Il_Biennio_Rosso[1]

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Il Biennio RossoLa crisi europea: alla ricerca di nuovi assettiIn seguito alla fine della prima guerra mondiale, il sistema coloniale venne meno e l’Europa cadette in una profonda crisi. Il fattore principale di crisi fu la conversione industriale dei vari stati, i quali durante la guerra avevano controllato la produzione industriale, spostandola verso i materiali bellici, e dovettero così cercare di adattarle alle nuove esigenze che la popolazione aveva in pace. Questo portò al fallimento molte aziende ed altre invece riuscirono a effettuare questo cambiamento in tempi lentissimi. Tale conversione fu più lunga del previsto: fino al 1922 si ebbe un periodo negativo per l’economia europea e solo nel 1925-26 si ebbe un’espansione e crescita. Ciò era causato dal fatto che la conversione industriale è collegata ad altri fattori economici dell’epoca:

la scarsa disponibilità di capitali da poter investire, in quanto gli stati europei dovettero far fronte in primis al debito di guerra con gli altri stati, in particolare gli USA

l’impossibilità degli scambi, poiché vi era una politica protezionistica che aveva così aumentato le tasse doganali

la crescente inflazione, alimentata dalla continua produzione di cartamoneta, dall’indebitamento statale e lo ristagnamento industriale

La dipendenza economica dell’EuropaLa guerra aveva prosciugato le ricchezze di molti stati europei, tra cui Francia e Inghilterra, ma in particolare Germania e Russia, questo permise lo sorgere di nuove potenze: Usa e Giappone. Gli Stati Uniti, nonostante la loro entrata in guerra, non dovettero far fronte a grandi sforzi, anzi prestarono capitali agli stati stranieri, diventando così degli esportatori di capitali. Tutto ciò fu reso possibile da una fortissima crescita dei settori industriali strategici (acciaio) e dai grandissimi giacimenti di oro, che permisero a questi di rimpossessarsi dei titoli di stato in mano a degli stranieri. La crisi europea fu più evidente soprattutto per l’ascesa di altre forze economiche, tra cui il Sudamerica e il Giappone, il quale fu il fornitore di prodotti industriali per la Cina, India e Indonesia. Così le potenze europee erano diventate dipendenti dall’estero.

Nuovi modelli economici per uscire dalla crisiIn questo clima, si generarono una serie di scioperi e di agitazioni che coinvolsero diversi strati sociali, al fine di una più equa distribuzione della ricchezza e di difendere il loro reddito dall’inflazione. A tutto ciò lo stato rispose accentrando in se il potere. Da ciò nacquero nuove teorie economiche, secondo cui l’iniziativa privata e il mercato, se lasciati a se stessi, avrebbero potuto rivelarsi una catastrofe per l’economica statale, infatti questi dovevano essere subordinati allo stato, in quanto simbolo di una volontà superiore, era capace di finalizzarle all’interesse comune. Tutto ciò era finalizzato all’eliminazione della concorrenza tra le varie aziende, che portava alla dissipazione delle risorse, e al controllo del conflitto tra capitale e lavoro, che ostacolava la produttività. Queste nuove teorie prendono il nome di “corporativismo”, che presero piede nel partiti fascisti in Germania e in Italia. L’affermarsi del corporativismo andava di pari passo con l’affermarsi di una nuova cultura politica, la quale sosteneva l’eliminazione del parlamentarismo e la realizzazione di un sistema politico, il cui vertice era occupato da un capo guida che grazie ai suoi poteri autoritari poteva esprimere e comprendere i bisogni delle masse. Un’importante filosofo che interpretò tutto questo fu Oswald Spengler, nel suo libro “Il tramonto dell’Occidente” (titolo che indica proprio la crisi del vecchio continente), che riteneva la sua società contemporanea era stata travolta dai processi di modernizzazione e per poter mettere fine a tutto ciò era necessario un’azione di poteri forti, concentrati in un individuo dominante, guida dispotica delle masse. Dunque l’ascesa del potere “cesaristico” sarebbe avvenuta non in seguito a delle elezioni, ma grazie alla capacità del “nuovo Cesare” di far rispecchiare l’individuo in se stesso: instaura una sorta di sintonia carismatica con il cittadino. Solo con un regime totalitario si sarebbe potuta superare la crisi.

Le nuove richieste di partecipazione politicaIl formarsi di queste nuove ideologie politiche era un evidente segnale che non si trattava di una semplice crisi economica, ma bensì generale che colpiva più ambiti sociali, soprattutto dimostrava il declino delle

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istituzioni liberali e democratiche, le quali non riuscirono ad interpretare correttamente i cambiamenti apportati dalla prima guerra mondiale. La guerra lasciò negli animi dei soldati e non solo, delle impronte cancellabili, soprattutto a livello psicologico. Tra i vari soldati, per darsi coraggio di fronte alle avversità, si era creata una particolare solidarietà, che successivamente con il ritorno alla vita civile quotidiana, si cercò di ricreare tramite la formazione varie associazioni di ex-combattenti. Tutto ciò dimostrava un maggior bisogno di partecipazione sociale e permise una crescente adesione ai partiti e sindacati. La richiesta delle masse di una maggiore partecipazione alla vita politica, insieme al tasso di disoccupazione elevato ed all’inflazione, fece si che la popolazione manifestasse il proprio mal contento, con una serie di lotte sociali di stampo reazionario. I movimenti reazionari erano appoggiati dalla piccola e media borghesia, la quale non si riconosceva più nel sistema parlamentare (il quale riteneva tali manifestazioni di ordine urbani, anziché l’espressione di un malcontento popolare) e tendeva verso a una società fortemente gerarchizzata e ordinata, dove l’individuo era sacrificato al bene della nazione e si rispecchiava nel capo carismatico.

La crisi negli stati democraticiNel biennio del 1919-20 la rivalità tra la popolazione e i nuovi movimenti reazionari contro lo stato liberale si fecce più forti. Il processo di stabilizzazione istituzionale però è differente nei vari stati: negli stati, dove vi era una tradizione democratica ben salda, quali Gran Bretagna e Francia, i movimenti postbellici non segnarono una rottura nel quadro istituzionale, mentre negli altri stati ci fu un più profondo impatto con la guerra, che portò alla creazione di un regime totalitario, come Germania e Italia.

