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Elvio Fachinelli. Un freudiano di giudizio Un freudiano di giudizio [A.S.] MATERIALI Elvio Fachinelli Lo psicanalista deve definire la sua posizione in società [1970] E.F. Cultura e necrofagia nell’industria culturale [1978] E.F. Destra e sinistra: una coppia simbolica esaurita [1981] E.F. E la passione unì macchina e paziente [1986] E.F. Pecorelle smarrite nell’ora di religione [1986] E.F. A proposito di una legge impossibile [1988-89] E.F. Don Abbondio, il vittorioso [1989] Pier Aldo Rovatti Co-identità Lea Melandri Il viaggio di Edipo alla radice dell’umano Paulo Barone Note a “Cultura e necrofagia” Sergio Benvenuto Finale al femminile Cristiana Cimino Estasi e perturbante. Nei dintorni di Thanatos Adalinda Gasparini Un pensiero solitario Luca Migliorini La noce di Grothendieck Antonello Sciacchitano Finito di scrivere o Fachinelli legge Lacan INTERVENTI Luisa Accati Il dolore non è un merito. L’immaginario religioso e le sofferenze della politica Mario Vergani Resistenza e liberazione. I “Quaderni di prigionia” di Emmanuel Levinas Alessandro Dal Lago L’ontologia dietro la macchina da presa? Note sull’ultimo cinema di Terrence Malick 352 ottobre dicembre 2011 3 11 21 27 32 38 40 47 52 58 84 89 103 112 126 140 151 169 188 Aut Aut 352_3bozza 22-11-2011 16:03 Pagina 1

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estratti dal n. 352 di "aut aut": "Elvio Fachinelli. Un freudiano di giudizio"

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Elvio Fachinelli. Un freudiano di giudizio

Un freudiano di giudizio [A.S.]

MATERIALIElvio Fachinelli Lo psicanalista deve definire

la sua posizione in società [1970]E.F. Cultura e necrofagia nell’industria culturale

[1978]E.F. Destra e sinistra: una coppia simbolica

esaurita [1981]E.F. E la passione unì macchina e paziente [1986]E.F. Pecorelle smarrite nell’ora di religione [1986]E.F. A proposito di una legge impossibile [1988-89]E.F. Don Abbondio, il vittorioso [1989]

Pier Aldo Rovatti Co-identitàLea Melandri Il viaggio di Edipo alla radice

dell’umanoPaulo Barone Note a “Cultura e necrofagia”Sergio Benvenuto Finale al femminileCristiana Cimino Estasi e perturbante.

Nei dintorni di ThanatosAdalinda Gasparini Un pensiero solitarioLuca Migliorini La noce di GrothendieckAntonello Sciacchitano Finito di scrivere

o Fachinelli legge Lacan

INTERVENTILuisa Accati Il dolore non è un merito.

L’immaginario religioso e le sofferenze della politica

Mario Vergani Resistenza e liberazione. I “Quadernidi prigionia” di Emmanuel Levinas

Alessandro Dal Lago L’ontologia dietro lamacchina da presa? Note sull’ultimo cinema di Terrence Malick

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Finito di stampare nel dicembre 2011

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Un freudiano di giudizio

Le azioni di Freud sono in ribasso. Non hostatistiche attendibili in proposito. La miaaffermazione si basa su un solo dato di fat-

to, a suo modo singolare. Dispongo di un sito web, dotato di unacerta visibilità: in media tremila visite al mese, con punte di sei-mila; in media mille e cinquecento pagine lette al mese, con pun-te di tremila. Nel sito ho predisposto una decina di pagine che par-lano (criticamente) di Freud e una sola che parla (molto critica-mente) di Jung. Inoltre, i link interni al sito sono polarizzati deci-samente su Freud. Ciononostante, con mia relativa sorpresa, daqualche mese tra le top ten delle pagine più gettonate non com-pare più Freud ma compare Jung. Junghismo contro freudismodieci a uno. Lacan, che ha pure molte pagine e molti link (e mol-tissime critiche) a lui dedicati, galleggia per lo più a metà classifi-ca. Le cause di questo esito singolare possono essere molte. Quel-la che mi viene più spontaneo e immediato immaginare, non ne-cessariamente la più probabile, è la maggiore apparente scientifi-cità di Freud.

Alla gente non piace vedere immischiata la scienza, oggettiva eimpersonale, nelle proprie faccende soggettive e personali. La gen-te preferisce pensare in termini mitologici di narrazioni universa-li, che sente più affini alle proprie storie. Freud è carente di miti:offre un solo e misero mito, l’Edipo, contro la ragguardevole ric-chezza di miti esibita da Jung. Freud gode di minori consensi diJung, perché apparentemente concede meno alla platea, allora?Freud meno “populista” di Jung?

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Non è questa la sede per discutere dei destini della psicanalisi.Rimando a un prossimo numero di “aut aut” su Freud e Jung, piùvolte ventilato in redazione, ma mai messo in cantiere. Qui mi li-mito a paragonare il dato singolare sopra riferito a un altro ugual-mente singolare. Lo faccio anche per giustificare il titolo dato alnumero: “Elvio Fachinelli. Un freudiano di giudizio”, decantan-dolo da risvolti potenzialmente polemici. Esisterebbero freudianipoco giudiziosi?

Le azioni di Elvio Fachinelli, invece, non sono mai scese. Erouno psicanalista alle prime armi nel “tumultuoso decennio ’68-78” e leggevo con curiosità i suoi elzeviri sulla terza pagina del“Corriere”. Cosa mi attirava di questo “intellettuale lacaniano, chesposò psicanalisi e politica”, come racconta la storica della psica-nalisi italiana, Silvia Vegetti Finzi?1 Certamente la sua capacità dianalizzare le vicende del soggetto collettivo non meno di quelledel soggetto individuale, senza però confonderli e senza applica-re al primo i cliché validi per il secondo. Paradigmatiche e tutto-ra attuali, nella Freccia ferma,2 le pagine sul fascismo italiano, in-teso come modalità ricorrente di arresto della freccia del tempodai tempi di Zenone alla moderna psicastenia.

Dopo la sua morte (1989) i congressi in memoria si rincorro-no. Non ne ha avuti altrettanti Cesare Musatti, che pure fu suoanalista e famoso perché definiva la psicanalisi come la propria so-rella gemella.3 Ne ricordo alcuni tra i più importanti: Salerno, 20-22 ottobre 2005,La mente e l’estasi, organizzato da Rosario Confor-ti; Trento, 27-28 marzo 2009, Nel secolo della psicoanalisi. ElvioFachinelli e la domanda della Sfinge, organizzato da Nestore Piril-lo; Firenze, 18 settembre 2010, Estasi laiche. Intorno a Elvio Fa-chinelli, organizzato da Adalinda Gasparini.

“Intramontabile Fachinelli”, scrive Paulo Barone,4 precisando

1. “Corriere della Sera”, 11 dicembre 1998, p. 35.2. E. Fachinelli, La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo, L’erba voglio, Mila-

no 1979, pp. 108-122.3. Ma Musatti si prende la rivincita su Google: 149.000 voci contro le 60.000 di Fachi-

nelli.4. “il manifesto”, 18 dicembre 2009, p. 25. Sulle stesse pagine Franco Lolli descrive Fa-

chinelli come Uno psicanalista a misura del mondo.

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subito che ciò che non tramonta è la grazia rivoluzionaria. In-somma, Fachinelli un mito? Perché no? Noi moderni siamo affa-mati di miti, come aveva ben capito Jung. In fondo i miti moder-ni sono molto pochi, solo due. Sono il Faust e il Don Giovanni,entrambi miti epistemici, come è giusto che sia in epoca scientifi-ca: uno, quello di Faust, il mito del falso sapere (mefistofelico?scientifico?); l’altro, quello del Burlador de Sevilla, il mito del sa-perci fare con le donne (?) non più angelicate; in fondo, sapevasolo contarle una dopo l’altra, precisa Lacan.5

A proposito di sapere, cosa sapeva Fachinelli? Tentano di ri-spondere i contributi raccolti in questo numero di “aut aut”, chesi apre con una serie di suoi testi cosiddetti “minori”. Si comin-cia, simbolicamente, con uno scritto di Pier Aldo Rovatti, coevo aClaustrofilia. In quegli anni, dalle colonne di “Alfabeta” Rovattidialogava con Fachinelli sulla nozione allora nuova e problemati-ca di co-identità. Rovatti è poi intervenuto anche al citato conve-gno di Trento sulla mente estatica come pratica di pensiero. Lanozione foucaultiana di “pratica” sarebbe piaciuta a Fachinelli,che era un teorico sì, ma poco amante delle teorizzazioni astrattee generalizzanti.

Lo scritto maggiore per estensione è quello di Lea Melandri,costruito secondo il paradigma del viaggio mitologico dell’eroe,alla Otto Rank o, in tempi più vicini a noi, alla Joseph Campbell.Il percorso intellettuale di Fachinelli diventa, allora, Il viaggio diEdipo alla radice dell’umano. Offre l’amorevole ripresa dei rischiche l’intellettuale affrontò nel suo attraversamento delle aporiedella modernità, prima di tutte quelle insite nella dialettica indi-viduale/collettivo, dove il collettivo è visto anche dal punto di vi-sta del movimento delle donne.

All’estremo opposto, lo scritto minore, ma solo per numero dibattute, e non meno denso di spunti di riflessione, è quello di Pau-lo Barone, che commenta il testo di Fachinelli su Cultura e necro-fagia nell’industria culturale, del 1978, qui riportato nei Materia-

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5. J. Lacan, Le Séminaire. Livre XX. Encore (1972-1973), Seuil, Paris 1975, p. 15. Per laprecisione, Don Giovanni lascia la contabilità al proprio commercialista Leporello.

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li. Ogni sapere è destinato a superarsi, afferma Jung, citato da Ba-rone alla fine del suo pezzo. Ma c’è modo e modo di dileguare,tanto per dirla alla Hegel. Il modo della cultura necrofagica è quel-lo sterile della cadaverizzazione, che non consiste nel far sparire iprodotti culturali, gli oggetti, ma nel mummificarli in un tempopseudoeterno senza presente e senza conseguenze di pensiero.

Seguono quattro interventi presentati al citato congresso di Fi-renze. Sono tutti incentrati sull’ultimo libro di Fachinelli, La men-te estatica, del 1989. Sergio Benvenuto rilegge il capitolo finale diAnalisi finita e infinita di Freud alla luce del “significante nuovo”proposto da Fachinellli: accoglienza, in antitesi alla nozione freu-diana di difesa.6 Invita a pensare il rifiuto della femminilità, ilgewachsener Fels freudiano, come resistenza ad accogliere il nuo-vo. Dobbiamo pensare una nuova ospitalità del e al pensiero. Èqui forse il caso di ricordare che intorno alla questione dell’ospi-talità si era cimentato l’ultimo Derrida, un filosofo particolarmentevicino alla psicanalisi. Cristiana Cimino propone alcuni modi diconiugare nella pratica clinica l’“estasi laica” fachinelliana con ilsignificante freudiano dell’Unheimliche. Adalinda Gasparini svi-luppa il tema del pensiero solitario e inattuale di Fachinelli. Esi-ste un pensiero solitario? Forse è ontologicamente impossibile.Perciò va tentato e magari reso attuale. Luca Migliorini, matema-tico a Bologna, analizza i rapporti tra creazione matematica e crea-zione poetica: Proust contro Grothendieck, un bel match. Infine,su suggerimento di Rovatti, il sottoscritto parla di come leggevaLacan l’allievo che Lacan non ebbe mai.

Una sintesi? Perché no, sapendo naturalmente quanto possaessere fallace. Ne propongo una esclusivamente mia, unicamentea giustificazione del titolo del numero della rivista, da me propo-sto e deciso in redazione con generale consenso ma, comprensi-bilmente, senza molto entusiasmo. Fachinelli seppe essere un freu-diano di giudizio. Accolse il freudismo, lo rielaborò e lo estese dal-la dimensione di pratica terapeutica individuale, cui l’avevano ri-dotto i freudiani ortodossi, alla dimensione di pratica politica col-

6. E. Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano 1989, p. 23.

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lettiva, pur senza indulgere alla moda di allora: il freudomarxismo,via impraticabile, tentata ai tempi e per un breve periodo daWilhelm Reich. Fachinelli fu un freudiano di giudizio nel sensoche applicò a Freud un giudizio critico “freudiano”. Accettò e ap-profondì la nozione freudiana di negazione che non nega (già inHegel) e di meccanismo di ripetizione (già in Nietzsche),7 ma re-spinse il “delirio” dei meccanismi di difesa,8 espressione della men-talità bellicistica del fondatore della psicanalisi.

È questo per me un insegnamento che resta. Altrettanto “giu-diziosi” dovremmo essere anche noi, quando ci diciamo freudia-ni. Altrettanto e forse di più dovremmo esserlo nei confronti diLacan, quando ci presentiamo come lacaniani. Suvvia, abbiamo ilcoraggio di essere freudiani senza freudismi, lacaniani senza laca-nismi. Non fu Fachinelli, “intellettuale lacaniano”, a darcene l’e-sempio? (Di un autore di tale spessore etico i miei nipoti atten-dono ancora le Opere complete.) [A.S.]

7. Cfr. Id., Il bambino dalle uova d’oro, Adelphi, Milano 2010, p. 21.8. Cfr. Id., La mente estatica, cit., pp. 20 sgg.

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Materiali

Quali testi di Elvio Fachinelli ripubblicare in una sezione dellarivista dedicata alla sua memoria? Ha risolto per noi il problemala figlia Giuditta, che ringraziamo, la quale ha consentito lapubblicazione dei testi qui presentati. Coprendo un ventenniocirca, i testi che seguono permettono di cogliere un trattosignificativo dell’evoluzione intellettuale di questo singolarepsicanalista, che mi piace definire un freudiano di giudizio.Fachinelli di sinistra? Fachinelli freudomarxista? Fachinellilacaniano?A Elvio le etichette andavano strette. Fachinelli fu unopsicanalista che non ridusse mai il proprio mestiere aspecializzazione. Poteva parlare di Manzoni o sorvegliare l’asilo diPorta Ticinese come uno “zio” qualunque – così lo chiamavano tral’affettivo e il canzonatorio i bambini di Porta Cicca. Un “uomosenza qualità” con l’unica qualità di essere un uomo senzadottrine. Prefigurava quella caduta delle ideologie che la cadutadel muro di Berlino, quarantadue giorni prima della suascomparsa, avrebbe poi imposto ai pensatori di buona volontà.Fachinelli freudiano non specialista, allora. Talvolta critico conFreud, ma all’interno di una riappropriazione personale delfreudismo. Forse la differenza maggiore con Freud non fu teoricama pratica: Elvio la espresse sul piano politico. Fachinelli noncondivise mai la politica lobbistica della psicanalisi.Controcongressi a parte, fu freudiano ma non di parte. Nonistituzionalizzò neppure la propria contestazione. Volle lasciarlamobile, “liquida”, direbbe oggi Bauman. Un insegnamento per noi– da non cristallizzare.Passo brevemente in rassegna i testi fachinelliani selezionati.Lo psicanalista deve definire la sua posizione in società (1970).Ho esitato a lungo prima di ripubblicare questo testo. Per varimotivi: è un testo redazionale; si riferisce a una situazione difloridezza della psicanalisi, oggi non più attuale; indurrebbe aclassificare l’autore Fachinelli come un ibrido freudomarxista, intriste assonanza con pseudomarxista.Cosa mi ha convinto a inserirlo, allora?Una “segreta simmetria” con l’ultimo testo del 1989, anno dellasua scomparsa. C’era una singolare prudenza politica nell’attivitàintellettuale di Fachinelli, che per nulla smussava il filo tagliente

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delle sue analisi. Oggi, se mi guardo intorno, stento a ritrovare letracce di un pensiero tagliente. Oggi sono scomparse le ideologie,si ama ripetere, per consolarsi del lutto più che per veraconvinzione. Il loro posto è stato preso da fondamentalismi più omeno religiosi, particolarismi più o meno fanatici, in singolarecombutta con fascismi più o meno striscianti (anch’essi nonideologici), ma non meno arroganti delle vecchie ideologie.Cosa direbbe il prudente Elvio di una situazione politica vuota dipensiero ma non poco complicata?Cultura e necrofagia nell’industria culturale (1978).“Mortui vivos docent” sta scritto sull’ingresso dell’anfiteatroanatomico della Facoltà di medicina dell’Università degli studi diMilano. Ogni medico sa che il proprio sapere si fonda sulcadavere. Ma Fachinelli, che era medico, sapeva qualcosa in più.Sapeva che la cultura cadaverizza il sapere. Trasmette un saperemorto perché non produca temibili innovazioni. Questa prossimitàdel sapere alla morte fa parte del disagio del vivere civile, inquanto compromesso con la morte. Anche questo Fachinellisapeva, non perché fosse medico, ma perché era freudiano.Destra e sinistra: una coppia simbolica esaurita (1981).Questo testo ha avuto una vasta eco sul web. La parola dellopsicanalista tocca qui qualcosa di molto concreto. Le dicotomiesimboliche non sono qualcosa di astratto che ci domina dallaprofondità del tempo remoto. Non sono archetipi. Il freudiano ciinsegna che le dicotomie simboliche proiettano sul corpo sociale lesimmetrie che governano il corpo del singolo – le sue zoneerogene, direbbe lui. Detto questo, si possono trasformare, magariabbandonare per adottarne di nuove. Il tradizionale sistema diequazioni: destra = libertà, sinistra = equità, è politicamente dariposizionare. Prima che la Lega vinca le elezioni.E la passione unì macchina e paziente (1986).Mente-corpo. Un dualismo rispetto al quale con qualche buonaragione la redazione di “aut aut” non si è dimostrataparticolarmente sensibile. Fachinelli lo affronta qui comeproblema (o pseudoproblema) posto all’analista. Il corpo parla, sisperimenta in psicanalisi. Questo vuole automaticamente dire cheesiste una mente? Non è detto. Esistono macchine parlanti: dalgrammofono ai programmi di computer che simulano la funzionedell’analista. Come distinguerli dall’Homo loquens? E poi, seesiste l’inconscio, esiste un sapere che non si sa di sapere. Quindiesiste una mente che non sa di essere una mente? Una mente chesimula una mente che non esiste? Sappiamo la risposta diFachinelli e ci convince molto. Se esiste una mente, è una mente

