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La Rassegna d’Ischia 3-4/03 1 Il venditore di graffen Ha il passo elastico, l’andatura ele- gante, lo sguardo puntato all’orizzon- te, come un guerriero di altri tempi. Percorre lungo la battigia la curva- tura dei Maronti in tutta la sua lun- ghezza, ogni giorno d’estate, avanti e indietro, senza mostrare mai se- gni di cedimento o di stanchezza, nemmeno quando il sole infuocato e il caldo torrido stremano i bagnan- ti. Nessuno conosce il suo nome, ma tutti i frequentatori dei Maronti, spe- cialmente i bambini, lo conoscono bene: lui vende le graffen. Il braccio sinistro piegato ad an- golo, con la mano appoggiata sulla schiena, crea il supporto per regge- re il vassoio delle graffen, il braccio destro, libero, appena appena lo sfiora o accompagna il movimento delle gambe. “Graffen” annuncia bal- danzoso, con cadenzata regolarità. Ma non si guarda in giro, non invita all’acquisto come tutti gli altri vendi- tori che affollano la spiaggia, non si sofferma mai ad offrire il tepore pro- fumato del suo prodotto. C’è un di- stacco superbo e disincantato nella sua operazione commerciale. Sol- tanto quando lo si chiama, si scuote all’improvviso dalla sua solitudine altera e si dirige con professionalità di venditore accanto al bambino o all’adulto, ugualmente irretiti dal pro- fumo di zucchero e di fragrante frit- tura, rassicurati dal rituale ripetitivo della graffe consumata sotto il sole afoso. Per dare la graffe finalmente si fer- ma, ma non resta in piedi: poggia un solo ginocchio a terra e, con la gestualità solenne di un cavaliere medioevale, abbassa il vassoio del- le graffen e offre in bustina il suo pro- dotto, quasi fosse un omaggio, un dono prezioso, un atto di deferen- za. Pagarlo sembra offensivo, super- fluo e lascia un poco stupiti. Ma lui riprende subito il suo cammino, non- curante degli sguardi, indifferente al caldo, al vocio, al mondo. Alla tarda mattinata o al pomeriggio scompa- re misteriosamente, così come era venuto, senza che mai qualcuno rie- sca a vederlo percorrere le scalette di accesso alla spiaggia. Resta un miraggio che si ripeterà ogni giorno, raggrumato in un grido, graffen, in una scia di profumo che arriverà puntuale a tentare l’ignaro bagnan- te. La venditrice di frutta ai Maronti Parla tedesco la venditrice di frut- ta: “obst, wollen sie obst?” E poi con- cede ai locali: “Frutta, frutta fresca e lavata”. La cesta che porta sul capo sopra un fazzoletto arrotolato a croc- chia trabocca di uva, di fichi, di pe- sche, ogni tipo di frutta stagionale, oppure golose primizie. La bilancia garantisce l’onestà del peso, ma non difende dal prezzo. Eppure quella frutta fredda e pulita, che dà l’illusio- ne di comprare in essa giovinezza e salute, finisce subito e il cesto vuoto che, allegra, la donna riporta molto presto dopo il suo giro, attesta un successo sicuro che si ripete ogni giorno per tutta la stagione estiva. Non è mai stanca o sudata o affran- ta la venditrice di frutta fin quando è sulla spiaggia; ma se capita di ve- derla, mentre sale in un’auto che l’aspetta alla curva alta della strada dei Maronti, quasi non la si ricono- sce tanto appare mutata. È diversa, è una contadina bruna, affaticata, come tante altre che abitano l’isola: lontano dai Maronti ha perduto la sua magia misteriosa. Il venditore di parei e asciugamani Abdullah o Mohammed: non si sa bene come si chiami, ma è biondo come un occidentale e allegro e fe- stoso. Ogni anno si sofferma a salu- tare i clienti dei Maronti, come un amico ritrovato e si informa premu- roso sul loro benessere. Curvo sot- to un peso improponibile di vestiti, avvolto nella sua gamma coloratis- sima di asciugamani caldi caldi, non dà segno di sofferenza. Si muove a volte burlone saltellando, a volte len- to e appena stanco, a volte veloce tra gli ombrelloni e offre alle signore la sua merce con generosa pazien- za di orientale. Attende che le signo- re provino i suoi parei, indossino i suoi vestiti, che scelgano, con esi- tazione da calura, il colore dei suoi asciugamani. Lui non dà mai segno di fastidio o di fretta. Sta lì, sorriden- te e aspetta: prima o poi tutti com- preranno. L’insalata dei Maronti La sua insalata è nota in tutta l’iso- la d’Ischia: è l’insalata dei Maronti. Ogni stabilimento balneare della spiaggia offre insalate miste nel pro- prio menu, ma nessuna può gareg- giare con la sua. Gerardo, con di- staccata sicurezza non mette in discussione la assoluta superiorità della propria insalata: è lui - dice - che l’ha inventata, che l’ha creata per primo. È un misto di pomodori- ni, di cipolle, di insalatina, di pepe- roncino, patate, condito sapiente- mente con olio particolare, mesco- lato con le sue mani abili e veloci, come fanno i cuochi perfetti. Tutti i prodotti, però, sono rigorosamente della sua terra, alimentati dal sole e dal calore dei Maronti, curati dal suo amore puntiglioso e testardo, nella convinzione che quell’insalata è la quintessenza della salute, una sor- ta di privilegio riservato ai suoi clienti affezionati che ogni anno tornano fe- deli a trovarlo. Nell’eleganza della particolare struttura lignea, per chi siede ai tavoli lucenti, costruiti con blocchi di legno rustico, nel ristoro dalla brezza leggera che si alza al- l’ora di pranzo, il bicchiere di vino bianco ghiacciato, il profumo del pane cafone, a volte perfino, con un sottofondo tenue di musica, mentre lo spettacolo di S. Angelo in lonta- nanza si profila sull’orizzonte abba- gliante di luce e di mare, forse qua- lunque insalata apparirebbe un cibo paradisiaco consumato in un mo- mento di magia. PERSONAGGI ISCHITANI di Giulia Colomba Sannia

