

propri compagni attraverso corrette diagonali difensive con una

buona occupazione degli spazi. E’ necessario, quindi, tenere len-

ta la marcatura dell’avversario/i meno pericoloso/i che propone

quel contesto di gioco, mantenendosi bene scaglionati su più li-

nee difensive. E’ proprio quel difensore, che in quel momento al-

lenta la marcatura, a dare forte copertura nello spazio in cui la

squadra in possesso di palla potrebbe rendersi pericolosa. Si de-

ve pensare di poter determinare quattro linee difensore, una per

ogni giocatore in movimento. Il difensore centrale deve tendere

ad occupare, possibilmente, l’ultima linea difensiva, quella più vi-

cina alla porta, l’attaccante o pivot deve occupare la prima men-

tre gli altri due giocatori occuperanno le due linee intermedie.La

quinta linea, che spesso non viene considerata pur avendo una

sua ben specifica importanza, è formata dal portiere.

La possibilità di mantenere le posizioni di maggior efficacia al-

LCONSIDERAZIONI SU ALCUNI ASPETTIDELLA FASE DI NON POSSESSO DI PALLAdi Roberto Menichelli*

*Allenatore Seconda Categoria - Allenatore Calcio a 5 e Preparatore Atletico.

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SCUOLAALLENATORI

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CALCIO A 5

l’interno di un sistema difensivo non a zona sarà legata alla ca-

pacità dei singoli di eseguire corretti cambi di marcatura quando

il contesto di gioco, a seconda dello spazio e dl tempo a disposi-

zione, lo permette. Come già detto in precedenza, ci sono tecnici

che intendono e fanno praticare la marcatura individuale accet-

tando, a tutto campo, l’uno contro uno, limitando le coperture re-

ciproche e puntando tutto, invece, sulle capacità difensive dei

propri giocatori sapientemente addestrati a svolgere una fase di

non possesso di questo tipo sia individualmente sia collettiva-

mente. Alcune squadre adottano meccanismi difensivi del genere

con ottimi risultati. Sono pertanto d’accordo con chi ritiene che le

vie per raggiungere un obiettivo sono diverse e l’abilità di un tec-

nico è rappresentata dalla sua capacità di individuare e percorre-

re la via più corretta in relazione al contesto nel quale lavora e

cioè: tipo di squadra, caratteristiche dei giocatori, ambiente etc.

Come seconda considerazione vorrei porre l’attenzione sull’im-

portanza che riveste, per l’esecuzione di una buona fase difensi-

va, in generale,l’applicazione di un’efficace pressione sul portato-

re di palla avversario, con l’obiettivo di ridurre tempo e spazio di

gioco: l’accorgimento principale deve essere quello di non farsi

saltare dall’avversario, pertanto bisogna essere abili nell’agire

con i giusti tempi di gioco. A difesa schierata è importante stabi-

lire la zona di campo in cui iniziare l’azione di pressione che de-

ve essere massimale nel momento in cui l’avversario in possesso

di palla entra all’interno della zona stabilita.

Tutti i difensori devono leggere ed interpretare i possibili sviluppi

del gioco degli avversari in riferimento al tipo di copertura e pres-

sione che sta subendo il possessore di palla, alla sua posizione

con relativo orientamento. Appare chiaro che una scarsa pressio-

ne sul possessore avversario all’interno della zona del campo sta-

bilita, per esempio la propria metà campo, rappresenta un segna-

le di pericolo per chi difende. Ci deve essere un giusto equilibrio

tra chi deve stringere le marcature e chi le deve tenere allentate

per dare copertura.Faccio presente che nel Calcio a 5 un attac-

cante in possesso di palla, in prossimità della metà campo della

squadra che si difende, può creare problemi molto maggiori ri-

spetto, per esempio, ad una situazione simile ma nel calcio a 11.

Assume ancora più valore, quindi, il concetto di palla coperta con

i relativi vantaggi.