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estatica. Una mente fuori dalla portata della mente ma non pococorporea.Allora resta aperta la questione, che il filosofo non può lasciarenelle mani dell’uomo di scienza: cos’è una macchina? Cos’è ilmeccanicismo?Pecorelle smarrite nell’ora di religione (1986).Ritrovo lo psicanalista con il gusto del caso singolo e singolare,capace di smontare (smentire) l’ideologia politicamente corretta.Ricordo che negli anni settanta Fachinelli aveva promosso a PortaTicinese di Milano un asilo non autoritario.A proposito di una legge impossibile (1988-1989).Uno psicanalista che prenda posizione pubblica su un problemapolitico e sociale in nome della propria competenza, cioè delproprio saperci fare con il sapere inconscio, allora faceva scalpore.Oggi non fa più scalpore semplicemente perché il fenomeno nonesiste. Perché non esiste più la psicanalisi? A chi, in ultima analisi,abbiamo delegato la gestione dell’immaginario collettivo? Alpubblicitario? Allo psicoterapeuta? Al prete? Al medico?Una breve osservazione sul binomio “legge impossibile”.Certamente, Fachinelli aveva in mente le tre professioniimpossibili secondo Freud: educare, governare, psicanalizzare. Maforse ha giocato nella scelta del binomio anche un’influenzalacaniana, frutto delle frequentazioni di Fachinelli con l’analistaparigino, quando il lacanismo non era ancora di moda.Impossibile, cioè reale, in senso lacaniano. Le mode passano, ilreale resta.Don Abbondio, il vittorioso (1989).Fachinelli critico letterario? Non proprio. La sua parabola – a seimesi dalla scomparsa – si conclude come è iniziata. Perché il postodel discorso dell’analista è sempre lì: è un invariante, come dice lostesso Elvio, mutuando il termine dalla matematica, ma ignorandoche in matematica invariante è un sostantivo maschile – perciò loscrive con l’apostrofo. Il discorso dello psicanalista sta sempre lì –non cambia di posto – tra etica e politica: un luogo dove c’è postoper tanti – per i don Abbondi e per i cardinal Federighi, per iprudenti e per gli imprudenti, per i più e per i meno coraggiosi conuna leggera simpatia per...“Uno il coraggio non se lo può dare” è il motto dell’etica dei donAbbondi. Cui lo psicanalista aggiunge incoraggiando: “Allorausalo, quel tanto o poco che hai”. Magari per concludere la tuaanalisi. [A.S.]

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Lo psicanalista deve definire la suaposizione in società [1970]

ELVIO FACHINELLI

La psicanalisi sta attraversando in Italia unafase positiva di affermazione e di diffusio-ne. A sentire gli editori, un libro che ha

come argomento la psicanalisi ha molte probabilità di esserevenduto bene; a sentire gli analisti, le richieste di terapia si fan-no sempre più frequenti; Milano e Roma sono i centri in cui sisvolge la maggior parte dell’attività analitica, ma le richiestegiungono anche dalla provincia e da zone fino a oggi impensa-bili. La spiegazione di questo fenomeno può essere fatta risali-re alla divulgazione, che oggi avviene a livello di massa, dei pro-blemi psicologici e di una certa chiave psicanalitica con cui es-si vengono affrontati, nelle rubriche di corrispondenza con ilettori che ogni settimanale, femminile o no, tiene regolarmen-te con grande successo.

Comunque sia, la psicanalisi è entrata nella società italiana co-me una componente culturale ormai imprescindibile, le cui riper-cussioni sono avvertite a tutti i livelli, sociali e di settore: nel co-stume, nei libri, nelle opere d’arte. Da qualche anno contenuti ditipo psicanalitico entrano regolarmente nei romanzi e nelle operecinematografiche. Diario di una schizofrenica di Nelo Risi ha se-gnato recentemente una sorta di punto fermo in questo fenome-no di presa della psicanalisi sul pubblico; film tutt’altro che leg-

“Tempo medico”, 83, maggio 1970, pp. 32-37. Articolo non firmato, basato su un’intervistaa Fachinelli.

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gero e gradevole, il suo successo, anche di cassetta, è sicuramen-te sintomatico. Esso viene d’altra parte dopo altri esempi più omeno felici, e di sicuro meno rigorosi scientificamente, che tutta-via testimoniano anch’essi di un clima particolare. Gli esempi po-trebbero essere numerosi né si ha l’impressione che il fenomenosia in fase calante.

È probabile che si stia vivendo in Italia il periodo esplosivo chela psicanalisi ebbe negli Stati Uniti vent’anni or sono; allora giun-sero in Italia solo le frange periferiche del ciclone, sotto forma dialcuni film melodrammatici e di risonanze culturali (si cominciòtra l’altro a ironizzare sul fatto che tutti gli americani andavanodallo psicanalista). Ora, con il solito intervallo, assolutamente ne-cessario tuttavia all’affermazione dei consumi e alla diffusione delbenessere alla media e piccola borghesia, l’ondata psicanalitica ègiunta anche in Italia. Le cause sono evidentemente da individuarenel fattore economico e produttivo. Il benessere consumistico, fat-tore notoriamente nevrotizzante, concede nello stesso tempo alleproprie vittime la possibilità economica di accedere al divano del-lo psicanalista. La società in altre parole crea con i mali anche imezzi per affrontarli.

Ma cosa dicono gli psicanalisti di questo fenomeno? E dove staandando la psicanalisi in Italia? “Tempo medico” ha pensato dirivolgersi al dottor Elvio Fachinelli, esponente di un nucleo di psi-canalisti milanesi (di cui fanno parte anche Luigina Balestri, Mau-ro Mancia, Anna Paganoni, Carlo Ravasini, Carla Rostagni [Som-maruga]) che al Congresso internazionale di psicanalisi, tenutosia Roma nel luglio dello scorso anno, fecero un intervento, in col-laborazione con analisti stranieri, che portò seduta stante all’or-ganizzazione di un vivace “controcongresso”.1

1. [“In quei giorni del luglio 1969,” ricorda Paolo Migone, “mentre all’Hotel CavalieriHilton [di Roma] andava svolgendosi il 26° congresso della International Psychoanalytic As-sociation (IPA), un gruppo di partecipanti [capeggiati da Elvio Fachinelli e Berthold Roth-schild] incominciò a riunirsi quotidianamente in un vicino ristorante (allora si chiamava ‘Car-lino al Panorama’) per contestare vari aspetti delle istituzioni psicoanalitiche e per discuteredelle implicazioni politiche e sociali della psicoanalisi. Il clima culturale era quello degli an-ni sessanta, ricco di fermenti critici e di spinte ideali che dovevano poi svilupparsi neglianni seguenti. Questa specie di ‘controcongresso’ attirò l’interesse di molte persone [...] e oc-

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La caduta degli dei borghesiDella civile sommossa di Roma parlarono diffusamente i giornali;ora, ad acque sedate, l’opinione di uno degli analisti contestatoriappare la più adatta per indicare le vie inedite, i punti di rotturadi una scienza che per sua natura corre parecchi rischi di cristal-lizzazione e di stasi.

Una contestazione, quella di Fachinelli, nata da esperienze vi-ve, vissute in proprio. Da Bolzano va a studiare a Pavia, allievo delCollegio Cairoli; entra come interno in clinica neurologica, spintoda interessi specifici, e prepara una tesi in caratterologia. Dopo unanno di lavoro il direttore della clinica lo incontra in corridoio e glichiede chi sia e cosa stia facendo. Allora Fachinelli contesta comesi faceva quindici anni fa, con un atteggiamento negativo e rimet-tendoci in proprio. Lascia la clinica e si laurea con Giulio Macca-caro in microbiologia: “Non perché amassi particolarmente i bat-teri, ma perché mi seduceva l’aspetto logico-matematico di questistudi”. Ma dove portava la microbiologia quindici anni fa, se il gio-vane medico non aveva alle spalle un padre ricco o altre fortunatecombinazioni? All’industria farmaceutica. Alla Carlo Erba di Mi-lano, Fachinelli lavorò come microbiologo e fece altre esperienzeistruttive, e beninteso assolutamente positive, come dimostra il fat-to che se ne andò dopo brevissimo tempo, per specializzarsi in psi-chiatria, fare l’analisi didattica con Cesare Musatti e iniziare la pro-fessione di psicanalista, individuale e di gruppo.

Bilingue di nascita, Fachinelli mise a profitto la conoscenza deltedesco traducendo molti testi di psicanalisi, fra cui l’Interpretazio-ne dei sogni di Freud.2 In realtà egli è uno spirito inquieto, operan-te nel vivo della società. La vita culturale milanese lo vede sempre

cupò le pagine di vari giornali di allora e i notiziari televisivi. Fu da questo incontro che nac-que ‘Plataforma Internacional’ [...], un movimento che si proponeva di coordinare le inizia-tive e la riflessione critica nei vari paesi, soprattutto riguardo all’opposizione nei confrontidell’IPA” (P. Migone, I venti anni di Plataforma Internacional, “Il Ruolo terapeutico”, 53, 1990,p. 41). La storia del “controcongresso” di Roma è rievocata in dettaglio da Marianna Bolkoe Berthold Rothschild in Una “pulce nell’orecchio”. Cronaca del controcongresso dell’Interna-tional Psychoanalytic Association di Roma del 1969, “Psicoterapia e scienze umane”, 3, 2006,pp. 703-718.]

2. In S. Freud, Opere, vol. III, Boringhieri, Torino 1966.

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Cultura e necrofagia nell’industriaculturale [1978]

ELVIO FACHINELLI

Sono costretto per necessità di tempo aenunciare in modo essenziale ciò che, nel-la eventuale discussione, potrà essere spe-

cificato e problematizzato.

1. Guardando all’insieme delle istituzioni culturali da una pro-spettiva né storica in senso stretto né storicistica, si è ben prestoportati a vedere in esse le eredi legittime di quel mondo degli an-tenati che ha un’importanza fondamentale nei gruppi arcaici, qualili conosciamo attraverso le descrizioni tramandate, i ritrovamentiarcheologici e i resoconti etnografici. Nei gruppi arcaici la comu-nità degli antenati si costituisce attraverso la negazione della mor-te individuale e il riassorbimento dei singoli morti, attraverso va-

“Quaderni piacentini”, 69, dicembre 1978, pp. 101-104.È il testo della comunicazione presentata al convegno di Piacenza della Cooperativa scrit-

tori, dedicato a Lavoro mentale: produzione e mercato (27-29 ottobre 1978). Essa fa parte diun lavoro più ampio sui sistemi ossessivi attualmente in corso [cfr. La freccia ferma, L’erbavoglio, Milano 1979]. Forse per la prospettiva insolita da cui critica l’industria culturale, que-sto testo ha dato origine nei resoconti giornalistici a diversi equivoci. È stato interpretato peresempio come un commento ai lavori stessi del convegno, per la verità non troppo vivaci. Lapubblicazione in “Quaderni piacentini” intende anche ristabilire l’obiettivo reale, che è, ap-punto, l’industria culturale nelle sue tendenze oggi prevalenti in Italia. (E.F.)

[La Cooperativa scrittori fu una casa editrice nata nel 1972 dalla costola romana del Grup-po ’63, come reazione alla prima grande concentrazione editoriale attuata dalla Rizzoli. Trai suoi promotori vi erano Luigi Malerba, Angelo Gugliemi, Alfredo Giuliani, Nanni Bale-strini, Elio Pagliarani e altri. Nel convegno di Piacenza, conformemente al titolo scelto dagliorganizzatori, si sarebbe dovuto discutere di “lavoro mentale tra produzione e mercato”: difatto si finì per dar voce, soprattutto attraverso i comportamenti dei singoli, ai molti dubbiche allora gravavano sull’identità dell’intellettuale.]

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rie e complesse procedure di lutto, nell’unità di un gruppo di mor-ti-viventi, che continuano a far parte del gruppo stesso. Questo la-voro del lutto si distingue generalmente in due fasi. Una prima fa-se, caratterizzata da una serie di operazioni che interessano pre-valentemente il morto immediato, il cadavere, nei suoi difficili rap-porti con i superstiti. Una seconda fase, largamente successiva, incui entra in gioco il destino finale del morto disincarnato nell’al-dilà e i suoi rapporti col mondo dei viventi.

A questo punto, il gruppo risulta quindi strutturato secondodue poli, quello dei viventi in senso stretto e quello dei morti-vi-venti. Come risulta da molteplici resoconti, il polo degli antenatisvolge una funzione normativa nei confronti del polo dei viventi.Sarebbe troppo lungo e complesso indagare qui sul perché gli an-tenati abbiano tale funzione; diciamo soltanto che la funzione nor-mativa esercitata dagli antenati è perlopiù estremamente rigoro-sa: il trasgressore è spesso punito con la morte. Oltre alla funzio-ne normativa, al gruppo degli antenati spetta un compito di teso-riere, di custode permanente dell’immaginario e del simbolico delgruppo attraverso i miti, i riti e così via.

2. La fine del mondo arcaico, segnata dall’accumularsi senza so-ste dell’esperienza preistorica che esso non riesce più a neutraliz-zare e a riassorbire nel tempo ciclico che lo contraddistingue, se-gna anche la fine di questo rapporto di dipendenza, in genere piut-tosto stretto, dal mondo degli antenati. Gli antenati muoiono. At-traverso però l’invenzione della scrittura e degli altri sistemi di con-servazione e riproduzione dei suoni e delle immagini, è assicura-ta la permanenza e, in misura minore ma sempre notevole, anchela normatività delle opere dei morti. Il rapporto stretto tra i mor-ti-viventi e i comportamenti abituali dei vivi si trasforma quindi apoco a poco nel rapporto tra i “maggiori” e l’operare intellettua-le, creativo, dei vivi.

Una conferma di questa transizione si può cogliere nell’aura re-ligiosa che ancora oggi circonda, per la maggioranza forse degliuomini, tale operare. La cultura si costituisce, dunque, da questopunto di vista, come frutto di un lavoro di lutto, che porta al di-

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stanziamento, alla purificazione e alla stabilizzazione delle operedegne di essere conservate. Nasce un ideale luogo di permanenza.A questo punto si instaura quell’ininterrotto scambio con i morti-viventi, che prende in buona parte il posto dell’antica dipenden-za da essi.

Si sente spesso ripetere, in tono di nostalgia, che il mondo mo-derno ha operato una “rimozione della morte”. Ora, quest’asser-zione ha del vero per ciò che attiene alla morte individuale, bio-logica, in senso stretto. Ma di solito non ci si avvede di questa so-stituzione operata dall’insieme delle istituzioni culturali. L’operaculturale sostituisce l’individuo e va incontro ai procedimenti dilutto cui questi era sottoposto. I libri, insieme alle altre opere de-gli uomini, sono nello stesso tempo i loro figli e i loro morti.

Come nel caso degli antenati, anche il rapporto tra i viventi e iltesoro culturale dei morti-viventi non è pacifico, assicurato unavolta per tutte. Al contrario, conosciamo tutti le lotte secolari cheperiodicamente si riaccendono tra le ragioni dei viventi e la co-struttività della tradizione culturale. Il rapporto con gli antenati,anche nella cultura, è pacifico soltanto per chi lo guarda da lon-tano, o lo vuole vedere a tutti i costi tale.

3. Il processo di produzione industriale interviene a fondo anchein questa situazione, cioè nel mondo dei morti-viventi della cul-tura, con violenza forse superiore a quella conosciuta dal mondoarcaico di fronte all’accumularsi dell’esperienza storica. Questoprocesso, retto in larga misura dai principî economici del profit-to e dell’aumento della produzione, dà luogo a una serie di effet-ti, che devono essere esaminati dal punto di vista proprio della cul-tura, che è, ripeto, la creazione di un luogo di permanenza e del-lo scambio con le opere dei morti-viventi. In breve, questi effettipossono essere così descritti. In primo luogo, un’intensificazioneprodigiosa della prima parte del lavoro del lutto, quella che ha ache fare con l’opera come prodotto immediato, come cadavere, diimmediata rilevazione oggettuale e statistica. Dall’altra parte, unassottigliamento meno visibile, ma altrettanto netto, della secon-da parte di tale operazione, quella volta alla depurazione delle ope-

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Destra e sinistra: una coppiasimbolica esaurita [1981]

ELVIO FACHINELLI

Mi sia consentito di partire, per fissare ipochi punti del mio intervento, daun’osservazione storica a prima vista

marginale, o tutt’al più laterale. Come certamente molti sanno,e come si legge nei testi di scienze politiche, la distinzione par-lamentare tra destra e sinistra sembra risalire all’assemblea det-ta Costituente, durante la Rivoluzione francese: i rivoluzionarimoderati sedevano alla destra del presidente, i rivoluzionari ac-cesi alla sua sinistra. Rilevo questo particolare: i due lati erano esono tuttora individuati rispetto al capo o centro dell’assemblea.

