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“E se non puoi la vita che

desideri cerca almeno questo

per quanto sta in te:

non sciuparla”

Costantino Kavafis

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IndiceProgetto 2008: Ilo 169 – Con Survival

per i diritti dei popoli indigeni 5

Il budget 57

Noi, Xmas Project 2008 62

2001-2007: I nostri progetti 104

Xmas Project 2009:

segnalateci i vostri progetti 114

mondo e ha l’onore di celebrare i quarant’anni di Survivaldivenendone uno degli strumenti di azione.

Speriamo che il libro vi piaccia e che la voce risulti chiarae toccante. Siamo sicuri che, grazie a voi, alla vostra sen-sibilità, alla vostra azione di divulgazione questa voce saràanche forte e tonante. A favore dei popoli indigeni e asensibilizzazione di tutti verso il rispetto e la tolleranza neiconfronti delle identità “diverse”: permetteteci di dire chein Italia ne abbiamo un certo bisogno. Vi invitiamo quindia compilare e a spedire a Survival la petizione che trovatea pag. 102 per chiedere al nostro Governo di aderire allaConvenzione ILO 169, l’accordo internazionale ad oggipiù completo a tutela dei diritti delle popolazioni indigenee tribali: ecco un’azione facile e utile per alzare i decibeldella nostra voce. Come sempre nel libro trovate i vostricontributi, quest’anno sul tema “Io sono”: una riflessionesulle nostre esistenze, fortunatamente non violate ognigiorno da “civilizzanti” invasori. Trovate anche le vostremani. Le abbiamo raccolte, come fa da anni Survival,come segno di identità, come gesto di attenzione, comevolontà di aiuto. Grazie e buona lettura.

Per l’ottavo anno, Buon Natale!

Cosa rende straordinariamente affini Survival, l’organizza-zione internazionale che da quarant’anni si batte per latutela dei diritti dei popoli indigeni e tribali, e il nostro“piccolo” ma speriamo sempre significativo Xmas Project?Essenzialmente due aspetti: la scelta di campo e il princi-pale strumento di azione.

La scelta di campo è chiara e determinata. Il Xmas Projectha cercato in questi anni di individuare in giro per ilmondo delle aree di intervento a sostegno di uomini,donne, bambini che si trovavano in situazione di indigenzao di difficoltà, o che subivano discriminazioni o ingiustizie,o che semplicemente avevano bisogno di supporto perintraprendere o sostenere percorsi di crescita personali osociali. Survival si batte da quattro decenni per i popoli piùindifesi e aggrediti del nostro pianeta. Intere popolazioni,milioni di esseri umani, costantemente a rischio genocidio.Ciò avviene non nell’epoca preistorica, non ai tempi dellecrociate, non durante l’ultima guerra mondiale. Tutto ciòavviene oggi. Sono uomini e donne, vecchi e bambininostri contemporanei che ogni giorno subiscono l’aggres-sione di virus e batteri per i quali non hanno difese. Ognigiorno vedono le loro terre aggredite, le loro case violate, leloro ancestrali vite sconvolte dall’arrogante e cieco incede-re del cosiddetto “mondo civilizzato”. Un mondo che, sefosse tale, avrebbe l’accortezza e l’intelligenza di rendersiconto delle conseguenze delle proprie azioni. Un mondoche dovrebbe avere imparato ad avere rispetto per le diver-sità, che dovrebbe proteggere e custodire chi è in cosìmanifesta situazione di pericolo e di debolezza e chi riven-dica solo di poter continuare a vivere come e dove sempreha vissuto. Un mondo che è invece così irrimediabilmentespinto nel vortice della conquista delle terre e dello sfrutta-mento di ogni risorsa, che si dimostra ogni giorno sordo ailamenti di chi ne viene calpestato.

Intere popolazioni subiscono così continue e reiterateaggressioni, che mettono in crisi le loro esistenze e spessoin pericolo le loro stesse vite. Tutto ciò nel silenzio gene-rale, nell’ignoranza di ogni principio umanitario ed etico,nella noncuranza di leggi e accordi internazionali. Eccoquindi la grande azione di Survival e il secondo punto diforte contatto con il Xmas Project. Da otto anni la nostrapiccola organizzazione non ha solo raccolto fondi permirate azioni di solidarietà, ha anche tentato di racconta-re e sensibilizzare i propri sostenitori verso le cause e lesituazioni che generavano queste richieste di sostegno. Elo ha fatto attraverso le parole e le immagini di questolibro. Da quarant’anni Survival agisce nel modo più effica-ce e perseverante al sostegno dei diritti delle popolazioniindigene. Una straordinaria azione di advocacy e di sensi-bilizzazione internazionale volta a rompere il silenzio e lanoncuranza con il quale la nostra società assiste a veri epropri crimini umanitari. Questi popoli non hanno biso-gno di coperte, di cibo o di case. Questi popoli hannobisogno di una voce, hanno bisogno di avvocati, hannobisogno di leggi e accordi internazionali, hanno bisognodi rispetto per le loro identità. Quest’anno il Librosolidalesi fa quindi voce delle popolazioni indigene di tutto il

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Xmas Project è il regalo che vogliamo farci a Natale. E che abbiamo scelto di farci per tutti i Nata-li. Ci siamo regalati un’idea, la speranza e il coraggio di farla diventare realtà. Le abbiamo dato unnome, Xmas Project, l’abbiamo fatta diventare Associazione, le abbiamo consegnato un compito daportare a termine; faremo un libro, diverso ogni anno. Tutti coloro che desiderano farsi questoregalo: sono loro il Xmas Project.

L’idea nasce dalla necessità di dare una soluzione a un vecchio disagio, a un bisogno che nonaveva ancora trovato risposta: il disagio del regalo inutile, della forma che ha perso significa-to, del piacere di donare divenuto sterile.

Tutti noi facciamo regali diversi, in occasione del Natale: regali colmi di affetto, regali innamo-rati, regali pazientemente cercati, regali che non potevamo non fare, regali riciclati, regali“socialmente corretti”, regali di rappresentanza, regali frettolosi. Mille regali. Tanti soldi. Un vec-chio e trito discorso. Che si lega a un’altra, solita, considerazione: l’inimmaginabile divario fra iltanto che noi sprechiamo e il poco che altri non hanno.

Xmas Project si sostituisce al regalo di Natale, diventa dono, si fa libro che propone un’idea eche contemporaneamente la realizza. Perché il libro racconta di se stesso, del progetto di aiutoche, con i suoi proventi, riesce a realizzare e raccoglie i volti, le frasi, i disegni, le speranze ditutti coloro che hanno contribuito ad esso.

Puoi scegliere anche tu di regalare e regalarti il Xmas Project, è molto facile: basta crede-re in un progetto di solidarietà; scegliere all’interno della tua cerchia di parenti, amici,conoscenti, clienti i destinatari di questo dono; quindi acquistare le copie del Librosolida-le, alla cui realizzazione hai partecipato con un tuo segno, e contribuire così alla realizza-zione del progetto, da un lato finanziandolo, dall’altro diffondendolo.

Milano, settembre 2001

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Il progetto 2008

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I popoli indigeni del mondo contano almeno 370 milioni di persone. Rappresentano il 6% della popolazione del nostro pianeta e sono distribuiti in più di 70 nazioni diverse. Tra loro, circa 150 milioni sono classificati insenso stretto come “popoli tribali”. Descriverlisenza correre il rischio di generalizzare è diffici-le perché comprendono una grande varietà ditribù e conducono stili di vita diversissimi inun’incredibile diversità di ambienti. Anche se non esiste una definizione unanime-mente accettata da tutti, con i termini “indigeno”o “tribale” ci si riferisce generalmente a popoliorganizzati in comunità tribali da generazioni.Spesso si tratta degli abitanti originari dei paesiin cui vivono, o di coloro che vi abitano da centi-naia se non addirittura da migliaia di anni. Nor-malmente, sono popoli in larga misura autosuffi-cienti, e vivono delle risorse del loro territorio: dicaccia, pesca e raccolta, oppure di agricoltura eallevamento su piccola scala. Le loro economie sifondano quasi sempre su una conoscenza moltointima e profonda delle loro terre, con cui man-tengono un legame inscindibile. Per loro la terraè tutto, nel senso più letterale del termine. È l'u-nico luogo in cui possono apprendere e traman-dare il loro sapere millenario; in cui possono pro-curarsi il cibo e tutto ciò che è necessario alla lorosussistenza; in cui possono praticare la loromedicina e celebrare la loro identità. Spesso sono minoranze. Le loro comunità sidistinguono nettamente da quelle non-tribali:parlano un'altra lingua, hanno usi e cultura pro-pri ereditati dagli avi, e si considerano essi stes-si diversi e distinti dalle società dominanti che licircondano. I popoli tribali non coincidono necessariamentecon gli aborigeni o con gli indigeni: mentre“indigeni" sono tutti gli abitanti nativi di unacerta regione, infatti, “tribali" sono solo i popo-li che vivono in comunità tribali, e che dipendo-no dalla terra in cui abitano per ciò che riguar-da ogni aspetto della loro vita. Tutti gli Abori-geni Australiani, per esempio, sono “indigeni",ma soltanto alcuni vivono ancora in società tri-bali e considerano se stessi come tali. Plasmati, nel corso dei secoli, dalla ricchezza edall'asprezza dei loro diversi ambienti, gli indi-geni che abitano oggi il nostro pianeta costitui-scono un caleidoscopio di umanità e culturesorprendenti, irrinunciabili per ognuno di noi.I pop

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Chi sonoMa come la terra ha dato loro la vita, ora la suadistruzione li uccide. Dai ghiacci artici fino ai deserti africani, l’unica esperienza che tra -gicamente li accomuna è l'invasione dei loroterritori, iniziata secoli fa in un bagno di sanguee condotta ancora oggi con la stessa determina-zione e la stessa feroce brutalità.Sfrattati dai coloni e dallo sfruttamento foresta-le e minerario, inondati dall’acqua delle dighe esterminati da malattie verso cui non hanno dife-se immunitarie, nel nome del progresso, i popo-li indigeni contemporanei continuano a essereprivati dei loro mezzi di sussistenza e della lorolibertà; ad essere violentati, uccisi o costretti aomologarsi a società aliene. A differenza del passato, oggi la legge interna-zionale riconosce i loro diritti sulle terre ance-strali, ma raramente vengono rispettati. E se daun lato gli abusi restano quasi sempre impuniti,dall’altra vengono addirittura esacerbati dalcontinuo diniego dei governi a riconoscere aipopoli indigeni almeno il diritto di essere con-sultati quando vengono varati progetti di svi-luppo destinati ad avere un impatto irreversibilesulle loro vite. Dietro le persecuzioni ci sono solo l'avidità e unrazzismo che si ostina a dipingere i popoli tribalicome arretrati o primitivi; come reperti archeolo-gici destinati inevitabilmente all’assimilazioneculturale ed economica oppure all’estinzione. Inrealtà, i popoli tribali sono nostri contemporaneie in ogni continente stanno lottando per mante-nere la propria identità e riprendere il controllodelle loro vite e delle loro terre. Frutto di un con-tinuo sviluppo e perfezionamento, i loro stili divita non sono inferiori. Sono solo diversi e, nelcorso del tempo, hanno saputo dare risposte effi-caci e dinamiche alle sfide di un mondo in peren-ne trasformazione. Costretti dalla miopia e dallaforza soverchiante del nostro modello di sviluppoa confrontarsi quotidianamente con la minacciadi estinzione fisica e culturale, tutto ciò che ipopoli indigeni chiedono è solo terra a sufficien-za per vivere, e la libertà di decidere autonoma-mente del loro futuro. Ovunque, la loro storiariassume in sé sia il racconto di una tragedia inu-tile sia quello di una commovente resistenza.

370 milioni di persone(di cui 150 milioni sono identificati in senso stretto come “popoli tribali”)5.000 popoli diversi in 70 paesi diversi su 5 continenti6% della popolazione mondialeI popoli meno numerosi: “L'uomo della buca” (1 persona), Piripkura (3 persone), Akuntsu (6 persone)Quelli più grandi: Quechua (10 milioni), Nahuatl (5 milioni), Aymara (2 milioni)

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Nonostante secoli dimassacri e persecuzioni,i popoli indigeni sonosopravvissuti in tutti icontinenti. Sono suddivisi in più di 5.000popoli diversi e hanno saputosviluppare tecniche efficaci persopravvivere anche nelle regionipiù remote e inospitali della

Terra. Abitano nelle foreste tro-picali, nelle praterie, nei deserticosì come tra i ghiacci perenni.Alcuni sono indistinguibili dallesocietà che li circondano. Molti altri, invece, conservanola loro distinta identità purvivendo da secoli a fianco deicolonizzatori. Alcuni, infine, non hanno maiavuto alcun contatto con ilmondo esterno: si tratta certa-

mente dei popoli più vulnerabilidel pianeta. Se in molte nazionii popoli indigeni sono piccoleminoranze, in altre rappresenta-no la maggioranza della popo-lazione. Ad eccezione degli Indonesianiche hanno colonizzato la parteoccidentale dell’isola, la NuovaGuinea è abitata interamente dapopoli tribali. In Groenlandiasono il 90%, il 66% in Bolivia.

I Quechua costituiscono quasila metà della popolazione delPerù e, insieme ai Quechua bo -liviani, il popolo indiano piùnumeroso d'America, tuttavia,nel quadro politico di questipaesi non hanno voce in capito-lo. In Perù, il quechua è una lin-gua ufficiale ma gli insegnantispesso si rifiutano di usarla e ibambini sono discriminati sindai primi anni di vita.

Khanty, Waiãpi, Penan, !Xu, Marubo, Nuba, Khomani, Twa, Kanamari, Barí, Yukpa, Yabarana, Ba-aka,Yanomami, Pemon, Wichí, Igorot, Kaiowá, Masai, Ayoreo, Nukak, Jarawa, Tarahumara, Makuxi,

Wapixana, Ingaricó, Tuarepang, Korubo, Ibaloi, Moni, Amungme, Dani, Twa, Jumma, Enxet, Subanen, Himba, Boscimani, Innu, Inuit, Yora, Yugan, Panará, Dayak, Maku, Khwe, Kalagadi, Arara,

Arhuaco, Aché, Akawaio, Mapuche, Martu, Kaiapò, Sami, Maori... Nonostante accettino di esserechiamati collettivamente come indigeni o tribali (termini utilizzati oggi dall’ONU e nelle convenzioniinternazionali), hanno nomi propri che, nella maggioranza dei casi e in ogni parte del mondo, significano

“noi, gli uomini”.

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Awá & Ka’aporAwa Guajá

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Dongria Kondh

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Xavante & BororoTupinikim

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centinaia di Indiani, ne soprav-vivessero ora solo poche decine,mantenute in vita solo graziealla paternalistica sollecitudinedello SPI, il Servizio governativoper la protezione dell’Indio isti-tuito dal governo nel 1910. “Ma in tutti quei racconti – ederano davvero tanti”, scrivevaLewis, “c’era una zona di silen-zio, una mancanza di sincerità edi responsabilità sociale, un’evi-dente avversione a scavare nelladirezione da cui la distruzioneavanzava. Sembrava che doves-simo limitarci a supporre che gliIndiani si stessero semplicemen-te dissolvendo, uccisi dal duroclima dei tempi, e che fossimotutti invitati a non porre ulterio-ri domande.”Il compito di risolvere il misteroera stato lasciato nelle manidello stesso governo brasilianoe, in verità, era stato portato atermine con una franchezzabrutale e disarmante. Il procu-

ratore generale Jader Figueire-do, spiegava Lewis nell’articolo,era stato incaricato di visitaregli avamposti dello SPI in tuttoil paese alla ricerca di prove diabusi e atrocità. In 58 giorni diindagini aveva compilato undossier di 5.115 pagine da cui sievinceva chiaramente che negliultimi 10 anni migliaia di perso-ne erano state virtualmente ster-minate “non nonostante glisforzi dello SPI ma anzi con lasua connivenza, spesso con lasua ardente collaborazione”. Oggetto di indagine non erano imassacri che nei secoli prece-denti avevano ucciso oltre 6milioni di Indiani brasiliani, male azioni criminali compiutenegli ultimi anni nei confrontidei sopravvissuti. Le tragicheperdite subite dalle tribù indianein quella drammatica decadeerano catalogate solo in parte.Tuttavia, il dossier, pesante 103chili, documentava dettagliata-

Il 23 febbraio 1969, il Sunday Times inglesepubblicò un articolo che scioccò i lettori ditutto il paese. Si intitolava “Genocidio” e portava la firma diuno dei più grandi giornalisti di tutti itempi, Norman Lewis.