Al contrario, per pressioni portate nel giusto tempo di gioco,e re-

lative evidenti difficoltà dell’avversario in possesso di palla, la scel-

ta deve essere orientata a togliere gli appoggi più vicini onde au-

mentare maggiormente il disagio di quel giocatore cui seguirà una

successiva azione tendente allo sviluppo del pressing.E’ necessa-

rio essere abili nel trasformare una difesa bassa, schierata in ori-

gine all’interno della propria metà campo, in una difesa più alta

che tenda a mettere in difficoltà l’avversario. Altrettanto impor-

tante sarà la capacità di trasformare una difesa da alta a bassa, ri-

pristinando le giuste posizioni, quando chi difende si rende conto

di non aver portato pressione secondo un corretto tempo di gioco,

con gli avversari che riescono a mantenere agevolmente il posses-

so palla e a conquistare spazio. In questo caso atterrare non rap-

presenta timore ma buona organizzazione e consapevolezza delle

scelte intraprese in relazione a possibili errori commessi.

Un’ulteriore considerazione sulla fase di non possesso riguarda

l’importanza che riveste l’applicazione del contrasto diretto. In al-

tre parole ciò significa disporsi in modo tale da poter mettere in

“ombra” l’avversario. Questo atteggiamento difensivo è partico-

larmente utilizzato soprattutto in quelle situazioni in cui si è co-

stretti a difendere in inferiorità numerica ma è prevista la sua ap-

plicazione anche in caso di parità numerica. Tra l’altro, è possibi-

le immaginare quanto sia importante questo principio di tecnica

applicata nel Calcio a 5, in riferimento al fatto o che il regola-

mento non prevede il fuorigioco.

Si tratta, in pratica, di interporsi sulla linea immaginaria di pas-

saggio tra due avversari, determinando così un atteggiamento

spregiudicato ed aggressivo da parte della squadra che difende,

con l’obiettivo di limitare le possibili situazioni di gioco al posses-

sore di palla avversario. La scelta di chiudere una linea di passag-

gio può essere riferita al comportamento di un singolo difensore

che la attua per impedire la ricezione della palla al suo avversario

diretto, marcandolo in anticipo o per fronteggiare un’improvvisa e

pericolosa azione offensiva. Oppure è l’intera squadra che propo-

ne un atteggiamento difensivo orientato alla chiusura contempo-

ranea di più linee di passaggio. In una difesa disposta a zona, il

contrasto diventa un aspetto importante.Una tale soluzione viene

utilizzata anche negli schieramenti di tipo individuale o misto, lad-

dove la situazione lo permetta e richiede comunque una perfetta

esecuzione da parte di tutti i difensori in quanto, in caso contrario,

gli errori commessi potrebbero essere pagarti assai cari.

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SCUOLAALLENATORIPSICOLOGIA

uando si pensa al gioco inevitabilmente ci viene in

mente la spensieratezza, il divertimento, l’ infanzia e

la gioia di poter determinare anche le regole del

gioco stesso. Il calcio non a caso di definisce il

“gioco del calcio” perché nasconde dentro la sua

natura tutte le particolarità del gioco. Il calcio è

prima di tutto un gioco e come tale va letto. Ma

come tutti i giochi anche il gioco del calcio deve essere letto

anche nelle sue pieghe spesso troppo velocemente ricordate , ma

non sufficientemente messe in risalto.Non dobbiamo soffermarci

ad esaminarne solo gli aspetti esteriori del gioco del calcio; oltre

a non essere corretto non farebbe giustizia di tutte le potenziali-

tà educative che il gioco del calcio ha indispensabile allo svilup-

po del giovane atleta.

A noi interessa, in questo lavoro, tracciare gli aspettti cogniti-

vi del gioco del calcio tenendo presente da una parte gli studi

sullo sviluppo cognitivo del fanciullo da parte di Piaget e dall’al-

tra parte gli studi sulla sociomotricità e la sua ricaduta sullo svi-

luppo cognitivo di Parlebas.

