«Im Anfang war die Tat»: Ludovico Gasparini · 2014. 8. 30. · Michelstaedter, in un non-mai...

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«Im Anfang war die Tat»: Ludovico Gasparini > di Luca Ormelli «Se si guarda dall’alto, da una prospettiva panoramica, le vie percorse dalla ricerca di Ludovico Gasparini, non si può non osservare come esse riprendano, riformulandola o esplorandone nuovi metodi di risposta, una medesima questione, affrontata sin dall’inizio, che concerne il significato della libertà» (1). 1. Intelligo quia absurdum «Gàr autò noeîn estín te kaì gàr eînai » lo stesso è il pensare e l’essere secondo Parmenide in ciò ripreso da Hegel. Ma pensare richiede sempre un oggetto tematico di conoscenza, di apprensione, un pensare-di- qualcosa fosse anche il pensiero medesimo, e dunque pensare di essere non è lo stesso che essere; diversamente ne risulterà un essere impuro in quanto dimidiato con il pensiero. Ciò che è è necessariamente (2), senza dunque dipendere da un pensiero altro che lo pensi: «solo nominare l’Altro, significa immetterlo nella sfera della soggettività, per quanti sforzi si facciano per conservarlo come Altro» (3). Ma «se l’essere ha bisogno, in qualsiasi modo lo si intenda, esso cade immediatamente nella correlatività dei bisogni, che è la fonte della rettorica di Michelstaedter, e non può più sottrarsene, per quanto se ne differenzi» (4). Perché «se “l’Assoluto solo è vero, o il vero è Assoluto”, poiché non è possibile che “l’Assoluto se ne stia da una parte e il conoscere dall’altra”, allora una volta tolto l’Assoluto, ovvero, una volta criticata la pretesa hegeliana che “l’amore del sapere” possa trasformarsi in “vero sapere”, la realtà stessa viene annichilita e non può più darsi in essa alcun criterio capace di distinguerla dall’immaginazione, se non il medesimo senso comune» (5). Al proposito appare persuasivo quanto scrive Pareyson con accenti kierkegaardiani: «la realtà è veramente

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«Im Anfang war die Tat»: Ludovico Gasparini

> di Luca Ormelli

«Se si guarda dall’alto, da una prospettiva panoramica, le vie percorse dalla ricerca di Ludovico Gasparini,

non si può non osservare come esse riprendano, riformulandola o esplorandone nuovi metodi di risposta,

una medesima questione, affrontata sin dall’inizio, che concerne il significato della libertà» (1).

1. Intelligo quia absurdum

«Gàr autò noeîn estín te kaì gàr eînai» lo stesso è il pensare e l’essere secondo Parmenide in ciò ripreso da

Hegel. Ma pensare richiede sempre un oggetto tematico di conoscenza, di apprensione, un pensare-di-

qualcosa fosse anche il pensiero medesimo, e dunque pensare di essere non è lo stesso che essere;

diversamente ne risulterà un essere impuro in quanto dimidiato con il pensiero. Ciò che è è necessariamente

(2), senza dunque dipendere da un pensiero altro che lo pensi: «solo nominare l’Altro, significa immetterlo

nella sfera della soggettività, per quanti sforzi si facciano per conservarlo come Altro» (3). Ma «se l’essere ha

bisogno, in qualsiasi modo lo si intenda, esso cade immediatamente nella correlatività dei bisogni, che è la

fonte della rettorica di Michelstaedter, e non può più sottrarsene, per quanto se ne differenzi» (4). Perché «se

“l’Assoluto solo è vero, o il vero è Assoluto”, poiché non è possibile che “l’Assoluto se ne stia da una parte e

il conoscere dall’altra”, allora una volta tolto l’Assoluto, ovvero, una volta criticata la pretesa hegeliana che

“l’amore del sapere” possa trasformarsi in “vero sapere”, la realtà stessa viene annichilita e non può più darsi

in essa alcun criterio capace di distinguerla dall’immaginazione, se non il medesimo senso comune» (5).

Al proposito appare persuasivo quanto scrive Pareyson con accenti kierkegaardiani: «la realtà è veramente

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realtà solo se, semplicemente, è: proprio perché è si può pensare che prima di essere fosse possibile o

necessaria, nel senso che si può asserire indifferentemente, tanto “ormai è, ma poteva non essere” quanto

“ormai è, e quindi non può più non essere”. Questo carattere instaurativo e primario della realtà vien meno

quando la si indebolisce ed estenua o insistendo sulla concezione della realtà come contingenza o

assumendo la necessità nella sua accezione logico-metafisica. Per un verso la contingenza, attribuendo alla

realtà un poter non essere, la ricollega ancora con la possibilità, con l’effetto di affondarla nella nebbia

dell’irreale, in cui valgono i fantasmi del caso, dell’ipotesi, del rischio, dell’arbitrio, della virtualità» (6). Per

Kierkegaard: «mai dunque la realtà è, mai qualcosa di reale è in qualsiasi modo appropriabile; dovunque

invece, ci si perde nelle immagini, in effetti evanescenti, da noi stessi prodotti: “io non ho che pallidi esangui

ostinati fantasmi notturni a cui io stesso dò vita”» (7). «La ‘confusione’ della cosa con l’immagine è il

risultato della consapevolezza, cui è pervenuto Kierkegaard, della impossibilità della ragione di arrivare ad

un qualsiasi fondamento della realtà. La ragione è solo uno strumento e come tale va usato e rispettato,

poiché “chi veramente ha abbandonato la ragione e crede contro la ragione, conserverà sempre un rapporto

simpatetico per la facoltà di cui egli conosce benissimo la forza per il fatto di averla contro di sé” (Postilla

conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia, Bologna 1962, ed. Zanichelli, II, p. 363); per questo il cristiano

“non può credere nessuna assurdità contro l’intelligenza. (…) Ma egli usa l’intelligenza tanto meglio in

quanto attraverso di essa egli diventa attento all’incomprensibile” (Ivi, p. 366). Il credere contro ragione ha

tuttavia un effetto decisivo rispetto ai concetti che, privi di una loro verità ultima, perdono ogni stabilità,

divenendo strutturalmente imprecisi e richiedendo una loro continua riformulazione, appena la precedente

mostri i suoi limiti, il che accade immediatamente. Con la stabilità del concetto, viene meno la consistenza

della cosa e non rimangono che immagini vaghe e mutevoli; per questo in Kierkegaard non vi è più alcun

rapporto con le cose. Così è anche in Michelstaedter, per il quale lo stesso rivolgersi alle cose, lo stesso

domandare loro un rapporto, impedisce qualsiasi rapporto (cfr. La persuasione e la rettorica, Milano 1982, ed.