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PERSONAGGI ISCHITANI

di Giulia Colomba Sannia

Il venditore di graffen

Ha il passo elastico, l’andatura ele-gante, lo sguardo puntato all’orizzon-te, come un guerriero di altri tempi.Percorre lungo la battigia la curva-tura dei Maronti in tutta la sua lun-ghezza, ogni giorno d’estate, avantie indietro, senza mostrare mai se-gni di cedimento o di stanchezza,nemmeno quando il sole infuocatoe il caldo torrido stremano i bagnan-ti. Nessuno conosce il suo nome, matutti i frequentatori dei Maronti, spe-cialmente i bambini, lo conosconobene: lui vende le graffen.

Il braccio sinistro piegato ad an-golo, con la mano appoggiata sullaschiena, crea il supporto per regge-re il vassoio delle graffen, il bracciodestro, libero, appena appena losfiora o accompagna il movimentodelle gambe. “Graffen” annuncia bal-danzoso, con cadenzata regolarità.Ma non si guarda in giro, non invitaall’acquisto come tutti gli altri vendi-tori che affollano la spiaggia, non sisofferma mai ad offrire il tepore pro-fumato del suo prodotto. C’è un di-stacco superbo e disincantato nellasua operazione commerciale. Sol-tanto quando lo si chiama, si scuoteall’improvviso dalla sua solitudinealtera e si dirige con professionalitàdi venditore accanto al bambino oall’adulto, ugualmente irretiti dal pro-fumo di zucchero e di fragrante frit-tura, rassicurati dal rituale ripetitivodella graffe consumata sotto il soleafoso.

Per dare la graffe finalmente si fer-ma, ma non resta in piedi: poggiaun solo ginocchio a terra e, con lagestualità solenne di un cavalieremedioevale, abbassa il vassoio del-le graffen e offre in bustina il suo pro-dotto, quasi fosse un omaggio, undono prezioso, un atto di deferen-za. Pagarlo sembra offensivo, super-fluo e lascia un poco stupiti. Ma luiriprende subito il suo cammino, non-curante degli sguardi, indifferente alcaldo, al vocio, al mondo. Alla tardamattinata o al pomeriggio scompa-re misteriosamente, così come eravenuto, senza che mai qualcuno rie-

sca a vederlo percorrere le scalettedi accesso alla spiaggia. Resta unmiraggio che si ripeterà ogni giorno,raggrumato in un grido, graffen, inuna scia di profumo che arriveràpuntuale a tentare l’ignaro bagnan-te.