Non sarà allora azzardato supporre che in questa distribuzio-ne spaziale abbia inconsapevolmente giocato un riferimento sim-bolico ben noto in tutto l’Occidente e singolarmente coerente sianella tradizione greco-romana che in quella ebraico-cristiana. Al-la destra del presidente: come alla destra del Signore stanno i san-ti e gli eletti; la destra, ossia il lato, secondo Eschilo, del braccioche brandisce la lancia; il lato maschile di Adamo, secondo i com-menti rabbinici che vedevano nel primo uomo un androgino; il la-to divino e diurno, secondo i teologi medievali; il lato dei buonipresagi, dell’abilità e del successo, secondo gli indovini romani. Ela sinistra? Si può notare come i suoi principali predicati simboli-

“Lotta continua”, 27 ottobre 1981, con il titolo Una proposta: non usare i termini “sinistra” e“destra” (il titolo qui dato è quello della ristampa in M. Cacciari et al., Il concetto di sinistra,Bompiani, Milano 1982, pp. 21-24). Comunicazione presentata a un convegno sul concettodi sinistra (Roma, ottobre 1981).

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ci si dispongano fondamentalmente in opposizione a quelli delladestra: la sinistra è il lato dei dannati e dell’inferno, di Satana edella notte; il lato femminile di Adamo; il lato dei cattivi presagi edegli insuccessi: sinister è passato a significare, in alcune lingue tracui la nostra, l’incidente o la sciagura. È quest’“assonanza”, que-sto aparentamiento che Fidel Castro, pochi giorni fa, ha fatto no-tare a Enrico Berlinguer.1 Ma non si tratta di assonanza, o di affi-nità etimologica; si tratta di correlazione simbolica – e il simboli-co è molto più ampio del verbale, e per sbarazzarsene non basta di-chiarare, come ha dichiarato Berlinguer, che la gente sa distin-guere.

Se infatti la destra siede alla destra del Presidente-Signore, nel-la piena luce del successo virile e legittimo, a sinistra si dispongonogli altri, la massa confusa e tenebrosa di coloro che dicono di no,di coloro che sono votati allo scacco o che nel loro essere testi-moniano, come una piaga, di una debolezza femminea. Nell’am-bito di una società patriarcale, non mi par dubbio che la sinistraabbia assunto simbolicamente il posto della manchevolezza, quan-do non del Male che eternamente si oppone al Bene, del Male cheeternamente dà l’assalto al cielo e ne viene ricacciato...

Si dirà che di questa collocazione simbolica non vi è traccia inalcuna delle definizioni che la sinistra politica ha dato o cercato dise stessa, comprese quelle che in questi giorni molti di noi stannocercando. Ma se nessuno, a quel che so, ha evocato la coppia sim-bolica a cui ho accennato, è la storia stessa della sinistra da un cen-tinaio d’anni che testimonia come essa ne abbia incarnato uno deitermini nel modo più intenso e radicale. Quando Marx circolavaancora sotto le bandiere rosse delle grandi sfilate, probabilmentepochi tra le centinaia di migliaia sapevano che oltre al Marx del

1. [L’episodio è così ricordato da Sandro Veronesi, L’arma del ridicolo per battere il ter-rorista, “Corriere della Sera”, 16 marzo 2005: “Viene in mente la lezione che Fidel Castro im-partì a Berlinguer in una sua remota visita a Cuba, riguardo all’handicap linguistico che inItalia, e solo in Italia, accompagnava le forze progressiste: in tutti gli altri paesi, spiegò il Lí-der Máximo, vige una netta distinzione tra il termine ‘sinistra’ intesa come la mano del dia-volo (sinistra, sinistre, sinister) e la parola che invece identifica la parte politica più vicina alpopolo (izquierda, gauche, left). In Italia no. È per questo, disse Castro a Berlinguer, che nonvincete le elezioni: perché il vostro nome fa paura. Cambiatelo, e vincerete”.]

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Capitale c’era il Marx che aveva parlato del “comunismo dell’in-vidia”2 – e che cos’è l’invidia se non l’attacco maligno, anzi l’at-tacco del Maligno al Bene che lo sovrasta al punto da accecarlo?Pochi lo sapevano, ma nelle loro lotte quotidiane e persino nei lo-ro più intimi pensieri essi erano nelle file del popolo di Satana o,se volete, dal lato della parte mancante.

Ciò che questo popolo si proponeva ci risulta chiaro: era la tra-mutazione in valori di quei disvalori che la simbolica della destracontinuamente espelle da sé. La debolezza espulsa dalla forza do-veva diventare solidarietà comune e giustizia; la fragilità femmini-le davanti alla virilità fallica doveva tramutarsi in delicatezza e fi-nezza; l’oscurità rispetto al giorno doveva acquistare profonditàcosì come, rispetto al centro, doveva prevalere l’eccentrico e al po-sto dell’uomo riuscito doveva comparire lo spostato, lo sbagliato,il nuovo protagonista di una inedita uguaglianza.

Che questo tentativo di rivincita nel simbolico si trovi oggi da-vanti a una situazione di grave scacco, risulta – mi pare evidente –a ciascuno di noi. Ed è appunto la situazione odierna che ce ne of-fre ripetute conferme. Nel campo politico in senso stretto, la po-larità sinistra-destra è andata perdendo via via la sua forza di ten-sione ed è ormai adibita in prevalenza a operazioni di localizza-zione spaziale, per così dire, di ripartizione e classificazione del-l’esistente. Di sinistra è perciò quel che viene fatto o avviene nel-l’ambito di uno spazio politico occupato da forze di sinistra. Ciòche prevale insomma è un’attività nomenclatoria essenzialmentetautologica: sinistra è sinistra è sinistra...

Il depotenziamento della polarità sinistra-destra avviene dun-que attraverso una sua prevalente spazializzazione e la perdita del-l’incisività temporale. La sinistra rimedia, lavora nel presente, nonè più in grado di operare in un orizzonte più ampio e lontano. Ela sua spazialità è immobile, definita, coartata. Un indizio di que-sta situazione è facilmente leggibile nel terrore della mobilità chedi fatto, a vari livelli, e con risultati indubbiamente notevoli, ha

2. [Cfr. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, 3, Proprietà privata e comuni-smo, a cura di N. Bobbio, Biblioteca di Repubblica, Roma 2006, p. 86.]

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E la passione unì macchina epaziente [1986]

ELVIO FACHINELLI

Un giovane e promettente studioso delcervello viene avvicinato da alcuni fun-zionari del Pentagono, che gli propon-

gono una missione segreta molto pericolosa. Nel corso delloscavo di una galleria sotterranea, un dispositivo posto a un chi-lometro e mezzo di profondità è diventato produttore di radia-zioni altamente lesive per i tessuti cerebrali. Si tratta di recupe-rarlo a ogni costo: ma per far ciò, occorre che l’avventuroso smi-natore, per così dire, lasci il cervello a casa. I funzionari pro-pongono perciò allo studioso, noto per la sua faustiana curio-sità e per il suo ardimento, un complesso intervento neurochi-rurgico; il suo cervello verrà isolato e mantenuto in vita in un li-quido adatto, mentre tutti i collegamenti con le radici nervosedel cranio svuotato saranno rimessi in funzione mediante com-plessi ricetrasmettitori miniaturizzati. In questo modo, dicono,lo studioso avrà subìto un semplice allungamento dei nervi, chegli consentirà di indagare a fondo la sua nuova e inaudita con-dizione, oltre che, naturalmente, di recuperare senza rischi ildispositivo malefico.

Allibito, riluttante, impaurito, alla fine il benemerito studiosoaccetta. L’intervento riesce perfettamente, è ovvio, e al risvegliol’operato nota alcune minuscole antenne che si rizzano dalle lorobasi di titanio saldate al cranio... Chiede subito di vedere il suocervello, disposto nello speciale laboratorio di mantenimento in

“Corriere della Sera”, 10 marzo 1986.

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vita. E infatti, tra lo scrosciare degli applausi e le congratulazioni,bioingegneri e chirurghi gli fanno vedere, sospeso in un liquidoche a dir la verità sembra birra, il suo cervello quasi tutto coper-to da piastrine con circuiti stampati, tubicini di plastica, elettrodiecc. “Be’, eccomi qui, seduto su uno sgabello, a contemplare il miocervello attraverso una lastra di vetro...”

Come si sarà capito, questo è l’inizio piuttosto incisivo, è il ca-so di dirlo, di un racconto di fantascienza. E l’immagine dell’uo-mo seduto perplesso davanti al proprio cervello è il punto nevral-gico del racconto e insieme la figura emblematica dell’intero libroin cui esso è contenuto.1 In questo curioso e divagante assem-blaggio di racconti, riflessioni, saggi, dialoghi pseudozenoniani, sipongono domande che da qualche anno, in modo più o meno espli-cito, anche altri libri si pongono: dov’è la mente? Cos’è la mente?E cos’è che nella mente dice io? E che rapporto hanno entrambicon il cervello?

Domande antiche, antiche quanto la filosofia, che però negli ul-timi anni sembrano aver assunto un’improvvisa urgenza per il com-parire, a fianco dell’uomo, di macchine – gli elaboratori elettroni-ci – che sono o saranno capaci di pensare come l’uomo, secondoalcuni, o che simulano e sempre simuleranno di pensare, secondo al-tri. In proposito, i pareri degli operatori sul campo, dei virtuosi del-la programmazione (i cosiddetti hacker), divergono fortemente. C’èchi considera del tutto irrilevante, per diagnosticare la presenza diuna mente, tener conto del substrato specifico da cui essa a un cer-to punto emerge (sia esso un tessuto biologico come il cervello o laparte solida di un computer): la mente è una prestazione o funzio-ne di un dato livello e si può riconoscere, anzi si deve riconoscerea porte chiuse, come nel famoso test di Turing.2 E c’è chi invece so-

1. D.R. Hofstadter, D.C. Dennett, L’io della mente. Fantasie e riflessioni sul sé e sull’ani-ma (1981), a cura di G. Trautteur, Adelphi, Milano 1985. [Il racconto, Dove sono? (1978), diDaniel C. Dennett, è a pp. 213-225.]

2. [Criterio introdotto da Alan Turing nell’articolo Computing Machinery and Intelligence(1950) per determinare se una macchina sia in grado di pensare (A.M. Turing, “Macchinecalcolatrici e intelligenza”, in Intelligenza meccanica, 1992, a cura di G. Lolli, Bollati Borin-ghieri, Torino 1994, pp. 121-157). Cfr. D.R. Hofstadter, Il test di Turing. Una conversazioneal caffè (1981), in D.R. Hofstadter, D.C. Dennett, L’io della mente, cit., pp. 76-100.]

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stiene che l’elaborazione di simboli formali non ha di per sé alcunsenso: l’intenzionalità attribuita o attribuibile in futuro alle mac-chine programmate risiede in ogni caso nella mente dei program-matori.

Comunque sia, nessuno pone in dubbio l’obiettivo ultimo diquesto tipo di ricerche. Tra le dichiarazioni di sobrietà scienti-fica e le cavalcate ariostesche degli altri, spunta in questi anni larealizzazione dell’antico e segreto mito dell’homunculus, sia es-so in tutto e per tutto un nostro fratello gemello, copia, replicadella nostra mente o soltanto un suo raffinatissimo e subdoloimitatore. L’influsso di questi homunculi sulla nostra vita quoti-diana è già notevole, anche se a volte si ha l’impressione che es-so sia più magnificato ed esaltato che realmente sperimentato.Forse è più significativa la prospettiva che essi contribuiscono acreare.

In che cosa dunque è toccata la prospettiva di uno psicanalistadall’emergere dei nuovi “sistemi esperti”? A questo punto sem-bra necessario parlare di Eliza e di Parry, vale a dire dei due pro-grammi ormai storici, ormai famosi, che simulano, il primo i di-scorsi di uno psicoterapeuta (ed è opera di Joseph Weizenbaum)e l’altro (di Kenneth M. Kolby) quelli di un paranoico.

Nei due casi, si tratta di imitazioni sorprendenti, ma piuttostoapprossimative, di ciò che possono dire abitualmente uno psico-terapeuta, di scuola cosiddetta non direttiva, e un paziente para-noico (e non è detto che varie volte psicoterapeuta e paziente rea-li non somiglino a queste macchine...). Qui basti dire che Eliza,perlomeno nelle sue versioni iniziali, lavora sulla base di un “ri-specchiamento” di ciò che dice la persona che sta conversandocon lui (o con lei?). Si comporta insomma da analista-specchio,secondo l’antica formulazione di Freud, e per far questo si giovadi alcune sostituzioni grammaticali, alle quali aggiunge qualcheespressione standard pescata in un elenco a sua disposizione. Peresempio, se il paziente (umano) dice: “Ho dei problemi con la miaragazza”, Eliza ribatte un po’ sorniona: “Capisco, ha dei proble-mi con la sua ragazza”, oppure: “Perché mi dice che ha dei pro-

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Pecorelle smarrite nell’ora direligione [1986]

ELVIO FACHINELLI

Si discute sull’insegnamento della religio-ne nelle scuole.1 Giorni fa, degli adole-scenti interpellati dichiaravano di vedere

nell’ora di religione un’occasione di “dibattito” e “partecipa-zione”. Il problema si presenta in termini molto diversi ai li-velli inferiori. Faccio due esempi minimi, dei quali sono venu-to a conoscenza recentemente. In una scuola materna della pe-riferia di Milano, i bambini “che rifiutano la religione” (così siesprimono abitualmente le maestre, ed è già un fatto significa-tivo) sono tre: (il figlio di) un musulmano, un testimone di Geo-va, un comunista. Le maestre non sanno cosa inventare per lo-ro nei corridoi, e per ora, come si dice, soprassiedono. In unaseconda elementare alle porte di Milano, l’unico rifiutante è ilfiglio di una madre nubile. Qui le cose sono già organizzate,tutto è pronto per il via, ma al momento dell’ingresso dell’in-segnante di religione il bambino si mette a piangere e non vuo-le uscire. Rifiuto meditato dell’ateismo materno o rifiuto di la-sciare i suoi compagni?

Non intendo usare parole grosse, del resto già usate, come ghet-

“Corriere della Sera”, 17 novembre 1986.1. [Nel dicembre 1985 l’allora ministro della Pubblica istruzione, la democristiana Fran-

ca Falcucci, aveva firmato con il presidente della CEI, cardinale Ugo Poletti, un’intesa per re-golamentare l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole italiane. L’intesa prevedeva,per chi non se ne avvaleva, l’istituzione di attività “formative” alternative. Ma all’apertura delnuovo anno scolastico la palese impraticabilità dell’insegnamento alternativo suscitò un’on-data di agitazioni da parte di docenti, studenti e genitori, tanto che il Parlamento dovette tor-nare a interessarsi della vicenda.]

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A proposito di una legge impossibile[1988-89]

ELVIO FACHINELLI

I drogati e BeccariaSiamo dunque al punto di svolta, o almeno così sembra: dopo losquillo di tromba di Craxi, eccoci alla proposta di legge del go-verno, secondo la quale, stando alle ultime notizie, qualunque con-sumatore di droga si troverà esposto a un ampio ventaglio di san-zioni, decise a discrezione del giudice;1 il drogato si trova dunquedavanti alla maestà della legge. Uso deliberatamente il termine on-nicomprensivo di drogato, aborrito dagli esperti, ma potrei usareanche i termini utente, o fruitore, dato che il disegno di legge coin-volge in diversa misura chiunque faccia uso di droghe, e dunquestabilisce un mondo variegato, disposto in strati o gironi, ma in findei conti solidamente unitario.

È una situazione che ha dato luogo nelle scorse settimane a undibattito su posizioni contrapposte – illecito sì, illecito no – che èrisultato in definitiva statico e ripetitivo. In questo, nulla è davve-ro cambiato negli ultimi dieci-quindici anni, se non in peggio, e ilpeggio è l’avanzare del disastro, di cui fa parte il fatto che d’ora in

“La Repubblica”, 9 dicembre 1988 (parte prima) e “il manifesto”, 24 gennaio 1989 (parte se-conda), con titolo generale redazionale.

1. [Disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri il dicembre 1988, poi conver-tito nella legge sull’uso, la produzione e lo spaccio di sostanze stupefacenti del 1990, che se-gnò una svolta autoritaria nella politica repressiva dello stato (la cosiddetta legge Jervolino-Vassalli, dai nomi della democristiana Rosa Russo Jervolino e del socialista Giuliano Vassal-li, all’epoca rispettivamente ministro degli Affari sociali e di Grazia e giustizia). Tra i primifirmatari, il socialista Bettino Craxi, secondo cui era “insano e riprovevole consumare dro-ga” e bisognava “introdurre il principio della punizione del tossicodipendente”.]