Adelphi, p. 40)» (8). Erra, dunque, Heidegger con la pretesa di distinguere tra “conoscere” e “pensare”:

«anche Heidegger, una volta operata la distinzione di conoscere e pensare, non può più avere a che fare con

‘cose’ che il concetto possa rappresentare, ma il senso del divino che anima la sua opera, lo risospinge verso

le ‘cose’, nella fiducia che in esse, nella loro essenza, l’uomo possa ritrovare la propria misura ormai perduta.

(…) Per Heidegger si tratta infatti non di afferrare qualcosa, ma di un “lasciar venire la misura che ci è

assegnata” (Poeticamente abita l’uomo, in Saggi e discorsi, Milano 1980, ed. Mursia, p. 134). (…) Tuttavia, una

volta perduta la misura – e solo la verità può restituirla – non ha più senso abbandonarsi di nuovo ad essa: il

Dio di Kierkegaard è più coerente, oltre che più severo ed esigente, di quello di Heidegger, poiché non lascia

scampo all’uomo, né tanto meno gli consente di soffermarsi “presso le cose”, come se lì egli si manifestasse»

(9).

Cosa resta dunque davanti al Nulla? «Il Nulla diventa la vera, l’assoluta realtà, l’insuperabile presupposto, che

da ogni angolo ritorna fuori, della produzione kierkegaardiana» (10). E da questo presupposto irrompe sulla

scena del mondo il soggetto moderno «il quale, per Kierkegaard, ha compiuto l’intero movimento della

riflessione in se stesso; rispetto all’eroe tragico antico, quello moderno “è soggettivamente riflesso in sé, e

questa riflessione non soltanto l’ha riflesso fuori da ogni rapporto immediato con lo Stato, la famiglia e il

fato, ma spesso l’ha riflesso fuori dalla sua stessa vita precedente”» (11). Il soggetto moderno è colui che si

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im-pone mediante la riflessione «poiché “la nostra epoca ha perduto tutte le determinazioni sostanziali di

famiglia Stato stirpe”» e pertanto «”deve abbandonare completamente a se stesso il singolo individuo

cosicché questi nel senso più forte della parola diventa il suo proprio creatore”». Un Prometeo incatenato:

«questo implica che ormai la realtà è soltanto per il soggetto, del tutto priva di ogni immediata

autosussistenza sulla quale il soggetto possa misurarsi e, misurandosi, ritrovarsi; la realtà è ora affidata

soltanto al singolo, ad un singolo che, avendo rotto, mediante la riflessione, ogni rapporto con essa, “è solo,

assolutamente solo… solo davanti a Dio”» (12). Quel Dio che è Nulla (Stirner fa sua la torsione esistentiva di

Kierkegaard del pensiero hegeliano), silenzio irreparabile dal lógos: «la logica di Kierkegaard è semplice e

lineare: pensare equivale alla trasformazione dell’oggetto in pensato, dove pensato indica per lui non realtà,

ma possibilità, qui anzi radicalmente contrapposta a realtà. Si potrebbe dire con Heidegger: il concetto di

moneta non è rotondo o metallico, non è pesante ecc., non è cioè la moneta. A differenza di Heidegger, per

Kierkegaard vale solo questo non è, poiché non sussiste alcun nesso tra parola e cosa, non essendoci alcuna

parola costituiva delle cose – la parola è solo un nome ed è mediante essa che “fiorisce la rettorica accanto

alla vita” poiché “abituarsi ad una parola è come prendere un vizio” (Michelstaedter, La persuasione e la

rettorica, op. cit., pp. 100-101) – e se Heidegger dice: “un ‘è’ appare là dove la parola viene meno”,

Kierkegaard si arresta prima, poiché un ‘è’ non appare mai. Come è infatti possibile che un ‘è’ appaia, e

appaia proprio dove la parola manca ovvero dove nessuno parla e regna soltanto il silenzio? Abramo non

parla quando conduce Isacco al sacrificio, ma non parla, non perché il silenzio trovi la sua parola silenziosa,

bensì perché qualsiasi parola, anche la più muta, sarebbe incomprensibile agli altri come a lui stesso; nel suo

silenzio, Abramo non aspetta la parola da nessuno, neppure da se stesso, poiché l’unica risposta a quel

silenzio è la sua azione, e per Kierkegaard azione equivale a realtà: non si tratta di abbandonarsi a niente, né

di attendere qualcosa, ma solo di agire e l’azione è l’unica parola possibile di Abramo. La radicalità della

figura di Abramo va del tutto al di là del pensiero non solo di Heidegger, ma di ogni filosofia – per esempio

quella di Lévinas – che si fondi sulla critica della soggettività intesa come rappresentazione,

onnicomprensiva e insuperabile, del mondo. Kierkegaard è il pensatore soggettivo e lo è perché per lui la

soggettività è la verità; proprio per questo, ogni uscita dalla soggettività è falsificazione. Uscire dalla

soggettività esistente significa cadere nella speculazione, sia essa quella di Hegel o quella di Heidegger o di

Lévinas, ovvero ricadere nella irrealtà, in quella irrealtà che risuona sempre in Heidegger quando si riferisce

all’essere, in qualsiasi modo vi si riferisca» (13). Wittgenstein, al contrario, è compiutamente kierkegaardiano

quando scrive nel Tractatus che: «il solipsismo, svolto rigorosamente, coincide con il realismo puro» (14).

Uscire dal pensiero, se significa qualcosa «significa dare la parola al vissuto; se il pensiero, comunque sia

pensato, è l’oggettivo, l’universale, il comune ecc., il vissuto è il soggettivo, ontico e non ontologico, e se la

verità è posta nel vissuto, nessuna oggettività è più reperibile. Il vissuto, per Kierkegaard, è l’interiorità e

l’interiorità è la realtà, contrapposta all’immaginazione» (15).