Crisi economica e conflitti sociali in Gran BretagnaAlla fine della prima guerra mondiale, anche in Gran Bretagna si ebbe una forte crisi, evidenziata soprattutto dal fatto che la Gran Bretagna non fosse più la prima potenza mondiale e la sua egemonia economica, dunque, era venuta meno. Infatti, già dal 1916 era scoppiata una campagna antibritannica nell’Irlanda, che toccò l’apice nel 1919, quando questa tramite il movimento nazionalistico irlandese, organizzato dall’IRA (Irish Republican Army), aveva dichiarato la propria indipendenza, generando un feroce scontro tra cattolici e protestanti. La guerriglia andò avanti fino al 6 dicembre 1921, quando fu proclamato ufficialmente lo Stato libero Irlandese, che però si spaccò in due: l’Ulster, regione comprendente le 6 province del nord di maggioranza protestante, rimase sotto il diretto controllo britannico.

Politica deflazionistica: vantaggi e limitiCon l’intento di rivalutare la sterlina (1STE=4.86$), il governo britannico instaurò una politica deflazionistica. Tale obiettivo venne raggiunto nel 1925, portando notevole prestigio alla Gran Bretagna, la quale dimostrava di essere ancora una gran potenza. Ciò fu permesso anche grazie al Gold Standard, che permetteva la convertibilità della sterlina in oro e le poneva un prezzo fisso a livello internazionale. Tutto ciò portò dei svantaggi all’economia inglese, che venne penalizzata nelle esportazioni e nella ripresa produttiva a causa dell’alto costo del denaro. A questo si deve sommare poi la conversione industriale che spostò l’interesse dal monopolio del carbone a quello dell’energia elettrica e del petrolio, producendo così milioni di disoccupati. Ci furono allora delle manifestazioni operaie, la cui più importante è lo sciopero dei minatori del 1926, il quale poi venne fermato dal Partito Laburista e dalle Trade Unions per evitare che si trasformasse in una guerra civile. Il governo allora diminuì le ore di sciopero, portando l’adesione pubblica alle Unions quasi a nulla.

Coesione antigermanica e ripresa economica in FranciaLa Francia affrontò la crisi usufruendo del risarcimento di guerra che la Germania versava periodicamente nelle casse dello stato francese. Aumentarono le iscrizioni ai partiti: gli operai francesi erano riusciti a conquistare importanti risultati, come le 8 ore di lavoro. In questo periodo però le lotte sociali si radicalizzarono, portando allo spacco dello stesso movimento operaio. Così il primo ministro francese decreto lo scioglimento della confederazione sindacale (Cgt). L’economia francese reagì molto più velocemente rispetto alle altre potenze europee, poiché contò sull’annessione dell’Alsazia e della Lorena e in particolare del rimborso tedesco. L’industria automobilistica divenne la prima in Europa e l’offerta di lavoro nelle industrie attirarono la popolazione delle campagne nella città.

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Gli Stati Uniti: tendenze conservatrici e isolazionisteIn seguito all’esito della guerra, gli Stati Uniti optarono per una politica conservatrice ed isolazionistica, non aderendo alla Società delle Nazioni. I “ruggenti anni venti” non portavano con loro solo una grande crescita industriale, favorita da un’assenza di controllo sulle concertazioni industriali e finanziarie, ma anche agli anni del proibizionismo: venne proibito la produzione e vendita di alcoolici, producendo la mala via organizzata. Vennero adottate nuove misure per l’immigrazione, per timore del diffondersi del bolscevismo e del comunismo. Sono gli anni di formazione del movimento razzista del Ku Klux Klan, che si macchiò di vari crimini contro la popolazione di colore. Nonostante ciò l’ascesa dell’economia statunitense procedeva senza sosta.

La Germania di WeimarLa situazione economica si aggravò particolarmente negli stati centrali, soprattutto in Germania, dove già pochi giorni prima del termine della guerra, i marinai della base di Kiel scioperarono, generando così una reazione a catena generando scioperi anche nelle altre città tedesche. Il kaiser, non essendo capace di affrontare la situazione e comprendendo la sua gravità, decise di scappare in Olanda e vanne proclamata la repubblica, affidata poi al governo provvisorio del socialdemocratico Friedrich Ebert. Un anno dopo venne convocata l’assemblea costituente a Weimar, dove venne promulgata una nuova costituzione, eleggendo Ebert come presidente della repubblica e Scheidamann come cancelliere. Secondo la nuova carta costituzionale, alla cui redazione collaborò anche il filosofo Max Weber e lo storico Meinecke, il potere legislativo era nelle mani del parlamento, eletto a suffragio universale maschile e femminile secondo il sistema elettorale proporzionale, e del Consiglio Federale, costituito dai rappresentanti delle vari stati regionali (Lander). Il potere esecutivo invece era affidato al presidente della repubblica, eletto direttamente dai cittadini ogni sette anni, il quale aveva il compito di eleggere il capo del governo (il cancelliere), di porre il veto alle leggi emanate dal parlamento, inoltre in caso di pericolo per la nazione poteva sciogliere il parlamento e accentrare tutti i poteri nelle sue mani. Nonostante la modernità della costituzione, vi erano ancora all’interno dell’apparato burocratico coloro che rimanevano fedeli all’autorità tradizionale prussiana, in particolare nell’esercito, dove in alcuni settori non vi era la simpatia per le istituzioni democratiche.

La repressione del moto rivoluzionario spartachistaI Socialdemocratici maggioritari e i socialisti indipendenti erano alle redini del potere tedesco, anche se differenti tra di loro per programmi politici. I socialdemocratici proponevano un regime di tipo parlamentare e si opponevano a soluzioni di tipo bolscevico. I socialisti indipendenti, invece, anche se contrarie a soluzioni rivoluzionarie, miravano a riforme radicali, come alla nazionalizzazione delle industrie e alla espropriazione delle terre. All’estrema sinistra era legata anche la Lega di Sparta, nata da una scissione all’interno del partito Socialdemocratico, che poi diventerà il Partito Comunista tedesco nel 1919 (KPF). A Berlino, in seguito a una manifestazione convocata dall’estrema sinistra, fu travolta da uno scontro armato. Ebert, che era contrario ai movimenti rivoluzionari, schierò le Freikorps (“corpi franchi”) contro la mobilitazione dei lavoratori. Le milizie agirono con una dura repressione, uccidendo i dirigenti del partito comunista e colpendo l’opposizione operaia. Dopo la repressa nel sangue della rivolta spartachista, i Freikorps continuarono ad operare grazie all’appoggio degli ufficiali dell’estrema destra, commettendo attentati terroristici contro l’opposizione.