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2. [G. Flesca, V. Riva, Polvere. Una storia di cocaina, Sperling & Kupfer, Milano 1988.]3. [Vincenzo Muccioli, fondatore della Comunità di San Patrignano per il recupero dei

tossicodipendenti, noto per i metodi coercitivi (catene, percosse ecc.) utilizzati per trattene-re gli ospiti durante le crisi di astinenza.]

poi il rapporto prevalente della società con i drogati sarà di ordi-ne giudiziario. E a questo proposito, è significativo che nel corsodel dibattito ci si sia interrogati sull’uso della legge nei confrontidei drogati, diventati ombre senza voce alle quali si tratta di ap-plicare o non applicare determinati dispositivi punitivi o riabilita-tivi. Non ci si è interrogati sul rapporto che i drogati hanno con lalegge. Ora, è proprio questo rapporto dei soggetti coinvolti il pun-to nodale della questione; non averlo considerato è il segno certodell’impasse a cui si troverà di fronte, a mio avviso, il disegno dilegge ora proposto.

Consideriamo per primo il rapporto di ogni drogato con la pro-pria legge interna, con la propria istanza di controllo, quale chesia il nome che vogliamo darle. Risulta chiaro che il rapporto traquesta istanza e ciò che egli si aspetta dalla droga (piacere, po-tenza, intelligenza o semplicemente ripristino dello stato anterio-re) è variabile, non può essere ricondotto a una proporzione defi-nita una volta per tutte.

Prendiamo il caso del giornalista Giancesare Flesca, che ha rac-contato in un libro recente la sua avventura con la cocaina.2 Dopoessere arrivato a sniffarne ben due grammi in una volta sola, quin-di una chiara overdose, Flesca ci dice di essere riuscito a liberarsidella droga senza alcuna cura specificamente disintossicante, sen-za alcun ricovero in una comunità terapeutica alla Braccio di Fer-ro Muccioli,3 “per una sorta di miracolosa ancorché laica meta-noia”, secondo il commento di Enzo Forcella su questo giornale.Forse non è il caso di evocare una eccezionale metanoia. Basta am-mettere che si è ricostituito in lui, internamente, un processo dicontrollo che era stato messo da parte. E si tratta chiaramente diun consumatore massiccio, ingordo – non di un consumatore oc-casionale, saltuario, un consumatore del sabato sera. Con la suaesperienza, Flesca mette dunque in crisi proprio ciò che [si] vuoledimostrare, vale a dire l’ineluttabilità del destino di drogato.

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Nelle situazioni di questo tipo e in quelle più lievi, che sono poila grande maggioranza sommersa dei consumatori di droghe, checosa produrranno le nuove disposizioni previste? Tralasciamonepure l’aspetto a volte pedantesco, o grottesco – dall’obbligo di fir-mare ogni giorno un registro di polizia al “vincolo di non allonta-narsi dal luogo di residenza”, come dice pudicamente il ministroJervolino, fino alla sospensione dall’albo professionale meditatada qualche giudice. Sono misure che non avranno alcun effetto didissuasione globale; si presteranno piuttosto a qualche clamorosa“scoperta” di casi singoli, a qualche “denuncia” di grande effet-to, secondo lo stile spettacolare ora vigente e secondo la fantasia“discrezionale” di giudici e inquirenti... L’unico effetto globale,seppur non appariscente, sarà forse un incremento della tenden-za alla trasgressione, all’avventura della trasgressione, già così evi-dente nelle partite di guardie e ladri che, nelle periferie urbane onei parchi pubblici ormai deserti, da tempo si giocano tra adole-scenti e forze di polizia. Per convincersene basta, a Milano, ascol-tare i discorsi che si fanno a tarda sera nelle ultime stazioni dellametropolitana.

Diverso il caso dei drogati cronici, e ben più grave. Qui l’istanzadi controllo interno sembra spesso sostituita da un procedimen-to di tipo punitivo primordiale, di cui fa parte integrante la de-gradazione personale, spinta fino al vero e proprio suicidio. Quic’è un nesso stretto tra il consumo di droga e la sua punizione in-terna; in definitiva, tra il “farsi” di droga e il “disfarsi” di sé in ungenerale comportamento autodistruttivo. Ora, il progetto di mi-sure punitive esterne rischia di aggiungersi a questa condanna in-terna, rischia di entrare in collusione, in nascosta alleanza con ilferoce sistema di punizione autoctono. Anziché dissuadere dalladroga, le misure preventivate rischiano di rafforzare il comporta-mento suicida del drogato. Si crea un circolo chiuso, un gironeinaccessibile, rispetto al quale le proposte di intervento terapeu-tico, obbligato o no, risulteranno più vane di prima.

Mi sono spesso chiesto, in questi giorni, perché tra i politici, inItalia, nessuno legga o dimostri di aver letto il testo straordinariodi un autore italiano, che su tutto questo ha scritto cose indimen-

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“Leggere”, 12, giugno 1989, pp. 19-21.1. A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di G. Pampaloni, De Agostini, Novara 1988, p. 32.2. Ivi, p. 27.

Don Abbondio, il vittorioso [1989]

ELVIO FACHINELLI

Nel romanzo di Alessandro Manzoni, lavicenda di don Abbondio è scandita dadue incontri. Il primo, scena inaugurale

di tutto l’intreccio, pone in primo piano le minacce dei bravi didon Rodrigo e colloca giustamente don Abbondio nella posizio-ne del “vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia dimolti vasi di ferro”.1 Il suo sistema di quieto vivere, la sua “neu-tralità disarmata” di fronte a qualsiasi conflitto, sono brusca-mente messi in crisi. Davanti al divieto che gli viene fatto, l’uni-ca reazione immediata si esprime nella frase: “Disposto... dispo-sto sempre all’ubbidienza”.2 Verranno in seguito i sotterfugi concui il povero prete tenta di salvare la propria pelle.

Il secondo incontro, estremamente significativo, è quello con ilcardinale Federigo, in cui questi gli chiede ragione del suo com-portamento nei confronti dei due promessi sposi. Ora però la si-tuazione è completamente diversa. Di fronte al parlare alto del car-dinale, don Abbondio si rifugia in un borbottio continuo, inter-rotto da qualche breve autodifesa, che risulta in netta antitesi conla “predica” del suo superiore. Egli mormora le consuete spiega-zioni del suo comportamento, nelle quali spiccano i “comanda-menti terribili” ricevuti, il suo trovarsi solo davanti alle minaccedi un “gran signore”, mentre il cardinale “quelle facce” non le ha

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viste... Sono giustificazioni che il lettore conosce già, che gli sonostate anticipate nei soliloqui di don Abbondio, ma questa volta av-vertiamo in esse una sorta di tranquillità di fondo, di sicurezza qua-si, che le trascende. Infatti, tra le parole che egli si lascia sfuggire,spicca un argomento quasi filosofico: “Torno a dire, monsignore,che avrò torto io... Il coraggio, uno non se lo può dare”.3

Qui la pavidità del curato trova una spiegazione finale, defini-tiva, che gli consente di percepire come estranei, salvo un brevemomento di commozione, i discorsi del cardinale. Il quale, ed èopportuno rilevarlo, non obietta nulla a questo supposto limitenaturale proclamato da don Abbondio, ma tenta di aggirarlo, dirimediarlo, richiamandosi ai “doveri del ministero”, che vanno ol-tre il pericolo di morte, al coraggio che Cristo fornisce infallibil-mente, quando glielo si richiede, e all’“amore intrepido” per il pro-prio gregge, che doveva nascere nel prete da tanti anni di vita pa-storale.

Non si può sfuggire all’impressione che il coraggio, per il car-dinale, derivi in sostanza dalla fiducia in Dio e dalla richiesta a luirivolta – dunque una richiesta a un ente esterno rispetto alla crea-tura umana, che viene così confermata nella sua pochezza. DonAbbondio non è abbastanza credente per inserire le considera-zioni etiche del cardinale nel proprio comportamento abituale edè abbastanza ateo per avvertirle come parole di un eroico “sant’uo-mo”, lontanissime dalla sua esperienza concreta, sorretta per co-sì dire da un solido principio di assenza: io non ho coraggio, nonc’è niente da fare, sono altri ad averlo. Il Dio di cui parla Federi-go gli è ignoto; anzi, è un Dio “seccatore”, secondo l’efficace com-mento di Geno Pampaloni.

In questo senso, don Abbondio risulta alla fine vittorioso ri-spetto al cardinale. Infatti, al termine del romanzo, lo vediamo ri-comparire tale e quale, liberato dai suoi timori nei confronti di donRodrigo soltanto perché ne ha appreso la morte per peste. “Ah èmorto dunque! e proprio se n’è andato! Vedete, figliuoli, se laProvvidenza arriva alla fine certa gente [...]. È stata un gran fla-

3. Ivi, p. 503 (corsivo mio).

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4. Ivi, p. 746 [corsivo dell’autore].5. [“...un’invariante” nel testo.]6. [A. Manzoni, I promessi sposi – Storia della colonna infame, a cura di L. Caretti, Ei-

naudi, Torino 1971, p. 908.]

gello questa peste; ma è anche stata una scopa”.4 Anche il “granflagello” della peste tende a ridursi a un’evenienza personale, a unaccidente che libera la strada dalle pietre che la ostruivano – e conciò si dimostra come don Abbondio sia sostanzialmente invariatorispetto all’inizio, un invariante5 della situazione generale.

Una sceltaetica, autonoma, giocata all’interno delle diverse com-ponenti della personalità, per lui non esiste; esiste l’accettazionedogmatica di una presunta carenza naturale del suo essere, che ilcardinale non riesce a scalfire. Quest’assenza di coraggio, che sem-bra una pacifica constatazione di partenza, è in effetti la conclu-sione di un processo, in cui la cancellazione del coraggio serve aeliminare ogni alternativa di condotta, a rendere il più possibiletranquillo e senza dubbi il corso della vita – ma all’ombra dellaviolenza dei potenti, che in questo modo diventa padrona del cam-po, senza più rivali. E così che don Abbondio non ha più il pro-blema di che cosa fare della propria paura, più che legittima, e nor-male in ogni uomo: ha soltanto da obbedirle in ogni circostanza(“Disposto... disposto sempre all’obbedienza”).

Si può pensare che qui si palesi quella curvatura pessimisticadel pensiero di Manzoni, che trova la sua espressione forse piùcompiuta nella Storia della colonna infame: “Ci par di vedere lanatura umana spinta invincibilmente al male da cagioni indipen-denti dal suo arbitrio, e come legata in un sogno perverso e af-fannoso, da cui non ha mezzo di riscotersi, di cui non può nem-meno accorgersi. [...] Rimane l’orrore, e scompare la colpa; e, cer-cando un colpevole contro cui sdegnarsi a ragione, il pensiero sitrova con raccapriccio condotto a esitare tra due bestemmie, cheson due deliri: negar la Provvidenza, o accusarla”.6 Forse questoè lo sfondo, il cuore nero dell’universo umano che ha tormentatoManzoni e ha consentito un’interpretazione giansenistica del suocattolicesimo, probabilmente inesatta su uno stretto piano specu-lativo.

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Co-identità

PIER ALDO ROVATTI

La freccia ferma (L’erba voglio, Milano1979) era una singolare riflessione a parti-re da un caso: un modo bloccato di vivere

la scansione temporale. Ma il caso del tempo vissuto ossessiva-mente – notava Fachinelli – ha una verità implicita che riguardal’esistenza individuale di ciascuno, verità retrodatata al momen-to di una difficile scelta infantile tra appartenenza e distacco dal-l’altro. L’immagine evocata era quella di una stretta passerella incui, come un equilibrista, ciascuno deve cercare di mantenersi.

Il tempo lineare e progressivo, il nostro “tempo sociale”, can-cella il ritmo più profondo che scandisce l’equilibrio instabile acui continuamente dobbiamo provvedere. Così il quadro curiosodisegnato da Fachinelli andava dilatandosi nel corso della narra-zione, e dal caso di un ossessivo giungeva a considerazioni pocorassicuranti sulla nostra scena storico-sociale, ormai svuotata diogni relais simbolico o rituale in grado di far circolare il dilemmaindividuale attraverso l’unico medium – la scena sociale, appunto –che possa attenuarne l’irrigidimento e il blocco.

Questa dilatazione non sembrava comunque la cifra più ge-nuina della ricerca, la quale visibilmente era percorsa da una ten-sione verso qualcos’altro. Come osservatore non specialista di que-

Pubblicato originariamente in “alfabeta”, 46, marzo 1983. Successivamente ho valorizzato itemi di La mente estatica (Adelphi, Milano 1989) nel capitolo 7 dell’Esercizio del silenzio (Raf-faello Cortina, Milano 1992) e nell’intervento Un esercizio di pensiero del 2009 a Trento, inoccasione del convegno dedicato a Fachinelli (cfr. Elvio Fachinelli e la domanda della Sfinge,a cura di N. Pirillo, Liguori, Napoli 2011, pp. 169-173).

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stioni psicanalitiche, ero rimasto colpito dal tentativo di Fachinellidi costruire una “narrazione teorica”, estranea ai modelli saggisti-ci correnti e anche ai moduli psicanalitici che pure si servono dasempre del racconto dei casi.

Inseguendo un tema che già di per sé sembrava domandare untrattamento non codificato in una forma comune di esposizione,mi pareva che Fachinelli mirasse a un’operazione ambiziosa quan-to interessante: stringere in un unico impasto espositivo registridiversi, saggistico, autobiografico, narrativo (una narrazione concolpi di scena e ritrovamento dell’incastro sulla base di indizi noncongruenti), ma senza rinunciare al risultato conoscitivo.

Questo tipo di narrazione non voleva funzionare come un ma-teriale da consegnare, alla fine, alla riflessione interpretante: misembrava che, all’inverso, l’intenzione fosse, pur con le molte edovute cautele, quella di rifondere l’interpretazione nella narra-zione, e di conseguenza quella di conservare la molteplicità deipiani e degli spunti, anche abbozzati o solo suggeriti; e inoltre dinon collocarsi, come autore, fuori della scena ma, nella misura delpossibile, di venirne a costituire un elemento interno.

Claustrofilia è uscito a breve distanza di anni, come una conti-nuazione (Adelphi, Milano 1983). Mantiene questo carattere, no-nostante siano alquanto cambiati i temi e ora l’ambizione scienti-fica punti a un bersaglio più grande (correggere Freud integran-dolo su un punto non secondario). La questione del tempo – quii tempi dell’analisi, quello spezzettato della singola seduta (chetende ad abbreviarsi) e quello lento, quasi immobile dell’interotrattamento (che tende ad allungarsi indefinitamente) – si trasfor-ma più che espandersi. La scena si sposta in un prima che prece-de la zona in cui la regressione freudiana poneva i suoi limiti: sisupera a ritroso il confine della nascita e si entra in un’area ipote-tica, seppure già indagata da ricerche sullo psichismo prenatale(Fachinelli si rifà a quelle dell’argentino Raskovskij e dell’italianoMancia). Contemporaneamente è la cosiddetta “scena primaria”a fornire il riferimento: il bambino che osserva da fuori qualcosae qualcuno (la madre) che però vive anche pienamente da dentro.Ma una terza scena è sotto gli occhi, e certamente è la più prossi-

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ma: il colloquio analitico, appunto quell’ora scarsa che tendereb-be a diventare senza tempo, non certo e non solo per l’astuzia com-merciale di un’istituzione. Piuttosto c’è da chiedersi: su cosa cosìsaldamente si mantiene questa capacità imprenditoriale? Dire“transfert” è troppo poco, per Fachinelli.

Un ulteriore spazio si intravvede, a tratti, accanto a queste sce-ne. Più defilata, quasi a margine, ma ben presente, sta la scena pri-vata dello psicanalista Fachinelli: pensieri, dubbi, lapsus, interes-si e preoccupazioni personali che affiorano e talora diventano pre-dominanti anche perché si intrecciano con il resto, dalla lettera al-l’editore tedesco a proposito del titolo da dare alla traduzione del-la Freccia ferma (non senza un poco di esibizionismo intellettua-le), alla questione del trasloco dello studio (preoccupazione benreale oltre i risvolti simbolici).

Anche qui, dunque, e ancora più marcatamente, il lavoro delteorico è la messinscena di una storia a più fili, dove accadrà che,per tentare di sbrogliarli secondo una trama predisposta, i fili nonpotranno essere sciolti e anzi gli interrogativi saranno stati molti-plicati. Già l’intero titolo si presenta come un intrico: Claustrofi-lia. Saggio sull’orologio telepatico in psicanalisi. Cosa lega la clau-strofilia con l’orologio telepatico? E, posto che si venga in chiarosulla claustrofilia (tendenza al chiuso, a rinchiudersi, come leg-giamo a p. 63), cosa è mai questo “orologio telepatico”? La sor-presa e il rebus da decifrare indicano al lettore che genere di sto-ria si accinge a seguire.