L’editore aveva inviato Lewis ainvestigare sui risultati di un’in-dagine intrapresa dallo stessogoverno brasiliano nel marzodel 1968. Voci sempre più insi-stenti raccontavano che nellaforesta amazzonica si stavaripetendo la tragedia che avevadecimato i Nativi Americanidurante l’ultimo secolo ma,questa volta, compressa in unbrevissimo arco di tempo. Sem-brava che laddove prima vivevano

Brasile, il genocidiopiù lungo

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mente assassinii di massa, tortu-re e guerre batteriologiche, casidi schiavitù, abusi sessuali, furtie negligenze. Il rapporto rendevanoto che alcuni gruppi di IndianiPataxó erano stati infettati deli-beratamente col vaiolo; che ifazendeiro avevano fatto ubria-care i Maxacali per poi farli piùagevolmente uccidere dai sicari;che i Cinta Larga erano statimassacrati con candelotti di di -namite lanciata dagli aerei soprai loro villaggi; che la tribù deiBeiços-de-Pau era stata stermi-nata con cibo intriso di arsenicoe insetticida. L’autore paragona-va le sofferenze degli Indiani aquelle subite dagli Ebrei neicam pi di concentramento nazistie concludeva affermando che 80tribù si erano completamenteestinte mentre di molte altresopravviveva solo qualche singo-lo individuo. L’inchiesta giudi-ziaria promossa in seguito alledenunce del rapporto avevaportato all’incriminazione di

134 funzionari governativi, ac -cusati di oltre 1000 crimini di -versi. 38 di loro furono licenzia-ti ma nessuno andò mai in car-cere. Il dossier non fu mai resopubblico: al di fuori del gover-no lo lessero poche persone e,po chi anni dopo, bruciò in unmisterioso incendio. La suascomparsa però arrivò tardi per-ché aveva già causato un cla-more pubblico tale da superare iconfini della nazione giungen-do fino in Inghilterra. All’editore del Sunday Timesgiunsero centinaia di lettere disgomento e, in pochi giorni, dal-l’incontro dei lettori più indigna-ti e risoluti a intervenire nacqueSurvival International. Nei treanni successivi, i missionari dellaCroce Rossa, Survival e l’Aborigi-nes Protection Society visitaronodecine di tribù e la pubblicazio-ne delle loro scoperte portòfinalmente la tragedia degliIndiani amazzonici all’attenzio-ne del mondo intero.

Le origini di Survival

“Considero la fondazione di Survival come il più grande successo

della mia vita professionale.”Norman Lewis

Fondata con l’obiettivo di aiu-tare i popoli indigeni a difen-dere le loro vite, a proteggere leloro terre e i loro fondamentalidiritti umani contro ogni formadi sterminio, persecuzione erazzismo, da allora Survival ha

continuato a crescere e a espan -dere il suo raggio d’azione inogni continente. Oggi segue ogni anno almeno80 casi di violazione dei dirittidei popoli indigeni in oltre 40paesi diversi.

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I popoli indigeni abitanole regioni ecologicamentepiù importanti del pianeta, in territori che loro stessi, nelcorso dei secoli, hannocontribuito a plasmaree proteggere.

Dopo Sting e il Summit di Rio,nel mondo industrializzato èandata crescendo una vastapreoccupazione internazionaleper i disastri ambientali, imputa-bili ai mutamenti climatici maanche a irresponsabili politichedi colonizzazione e sfruttamentointensivo delle risorse disponibili.

La pau ra non è però stata ac -compagnata da un’adeguatariflessione sull’impatto che inostri “crimini ecologici” – e irimedi che ad essi proponiamo– hanno sulle vite dei popoliindigeni, né tantomeno sulruolo che i popoli indigeni stes-si possono avere nella protezio-

ne dell’ambiente e della biodi-versità. Per secoli, governi e colonizza-tori hanno cercato di giustifica-re l’appropriazione indebitadelle terre e delle risorse deipopoli tribali nel nome del pro-gresso. Per decenni, scienziati econservazionist i radical i c ihanno abituato a considerare lapopolazione umana solo comeun fattore di disturbo e degradodegli ecosistemi. La preoccupa-zione esclusiva per la Natura,che ha portato alla creazionedei grandi parchi africani, è arri-vata fino al punto di bandire daessi qualsiasi attività umana,comprese le tecniche tradizio-nali di caccia e raccolta di alcu-ni popoli tribali, necessarie allaloro sopravvivenza. Oggi, preva-le la tendenza a presentare ipopoli indigeni come custodi di

un patr imonio di co no -scenze sul la natura utile

allo sfrut tamento so -stenibile dell’ambien-te. Indubbiamente,nel corso dei secoli,mol ti popoli indi-geni hanno elabo-rato tecniche so -fisticate ed effica-ci di coesistenzacon i l lo ro am -biente. Ed hanno

attuato strategie diutilizzo delle risorse

che, pur trasformandoin modo permanente il

loro habitat, non ne hannoalterato i principi di funziona-

mento né messo in pericolo lecondizioni di riproduzione. Unmodello infinitamente più lun-gimirante di quello, brutale emio pe, utilizzato dalla societàoccidentale persino negli ecosi-stemi più fragili del pianeta. Maquesta loro nuova immagine di“geni dell’ecologia”, finiscetroppo spesso con l’alimentarealtri pregiudizi e nuove for me di

strumenta-lizzazione delno stro rapporto conloro. In So ciétés indigènes &Nature1, Eduardo B. Viveiros deCastro scrive che il sapere sullanatura che hanno gli indigenipotrebbe fornire loro “un passa-porto per la sopravvivenza nelmondo moderno”.In effetti, si sta diffondendosempre di più l’idea che la pro-tezione della natura e la conser-vazione della biodiversità deb-bano coniugarsi con il dirittodei popoli indigeni a preservarei loro territori e i loro modi divivere. Tuttavia, rimane essen-zialmente una questione dipragmatica, e non di principio,come sottolinea l’antropologoMarcus Colchester2, funzionaleancora una volta ai nostri biso-gni. Non a caso, gli alti ricono-scimenti tributati oggi ai popoliindigeni nel campo dell’ecolo-gia non sono accompagnati daun adeguato riconoscimentodei loro diritti.Indipendentemente dalla loropeculiare visione del mondo edella natura, i popoli indigenihanno diritto alle loro terre ealle loro ri sorse. Lo stabilisce lalegge internazionale, oltre chequella morale, e in particolare laConvenzione 169 dell’Organiz-zazione Internazionale delLavoro (ILO). Lo afferma, a livel-lo di principio, anche la Dichia-razione dei di ritti dei popoliindigeni, recentemente adottata

dalle Nazio-ni Unite, dopo

vent’anni di difficilinegoziazioni con tutti i paesimembri. Il problema, quindi,non è tanto quel lo di non-escludere questi popoli dallepolitiche e dai progetti di con-servazione dei loro territori, cosìcome si legge sempre più spessonei documenti programmatici,quanto piuttosto di riconoscerlicome i legittimi proprietari deiloro ambienti, aventi pienodiritto all’autodeterminazione eal risarcimento in caso di sfrattoo spoliazione indebiti. Un passo che governi, fonda-zioni e associazioni ambientali-ste non sembrano ancora dispo-sti a compiere.Ipocrisia e malafede sono fla-granti in moltissimi casi, comein quello dei Boscimani delKalahari, ad esempio, che inquesti anni si sono visti proibirela caccia di sussistenza, permes-sa invece ai turisti a puro scopodi divertimento. O in quello deiWanniyala-Aetto dello Sri Lanka(conosciuti con il nome di Ved -da), banditi dal raccogliere bac-che e legna nelle loro foreste,trasformate in parchi nazionali.In altri contesti, i paradossi so nomeno evidenti. Come nella corsaall’acquisto di appezzamenti diforesta per scongiurarne il d i -sboscamento e compensare leemissioni di carbonio prodotteda individui, aziende o interistati. Un mercato, patrocinato

da politici e celebrità di varipaesi, che le stesse associazioniambientaliste come Green peacee Amici della Terra reputano“cortine fumogene”3, atte solo adistogliere forze e risorse dallereali soluzioni al problema delleemissioni di CO2. Una tendenzaestremamente pericolosa desti-nata, seppur in buona fede,anche a minare la battaglia che ipopoli indigeni conducono per ilriconoscimento dei loro pienidiritti territoriali e ad alimentarenuove forme di paternalismo.In ogni caso, i popoli tribali diogni continente continuano arischiare di essere esclusi dalleloro terre ancestrali nel nomedella conservazione. Loro, chehanno contribuito, in migliaiadi anni, a plasmare e salvaguar-dare questi territori a beneficiodelle generazioni future, fini-scono spesso per essere confi-nati in essi nella veste di mericonsulenti, di guardaparco, diguide o attrazioni turistiche. “Tra il saccheggio cieco che s’ab -batte ancora su numerose regio-ni del pianeta, l’utopia fun zio -nale di certe correnti New Age el’ecologia gestionale dei movi-menti conservazionisti” scrivePhilippe Descola in Diversité bio-logique, diversité culturelle4,“deve essere ascoltata un’altravoce. Quella di Davì, per esem-pio, leader e sciamano Yanoma-mi, che dichiara: ‘Noi non utiliz-ziamo la parola ambiente. Noidiciamo solo che vogliamo pro-teggere la foresta intera. Am biente è una parola di altregenti, è una parola dei Bianchi.Ciò che voi chiamate ambiente,è solo ciò che resta di quelloche avete distrutto’”5.Una considerazione che dimostrachiaramente il grande divario esi-

stente tra la nostra concezioneoggettivante della Natura, co -stantemente divisa tra un discor-so conservazionista e uno pro-duttivista, e quella cosmica e spi-rituale che accomuna quasi tuttii popoli indigeni del mon do. Perloro, infatti, la terra non è un’en-tità da sfruttare bensì un univer-so da sostenere e mantenere inequilibrio: “Quando un Aborige-no guarda una collina, pensa aWatikutjarra che l’ha creata. IlBianco ti dice che si tratta di unaformazione geologica creata dalvento e dalle correnti quando ilpaese era ricoperto dal mare,migliaia di anni fa. Così, quandoarriva una compagnia minerariaper sfruttare l’oro scoperto al suointerno, nasce un conflitto. Noinon assumiamo il punto di vistageologico secondo cui non sidevono scavare grosse buche nelsuolo perché c’è il rischio di ero-sione. E non ci appelliamo allalegge internazionale perché unsito sia protetto come Patrimo-nio dell’Umanità. Noi ci preoccu-piamo che non venga interrottala catena del Sogno, che nonvenga distrutto uno dei luoghidel Sogno di Watikutjarra… Ferirela terra, è ferire l’uomo perchésiamo tutti parte di Bugarrigarra[il Tempo del Sogno]”6.Non si tratta tanto di rispettodella natura, come spesso si pen -sa, ma piuttosto di una conce-zione del mondo radicalmentediversa dalla nostra: “Gli Abori-geni non proteggono la collinaperché sono degli ecologisti; noinon siamo intrinsecamente eco-

logisti; noi proteggiamo il nostropaese, vegliamo su di esso daprima che Greenpeace sbarcassein Australia… Noi non cerchiamodi essere politicamente corretti,di essere ”verdi” o di voler fareciò che è bene […] Difendere laterra è per noi una necessità e unmodo di vivere. […] Fintanto chepotremo continuare a celebrare inostri riti, a far compiere laLegge, a trasmettere le cono-scenze da una generazione al -l’altra, noi sopravviveremo. Cam-bieremo, ci adatteremo al mon doche ci circonda ma sopravvivere-mo, e la lotta potrà continuare”7.La parte sempre più preponde-rante assunta da Ong e aziendenei programmi di tutela dell’am-biente e della biodiversità testi-monia la crescente presa di co -scienza dell’opinione pubblica ela sua vasta mobilitazione. Sitratta certamente di un risultatopositivo che però rischia di dere-sponsabilizzare sempre di più igoverni dei paesi in via disviluppo, soprattutto nelcampo dei diritti territo-riali e dei programmi edu-cativi e sanitari. In gioco,infatti, sono diritti umanibasilari e servizi pubbliciminimi chegliorgani-smi privatinon hanno la ca -pacità né la possibi-lità di gestire.Moltistudi

dimostrano che riconoscere idiritti dei po poli indigeni e tri-bali alle loro terre è attualmenteil modo più efficace di proteg-gere l’ambiente. Anche in que-sto campo, quindi, il rifiuto dimolti governi di ratificare laConvenzione ILO 169 tradisceipocrisia e mancanza di lungi-miranza.Togliere ai popoli indigeni lapossibilità di continuare a viveresecondo la visione del mondo edella natura che gli è propria,infatti, significa, non solo con-dannarli a perdere l’indipenden-za e la possibilità di sopravviverecome popoli, ma anche inaridirei loro saperi e minare la straordi-naria diversità culturale dell’u-manità. Una diversità che so -pravvive solo se vivono i popoliche l’alimentano.

©Francesca Casella/SurvivalPer gentile concessione della rivista

“Diritto e Libertà”, n. 17, novembre 2008.

* Liberamente tratto da Diversité biologique, diversité culturelle di Philippe Descola, pubblicato in Ethnies 29-30 da Survival International France.1 Pubblicato in Ethnies 29-30, Il y a place dans le monde pour bien de mondes, Survival International France, Parigi 2003.2 Salvaging Nature, Indigenous Peoples, Protected Areas and Biodiversuty Conservation, Istituto di ricerca delle Nazioni Unite per lo sviluppo sociale, Ginevra 1995.

3 The great carbon con: Can offsetting really help to save the planet?, The Independent, Sophie Morris, 3.04.08.4 Diversité biologique, diversité culturelle, pubblicato in Ethnies 29-30, opera citata.5 L’or cannibale et la chute du ciel. Une critique chamanique del l’économie politique de la nature,

intervista raccolta da Bruce Albert, tra gli Yanomami, Brasile 1993. L’Homme 126-128.6 Termiti bianche e formiche verdi. Gli Aborigeni e la Natura. Wayne Barker, cineasta aborigeno,

discorso raccolto a Parigi dalla redazione di Ethnies, Survival International France,1999. 7 Termiti bianche e formiche verdi. Gli Aborigeni e la Natura. Opera citata.

Custodi della terraUna concezione

sociomorfica del cosmo*Nella nostra visione del mondo, umani e non-umani

sono collocati in domini ontologicamente diversi. Al contrario, la maggior parte dei popoli indigeni

non operano distinzioni nette tra natura e società, e le differenze tra uomini, piante e animali sono solo

di grado, non di sostanza. Ciò che noi chiamiamo natura, è per loro il soggetto di un rapporto sociale;

un mondo popolato di personaggi che interagiscono gli uni con gli altri in modo egalitario e che condividono, in tutto o in parte, le stesse

facoltà, gli stessi comportamenti e gli stessi codici morali ordinariamente

attribuiti agli uomini.

Il dualismo uomo-natura*

Il dualismo uomo-natura data di qualche secolo appena in Occidente ed è all’origine sia delle scienze

positive sia della nostra stessa idea di protezione dell’ambiente. Per pensare di poter proteggere la natura, infatti, occorre innanzitutto credere

all’esistenza della natura stessa come un dominio autonomo distinto dalla sfera delle azioni umane;

un luogo di ordine e necessità in cui niente avviene senza una causa ma su cui l’uomo può

esercitare una sorta di giurisdizione al fine di sfruttarne le risorse prima e, in seguito,

di assicurarne la preservazione.

La natura non è naturale*

La natura non è “vergine” né “selvaggia” se non nell’immaginario occidentale. Al contrario,

la fisionomia della maggior parte delle foreste tropicali così come le conosciamo noi oggi, è il prodotto

culturale di una manipolazione molto antica della flora e della fauna operata da società umane a loro volta

condizionate e plasmate da secoli di convivenza con esse. Benché invisibili a un osservatore non esperto, le conseguenze di questa antropizzazione sono molto importanti, specialmente per quel che concerne il tasso di biodiversità, che è più elevato

nelle porzioni di foresta antropogenica che in quelle non modificate dall’uomo. William Baleée ha dimostrato, per esempio, che, a distanza di quarant’anni dal loro abbandono,

le aree di foresta amazzonica utilizzate dai popoli indigeni sono due volte più ricche di specie vegetali utili che le

porzioni vicine di foresta primaria da cui, a prima vista, non si distinguono affatto. In queste stesse aree si

registra anche una maggiore concentrazione di animali e selvaggina. Si stima che attualmente il 12% dellaforesta amazzonica brasiliana sia antropogenica ma è fortemente probabile che la percentuale

fosse molto più elevata prima dei disboscamenti massicci che da decenni

mutilano la regione.