Una spirale inflazionistica senza precedentiL’inflazione toccò in Germania livelli molto più alti rispetto al resto dell’Europa, in quanto lo stato tedesco dovette far fronte a un grave debito di guerra, pari a 132 miliardi di marchi-oro, e i provvedimenti presi non fecero altro che accelerare questo processo. Lo stato, infatti, aumentò il debito pubblico, stampando grandi quantità di cartamoneta e contemporaneamente dichiarando inconvertibile la moneta in oro, tramite il corso forzoso. In seguito, con la richiesta di pagare il debito di guerra, stampò ancora più cartamoneta, con la conseguente caduta del valore della moneta (1STE = 35milaMARCHI) e l’aumento dei prezzi.

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L’occupazione della Ruhr e la svolta conservatriceLa Germania allora rinunciò alla politica di adempimento e dichiarò l’impossibilità dei pagamenti. A tale dichiarazione la Francia passò subito all’attacco invadendo la Ruhr, regione tedesca ricca di giacimenti carboniferi. I lavoratori tedeschi, però, inaugurarono uno sciopero generale per bloccare la produzione e lo stesso stato tedesco proclamò la “resistenza passiva”. L’occupazione francese fece innalzare ulteriormente l’inflazione (1STE = 18miliardiMARCHI). La crisi colpì i lavoratori a reddito fisso e i piccoli produttori, mentre arricchì i grandi imprenditori industriali e i magnati della finanza, poiché gestivano i loro affari con una moneta estera. Per cercare di porre una soluzione a tale situazione, il governo prese una serie di provvedimenti: sul piano della politica estera pose fine al boicottaggio della Ruhr, ottenendo il progressivo ritiro delle truppe francesi; sul piano della politica interna proseguì una dura repressione a sinistra; sul piano economico istituì il Rentemark (“marco di rendita”), il cui valore era garantito da un’ipoteca sui beni nazionali. L’economia tedesca ebbe una ricrescita, che li permise di accordarsi per le riparazioni. Si decise di attuare il piano Dawes, secondo cui in Germania veniva investiti capitali statunitensi, che dovevano essere restituiti annualmente in base alla situazione economica tedesca, permettendo in questo modo il decollo dell’economia tedesca. La riconciliazione franco-tedesca venne sancita dagli accordi di Locarno, secondo cui veniva attuato nuovamente il patto di Versailles.

La destra eversiva contro la repubblica di WeimarSia la destra moderata che quella estrema era suddivisa in vari gruppi minori, ma benché questo, i loro consensi erano sempre maggiori. Basti pensare che nell’elezioni del 1925 vinse Hindeburg, il quale era il punto di riferimento per molti nazionalisti. Infatti, il programma della destra estrema s’intreccia con quello nazionalista per il fattore del razzismo nei confronti degli ebrei. Su questa base, nazionalista e antisemita, fu fondato il Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori (NSDAP) da Adolf Hitler. Il partito era costruito in modo strettamente gerarchico, al vertice c’era l’assoluta autorità del capo (Fuhrerprinzip), e difeso da squadre paramilitari, le SA. Così per cercare di arrivare al potere Hilter tentò un colpo di mano a Monaco, che fallì e lo stesso Hitler venne arrestato. Hitler in carcere scrisse Mein Kampf (“La mia battaglia”), dove espone il suo programma politico: l’opposizione al trattato di Versailles, la riunificazione di tutti i tedeschi, la privazione del diritto di cittadinanza per coloro che non posseggono sangue tedesco (ebrei) e la necessità di uno spazio vitale per la Germania, che gli permettesse di estendersi verso est. Grazie al fallimento ottenuto a Monaco comprese che l’unico modo per arrivare al potere era garantirsi l’appoggio dell’esercito e della polizia.

Il “Mito di Weimar”: un’epoca splendida prima della catastrofeGli anni venti in Germania si configurano come anni di fioritura culturale e artistica, tanto che vengono paragonati ad un “nuovo rinascimento”, e a tutto ciò si lega il mito di Weimar. Si guarda a quei artisti e alle loro opere come se avessero la percezione che in Europa e in Germania da li a breve si sarebbe abbattuta una catastrofe, anche se fino al 1933 nessun esito catastrofico era prevedibile.

Il caso italiano: dallo stato liberale al fascismoDifficoltà economica del primo dopoguerraIl periodo postbellico portò in Italia una forte radicalizzazione dello scontro sociale, fino al completo scioglimento delle istituzioni liberali per la creazione di un regime totalitario che poi sarà d’ispirazione nel resto d’Europa. Tutto ciò si deve al fatto che nel paese italiano non ci fosse un tradizione liberale ben forte. Anche in Italia, il dopoguerra fu caratterizzato da effetti devastanti per la popolazione: l’inflazione e la disoccupazione non fecero che alimentare le lotte sociali, che evidenziavo il diverso processo industriale presente tra il nord e il sud. Nonostante ciò, la guerra permise un’espansione industriale: i grandi magnati industriali si servirono di ingenti capitali pubblici per estendere la loro influenza in ogni campo industriale. I nuovi colossi industriali molto spesso erano ingigantiti, ossia le loro azioni erano quotate maggiormente del loro prezzo effettivo, e sfruttavano capitali in investimenti sempre crescenti e azzardati, contando sull’aiuto dello stato in caso di bisogno. Così vi era una sempre più maggiore necessità di capitali e le industrie si invocavano alle banche, le quali in questo modo estendevano la loro influenza anche nel settore industriale.

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Allora si creeranno un forte intreccio tra i gruppi monopolistici e il quadrumvirato delle banche più potenti italiane (Banca commerciale, Banca del Credito italiano, Banca di Sconto, Banco di Roma).

Un capitalismo monopolistico e il dualismo nord-sudLa guerra permise lo sviluppo di un sistema capitalistico, dove lo stato svolgeva il ruolo più importante: regolatore della domanda e organizzatore dell’offerta. Tale espansionismo industriale non si sviluppò omogeneamente, bensì mostrò il dualismo economico esistente in Italia. La maggior parte delle industrie era concentrata nel centro-nord, in particolare nel triangolo industriale Milano-Torino-Genova, mentre nel sud si viva soprattutto di agricoltura. I contadini meridionali vivevano in condizioni estreme e non potevano accedere alle grandi proprietà terriere, le quali erano nelle mani dei latifondisti e borghesia agraria. L’unica speranza per una vita migliore era l’emigrare, ma con le nuove leggi americane sull’emigrazione anche questo era difficile da farsi.