La venditrice di fruttaai Maronti

Parla tedesco la venditrice di frut-ta: “obst, wollen sie obst?” E poi con-cede ai locali: “Frutta, frutta fresca elavata”. La cesta che porta sul caposopra un fazzoletto arrotolato a croc-chia trabocca di uva, di fichi, di pe-sche, ogni tipo di frutta stagionale,oppure golose primizie. La bilanciagarantisce l’onestà del peso, ma nondifende dal prezzo. Eppure quellafrutta fredda e pulita, che dà l’illusio-ne di comprare in essa giovinezza esalute, finisce subito e il cesto vuotoche, allegra, la donna riporta moltopresto dopo il suo giro, attesta unsuccesso sicuro che si ripete ognigiorno per tutta la stagione estiva.Non è mai stanca o sudata o affran-ta la venditrice di frutta fin quando èsulla spiaggia; ma se capita di ve-derla, mentre sale in un’auto chel’aspetta alla curva alta della stradadei Maronti, quasi non la si ricono-sce tanto appare mutata. È diversa,è una contadina bruna, affaticata,come tante altre che abitano l’isola:lontano dai Maronti ha perduto la suamagia misteriosa.

Il venditore di pareie asciugamani

Abdullah o Mohammed: non si sabene come si chiami, ma è biondocome un occidentale e allegro e fe-stoso. Ogni anno si sofferma a salu-tare i clienti dei Maronti, come unamico ritrovato e si informa premu-roso sul loro benessere. Curvo sot-to un peso improponibile di vestiti,avvolto nella sua gamma coloratis-

sima di asciugamani caldi caldi, nondà segno di sofferenza. Si muove avolte burlone saltellando, a volte len-to e appena stanco, a volte velocetra gli ombrelloni e offre alle signorela sua merce con generosa pazien-za di orientale. Attende che le signo-re provino i suoi parei, indossino isuoi vestiti, che scelgano, con esi-tazione da calura, il colore dei suoiasciugamani. Lui non dà mai segnodi fastidio o di fretta. Sta lì, sorriden-te e aspetta: prima o poi tutti com-preranno.

L’insalata dei Maronti

La sua insalata è nota in tutta l’iso-la d’Ischia: è l’insalata dei Maronti.Ogni stabilimento balneare dellaspiaggia offre insalate miste nel pro-prio menu, ma nessuna può gareg-giare con la sua. Gerardo, con di-staccata sicurezza non mette indiscussione la assoluta superioritàdella propria insalata: è lui - dice -che l’ha inventata, che l’ha creataper primo. È un misto di pomodori-ni, di cipolle, di insalatina, di pepe-roncino, patate, condito sapiente-mente con olio particolare, mesco-lato con le sue mani abili e veloci,come fanno i cuochi perfetti. Tutti iprodotti, però, sono rigorosamentedella sua terra, alimentati dal sole edal calore dei Maronti, curati dal suoamore puntiglioso e testardo, nellaconvinzione che quell’insalata è laquintessenza della salute, una sor-ta di privilegio riservato ai suoi clientiaffezionati che ogni anno tornano fe-deli a trovarlo. Nell’eleganza dellaparticolare struttura lignea, per chisiede ai tavoli lucenti, costruiti conblocchi di legno rustico, nel ristorodalla brezza leggera che si alza al-l’ora di pranzo, il bicchiere di vinobianco ghiacciato, il profumo delpane cafone, a volte perfino, con unsottofondo tenue di musica, mentrelo spettacolo di S. Angelo in lonta-nanza si profila sull’orizzonte abba-gliante di luce e di mare, forse qua-lunque insalata apparirebbe un ciboparadisiaco consumato in un mo-mento di magia.

La Rassegna d’Ischia 3-4/03 1

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PERSONAGGI ISCHITANI

L’amica di tutti

Ogni anno l’aspettano gli amici esoprattutto le amiche, curiose di ve-rificare se riuscirà ancora ad esibirebaldanzosa il suo fisico adolescen-ziale, ben tagliato, ma anche fruttodi sacrifici e di cure inimmaginabili. Ilunghi capelli biondi lisci le danzanointorno alle spalle e lei a volte li rac-coglie con gesto frettoloso e sapien-te in una rapida crocchia per difen-

2 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

Capeiattë e

di Giuseppe Silvestri

(*) Da una conversazione con Pietro2002.

dersi dalla calura, mentre avanzacaracollando sugli zoccoli altissimi.Non si tuffa, non nuota, non giocacon l’acqua, non “usa” il mare, maprende il sole a lungo con un librotra le mani, finché non decide di fareconversazione.