2. Aut-aut: tra Kierkegaard e Michelstaedter

Gasparini auspica l’avvento di una nuova filosofia della praxis, in sintonia con il collega presso l’Università

di Padova Franco Volpi (che vide in Essere e tempo una rivisitazione dell’Etica Nicomachea e predispose per

l'editore Adelphi il nachlass di Schopenhauer come costellazione, orientamento ed avviamento alla 'filosofia

pratica') e tuttavia con ben più profonda radicalità, muovendosi come un pendolo tra Kierkegaard e

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Michelstaedter, in un non-mai ricomposto aut-aut: «in Kierkegaard, come in Michelstaedter, l’accesso alla

realtà passa attraverso una strada assolutamente personale – ciascuno deve aprirsi la sua strada poiché non

vi sono strade predisposte e ripercorribili – la quale ha in comune il solo elemento del sottrarsi a quella

apparente realtà nella quale ci si trova immediatamente: alla ‘rettorica’ di Michelstaedter corrisponde

l”approssimazione’ di Kierkegaard ed entrambe sono rifiutate in quanto si risolvono in una giustificazione di

ciò che è ingiustificabile. Tuttavia Kierkegaard ricerca una realtà che è immediatamente intesa come durata e

ripetizione, proprio ciò che per Michelstaedter è piuttosto un “fingersi un io” per attenersi a quello; durare,

per lui, non è essere, ma aver bisogno: philopsychía. Kierkegaard vuole invece proprio un io che duri e

proprio nel suo durare sia un io reale, dove per Michelstaedter un io reale è solo quello che si dissolve, che

sta e muore nello stesso momento. Al di là di questa differenza, per entrambi, una volta abolita ogni

oggettività in quanto indifferente e insignificante rispetto alla verità dell’io, in quanto anzi, al limite,

dissolvente l’io medesimo, l’io è solo in quanto soggettivo» (16).

3. Con la ragione, contro la ragione

«La ragione è una cosa strana: se la guardo con tutta la mia passione, si gonfia fino a diventare una necessità

enorme, capace di smuovere cielo e terra; se mi trovo senza passione la guardo con disdegno» (Kierkegaard,

Diapsalmata, in Enten-Eller, I, p. 91). «Kierkegaard» scrive Gasparini «non si rivolge mai all’uomo, ma al

singolo uomo esistente, sul quale, in quanto singolo, non è costruibile alcuna ontologia; ogni ontologia per

Kierkegaard è scienza, ovvero oggettivazione, speculazione, che dimentica l’esistenza. Questa è la radice

ultima della distanza tra Kierkegaard e Heidegger, messa in luce con chiarezza da Adorno (…): in

Kierkegaard non è possibile una analitica dell’esistenza diretta ad illuminare il senso dell’essere, proprio

perché l’essere non ha senso; che Kierkegaard ritorni all’infinito sulla struttura dell’esistenza, non significa

che egli costruisca un’ontologia, poiché il momento estremo di quella struttura non trae dall’esistenza alcun

senso: la decisione per la salvezza è infatti interamente ontica – è il semplice fatto di decidersi, non per nulla

ciò che avvia alla verità, e insieme ne è l’unica misura, è la passione: “la passione dell’infinitezza è il momento

decisivo, non il suo contenuto, perché il suo contenuto è per l’appunto essa stessa” (Postilla, op. cit., II, p. 14).

Allo stesso modo, anche in Michelstaedter non vi è ontologia alcuna poiché, una volta escluso ogni sapere

oggettivo – “per fare esperienza oggettiva io devo guardare le cose che non vedo: poiché quelle che vedo, le vedo

per l’assenso della mia persona intera” (La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 124) – il soggetto che assente è

risolto nel suo essere persuaso» (17). Il soggetto che Gasparini legge in Kierkegaard è, per dirla con le parole

di Michelstaedter, «ai ferri corti con la vita»: «per Kierkegaard, l’io viene alla luce solo dopo aver tagliato

ogni ponte con la realtà, sia essa la realtà del mondo o la realtà di Dio (…); non c’è più per Kierkegaard

comunità o società, o mondo ordinato o realtà assoluta, che possa restituire l’io a se stesso, proprio perché

l’io di Kierkegaard si costituisce soltanto a partire dal suo scindersi da qualsiasi elemento lo accomuni a

qualche cosa che non sia se stesso, con l’immediato risultato che l’io non è né può essere se stesso, ma è

piuttosto scissione dagli altri, dal mondo, da Dio e da se stesso» (18).

«L’unica sicurezza è per Kierkegaard la realtà dell’esistenza (…). Il pensiero è dunque non realtà, ma

possibilità; se è così, più ci si addentra nel pensiero, più si procede di pensiero in pensiero verso la realtà, più

ci si allontana dalla realtà; il pensiero, in quanto approssimazione infinita, è – per usare il termine di

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Michelstaedter – ‘rettorica’, poiché con esso non si fa che cercare di giustificare, e dare per giustificato, ciò

che è ingiustificabile. Alla realtà si arriva soltanto arrestando il pensiero, con un arresto che non è, né può

essere, prodotto dal pensiero stesso; il pensiero infatti non può che pensare poiché se arrivasse al suo

termine naturale – l’identità con il pensato – non penserebbe più, ma si dissolverebbe come pensiero. In

questo senso, in quanto Hegel ritiene di ‘concludere’ il pensiero, egli semplicemente si immagina di essere

arrivato là dove è impossibile arrivare. (…) Reale è ciò che è impensabile, ciò che sfugge per struttura a

qualsiasi determinazione del pensiero. Basterebbe dire con Kierkegaard: il pensiero è, per concludere che

quell’è del pensiero non è pensabile e che pensarlo significa perderlo» (19).

4. Paradossalità dell’etica

Affiora qui con urgenza il nucleo teoretico peculiare all’intera produzione di Gasparini: se, sartrianamente

«l’esistenza precede l’essenza» la responsabilità della libertà, la sua gravità ci appartiene (20). E, dunque,

bene fa Descartes ad identificare il presupposto ultimo, l’epistème, nella soggettività del cogito ma da

quest’ultima non deriva alcuna essenza super-personale, universale bensì una essenza individua – l’esistenza

– che sola porta il peso e lo scandalo della decisione: «poiché l’io che pensa, per pensarsi deve essere:

l’esistenza si presenta come separazione di pensiero ed esistenza; nel pensiero scompare l’esistenza, ma

senza pensiero ugualmente non c’è esistenza: “l’esistenza è come il movimento: è molto difficile avere a che

fare con essa. (…) Sembra pertanto che sia esatto dire che c’è qualcosa che non si lascia pensare: l’esistere. Ma

la difficoltà ritorna e ciò per il fatto che il pensatore esiste, e il pensare pone insieme l’esistenza”» (21).

Ancora Gasparini: «l’orizzonte del pensiero è definitivamente abbandonato: c’è qualcosa che precede il

pensiero e sul quale il pensiero si eleva senza potere pensarlo. Il pensiero ha solo un’essenziale negatività,

poiché esso può solo ‘liberare’ ciò che ne è la condizione, ma ‘liberare’ qui significa proprio liberare dal

pensiero: il pensiero deve togliersi di mezzo proprio in nome di quella realtà che esso vuole affermare, ma che

gli è strutturalmente negata. Ma la funzione del pensiero è proprio quella di pensare: il pensiero pensa e

continua a pensare, soltanto perché è, così come il cuore batte e continua a battere. Poiché esso è parte

essenziale dell’esistenza, è ineliminabile: si può solo ‘orientarlo’, senza che di esso, da sé, possa orientarsi.