Questione meridionaleLa guerra è stata superata grazie all’incitamento dei soldati con la promessa delle terre, anche se al loro rientro tale promessa non venne mantenuta. I braccianti reagirono occupando i latifondi, appoggiati dai sindacati socialisti e dall’Associazione nazionale dei combattenti. Questi chiedevano il possesso delle terre incolte delle grandi proprietà, ma lo stato non reagì e il conflitto divenne ancora più grave. Questo dimostrava la distanza che vi era tra stato e popolazione, e fu il problema che decreto proprio la fine del sistema liberale. Solo Antonio Gramsci e il gruppo dei giovani intellettuali torinesi compresero la gravità di ciò ed espressero le loro idee nel foglio “L’Ordine nuovo”: i contadini dovevano essere i protagonisti della rivoluzione sociale e della ricostruzione. Infatti ritenevano che se i contadini fossero ben organizzati, potrebbero essere un elemento di ordine e di progresso, ciò non avvenne, in questo modo si sentirono estranei allo stato e alle sue istituzioni e si prepararono all’avvento della dittatura.

Il biennio rosso in ItaliaIl sistema capitalistico instaurato in Italia, dove il ruolo più importante era svolto dallo stato, dovette affrontare un difficile periodo. Il sistema economico era malato, poiché le azioni erano quotate maggiormente del loro valore e mancava di un mercato interno, in quanto la popolazione era talmente povera da non garantire un consumo tale da farsì che la produzione industriale aumenti. A ciò si aggiunse anche il fattore della crescente inflazione e disoccupazione e il crollo della lira (1$=28£). Il svalutamento della lira era sfavorevole nei cambi: l’Italia importava dagli USA grano, carbone e petrolio.

La mobilitazione del proletariato industrialeTutto ciò portò un forte malcontento nella popolazione che si manifestò con un’ondata di vari scioperi. I lavoratori chiedevano la riduzione delle ore giornaliere lavorative, un aumento salariato per reggere il corso della vita, condizioni di lavoro più umane, il riconoscimento delle “commissioni interne”, organi di rappresentanza dei lavoratori all’interno delle fabbriche. Nelle zone industrializzate, le lotte operaie si unirono alle lotte dei braccianti, i quali a differenza di quelli del sud non chiedevano il possesso delle terre, bensì salari più elevati e un ente che garantisse maggiori stabilità di occupazione. I lavoratori riuscirono ad ottenere importanti risultati: protessero il loro potere d’acquisto e ottennero le 8 ore lavorative. Il culmine delle rivolte venne toccato fra il 12 giugno e il 7 luglio del 1919, quando gli scioperi per il rincaro dei prezzi che scopiarono a La Spezia si dilagarono in tutta l’Italia. Lo stato reagì con una dura repressione, ma riuscì anche a porre un calmiere ai prezzi dei beni di largo consumo.

La frustrazione dei ceti mediL’inflazione non colpì solo i ceti poveri, manche la piccola e la media borghesia, come salariati e risparmiatori. Ciò corrispondeva a una crisi di identità sociale, poiché la piccola borghesia aveva goduto un ruolo di prestigio nell’esercito e mal si conciliava con l’anonimato della vita quotidiana del dopoguerra. Il tenore di vita di molti ex combattenti peggiorò, avvicinandosi a quello della classe proletaria che fino allora avevano sempre ripudiato. I redditi degli impiegati, soprattutto pubblici, furono taglieggiati maggiormente rispetto a quelli degli operai. Il risentimento della classe della piccola borghesia si muoveva anche verso

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quella della borghesia agiata, i cui partecipanti vennero definiti “pescicani”, i quali accumularono ingenti ricchezze e portarono una netta differenza tra essi e il resto della popolazione. Crebbe così anche la sfiducia nello stato liberale incapace di tutelare i ceti medi.

Benito Mussolini e la nascita del Movimento dei fasci e delle corporazioniTra coloro che riuscirono a ben comprendere la grave situazione che si trovava a vivere il ceto medio impoverito fu Mussolini. Egli fu l’ex direttore dell’ ”Avanti!” ed esponente della parte più rivoluzionaria del Partito Socialista Italiano (PSI), dal quale venne espulso per la sua insistenza per la partecipazione alla guerra. In seguito all’espulsione, nel 1919 a Milano fondò il Movimento dei Fasci e delle Corporazioni, che due anni dopo sarebbe diventato il Partito Nazionale Fascista. Questi si fecero conoscere con l’incendio della sede nel 25 aprile del 1919 del periodico socialista “Avanti!”, il loro principale obiettivo infatti era indebolire il movimento operaio e le sue organizzazioni, sostituirsi allo stato e l’utilizzo della violenza. Il movimento dei fasci si intrecciava con il movimento nazionalista, in quando le idee di fondo s’intrecciano:

esaltazione della violenza e dell’azione individuale rifiuto degli ideali pacifisti rifiuto del valore dello stato di diritto

Il mito della vittoria mutilata e la questione di “Fiume”In seguito agli esiti del trattato di Versailles, nacque un forte mal contento nella popolazione nazionalistica, chiamato il “mito della vittoria mutilata”. Tale questione venne utilizzata dai nazionalisti conto il governo liberale, ritenuto incapace di far valere i diritti della nazione, conquistati in guerra. Ciò portò alle dimissioni del governo Orlando (19 giugno 1919), sostituito da quello di Nitti (liberale riformista), che non riuscì però ad arginare la crisi italiana, che si aggravò ulteriormente. In seguito alle decisioni prese nella conferenza, si riteneva che Fiume dev’essere una città libera, questa soluzione però non andò giù ai nazionalisti italiani che si scagliarono maggiormente contro il governo. Nacquero cosi delle rivalità tra le truppe italiane e francesi, si decise allora di limitare i contingenti italiani. A ciò si oppose Gabriele d’Annunzio che partì alla volta di Fiume, dove venne catturato e carcerato. Emerse la debolezza dello stato, incapace di intervenire, lasciando maggior spazio alla destra, la quale propagandava sentimenti nazionalistici, militaristici e antiparlamentari. La discussione attorno a Fiume si placcò solo quando nel 1920 col trattato di Rapallo fu dichiarata “città libera”.