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YanomamiBrasile, Venezuela

“I Bianchi parlano continuamente del pianeta, ma nonpensano che esso abbia un cuore e che respiri. Eppure ècosì. Non l’hanno mai guardato veramente da vicino, con iloro occhi. Sanno solo studiare sui libri e parlare di politi-ca. Anche noi studiamo... andiamo nella foresta e la osser-viamo con attenzione. Loro, no. Il loro sapere è tutto sucarta. Gli Yanomami si sono sempre presi cura di questaterra, da molto prima che arrivassero i politici. Ma noi nonusiamo carta. La nostra carta sono i nostri pensieri; quelloche possediamo, sono i nostri credo... Ci piacerebbe tantoche gli uomini bianchi capissero perché la conservazione diquesta foresta è così importante per noi. Vogliamo che ciaiutiate a difendere le nostre terre, che lavoriate al nostrofianco per difendere il nostro modo di vivere... Io, DaviKopenawa Yanomami, voglio aiutare gli uomini bianchi aimparare come costruire un mondo migliore insieme a noi,a beneficio di entrambi”. Davi Kopenawa, leader Yanomami

Stretto tra i grandi bacini dell’Orinoco edel Rio delle Amazzoni, il territorio degliYanomami si estende lungo la linea diconfine tra il Brasile e il Venezuela. Adeccezione di alcuni grandi altipiani di roc-cia arenaria che si ergono imponentisuperando talvolta i duemila metri dialtezza, l’area è un susseguirsi di ripidecolline di circa mille metri d’altitudine.Tutto il territorio è ricoperto da una fittaforesta equatoriale che riceve dai due aiquattro metri di pioggia all’anno. Nellesue parti più impervie e nascoste sorgonogigantesche capanne di forma circolarechiamate yano*, o sciabono, che possonoraggiungere i 100 metri di diametro econtenere oltre 200 persone. Sono legrandi case comuni degli Yanomami:straordinarie opere architettoniche fruttodi un intelligente lavoro collettivo, perfe-zionato nel corso dei millenni.

Nonostante il grave rischio di estinzionecorso tra gli anni ’70 e ’80, oggi gli Yano-mami sono il popolo indigeno più granded’America a vivere ancora in modo tradi-zionale e in relativo isolamento. A riscrive-re la storia annunciata della loro estinzioneè stata la pressione dell’opinione pubblicainternazionale mobilitata da Survival insie-me alla Ong brasiliana CCPY. Sono occorsioltre vent’anni per arginare le epidemie dimalaria che li stavano decimando e allon-tanare i cercatori d’oro illegali che si eranoriversati come un fiume in piena nel loromondo lasciando dietro di sé solo violenze,morte e disperazione. Ma, oggi, gli Yano-mami non solo sono ancora vivi, ma gesti-scono anche progetti innovativi volti arafforzare la loro identità e aiutarli a difen-dere meglio i loro diritti, come la Scuolabilingue nella foresta. I problemi non sonostati tutti risolti, ma la loro storia è giàdiventata un simbolo: il simbolo del ruolocruciale che l’opinione pubblica può gioca-re nelle campagne per la difesa dei popolitribali e quello della capacità che hanno ipopoli indigeni di resistere a ogni sopraffa-zione rivendicando la possibilità di decide-re autonomamente del proprio futuro.

Determinati a mantenere la propria indi-pendenza, gli Yanomami, insieme al loroleader Davi Kopenawa, chiedono conforza una maggiore autonomia in camposanitario e didattico e restano in primafila nella difesa dell’ambiente e dellaforesta amazzonica.

* in copertina, dall'alto, e in una suggestivavisione notturna a pag. 60/61.

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JarawaIsole Andamane

Si trovano a 1126 km dalla costa orienta-le dell'India, nella Baia del Bengala, ecomprendono 500 isole, delle quali solo27 sono abitate. Sono le Isole Andamane,terra natale di quattro antiche tribù. Illoro aspetto fisico è molto diverso daquello dei vicini abitanti indiani e l’analisidel DNA suggerisce una discendenza afri-cana: i loro antenati potrebbero esseremigrati dal continente nero 60.000 annifa. A differenza degli Onge e dei GrandiAndamanesi, decimati prima dai coloniz-zatori e poi dalle politiche assimilazioni-stiche del governo indiano, i Sentinelesi ei Jarawa sono sempre riusciti a protegge-re i loro territori dalle invasioni. Ma se iprimi continuano a vivere in totale e vo -lontario isolamento dal mondo esternosul l’isola che porta il loro nome, sui Ja -rawa grava oggi una pesante minaccia.

Dopo aver respinto per più di dieci anniogni tentativo di contatto da parte delgoverno indiano, improvvisamente, nel1998, i Jarawa hanno cominciato a usci-re sporadicamente dalla foresta. Da quelpoco che si conosce della loro lingua,pare che a spingerli sempre più versol'interno, fino agli insediamenti dei colo-ni, sia stata la presenza di pescatori difrodo lungo la costa e lo sgomento pro-vocato dal diffondersi di alcune malattieprima sconosciute, introdotte dai brac-conieri. Qualunque sia stata la ragione,da allora la vita è cambiata. L’interventourgente di Survival è riuscito a fermareun piano di sedentarizzazione forzataelaborato nel 1999 e ad ottenere dallaCorte Suprema, nel 2002, l’ordine dichiusura della strada che attraversa lariserva. Nonostante questo, la strada re -sta tutt’ora aperta e il suo traffico au -menta sempre più moltiplicando il ri -schio di contatti fatali. Per ora, i Jarawacontinuano a vivere una vita nomade eindipendente cacciando maiali selvatici evarani, e pescando con l’aiuto di arco efrecce. Ma se le autorità non interverran-no, non potranno resistere a lungo allapressione sempre più incalzante deibracconieri e delle agenzie turistiche at -tratte dalle immagini paradisiache delleloro coste. Un grave pericolo viene anchedal razzismo che si ostina a dipingerlicome primitivi nonostante la sofisticataconoscenza dell’ambiente abbia permes-so loro di prevedere e uscire indenni dalterribile tsunami che nel 2004 uccisemigliaia di persone.

“Io posso essere definito civile, loro no.”Un avvocato indiano che difende i progetti di sedentarizzazione forzata dei Jarawa, 2001

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AborigeniAustralia

13 febbraio 2008, il neo-eletto primoministro australiano Kevin Rudd ha pre-sentato agli Aborigeni le scuse ufficialidel governo per le storiche ingiustiziesubite. Violenze che nel corso di duesecoli hanno ucciso quasi un milione dipersone, prima con lo sterminio direttoe poi, tra il 1930 e il 1969, con la bru-tale politica di togliere i bambini abori-geni ai loro genitori per affidarli allefamiglie dei Bianchi o ai collegi dei mis-sionari. L'obiettivo dichiarato era quellodi sradicare ogni traccia della loro cul-tura e della loro identità. Quella della“Generazione rubata” è una ferita aper-ta nel cuore di tutto il popolo aborige-no che probabilmente niente e nessunopotrà mai rimarginare.

Gli Aborigeni sono uno dei popoli piùantichi e affascinanti del pianeta. Intor-no alla terra ruota tutta la loro esisten-za materiale e spirituale al punto che,nel tempo, il furto e la distruzione deiterritori ancestrali hanno avuto su diloro un impatto sociale e fisico deva-stante. Vittime ancora oggi di persecu-zioni e razzismo, vivono spesso in con-dizioni disumane nelle periferie piùdegradate delle città. Molti affollano lecarceri e soffrono dei tassi di alcolismoe suicidio più alti del paese. Alcuni la -vo rano come braccianti sottopagati nel-le fattorie che hanno cancellato le trac-ce delle loro Vie dei Canti. Ma altri,soprattutto nella parte settentrionaledel continente, rimangono saldamenteradicati nelle terre ancestrali e vivonoancora di caccia e raccolta nonostantesecoli di contatto con i colonizzatori.Sono loro a guidare il movimento dellarinascita aborigena contro un governoche continua a fare di tutto per ostaco-lare il pieno riconoscimento dei lorodiritti. “Il Parlamento” ha dichiaratoKevin Rudd a chiusura del suo discorso,“non permetterà che le ingiustizie delpassato possano ripetersi, mai e maipiù”. Ma resta da vedere come sapràmantenere i suoi impegni a dispetto delfatto che, poco più di un anno fa, l’Au-stralia si sia rifiutata di votare per l’ado-zione della Dichiarazione dei diritti deipopoli indigeni dell’ONU. Lei, sola in sie-me a Canada, Stati Uniti e Nuova Zelandacontro il resto del mondo.

“Oggi rendiamo omaggio ai popoli indigeni di questa terra, custodi delle più antiche culture viventi della storia dell’umanità.Riflettiamo sui maltrattamenti che hanno subito nel passato. Pensiamo in particolare alle sofferenze inflitte alle generazionirubate – oscuro capitolo della storia della nostra nazione. È ormai tempo, per il nostro paese, di scrivere una nuova pagina distoria riconoscendo i torti del passato e guardare così con fiducia al futuro. Presentiamo le nostre scuse per le leggi e le politi-che dei parlamenti e dei governi che si sono via via susseguiti, e che hanno inflitto pene, sofferenze e perdite profonde a quelliche sono nostri compatrioti australiani. Le nostre scuse vanno in particolare ai bambini aborigeni e a quelli delle isole delloStretto di Torres che sono stati tolti alle loro famiglie, alle loro comunità e alle loro terre. Per il dolore, la sofferenza e le feritedi queste generazioni rubate, per quelle dei loro discendenti e delle loro famiglie, noi chiediamo scusa. Alle madri e ai padri, aifratelli e alle sorelle, noi chiediamo scusa per aver separato famiglie e comunità. E per aver in tal modo umiliato e calpestato ladignità di un popolo fiero di se stesso e della propria cultura, noi chiediamo scusa…” Kevin Rudd, Primo ministro australiano, 2008

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Guarani-Kaiowá Brasile

“Viviamo in condizioni disumane, in case minuscole,sopraffatti da una miseria degradante. Non abbiamo nienteda mangiare eppure il nostro popolo ha ancora la forza dicantare con gioia e con speranza… Noi non vogliamo de -naro e ricchezza. Vogliamo solo terra a sufficienza perpoter vivere come preferiamo. Marta Silva Guarani

Quando gli Europei arrivarono in SudAmerica, i Guarani furono uno dei primipopoli a esser contattati. All’epoca conta-vano oltre un milione e mezzo di persone,distribuite tra Paraguay, Brasile, Bolivia eArgentina. Oggi ne sopravvivono pochedecine di migliaia. Nonostante secoli dicontatto con gli stranieri, i 30.000 Guara-ni-Kaiowá del Brasile hanno mantenutola loro peculiare identità e condividonocon gli altri gruppi una religione cheattribuisce importanza suprema alla terra,origine e fonte della vita.

I Kaiowá stanno soffrendo terribilmenteper la perdita quasi totale delle loro terre.Ondate successive di deforestazionehanno convertito quelli che un tempoerano i loro fertili territori ancestrali in unfitto tessuto di ranch e piantagioni disoia e canna da zucchero destinata aibiocarburanti. “Mato Grosso” significa“foresta fitta” ma degli alberi non c’è piùtraccia. Le loro comunità vivono lungo lestrade o ammassate in anguste riserveistituite dal governo ai margini dellecittà: minuscoli appezzamenti di terrenosimili a bindonville, insufficienti asostentarli attraverso la caccia, la pesca el’agricoltura tradizionali. I bambini sof-frono la fame e, per sopravvivere, adulti eragazzi sono costretti a cercare lavorocome manovalanza stagionale nelle pian-tagioni e nelle distillerie d’alcol che cir-condano i loro territori. Ma tre mesi dilavoro in condizioni di semi-schiavitùspesso non fruttano loro che poche deci-ne di dollari a testa.

Rimasti senza prospettive e speranze,negli ultimi vent’anni, centinaia di Gua-rani-Kaiowá si sono suicidati; moltierano ragazzi. La più giovane, LucianeOrtiz, aveva solo 9 anni. Stanchi di aspet-tare l’intervento delle autorità, le comu-nità hanno cominciato a rioccupare leloro terre sfidando le violente reazioni deifazendeiro e dei loro sicari, assoldati perintimidire, picchiare, uccidere. Spesso, ileader delle comunità che rioccupano iloro territori vengono uccisi brutalmentesotto gli occhi dei famigliari.

In concomitanza con l’uscita del filmBirdwatchers di Marco Bechis, Survivalha istituito un fondo a loro sostegno.Ogni euro raccolto li aiuterà a difenderei loro diritti umani, a riconquistare leterre ancestrali e a ripiantare i loro orti.

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Akuntsu Brasile

“Immagina di sentire un rumore… Non hai mai udito nulladi simile prima d'ora. È il rombo di un bulldozer. E poi…improvvisamente arriva, e sotto i tuoi occhi sventra la tua casa,la tua terra. Provi una sola emozione: paura. E il tuo istinto tisuggerisce una sola cosa: scappa, corri e non fermarti!” Un uomo Ayoreo-Totobiegosode appena dopo il contatto, Paraguay.

Il primo contatto con il mondo esterno continua a costituire unenorme trauma per tutti i popoli indigeni, in ogni parte delmondo. Solitamente, oltre il 50% della tribù muore. In alcunicasi, muoiono tutti.

Tra tutti i popoli annichiliti dall’avanzatadel “progresso”, c’è un caso particolar-mente scioccante: quello degli Akuntsu.In Rondônia, nel mezzo di sconfinatepiantagioni di soia e allevamenti, soprav-vive un piccolo fazzoletto di foresta plu-viale. È in quei pochi ettari di terra che 6persone, gli ultimi sopravvissuti della lorotribù, cacciano la selvaggina rimasta.Quando i funzionari del dipartimentogovernativo agli affari indigeni, il Funai,li contattò nel 1995 per sottrarli allo ster-minio, il loro territorio venne subito pro-tetto ma ormai era troppo tardi. Nessunocomprende a fondo la l ingua degliAkuntsu e, pertanto, nessuno può rac-contare l’orrore che queste persone han -no vissuto. Ma si sa che gli allevatori cheavevano occupato la loro terra hannomassacrato tutti gli altri membri dellatribù e raso al suolo le loro case con ibulldozer per coprire ogni traccia dei lorocrimini. Tra poco, il loro genocidio saràcompleto. Un altro popolo, un altro mo -do di vivere, un’altra piccola parte dellameravigliosa diversità del genere umanosarà cancellata per sempre.

Il Brasile vanta una delle più alte con-centrazioni di popoli diversi al mondo. Viabitano almeno 460.000 indigeni, suddi-visi in oltre 225 differenti tribù. Il 12%del Brasile è stato designato come terraindigena ma la sua proprietà resta allostato. Gli Indiani posso ambire solo adabitarla e ad usarla. Insieme al Suriname,il Brasile è l’unico stato sudamericano anon riconoscere i diritti degli Indiani allaproprietà della terra. A differenza diqualsiasi altro paese, inoltre, dispone diun ufficio governativo dedicato agliaffari indiani (il Funai) e di ingenti fondiinternazionali per progetti a loro favore.Nonostante questo, e con poche ecce-zioni, le autorità non proteggono gliIndiani che, durante tutto il ventesimosecolo, si sono estinti mediamente alritmo di una tribù ogni due anni.

In attesa che il loro destino si compia, gliAkuntsu continuano a danzare comemeglio glielo permettono i traumi fisici epsicologici che hanno subito. Alle caviglieportano bracciali tradizionali, fatti di fibrevegetali. Ma al posto delle conchiglie, alcollo indossano collane di plastica ricava-te dai contenitori dei pesticidi gettati viadagli agricoltori che li accerchiano.