L’arresto del pensiero non è un vero arresto, ma un mutargli direzione e senso, riconducendolo alla funzione

e ai limiti che esso stesso, pensando, mostra continuamente» (22). Prosegue Gasparini: «non è il pensiero ad

autoregolarsi, ma è il filosofo a condurlo dove vuole. Così Kierkegaard, appena detto che “la soggettività

reale non è quella conoscente, infatti l’unica realtà di cui un esistente ha più che conoscenza è la sua propria

realtà”, per poi aggiungere “… ma è la soggettività etica esistente”. (…) nel quadro di un’esistenza che è

mediante il pensiero, poiché senza di esso non può essere, (…) e che tuttavia è prima del pensiero, tanto che

“la conoscenza cessa di essere conoscenza per diventare vita, passione, azione”, la realtà è ora

immediatamente etica, è attingibile solo come etica» (23). «Solo nel paradosso trova la sua giustificazione la

decisione; qualsiasi decisione infatti rimane sempre misteriosa quanto alla sua fonte per quanto ci si pieghi

su di essa, indagandola più a fondo possibile» (24). Il pensiero che affronta l’esistenza è il pensiero che non si

ritrae dinnanzi ai suoi paradossi perché è nei paradossi del pensiero che fiorisce l’esistenza, in questo

incessante corpo-a-corpo (25). Rifuggendo, al contempo, le pirotecnìe dell’aporia sistematizzata. Perché là

dove c’è fuoco, fosse anche d’artificio, c’è sempre il fumo della sofisticazione. «Ma per questo, proprio perché

vera decisione si può dare solo davanti a un paradosso, ogni decisione deve trovare la sua misura solo nel

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paradosso che è chiamata a risolvere. Si è già visto con Abramo che l’unica parola capace di rispondere al

paradosso è l’azione» (26). Occorre lasciarsi indietro ogni ermeneutica dell’agire fintanto che si agisce. Il

pensiero accoglie il ‘prima’ e il ‘dopo’ dell’azione, ne è il fondamento o, al capo opposto, il compendio. Mai

tuttavia il pensiero deve intervenire nell’azione, pena la dissoluzione della realtà nella possibilità. E una

realtà possibile è una realtà che si apre al pentimento, al dilagare del peccato.

L’etica «è definita come sforzo, autoaffermazione, vittoria; con altre parole ancora: coscienza, serietà, libertà,

in cui consiste il se stesso che, in quanto vittorioso, appare compiuto. Si tratta però di una completezza

ancora una volta illusoria: in essa, immediatamente, la realtà si trasforma in irrealtà e proprio nel suo punto

più alto, il pentimento, l’etica si mostra fallimentare. Nell’etica il fondamento è ancora l’io e l’io, da solo, non

può togliere il peccato. La decisione che conduce il soggetto dall’estetica all’etica, non fa un passo avanti

rispetto all’estetica e, come l’esteta girava “sette volte intorno all’esistenza”, ora il peccatore “in fondo non va

mai avanti”». Per poi concludere: «L’unica estetica è allora quella che Kierkegaard (…) chiama estetica

‘decisa’, tale da andare a fondo di se stessa, fino alla disperazione, ma questa è appunto etica: scelta di sé, per

quanto Kierkegaard parli a questo proposito di una vita che, pur non essendo estetica, poiché, dominata dal

peccato, “soggiace alle determinazioni etiche”, non è neppure etica» (27).

Se l’identità tra pensiero ed essere stabilita da Parmenide scivola nella immaginazione (il pensiero cioè non

aderisce più all’essere, non gli è coerente ma lo ‘finge’) la conoscenza si separa dalla vita. Vivere diventa

perciò impossibile se non nella misura del suo ek-sistere, del suo ‘stare fuori’, del guardarsi vivere. La

conoscenza, e dunque la vita, da etica (sono ciò che conosco e conosco ciò che vivo, mi com-porto e dunque

agisco eticamente, non posso che agire eticamente, gli uomini come animali morali) ad estetica: «il fondo

della morale è estetico,/sensibile, al limite, il senso/del bene e del male» (28).

5. «Un corpo che pensa»

Perché dei filosofi conosciamo il pensiero ma ben poco sappiamo delle loro esistenze? Perché, diversamente,

o il loro pensiero non sarebbe risultato bastevolmente chiaro o le loro azioni sarebbero riuscite fin troppo

eloquenti. Ludovico Gasparini (1940 – 2008) apparteneva a quella ristretta schiera di filosofi di professione

che pur professando filosofia non avevano tuttavia abdicato all’imperativo di coerenza che ogni onesto

interrogarsi circa l’esistenza reclama. Ed è, questa, una voce – ancor più una voc-azione – che muove dal

deserto dell’io e ad esso, nuovamente, mette capo. Alfonso Cariolato, che del filosofo trevigiano fu

collaboratore, con penetrante lucidità scrive: «c’è in Gasparini qualcosa di vagamente iconoclasta nei

confronti della filosofia e della sua tradizione. O anche, più semplicemente, una diffidenza di fondo che

caratterizza il suo approccio alle opere dei filosofi. Per quanto un testo lo colpisca e lo intrighi, per quanto un

filosofo gli sia congeniale – e Gasparini ripete con Kafka che occorre essere feriti da ciò che si legge (“Il punto

decisivo è che non/si può scrivere ‘bene’ se non ciò che si è:/se si esce dall’asse della propria vita/vissuta, non si

scrive più niente: vuoto e/chiacchiere”, in L. Gasparini, filosofia = errore di esistenza, op. cit., p. 44) – resta

sempre una riserva, una domanda. E tale domanda va in una duplice direzione, in quanto da una parte è

volta al filosofo stesso e riguarda la tenuta di quanto pensa e scrive, ossia la “prova sperimentale” attraverso

il pensiero del suo stesso esistere (“= p[rova] sperimentale/ma:/di che?/della propria esistenza//f[ilosofia] =

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esercizio pratico interminabile/come la propria vita//x filosofo/= chi fa della sua vita/un

esperimento/ovvero/f[ilosofia] = vivere i propri concetti/= essere i propri concetti/auto-

trasformazione/mediante prove”, Ivi, p. 70); e dall’altra, la domanda è rivolta a sé in un incessante lavorio di

interrogazione e vigilanza. Non basta leggere un filosofo. Neppure leggerlo per scrivere su di lui è una

motivazione – è questo il motore di un’accademia che non ha altro fine che perpetuare se stessa. Del resto

questo non significa che non vi debba essere rigore e anche erudizione in chi si occupa di filosofia – anzi, è

esattamente il contrario. Ma tale (auto)disciplina e conoscenza hanno senso solo se si accompagnano allo

sforzo di venire in chiaro (…) della mia esistenza» (29).