E la sorpresa di Fachinelli di fronte all’intervistatoredell’“Espresso”, che da buon giornalista coglie al volo la “telepa-tia” per fare il pezzo, è, come dire, “dovuta” più che autentica (cfr.Viva la telepatia, “L’Espresso”, 30 gennaio 1983). Di questi feno-meni paranormali Freud si interessava in privato, anche se poi inpubblico era molto cauto: la maggior parte degli psicanalisti – an-nota Fachinelli – “ha ereditato la cautela e perso l’interesse”. Sulquale interesse, abbastanza marginale nel libro (ed è il suo mododi spiccare), in ogni caso tutti i registri della storia vengono chia-mati a misurarsi: da quello teorico, perché l’espressione “orologiotelepatico” pretende a un preciso contenuto di pensiero, a quello

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1. E. Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano 1989.

Il viaggio di Edipo alla radicedell’umano

LEA MELANDRI

Dopo aver percorso e riattraversato peranni gli scritti di Elvio Fachinelli, avvi-cinandomi fino al ricalco, per poi sco-

starmi sulla base delle acquisizioni nuove che mi venivano dalmovimento delle donne, ho deciso di rileggerli facendo il viag-gio all’indietro: dalla “solitudine”, dal “silenzio”, dall’estremararefazione e concentrazione da cui nasce La mente estatica,1 alvortice di iniziative, incontri, progetti collettivi, che vedono Fa-chinelli impegnato socialmente e politicamente, mosso da “cu-riosità spinta” per i “nuovi paesaggi” aperti dalla dissidenza gio-vanile, nel periodo che va dal 1965 fino oltre la metà degli annisettanta. Ho provato cioè ad applicare alla sequenza dei suoiscritti quel “capovolgimento” che egli descrive nell’ultimo librocome l’“ascolto dei rumori dal punto di vista del silenzio” o il“vedere le stelle dal punto di vista dello spazio vuoto”, dall’o-rizzonte di mare guardato “a occhi socchiusi”, con cui si apronole pagine iniziali, Sulla spiaggia, alle piazze affollate del ’68, do-ve molti come me l’hanno conosciuto.

Si fanno in questo modo rilevanti le traiettorie di una ricercache è in ogni suo passaggio scoperta e ritrovamento. Più chiara ap-pare, innanzitutto, l’unitarietà complessiva di un itinerario che ècontemporaneamente psicanalitico, culturale, politico. Si tratta diuna compattezza che non è data a priori, ma che si costruisce stra-da facendo e a cui Elvio stesso fornisce una chiave di lettura par-

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lando dei tre articoli usciti in tempi diversi sulla rivista “L’erba vo-glio” e poi raccolti in un unico saggio, Il paradosso della ripetizio-ne, pubblicato nel libro Il bambino dalle uova d’oro.2

“Non si tratta di capitoli di uno scritto, disposti in bell’ordineuno dopo l’altro”, ma di “formulazioni reiterate dello stesso te-ma” o di una “ripresa”, nel senso da lui dato a questo termine nelsaggio medesimo: ritorno su qualcosa che già c’è, ma come modi-ficazione e arricchimento. E aggiunge, per ulteriore sottolineatu-ra: “Salvo riprendere il tutto in un’altra occasione o contesto”.

Questo modo di procedere del pensiero e della scrittura nonsarebbe diverso da quello con cui si snoda la storia del singolo in-dividuo: una organizzazione le cui regole si definiscono precoce-mente, sulla base di quei rapporti con gli altri che l’essere umanointrattiene nel periodo della sua maggiore dipendenza, e che ten-de a riproporsi “per una sorta di nostalgia che paradossalmentespinge all’agire: sia nel senso di una replica cieca, sia nel senso diun tentativo di uscirne”. Ogni momento, nella costruzione del-l’individualità umana, “costituisce una scansione dell’organizza-zione precedente, una sua riformulazione”, o come conferma delpassato o come l’aprirsi di un’alternativa, di un cambiamento.

L’uso di un concetto e di un’espressione analoga, per parlaredella vita e della scrittura, indica la profonda aderenza di tutta laricerca di Fachinelli alla storia personale, intesa non come auto-biografia – di cui era estremamente parco –, ma come vicenda cheè al medesimo tempo “individuale”, particolare per ognuno, e “as-solutamente generale”, dal momento che “ogni piccolo d’uomo –come osservava Freud – è costretto a costruire in prima personail cammino essenziale della specie”. Come la vita, perciò, anche ilibri si formano, non secondo uno sviluppo lineare e progressivo,ma “per strati successivi”, in modo “asistematico”, attraverso “scar-ti” e “fratture”.

Di conseguenza, è facile trovare rimandi impensabili, temi ab-bozzati in un punto e ampliati altrove, parole chiave che si ina-bissano e ricompaiono inaspettatamente. I temi della “felicità” e

2. Id., Il bambino dalle uova d’oro, Feltrinelli, Milano 1974.

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del “desiderio”, per esempio, si annunciano già nelle prime pagi-ne di Il bambino dalle uova d’oro, nell’accenno a Freud, “vecchioindagatore della felicità dell’uomo”, diventano centrali nella let-tura della “dissidenza giovanile” del ’68, e saranno poi ripresi nellibro La mente estatica, per essere sospinti fino a quell’“area difrontiera”, a quello “strato percettivo, emozionale, cognitivo”, chesi dà come “gioia massima”, poi rimossa, ai primordi della vita,nel rapporto di “parziale indistinzione” tra il bambino e la madre.

L’altro elemento, su cui si costruisce l’unitarietà della ricerca diFachinelli, è la pratica analitica, che viene accostata e scostata par-tendo dall’idea che il lavoro dell’analisi dovrebbe essere “senza fis-sa dimora”, capace di uscire dalla “segregazione di un rapportoduale” – che resta comunque un ambito privilegiato –, per porta-re l’interrogativo “oltre”, in altri luoghi, altre situazioni. “Oltre”furono nel ’68 i “nuovi paesaggi” aperti dalla rivolta giovanile, acui Elvio diede un geniale contributo di analisi e di azione politi-ca, ma da cui trasse a sua volta una lezione importante, tanto da ve-derne modificato il luogo di partenza: le sue letture di Freud e ilsuo giudizio sull’istituzione psicanalitica. Ma “oltre”, negli anni ot-tanta, significò anche la propria esperienza, l’esplorazione corag-giosa di quelle estreme regioni della formazione personale per laquale si può solo usare sé come “unica bussola”, strumento “im-perfetto e fragile”, ma che consente un uso “paziente e senza fine”.

Inutile dire che, in questa aderenza alla storia personale e allapratica analitica, sia pure attraversata con grande mobilità, pren-de forma anche il legame inscindibile tra pratica e teoria: anche sela pratica assume forme diverse – rapporto a due, esperienze col-lettive o “percezione di sé” nella solitudine –, l’elaborazione teo-rica vi si rapporta con quella circolarità che gli farà dire, in una“nota redazionale” su “L’erba voglio”:3 “Le nostre idee, che ci au-gureremmo di sentire fischiettare la mattina dal garzone del for-naio, propongono comportamenti, modi di agire, anche insoliti, equesti movimenti reali, di tutto il nostro corpo, a loro volta criti-cano seriamente le nostre idee”.

3. “L’erba voglio”, 20, marzo 1975.

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Note a “Cultura e necrofagia”

PAULO BARONE

Il breve scritto Cultura e necrofagia confer-ma, a più di trent’anni di distanza, la parti-colare sensibilità di Fachinelli nel cogliere

in anticipo alcuni nodi critici che adesso sono all’ordine del gior-no. Appare subito chiaro, infatti, che il riferimento all’industriaculturale e ai suoi contraccolpi sulla produzione intellettuale– che sono l’oggetto dell’articolo – non vada inteso né in sensolato, come una generica metafora dei rischi che la modernità com-porta, né in senso restrittivo, come (solo) uno dei possibili casi incui il capitale fa valere i principî del profitto e dell’aumento del-la produzione che gli sono propri, ma viceversa vada recepito insenso specifico, come quel modo singolare e inusitato, cioè, incui è mutato e si è trasformato il nostro rapporto con il tempo, ilpassato, la tradizione, e via via con il sapere, le parole e il lorouso, con le procedure di soggettivazione. Cultura e necrofagia ri-sulta essere, insomma, un piccolo, fulmineo ritratto della situa-zione contemporanea, in tutta la sua complessa ambiguità.

La sequenza concettuale proposta da Fachinelli per darne con-to è qui scabra, ridotta all’osso, mostrata quasi al rallentatore. Ilrapporto che lega una comunità con la sua cultura e con le opereintellettuali è solo apparentemente pacifico e lineare. In esso ri-suona ed è presente, al contrario, qualcosa che lo collega stretta-mente, benché larvatamente, al culto che il mondo arcaico instauracon i propri “antenati”. Anche questo rapporto cultuale è tutt’al-tro che scontato. In una prima fase occorre fronteggiare la morte,anzi il morto “immediato”, il cadavere, e trattarlo in modo tale

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che, dopo complesse vicissitudini, possa accedere al regno del-l’aldilà, in quella dimensione dei “morti viventi” o degli “antena-ti” propriamente detti. Soltanto in questa seconda fase – fruttoevidente di un delicato lavoro luttuoso – questi ultimi si fanno de-positari di quel patrimonio mitico e rituale che avrà funzione nor-mativa nei confronti del gruppo dei viventi. L’incapacità di rias-sorbire l’accumularsi dell’esperienza preistorica all’interno deltempo ciclico marca anche la fine del mondo arcaico e della suaorganizzazione di fondo. Con l’instaurarsi del tempo storico-li-neare, gli “antenati”, infine, muoiono e al loro posto subentra l’au-torità delle opere culturali. Per quanto, tuttavia, lo scenario mutie grazie a tale sostituzione si presenti, in tutta evidenza, meno coer-citivo nella guida e più interlocutorio nell’orientamento, ovveropiù dinamico e fluido negli scambi, elettrizzato da un’intensifica-zione del lavoro del lutto, chiamato a occuparsi ora anche dellascomparsa degli antenati, il nuovo assetto resta in sostanziale con-tinuità con il precedente. Rimane cioè immutata la configurazio-ne di fondo: le opere culturali devono avere tempo e agio di sta-bilizzarsi, di formare una tradizione, un patrimonio storico di idee,in modo tale da esercitare ancora il ruolo di “morti-viventi” e man-tenere così in vigore la correlazione polare tra questi ultimi e la co-munità dei viventi. Si tratta della tesi che verrà approfondita in Lafreccia ferma.1

Al di là delle loro differenze, società arcaica e società moder-na, tempo circolare e tempo storico-lineare sono intimamente ap-parentati. Il passaggio dall’uno all’altro non fa che evidenziare – eforse addirittura animare – una “struttura diadica” comune: “Nelmondo arcaico, in apparenza così solido e concluso, è presente lospirito di Prometeo [...]. Reciprocamente, oggi Prometeo vede sor-gere contro di sé l’anti-Prometeo. Il tempo della freccia scoccatarisulta interrotto e deviato da tentativi, forse sempre più numero-si, di ridar corso al tempo arcaico”.2 La costitutiva solidarietà e l’a-naloga conformazione delle due sfere danno conto dell’assoluta

1. E. Fachinelli, La freccia ferma (1979), Adelphi, Milano 1992.2. Ivi, pp. 183-184.

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particolarità dell’intervento della “produzione industriale”. Se-condo Fachinelli, infatti, quest’ultima agirebbe sia sulla “primaparte del lavoro del lutto” (“l’opera come prodotto immediato,come cadavere, di immediata rilevazione oggettuale e statistica”),intensificandola, sia sulla seconda (quella volta all’istituzione di unpatrimonio storico-culturale duraturo), assottigliandola, con il ri-sultato di alterare “lo scambio con i morti-viventi”, ridotto a un“consumo accelerato di morti immediati”. La “produzione indu-striale”, in altri termini, non interverrebbe isolatamente su questoo quel segmento del processo, danneggiandolo o escludendolo,ma coinvolgerebbe il fulcro stesso della struttura diadica, quellazona mediale dove essa si snoda e si articola – il lavoro luttuoso inquanto tale –, mettendo sotto pressione le sue consuete procedu-re, dando fondo a tutte le sue possibili prestazioni, senza ostaco-larne nessuna, sino a rendere indistinguibili le due fasi, i due grup-pi, le due temporalità, le due società, ovvero sino a sfigurare il con-testo nella sua interezza.

Non a caso, si potrebbe sottolineare, l’espressione che Fachi-nelli conia per definire la strana novità cui l’accelerazione indu-striale dà luogo – situazione necrofagica o necroforica – benchéesplicita e cruda, rimane circostanziata e quasi asettica, una “si-tuazione” appunto. Essa non pronostica l’avvio di un terzo tipo disocietà, distinto dai due precedenti, né allude a una qualche sor-ta di aberrazione incidentale dei dispositivi che regolerebbero cor-rettamente gli altri due (adesso momentaneamente in scacco), per-ché si tratterebbe (solo) di una deformazione della logica com-plessiva dell’impianto, una deformazione da ipersollecitazione diogni sua fibra nervosa, ormai arcaica e moderna, circolare e li-neare, morta e viva allo stesso tempo e dunque, a ben vedere, nonesattamente né l’una né l’altra. Se è vero che nell’apparentamen-to di arcaico e moderno operato da Fachinelli possiamo scorgereuna idea di origine che – sulla scia di Goethe, Benjamin, Foucault,Schürmann – si distingue dalla pura genesi e insiste invece nel mez-zo del divenire, tra passato e futuro, coordinando in generale tut-te le opposizioni ben note (disattivandone o attenuandone il dua-lismo), la “situazione necrofagica o necroforica”, operando preci-

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Finale al femminile

SERGIO BENVENUTO

1. Molti oggi considerano il pensiero di Elvio Fachinelli inattua-le, troppo legato a una temperie intellettuale, quella degli anni ses-santa e settanta, ora non più “presente”. In effetti, da oltre un se-colo pensatori e scrittori hanno fatto proprio il dictat di Rimbaud,“il faut être absolument modernes”. Ma non credo affatto che l’o-pera di Fachinelli sia riducibile a una delle tante teorie sessantot-tesche.

Eppure, a costo di confermare questo cliché su Fachinelli, evo-cherò il film Teorema di Pier Paolo Pasolini, del 1968, un film che,meglio di altri, rappresenta il tropismo dionisiaco di quegli anni.Come vedremo, per tropismo dionisiaco intendo la riscoperta del-la dimensione femminile in quanto inattuale.

Teorema è la storia di una famiglia milanese di fine anni ses-santa molto “perbene”, soddisfatta, ricca. Giunge, a un tratto, co-me loro ospite un bellissimo giovane la cui identità e nome nonvengono precisati – lo spettatore lo interpreterà come una figuradivina. A uno a uno, i cinque membri della casa (padre, madre, fi-glio, figlia, domestica) si innamorano di lui, e lui se li porta a let-to, uno dopo l’altro. Finché, a un certo punto, se ne va dalla fa-miglia, per sempre.

La reazione di ciascuno dei cinque è catastrofica, nel senso dikatastrophé (letteralmente “volgere giù”), che significa rovescia-mento, riuscita, conclusione di un dramma. Nessuno di loro puòrestare quello che era e viene spinto giù verso una hybris, un ro-vesciarsi al di là di ogni temperanza. Il capofamiglia, per esempio,

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regala la sua fabbrica agli operai e nel bel mezzo della stazione diMilano si spoglia completamente dei propri vestiti. La domesticatorna al paese natio, e in mezzo ai suoi compaesani pratica un’a-scesi bizzarra che ne fa una santona locale.

Da notare che lo slittamento verso questi modi di essere cata-strofici non sono tutti sociodistonici né tutti sociosintonici. PerPasolini la risposta di ciascuno al contatto – rappresentato comesessuale – con qualcosa di divino porta a eccessi che nulla hannoa che vedere con le valutazioni del benessere sociale, con il “ser-vizio dei beni”, come lo chiama Lacan.1 E in ognuno riconoscia-mo l’accesso a quel che Fachinelli chiamava “la gioia eccessiva”.

È un film inattuale, troppo legato all’atmosfera di quegli anni?Certamente sentimmo, all’epoca, che esso rappresentava benequalcosa che noi – Fachinelli incluso – cercavamo di dire e di fa-re: una sorta di incontro fortuito con qualcosa di numinoso cheportasse ciascuno fuori di sé e, grazie a un accoglimento dell’Al-tro, ci facesse accedere a un’esperienza che – sulla scia di Nietz-sche – chiamerei dionisiaca.

2. Anche l’ultimo Fachinelli tematizza qualcosa di dionisiaco: glistati estatici. Questa esigenza di “andare fuori di sé” (ekstasis) siera mai espressa nella psicanalisi? Non è invece la psicanalisi, pervocazione, l’inverso dell’impulso dionisiaco ad andare fuori di sé?Non è anzi essa un tornare dentro di sé in grazia della epimeleiaheautou, cura sui, come dicevano gli antichi, la “cura di sé”?

Uno dei saggi meglio accolti di Freud è Ricordare, ripetere, rie-laborare.2 Qui ogni forma di azione – di “passaggio all’atto” – èdescritta come ripetizione del rimosso, per cui l’analista ha il com-pito di “trattenere entro il campo psichico tutti gli impulsi che [ilpaziente] vorrebbe avviare nel campo motorio, e saluta come unavittoria della cura tutti quei casi in cui è possibile liquidare attra-

1. Lacan intende per “servizio dei beni” il raggiungimento di beni privati, beni di fami-glia, beni domestici, beni professionali, civili ecc., insomma beni “borghesi”, come li chiama.Tutti beni, però, che tradiscono la vocazione fondamentale del desiderio. Cfr. J. Lacan, LeSéminaire. Livre VII. L’éthique de la psychanalyse, Seuil, Paris 1986, cap. XXIII.