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I piccoli popoli del nordSiberia

In Siberia gli inverni sono lunghi e rigidis-simi, e la temperatura può scendere anchefino a -70 C°. Nonostante questo, vi abi-tano 30 tribù diverse. Sono i "piccolipopoli del Nord” che variano numerica-mente da meno di 200 persone, come gliOrok, a oltre 30.000, come i Nenet. Com-plessivamente contano più di 200.000individui e tra di essi ci sono i Ciukci, iDolgan, gli Entsy, gli Evenk, gli Even, gliItel'men, i Ket, i Khanti, i Koryak, i Mansi,i Nanai, i Negidal, gli Nganasan, i Nivkhi,gli Orochi, i Sel'kup, i Tofalar, gli Udege,gli Ul'chi e gli Yupigyt. Nell'estremo sud-est, gli Udege condividono la loro terracon gli orsi e con la rara tigre siberiana,che per loro è sacra. Più a nord, invece,nella tundra, l'ecosistema è così fragileche, per crescere ad altezza-uomo, unalbero può impiegare anche più di 50anni. Per sopravvivervi, i popoli indigenifanno affidamento solo sui branchi direnne, di cui seguono i cicli migratori por-tandosi appresso case mobili fatte di pelli.

Fino alla metà degli anni ’80, molti deipiccoli popoli del Nord furono sedentariz-zati e perseguitati dal regime sovieticoche arrivò persino a uccidere i loro scia-mani e a distruggere sistematicamente leloro culture e le loro lingue. Ma a minac-ciare oggi la loro sopravvivenza sonosoprattutto le industrie petrolifere e delgas. Nella Siberia occidentale, alte fiammebruciano giorno e notte i gas in ecceden-za e il petrolio finisce spesso nei fiumiuccidendo i pesci e la vegetazione. Leforeste sono state tagliate e i pascoli dellerenne devastati. Lo stile di vita e la sussi-stenza dei Khanty sono stati compromes-si dall’estrazione della ghiaia dal letto delfiume Sob. Nel sud-est, le foreste degliUdege vivono sotto la costante minacciadei taglialegna mentre nel nord-est, leterre degli Evenk, degli Even e degli Yuka-gir sono state contaminate dalle radiazio-ni dei test nucleari. Il tasso di inquina-mento delle terre indigene è così alto daaver già compromesso la salute dei popo-li che vi abitano. A causa delle radiazioni,l'incidenza dei casi di cancro ha raggiun-to livelli altissimi e le malattie respiratoriesono molto diffuse. Un bambino EvenkTchita ogni cinque ha la tubercolosi; lametà soffre di disordini neurologici. Lenascite diminuiscono e l'aspettativa divita è di 18 anni inferiore a quella delresto della popolazione russa.

“Non voglio nient'altro che la mia terra. Ridatemi la miaterra, perché io possa pascolare le renne, pescare e cacciare.Ridatemi la terra dove i miei cervi non siano attaccati daicani randagi, dove i miei sentieri di caccia non siano calpestati dai bracconieri o inquinati dai veicoli, dove i fiumi e i laghi non siano macchiati di petrolio. Voglio unaterra in cui la mia casa, i miei santuari e le tombe dei mieicari possano restare inviolati. Ridatemi la mia terra, nonquella di altri. Anche soltanto un pezzettino, ma che siadella mia terra”. Anziano Khanty, 1989

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Enawene Nawe Brasile

“Non avremmo mai pensato che potesseroarrivare così in tanti. Fino a cinque annifa non c’era nessuno… Sono sempre piùnumerosi e, un ranch dopo l’altro, sistanno avvicinando sempre più alle rivedel fiume. Questi inuti sono molto diversida noi. Distruggeranno tutto e così non cisaranno più pesce né feste né antenati, enoi moriremo. Noi, gli Enawene Nawe,non distruggeremmo mai la foresta.Vogliamo che gli animali vivano e deside-riamo tanto che la terra si conservi bellaper sempre.” Kawari, Enawene Nawe, parla conFiona Watson di Survival, 2005

Portano la frangetta corta e lunghicapelli sulla schiena, rasati appena soprale orecchie. Non appena arriva la stagio-ne propizia, tutti i componenti del grup-po di sesso maschile, bambini e anzianicompresi, si trasferiscono negli accam-pamenti di pesca. Costruiscono grandidighe di tronchi lungo i fiumi, catturanoil pesce con nasse di giunchi e dopoaverlo affumicato, lo riportano al villag-gio con le canoe. A volte restano lontaniper mesi. Anche la raccolta del miele èaffidata agli uomini e viene celebratacon la festa del keteoko. Dopo avernetrovato grandi quantità, i cercatorifanno finta di rientrare a casa a manivuote. Le donne li canzonano ma poil’inganno viene svelato e tutti iniziano adanzare.

Gli Enawene Nawe sono poco meno di500 e vivono tutti insieme in un unicovi l laggio composto di grandi casecomuni. Fatto molto insolito per unpopolo amazzonico, non cacciano e nonmangiano carne rossa. Sono entrati incontatto con il mondo esterno solo nel1974, quando furono raggiunti dai mis-sionari gesuiti, ma, da allora, continua-no a limitare al minimo le interazionicon l’esterno. Il loro isolamento vienerotto soprattutto nei momenti del biso-gno, quando devono affrontare leminacce che gravano sul loro futuro.Alcune delle loro zone di pesca sonostate invase da allevatori e coltivatori disoia che tagliano gli alberi e inquinano ifiumi con i pesticidi. Blairo Maggi, unodei più grandi produttori mondiali disoia nonché governatore dello stato delMato Grosso, ha costruito una stradaillegale nella loro terra; inoltre, il gover-no ha annunciato il progetto di costru-zione di un vasto complesso idroelettri-co sul fiume Juruena, che scorre attra-verso le terre indigene. Con il sostegnodi Survival, la tribù ha lanciato unagrande campagna internazionale perproteggere tutta l’area e far includerenel loro territorio il bacino del Rio Preto,un cruciale e delicato ecosistema rima-sto escluso dalla demarcazione effettua-ta dal governo nel 1996. Dalla preserva-zione della vita ittica del fiume dipen-dono non solo il sostentamento dellatribù ma anche la sopravvivenza dellasua peculiare identità.

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Popoli incontattatiNon è dato sapere esattamente quanti siano masappiamo con certezza che esistono: lo provanoalcuni incontri fortuiti e le tracce che lasciano die-tro di sé: frecce, utensili e case abbandonate infretta e furia. Anche se il numero dei membri diogni singolo popolo varia moltissimo, da un solosopravvissuto fino a cento o duecento persone,tutto lascia pensare che siano un centinaio. In Bra-sile ne sono stati individuati almeno 40, 15 inPerù. In Asia li troviamo nelle Isole Andamane e inNuova Guinea. Il resto vive tra Bolivia, Colombia,Ecuador e Paraguay. Ognuno di questi popoli èunico e le loro lingue, le loro culture e le loro visio-ni del mondo sono insostituibili. Sono sicuramentei popoli più vulnerabili del pianeta.

Dei popoli incontattati si sa molto poco se nonche il loro isolamento è sempre frutto di una scel-ta obbligata, compiuta per sopravvivere alle inva-sioni. Molti hanno sofferto la perdita dei loro cariper mano dell’uomo bianco nel corso di decennidi massacri silenziosi o per effetto del dilagare dimalattie introdotte dall’esterno come influenza,morbillo e varicella. Spesso sono essi stessi deisopravvissuti, o discendono da sopravvissuti adatrocità commesse in epoche precedenti; violenzeraccapriccianti che hanno lasciato segni indelebilinella loro memoria collettiva inducendoli a rifug-gire da ogni contatto con il mondo esterno. Tal-volta hanno, o hanno avuto, sporadici rapporticon i popoli indigeni più vicini ma, qualunque siala loro storia personale, nella maggior parte deicasi, la loro fuga continua ancora oggi.

Sono circondati su tutti i fronti, in ogni paese delmondo. Le compagnie petrolifere e di disbosca-mento invadono i loro territori in cerca di risorsenaturali; i coloni usurpano le loro terre e le conver-tono in allevamenti di bestiame e aziende agricole.Le strade aprono le porte a bracconieri, missionarifondamentalisti, epidemie e turisti. Le foreste dacui dipendono per il loro sostentamento vengonotagliate a ritmi vertiginosi; la selvaggina è semprepiù scarsa. Anche se cercano di sopravvivere all’a-vanzata della “civilizzazione” rifugiandosi in luo-ghi sempre più remoti, mantenersi in salvo stadiventando ogni giorno più difficile.

A dispetto di quanti pensano che siano reliquiedel passato, reperti archeologici destinati inevita-bilmente all’assimilazione culturale ed economica,oppure all’estinzione, la storia dimostra che lad-dove le loro terre vengono riconosciute legalmen-te e protette in modo adeguato, il loro futuro èassicurato. Decidere se e quando interagire con glialtri è una decisione che spetta solo a loro. Nelfrattempo, a noi resta un solo, difficile compito:quello di fare in modo che il loro inequivocabileammonimento al mondo estero – “State alla larga!”– venga rispettato.

Le immagini della tribù amazzonica isolata fotografata nel maggio 2008 in Brasile, appena al di là delconfine peruviano, hanno avuto una copertura mediatica senza precedenti. Nonostante il tono sensazionalista con cui alcune testate hanno diffuso la notizia, José Carlos dos Reis Meirelles, il funziona-rio del Funai che ha effettuato il rilevamento aereo, ha certamente raggiunto l’obiettivo di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale sulla minaccia che grava sui popoli della zona. L’esistenzadelle tribù incontattate non è una leggenda paragonabile a quella del mostro di Loch Ness, come afferma-to tempo fa dal presidente del Perù Alan Garcia e dai portavoce della compagnia petrolifera di stato nel tentativo di svicolare dalle proprie responsabilità. E non è nemmeno “una bufala”. A settembre, il giorna-le britannico The Observer, responsabile di aver insinuato che la notizia fosse una farsa, ha presentato lesue scuse ufficiali ai lettori e a Survival per aver fornito una versione “menzognera e distorta” dei fatti.

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Papuasi Papua, Nuova Guinea

La Nuova Guinea è la seconda isola piùgrande del mondo. Vanta una sorpren-dente ricchezza di culture e custodisce il15% delle lingue conosciute sul pianeta.Papua, la metà occidentale dell'isola, èabitata da più di 2 milioni di persone. Isuoi popoli indigeni sono almeno 312 maè accertato che ve ne siano anche altri,forse 40, che non hanno mai avuto con-tatti con l'esterno.

Gli Olandesi colonizzarono Papua nel1714 ma la loro presenza sul territorio fusempre limitata. Nel 1950, quando cedet-tero all'Indonesia le colonie orientali,esclusero Papua con l'intento di prepararlaall’indipendenza. I Papuasi cominciarono ascegliersi una bandiera e un sistema digoverno. Ma l'Indonesia non sembravadisposta a rinunciare al territorio nono-stante i suoi abitanti, di origine melanesia-na, non avessero con lei nessun legameetnico né geografico. Sottoposti alle pres-sioni degli Stati Uniti, che erano spaventa-ti dalla prospettiva di un’alleanza dell’In-donesia con l’Unione Sovietica, nel 1962gli Olandesi accettarono un accordo me -diato dall’ONU: avrebbero continuato adamministrare il paese in attesa di un refe-rendum con il quale i Papuasi avrebberopotuto scegliere fra indipendenza o an -nessione. Finalmente, nel 1963, ebbe luo -go l'Atto di Libera Scelta. Al voto furonoperò ammesse solo 1.025 persone che, conuna pistola puntata alla tempia, votaronoal l'unanimità per l’Indonesia. L'assuntorazzista che i Papuasi fossero troppo “pri-mitivi" per decidere da soli del loro futuroin dusse la comunità internazionale a sor-volare sulla manipolazione del voto.“Nonpos so immaginare che i governi di Stati Uniti,Giappone, Olanda o Australia possano met-tere a rischio le loro relazioni con l’Idonesiaper una questione di principio che riguardaun numero relativamente piccolo di uominimolto primitivi" dichiarò un diplomaticobritannico nel 1968. Il risultato sono stati40 anni di oppressioni e brutalità che han -no già ucciso migliaia di persone e che, perferocia e vastità di proporzioni, sono clas-sificati come i peggiori abusi perpetratioggi contro i popoli tribali del mondo.

Nelle regioni montuose di Papua abitano tri -bù spesso chiamate collettivamente Kotekasdal nome delle zucche vuote con cui gli uo -mini coprono il pene. Tradizionalmente alle-vano maiali, coltivano patate dolci, caccianoe raccolgono radici, bacche e noci. Tra loroci sono i Dani e gli Amungme.

“Di Amungme mi è rimasto solo il nome. Le montagne, i fiumi, le foreste, ora appartengono tutti al Governo e alla Freeport.Io non ho più nulla." Leader Amungme

Nella terra degli Amungme sorge la Grasberg, la più grande miniera di rame e oro del mondo, di cui la Freeport è la proprietaria di maggioranza. Dopo anni di campagne da parte di Survival e altre organizzazioni umanitarie, la Banca Mondiale ha finalmente smessodi finanziare alcuni dei progetti di integrazione più brutali concepiti dal governo indonesiano. Tuttavia, le abbondanti risorse naturali diPapua continuano a essere sfruttate intensamente sotto la protezione dell’esercito. Omicidi, sequestri di persona e torture sono all’ordine del giorno. Nelle aree dove la presenza dei militari è più massiccia, centinaia di persone muoiono di fame o malattia perchéhanno troppa paura per uscire dai loro nascondigli. Donne e bambine subiscono sistematicamente stupri singoli e di gruppo, fin dai 3anni di età. Nonostante questo, continuano a resistere e combattere invocando con voce sempre più forte il loro diritto di decidere delloro futuro e di vivere in pace nelle loro terre.

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Penan Sarawak

“In questa terra ci sono le nostre radici. Questa terra è l'ori-gine dei nostri nonni, delle nostre madri e dei nostri padri, èl'origine dei nostri antenati sin dalla notte dei tempi. Comepuò il governo sostenere che non è la nostra terra?”Uomo Penan, Sarawak

I Penan, i gentili nomadi del Borneo,vivono nell'entroterra dei fiumi delSarawak. Le loro foreste, intersecate daun labirinto di percorsi di caccia e vie discambio, sono delimitate da ruscelli,fiumi, rocce e montagne, a ognuno deiquali i Penan hanno dato un nome pro-prio. Nella loro società egualitaria nonvigono gerarchie e nessuno può costrin-gere un'altra persona a fare qualcosa. Ibambini aiutano a procurare il cibo, acacciare, a raccogliere legna da ardere, esono considerati membri effettivi dellasocietà; per questo, godono fin da pic-coli dei privilegi che ne derivano. Ai cac-ciatori è proibito mangiare un solo boc-cone in più di quanto non venga datoagli altri, qualunque sia la dimensionedella preda, e la condivisione viene dataper scontata al punto che nella loro lin-gua non esiste una parola per dire “gra-zie". I Penan fanno grande uso del sago,una palma selvatica che cresce moltorapidamente. Sbriciolando e filtrando ilsuo legno ottengono una farina ricca diamido che, insieme alla carne e ai fruttiselvatici, garantisce loro una delle dietepiù sane del mondo.

A partire dai primi anni '70, tutti i popo-li tribali del Sarawak sono stati sfrattatidalle loro terre per far spazio alle com-pagnie del legname, alle dighe e allepiantagioni di palma da olio. Costretti avivere in villaggi, le tribù si sono pro-gressivamente ridotte in condizione diestrema povertà. Anche i 10.000 Penansono stati in parte sedentarizzati macontinuano a dipendere in modo sostan-ziale dalla foresta e circa 500 di loroconducono ancora una vita completa-mente nomade. E così, mentre le loroforeste vengono abbattute ad uno deiritmi più alti del mondo, mentre i fiumisi riempiono di terra, l'inquinamentouccide i pesci e la selvaggina fugge via, iPenan resistono strenuamente alle ma -lattie portate dall'acqua inquinata e alleviolenze perpetrate dai dipendenti dellecompagnie del legname. Dal 1987, uo -mi ni, donne e bambini hanno comincia-to a erigere barricate umane lungo le viedi accesso dei bulldozer, presidiandolitalvolta per mesi. Il governo rispondepicchiando e incarcerando i dimostranti.Ma i Penan e le altre tribù restano deter-minati a lottare per impedire la distru-zione dell'ultima parte di foresta rimasta.

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Dongria KondhIndia

La Vedanta è una delle 100 società piùcapitalizzate del mondo. È quotata alloStock Exchange di Londra (FTSE-100) e adetenere la maggior parte delle sue quoteazionarie sono il miliardario indiano AnilAgarwal e alcune tra le più grandi bancheeuropee. Contro di lei, il piccolo popolodei Dongria Kondh sta costruendo freccee asce con il fermo intento di impedirle didevastare la sua montagna sacra.