Prosegue Cariolato: «la filosofia non ha altra giustificazione se non quella di arrivare a essere un “pensiero

‘personale’” – “ecco il massimo di qualsiasi pensiero”, scrive Gasparini. E ancora: “un pensiero è personale

solo quando/è un pensiero sensibile,/un pensiero/reale e incarnato, un corpo che/pensa, una vibrazione che

ottiene/la sua luce mediante il pensiero/ (Ivi, p. 18). Gasparini sente l’urgenza della presenza del sé, e tutta la

sua problematicità. Ed è questo a costituire per lui la valenza di una filosofia: questo corpo che vibra grazie

al pensiero, perché è questo mio corpo, questa mia sensibilità, questo mio pensiero a essere innanzitutto la

questione. Da questo punto di vista, il suo pensiero – all’interno di una linea che va da Kierkegaard a Valéry,

passando per Michelstaedter – non parte, come tanta filosofia contemporanea, dall’altro, dal comune, dal

“con”, ma dall’immediatezza (…) di ciò che si è, di ciò che io sono. Anche per questo era affascinato dalla

biologia evolutiva e dalle neuroscienze, nonché dalle scienze in generale, perché in termini diversi e

trattando oggetti differenti queste discipline cercano comunque di comprendere come funziona la macchina»

(30).

6. «Meglio il silenzio che parole ripetute»

Trovare le parole. Lo stallo in cui si dibatte la filosofia contemporanea, lo scacco patito da chi vuol essere

filosofo oggi – giacché per chi intende ‘fare filosofia’ le aule delle accademie (31) sono sempre aperte –

muove dalla distanza oramai incolmabile tra le domande fondamentali – che rimangono immutate in quanto

costitutive all’esser-uomo dell’uomo, in ogni tempo e luogo – e le risposte che si è soliti dare ad esse che,

giocoforza, devono adottare un lessico consumato che se poteva vantare pressoché immediata

cor/rispondenza con la lingua dell’uomo che lo ha piegato alle proprie originarie esigenze di comunicazione,

riproposto oggi non può che allontanare ancora di più da quelle risposte qualora mai possano darsene; non è

da perseguire pertanto un (impossibile) ritorno all’origine – alla lingua aurorale dei primi filosofi – come da

più parti auspicato perché quell’origine e quella lingua non ci appartengono più di quanto ci appartengano

le divinità olimpiche ma l’inquietudine di ricercare parole nuove a domande ineludibili ed è, quest’ultima,

una disposizione d’animo radicalmente ‘altra’, estranea, che sola accomuna gli spiriti liberi d’ogni epoca: «la

f[ilosofia] è veramente una chiacchiera,/ormai non riesco più a leggere o ad/ascoltare i filosofi, i loro concetti,

le/loro pseudo-argomentazioni, che si/ripetono all’infinito: che senso hanno?/cosa vogliono dirci? appena un

filosofo/parla, ecco la sua batteria di concetti;/avesse un’altra batteria – e domani proba-/bilmente l’avrà – si

batterebbe con la/stessa convinzione, ripeterebbe frasi fatte/per l’ennesima volta./Certo meglio il silenzio,

perché, se Dio/vuole al di là della f[ilosofia] c’è la vita e/questo è il punto./L’unica vera argomentazione del

filosofo è la sua vita. Se questa non c’è – è/una frase fatta come i suoi concetti – allora/non c’è nulla/il primo

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segno di vita, è il linguaggio -/che il filosofo usa: come io riconosco questo/o quel filosofo dalla sua

fisionomia, dal suo modo – unico di muoversi ecc./così, se davvero è un filosofo, devo ri-/conoscerlo dalla

prima parola che dice:/ha un linguaggio suo, inconfondibile/le sue parole sono la sua voce, è la sua/vita che

parla: se un filosofo è i/suoi concetti, allora è un filosofo. Se invece li dice a destra e a manca, allora/il caso è

chiuso» (32).

Scrive Cariolato: «se da una parte il rischio del solipsismo è uno spettro che si agitava in lui, dall’altra era il

linguaggio, per quanto ambiguo (“il l[inguaggio] tradisce, altera, nasconde/la realtà che descrive/ma:/è

l’unico accesso di cui disponiamo per/la descrizione”, Ivi, p. 42) a costituire il medium, se non la

comunicazione tout court almeno la possibilità di essa. (…) Anche se a volte sembra affiorare l’idea di poter

andare oltre (o poter fare a meno) del linguaggio in direzione di un (…) vivere senza mediazioni, come per

esempio in queste righe: “il dialetto-realtà di Meneghello/o la parola-afona di Beckett/o il l[inguaggio] del reale di

Valéry, dicono/e cercano la stessa cosa: eliminare/il l[inguaggio] per toccare (vivere) le cose e /se stessi://→

sensazione” (Ivi, p. 88). Ma sono le opere stesse di questi autori a mostrare, in modo diverso, proprio

l’insopprimibilità del linguaggio. (…) Lontano da qualsiasi mistica comune ad alcune filosofie del

Novecento, Gasparini sembra cercare una riduzione del linguaggio che tuttavia si rivela essere la

massimizzazione delle sue possibilità» (33).

Qualsiasi descrizione della insensatezza del mondo ricade nella significazione linguistica; questo comporta

che non solamente ogni descrizione è una dimostrazione ma soprattutto che o la logica contempla ed anzi

prescrive le sue eccezioni o che non si possa dimostrare l’insensatezza ricorrendo alla logica. Nel primo caso

pertanto non si dà insensatezza perché tutto, da ultimo, si riconduce alla logica; nel secondo, allo stesso

modo, non si dà insensatezza in quanto essa si situa al di fuori della logica che la definisce: «descrizione//è

l’unica soluzione: guardare, sentire, ecc./e tradurre in parole. Nessuna valuta-/zione: è accaduto questo, il

mare è calmo/ecc. basta osservare senza aggiungere nulla/Ciò che si aggiunge alla d[escrizione], è il

suo/senso, il senso dell’evento o della/azione, che però non è necessario né/inscritto da qualche parte» (34).