Allora si accosta cordiale agli om-brelloni, scherza allegra con qualcu-no, apostrofa i più riottosi, offre ilcaffè e coinvolge tutti in una granderete di amicizia, in cui è molto brava

il francese (*)

Calise, agosto

a mostrare affettuosa compiacenzaper le signore stremate dall’inevita-bile confronto. Sarebbe perfetta senon creasse suo malgrado sensi dicolpa in tutti: negli uomini che resta-no imbarazzati, incerti, e nelle don-ne che appena la vedono arrivarecercano disperatamente il pareo pernascondere inestetismi e rotolini dicarne di cui fino a quel momento sierano tranquillamente dimenticate.

Giulia Colomba Sannia

Un grande masso di tufo verde staccatosi dall’Epo-meo o emerso dalle profondità del Tirreno, sporgen-dosi dalla collina della Cesa, sovrasta Lacco Ameno.Da esso è possibile spaziare con lo sguardo sul golfodi Napoli e ad ovest verso Ventotene e Ponza.

Questo masso è detto la Pietra di Casamonte, e visi accede tramite un viottolo e una scalinata tutta rica-vata nel tufo che porta ad un’abitazione costituita daun’ampia stanza con altri ambienti, tra cui una cister-na per la raccolta dell’acqua piovana, piccole vascheper lavare i panni (lavatoi) all’esterno. All’interno dellastanza, sulla sinistra, un lungo focolare con una gran-de fornace su cui era poggiato un pentolone di rameannerito dall’uso, ed in ordine decrescente quattro for-nelli con altrettante pentole di varie misure.

Una cappa in muratura poggiante su una trave dicastagno copriva il focolare in tutta la sua lunghezza.

Entrando nella stanza si rimaneva colpiti dai maz-zetti di erba, di arbusti e di piante varie che in ordineprefissato, attaccato ognuno ad un chiodo, si succe-devano in lunghi filari sulla stessa cappa e sulle paretidella stanza, al centro della quale un tavolo quadratocon accanto un tronco di quercia che fungeva da ta-gliere; infatti sopra vi erano poggiati una roncola allaquale era stata tagliata la punta e coltelli di diversemisure.

Si notava ancora a destra, addossato alla parete,un comò, di quelli a cinque tiretti, a bombé, e con glispigoli anteriori abbelliti dalla sovrapposizione di rica-mi intarsiati nel legno. Un letto ben ordinato ed infineun armadio di metri 1,20 circa di una sola anta costitu-ita da un grande specchio.

Qualche sedia, una poltrona, ancora coltelli ed at-trezzi vari alle pareti. Su un piccolo tavolo cinque lumia petrolio e in uno scaffale attaccato al muro al diso-pra del letto una quindicina di grossi volumi e due rac-coglitori di carta fermati da uno spago.

Vi abitava Capeiattë, così era detto un uomo di unasessantina d’anni, di statura media, due occhi scurivivacissimi, un perenne berretto in testa per nascon-dere la calvizie. Era considerato un “mago”, ma nonadoperava formule magiche per guarire, bensì intrusi,che lui stesso preparava, di erbe, di foglie, di rami, dipiante, molte delle quali coltivava direttamente. Vasidi creta, terracotta, infatti, erano allineati lungo il mu-retto di protezione che si reggeva intorno all’orlo dellaPietra. Si notavano la salvia, il rosmarino, la maggio-rana, aloe di diverse specie, mirto, timo, basilico.

Il noce, il sorbo, il castagno, l’albicocco, e il prunoerano nel terreno a terrazze dietro la casa ad est dellaPietra dove Capeiattë coltivava anche la vite.

Bisognava recarsi da lui di pomeriggio dopo le 15.00,perché il mago dedicava buona parte della mattinataai suoi lavori. Non accettava per le sue prestazionidenaro, ma volentieri in regalo utensili vari ed arnesiper la coltivazione del terreno, per la cantina e la casa.Aveva roncole di diverse misure, seghe, zappe, pic-coni e gli piacevano i vasi di terracotta che utilizzavaper le sue piante.