Le teorie Jean Piaget chiarisce come l’intelligenza del bambino,

che si evolve secondo una logica tassonomica gerarchica cre-

scente, passi da una fase alla successiva attraverso processi di svi-

luppo che si realizzano nei concetti di assimilazione e acco-

modamento i quali determinano il processo stesso di adatta-

mento all’ambiente.

Gli studi di Pierre Parlebas fanno invece chiarezza sulla strut-

tura dei vari giochi o meglio sulle relazioni di tutti i tipi di sport

che a loro volto si collocano su piani di sviluppi cognitivi diversi

secondo una classificazione, delle attività motorie specifiche spor-

tive, in psicomotricità e in sociomotricità.

Il gioco del calcio non può essere concepito come la la somma di

parti singole e quindi definita attraverso una logica sommatoria.

La sua dimensione sportiva si rende visibile attraverso una dimen-

sione temporale unitaria dove ogni elemento del gioco non

riguarda mai il solo atto che si realizza , ma è contemporanea-

mente motivo di cambiamento di tutte le altre parti del gioco.

Tutto avviene nello stesso momento e quindi è la sua totalità che

si riconosce in una sua specifica globale soggettività.

Secondo le distinzioni studiate da Parlebas riguardanti le diffe-

renze relazionali e strutturali degli sport e dei giochi più in gene-

rale , il gioco del calcio è una attività sociomotoria ovvero svolta

da più persone e non una attività psicomotoria, cioè svolta da una

sola persona.

I giocatori del gioco del calcio realizzano un’ attività motoria di

collaborazione fra il gruppo di giocatori della stessa squadra

e contemporaneamente un’ attività motoria di opposizione

contro un gruppo di giocatori della squadra avversaria in un

ambiente, il terreno di gioco, dove le risposte non sono sempre le

stesse e quindi non prevedibili per cui in ambiente instabile.

La nostra tesi è che il gioco del calcio è in grado di stimolare ope-

razioni cognitive dalle più semplici alle più complesse , e per fare

questo ci serviremo di lavori di Massimo Baldacci che ha più

volte affrontato il tema dello sviluppo cognitivo nello sport in

generale.

Per sviluppo cognitivo si intende tutto quello che è legato alla

capacità della persona di saper fare elaborazioni delle informa-

zioni ovvero degli stimoli e delle risposte con comportamenti ade-

guati e quindi efficaci.

Il gioco del calcio è un complesso intreccio di stimoli e risposte

dove l’attività concettuale è continuamente sollecitata e non pro-

grammabile in tempi lunghi, ma in tempi brevi.

I processi cognitivi possono essere letti secondo vari procedimen-

ti, a noi interessa in questo lavoro evidenziarne la progressione di

tipo gerarchico, ovvero il principio tassonomico di complessità

QLA COSTRUZIONE DEL “COGNITIVO”NEL GIOCO DEL CALCIO GIOVANILEdi Salvatore Sica*

* Psicologo. Psicoterapeuta. Esperto in Psicologia dello Sport. Docente inca-ricato presso l’ Università di Firenze.

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SCUOLAALLENATORI

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PSICOLOGIA

crescente. Il principio della complessità crescente si lega ad una

logica didattica di natura cumulativa dove il bambino apprende-

rà bene soprattutto se viene messo in grado di scalare con una

certa gradualità la scala tassonomica.

Il primo livello di apprendimenti riguarda gli apprendimenti di

tipo elementare. Sono gli apprendimenti degli elementi primi

della conoscenza, sono quelli di tipo riproduttivo. In questa fase

si deve memorizzare una risposta comportamentale e saperla

riprodurla. La prima risposta cognitiva è quella della memorizza-

zione la seconda è quella dell’automatismo cognitivo. La necessi-

tà di queste risposte si basa sulla loro automaticità. L’impegno del

giocatore nel realizzare movimenti che riguardano questi tipi di

apprendimenti non devono essere impegnativi e di ridottissima

concentrazione per poter essere mentalmente disponibili per altri

compiti. Se un giocatore di calcio non automatizza sufficiente-

mente lo stop o l’avanzamento con il pallone al piede non avrà

mai l’attenzione necessaria per svolgere il gioco. E’ chiaro che se

i bambini non raggiungeranno una sufficiente padronanza di que-

ste competenze molto probabilmente verranno messe in crisi

anche le competenze successive

Il secondo livello di apprendimenti riguarda gli apprendimenti

di tipo intermedio.