Ancora Cariolato: «la filosofia diventa una “alterazione soggettiva mossa da scopi” (…) quando s’interroga

sul senso, quando diventa un “raddoppiamento”, domandandosi “che senso ha il senso”, o che cos’è il

“senso del senso” (L. Gasparini, op. cit., pp. 52, 99). E’ chiara l’influenza di Wittgenstein in questi passi, ma

(…) preme sottolineare la doppia valenza che il termine “filosofia” ha in queste pagine: una (…)

assolutamente negativa, che può essere ulteriormente compendiata mediante queste righe: “la f[ilosofia] è

legata a/1) tipo di domanda/che, per la sua struttura/2) impedisce risposte (finge di/non avere parametri)

imponendo/un ricorso all’infinito (altrettanto/finito)” (Ivi, p. 100). (…) Di questa filosofia, Gasparini vedeva

tuta la pesantezza e la perniciosità – un vuoto chiacchericcio autoreferenziale, blandamente allusivo,

radicalmente anti-descrittivo e “mosso da scopi” che tutto rappresentano fuorché un pensiero libero che

cerca soltanto (…) di aderire alla vita». Il rischio, per il filosofo, «non è tanto la morte ma (secondo la lezione

di Michelstaedter) l’esclusione, o meglio: l’escludersi del filosofo, in vita, dalla vita tramite i concetti, ossia il

vivere nei concetti invece di potenziare la vita con i “concetti sensibili” (Ivi, p. 22) e giungere così a un

“pensiero vivo” che “non descrive o spiega la vita ma è vita” (Ivi, p. 90): “f[ilosofia] = vivo nei concetti/→

escludo la vita/ mi preparo, rinchiudendomi – e/rinchiudendovi i concetti – nei concetti,/la fossa: sono già→

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morto prima/di morire//l’idea di f[ilosofia] come meditatio mortis/non è che la conferma del fatto che/il

filosofo è un ‘morto’, al massimo/un fantasma che sta svanendo, privo di vita” (Ivi, p. 14)» (35).

7. «La nostra mente è fatta di un disordine più un bisogno di mettere ordine» (36)

Non posso dire che ciò che dico, sono vivo nelle parole che mi eccedono. E, dunque, non vivo più di quanto

posso dire ciò che ‘va detto’. Occorre pertanto: «”agire semplicemente facendo il/necessario, sempre

spontaneamente, come/se l’azione sgorgasse da sola. Non c’è/bisogno di fare granché o di grandi azioni/ecc.

basta osservare i gattini, o preparare/la tavola, mangiare qualcosa se si ha/fame. Agire da sé e con una certa

mini-/ma attenzione, a volte calcolata, a volte anche/del tutto assente//lo s[crivere] non va più in là:

descrive/il vivere, questo vivere” (L. Gasparini, op. cit., p. 46). Il senso della filosofia, della scrittura – così

come quello della vita -, ammesso che si possa ancora chiamarlo “senso” (in questo caso, si dovrebbe dire

che non vi è altro senso che il filosofare, lo scrivere, il vivere, nel quale però la “spontaneità” perde ogni

commistione con la volontà, sponte, per indicare appunto “l’azione che sgorg[a] da sola”) diventa così, nei

differenti ambiti, un movimento autotelico che rifugge da ogni sovradeterminazione» (37).

L’interrogazione di Gasparini ha una asciuttezza monacale e tuttavia è aliena da ogni forma di dogmatismo;

è un procedere laborante quello del filosofo, un esercizio il tentare la vita con gli strumenti del pensiero,

riconoscendone ad ogni passo le soglie di tolleranza. Similmente Merleau-Ponty scrive: «il filosofo parla, ma

è una sua debolezza, e una debolezza inspiegabile: egli dovrebbe tacere, coincidere in silenzio e raggiungere

nell’Essere una filosofia che vi è già fatta. Viceversa, tutto avviene come se egli volesse tradurre in parole un

certo silenzio che è in lui e che egli ascolta. La sua intera ‘opera’ è questo sforzo assurdo. Il filosofo scriveva

per dire il suo contatto con l’Essere: ma non l’ha detto, e non potrebbe dirlo, giacché questo contatto è tacito.

Allora egli ricomincia» (38). Parole che dicono altre parole, parole altre, che si alterano e che alterano il senso.

Rastremare le parole come l’architetto mola la pietra. Carlo Scarpa, trevigiano di sepoltura (cosa caratterizza

il trevigiano? la mitezza delle colline? la rigorosità geometrica dei suoi corsi d’acqua?), rapprende il mondo,

lo concentra e nel concentrarlo lo condensa lasciando che sia. Chi accede alla tomba ‘Brion’ avverte

precisamente questo straniamento: «cercare l’essenziale, cercare e ricercare/l’essenziale» (39).

La filosofia «è necessaria perché il pensiero ci pertiene, dobbiamo farci i conti (filosofi e non filosofi, in

modalità certo diverse), e la filosofia “giusta” (il termine è di Gasparini) è la “pratica funzionale a

risposte/adeguate ai bisogni che la/muovono”, ed è (…) “quella che vale/per me (e non per un altro)” anche

se, per un altro, “può essere un es[ercizio]” (Ivi, p. 69). Intesa in questo modo, la filosofia ha la sua ragione di

essere. (…) è esattamente questo il punto per Gasparini: il senso, la verità (non la verità verificabile, ma la

verità che accade), è la vita stessa. E questo cambia tutto, in quanto la questione si sposta dai nomi, dalle

classificazioni, dalle categorizzazioni, pur necessarie e ineludibili, al flusso, al fare, all’agire e al come

rapportarvisi. (…) per Gasparini, tale punto – come per Valéry, anche se in maniera diversa – non è un

blocco, né una rivelazione, né una qualche esperienza d’altro, quanto piuttosto una pressoché impercettibile

modifica, una diversa disposizione, una variazione di corso e di flusso in cui finalmente la realtà fluisce e il

pensiero con essa. (…) E’ questa la sfida e, insieme, la posta del pensiero: nient’altro se non la realtà meno

appariscente e scontata, che tuttavia sfugge in mille modi alla presa del concetto. (…) La filosofia, ogni

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filosofia, presumibilmente anche la filosofia con cui Gasparini vorrebbe farla finita e non solo dunque la

filosofia “giusta”, osserva, argomenta, e mette termine alle proprie ricerche mediante una decisione – di più:

una decisione d’esistenza, la quale è la verità di quella filosofia, ossia l’incidenza del pensiero sull’esistere» (40).