Un giorno del mese di giugno del 1907 si recò acasa di Capeiattë un noto personaggio detto “il fran-cese” che con il suo bastimento veniva ogni anno aLacco una o due volte per il commercio del vino. Quellavolta vi giunse che aveva forti dolori addominali che sierano manifestati durante la navigazione e, nonostantei medicinali a disposizione sulla nave, non era riuscitoa placarli. Appena ne era venuto a conoscenza, l’im-prenditore di Lacco gli aveva suggerito di rivolgersi aCapeiattë, il mago della Pietra.

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Anche se alquanto scettico, il francese si recò a casadi costui e, quando vi arrivò, il mago stava potandouna pianta di limone con il “roncillo”.

- Da noi, disse il francese, adesso si usano delleforbici particolari per potare le piante ed anche le viti.Consentono di lavorare con minore fatica, più in frettae con assoluta precisione. Capeiattë se ne mostrò stu-pito, ma ritenne la cosa interessante. Il francese ri-spose poi alle tante domande che Capeiattë gli rivol-se sul suo malanno. Poi gli disse di aspettare cheavrebbe avuto bisogno di alcuni minuti. Così, mentreil francese se ne stava seduto sotto il pergolato di vitiche copriva l’ingresso, lamentandosi di tanto in tantoper il dolore, Capeiattë si dava da fare nel suo labora-torio. Infine uscì e gli porse da bere un bicchiere diliquido verde, alquanto denso. - Puah! - disse il fran-cese, ma continuò a berne tutto il contenuto. Poi Ca-peiattë gli diede due bottiglie, di un litro ciascuna, ognu-na avvolta in un pezzo di stoffa scura fermato al collocon uno spago ben stretto. Gli disse di berne un cuc-chiaino al mattino ed uno alla sera, alternando le duebottiglie su cui era stato posto un segno ben evidente.

Il francese ringraziò e chiese a Capeiattë quanto glidovesse. Questi gli rispose che non voleva soldi, eramolto interessato alle forbici per potare che si usava-no in Francia come gli aveva detto. Il francese si di-mostrò subito disponibile e assicurò che nel successi-vo viaggio gliene avrebbe portato più di un paio di va-rie misure. Infine si congedò e, mentre scendeva per ilviottolo che lo conduceva alla strada per la Marina, sirese conto che il solito fastidio all’addome si era affie-volito. Provava quasi un senso di benessere come nongli capitava da tanto tempo.

Pensò: - Sta a vedere che funziona! Prenderò que-

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sta robaccia con la massima puntualità e ripeterò lacura ogni anno, come Capeiattë mi ha detto - .

L’anno seguente ritornò a Lacco, i dolori gli eranoritornati ma molto attenuati. Appena ormeggiò il suoveliero tra il Fungo e la spiaggia, dopo le dovute di-sposizioni al nostromo, si recò da Capeiattë che si misesubito a disposizione e dopo alcune informazioni sullasua salute si adoperò per preparare le medicine edintanto aspettava con una certa impazienza le forbici,curioso di provarle, anche perché sarebbe stata unanovità assoluta. Ne aveva parlato spesso con i suoiamici all’uscita della messa domenicale alla Congre-ga dell’Assunta!

Ma il francese disse: - Mon dieu, ho dimenticato leforbici! sarà per il prossimo viaggio! -

In verità continuò a dimenticarle anche nei due viaggisuccessivi, ricevendo però sempre da Capeiattë ac-coglienza, attenzione e la medicina.

Una volta ancora, quando il veliero era ad una mez-za giornata di navigazione da Lacco, al francese siripresentarono in forma più acuta i soliti disturbi e per-ciò, appena arrivato, si recò subito da Capeiattë edancora senza le forbici tante volte promesse. Cape-iattë lo accolse stavolta con una certa freddezza e glidisse che al momento non si trovava in casa gli arbu-sti che facevano al suo caso, perché per tagliarli eprepararli con la roncola ci voleva molto tempo e luiaveva dovuto soddisfare altre esigenze.

Le forbici francesi sarebbero state utilissime, dissecon disappunto!

Il francese capì ed imprecò contro se stesso. Il gior-no seguente, caricate le botti di vino, il bastimento partì.Quello fu l’ultimo viaggio.