2. S. Freud, Ricordare, ripetere, rielaborare (1914), in Opere, vol. VII, Boringhieri, Torino1972, pp. 353-361.

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verso un’attività mnestica ciò che il paziente vorrebbe scaricare inuna azione”.3 Ricordarsi, ovvero poter parlare di quel che si ri-corda, è antidoto all’agire, visto come acting out. Molta psicanali-si nutre una diffidenza fondamentale per l’azione come passaggioal reale; una sfiducia che le è stata spesso rimproverata (“l’analisiè guardarsi l’ombelico” e simili).

Mi pare che invece l’intera opera di Fachinelli sia una critica atutto campo del progetto di tanti analisti di far rientrare il soggettoin sé, di accasarlo nella parola e nel pensiero propri. A lui interes-sava piuttosto il rapporto con il mondo – in un primo tempo informa attiva militante, più tardi in forma piuttosto passiva estati-ca. Così, nel suo ultimo libro, La mente estatica,4 Fachinelli scriveche Freud, pur avendo dischiuso all’umanità una possibilità diapertura nuova, l’avrebbe in qualche modo richiusa sacrificandoquella che lui identifica come polarità femminile dell’essere-nel-mondo.5

Nello scritto Sulla spiaggia, Fachinelli ci descrive una propriaesperienza estatica. Mentre se ne sta accanto al mare, in uno sta-to di dolce passività, un’illuminazione, a un tempo fisica e intel-lettuale, irrompe dal mare come Ulisse emerse dalle onde incon-tro a Nausicaa: “Un’accettazione di qualcosa che veniva, in certosenso, dall’esterno, dopo un estenuante brancolare [...]. Non me-ditazione né raccoglimento. Accoglimento”.6 Fachinelli, comeNausicaa, accoglie. Egli accetta una modalità femminile di aper-tura, da qui “gioia con senso di gratitudine”.7

Fachinelli cita allora l’incontro quasi carnale di san Giovannidella Croce con Dio: “Lì mi dette il suo petto – lì una scienza miinfuse saporosa – e io a lui mi detti, senza tralasciar cosa – e glipromisi allora d’esser sua sposa”.

3. Ivi, p. 359.4. E. Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano 1989.5. Ho analizzato questa linea del pensiero di Fachinelli in La “gioia eccessiva” di Elvio Fa-

chinelli, “Psicoterapia e scienze umane”, 3, 1998, pp. 53-73, disponibile online all’indirizzo<http://www.ildialogo.org/filosofia/sergiobenvenutofacchinelli.pdf>; e in L’ultima spiaggia diElvio Fachinelli, “Iride. Filosofia e discussione pubblica”, 27, maggio-agosto 1999, pp. 313-323.

6. E. Fachinelli, La mente estatica, cit., pp. 17 e 19.7. Ivi, p. 18.

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Estasi e perturbante. Nei dintornidi Thanatos

CRISTIANA CIMINO

Inizio questo percorso da tre frammenti nar-rativi con un comune denominatore: l’e-stasi.

1) Una persona, non proprio un paziente, dall’identità sempreun po’ in bilico, provvista di una quota in più di precarietà rispettoa quella concessa ai sani e che fa la differenza, mi racconta, si rac-conta. Durante una passeggiata senza meta in una città straniera,da vero flâneur quale egli è, sempre in bilico tra desiderio di tro-vare una familiarità, uno Heim, e desiderio di smarrirla, incorrenella seguente esperienza. Nell’inoltrarsi in un quartiere semipe-riferico nel quale alla lingua straniera se ne aggiungono altre – èevidentemente un quartiere “multietnico”, uno di quei non-luo-ghi in cui non è difficile imbattersi nelle nostre metropoli – im-provvisamente sperimenta quella che gli psichiatri chiamerebbe-ro una fugace e intensa derealizzazione. L’aspetto curioso e note-vole è che insieme al vissuto di spaesamento, di irrealtà ed effetti-vamente di angoscioso Unheimliche, egli sperimenta una condi-zione di gioia assoluta, di esaltazione e di libertà, come avesse perun attimo toccato o visto qualcosa che non sempre è a disposizio-ne per essere percepito. Qualcosa provvisto di un carattere di ec-cezionalità e di essenzialità, dirà a posteriori nel descrivere quellache mi appare un’altra declinazione dell’Unheimliche: la possibi-lità di somma apertura, di apertura estatica al mondo che precedeogni sua possibile soggettivazione.

2) Un altro frammento: “È il tramonto di una giornata estiva

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su una spiaggia del sud”, ricorda chi racconta. “Sono molto gio-vane. Improvvisamente gli amici in mia compagnia si fanno lon-tanissimi. Il sole è una palla rossa ed enorme, vicinissima. Per untempo che non saprei calcolare sono nel sole, sono il sole. Vivoun’emozione poco descrivibile, di pienezza assoluta e di grandeinquietudine, come essere finalmente a casa e allo stesso tempo suun altro pianeta. Poi tutto finisce come era venuto.”

3) Infine l’episodio dell’Acropoli. Fachinelli fornisce una lettu-ra raffinatissima, filologica, della sequenza di eventi che compon-gono il fenomeno acropolitano.1 E coraggiosa nello sconfessare consicurezza il maestro. Notoriamente Freud, che è in compagnia delfratello minore, dopo quello che Fachinelli definisce un viaggiocontrastato, pone finalmente il piede sull’Acropoli. Qui sperimen-ta un “disturbo della memoria”, come recita il titolo della lettera aRomain Rolland,2 che Freud stesso definirà successivamente, in unalettera indirizzata ad Arnold Zweig,3 esperienza di “derealizzazio-ne”. L’episodio, la “disarmonia” consiste in un vissuto di irrealtà edi un pensiero correlato che Freud formula in due tempi e che suo-na all’incirca così: “Io sull’Acropoli? Impossibile... (troppo belloper essere vero)”, e: “Allora l’Acropoli esiste davvero”.

Come si sa, lo stesso Freud4 ha interpretato l’episodio occor-sogli sull’Acropoli come angoscia originata dal superamento delpadre: lui è arrivato dove il padre non è riuscito. “Conclusione unpo’ magra”, commenta Fachinelli5 e mostra come sulla figura pa-terna cada l’ombra della madre, per Freud più che rappresentata,incarnata da Fliess, il suo doppio, il suo compagno segreto6 – dalquale al tempo del viaggio lo separa un lutto forse incompiuto –,la cui amicizia ha vissuto con “gioia immensa”, “smisurata”,7 con

1. E. Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano 1989, pp. 127 sgg.2. S. Freud, Un disturbo della memoria sull’Acropoli: lettera aperta a Romain Rolland

(1936), in Opere, vol. XI, Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 473.3. S. Freud, A. Zweig, Lettere sullo sfondo di una tragedia (1927-1939) (1968), a cura di

D. Meghnagi, Marsilio, Venezia 2000, p. 154.4. S. Freud, Un disturbo della memoria sull’Acropoli, cit., pp. 480-481.5. E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 139.6. Ivi, p. 153.7. S. Freud, Lettere a Wilhelm Fliess (1887-1904) (1950), Bollati Boringhieri, Torino 1986,

p. 375.

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il quale ha bevuto “sorsi di punch al Lete”.8 È proprio questo sen-timento di gioia, questo godimento che, secondo Fachinelli, Freudha sperimentato sull’Acropoli, sentimento legato a un “desideriopreistorico” – evidentemente quello per la madre –, l’unico chesecondo lo stesso Freud generi la felicità, che colmi una fame nonsaziata.

Freud, che si dichiarava estraneo al “sentimento oceanico”9 –che doveva evocare solo come “intuizione intellettuale”,10 ma chesarebbe tornato ripetutamente a interrogare nell’ultima parte del-la sua vita –, avrebbe dunque sperimentato sull’Acropoli un in-quietante, intollerabile vissuto di gioia, tale da mettere in perico-lo il sentimento della propria identità e fargli temere il riassorbi-mento nell’oceano materno, “il soffio oceanico respirato final-mente a pieni polmoni”,11 dal quale non è riuscito a difendersi.Ipotesi che suonerebbe forse romanticamente ingenua, se Fachi-nelli non fosse ben consapevole che tale gioia, tale tendenza al rias-sorbimento nell’oceano materno, si situa in un luogo che è al di làdel piacere, là dove tutte le tensioni si azzerano e Thanatos è pa-drone. Questo intollerabile vissuto di gioia, così pericolosamentecontiguo all’angoscia di non esistenza, di annichilimento, si situaproprio nei territori psichici che Fachinelli esplora, situati tra vi-ta e morte, tra gioia eccessiva e annullamento di tutto. Gioia e or-rore: termini che producono un effetto di turbamento, di pertur-bante (Unheimlichkeit), l’altro sentimento a cui Freud si dichia-rava “sordo” e la cui tematizzazione nel saggio omonimo, com-plesso fino a essere oscuro, sfiora la stessa “zona proibita” che Fa-chinelli esplicita dell’episodio acropolitano.

Il territorio psichico in cui Fachinelli si avventura nelle paginedella Mente estatica e soprattutto in quelle finali, è un crinale sot-tile al di là del quale si avverte il richiamo della pulsione di mor-te, della ripetizione, la nostalgia e l’anelito alla ri-unificazione, al

8. Ivi, p. 374.9. S. Freud, Il disagio della civiltà (1929), in Opere, vol. X, Bollati Boringhieri, Torino

2003, p. 558.10. Ivi, pp. 558-559.11. E. Fachinelli, La mente estatica, cit., p. 139.

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Un pensiero solitario

ADALINDA GASPARINI

Dal fondo del torpore, quasi dal sonno, un pensiero solitario.Dopo lo squarcio iniziale, la psicanalisi ha finito per basarsisul presupposto di una necessità: quella di difendersi, con-trollare, stare attenti, allontanare... Ma certo, questo è il suolimite: l’idea di un uomo che sempre deve difendersi, sin dal-la nascita, e forse anche prima, da un pericolo interno. Bar-dato, corazzato. E l’essenziale, ovviamente, è che le armi sia-no ben fatte, adeguate. Se non sono tali in partenza, bisognarenderle adeguate: con la psicanalisi, appunto.1

Un pensiero solitario, qualcosa emerge da un contesto staccando-sene, non dipendendone, come se fosse scisso, libero da vincoli inuna misura sconosciuta ai pensieri concatenati della veglia, eppu-re pronto a ricreare nessi, a intrecciarsi alle riflessioni in una mi-sura sconosciuta all’andamento del sogno o della fantasticheria.Un pensiero solitario e dotato di una sorta di vis narrativa, ma di-versa da quella che nella fiaba e nel mito rassicurano sull’esisten-za di una mappa che consola, nutrendo la mente, della tragicitàdell’esistenza, fornendo quasi un’oasi, aiutando il soggetto a di-stogliere lo sguardo dal basilisco dell’abbandono, del fallimento,

Questo testo, con minime variazioni, è stato presentato al convegno Estasi laiche. Intorno aElvio Fachinelli, Firenze, 18 settembre 2010. Il convegno, organizzato da chi scrive, è statopromosso da JEP (European Journal of Psychoanalysis), da ISAP (Istituto per gli studi avan-zati di psicoanalisi, Roma) e dal CPL (Centro psicoanalitico lacaniano, Napoli).

1. E. Fachinelli, “Sulla spiaggia” (1985), in La mente estatica, Adelphi, Milano 1989,20093, pp. 15-16.

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della morte. Pensiero solitario non rassicurante, un dono – è unaparola che ricorre in Fachinelli –, diverso dalla sintesi che si rag-giunge con un rigoroso esercizio di studio e di ricerca. Diverso an-che dall’intuizione.

Il fatto che questo evento mentale si definisca in negativo nondepone a favore della sua ambiguità, che viene tanto sottolineatada chi intende confinare le esperienze estatiche in un quadro con-cettuale ben delimitato e fortificato, come la psicanalisi dopo losquarcio iniziale, occupata a rendere adeguate le difese... se non so-no tali in partenza.

La chiesa poi vaglia accuratamente le esperienze estatiche, perdecidere se sono un dono divino o un sottile gioco diabolico: l’e-stasi teologica e acrobatica di santa Maria Maddalena de’ Pazzi,che volava nella chiesa, su e giù dagli altari, fu come le altre a lun-go studiata dai responsabili delle gerarchie religiose del Sant’Uf-fizio. L’estasi per la chiesa è da includere, collocandola dal lato di-vino, o da escludere, collocandola dal lato demoniaco. Occupan-dosi di estasi, o di mente estatica, lo psicanalista non percorre nétraccia vie salvifiche, delle quali diffida, e nemmeno complemen-tari vie di perdizione.

La tendenza a definire le estasi in negativo non deve deporre afavore della loro ineffabilità, che richiama un iniziatico o appros-simativo approccio new age, né esige che si affidino questi stati aun’autorità superiore, che attestandone l’origine e la natura divi-na o diabolica le collochi intra mœnia, dove si dà salus, o extra mœ-nia, dove, sine ecclesia, si è perduti. Questa tendenza segnala piut-tosto il limite del pensiero ordinatore e misuratore. Qualcosa elu-de le sue difese, anche le sue strutture, come un fantasma per ilquale i muri non sono ostacoli. Qualcosa non obbedisce alle in-giunzioni del senso comune, e anche del buon senso, come se fos-se apparentato con la follia, il crimine, la tossicodipendenza. Qual-cosa emerge e attesta la presenza di un resto che il senso comune,e i sistemi di pensiero che mappano utilmente il mondo, non san-no né devono mappare.

Ma nello stato estatico il pensiero solitario, e la quiete inerme,la gratitudine creaturale che lo accompagnano, pur disperando di

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farsi parola, tendono alla parola con la stessa insistenza con la qua-le la voce fioca dell’intelletto preme per farsi sentire.

Riprendo una domanda di Fachinelli: “L’insistenza sulle dife-se è sempre, implicitamente, insistenza sull’offesa, sulla capacitàdi offendere. Collegamento del sistema vigilanza-difesa con la piùaffermata impostazione virile. E allora accogliere: femminile?”.2Lascerei da parte ogni risposta che risuoni come rivalutazione del-la donna, ingiustamente discriminata dall’uomo: è una trappola.Una decolonizzazione fallica che succede a una colonizzazione al-trettanto fallica. Non cambia il vecchio se una complicità vittima-carnefice, servo-padrone, per rispondere a un’esigenza nuova, siribalta: il maschile diventa incapace o tardo nell’aprirsi al nuovo,ottuso, come ottusa era considerata la donna. Se riflettiamo sullinguaggio possiamo scorgere ovunque il carattere mobile – perquanto via via si pretenda assoluto – della definizione di maschi-le e femminile: sole e luna, i simboli dei due generi per eccellen-za, in lingue diverse invertono per esempio il loro genere. Così l’al-bero può essere femminile o maschile, come il frutto, la frutta, co-sì il neutro segnala la non attribuzione del sesso. Dove esiste il ge-nere neutro, il neonato vi è collocato, ma non sempre: i nostri an-tenati latini riconoscevano l’attività del bebè? O avevano orroredi un genere-non-genere, come Hans, visto che attribuivano inogni caso un genere maschile a infans?

E quando Hans, il primo bambino visto da Freud analista at-traverso il padre, guardando il sesso della sorellina Hanna dice chece l’ha, ma è ancora piccolo, crescerà..., nega l’assenza del pene, in-tollerabile per lui, o la vista del genitale femminile, ben formato,evidente, la cui esistenza, riconosciuta, potrebbe risultare per ilbambino, e non solo, anche più perturbante della sua assenza? Ilpene piccolo o invisibile, che crescerà, copre un’assenza o cancel-la una presenza?

Una mia paziente di fronte al fratellino appena nato che ori-nando descriveva una parabola verso l’alto, come i puttini dellefontane, esclamò: “O che bel bubbolino! Ce l’avevo anch’io quan-

2. Ivi, p. 21.

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La noce di Grothendieck

LUCA MIGLIORINI

Fachinelli e le illuminazioni di PoincaréIn uno dei Percorsi con tratti comuni, Elvio Fachinelli accosta lanarrazione che fa Henri Poincaré della sua scoperta del “teoremadi uniformizzazione” alle celebri pagine di Proust in Il tempo ri-trovato, che in conclusione del romanzo narrano l’inizio della scrit-tura dell’opera. In entrambi i testi la subitaneità e l’involontarietàdella rivelazione giocano un ruolo centrale.1

Poincaré racconta come giunga, quasi suo malgrado, a una se-rie di tre scoperte, ormai classiche, in momenti in cui i suoi pen-sieri sono apparentemente lontani dalla matematica. I tre raccon-ti seguono uno stesso schema: un lungo, frustrante lavorio, appa-rentemente a vuoto, del pensiero, cui segue in un momento ina-spettato un’“illuminazione”, caratterizzata da una totale certezzadella verità di ciò che è affiorato alla coscienza.