Anche questo livello di apprendimento è di tipo riproduttivo, ma

la riproduzione non rappresenta una copia di risposte comporta-

mentali, bensì una rielaborazione di queste risposte. Le operazio-

ni cognitive connesse con questo secondo piano dell’apprendi-

mento sono la comprensione e l’applicazione.E’ necessario in

questo caso avere capacità di riadattamento e di transfer della

risposta in funzione dei contesti nella quale va messa in atto. Il

bambino deve imparare ad affrontare le nuove

situazioni non con risposte standard, ma con risposte che varia-

no a seconda delle necessità. Per scendere su un esempio pra-

tico possiamo dire che molti sono gli stop del pallone, ma sta

al bambino selezionare nel più breve tempo possibile in uno

stato di incertezza lo stop più utile ed adattarlo nel contesto

nel quale va messo in atto. Possiamo dire che le situazioni di

gioco sono caratterizzate da una entropia tattica che si ricono-

sce nella possibilità di scelta del giocatore fra una sola alter-

nativa e più alternative possibili attraverso processi di proget-

tazione e previsioni.

Il terzo livello degli apprendimenti riguarda gli apprendimenti

di tipo superiore.

In questo caso il bambino non deve riprodurre delle risposte o adat-

tarle, deve costruirle. Questo succede quando al bambino viene

posto un problema al quale egli non ha una risposta immediata, ma

la deve trovare da solo. Le possibilità di strategia cognitiva di solu-

zione del problema possono essere suddivise in due grandi catego-

rie: quella del pensiero convergente e quella del pensiero

divergente. Mentre la prima è impegnata nella ricerca dell’unica

soluzione valida, la seconda è impegnata nella ricerca di molteplici

soluzioni valide. La logica degli apprendimenti convergenti prevede

insegnamenti che stimoli analisi e sintesi che convergano su

soluzioni oggettivamente riconosciute. La logica degli apprendi-

menti divergenti si costruiscono sulle intuizioni e sulle invenzio-

ni dove l’analisi diventa un processo di natura intuitiva e la sintesi

diventa un processo di natura inventiva. Un esempio pratico che

possa spiegare questa fase dell’evoluzione tecnica/tattica del bam-

bino lo troviamo nella metotodolia di insegnamento degli allena-

tori quando invece di infilare le soluzioni dentro la testa dei loro

giocatori permettono loro di trovare e di fare proprie le soluzioni.

Il gioco del calcio ha nella sua struttura sociomotoria la possibili-

tà e la necessità di sviluppare tutte e tre gli apprendimenti ora

elencati. E’ indispensabile che gli operatori del’insegnamento del

calcio passino da cultura dell’insegnamento basato solo sul tra-

vaso di conoscenze ad una cultura dell’insegnamento basata

anche sulla libertà di trovare soluzioni fuori dalle regole precosti-

tuite che diano sfogo alle intuizioni e alle invenzioni.

BIBLIOGRAFIA.

Massimo Baldacci, “L’educazione motoria-sportiva”, Pellegrini

Editore, Cosenza,1988.

Pierre Parlebas, «Contribution a un lexique commente en science

de l’action motrice», Paris, INSEP, 1981.

Jean Piaget, “Psicologia dell’intelligenza”, Giunti, Firenze, 1980.

Salvatore Sica, “L’adolescenza ed il gruppo nello sport”, in

Educazione fisica e sport nella scuola, anno XLIII/215, n.106,

Roma,Luglio-Agosto 1990.

Salvatore Sica, “E’ bravo e si applica”, in A Ruota Libera, Modena,

n. 1,2 Febbraio 2001.

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