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RASSEGNA MOSTRE

ARNALDO POMODOROALLA TORRE GUEVARA DIISCHIA

Sotto l’Alto Patronato del Presidente della RepubblicaComune di Ischia - Circolo G. Sadoul - Istituto Italiano per gli Studi Filosofici

A. Pomodoro - Rive dei mari, 1987-88 - alluminio, 252 x 95 x 29 cm

Materia abitata dall’Universodi Massimo Bignardi (*)

Non è facile riassumere in un’im-magine “chiave” l’intero lavoro di Ar-naldo Pomodoro, il suo muoversi -collocato lucidamente da Argan - at-torno “alle idee di spazio e tempo, diconcetto ed esistente, di totalità eframmento”. Sintetizzare, cioè, quelsuo essere nel dibattito della scultu-ra moderna che, nel corpo dilatato e“dilaniato” della seconda metà delsecolo Ventesimo, ha accelerato ilrapporto di filiazione e di scontro dia-lettico della natura (a volte della suamemoria) con l’uomo, ovvero il de-siderio di testimoniare la profondafrattura che si è prodotta. L’artista hascelto, per questa mostra ischitana,quale immagine simbolo, se si vuo-le come una sorta di cifra poetica daproporre per la copertina e dunquedi primo incontro con il pubblico,quella di un’opera, Rive dei mari, chepenso sveli l’origine cosmogonicadella sua riflessione di scultore delnostro tempo. Aprire l’articolato trac-ciato disegnato dalla sua esperien-za, che si fonda e si serve di formegeometriche solide. Sono la sfera,la colonna, il prisma, la piramide,poste in relazione, in osmosi, con lasuperficie, metafora del piano esi-stenziale, e al tempo stesso fenome-nico, sul quale corre l’intensità di unosguardo che entra, scava, scandiscele ombre e gli aggetti, trascrive i se-gni e li eleva ad architetture di pienie di vuoti, di impronta e di calco, al-tresì svela (testimonia) i tormenti, le

4 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

* Catalogo della Mostra alla Torre Gue-vara di Ischia

fratture, insomma il travaglio dell’uo-mo della società tecnologizzata. At-tingendo all’analisi dell’Hildebrand,agli studi sulla forma avanzati all’in-terno della critica del puro visibili-smo, potremmo dire che l’opera diPomodoro si concentra sulla natu-ra, su un suo valore più ampio, inte-so, cioè, non come celebrazione diessa, della sua dimensione di oriz-zonte cristallizzato e, quindi, immu-tabile, bensì quale corpo che si muo-ve, muta, in pratica che “producenell’apparenza delle alterazioni chenoi riteniamo come segni indicativi”un processo che coinvolge la visio-ne.

Rive dei mari, un grande mitilo inalluminio, adagiato al fondo, sul pia-no degli abissi marini, sul territoriomisterioso degli archetipi, ci guidanella geografia di questa mostra. Èuna scultura di forte suggestione,evocativa di un’idea del cosmo(amalgama di materia, pensiero e

spazio) sulla quale Pomodoro hainsistito, ritrovando un’unità di archi-tettura e di scultura. Un’unità checonnota le esperienze della secon-da metà degli anni Ottanta, ripresanella sua valenza di archetipo, in al-tre opere successive, guardo in pri-mo luogo alla volta che struttura lanuova Sala d’armi del Museo PoldiPezzoli di Milano, realizzata nel2000. La forma oblunga del mitilo,con la superficie esterna della con-chiglia che accoglie i segni della cre-scita, richiama quella di un’architet-tura, di una struttura primigenia delmondo o, meglio, quella che lo abi-tava al suo nascere. Sono segnidella sua evoluzione e, dunque, deltempo che hanno ispirato, fra l’altro,quella serie d’incisioni eseguite nel1998 e raccolte con il titolo di Trac-ce. L’esterno è la conchiglia, la ma-teria costruttiva, lo “scudo” con lenervature madreperlacee dispostecome decori ma aventi una precisa

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A. Pomodoro Scettro I e Scettro II (particolari)

RASSEGNA MOSTRE Arnaldo Pomodoro

funzione strutturale, al suo internov’è il pulsante organismo, l’altra par-te del corpo, quella che alimenta,ossia dà la vita alle sue funzioni. Laforma-struttura e l’organismo, l’archi-tettura e il suo corpo mutante –l’umano -, trovano un’appropriatissi-ma definizione, evidenziando i con-torni di quel simbolico che pervadel’intera opera di Pomodoro. Un ri-chiamo al simbolo - guardato da unagiusta misura, avvertiva Sinisgalli giànel 1955 - che ha una sua originelontana, il cui respiro attraversa a ri-troso il pensiero sul quale si fondala cultura occidentale, fino al sensoclassico, ad una radice antropologi-camente forte alla quale l’artista sisente legato. Credo che a sorreg-gere il telaio del suo immaginario siasostanzialmente, più che l’immagi-ne-simbolo, l’idea del simbolico,avanzata non solo come relazionead una forma che sollecita la cucitu-ra con la sfera del magico, bensìcome dimensione di un tempo inte-riore del presente.