Il Partito popolare e il cattolicesimo democratico di StrurzoIn questo frangente maturò la formazione del Partito Popolare Italiano (PPI), fondato da Don Sturzo, esponente del cattolicesimo democratico italiano, con l’intento di raccogliere l’adesione dei cattolici per formare una nuova forza politica in cui riconoscersi. Nacque subito dopo l’abrogazione della bolla di papa Benedetto XV, nella quale dava il proprio consenso per la formazione di partiti cattolici, consapevoli che i credenti avrebbero dovuto possedere un istituzione che li rappresentasse e allo stesso tempo emarginasse i l movimento socialista. Al partito aderirono le popolazioni delle campagne e anche parte degli operai. I punti salienti della dottrina del partito erano il rispetto della proprietà privata, la riforma agraria e la riforma tributaria per una più equa distribuzione delle ricchezze, maggiore autonomia agli enti locali e in fatto di politica estera si manteneva sostenitore delle teorie wilsoniane. Il partito però fu destinato al declino con l’avvento del papa Pio XI, il quale era più conservatore.

La vittoria dei partiti popolariNel 1919, i cittadini italiani furono chiamati all’elezioni, che si svolsero secondo il nuovo sistema elettorale proporzionale. Il nuovo sistema fu richiesto a gran voce dal partito socialista e cattolico, in quanto il sistema uninominale era tipico liberale, col quale coloro che appartenevano all’elitè locale manipolando gli elettori riuscivano ad ottenere un numero maggiore di voti. Infatti con il nuovo sistema e il suffragio universale e maschile il governo liberale cominciò sfaldarsi. Nelle elezioni il Partito Socialista e il Partito popolare uscirono vittoriosi, anche se con la rientrata in scena di Giolitti le forze liberali possedevano la maggioranza relativa.

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La difficile ricerca degli equilibriIl risultato dell’elezioni però lasciava aperta la discussione riguardo la formazione di un governo che potesse fronteggiare la crisi, in quanto nessun partito possedeva le potenzialità per governare da solo, ma nessuno voleva collaborare con gli altri. In questa situazione l’unico uomo politico capace di porre una soluzione era Giolitti, il quale propose un programma nettamente riformista, basato su una rigorosa riforma tributaria e sull’aumento del potere al parlamento. Tale proposta però non ottenne il consenso dei socialisti e del partito popolare e nel mentre in tutta Italia l’influenza del fascismo aumentava sempre più.

L’occupazione delle fabbriche: la rivoluzione alla porte?Nel 30 agosto 1920, le rivolte operaie arrivarono al culmine quando gli operai dell’Alfa Romeo occuparono la fabbrica come risposta all’annuncia della sua chiusura da parte del dirigente, dando avvio a una reazione a catena. Le occupazioni avvennero particolarmente a Torino, non perché fosse il centro delle concentrazioni industriali ma bensì perché operava il gruppo dell’ “Ordine Nuovo” , dal quale sarebbe sorto due anni dopo il Partito Comunista Italiano (PCI). L’occupazione delle fabbriche però divenne ben presto un problema politico, in quanto né il Psi né la Cgl decise di prendere la direzione del movimento di rivolta. A capo dell’occupazione rimase solo la Federazione Italiana Operai Metallurgici (FIOM), la quale però non riuscì a coinvolgere gli operai degli altri settori industriali. Tutto ciò dimostra come tale azione non potesse avere una base rivoluzionaria, infatti lo stesso Psi lo usò come strumento di pressione per arrivare al potere e dar vita a un esperimento riformista.

La crisi del compromesso giolittianoIn seguito all’occupazioni, gli operai ottennero un aumento di salario e il riconoscimento di forme di controllo operaio nella gestione delle aziende. Nonostante ciò, il governo non era riuscito ad assicurare la pace sociale. La borghesia industriale e agraria, infatti, riteneva che le rappresaglie operaie e il potere sindacalista fosse la causa principale del disordine sociale ed il maggior ostacolo per la ripresa economica. L’occupazione spaventò la borghesia, poiché si rese conto che anche privi di una direzione, gli operai erano in grado di far funzionare le officine, cosicché abbandonarono il riformismo giolittiano e preferirono il movimento fascista.

Dal biennio rosso al biennio neroInsieme alla rottura tra il riformismo giolittiano e la borghesia, all’interno del Psi si sottolineava la divisione fra massimalisti e riformisti. Tra la popolazione si iniziava a prevedere una nuova profonda crisi ed è proprio in questo clima che i fascisti organizzarono la loro prima offensiva: in seguito allo stabilirsi della nuova amministrazione socialista a Bologna i fascisti assaltarono il municipio, provocando una serie di tumulti. Un mese dopo analogamente accade a Ferrara e poi in tutta la val padana. In questo modo, si passò dal biennio rosso, caratterizzato dalla profonda crisi economica, al biennio nero, all’insegna dell’offensiva antisocialista per potare il fascismo al potere.

L’avvento del fascismoL’espansione industriale era sorretta dall’inflazione, dalle sovvenzioni pubbliche e dal sostegno delle banche. Questo equilibrio iniziò a rompersi quando l’Ilva e l’Ansaldo, le società italiane più potenti, si trovarono sull’orlo del fallimento, trascinando nel vortice anche le banche che le finanziavano. Queste si salvarono grazie all’intervento dello stato. Tale manovra economica però fece sì che gli investimenti calarono in ogni settore produttivo, rallentando l’inflazione ma allo stesso tempo aumentando al disoccupazione. Allora i lavoratori in cerca di un’occupazione, disposti ad accettare condizioni di lavoro poco favorevoli, allentarono la forza con cui il proletariato si era combattuto per i propri diritti sul posto di lavoro. In questo modo, tutto sembrava tornare a livello sociale come una volta, dove la borghesia teneva le redini dell’economia. Nel 1921, Giolitti emanò vari provvedimenti:

abolì il prezzo politico del pane fornì a prezzi bassi i beni di prima necessità aumentò le tariffe doganali, al fine di tutelare il sistema industriale nazionale

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La fine del compromesso giolittiano e la nascita del Partito fascistaCon la rottura della borghesia e egli operai con il governo giolittiano, Mussolini comprese che era possibile arrivare al potere, cercando l’appoggio proprio di questi, dandosi un assetto conservatore. Così nel 1921 il Movimento di Fasci si trasformò in un partito organizzato gerarchicamente, detto il Partito Nazional Fascista (PNF), e poco dopo la Confederazione delle Corporazioni Sindacali, al fine di arrivare ai lavoratori. Mussolini cercò anche l’appoggio della Chiesa e dei cattolici, cercando di riscuotere la simpatia del papa Pio XI. In seguito riscosse del successo anche negli ambienti vicini alla corona e nelle alte gerarchie militari. Il piano politico del partito rimaneva ancora però l’utilizzo della violenza contro il movimento operaio, cosicché potenziò le squadre d’azione, le quali intensificarono le spedizioni punitive contro partiti d’opposizione e giornali. Nelle campagne si stava per scatenare una guerra civile, che ben presto sarebbe dilagata in tutto il paese, proprio in questa frattura tra contadini e media borghesia s’inserì il fascismo.