Una pagina di Robert Musil, che equipara la situazione di unuomo che pensa (Ulrich, il personaggio principale dell’Uomo sen-za qualità, è un matematico, o meglio un ex matematico) a una sor-ta di “crampo mentale”, presenta una visione del lavoro matema-tico affine a quella che emerge dal racconto di Poincaré:

Non c’è nulla di più difficile in letteratura che descrivere unuomo che pensa. A chi gli chiedeva come facesse a inventare

Questo saggio riproduce con qualche modifica la comunicazione dell’autore al convegnoEstasi laiche. Intorno a Elvio Fachinelli, Firenze, 18 settembre 2010. Ringrazio Adalinda Ga-sparini per i suoi preziosi suggerimenti.

1. E. Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano 1989, 20093, pp. 63 sgg.

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tante cose un grande scopritore rispose: pensandoci conti-nuamente. E in verità si può dire che le idee inaspettate si pre-sentano appunto per il fatto che le si aspetta. Sono in non pic-cola parte un risultato del carattere, di tendenze costanti, diambizione tenace e di assiduo lavoro. Come dev’essere noio-sa questa perseveranza! Sott’altro riguardo poi la soluzione diun problema spirituale si svolge all’incirca come quando uncane con un bastone in bocca vuol passare per una porta stret-ta: egli volta il capo a destra e a sinistra finché il bastone sci-vola dentro; e noi facciamo altrettanto, con l’unica differen-za che non tentiamo così a casaccio, ma per esperienza sap-piamo già pressappoco come si deve fare. E anche se un uo-mo intelligente pone nelle sue rotazioni maggior destrezza edesperienza di un cane, lo scivolar dentro avviene di colpo e an-che per lui giunge inatteso, ed egli percepisce chiaramente in séun leggero senso di stupore stizzoso che i pensieri si sian fattida soli invece di aspettare il loro artefice. Molta gente oggi-giorno dà a quello stizzoso stupore il nome di intuizione, ecredono di dovervi vedere qualcosa di superpersonale; inve-ce è esclusivamente impersonale, cioè l’affinità e l’omogeneitàstessa delle cose che s’incontrano in un cervello. [...] Perciòla meditazione, finché non è condotta a termine è in fondouno stato pietosissimo, una specie di colica di tutte le circon-voluzioni del cervello, e quando è finita non ha più la formadel pensiero in cui la si compie, ma già quella di ciò che si èpensato; ed è purtroppo una forma impersonale, perché il pen-siero è allora volto verso l’esterno e preparato per essere co-municato al mondo.2

La frase sottolineata echeggia un’espressione di Poincaré, secon-do la quale, nel lavoro matematico, a volte sembra che foglio e pen-na ne sappiano più di noi. Voglio citare la risposta di un grandematematico contemporaneo, Michael Francis Atiyah, quando gliviene chiesto come scelga un problema da studiare:

2. R. Musil, L’uomo senza qualità (1930-33), Einaudi, Torino 1972, pp. 105-106 (corsivo mio).

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Immagino che ci si aspetti una risposta. Non direi che sia que-sto il mio modo di procedere. C’è chi magari si adagia su unasedia e dice: “Adesso voglio proprio risolvere questo proble-ma”, si accomoda e si chiede: “Come posso risolverlo?”. Ionon faccio così. Semplicemente navigo tra le acque della ma-tematica, divagando tra i pensieri, con curiosità, con interes-se, parlando con altri, risvegliando idee. Le cose emergono eio le seguo. Oppure mi accorgo che un aspetto si collega a unaltro che già conosco, allora cerco di metterli insieme, e le co-se evolvono. Non sono praticamente mai partito con l’idea dicosa io stia facendo o di dove stia andando. Sono interessatoalla matematica; parlo, imparo, discuto e in questo modo lequestioni interessanti semplicemente affiorano. Non sono maipartito con un obiettivo preciso in mente, a parte quello di ca-pire la matematica.3

Le citazioni precedenti non pare lascino molto spazio, forse an-che per motivi di autocensura, all’apex mentis, quello “strato per-cettivo, emozionale, cognitivo, che è stato colto perlopiù comeun’area di frontiera”, l’estatico, “che nella nostra civiltà affiora disolito in esperienze liminari, facilmente ritenute insignificanti, oaddirittura inesistenti”, che viene proposto come “un momentooriginario di molteplici esperienze; probabilmente delle esperien-ze più creative nella vita umana”.4

Improvvisamente, vedo l’affinità tra ciò che mi è affiorato in unlampo, semplice trovata, pensiero sintetico venuto da un’altraparte, e il processo dell’invenzione – scientifica o non scientifi-ca. Perlomeno in alcuni casi.È l’improvvisa comparsa di un materiale organizzato, coeren-te, a partire da frammenti; a partire, spesso, dalla disperazionedi riuscire in un compito consapevole.Dunque non importa l’ambito della scoperta – scientifica, ar-

3. R. Minio, An Interview with Michael Atiyah, “The Mathematical Intelligencer”, 6,1984, pp. 9-19.

4. E. Fachinelli, La mente estatica, cit., pp. 11-12.

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Finito di scrivereo Fachinelli legge Lacan

ANTONELLO SCIACCHITANO

0. Ci sarà una ragione, ma la ignoro, per cui i grandi lettori di Lacantendono a diventare suoi profeti. Arrivo solo a formulare una con-gettura: Lacan è oscuro, il profeta lo chiarisce. La congettura vale inalcuni casi, per esempio per lettori universitari come Miller e !i"ek.L’università è fatta per spezzare il pane della scienza agli ignorantie, quando fa bene il proprio mestiere, fa chiarezza. Ma in generalela mia congettura è falsa. Abbiamo avuto casi in cui profetici tra-duttori e commentatori hanno reso ancora più oscuro l’autore let-to. Non faccio nomi, anche perché ho sotto mano il nome di unlettore non accademico, che non solo non l’ha oscurato, ma del mae-stro scomodo ha fatto buon uso, senza diventare suo profeta. In-tendo Elvio Fachinelli.

Lascio da parte la vicenda personale di Fachinelli con Lacan, sucui ho preso posizione altrove in merito alla politica della psicanali-si di entrambi questi grandi psicanalisti.1 Mi dedico esclusivamenteal tema di Fachinelli lettore di Lacan.

Capisco che, per essere esauriente, dovrei contestualizzare il te-ma particolare – “Come Fachinelli leggeva Lacan?” – all’interno deltema più generale: “Come leggeva Fachinelli?”. Forse, però, riescoa schivare il doveroso ma gravoso impegno, restringendo la mia at-tenzione al suo ultimo libro, La mente estatica, dove l’autore ha scrit-to di come leggeva gli autori prediletti. Resta ancora un dubbio. Saràattendibile la scrittura sulla propria lettura? Ovviamente, per evita-re di involgermi in dubbi ossessivi, in quanto segue assumo di sì.

1. A. Sciacchitano, La psicanalisi chiede asilo, “Communitas” (in corso di pubblicazione).

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1. Forse val la pena ricordare un paio di aforismi di Lacan sulla let-tura dei propri scritti. Visti a distanza di tempo hanno perso moltodel loro smalto, nonché molta della loro enigmaticità, rivelandosiper quel che erano: spot pubblicitari di un grande manipolatore dimode intellettuali. Non per questo sono meno pertinenti al tema chesto trattando. Formano le condizioni al contorno del problema, cheFachinelli seppe felicemente attraversare.

Intorno alla propria scrittura Lacan mise in piedi un teatrino diautoriferimenti a effetto. Cominciò dall’investitura del genero, Jac-ques-Alain Miller, come “lettore unico”. “Vous me prouvez avoir lumes Écrits, ce qu’apparemment on ne tient pas pour nécessaire à ob-tenir de m’entendre.”2 Ma lettore di che? Di una scrittura che pa-radossalmente non sarebbe da leggere:

Ainsi se lira – ce bouquin je parie. Ce ne sera pas comme mes Écrits dont le livre s’achète: dit-on,mais c’est pour ne pas le lire. Ce n’est pas à prendre pour l’accident, de ce qu’ils soient diffici-les. En écrivant Écrits sur l’enveloppe du recueil, c’est ce que j’en-tendais moi-même m’en promettre: un écrit à mon sens est faitpour ne pas se lire.3

Finché non arrivò alla conclusione patetica della destituzione ma-gistrale – potremmo dire, usando i suoi termini – all’epoca delladissoluzione della propria ormai risibile scuola, ridotta a un soloallievo:

Je remets au “Monde” le texte de cette lettre [...], afin qu’il se sa-che que nul n’a auprès de moi appris rien, de s’en faire valoir.

2. “Lei mi dimostra di aver letto i miei Scritti, apparentemente una cosa ritenuta non ne-cessaria per intendermi”, J. Lacan, Radiophonie, “Scilicet”, 2-3, 1970, p. 55.

3. “Così si leggerà, questo libretto su cui scommetto. Non succederà come ai miei Scrit-ti, il cui libro si compra, si dice, ma per non leggerlo. Non è un caso, essendo difficili. Scri-vendo Scritti sulla copertina della raccolta, è proprio quello che mi ripromettevo: a mio av-viso uno scritto è fatto per non essere letto”, Id., “Postface” (datata 1° gennaio 1973), in LeSéminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamenteaux de la psychanalyse (1964), Seuil, Pa-ris 1973, p. 251.

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Oui, le psychanalyste a horreur de son acte. C’est au point qu’ille nie, et dénie, et renie – et qu’il maudit celui qui le lui rappelle,Lacan Jacques, pour ne pas le nommer, voire clame haro sur Jac-ques-Alain Miller, odieux de se démontrer l’au-moins-un à le li-re. Sans plus d’égards qu’il faut, aux “analystes” établis.4

Trappole. Anche autotrappole. Uno psicanalista come Fachinelli,distratto sì, ma attento ad altro, non ci cascò. E giustamente, perchélo psicanalista, se non è troppo deformato dalla formazione scola-stica, non può cadere nella trappola del maestro o dell’unico che sa.La concentrazione del sapere nell’unico depositario è illiberale insenso ampio: non permette il libero scambio di conoscenze e nonfavorisce la democrazia culturale. In particolare, in psicanalisi il di-scorso del maestro, o il discorso dell’ortodossia, è anche teorica-mente poco auspicabile, essendo l’inverso del discorso dell’analista,come insegnava lo stesso Lacan nel Seminario XVII (1969-1970). Per-tanto, l’analista non può abboccare all’esca del padrone, tanto me-no del maestro.

Nonostante il polverone ideologico sollevato da Lacan, Fachi-nelli seppe leggere gli scritti del maestro da una posizione diversa daquella servile dell’allievo. Aggiungerei che non si lasciò incantare dalrebus Lacan. Per il soggetto cartesiano della scienza “l’indovinellonon esiste”.5 In questo senso, Fachinelli si rivelò più cartesiano chefreudiano, più interessato al sapere che all’essere.

Ma cosa ha veramente letto Fachinelli di Lacan? Lo racconta nel-la Mente estatica.

2. Se è vero che Fachinelli ha letto qualcosa di Lacan, lo ha letto –come ci si aspetta da uno psicanalista – tra le righe. E dalle righe esceun discorso frammentario, come quello che “conclude” La mente

4. “Invio a ‘Le Monde’ il testo di questa lettera [...], affinché si sappia che nessuno ha ap-preso nulla di cui avvalersi. Sì, lo psicanalista ha orrore del proprio atto, al punto tale che lonega, denega e rinnega, maledicendo chi glielo rammenta, tale Jacques Lacan, tanto per nonfare nomi, anzi per inveire contro Jacques-Alain Miller, odioso per essersi dimostrato l’alme-no uno a leggerlo. Senza riguardi per gli ‘analisti’ stabiliti”, in “Le Monde”, 24 gennaio 1980.

5. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus (1921), Einaudi, Torino 1968, 6.5 (tra-duzione modificata).

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Interventi

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Il dolore non è un merito.L’immaginario religiosoe le sofferenze della politica

LUISA ACCATI

1. Vivere una passione vuol dire sviluppare un piacere intenso eprofondo tra due persone, subire il fascino dell’altro, rimanere ap-pagati reciprocamente nei propri desideri, costruire una dipen-denza vicendevole, tanto assoluta quanto temporanea, che rendecompiutamente liberi.

Passione, però, significa anche patimento, dipendenza infelicepassiva da un persecutore, sofferenza imposta a una vittima inca-pace di sottrarsi ai tormenti che le vengono inflitti.

2. La cultura cristiana ha esaltato nel tempo l’accezione negativadel termine e le ha attribuito un significato simbolicamente forte,in grado di avvilire, screditare e cancellare la valenza positiva. LaPassione per eccellenza, infatti, è quella del sacrificio di Cristo, fon-damento stesso della simbologia e del potere religioso. Le religio-ni antiche (greca, romana, ebraica) offrivano a Dio un capretto perottenere protezione e aiuto da lui;1 la religione cristiana gli offre,invece, le sofferenze e la morte di un essere umano. Il capro espia-torio non è più un animale, è un uomo. Il dolore umano si confi-gura dunque come una nuova moneta di scambio, e il prezzo dapagare per ottenere la benevolenza divina cambia di livello.2

1. Cfr. M. Detienne, J.-P. Vernant, La cuisine du sacrifice, Gallimard, Paris 1975; C. Grot-tanelli, N.F. Parise, Sacrificio e società nel mondo antico, Laterza, Roma-Bari 1993.

2. Cfr. G. Feeley-Harnik, The Lord’s Table. Eucarist and Passover in Early Christianity,University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1981; vedi in particolare R. Girard, La vio-lenza e il sacro (1972), Adelphi, Milano 1986, il cui concetto di violenza occulta viene ripre-so da J. Bossy, Essai de sociographie de la Messe 1200-1700, “Annales ESC”, XXXVI, 1981, pp.44-70; V. Valeri, Kingship and Sacrifice, University of Chicago Press, Chicago 1958.

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3. Quello che viene suppliziato vistosamente, con ferite, spargi-mento di sangue, e infine inchiodato su una croce è il corpo uma-no maschile di Cristo. Sebbene appaia in infinite riproduzioni chelo mostrano crocifisso, mai nulla lascia vedere che quella carnemartoriata è femminile, che si tratta della porzione fisica di realtàfornita dalla madre al figlio. Secondo la dottrina, infatti, è Mariaa offrire il corpo in cui il figlio si è incarnato ed è quel corpo ma-terno-mortale a subire il martirio. La Madre (definita correden-trice)3 e il Figlio sono una donna e un uomo uniti nella Passione,al punto che – viene detto – le sofferenze dell’uno sono le soffe-renze anche dell’altra.

La sacra rappresentazione ci mostra, nella doppia passività del-la Madre per eccellenza e del Figlio per eccellenza, un’imitazionedella scena del parto. La Passione, come nel travaglio della nasci-ta, li accomuna ancora. In effetti le sofferenze della Passione e lamorte del Figlio danno luogo a una nuova vita, a una ri-nascitaquesta volta non più mortale, bensì immortale. La Passione è unarigenerazione: ora è il Figlio che dà la vita (eterna) alla Madre. Unciclo di immagini sacre ci mostra la morte della Vergine; mentreha fine la sua vita mortale e la vediamo stesa morta, accanto a leisi profila la figura del Figlio con la sua animula fra le braccia, pron-to a portarla in cielo per poi incoronarla.4 La gratitudine e l’invi-dia si mescolano in modo evidente; l’anima della madre, infatti, hal’aspetto di un bambino e richiama inevitabilmente alla memoriale innumerevoli Vergini con il bambino.5 Con la vita eterna si ro-

3. Per il concetto di corredentrice vedi fra gli altri: S. Meo, Lo sviluppo teologico della Nuo-va Eva: la Corredentrice, in S. De Fiores, S. Meo (a cura di), Nuovo dizionario di mariologia,Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1986, pp. 1021-1029; A.M. Lépicier, Mater Dolorosa. No-tes d’histoire de liturgie et iconographie sur le culte de Notre Dame des Douleurs, Éd. Servites,Spa 1948; E. Wimmer, Maria im Leid, Würzburg 1968.

4. Andrea Del Castagno Dormitio (1442-1443), Basilica di San Marco, Venezia; BeatoAngelico, Morte della Madonna (1433-1434), Museo diocesano, Cortona; Bartolo di Fredi,Incoronazione della Vergine (1388), Museo Civico di Montalcino; Duccio da Buoninsegna,Morte della Madonna (1308-1311), Museo dell’Opera del Duomo, Siena; Holbein Hans ilVecchio, Morte della Vergine (1490), Szépmuvészeti Múzeum, Budapest; Andrea Mantegna,Cristo accoglie la Vergine in Cielo (1460-1464), Pinacoteca Nazionale, Ferrara. (Tutte le im-magini citate in questo articolo possono essere viste nella Web Gallery of Art, all’indirizzo<www.wga.hu>.)

5. Gli stessi pittori che hanno dipinto la morte della Vergine, di cui alla nota 4, hanno di-

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vesciano i ruoli: adesso è il Figlio a portare la madre, mentre lei èpiccola e indifesa, alla sua mercé. La glorificazione della madre siaccompagna all’invidia per la sua capacità di dare vita e al rim-provero di dare una vita mortale. La funzione sacerdotale, rap-presentata da Cristo, partorisce la vita “vera”, immortale, incor-rotta, trionfale e maschile, e libera dalla vita fornita dal corpo del-le donne.