«Quel solo pensiero in cui consiste la decisione, non è un pensiero giunto finalmente alla chiarezza, ma è un

pensiero che ha rinunciato per sempre a qualsiasi chiarezza, se non quella secondo la quale nessun pensiero

può condurre alla chiarezza» (41).

NOTE:

(1) Bruna Giacomini, “Parole giuste per azioni giuste”: l’esperienza filosofica di Ludovico Gasparini, in Ludovico

Gasparini, filosofia = errore di esistenza. Pagine di quaderno, Il Melangolo, Genova 2011, p. 167; il corsivo è

Nostro. Si tengano a mente, a proposito di queste definitive ma non conclusive Pagine di quaderno e come

avvertenza del loro carattere scomposto – anche e non solamente graficamente, in cui ci sembra di ritrovare

il passo di un altro, ben più celebre trevigiano, Andrea Zanzotto, con la produzione del quale sarebbe

senz’altro stimolante istituire un parallelo – le seguenti osservazioni della stessa Giacomini: «le Pagine di

quaderno che qui vengono raccolte e pubblicate si può dire condensino quel residuo che tanti anni di

riflessioni e ricerche hanno lasciato, indecomponibile, sul fondo, come il deposito che il continuo infrangersi

delle onde sulla riva lascia sulla battigia. In esse non si trova niente di simile, dunque, ad una conclusione, ad

una sintesi, ad un bilancio, ma neppure ad un estratto quintessenziale filtrato attraverso un lungo esercizio

di pensiero; vi si possono piuttosto rintracciare i sedimenti di ciò che l’esercizio non è riuscito a distillare, e

che, proprio per questo, consentono forse di toccare, di quel pensiero, il fondo», Ibidem.

(2) La ‘necessità’ che ciò che ‘è’ sempre sia è stabilita da Parmenide in questi termini: «infatti, Necessità

inflessibile lo tiene nei legami del limite». La ‘necessità’ trova nel De interpretatione di Aristotele (qui riportato

nella traduzione di Giorgio Colli) la seguente, celebre definizione: «non è infatti per la circostanza di essere

stato negato, oppure affermato, che un qualcosa sarà o non sarà, e che un avvenimento si verificherà dopo

dieci mila anni, piuttosto che non in qualsiasi altro momento di tempo. Di conseguenza, se in ogni tempo la

situazione delle cose ha fatto sì che fosse allora vero esprimere l’affermazione oppure la negazione, era così

già necessario che questo fatto si sia prodotto, e tutto ciò che si è prodotto sia sempre in una situazione tale

da prodursi per necessità. Ciò infatti, di cui si è detto secondo verità che sarà, non è possibile che non si

produca; del pari, rispetto a ciò che si produce, è sempre stato vero dire che sarà» (Aristotele,

Dell’Espressione, in Aristotele, Organum, Milano, Adelphi 2003, pp. 67-8).

(3) Ludovico Gasparini, Decisione e persuasione in Kierkegaard e Michelstaedter, in A. Cariolato, L. Gasparini, M.

Tasinato, Decisione e persuasione, Cooperativa Alfasessanta, Padova 1989, p. 78.

(4) Ibidem.

(5) Ivi, p. 18.

(6) Luigi Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Torino, Einaudi 1995, pp. 87-88.

(7) L. Gasparini, Decisione e persuasione in Kierkegaard e Michelstaedter, op. cit., pp. 18-19.

(8) Ivi, pp. 72-73.

(9) Ibidem.

(10) Ivi, p. 19.

(11) Ivi, p. 20.

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(12) Ibidem.

(13) Ivi, p. 22.

(14) Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Torino 1968, Einaudi, §5.64 (cfr. Quaderni 1914-1916,

nota del 2/9/1916). Sulle prospettive di analogia Wittgenstein-Valéry-Gasparini rinvio all’intervento di

Barbara Scapolo, Essere ciò che si pensa e/pensare ciò che si è/non c’è altra soluzione, in L. Gasparini, filosofia =

errore di esistenza, op. cit., e segnatamente alle pp. 228 e sgg. In particolare: «dato che, d’accordo con

Wittgenstein, “(…) certe proposizioni sembrano stare a fondamento di ogni chiedere e di ogni pensare” (L.

Wittgenstein, Della certezza, L’analisi filosofica del senso comune, Einaudi, Torino 2000, §415), allora, come

osservato da Gasparini nel suo Azione e comprensione nei “Cahiers” di P. Valéry, “(…) chi non porta il

linguaggio alla massima chiarezza, ‘resta tra le parole’, ovvero resta nel vago, nell’indeterminato,

scambiando il nome con la cosa” (L. Gasparini, Azione e comprensione nei “Cahiers” di P. Valéry, FrancoAngeli,

Milano 1996, p. 14). (…) Infatti, «una parola è comprensibile solo nel caso di essere sostituibile con qualcosa

che non sia parola, ovvero sia immagine, gesto o azione”» (B. Scapolo, Essere ciò che si pensa e/pensare ciò che si

è/non c’è altra soluzione, in L. Gasparini, filosofia = errore di esistenza, op. cit., p. 228).

(15) L. Gasparini, Decisione e persuasione in Kierkegaard e Michelstaedter, op. cit., p. 23.

(16) Ivi, pp. 23-24.

(17) Ivi, pp. 79-80.

(18) Ivi, p. 24.

(19) Ivi, p. 25.

(20) Rinvio nel merito a Bruna Giacomini ed alla sua ricognizione del percorso teoretico di Gasparini che

proprio da Sartre prese le mosse: «sia Sartre che i suoi critici mancano di riconoscere che il risultato

filosoficamente più profondo de L’Essere e il Nulla consiste nell’”impossibilità di dire l’Assoluto” (L. Gasparini,

La libertà nell’ontologia di J. P. Sartre, Liviana, Padova 1974, p. 21)», in L. Gasparini, filosofia = errore di esistenza,

op. cit., p. 171.

(21) L. Gasparini, Decisione e persuasione in Kierkegaard e Michelstaedter, op. cit., p. 26 nonché la nota 72: «per

Kierkegaard il cogito di Cartesio è soltanto una tautologia: “se si intende per questo 'io' del cogito un uomo

singolo, allora la proposizione non dimostra nulla: io sono pensante, ergo io sono; ma se io sono pensante, che

meraviglia allora che io sia? (Postilla, cit., II, pp. 124-125; cfr. Diario, cit., I, p. 201). Ma allora il pensare

significa: non sapere; questa è la conclusione di Michelstaedter: “Ma cogito non vuol dire 'so'; cogito vuol dire

cerco di sapere: cioè manco di sapere: non so (…) Cogito = non-entia co-agito, ergo non sum” (La persuasione e la

rettorica, cit., p. 102)».