Si sono dati il nome di Jharnia, ovvero“protettori dei torrenti” perché a lorospetta il compito di proteggere NiyamDongar e i fiumi che sgorgano dalle suedense foreste. Contano circa 8.000 per-sone e costituiscono una delle tribù piùisolate del continente indiano. Vivono inpiccoli villaggi lungo i pendii delle collinedi Niyamgiri, un territorio di spettacolarebellezza, coperto di dense foreste popo-late da una grande varietà di animali tracui tigri, elefanti e leopardi. Sui fianchidelle colline, i Dongria coltivano le messi,raccolgono frutti spontanei e selezionanofoglie e fiori da vendere al mercato. Sullacima di Niyam Dongar, la montagna sacrache sovrasta le colline, dimora il Dio dacui i Dongria discendono. Per loro non èsolo un santuario ma anche un sito d’im-portanza cruciale per l’intero ecosistemadelle colline. È la montagna, infatti, checonsente ai numerosi corsi d’acqua e allalussureggiante foresta che sostiene iDongria di continuare a prosperare.

Purtroppo, i Dongria Kondh non sono isoli ad avere tanto a cuore la montagna.Sulla sua cima, infatti, sono stati indivi-duati vasti giacimenti di bauxite, unaroccia sedimentaria da cui si estrae l’al-luminio. E la Vedanta si sta preparandoad aprirvi una grande miniera a cieloaperto. Il progetto prevede il disbosca-mento della vetta della montagna e lacostruzione di strade e nastri trasporta-tori lungo i suoi fianchi. Esplosivi e mac-chinari pesanti potrebbero restare infunzione giorno e notte profanando einquinando l’area in modo irreversibile.Per i Dongria Kondh sarebbe la fine.Disposti a morire pur di impedire la con-versione di Niyamgiri in una zona indu-striale desolata, i Dongria Kondh hannocominciato a organizzare proteste dimas sa, a bloccare le strade e a studiareun ricorso alla Corte Suprema per viola-zione dei loro diritti culturali e religiosi.Non sono disposti ad arrendersi e Survi-val continuerà a restare al loro fianco.

“Non possiamo vivere senza Niyamgiri. Come può un pesce vivere senz’acqua?” Suresh Wadaka, anziano Dongria Kondh

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Nukak Colombia

Ewapa, la donna più anziana della tribù deiNukak, è morta di malaria e malnutrizioneil 28 aprile 2008. È deceduta nella cittadi-na di San Josè, dove ha trascorso gli ultimianni della sua vita da rifugiata. Disperata edepressa, era ridotta pelleossa.

I Nukak sono un popolo di cacciatori rac-coglitori nomadi e vivono in piccoli grup-pi famigliari presso le sorgenti dei fiumiInírida e Guaviare, nell’Amazzonia colom-biana. Per cacciare usano lance e cerbot-tane lunghissime, capaci di scagliare agrande distanza, e con enorme precisione,le frecce intinte nel curaro. Si spostano incontinuazione e, quando sono stanchi,costruiscono ripari leggeri fatti di bastonie foglie di palma, appena sufficienti perappendervi sotto un’amaca e proteggere ilfocolare dalla pioggia.

La tribù è entrata in contatto con il mondoesterno nel 1988. Allora contava 1.200persone. Oggi ne sopravvivono meno dellametà. A ucciderli sono state violenze e ma -lattie introdotte dagli invasori al momentodel contatto. Nonostante le difficoltà, illoro futuro sembrava comunque assicura-to. A seguito di una grande campagna diSurvival, infatti, nel 1991 il loro territorioera stato dichiarato area protetta. Ma nel2005, quando l’area è stata progressiva-mente invasa dai coltivatori di coca, lasituazione è precipitata. Rapidamente, laforesta dei Nukak si è trasformata in teatrodi guerra. A contendersi il controllo deltraf fico della droga sono arrivate ingentiforze armate appartenenti alle FARC, iguerriglieri di sinistra, e all’AUC, i paramili-tari di destra. L’esercito regolare, soprag-giunto a presidiare l’area, ha cominciato acospargere diserbanti sulle piantagionicontaminando i terreni e le risorse alimen-tari degli Indiani. Ritrovatisi improvvisa-mente soli nel mezzo dei fuochi incrociatidi una battaglia sempre più violenta, a pic-coli gruppi, i Nukak hanno cominciato afuggire e ad abbandonare le loro terre incerca di aiuto fino al drammatico esodoverso San Josè. Era il marzo del 2006.

Da quel giorno, più della metà dei Nukaksopravvive dell’inefficace assistenza go -vernativa nei sobborghi della cittadina onell’insediamento allestito provvisoria-mente dalle autorità in una zona poveradi risorse naturali. Cercando di resisterealla malnutrizione, all’influenza e al mor-billo che hanno cominciato a mietere vit-time, i Nukak aspettano disperatamente dipoter tornare a casa.

“Usciti dalla foresta, entusiasti della civiltà. I Nukak, sbucati dall’età della pietradirettamente sulla piazza di una cittadina colombiana, apprezzano la novità.” New York Times, 11 maggio 2006

A poche ore dalla sua pubblicazione, l’articolo del New York Times fu ripreso dai principali quo-tidiani di tutto il mondo suscitando grande sgomento nei sostenitori dei popoli indigeni. Anzi-ché correggere la superficiale e fuorviante interpretazione del drammatico esodo dei Nukak for-nita dal giornale americano, infatti, la stampa internazionale ne accentuava i toni sensazionali-sti. I Nukak venivano invariabilmente descritti come “primitivi stanchi di vivere allo stato sel-vaggio”, come “uomini dell’età della pietra” decisi ad andare finalmente “a fare shopping incittà”. Le cornici esotiche in cui le tragedie dei popoli indigeni vengono troppo spesso confina-te dai media, costituiscono una grave minaccia alla loro sopravvivenza. Contribuiscono in modoirresponsabile ad alimentare stereotipi e pregiudizi utilizzati ancora oggi da governi e multina-zionali per sedentarizzarli e aiutarli, “per il loro bene”, a “stare al passo con il resto del mondo”.

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Wichí Argentina

Vanno a caccia di iguane, daini e volpi.Coltivano fagioli, zucchine, meloni emais, e raccolgono erbe selvatiche comeil chaguar, che filano e tessono. Durantela stagione secca, quando il livello deifiumi è basso, vivono dei pesci che cattu-rano con una rete tesa tra due pali.Immersi nell’acqua fangosa fino alla vita,percepiscono la presenza del pesce scru-tando i movimenti dell’acqua sulla super-ficie. A quel punto gettano la rete e,nuotando verso il fondo, avvolgono lapreda nella trappola.

La vita dei 40.000 Wichí nell’arida e sten-tata foresta del Chaco argentino non èmai stata tanto dura. In meno di un seco-lo, coloni e allevatori hanno trasformatole loro rigogliose foreste brulicanti di vitain un deserto sabbioso e sterile. La terra èmorta e loro muoiono di fame. Ma non so -no disposti ad arrendersi. Da anni aspet-tano che il governo renda attuativo undecreto firmato nel 1991 dal governatoredella provincia di Salta che ha riconosciu-to il loro diritto alla proprietà collettivadella terra ancestrale. Nel frattempo, ladeforestazione continua e si moltiplicanoi progetti di sfruttamento commercialedella regione.

Nel 1990, quando decisero di passareall’azione, i Wichí fondarono una propriaassociazione e la chiamarono ThakaHonat, “la nostra terra”. Quindi, con ilsostegno tecnico-economico di Survivale di due antropologi di fiducia, comin-ciarono a censire le loro comunità, aregistrare la storia orale della loro vitanel Chaco prima e dopo la colonizzazio-ne e, cosa più importante, a compilareuna mappa dell’intera regione per mo-strare tutti i luoghi usati dal loro popoloda tempo immemorabile. Volevano pro-vare in modo inconfutabile la loro inti-ma conoscenza del territorio e rivendi-carne la proprietà. E ci riuscirono. Il 7agosto del 1991 il governatore di Saltaricevette formalmente il rapporto e lamappa. Pochi mesi dopo fu firmato ildecreto.

Oggi i Wichí hanno elaborato sofisticatiprogetti di recupero delle loro terre e deiloro saperi botanici e farmacologici.Confidano di poter riavere presto la loroterra ma fino a quando questo nonavverrà, Survival continuerà a restare alloro fianco.

“È stata un'iguana a mettermi nei guai. Una mattina di quattro anni fa, io dissi a mio figlio: ‘Vieni, andiamo a caccia di iguana’. Ci mettemmo in cammino. Uno dei nostri cani sentì l'odo-re di un'iguana, la trovò e la stanò. L'avevo già uccisa e messa nel sacco quando mio figlio midisse: ‘C'è un ragazzo bianco che viene da questa parte...’ Era in bicicletta e aveva con sé quat-tro grossi cani e una pistola. ‘Cosa fate qui?’, chiese. ‘Io sono il proprietario di questa terra enon ci voglio Indiani. Vi proibisco di cacciare da queste parti.’ Poi mi sparò mirando alla testa.Era a cinque metri e mi sparava come se fossi stato un giaguaro. I primi due colpi mi manca-rono... Il colpo successivo mi sfiorò la testa e l'esplosione mi squarciò il sopracciglio. Ora daquell'occhio sono mezzo cieco. Il quarto colpo mi colpì alla spalla. Il proiettile è ancora lì...Cercò di spararmi ancora ma la sua pistola si inceppò... Allora ci aizzò contro i cani. Uno diloro mi azzannò la gamba e penetrò con i denti fino al tendine... Il ragazzo prese il machete ementre io tendevo il braccio in fuori per difendermi, mi tagliò; una fetta di carne rimase pen-zoloni... Se non fosse stato per mio figlio, che riuscì a disarmarlo, mi avrebbe ucciso.”Dal racconto di Qatsí (“Colui che sta a casa") a Survival, 1991.

Due anni dopo, il figlio di Qatsí morì avvelenato. Qatsí è convinto che sia stata la madre di quel ragazzo.

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Masai Kenia, Tanzania

Allevano mucche, cammelli, pecore e ca -pre, e occupano vaste aree dell’Africa o -rien tale: circa il 70% del Kenia e il 50% diUganda e Tanzania. Generalmente, abita-no in zone molto aride dove i fiumi sonopochi e le piogge scarse. Ciononostante,un tempo riuscivano a superare anche legrandi siccità attraverso una sapientegestione collettiva delle terre. Utilizzandole risorse in modo intermittente e diversifi-cato, i popoli pastori hanno contribuito acreare e mantenere l’ecologia della savanae la sua fauna straordinaria. Ma oggi illoro mondo è in pericolo.

Le terre dei Masai del Kenia sono stategradualmente trasformate in aziende agri-cole e allevamenti di bestiame a partiredall’epoca coloniale. Via via sono statirelegati nelle aree meno fertili del paese eil loro nomadismo è stato fortemente limi-tato. Ma a sacrificare i loro ultimi pascolinel nome della conservazione è oggi ungoverno che non esita a ricorrere allafrode per privarli dei loro diritti territorialie che risponde col silenzio alla loro richie-sta di poter partecipare alla gestione dellearee protette. Nel 1958, quando vennerosfrattati da quello che è oggi il Parco Na -zionale del Serengeti, ai Masai venne pro-messo un indennizzo e il diritto di vivereper sempre presso il cratere di Ngorongo-ro, loro terra ancestrale. Ma gli impegninon sono ancora stati mantenuti.

Per i Masai, l’allevamento del bestiame èciò che rende bella la vita, e carne e lattesono i loro cibi preferiti. Fin da piccoli,maschi e femmine si preparano ad assu-mere ruoli diversi nella società, organiz-zata secondo l’età dei sui componenti.Mentre le bambine affiancano le madrinella ricerca di acqua e legna, i bambiniseguono gli anziani lontano dai villaggiper apprendere le sofisticate tecnichedella pastorizia. A sedici anni possonopassare al rango di Guerrieri, cui spettaanche il compito di difendere le mandrieda predatori e ladri. Ma per diventareAnziani devono raggiungere la maturitànecessaria per partecipare alle assembleedel villaggio e contribuire in prima per-sona al mantenimento dell’armonia tra ivari gruppi d’età e tra le varie tribù.

Costretti, per sopravvivere, ad adottareuno stile di vita sempre più stanziale, apraticare l’agricoltura e vendere artigianatoai turisti, i Masai continuano a lottare per iloro diritti insieme agli altri popoli pastori.

“Tratta bene la Terra! Non è un’eredità dei nostri padrima un prestito dei nostri figli”. Antico detto masai, Kenia.

Per i Masai di Kenia e Tanzania, Endoinyo Ormoruwak, la “Collina degli Anziani", è un luogo sacro. Si trova a metà strada tra la montagna bianca, il Kilimangiaro, e la montagnanera, il Monte Meru, ed è il luogo in cui le forze opposte chequeste montagne rappresentano si incontrano e riconciliano.Qui, ogni 15 anni circa, si svolge il rituale di iniziazioneOlng'eherr nel corso del quale i Guerrieri diventano Anziani.Oggi, la collina è stata invasa dai coloni e il governo minacciadi toglierne l’accesso ai Masai.

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Inuit Russia, Groenlandia, Alaska, Canada

Gli antenati degli Inuit contemporaneigiunsero in Alaska prima che il ponte diterra dello stretto di Bering venisse som-merso. Erano abili cacciatori di balene e difoche e, oggi come allora, la caccia conti-nua ad avere per loro un'importanza vitale.Gli Inuit onorano gli animali con scultureche li hanno resi famosi. Foche, balene, orsipolari e gufi delle nevi vengono scolpiti inossa di balena, caribù o steatite. Alcunecomunità hanno fondato cooperative d'artegrafica dove pietre, ceppi e tecniche occi-dentali vengono usati per dare all'arte inuitnuovi mezzi espressivi. Durante l'inverno,quando il Sole non sale al di sopra dell'o-rizzonte, le famiglie trascorrono moltotem po in casa. Le donne confezionano sti-vali di pelle di foca cucendo i vari pezzisenza forare la pelle da parte a parte inmodo da renderli impermeabili. Gli uominipreparano l'attrezzatura per la caccia. Oltrea cacciare, molti Inuit lavorano per l'indu-stria petrolifera e le banche oppure inse-gnano nelle scuole locali.

Protetti da un ambiente tanto inospitale, gliInuit hanno vissuto relativamente indistur-bati fino al 1968, quando fu scoperto ilpetrolio nella baia di Prudhoe. Tutto d'untratto, il loro mondo cambiò. Gli attentatiall’ambiente e alla fauna selvatica si aggra-vavano di giorno in giorno e mentre le tradi-zioni che costituivano le fondamenta dellavita inuit si sgretolavano, cominciarono adilagare alcolismo e suicidi. Sotto la spintadei movimenti ambientalisti, negli anni ’80vennero messe al bando la caccia alla foca ealla balena e l’economia di sussistenza degliInuit subì un tracollo devastante. Conquista-re il diritto alla caccia di sussistenza, se purvincolata, ha richiesto agli Inuit lunghe efaticose trattative, durante le quali sono statiassistiti da Survival. Il primo aprile del 1999,inoltre, dopo 15 anni di negoziati, il governocanadese ha offerto agli Inuit del Nord-Ovest il diritto di proprietà su di un quintodella loro terra (Nunavut) e il permesso dicacciare e pescare in un'altra zona – finchénessun altro la vorrà! Oggi, nei villaggi pre-fabbricati, costellati di antenne televisive emotoslitte, la cultura inuit rimane comun-que forte: nelle scuole si parla sia l’inuktitutsia l’inglese e le stazioni radiotelevisive tra-smettono in lingua. Ma senza il pieno rico-noscimento dei loro diritti alla terra, alla vitae all’autodeterminazione sull’intera patriaartica, il recupero dei loro gravi problemisociali resterà incerto.

“Prima, a scandire i ritmi della nostra vita era il susseguirsidelle stagioni. Ad agosto raccoglievamo il muschio per iso-lare le case di terra. A settembre ci preparavamo all’arrivodella neve. Ora, la nostra sola preoccupazione mensile èl’arrivo del sussidio governativo. È arrivata la bolletta deltelefono? C’è l’affitto da pagare? Oggi, i nostri mesi sonoscanditi dalla preoccupazione dei soldi”.Ootoovah, donna inuit.

Gli Inuit sono circa 110.000 e la loro terra natale si estende dallapunta nordorientale della Russia fino alla Groenlandia passandoattraverso l’Alaska e il Nord del Canada.