Gli errori di prospettiva di Giolitti e l’impasse del Partito SocialistaIl movimento fascista fu sottovalutato e le stesse forze liberali decisero di utilizzarlo solo come un semplice strumento per reprimere le rivolte operaie, per poi eliminarlo svolto tale compito. L’ascesa del fascismo fu poi facilitata dalla sconfitta del movimento operaio, dovuta non solo al fascismo ma anche al clima economico vigente e alla debolezza del partito socialista, indebolito per le continue lotte che si generavano al suo interno tra massimalisti e riformisti. Il gruppo riformista era stato incapace di tutelare i diritti dei lavoratori, le classi medie e gli interessi dei ceti imprenditoriali. Nonostante nelle elezioni del 1921 avessero vinto, il partito socialista si trovò isolato, poiché si era consolidata un’alleanza tra liberali, nazionalisti e fascisti.

Le spaccature del movimento socialistaIl movimento socialista non era stato capace di reggere gli attacchi fascisti, in quanto frammentato e isolato. La direzione del partito aveva espulso la parte riformista, la quale poi diede origine al Partito Socialista unitario (PSU). A tale decisione, la Cgl rinunciò al patto di alleanze con il partito socialista e si diede una propria autonomia, cosi da avere più libertà. La minoranza comunista (Gramsci), inoltre, decise di separarsi e di fondare il Partito comunista d’Italia. Intanto in tutta Italia dilagavano le incursioni fasciste: il 12 maggio 1921 il ras di Ferrara, Italo Balbo, invase con le milizie Ferrara e il 27 maggio Bologna cadde nelle mani dei fascisti.

La debolezza dei governi liberaliIl popolo non si riconosce più ormai nel governo liberale, così i fascisti pensarono bene che era il momento giusto di avviare una decisa azione insurrezionale che piegasse le ultime forze antiliberali, per un’ascesa più rapida al potere. La situazione allora degenerò: la debolezza del governo cresceva, mentre il parlamento era bloccato al suo interno per le sue lacerazioni. Così il governo di Giolitti cadde nel 1921, ma i suoi successori non furono in grado di dare una soluzione alla grave situazione.

La marcia su Roma: l’Italia verso la dittaturaIl 28 ottobre del 1921 migliaia di fascisti armati, guidati dal quadrumvirato dei massimi esponenti del partito (Emilio De Bono, Italo Balbo, Cesare De Vecchi, Michele Bianchi), occuparono militarmente la capitale e le città del nord, mentre Mussolini aspettava a Milano il compiersi dei fatti. L’ordine di mandare l’esercito per intervenire contro l’assedio fu bloccato dal re Vittorio Emanuele II, il quale successivamente incaricò lo stesso Mussolini a formare un nuovo governo. In questo modo le forze liberali furono completamente distrutte e il fascismo, con l’appoggio delle cariche maggiori dello stato, si preparava a instaurare in Italia una dittatura cupa e aggressiva.

La costruzione del regimeCon l’avvento del regime fascista ci fu una ripresa economica nel triennio 1923-25, grazie all’aiuto dello stato nell’accumulazione dei capitali e investimenti. Per raggiungere questo risultato si fece soprattutto leva sul fisco:

vennero eliminate le leggi fiscali, emanate da Giolitti

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si defiscalizzarono i redditi azionari i contadini e gli operai dovettero pagare delle imposte sul reddito l’aumento dei beni di consumo, attraverso delle imposte indirette si diminuì la spesa pubblica per far fronte al debito pubblico

Dal punto di vista politico limito la libertà di espressione e di stampa, mentre dal punto di vista economico lasciò ogni libertà d’iniziativa agli imprenditori e per agevolare la produzione e gli investimenti lo stato prestò ingenti quantità di capitali. Si può parlare di crescita economica fino al 1926, quando vennero percepiti i primi segnali di un nuovo ristagno economico, ma per porre una soluzione a tale problema vennero lanciate due nuove iniziative la battaglia del grano e la bonifica integrale. La battaglia del grano consisteva nell’accrescere la produzione agricola, in particolare quella del grano, attraverso l’utilizzo di nuovi macchinari. La bonifica integrale, invece, consisteva nell’estendere i terreni coltivabili, strappandoli alla palude e all’incolto, presenti soprattutto nel Mezzogiorno. Per l’applicazione di tutto ciò era necessario una grossa quantità di manodopera.

Il delitto Matteotti: il carattere illiberale del fascismoSin dall’inizio il programma fascista, Mussolini era contrario all’istituzioni liberali, piano iniziò a sostituirle con nuovi organismi necessari per la dittatura. Nacquero in questo modo il Gran Consiglio del fascismo, formato dai maggiori esponenti del capitalismo, e la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, incaricata di tutelare l’integrità del regime. Giacomo Matteotti denunciò l’imbroglio elettorale del 1924 con il quale vinsero i fascisti. In seguito a tale denuncia, fu rapito a Roma, e trovato pochi giorni dopo ucciso. Il delitto suscitò una profonda indignazione, ma nonostante ciò il re Vittorio Emanuele II diede il proprio appoggio a Mussolini. L’appoggio più importante Mussolini lo trovò nel papa Pio XI, il quale un forte conservatore, per cui contrario al parlamentarismo e alla democrazia liberale. Ciò non fermò Mussolini, il quale sciolse una gran parte delle associazioni giovanili cattoliche, come i Boy Scout.

Il 1926, l’anno di svolta: la costruzione del regime razzistaIl regime fascista al potere rivoluzionò completamente l’assetto istituzionale del paese, ma gradualmente: riducendo la libertà di espressione e di stampa gradualmente fino a farla scomparire, in modo da eliminare l’opposizione politica e sociale; estraniando il parlamento dei suoi poteri; creando nuovi canali di mediazione sociale, per assicurarsi l’appoggio del ceto sociale. Successivamente vennero promulgate alcuni decreti governativi, che spinsero il paese italiano verso la dittatura più estrema:

ridotta la libertà di stampa e di attività politica eliminata l’opposizione

Venne modificata, inoltre, l’organizzazione statale in modo che la maggior parte dei poteri vennero accentrati nelle mani del duce e il parlamento venne ridotto a un semplice organo di controllo (privato del potere legislativo); gli enti locali vennero affidati ai prefetti (eletti direttamente dal duce, al quale dovevano rispondere del loro operato); tutti i partiti, ad eccezione di quello fascista, furono dichiarati illegali e venne istituito un tribunale speciale per la difesa dello stato al fine di sopprimere l’opposizione del regime. Così venne eliminato il Partito Comunista, arrestando i suoi massimi esponenti, tra quali Gramsci; mentre altre personalità politiche per scampare alla forca presero la strada per l’esilio.