4. I sacerdoti cristiani si considerano eredi di Cristo, dall’XI seco-lo devono scegliere il celibato per poter accedere al sacerdozio. Aldi là delle ragioni sociopolitiche secondo cui le persone senza fi-gli appaiono particolarmente adatte all’amministrazione della co-sa pubblica perché presumibilmente meno coinvolte da interessiprivati,6 al di là della volontà di concentrare la ricchezza in un nu-mero minore di eredi senza spezzare i patrimoni, è importante leg-gere a fondo i significati simbolici del celibato. Per accedere al sa-cerdozio i preti devono rinunciare alla vita a cui potrebbero dareluogo nei figli per offrirla a Dio, in analogia con il Cristo che hadato la sua.

Grazie a questo “sacrificio della vita”, implicito nelle rinuncedel celibato, diventano i custodi dei meriti delle sofferenze e del-la morte di Cristo. Le sofferenze fisiche della Passione costitui-scono il Tesoro dei meriti: un prezioso bene che la Madre-chiesaeredita e che potrà essere venduto come indulgenza in cambio didenaro per le opere di carità. Abbiamo già paragonato la Passio-ne a una sorta di travaglio maschile che porta alla vita eterna im-

pinto numerose Madonne con il Bambino. Ne indico alcune: Andrea Del Castagno, Madon-na con Bambino (1445), Contini Bonaccossi, Firenze; Beato Angelico, Madonna delle stelle(1424), Museo di San Marco, Firenze; Id., Altare di S. Pietro Martire (1427-1428), Museo diSan Marco, Firenze; Id., Altare della Compagnia di San Francesco (1429), Museo di San Mar-co, Firenze; Bartolomeo di Fredi, Adorazione dei Magi (1385-1388), Pinacoteca Nazionale diSiena; Duccio da Buoninsegna, Madonna con Bambino (1295-1305), Museo di arte sacra,Buonconvento; Id., Madonna con il Bambino (1285), Pinacoteca di Siena; Hans Holbein ilVecchio, La vergine con il Bambino (1500), Basilica di St. Jacob, Straubing; Andrea Mante-gna, Polittico di San Zeno (1475-1460), San Zeno, Verona; Id., Madonna dei Cherubini (1485),Pinacoteca di Brera, Milano.

6. Cfr. E. Gellner, Le condizioni della libertà (1994), Einaudi, Torino 1996; Id., Ragionee religione (1992), il Saggiatore, Milano 1993.

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Resistenza e liberazione.I “Quaderni di prigionia” diEmmanuel Levinas

MARIO VERGANI

Siamo filosofi da quando non abbiamo più voluto la guerra.E. Levinas, Quaderni di prigionia

1. La prova e la decisioneGuerra, prigionia, rivolta, resistenza, evasione, liberazione, pace,nei Quaderni di prigionia sono termini che assurgono alla dignitàdi categorie fenomenologiche. Nozioni in parte già presenti nei te-sti preveggenti Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo(1934) e Dell’evasione (1935-36), verranno poi sviluppate coeren-temente in Totalità e infinito (1961) – la prima grande opera pub-blicata dopo il lungo silenzio del dopoguerra –, che si affianca aisaggi sull’ebraismo raccolti in Difficile libertà (1963).

“Tale punto privilegiato in quanto responsabilità – è necessarioa una filosofia antifascista o antitotalitaria.”1 Le riflessione conte-nute nelle intense pagine degli Scritti sulla prigionia (1945-46) rap-presentano uno dei primi sforzi di interpretazione filosofica del

1. E. Levinas, Carnets de captivité et autres inédits par Emmanuel Levinas, in Œuvres com-plètes, vol. I, a cura di J.-L. Marion, Grasset-Imec, Paris 2009; trad. a cura di S. Facioni, Qua-derni di prigionia e altri inediti, Bompiani, Milano 2011, p. 255 (d’ora in avanti nel testo QP).Lo scritto, pubblicato a Parigi nell’autunno 2009, rappresenta il primo passo di un progettodi edizione delle opere complete di Levinas. Il piano prevede sette volumi: i primi tre di ine-diti e i seguenti per gli scritti già pubblicati. Il primo tomo si compone di tre sezioni: la pri-ma, intitolata Quaderni di prigionia, raccoglie gli appunti degli anni di prigionia (1940-45) indiversi campi francesi e tedeschi; la seconda, Scritti sulla prigionia e Omaggio a Bergson, com-prende testi scritti negli anni 1945-46; infine la terza parte – Note filosofiche varie – si com-pone di annotazioni del periodo 1949-66, preparatorie a Totalità e infinito. L’interesse dellenote e degli appunti è anche nella ricostruzione della gestazione dell’opera maggiore di Le-vinas, Totalità e infinito; se ne ricava che il punto meno elaborato e più equivoco è la que-stione del linguaggio. Assistiamo alla massima esitazione. Levinas ipotizza di sviluppare il te-ma del discorso attraverso una teoria della metafora, idea che in realtà verrà sostanzialmen-te abbandonata, tanto che, nell’opera edita, a questa viene sostituita una riflessione sullo scar-to tra il detto e il dire che richiama il modello della diatriba come infinita interpretazione.

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trauma storico del nazifascismo europeo, nella linea di quanti, fi-losofi e teologi, hanno fatto esperienza del carcere e dell’interna-mento: da Gramsci a Bonhoffer, a Sartre. Ma oltre a documenta-re la gestazione e l’elaborazione di categorie e idee che sarannocentrali del pensiero maturo, sono la testimonianza di un richia-mo. Secondo il figlio Michaël, dal 1947 al 1952, dopo l’esperien-za della prigionia in Stalag francesi e tedeschi durata cinque anni,Levinas abbandona il lavoro filosofico. Ha appena pubblicato Dal-l’esistenza all’esistente (1947) – scritto in gran parte durante l’in-ternamento – e le conferenze tenute al Collège di Jean Wahl nel1946-47, raccolte con il titolo Il tempo e l’altro (1948). Quindi, ilsilenzio. Sono gli anni della frequentazione del maestro di letturetalmudiche Chouchani. Lo choc della cattività di fatto forza a unripensamento dell’identità ebraica, dopo gli anni filosofici in Fran-cia e il breve passaggio in Germania, che tuttavia non hanno rap-presentato né una cesura, né un abbandono. Al 1945-46 risalgo-no questi testi folgoranti sulla cattività e la spiritualità del prigio-niero israelita.

È un doloroso ritorno, teshuvà: si tratta di un richiamo, di unapresa di coscienza, di un’esplicitazione, perché in realtà già in Al-cune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo e in Dell’evasione, l’o-rientamento e la motivazione erano là, spesso nascosti dietro il lin-guaggio fenomenologico. Di questa sensibilità già acuta sono te-stimonianza i brevi scritti sull’antisemitismo precedenti la prigio-nia, pubblicati tra il 1935 e il 1939 su “Paix et Droit”, la rivistadell’Alliance israélite universelle. Il paganesimo nazista non è unproblema da risolvere, ma è definito una prova morale e, in quan-to tale, “indegno di confutazione”.2 In quanto negazione totaledella possibilità di svincolarsi dal radicamento nel mondo è l’op-posizione radicale al giudaismo – in questo apparentato al cristia-nesimo – che di tale uscita reca la testimonianza: “Hitler ci ha ri-cordato che non si diserta il giudaismo”.3 È questa la ragione per

2. E. Levinas, L’inspiration religieuse de l’Alliance!, “Paix et Droit”, 1935, ora in C. Cha-lier, M. Abensour (a cura di), Emmanuel Levinas. Cahier de l’Herne, Éditions de l’Herne, Pa-ris 1991, p. 145.

3. Ivi, p. 146.

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la quale con gioia Levinas saluta la pubblicazione nel 1937 di L’im-possibile antisemitismo di Maritain che presenta l’espressione “me-tafisica dell’antisemitismo”. Antisemitismo e giudaismo divengo-no categorie filosofiche.4 Così, quando compariranno le Riflessio-ni sulla questione ebraica di Sartre nel 1947, Levinas – che ricor-da di aver letto presto “di ritorno dalla prigionia”5 – ne esalta lacapacità di cogliere la categoria teorica dell’antisemitismo, ma nonla coscienza ebraica, là dove Sartre ne fa solo un riflesso dialetti-co dell’antisemitismo.

“Nella persecuzione ritrovo il senso originale del giudaismo, lasua emozione iniziale” (QP, p. 185). Giudaismo come testimonianzasingolare dell’universale. Condividere con tutti la condizione diprigionieri, ma a titolo di unicità ed elezione, perché questi pri-gionieri erano separati dagli altri. Dunque tutti i prigionieri sepa-rati dal mondo e, tra i separati, i separati. La condizione dei pri-gionieri di guerra ebrei – quale era quella di Levinas allo Stalag XIBV n. 1492 – era infatti un doloroso privilegio. In quanto militarifrancesi, erano protetti dalla Convenzione di Ginevra, ma nei cam-pi di prigionia si trovavano separati dagli altri prigionieri dello Sta-lag e destinati ai kommandos speciali: lavoro duro da taglialegnafin dall’alba, nel caso specifico, ma anche episodi di brutalità econsapevolezza, giunta ben presto, di quanto accadeva agli altriebrei, a chi era stato inviato ai campi della morte. Se il nazismo èuna prova morale, ciò che in precedenza era vissuto attraverso ilritmo della vita ebraica nelle sue forme collettive richiede ora una“decisione speciale”.6 La decisione fronteggia la prova.

4. Id., L’essence spirituelle de l’antisémitisme (d’après Jacques Maritain) (1938), ivi, pp.150-151.

5. E. Levinas, “Quand Sartre découvre l’histoire sainte”, in Les imprévus de l’histoire, Fa-ta Morgana, Paris 1994, pp. 155-158.

6. F. Poirié, Emmanuel Levinas. Qui êtes-vous?, La Manufacture, Lyon 1987, “Entre-tiens”, pp. 61-136. I più importanti riferimenti bibliografici relativi al periodo della prigio-nia sono inoltre: M.-A. Lescourret, Emmanuel Levinas, Flammarion, Paris 1994, “1935-1945”,pp. 119-128; S. Malka, Emmanuel Levinas. La vie et la trace, Éditions Jean-Claude Lattès, Pa-ris 2002; trad. di C. Polledari, Emmanuel Levinas. La vita e la traccia, Jaca Book, Milano 2003,“La prigionia”, pp. 75-91. Cfr. anche Y. Durand, La captivité. Histoire des prisonniers de guer-re français 1939-1945, Fédération Nationale des combattants prisionniers de guerre et com-battants d’Algérie, Tunisie, Maroc, Paris 1981.

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L’ontologia dietro la macchinada presa? Note sull’ultimo cinemadi Terrence Malick

ALESSANDRO DAL LAGO

Chi ha bisogno di visioni [Anschauungen] vada al cinematografo.Max Weber

1. Vedere un film in compagnia può incrinare un’amicizia, co-me sa chiunque abbia sperimentato le conversazioni spesso im-barazzate e talvolta aggressive che seguono l’uscita da un cine-ma. Infatti, con il giudizio su un film mettiamo in gioco i nostrivalori estetici e forse morali di fondo. Ma qualche volta il cine-ma divide anche noi stessi. Si va a vedere l’ultima opera di unregista che amiamo visceralmente e di cui possediamo tutti i dvd,nonché qualche monografia critica, e ci delude profondamen-te. Ah, questo regista è finito, pensiamo. Oppure si è venduto aHollywood, si è imbolsito con l’età, si crogiola nel successo ecose simili. Ci aspettavamo un altro capolavoro e invece ci re-sta solo indifferenza. Chissà se correremo a vedere il suo pros-simo film.

A me qualcosa del genere è capitato con The Tree of Life diTerrence Malick, fino ad allora un mio regista cult. Però, invecedella mera delusione, il suo ultimo film ha suscitato la mia cu-riosità e una certa voglia di tornare sui precedenti. Infatti, in TheTree of Life si respira un’aria simile a La rabbia giovane, I giornidel cielo, La sottile linea rossa e The New World e anche qualco-sa di molto, molto diverso. Certo, come sempre, grande mestie-re, una natura splendidamente fotografata in cui errano animeperdute o perplesse, narrazione non lineare, ellissi, musiche so-lenni, interrogazioni della voce off, un certo sospetto di retoricae soprattutto un evidente pensiero, una concezione elaborata,

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per quanto in progress, di divinità, uomo e mondo. Insomma,una filosofia.1

Solo che questa volta la filosofia mi è parsa di grana grossa, unpo’ New Age e in fondo regressiva, imperniata com’è non solo sul-la trascendenza, qualcosa che fa già tremare le vene ai polsi, ma suuna trascendenza vista nell’imbuto della famiglia, nei rapporti dif-ficili tra padre e figlio, il quale medita, si interroga, dubita, erra– nel modo tipicamente malickiano – alla ricerca di una pacifica-zione che alla fine, ecco la novità rispetto agli altri film, arriverà.

Nei film precedenti di Malick c’era la contemplazione (del re-gista e con lui di una madre natura che tutto avvolge e osserva)2

della violenza priva di senso e di redenzione (La rabbia giovane, Igiorni del cielo), dei soldati che in guerra si arrovellano su domandeche non avranno risposta (La sottile linea rossa) e di un’altra cul-tura che svela l’arbitrarietà della nostra – come in quella scena in-dimenticabile in cui Wes Studi (il guerriero algonkino che ac-compagna Pocahontas in Inghilterra), verso la fine di The NewWorld, osserva le sculture arboree di un giardino all’inglese comese fossero costruzioni aliene. Declinazioni dell’alterità e di altreimportanti questioni filosofiche che lasciano allo spettatore, dopoil solenne susseguirsi delle immagini, la voglia di rivedere e di me-ditare.

In The Tree of Life, oltre a qualcosa che rimanda a tutto questo– la parte centrale sui ricordi infantili della vita in famiglia, moltobella, come cercherò di motivare più in là –, c’è però un grande sal-to in avanti, ovvero la rappresentazione in immagini della trascen-denza. Sean Penn, il personaggio che qui gioca il ruolo del Sogget-to, vede letteralmente la possibilità di oltrepassamento della fini-tudine: il suo Dasein si libera del risentimento, dei conflitti con ilpadre, della passione inevitabile per la madre e altre incrostazioniedipiche, dell’inclinazione all’odio e alla violenza, dello stolido ab-

1. Cfr. G. O’Brien, The Variety of Movie Experience, “The New York Review of Books”,14 luglio 2011.

2. Ciò vale anche per The Tree of Life: T. Asshauer, Im Schoß der Weltmutter. Die Naturweiß alles besser. Terrence Malick Cannes-Siegerfilm “The Tree of Life”, “Die Zeit”, 25, 2011,p. 63.

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bandono alla vacuità della vita moderna e di tutto il trash dell’esi-stenza inautentica, e si fonde con l’umanità passata, presente e fu-tura, in una dimensione in cui tutti, vivi e morti, si incontrano (inuna spiaggia con la bassa marea o lago salato o qualcosa del gene-re). Insomma il film ricapitola l’origine del mondo e il suo dira-marsi darwiniano (ecco l’albero della vita...) e poi rappresenta let-teralmente il destino della terra, compresa la remota ma prevedi-bile fine, quando il nostro pianeta sarà una scura roccia alla derivanel cosmo e i suoi patetici abitatori polvere dispersa tra le stelle...3

Detto così, sembra un delirio mio, e certamente non di Malick,ma ci vorrebbero pagine e pagine di prosa faticosa per dare un’i-dea, a chi non ha visto il film, di tutto quello che c’è dentro, il cherende giustizia al titanismo dell’impresa, ma suggerisce anche quan-to il Kitsch vi faccia capolino e talvolta dilaghi. Almost ridiculous,always sublime, si intitolava, sul sito web di “The Guardian”, unfavorevole commento a caldo4 alla prima del film al festival di Can-nes, commento che io cambierei così: Almost ridiculous, seldomsublime, avendo ancora vivida memoria di atomi che si aggreganoin molecole, e molecole in qualche brodaglia primordiale, vulca-ni che eruttano polvere e lapilli, meduse flottanti in acque cile-strine, dinosauri che saltellano sul greto di un fiume, soli che sor-gono su pianeti morti – tutte cose che abbiamo stravisto in 2001,Odissea nello spazio, Jurassic Park I e II, e nel ciclo di Star Trek. An-che la saga (quella che, nonostante tutto, mi è piaciuta) dei fratel-lini che errano per i tranquilli vialetti di un suburbio texano e leboscaglie circostanti mi è parsa nonostante tutto familiare, aven-do assaporato qualcosa del genere, per dire, in Stand by Me. In-somma, anche cose belle, certo, ma per lo più note e, quando so-no nuove, non sempre all’altezza della fama di Malick. E comun-que, nell’insieme, uno spettacolone volta per volta intimista e to-

3. In alcune recensioni su quotidiani conservatori, The Tree of Life è definito una fanta-sia pacifista, il che è una sciocchezza evidente. È un film sulla pacificazione del soggetto conse stesso, una questione ben diversa.

4. X. Brooks e H. Barnes, The Tree of Life: “Almost Ridiculous, Always Sublime”. Com-mento video disponibile in <http://www.guardian.co.uk/film/video/2011/may/16/cannes-2011-reel-review-tree-life-video>.

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