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Jumma Bangladesh

“Se abbiamo un raggio di speranza per la nostra sopravvivenza,è solo grazie al vostro impegno.” Portavoce Jumma rivolto ai sostenitori di Survival, 1999

Nell'aprile 1992, con un bollettino d’Azione Urgente, Survivaldenunciò il massacro di 1.200 Jumma del villaggio di Logang,bruciati vivi dai militari. Nel novembre 1993, l'esercito e i colonibengalesi si allearono per disperdere una manifestazione pacifi-ca che si stava svolgendo a Naniachar: massacrarono oltre 100indigeni e ne ferirono più di 500.

Le Chittagong Hill Tracts (CHT) sonocolline ripide e scoscese lungo le qualigli abitanti originari praticano un sofi-sticato sistema di coltivazione a inter-mittenza. Tagliano e bruciano la vege-tazione di superficie prima di piantareuna mistura di sementi che fornisceloro una gran varietà di cibo per tuttol'arco dell'anno. Al termine del ciclo, sispostano su nuovi pendii per dare allaterra il tempo di rigenerarsi. Questometodo di coltivazione è conosciuto alivello locale come “jhum”, da cui ilnome collettivo di “Jumma” assegnatoalle tribù.

Gli Jumma delle CHT sono una popo-lazione di circa 600.000 persone, sud-divise in 11 tribù diverse. Si differen-ziano dalla maggioranza dei Bengalesidel Bangladesh per cultura, religione,lingua e origini etniche. Le tribù piùnumerose sono quelle dei Chakma(350.000) e dei Marma (140.000),entrambe buddiste. L' importanzaattribuita dai buddisti ai testi sacri hacontribuito a far sì che fra le tribùdelle CHT ci sia il più alto grado dialfabetizzazione del paese.

Il governo del Bangladesh considera leCHT come terre disabitate su cui tra-sferire le masse dei coloni bengalesipoveri. Cinquant’anni fa, gli Jummaerano gli unici abitanti delle colline,oggi sono diventati una minoranzanella loro stessa terra. Oltre ad esseresfrattati dagli invasori, ai quali vengo-no assegnate le terre migliori, gliJumma sono anche stati sconvoltidalla violenta repressione dell’esercitobengalese. Dal 1971, anno in cui ilBangladesh ha conquistato l’indipen-denza, gli Jumma vengono sistemati-camente assassinati, torturati, stupra-ti, e i loro villaggi bruciati. Per difen-dersi dagli attacchi di questa politicagenocida, gli Jumma hanno dato vitaad un partito politico, la Jana Samha-ti Samiti che, anche grazie alle pres-sioni di Survival, nel 1997 è riuscito astrappare al governo la firma di unaccordo di pace che ha posto fine alleatrocità peggiori. Nonostante questo,periodicamente gli Jumma continuanoad essere espropriati delle loro terre ea subire atroci violenze.

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Boscimani Botswana

New Xade sorge a 100 km a ovest dellaCentral Kalahari Game Reserve. È uno dei“campi di reinsediamento" in cui il Gover-no del Botswana ha trasferito a forza i Bo -scimani Gana e Gwi tra il 1997 e il 2002.Lì, il più antico popolo del mondo lottaper sopravvivere con le magre razioni dicibo che il governo gli distribuisce tradisperazione, alcolismo e malattie primasconosciute, compreso l'Aids. Per il gover-no, i campi dispensano servizi e sviluppo;per i Boscimani sono luoghi di morte.

I Boscimani sono gli abitanti originari del-l'Africa meridionale e per decine di mi -gliaia di anni sono riusciti a sopravviverein uno degli ambienti più ostili della Terragrazie alla loro intima conoscenza dellasua flora e della sua fauna. Sopravvissutial genocidio che ha annientato moltetribù vicine, i Gana e i Gwi sono rimastipraticamente gli unici a condurre una vitain larga misura autosufficiente, basatasulla caccia e sulla raccolta. O almeno cosìè stato fino a pochi anni fa, quando ilGoverno ha cominciato a sfrattarli con laforza dalla Riserva del Kalahari, istituitanel 1961 proprio per proteggere loro e laselvaggina da cui dipendevano. Il governoaveva già cercato di persuadere i Boscima-ni ad andarsene “spontaneamente” me -diante intimidazioni, torture e restrizionialle loro licenze di caccia. Ma presto, difronte alla loro resistenza, si rese contoche cercare di rendergli la vita difficilenon sarebbe servito allo scopo. I Boscima-ni rifiutarono di spostarsi anche quando leautorità cementarono i loro pozzi e svuo-tarono le scorte d'acque nella sabbia proi-bendo a chiunque, inclusi i turisti, di por-tare loro soccorso.

Dopo anni di sofferenze, il 13 dicembre2006, l’Alta Corte del Botswana ha final-mente chiuso il processo più lungo e costo-so della storia del paese nonostante a in -tentarlo siano stati proprio i suoi cittadinipiù poveri e marginalizzati. Con una sen-tenza che sta già facendo storia e giurispru-denza, i giudici hanno definito illegali eincostituzionali i trasferimenti operati dalgoverno e hanno riconosciuto ai Boscimaniil diritto di vivere per sempre nelle terreancestrali, e di praticarvi liberamente la cac-cia e la raccolta. Ma le autorità continuano aostacolare in ogni modo il ritorno a casa deiBoscimani negando loro anche l’accessoall’acqua. La campagna di Survival continua.

“Conoscete la questione dei Basarwa (Boscimani)... È paragonabile a quella degli elefanti: tempo fa abbiamo avutoun problema simile quando volevamo eliminarne un certo numeroma in tanti si opposero.” Margaret Nasha, ministro del governo locale, 26 febbraio 2002

Secondo il governo del Botswana, il trasferimento dei Boscimani neicampi di reinsediamento sarebbe avvenuto spontaneamente e sarebbestato legittimato dalla necessità di proteggere la fauna del Kalahari edi fornire benessere e sviluppo a “creature dell’età della pietra” altri-menti “destinate a estinguersi come il Dodo”. Ma è ormai evidenteall’intera comunità internazionale che la vera ragione sono i vastigiacimenti di diamanti individuati all’interno della Riserva.

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“Sono nato qui, e vivo in questa terra da moltissimotempo. A crearci è stato Gugama, il creatore, in untempo tanto lontano che non posso sapere quandoavvenne. Anche gli animali sono stati creati da Dio,per noi. Questo è il nostro posto, la nostra casa, e quitutto ci dà vita. Ma adesso accade questa cosa deltrasferimento... io non conosco tutta la verità alriguardo. Loro arrivano e dicono che devo trasferirmi,che questo luogo è riservato agli animali. Ma perchéio devo andarmene se gli animali possono restare? Sono nato in questa terra, insieme all’antilope. E dob-biamo restare insieme. La mia forza è la forza deglianimali che un tempo mio padre cacciava e mia madrecucinava. Gli animali mi hanno dato tutto quello chevedi. Sono nato con loro e devo stare con loro. Questoè mio diritto di nascita: qui dove giace il corpo di miopadre, nella sabbia. Chi sono costoro che vogliononegarmi la vita che Dio mi ha dato? Perché il governopensa di essere più importante delle persone? Algoverno interessa solo prendersi ciò che noi abbiamodi buono. Il governo è come un povero invidioso del-l’uomo ricco, e vuole rubargli quello che ha. Viviamo nel terrore di essere cacciati dalla nostraterra. Non avremo più pace. Lo spirito di mio padre miaveva avvertito che sarebbe successo… Si sono giàportati via i miei parenti. Hanno portato via anchemio fratello e io sono rimasto qui solo. Ma non hointenzione di andarmene. Se mi vogliono uccidere,perché non lo fanno e basta? So che potrebbero ucci-dermi per la mia terra. Quando arrivano, io dico loro:“Non voglio che veniate qui, ma se dovete, alloralasciate le pistole. Se venite con le armi, pronti per laguerra, dovrete uccidermi perché io non farò quelloche volete”. Ora sono contento perché Survival sta registrando lemie parole e penso che le diffonderà e, così, tantagente conoscerà la mia storia. Il governo del Botswa-na mi perseguita. Ci caccia dal nostro posto, da ciòche è nostro per diritto di nascita. Credo che Dio nonlo possa accettare: Gugama ha creato tutto ciò chec’è qui perché noi lo possiamo usare per vivere. I fun-zionari ci tiranneggiano e trasferiscono la gente senza

nemmeno chiederglielo. Arrivano e ci dicono: “Tirategiù le vostre case: le dobbiamo caricare sui camion,con voi”. Quando vennero alla comunità di Gope, c’erauna donna anziana molto, molto malata. La miserosul camion ugualmente, e così lei morì lì, lungo lastrada verso il campo di trasferimento. Morì ancheun’altra donna ma i funzionari non hanno avutorispetto nemmeno delle nostre richieste di darlesepoltura. Ci trattano così perché siamo il popolo deiBoscimani. Ma questo non è il modo di comportarsicon nessuno. Si deve chiedere alle persone la loro opi-nione, aspettare e ascoltare. I funzionari che sonovenuti qui non hanno nemmeno cercato di rispettar-mi. Quando vengono devo spiegare loro che sono unessere umano, e allora loro mi squadrano, su e giù!Il Botswana si considera un paese democratico. Maqui non è così. Ci opprimono fino a farci morire, e pre-sto non ci sarà più nessun Boscimane. Per loro siamocome briciole di spazzatura che volano via quando sialza il vento, o come minuscoli insetti che corronosulla sabbia. Ci hanno spazzato via dalla nostra terrae ci hanno gettato su un mucchio di rifiuti, lontanodai nostri animali, dalle nostre piante e dagli spiritidei nostri antenati. Questo è quello che si fa con l’im-mondizia, non con gli esseri umani. Un giorno arrivarono dei funzionari e ci dissero chequalcuno di noi aveva cacciato un’antilope. Così, ucci-sero uno di noi, e ne castrarono un altro. Non si fannoqueste cose agli esseri umani. Dicono che non possia-mo cacciare, ma io ho moglie e figli da sfamare. Sonoabituato a dar loro la carne, ma ora ho solo radici efrutta, e la vita è sempre più dura. Il governo dice divolere il nostro sviluppo. Lasciate che ci aiuti con l’ac-qua, ma poi che ci lasci vivere nel nostro posto. Svi-luppo ci può essere solo sulla propria terra. Noi pos-siamo badare a noi stessi, possiamo provvedere allenostre necessità. Il nostro futuro è nei nostri figli. Ilnostro futuro affonda le sue radici nella caccia e neifrutti che crescono qui. Quando cacciamo, noi danzia-mo. E quando piove, siamo pieni di gioia. I nostri figlidevono poter continuare a vivere nelle terre dei loroantenati.

Mogetse Kaboikanyo era un Boscimane Kgalagadi e viveva insieme ai Gana e Gwinella Central KalahariGame Reserve. Nel Febbraio 2002 fudeportato a New Xade.Morì 4 mesi più tardi.Aveva cinquant’anni. I suoi amici sostengonoche non fosse malato e che il suo cuore abbia semplicemente cessato di battere. Dopo anni di battaglieper rimanere sulla suaterra, Mogetse è statoseppellito nella desolazione di un campodi reinsediamento, lontano dalle tombe dei suoi antenati. Survival lo ha incontratopoco prima del trasferimento. Questa è la sua testimonianza, a memoria perenne della lotta dei Boscimaniper la giustizia.

A memoria perenne della lotta dei boscimani per la giustiziadi ©Mogetse Kaboikanyo

Perché voglio aiutare i popoli tribali

di ©Julie Christie, giugno 2008

Ho incontrato Davi Kopenawa per la prima voltanel 1989 quando Survival International lo fecevenire in Europa. Era il suo primo viaggio al difuori della terra natale, ma non si trattava di unavisita turistica. Survival voleva denunciare i terri-bili eventi che si stavano verificando nella suaterra e promuovere iniziative per difendere il suopopolo. La foresta pluviale degli Yanomami,remota com'era, era stata invasa da migliaia dicercatori d'oro con modalità che ricordavano ilSelvaggio West. Le malattie introdotte dagli inva-sori avevano devastato la tribù. In pochissimianni, più della metà degli Yanomami erano morti.

Davi lanciò un appello, semplice ma diretto:“Non siamo né poveri né primitivi. Noi, gli Yano-mami, siamo molto ricchi. Ricchi della nostracultura, della nostra lingua e della nostra terra…Non ci servono denaro né altri beni. Quello dicui abbiamo bisogno è rispetto: rispetto per lanostra cultura e rispetto per la nostra terra”.

All'epoca, non sapevamo ancora che la grandemobilitazione mediatica organizzata da Survivalin quell'occasione avrebbe costituito il culminedella campagna lanciata vent'anni prima perproteggere gli Yanomami e le loro foreste dalladistruzione. Appena tre anni dopo, infatti, arrivòla vittoria: il governo brasiliano annunciò che laterra ancestrale di questo popolo sarebbe statafinalmente protetta e i cercatori d'oro allontana-ti. Fu un grande successo e, attraverso Survival,Davi inviò un messaggio alle migliaia di personeche avevano partecipato all'epica impresa: “Rin-grazio tutti voi che siete lontani, che non cono-scete il mio popolo né la mia foresta. Ci avetedato una grande speranza”.

Collaboro con Survival da allora, e le parole diDavi mi sono ritornate in mente, potenti, pochimesi fa, quando ho prestato la mia voce al DVD

dell'associazione, intitolato Uncontacted Tribes[Popoli incontattati]. Fra tutte le storie raccon-tate dalle immagini dei ricercatori di Survival,storie che parlano delle minacce che gravano suipopoli più isolati e vulnerabili del mondo, ce n'èuna che spicca in modo particolare. Un minusco-lo gruppo di appena sei individui, gli ultimisopravvissuti di un popolo un tempo fiero chia-mato Akuntsu, stava seduto su una panchina nelmezzo di una foresta disboscata. Sapendo cheavevano assistito al massacro di tutti gli altrimembri del loro popolo per mano degli allevatoridi bestiame, la loro apatia e il loro completoavvilimento non potevano sorprendermi. Maquando li ho visti incitarsi a vicenda, in modoincerto, per eseguire una strascicata danza dibenvenuto, beh, allora mi sono commossaprofondamente. In quei piccoli passi barcollantic'erano condensati tutta l'avidità e l'egoismodell'Occidente e le tragedie delle tantissime pic-cole società umane che abbiamo calpestatolungo la nostra corsa alla ricchezza. Non cono-sco nessuno tra coloro che hanno visto il film,che non ne sia stato profondamente toccato.

Per gli Akuntsu è troppo tardi. Tragicamente, perun gruppo di sopravvissuti così piccolo non c'èpossibilità di recupero. Rimasti completamentesoli, incapaci di comunicare con chiunque altro,il loro destino aleggia sopra di noi come unoscioccante riflesso della nostra disumanità versocoloro che sono considerati reliquie dell'Età dellapietra senza posto nel mondo moderno. Ho sem-pre considerato un crimine il fatto che questiatteggiamenti siano così ben radicati e ricorren-ti persino tra coloro che potrebbero diversamen-te considerarsi liberali. Ed è per questo che riten-go che il lavoro di Survival sia così importante. Cisono tragedie che spezzano il cuore, come quelladegli Akuntsu, ma gli sforzi compiuti da Survival

ci permettono di raccontare anche tante altrestorie incoraggianti.

Recentemente, Davi è tornato a Londra. Da quan-do Survival ha iniziato a lavorare con gli Yanoma-mi, la loro vita è drasticamente cambiata. Anchese subiscono ancora occasionali incursioni daparte dei cercatori d'oro, la loro terra è protetta ela popolazione ha ripreso a crescere. Non c'è dub-bio che abbiano preso il loro posto come fieri evitali membri del XXI secolo. Le immagini straor-dinarie girate da un membro dello staff di Survi-val durante una festa funebre in un villaggioyanomami mostrano centinaia di persone a luttogiocare, festeggiare e celebrare riti religiosi pergiorni, con una serenità e una vitalità che moltinell'Occidente potrebbero solo invidiare.

La storia degli Yanomami non è solo una clamo-rosa smentita delle funeste previsioni degli“esperti”, che avevano dichiarato con sicurezzache “non avrebbero potuto” sopravvivere al XXsecolo, ma anche un prova elettrizzante del fattoche, con un piccolo aiuto da parte di quelli chepossono tendere una mano, i popoli tribali nonsono inevitabilmente condannati a soccomberedavanti all'onda della globalizzazione. Gli Indianiincontattati delle fotografie non vivono in unabolla che, una volta scoppiata, collasserà persempre. Il lavoro di Survival è importante proprioperché dimostra che oggi c'è un modo sempliceed efficace per garantire che questi popoli pos-sano veramente trovare il proprio posto nelmondo: proteggere le loro terre! Quando il loroterritorio è sicuro, i popoli tribali possono convi-vere in pace, secondo le loro scelte e il loro stiledi vita, con il mondo che li circonda.