Le leggi sindacaliNel 1926 vennero promulgate le leggi sindacali, con le quali vennero resi illegali gli scioperi; i sindacati si convertirono a organismi di stato, con il compito di tutelare il bene della nazione, e sorvegliati da una magistratura del lavoro. In questo modo i lavoratori vennero assorbiti dalla grande macchina dello stato, come semplice forza-lavoro senza nessun riconoscimento come forza sociale. Con queste leggi si completò il disegno socio-politico del regime, che dopo aver privato i cittadini dei loro diritti civili e politici, priva i lavoratori di difendere i propri interessi.

La svolta economica: la rivalutazione della liraNel 1926 riprese la crescita dell’inflazione e della svalutazione della lira, interessando principalmente quel ceto a reddito fisso. Mussolini, timoroso che questi potessero non appoggiare il regime, decise di

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intraprendere un piano per la rivalutazione della lira, inserendo nuovamente lo stato come regolatore nella vita economica. La lira svalutata era agevolava le esportazioni, ma rendeva più difficoltose le importazioni, indebolendo soprattutto quei settori industriali che necessitavano di una grande importazione di materie prime (industria siderurgica e chimica, elettricità, agricoltura). Inoltre, in quanto favoriva la crescita dell’inflazione, impediva la realizzazione di un principale obiettivo del regime, per il quale la borghesia industriale e agraria lo avevano appoggiato: l’abbassamento dei salari. Intraprese allora l’impresa di “Quota 90”, che consisteva nel riportare il valore della lira a quello dell’anno precedente: 1 STE = 90 LIRE. In questo modo Mussolini attuò una nuova riforma politica: si cercò di ridurre l’inflazione, controllando i prezzi dei prodotti, tutelando i piccoli risparmiatori e i settori industriali più forti, imboccando la strada del protezionismo. Grazie a “quota 90” si rafforzò la grande industria e Mussolini dimostrò a tutto il mondo economico, che l’unica volontà politica in Italia era solo quella del duce.

Gli effetti sociali della rivalutazione: il consenso della piccola borghesia“Quota 90” generò una grave crisi, producendo gravi squilibri e forti tensioni sociali. Infatti, la crisi colpì maggiormente quei settori industriali legati principalmente all’esportazione, per cui aumentò disoccupazione e l’abbassamento dei salari non venne riequilibrato ai prezzi del mercato, e tutto ciò provocò la ripresa delle lotte operaie. Il regime, nonostante il tenore di vita delle masse lavoratrici si fosse abbassato notevolmente, continuò ad appoggiare gli interessi della borghesia industriale. Nonostante tutto ciò il regime si rafforzò, in quanto i piccoli risparmiatori invece vennero favoriti, poiché i loro depositi godevano di una stabilità, e grazie alla simpatia del papa Pio XI, che gli assicurò maggiori consensi nelle campagne e città.

Il nazismo e i regimi fascistiLa Germania nazistaA differenza degli Stati Uniti, dove nel dopo guerra si creo un fronte democratico, in Europa presero avviò movimenti reazionari, alimentati dalla crisi. La Germania fu travolta negli anni ’30 dalla crisi che colpì gli Stati Uniti, i quali non potendo più investire capitali nello stato tedesco, fecero precipitare l’economia di questo, nonostante la ripresa che ebbe nella seconda metà degli anni ’20. La disoccupazione così aumentò vertiginosamente e il malcontento fece sgretolare la repubblica, il cui governo non seppe prendere dei giusti provvedimenti per poter affrontare la crisi. In questo modo i consensi maggiori andarono verso la destra estrema, in particolare al partito Nazionalsocialista di Adolf Hitler.

L’ascesa del potere del Partito NazistaNel 1932, l’anno più duro della crisi, il partito nazionalsocialista ottenne la maggioranza relativa, così il presidente della repubblica Hindeburg incaricò Hitler di formare il nuovo governo. Nella notte del 27 febbraio, però, ci fu un attentato terroristico al parlamento: il Reichstag venne incendiato. Tutte le accuse ricaddero sui comunisti, permettendo ai nazisti di dare avviò a una dura repressione verso l’opposizione e venne ripristinata la pena di morte contro i crimini contro la sicurezza dello stato. In seguito a dei discordi in parlamento, vennero richiamati i cittadini tedeschi alle elezioni, le quali furono vinte con una netta maggioranza dai nazisti. Ciò permise a Hitler di mettere in atto tutti i suoi piani, in particolare di sopprimere ogni garanzia democratica, così pochi giorni seguenti furono affidati i pieni poteri a Hitler, privando il parlamento del potere legislativo.

La base sociale del nazismo: ceti popolari e ceti mediL’ascesa del nazismo fu resa possibile dall’appoggio dei ceti militari e il fatto di essere un’organizzazione nuova, non legata alla vecchia elite. Il partito di fatti era formato dai componenti dei ceti medio-bassi e dal proletariato non qualificato, formatosi con il taylorismo. Il proletariato dequalificato era la categoria sociale che più si riconosceva nel partito, il quale poi manipolò gli ideali del ceto medio per garantirsi il suo appoggio. Il nuovo ceto medio, infatti, sperava di distinguersi dal proletariato e di uscire dall’anonimato.

La dottrina del nazismo e il consolidamento dello stato totalitario

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Per assicurarsi l’appoggio della casta militare e dei ceti imprenditoriali, Hitler nella notte dei “lunghi coltelli” fece assassinare tutti i massimi esponenti dell’ala sinistra del partito. In seguito alla morte di Hidenburg, Hitler accentrò tutti i poteri nelle sue mani, avendo così le redini dello stato. Per spargere terrore nelle masse utilizzò squadre di polizia speciali, quali SS, per la difesa del partito, e la Gestapo. Si servì di queste inoltre per eliminare completamente l’opposizione, commettendo vari crimini, inoltre in questo senso vennero sciolti tutti i partiti. Molti oppositori cercarono scampo all’estero, ma anche gli esponenti del mondo culturale, in quanto ormai nello stato tedesco non esisteva più libertà di pensiero e di stampa, infatti venne avviato il rogo dei libri proibiti, al fine di distruggere le culture straniere.