(22) Ivi, pp. 26-27.

(23) Ivi, p. 27.

(24) Ivi, p. 28.

(25) «Il ‘corpo’ del pensiero, il vivere è ciò che è particolare, singolare, specifico, proprio, contingente (…) o

senz’altro – dice Gasparini sfidando la problematicità insita nell’uso di questo termine che gli viene da

Kierkegaard – soggettivo (“il soggettivismo non è un’obiezione/che male c’è nel soggettivismo?”, in L.

Gasparini, filosofia = errore di esistenza, op. cit., p. 54). Il sistema allora sta sempre di fronte alla vita di colui che

lo pensa. L’obiezione a ogni filosofia è il vivere che sta fuori rispetto a ogni generalizzazione possibile»

(Alfonso Cariolato, L’esistenza che pensa l’esistenza che è, in L. Gasparini, filosofia = errore di esistenza, op. cit., p.

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194).

(26) L. Gasparini, Decisione e persuasione in Kierkegaard e Michelstaedter, op. cit., p. 28.

(27) Ivi, pp. 28-29.

(28) L. Gasparini, filosofia = errore di esistenza, op. cit., p. 33.

(29) A. Cariolato, in L. Gasparini, op. cit., p. 195.

(30) Ivi, p. 196. Sulla scorta di Valéry, la filosofia «tende a delinearsi come l’”esercizio di un pensiero

incorporato nell’organismo e nella sua azione, che sono i ‘riduttori’ della sua presunta ‘infinità’ o teoria pura»

(B. Giacomini, in Ivi, pp. 179-180; il corsivo è Nostro).

(31) «FALSI FILOSOFI – Quelli generati dall’insegnamento della filosofia, dai programmi. Essi vi

apprendono problemi che non avrebbero inventato e che non sentono. E li apprendono tutti! I veri problemi

di veri filosofi sono quelli che tormentano e intralciano la vita. Il che non significa che non siano assurdi. Se

non altro, però, nascono vivi – e sono veri come le sensazioni» (P. Valéry, Cattivi pensieri, Adelphi, Milano

2006, p. 15).

(32) Ivi, p. 32.

(33) Ivi, pp. 196-197. Si confronti il §4.002 del Tractatus: «l'uomo possiede la capacità di costruire linguaggi,

con i quali ogni senso può esprimersi, senza sospettare come e cosa ogni parola significhi. (...) Il linguaggio

comune è una parte dell'organismo umano, e non meno complicato di questo. (…) Il linguaggio traveste il

pensiero. Lo traveste in modo tale che dalla forma esteriore dell'abito non si può inferire la forma del

pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell'abito è formata a ben altri fini che a la fine di far riconoscere

la forma del corpo». Se dico 'X' (un oggetto, un essere vivente, uno stato di cose ecc.) non per questo la

possiedo. E non la possiedo perché la medesima 'X' posso dirla altrimenti, con una perifrasi. 'X', dunque, è e

non è la medesima per me. Più caratterizzo la perifrasi e più 'X' sfugge dalle maglie dell'espressione e con le

maglie dell'espressione. La esproprio. Quello che effettivamente possiedo è la sua espressione, la sua

caratterizzazione, la sua descrizione. E in questo descrivere mi ritrovo sperduto nelle parole. Sono infatti

quello che dico ma in quello che dico non sono.

(34) Ivi, p. 13. In altro luogo della sua opera – e tuttavia è sempre ben riconoscibile il pensiero che si agita

lungo tutte le sue pagine – Gasparini scrive: «come non c’è inizio alcuno, così non c’è alcun “semplice” (…):

sempre s’incontra il complesso e sempre è necessario districarlo» in L. Gasparini, Azione e comprensione nei

“Cahiers” di P. Valéry, op. cit., p. 15.

(35) Ivi, pp. 197-199.

(36) P. Valéry, Cattivi pensieri, op. cit., p. 23.

(37) Ivi, p. 200.

(38) Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 1969, p. 148.

(39) L. Gasparini, filosofia = errore di esistenza, op. cit., p. 54.

(40) Ivi, pp. 200-201, 204, 206. L'esistenza implica costituivamente l'attuarsi, il farsi, il venire a situarsi 'qui' e

'ora'. E solo si attua ciò che diviene come è. La possibilità dunque non pertiene all'essere ma all'esistere.

Esiste infatti ciò che sta-fuori, ciò che non è già in atto, ciò che ha possibilità di essere e tuttavia ancora non-è;

è l'essere il paradosso nella misura in cui qualcosa è ciò che è necessariamente. E qualcosa è necessariamente

perché non ha possibilità d'essere che ciò che è. Qualcosa è quel qualcosa e non altro perché non è qualcosa di

differente: essere e non-essere si co-appartengono nella necessità. L'esistenza, al contrario, comporta la

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possibilità. Esistere è attuarsi e dunque star-fuori, nella possibilità, per situarsi – in un secondo momento -

nella necessità e da capo far di necessità possibilità; è la decisione che muove incessante la vita dalla necessità

alla necessità attraverso la possibilità. Occorre per questo riconoscere la necessità di ciò che si è come esito di

decisione. Esisto 'qui' e 'ora' perché mi è possibile altrimenti ma divengo ciò che sono perché voglio, ne sono

persuaso. Il punto di arresto di questa meccanica sistole (atto-essere)/diastole (possibilità-esistere) è la morte:

in essa si attua la possibilità definitiva, la coincidenza di essere non-essere. «Ne è una conferma il fatto che

quando Kierkegaard parla di confine tra pensiero ed azione, lo indica non nel continuare a pensare, ma in un

pensiero volto all'azione, un pensiero che è ormai divenuto un solo pensiero, escludente da sé ogni altra

possibilità, anzi tale da allontanare da sé ogni altra possibilità; un pensiero del genere è un pensiero che non

pensa più, è “eo ipso”. E' solo in questo senso che l'azione esterna non ha importanza alcuna, poiché “la realtà

non consiste nell'azione esterna, ma in un processo interiore in cui l'individuo toglie via la possibilità e si

identifica col pensiero per esistere in esso. Questo è azione» (cfr. L. Gasparini, Decisione e persuasione in

Kierkegaard e Michelstaedter, op. cit., p. 35).

(41) L. Gasparini, Decisione e persuasione in Kierkegaard e Michelstaedter, op. cit., p. 36.

Filosofia e nuovi sentieri/ISSN 2282-5711http://filosofiaenuovisentieri.it/2014/09/07/im-anfang-war-die-tat-ludovico-gasparini/

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