Le ultime parole pronunciate da Davi rientrandoin Brasile mi accompagneranno per moltotempo: “Senza Survival, saremmo tutti morti”.

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Gli Arhuaco guardano al mondo con sensibilità e intelligenza acutissime, e hanno per la vita un profondo rispetto e un grande senso di responsabilità.

Sanno che il ciclo della Terra è intimamente connesso con la nasci-ta e la morte di tutti gli esseri viventi e hanno elaborato credi, rego-le e rituali che affidano loro il compito di assicurare che quei ciclicontinuino a succedersi senza perturbazioni. Per l’uomo occidenta-le il mondo naturale è un’entità da sfruttare. Per loro è un universoda sostenere e mantenere in equilibrio risarcendolo per tutto quelloche esso ci dà, per ogni singolo respiro che gli viene sottratto. L’intero pianeta dipende da ciò che accade sulla Sierra e a loro, chesono i nostri fratelli maggiori (hermanos mayores) spetta il compi-to di regolare gli eventi naturali e prevenire le catastrofi medianteun complesso sistema di “offerte” alla Terra. Inondazioni e terre-moti sono una conseguenza degli errori da loro commessi nelmantenimento dell’armonia, anche se avvengono in paesi lontani.Gli Arhuaco non hanno la preoccupazione di ridurre i consumi;quello che essi usano è di per sé già ben poco! Ma anche se pensa-no di avere una saggezza e una comprensione mistica superiori aquelle degli altri uomini, non giudicano i loro fratelli minori, i con-

sumisti o gli esseri umani in generale necessariamente “colpevoli”.Per gli Arhuaco l’uomo e la società umana restano sempre la cosapiù importante. Anche se si rendono conto dell’impegno a lungotermine che ciò comporta, non considerano il loro compito comeun fardello quanto piuttosto come il modo più intelligente diaffrontare la vita; un modo per accettare, ad un livello moltoprofondo, la responsabilità degli effetti a lungo termine e su vastascala della propria esistenza. Quello che segue è un tentativo, molto sommario e talvolta crudel-mente semplicistico, di tradurre in un racconto scritto alcuni deiprincipi più conosciuti della loro filosofia. Gli Arhuaco stessisostengono che non sia possibile esprimere adeguatamente attra-verso la parola scritta quelle che per loro è una tradizione orale icui capisaldi vengono svelati solo ai discepoli che hanno la voca-zione, l’umanità e la perseveranza necessarie. Tuttavia, bastano adarci un saggio della profondità e del grande valore che il lorosapere ha per l’umanità intera. Di fronte al materialismo occidenta-le e alla corsa travolgente allo sviluppo della società industrializza-ta, la sopravvivenza di popoli e culture come quelle degli Arhuacodimostra che gli uomini potranno sempre scegliere altre priorità ealtri modi di vivere; prova che, nonostante tutto, ci sarà semprequalcuno che deciderà di dare ai problemi della vita e della mortealtre risposte. Sono forse questi la sfida e il messaggio più impor-tanti che i popoli tribali lanciano al mondo.

Arhuaco,per ogni nostro respiro

Gli Arhuaco vivono sulla Sierra Nevada di Santa Marta, nel nord della Colombia. Nonostante distino dal Mar dei Caraibisolo 54 chilometri, le vette della Sierra Nevada sono perennemente innevate e si innalzano ripidissime dal mare fino araggiungere i 5.800 metri d’altezza. Sfruttando con grande perizia le sue varie quote, gli Indiani riescono a garantirsiraccolti abbondanti per tutto l’arco dell’anno. Coltivano mais, manioca, banane da farina e vari tipi di frutta. Con gliavocado nutrono i maiali e, da quando gli invasori spagnoli li hanno introdotti, seminano anche caffè e canna da zuc-chero. Insieme ai loro vicini, i Kogi e gli Arsario, gli Arhuaco soffrono da oltre cinquant’anni per la perdita di molte delleloro terre ancestrali e per la violenta guerra civile che imperversa alle pendici della Sierra tra esercito, guerriglieri e para-militari in lotta per il controllo del traffico della coca. Nonostante i continui e brutali tentativi dei frati Cappuccini dicancellare la loro religione e la loro cultura, gli Arhuaco hanno sempre conservato un orgoglio inattaccabile, addiritturaferoce, per la propria identità. Negli anni ’70 erano alla guida del movimento indigeno colombiano e hanno incoraggia-to la nascita delle principali organizzazioni indiane del paese, tra cui l’ONIC, che è oggi una delle più importanti di tuttele Americhe. Survival ha sempre sostenuto le loro rivendicazioni territoriali e nel 1993 li ha aiutati a raggiungere l’Euro-pa per denunciare l’assassinio dei loro leader. Il loro mamo (sacerdote) arrivò a Londra indossando solo gli abiti tradi-zionali e il cappello bianco che simboleggia i picchi innevati della Sierra. Era scalzo ma di tutti i beni materiali che furo-no messi a sua disposizione, non volle accettare nemmeno un paio di scarpe.

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In principioKaku Serankua creò la Terra. La rese fertile e la prese in moglie. IImondo era sorretto da due serie di quattro fili d’oro intrecciati eappesi ai quattro punti cardinali. Dove gli otto fili d’oro si incro-ciano, lì si trova il cuore del mondo. E lì è la nostra casa, la SierraNevada de Santa Marta, che è delimitata dalla “linea nera“ chene definisce i confini e la separa dai bassipiani circostanti.

I picchi nevosi e i laghi sacri vennero posti in mezzo alla monta-gna; questa, la zona più elevata, è Chundua. I picchi sono comepersone, sotto molti aspetti simili a noi, dei “custodi dell’onore“.Sono i nostri genitori, i nostri padri e le nostre madri. E sono anchei padri e le madri dell’uomo bianco; perché il nostro dio è il suodio. Ad ogni picco fu assegnato un mamo con l’incarico di vigilaresu di esso e di prendersene cura. Ogni picco ha un mamo, propriocome ogni casa ha delle persone che ci vivono. I picchi sono pernoi come chiese o templi. Quando Kaku Serankua distribuì la terra,decise di fare della Sierra un luogo sacro dove sarebbe stata custo-dita la saggezza, in modo che un giorno potesse di nuovo essereinsegnata all’umanità. Oggi, Kaku Serankua vive lì, sorvegliando lasua creazione.

Prima di creare il mondo, Kaku Serankua creò l’acqua, che nutre laTerra come le vene dell’uomo nutrono il suo corpo. E creò anche lestelle, il sole e la luna, e ogni cosa. Quando arrivò il momento dicreare gli esseri viventi, dettò le leggi per le quattro razze umane –la bianca, la gialla, la rossa e la nera. I loro colori sono gli stessi deiquattro mantelli della terra: bunnekän, la terra bianca; minekän, laterra gialla; gunnekän, la terra rossa; e zeinekän, la terra nera. IInostro respiro è lo stesso alito che si leva dal mondo: l’aria, i venti ela brezza. Tutte le razze sono uguali; ad ognuna furono assegnateleggi e diritti propri. Ad ognuno di noi fu assegnata una strada peravvicinarsi a dio, per riconoscerlo e conoscerlo.

Ci è stato mostrato come avere rispetto di tutto ciò. Non siamo statinoi ad inventare questa legge: ci è stata data da Kaku Serankua,nostro padre. Egli ci ha insegnato anche come coltivare la terra, comedividere in maniera equa i nostri beni, come prenderci cura delle fore-ste, delle diverse specie animali, delle acque, delle colline, come pren-derci cura del sole, della luna, della stagione umida e di quella secca,come lenire i dolori e curare le malattie, ci ha dato la scienza dei ter-remoti e di ogni cosa che accade nel mondo. Tutto questo a beneficiodell’umanità intera ovunque: in ogni luogo della Terra.

Noi viviamo così. Non abbiamo mai conosciuto l’egoismo, nonabbiamo abusato gli uni degli altri, né abbiamo desiderato le cosedei nostri fratelli, né abbiamo prevaricato i loro diritti; non abbia-mo mai conosciuto la superbia, non abbiamo mai consideratoqualcuno inferiore a un altro. Queste leggi ci sono state date per-ché potessimo aiutarci l’un l’altro con equità, giustizia e compren-sione. Se uno è debole, qualcun altro gli darà la forza.

La vita, la sapienza e la legge hanno tutte origine in Chundua, i pic-chi nevosi e i laghi. Dipendiamo dalla natura, che ci dà la vita, e ogni

elemento della natura ha una sua vita spirituale. Noi dipendiamo daChundua. Ma anche Chundua dipende da noi: per mantenere l’equi-librio. Ogni animale e ogni albero, ogni fiume e ogni pietra, il sole, laluna e le stelle – tutte queste cose hanno una vita spirituale e hannobisogno di essere accudite, proprio come noi abbiamo bisogno delcibo. In mancanza di questo, morirebbero: i fiumi si asciugherebbe-ro, gli alberi seccherebbero, il sole stesso morirebbe.

Sono i mamo, i nostri sacerdoti, i nostri scienziati, a prendersi curadel mondo spirituale. Loro mantengono in equilibrio tutte questeforze. Si spostano fra Chundua, i picchi, e la “linea nera“ delle pia-nure. Cantano e danzano, celebrano cerimonie e fanno offerte allaTerra; custodiscono gli oggetti sacri, i bastoni, le maschere e lepietre sacre. Sono intermediari che sanno come muoversi tra ilmondo ordinario e quello spirituale. Curano le malattie e sannoindividuare i posti adatti per seppellire i nostri morti. Tutto questonon lo fanno per se stessi, né semplicemente per noi, ma per l’in-tera umanità e per tutte le forme di vita. Queste sono le vere leggiche furono date ad ognuno dei cinque continenti. Ogni creatura eogni fenomeno della natura ha la sua legge, e per preservarli dob-biamo rispettarla. Così è stato stabilito, e così è sempre stato.

Questa saggezza, questa legge, non è stata inventata da noi né daaltri; è una conoscenza che viene da una consapevolezza e daun’intuizione profondissime. II punto più alto di tutti si trova al dilà dei quattro punti cardinali. Laggiù si trova una sapienza che ciparla del passato, del presente e del futuro, di ogni cosa cheriguarda il mondo, le acque e i diversi pianeti. Ci dice come man-tenere in equilibrio i molti elementi della natura, così che tutto simantenga sempre in armonia. È stata tramandata da un mamoall’altro, di generazione in generazione, sin dai tempi più antichi.Imparare dalla natura quel tanto che basta per trarne vantaggio èfacile, ma è difficile cogliere i suoi differenti aspetti e capire comecoesistono. È difficile capire come averne cura per il benessere del-l’umanità. Gli ambiziosi non sanno neppure da che parte comin-ciare per arrivare a comprendere tutto questo! Kaku Serankua ciinsegna che la natura è la nostra madre, e che dobbiamo rispetta-re lei e le sue leggi. Fra gli uomini deve esserci questa comprensio-ne, e devono esserci rispetto, giustizia ed eguaglianza. È così chenoi abbiamo sempre vissuto.

Ma l’uomo bianco non sa niente di tutto ciò. Chi sa solo cometogliere la vita, e non come crearla, troverà tutto questo impossi-bile da credere. Lui ha attaccato i suoi fratelli, gli Arhuaco, e li haricacciati al di là della “linea nera“. Con le sue mani ha reciso illegame che aveva con la natura, e poiché non sa come avernecura, usa le sue conoscenze per distruggerla. Si è staccato dai suoicompagni. Non ha rispetto per i suoi fratelli, e fa leggi che li per-seguitano e sottraggono loro la terra. Se con il suo modo di viverel’uomo bianco continuerà ad accumulare debiti nei confronti dellaTerra, porterà se stesso alla distruzione. Sarà così. Fin dalla suaprima apparizione, ha cercato di toglierci la nostra terra e di pri-varci delle nostre leggi tradizionali e sagge per imporci le sue. Lesue infinite promesse non sono mai state mantenute. Molti annifa, ci ha promesso che la terra dei nostri padri sarebbe stata rispet-tata, e che i territori che ci erano stati sottratti sarebbero stati

restituiti – ma ciò non è mai avvenuto. Dobbiamo riavere la terrache Kaku Serankua ci ha lasciato perché è nostra madre, la fontedella nostra vita e del nostro sostentamento. L’uomo bianco ne haabusato. Dobbiamo riavere la terra perché ne abbiamo bisogno pervivere. È sacra, e attraverso di lei i mamo mantengono l’ordine del-l’universo: un ordine fondato sull’uguaglianza e la sopravvivenzadi tutti gli uomini. Dobbiamo riavere nostra madre per poter con-servare la nostra cultura e le nostre tradizioni, e per difenderci dal-l’uomo bianco che chiude intorno a noi un cerchio ogni giorno piùstretto: ci spinge in zone sterili come fossimo maiali, chiusi inrecinti per ingrassare. Non abbiamo fiducia nelle leggi dell’uomobianco e non speriamo di ottenere nulla da lui. L’unica cosa chesiamo riusciti ad avere sono promesse mancate e bugie – le sueleggi hanno sempre sfruttato gli Indiani.

Abusa di noi, e ci dà ragione solo quando vuole qualcosa (per esem-pio un po’ di voti per i politici locali che promettono molto ma nonfanno nulla). L’uomo bianco ci ha insegnato nuovi e falsi bisogni, ciha allontanato a poco a poco dalle nostre tradizioni e dal modo incui anticamente producevamo tutto quello di cui avevamo bisogno.Ha portato nelle nostre comunità il suo modo di pensare. Ma i suoipensieri sono cattivi ed inducono alcuni di noi a vergognarsi diessere Indiani – proprio di ciò che dovrebbe costituire per noi il piùgrande motivo di orgoglio. Essere Indiani è come essere alla radicedelle cose. Molti Arhuaco hanno creduto alle false promesse e sisono venduti ai politici e ai proprietari terrieri – alcuni sono arrivatial punto di tradire i propri fratelli. I bianchi non hanno rispetto per ilnostro governo interno. Da parte nostra, noi abbiamo semprerispettato quello colombiano, e chiediamo che si rispetti il nostro.Ogni legge che il governo colombiano avesse intenzione di emana-re in riferimento a noi dovrebbe ricevere la nostra approvazione.Chiediamo di avere la possibilità di scegliere i nostri capi comeabbiamo sempre fatto. Chiediamo di essere interpellati prima diautorizzare chicchessia ad entrare nella nostra terra. Non vogliamoche altri bianchi vengano a depredare i nostri luoghi sacri, a guar-darci come uno spettacolo per turisti o a lavorare qui senza il nostroconsenso. Abbiamo sempre desiderato vivere in pace secondo lenostre tradizioni. Abbiamo sempre sperato che i bianchi, i nostri fra-telli minori, avrebbero capito il nostro punto di vista e avrebberocollaborato con noi. Ma adesso sono passati molti anni e tutto ciòche l’uomo bianco ha fatto è stato cercare d’imbrogliarci.

Adesso ci rendiamo conto che la nostra battaglia e la nostra soffe-renza sono condivise da tutti gli Indiani della Colombia. Non chie-diamo aiuto. Stiamo al fianco degli altri Indiani per lavorare insie-me in difesa della nostra terra e della nostra cultura. Abbiamocapito che quando i bianchi parlano di “progresso“ e di “integra-zione“ in realtà intendono miseria e morte. L’uomo bianco non cidà retta. Non vuole darci la possibilità di decidere del nostro futu-ro. Unirsi alla società dell’uomo bianco significa perdere tutto ciòche è nostro. Ora siamo ben consapevoli di ciò e sappiamo che noi,da soli, dobbiamo assumerci la responsabilità del nostro destino.