La persecuzione antiebraicaI principali ideali di Hitler erano la superiorità genetica della razza ariana, di cui i tedeschi erano i puri rappresentanti, e la necessità di uno spazio vitale per lo stato tedesco, che gli permettesse di estendersi a est, verso la Russia. Hitler voleva rendere la Germania una potenza mondiale, a discapito del trattato di Versailles e riscattandosi della sconfitta della prima guerra mondiale. Il pericolo più grande, però, per l’integrità nazionale la purezza della razza erano gli ebrei. Tale astio era di origine economica: gli ebrei possedevano il controllo della maggior parte delle banche, così molti proprietari terrieri avevano ipotecato i loro beni con questi, quindi con l’eliminazione degli ebrei avrebbe risolto questo problema. Allora facendo leva sui sentimenti antisemiti, additò alla cultura e alla religione ebraica come la responsabile del declino economico tedesco. Con le leggi di Norimberga del 1935 gli ebrei vennero privati del diritto di cittadinanza, di voto, dagli impieghi pubblici e privati di qualsiasi diritto per l’esercitazione di una libera professione. Inoltre vennero vietati i matrimoni misti e quelli già celebrati furono annullati. Nel 1938 la persecuzione degli ebrei si fece più brutale e sistematica, basti pensare che tra la notte del 9 e 10 novembre, soprannominata la “notte dei cristalli”, nella quale si svolse la più feroce manifestazione antisemita.

I campi di concentramento e di sterminioI lager furono installati in tutto il territorio tedesco sin dagli inizi del partito nazista. La loro organizzazione era di tipo sistematico e scientifico. Si calcola che durante la seconda guerra mondiale furono deportati nei lager circa 8-10 milioni di tedeschi (ebrei e oppositori politici), di cui il 90% fu ucciso. In seguito al 1942, con l’emanazione della “soluzione finale” di Hitler, secondo il quale venne ordinato l’uccisione sistematica di tutti gli ebrei, vennero costruiti dei campi di sterminio.

Il lager, modello estremo dello stato totalitarioIl lager era uno strumento importante per il regime nazista, in quanto era parte integrate della sua ideologia, secondo cui l’avversario era un nemico assoluto e di conseguenza andava annientato, per cui simbolo della “schiavitù degli inferiori”. In aggiunta era uno strumento di terrore, rassicurando invece coloro che davano il loro pieno consenso al regime e appartenenti alla razza ariana. Il lager rappresentava inoltre il perfetto modello della società totalitaria depersonalizzata e organizzata sulla base di un sistema di disciplina integrale in cui ogni norma è costituita dalla pura volontà dei potenti. I prigionieri venivano suddivisi in gruppi ed a ogni gruppo spettava un contrassegno, collegato a una gerarchia (ordine crescente):

Ebrei: triangolo o stella gialla Zingari e omosessuali: triangolo rosa Emarginati e disoccupati: triangolo nero Oppositori politici: triangolo rosso Sacerdoti e testimoni di Geova: triangolo viola Criminali comuni: triangolo verde (soprannominati kapò, avevano il compito di far mantenere la

disciplina agli altri detenuti)Oltre ai soprusi che si trovavano a vivere quotidianamente dalle forze dell’ordine, gli ebrei vivevano in situazioni disumane: mal nutrizione, privi di riscaldamento e di igiene, etc.

Controllo sociale, dirigismo economico, espansionismo politicoIl regime totalitario puntava all’assoggettamento completo dell’individuo nelle strutture dello stato. Uno degli strumenti fondamentali che il regime nazista usava a suo favore era l’educazione. Le scuole, i giochi e

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letture erano finalizzati per la formazione di una perfetta gioventù devota al regime, per esempio per i ragazzi si prevedeva l’addestramento premilitare, mentre le ragazze si preparavano alla maternità, quindi a portare avanti la razza. Vennero usati poi i mas media al fine di estendere la propaganda nazista e assillare le masse, le quali si riconoscevano nella figura del capo carismatico del Fuhrer. Furono eliminate tutte le compagini sindacali e sostituite dal “fronte del lavoro”. Il regime applicò anche un coordinamento della politica industriale, promuovendo grandi piani di lavori pubblici per ridurre la disoccupazione, e una politica di riarmo, sostenendo la ripresa dell’industria pesante tedesca. Tale politica però ebbe riscontri con quella estera, poiché con il riarmo la Germania infrangeva il trattato di Versailles e per di più era una minacciava le altre potenze con il suo obiettivo espansionistico.

L’Austria dalla dittatura del Dolfuss all’annessione del Reich tedescoCon la crisi del 1929, generatasi negli Stai Uniti, venne travolta anche l’Europa, in cui ogni stato prese dei provvedimenti differenti. La Germania, come in Italia, si creò un regime totalitario, in cui ci fu la soppressione di ogni liberta democratica e la subordinazione dell’individuo al fine di uno sviluppo industriale. L’Austria, invece, conobbe già nel seguente dopoguerra la formazione di organizzazioni di stampo fascista e antisocialista, le Heiwehr. Questi raggiunsero il loro apice nel 1927, quando il governo viennese le utilizzò come strumento per la repressione della rivolta operaia. Anche qui la crisi portò ad una soluzione di tipo autoritario, infatti nell’elezioni del 1930 vinse Engelbert Dollfuss, leader dei conservatori cattolici, il quale contro la lotta contro il comunismo fondò il “Fronte patriottico”. Grazie a questa nuova istituzione, eliminò il regime parlamentare e si accentrarono tutti i poteri nel capo del governo Dolfuss, che seguì una politica basata sul dimensionamento delle libertà democratiche e sulla repressione dell’opposizione politica. Nonostante tutte le assomiglianze con il regime nazista, Dolfuss si oppose alla nazificazione dell’Austria: arrivò a sciogliere le nuove organizzazioni naziste nate nel paese, perdendo in questo modo molti consensi. Cosicché nel 1934 un gruppo di nazisti cercarono di attuare un colpo di stato, benché fosse andato male, costò la vita a Dolfuss. Pochi anni dopo, nel 1938, fu lo stesso Hitler, che con un’invasione militare annesse l’Austria al Terzo Reich.