Testimonianza a cura di ©Stephen Corry,

direttore generale di Survival International

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Il lavoro di Survival è iniziato nel 1969 in un seminterrato di Londra, dove un pugno di volontaricondivideva l’angusto spaziocon altre piccole associazioni.Da allora, è stata fatta tantissi-ma strada.All’epoca, i problemi maggioridei popoli indigeni erano glistermini di massa, la schiavitù,le epidemie e la disperazione divedere improvvisamente cancel-lato il proprio universo nellaquasi totale indifferenza delresto del mondo. Oggi, ovunqueabitino, molti popoli tribalicontinuano ad essere privati deimezzi di sussistenza e costrettia cambiare vita; le loro terre re -stano invase da coloni, minato-ri, tagliatori di legna; i loro vil-laggi inondati da dighe e spaz-zati via da allevamenti di bestia-me o parchi turistici. Tuttavia, l’atteggiamento del-l’opinione pubblica nei loroconfronti è radicalmente cam-biato. Laddove quarant’anni fal’assimilazione e l’estinzione deipopoli indigeni venivano dateper scontate ed erano giudicatesolo come un doloroso ma ine-vitabile prezzo da pagare nelnome del progresso, oggi inmolti hanno cominciato a rico-noscere l’inalienabilità dei lorodiritti e il valore delle loro cul-ture. Gli ostacoli da superarerestano tantissimi: l’avidità, lamiopia, il razzismo e le dittatu-re. Ma le persone decise a lotta-re per aiutare i popoli tribali amantenere il loro posto nel mon-do e a determinare autonoma-

mente il loro futuro, sono sem-pre più numerose. È probabil-mente questo il successo piùimportante raccolto sinora daSurvival o, meglio, dai popoliindigeni stessi con il sostegnodi migliaia di persone da ogniparte del pianeta.

Un’organizzazione mondialeCon sedi e centri di supporto invari paesi europei tra cui RegnoUnito, Francia, Italia, Spagna,Germania e Olanda, Survivallavora perché vengano ricono-sciuti ai popoli indigeni i lorodiritti fondamentali contro ogniforma di violenza, persecuzionee genocidio; produce materialididattici e informativi per laconoscenza e la valorizzazionedelle culture tribali e porta nellescuole laboratori di educazionealla diversità e alla pace. Per ilsuo impegno umanitario in tuttoil mondo, nel 1989 ha ricevuto ilRight Livelihood Award, notocome Premio Nobel Alternativo. Per mantenere la sua indipen-denza, Survival non accetta fi -nanziamenti da nessun governoo partito politico. Le sue attivitàvengono finanziate esclusiva-mente dalle quote associativedei suoi membri, dalle donazio-ni dei sostenitori e dai proventidelle attività di raccolta fondigestite dai volontari. Survival ha soci in oltre 80 paesidel mondo e produce materialiinformativi in 11 lingue. Tra i suoi sostenitori ci sono ilDalai Lama, Claude Levì-Strauss,

Richard Gere, Colin Firth, PeterScott e Julie Christie. In Italia,tra gli altri, Pino Insegno, Ric-cardo Muti, Ottavia Piccolo eClaudio Santamaria.

CampagneSurvival non sostiene la teoriadella conservazione dei popolitribali in uno stato “originario”,né lavora perché essi vivano“protetti” come animali in unozoo o reperti archeologici in unmuseo. Vuole semplicementeche il mondo intero riconosca iloro diritti: alla sopravvivenzafisica e a quella culturale, al -l’au todeterminazione, alla pro-prietà delle terre ancestrali. Sur-vival vuole che i popoli tribalisiano messi nella condizione didecidere autonomamente delloro futuro e dell’utilizzo delleloro risorse. Il lavoro di Survival si fonda sucontatti personali e diretti concentinaia di comunità tribali e siprefigge di conseguire soloquello che i popoli indigenistessi vogliono o chiedono. Aquesto scopo, Survival lanciacampagne di informazione epressione in ogni parte del mon -do. Attualmente sta se guendo80 casi specifici, distribuitigrosso modo in 40 paesi diversi,dando priorità ai gruppi chehanno contatti molto limitaticon il mondo esterno e non so -no rappresentati da nessunaorganizzazione. Sono proprioquesti, infatti, i popoli più vul-nerabili di tutti.

Una volta verificata una situa-zione d’emergenza e adottatoun caso, Survival organizza con-ferenze stam pa, produce ma -teriali in formativi e invia a tutti isuoi soci i Bollettini d’AzioneUrgente in cui, accanto alladescrizione del problema, chiedeai lettori di scrivere lettere diprotesta ai responsabili dei mas-sacri e delle devastazioni. Il fiu -me di lettere che giunge da ogniparte del mondo agli uo minipolitici e alle aziende interessati,costituisce uno degli stru mentidi cambiamento più efficaci.

Sostegno, non assistenzialismoOltre che visitare regolarmentele comunità indigene, Survivalincoraggia i popoli tribali a por-tare il proprio messaggio alresto del mondo, organizza perloro incontri pubblici e privati efinanzia i loro viaggi. Non faassistenzialismo, ma aiuta leorganizzazioni indigene a svi-lupparsi in modo autonomofornendo loro la consulenzatecnica e legale necessaria perpoter conoscere e capire il mon -do esterno, gli assetti politici esociali dei diversi stati e le leggiche li riguardano. Traduce idocumenti internazionali nellelingue indigene e mette in co -municazione fra loro i gruppiminacciati dagli stessi tipi diproblemi. In casi di grave emer-genza medica (per esempio, difronte al diffondersi di malattieverso cui i popoli tribali nonhanno difese immunitarie), Sur-

vival finanzia piani di assistenzasanitaria che, dove possibile,vengono gestiti direttamentedagli indigeni; sostiene, inoltre,progetti su piccola scala che ipopoli tribali elaborano auto-nomamente come, per esempio,la fondazione di scuole indige-ne bilingue.

SensibilizzazioneSurvival crede che la forza piùefficace per un cambiamentodurevole sia la sensibilizzazionedell’opinione pubblica. Per que-sto, ogni giorno, dai suoi ufficiescono numerosi materiali infor-mativi: bollettini, newsletter, pa -gine web, rapporti e video suiproblemi dei popoli tribali e suiloro stili di vita. Alla produzionedei materiali informativi e didat-tici di Survival International col-laborano tutti gli uffici europeidell’organizzazione e molti grup-pi indigeni ad essa collegati.Gra zie a ciò, i popoli nativi han -no l’opportunità di raccontarsiin prima persona e di testimo-niare direttamente la profonditàe la ricchezza delle loro culture.

LobbyingSurvival preme per il varo di leggisempre più efficaci nella prote-zione dei diritti dei popoli indi-geni e invia regolarmente deirappresentanti alle Nazioni Unitedove riveste un ruolo consultivo

come organizzazione non-go -vernativa accreditata. Esercitapressioni sui governi, incontra gliuomini politici e partecipa a con-ferenze in tutto il mondo perportare i problemi dei popoli tri-bali all’attenzione internazionale.I soci organizzano presidi e ma -ni festazioni davanti alle am ba -sciate dei paesi in cui i diritti deipopoli tribali vengono calpestati.

DidatticaIl mondo è un crogiolo di cultu-re e società differenti. Con si de -ra re questa divers i tà comeun’op portunità e non come unostacolo significa non solo com -battere il razzismo e promuove-re la tolleranza, ma anche difen-dere i beni più preziosi che ab -biamo: il nostro pianeta e lanostra umanità. Allo scopo dipromuovere una cultura dellapartecipazione e del rispettodegli altri, Survival propone allescuole italiane una serie di stru-menti interdisciplinari dal titoloriassuntivo “A Scuola di Mondocon i Popoli Indigeni”. Tali ini-ziative, in linea con la didatticapiù innovativa, comprendonokit e laboratori multimedialivolti anche a mettere in luce gliinfiniti legami che uniscono gliuomini tra loro e all’ambienteche li circonda, risvegliando ilsenso di responsabilità versotutti gli esseri viventi e la consa-pevolezza della possibilità dipartecipare in prima personaalla costruzione di un mondopiù equo e sostenibile.

Survival, il movimento per i popoli indigeni

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Il progetto 2008.Ilo169, il budget

Non dubitate mai che un piccolo gruppo di persone sensibili e risolute possa cambiare il mondo. In effetti, la loro determinazione è l'unica forza che l'abbia mai cambiato.Margaret Mead

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La Convenzione ILO 169 sui diritti dei popoli indigeni e tribali è stata adottata nel1989 dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO),un’agenzia delle Nazioni Unite.

La Convenzione riconosce ai popoli indigeniun insieme di diritti fondamentali, essenzialialla loro sopravvivenza, tra cui i diritti sulleterre ancestrali e il diritto di decidere auto-nomamente del proprio futuro. Attualmente,la Convenzione costituisce l’unico strumentolegislativo internazionale di protezione deidiritti dei popoli indigeni. Ratificandola, glistati si impegnano a garantire in modo effi-cace l’integrità fisica e spirituale dei popoliindigeni e a lottare contro ogni forma didiscriminazione nei loro confronti. È crucialeche la Convenzione venga firmata dal mag-gior numero di nazioni del mondo, inclusequelle europee. Anche se non hanno popolitribali all’interno dei propri confini, infatti, leazioni dei governi di paesi come l’Italiahanno comunque un impatto diretto suipopoli indigeni, non solo in quanto membridi istituzioni internazionali che interagisco-no con essi, come la Banca Mondiale, maanche attraverso i progetti di cooperazioneallo sviluppo e la partecipazione ai finanzia-menti e alle iniziative sostenute dall’UnioneEuropea. Nelle terre tribali, inoltre, si trovanosovente ad operare aziende europee e italia-ne, private, statali o co-finanziate dallostato. In Italia esistono già da tempo alcuniprogetti di legge assegnati alle CommissioniEsteri di Camera e Senato che, però, nonsono mai stati discussi. Data l’estrema gra-vità delle violazioni dei diritti umani chemolti popoli indigeni stanno ancora oggivivendo in tanti paesi del mondo, l’Italiadovrebbe ratificare la Convenzione al più

presto. La sua adozione, infatti, non costi-tuirebbe solo un doveroso atto di solidarietàverso chi continua a vedere conculcati i pro-pri diritti fondamentali; al contrario, porte-rebbe loro un aiuto concreto e immediato.La Convenzione esiste già da vent’anni (dal1989), tuttavia, i paesi che sino ad oggil’hanno ratificata sono solo 20: Argentina,Bolivia, Brasile, Colombia, Costa Rica, Dani-marca, Dominica, Ecuador, Fiji, Guatemala,Honduras, Messico, Norvegia, Paesi Bassi,Paraguay, Perù e Venezuela. A questi si sonoaggiunti recentemente la Spagna – grazie auna campagna di Survival – Cile e Nepal.

Attraverso il Xmas Project vi chiediamo diaderire concretamente all’iniziativa compi-lando (possibilmente completa di tutte lefirme) e inviando a Survival la petizioneinserita a pagina 102 di questo Librosolidale.

Le principali attività e campagnenelle quali è attualmente impegnata Survival:

Il progresso può uccidereParlando di progetti d’integrazione e svilup-po dei popoli indigeni, spesso i governi pre-tendono di agire nell'interesse delle popola-zioni coinvolte. In molti paesi, e special-mente in Asia e in Africa, è percezione dif-fusa che i popoli tribali siano “primitivi" e“arretrati", e che si debba necessariamenteimporre loro un altro stile di vita, se neces-sario anche con la forza. Al di là della pre-sunta buona o cattiva fede dei suoi fautori,quel che è certo è che il nome del progressoè servito ovunque a giustificare sia il furtodelle terre dei popoli indigeni sia le violenzeperpetrate nei loro confronti, e che gli effet-ti del cambiamento forzato sono sempredevastanti: povertà, malattie, malnutrizione,alcolismo, depressione, suicidi e morte. Con

il sostegno di Xmas Project, Survival Italiavorrebbe sensibilizzare le istituzioni e l’opi-nione pubblica sul tema mostrando cherispettare i diritti territoriali dei popoli triba-li è di gran lunga il modo migliore per assi-curare loro benessere e autosufficienza.

Popoli incontattatiOltre 100 tribù, in ogni angolo della Terra,hanno scelto di isolarsi dal mondo esterno.Sono i popoli più vulnerabili del pianeta.Molti di essi vivono in fuga costante, persfuggire all’invasione delle loro terre da partedi coloni, taglialegna, esploratori petroliferi eallevatori di bestiame. Spesso, hanno vistomorire amici e parenti, colpiti da malattieintrodotte dall’esterno o massacrati impune-mente dagli invasori. Survival ha recente-mente realizzato un DVD in lingua inglese cheracconta le loro storie. Grazie a Xmas Project,vorremmo pubblicarne un’edizione italiana elanciare una campagna di comunicazione sultema in tutto il territorio nazionale.

ConTattoNon sempre il contatto genera amicizia oarricchimento reciproco. Troppo spesso, alcontrario, significa sopraffazione, imposizio-ne di un solo modo di intendere lo sviluppo,i diritti, la civiltà. Ma imparare a camminaresulla Terra in punta di piedi e agire con lun-gimiranza e con tatto è possibile, e lo si puòfare anche divertendosi! È questo il presup-posto con cui Survival ha confezionato unpacchetto di iniziative didattiche che si pre-figgono di sensibilizzare i più giovani al dia-logo con le altre culture e alla salvaguardiadegli ecosistemi e della diversità. Con l’aiutodi Xmas Project, Survival vorrebbe potercontinuare il suo importante lavoro educati-vo nelle scuole italiane di ogni ordine egrado e, in particolare, raggiungere nel corsodell’anno scolastico 2008-2009 almeno 200nuove classi di Milano e provincia. Azioni e budget

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La Convenzione ILO 169 è un’iniziativa coerente con...

LA DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI DEI POPOLI INDIGENIIl 13 settembre 2007, dopo oltre vent’anni di difficili negoziazioni, l’Assemblea Gene-rale delle Nazioni Unite ha finalmente adottato la Dichiarazione universale dei dirittidei popoli indigeni con una maggioranza schiacciante: 143 voti a favore e 4 contrari.Durante l’ultimo anno, l’Italia ha assunto l’importante ruolo di sponsor della Dichia-razione, cioè di Stato personalmente impegnato a promuovere l’adozione dellaDichiarazione attraverso la negoziazione con quelli contrari. Coerentemente conl’impegno dimostrato nei confronti di questo tema, il Governo italiano dovrebbe oraratificare al più presto la Convenzione ILO 169, l’unica oggi in grado di dare concretistrumenti giuridici alla tutela dei diritti dei popoli indigeni del mondo finalmente

riconosciuti e sanciti anche dalla Dichiarazione. Per quanto importantissima, infatti,la Dichiarazione Onu resta solo un’enunciazione di principi e ai governi che decides-sero di ignorarla non potrà essere inflitta nessuna sanzione. La 169, invece, è vinco-lante per tutti i paesi che la ratificano e quindi ha il valore di legge.

LA CONVENZIONE UNESCO SULLE DIVERSITÀ CULTURALI Il 31 gennaio 2007, l’Italia ha ratificato la Convenzione UNESCO sulle diversità cultu-rali impegnandosi a difenderle e a promuoverle nel pieno rispetto dei diritti umani edelle libertà fondamentali. L’adozione della Convenzione ILO 169 costituisce il modomigliore per ottemperare agli impegni assunti anche in tale settore. I popoli indigenie tribali, infatti, i popoli più minacciati del mondo, sono il simbolo per eccellenza delladiversità umana e culturale; una diversità che può però sopravvivere solo se vivonogli uomini che l'alimentano.

Ilo 169Compilazione e circolazione di un dossier tematico in Senato e Parlamento italiani. Mobilitazione dei media e dell’opinione pubblica, raccolta firme, lobbying presso le istituzioni. 10.000 euro

Il progresso può ucciderePagine web dedicate, traduzione, stampa e distribuzione di un dossier monografico a istituzioni e organi competenti, lancio campagna di comunicazione sul tema in tutto il territorio nazionale. 4.500 euro

Popoli incontattatiTraduzione e realizzazione di un DVD monografico da inviare ai sostenitori e ai media. Progettazione e lancio campagna mediatica. 5.000 euro

ConTattoSelezione, formazione e gestione di 3 operatori volontari, attivi per tutto l’anno scolastico. Realizzazione del laboratorio interculturale gratuito “Io mi chiamo Guiomar, e tu?” in almeno 200 nuove scuole di Milano e Provincia, promozione e distribuzione del kit ConTatto. 15.000 euro

Poster AzioneProgettazione, stampa e distribuzione ai sostenitori di Survival di un poster dedicato ai 40 anni di attività di Survival, finalizzato alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica sui casi di violazione più gravi del momento e alla partecipazione attiva alle campagne urgenti. 15.500 euro

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www.survival.it

Survival Italia

Via Morigi 820123 Milano – ItaliaT (+39) 02 8900671 F +(+39) 02 [email protected]

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Noi, Xmas Project 2008I vostri pensieri, le vostre storie, le vostre immagini. I vostri nomi. Il cuore del Librosolidale.