Per gli spazi della Torre di Gueva-ra, lo scultore ha voluto “segnare”,proprio come fa il navigatore, i puntidel suo viaggio, lungo quasi cin-quant’anni, nei “tempi” e nelle “for-me” della contemporaneità. Anchese segnano “punti” provvisori (sideve al desiderio di dare a questamostra il carattere di piccolo traccia-to antologico) le opere proposte,scelte in un arco di tempo che, dal1960, giunge ad oggi, esplicano,chiaramente, i nodi problematici chel’artista ha man mano incontrato oposto al suo lavoro. Un “muoversi”(un mutare) che non è stato, e nonè, dare risposta all’effetto, alla bel-lezza o alla novità di risoluzioni for-mali, quanto la convinta verifica delpassaggio, del transito, dell’incontrocon un ulteriore momento che è,anche, scoperta di uno spazio perla forma, di una nuova “figura” perlo sguardo, ossia di una scultura vivanei luoghi, ora dell’urbano, ora dellanatura.

Pomodoro cerca un’ulteriore veri-fica all’insinuante tarlo che sin dalleprimissime esperienze, spese nei

laboratori artigianali dellavecchia Pesaro, accom-pagna il suo lavoro. Èquella domanda che ilpensiero consegna allemani, che l’animo sugge-risce all’artificio; è il fil rou-ge che dalla Colonna delviaggiatore, del 1961, vaalle monumentali scultu-re per le metropoli statu-nitensi ed europee o chedai segni che improntanola superficie pulsante del-l’argilla giunge alla “tra-sparente” materia dellacroce per la chiesa nuo-va di San Giovanni Ro-tondo.

L’artista ha tracciato, in

modo autobiografico, una rotta mo-vendosi tra le forme che non testi-moniano solo - per quanto grande -una specifica indagine nell’evoluzio-ne di solidi geometrici, quanto la re-lazione che esse di volta in volta in-staurano con lo spazio che le acco-glie. Nel caso specifico la Torre diGuevara e dei giardini che l’incorni-ciano, affacciati su uno degli angolipiù belli al mondo, uno specchio dimare abitato da racconti, da leggen-de, da storie del mare, da figure, fan-tasmi che - così come, nei primi annidel secolo scorso, li vide Nolde -balzano dalle architetture del Castel-lo Aragonese. Pomodoro, com’ènella sua prassi, ha studiato lo Spa-zio tessendo un gioco fra interni edesterni nel desiderio di “catturare”sulla superficie speculare delle suesfere, sui piani diversamente incli-nati degli Scettri, o sugli anelli car-danici del Giroscopio della luce me-diterranea, di quel medium che pla-sma, modella, accende e contrastala realtà. Una luce che ammanta dimemoria la visione: lo spazio e glioggetti, le figure e i corpi acquista-no qualcosa - parafrasando quantoscriveva Kracauer a proposito dellecittà mediterranee - del sogno, cioèdi un processo che “allinea le imma-gini secondo regole estranee a comeesse abitualmente appaiono”.

Esemplificando, è la luce zenitale

che incide i segni e i rilievi ritmatidalle piastre del mirabile arco di ter-racotta invetriata che s’incastra e sislancia, proprio come fa un arco perdare spinta al dardo, nella baia ischi-tana del Negombo a Lacco Ameno,fra le opere - sono certo di non ec-cedere - più significative di arte am-bientale. Bella non per l’equilibratastesura della forma, il suo richiamosimbolico alla porta, al varco inizia-tico o, se si vuole (parlando di unluogo termale), dell’ingresso al giar-dino delle acque lustrali. Bella per-ché profondamente dentro la “ma-teria” antropologica della natura,nelle viscere di una tradizione viva,nell’antica e laica liturgia che impo-ne il processo della ceramica, con isuoi colori, le ossidature o le irrego-larità dettate dal fuoco. Indagare,ancora una volta, come dato emoti-vo, il riflesso e la sua capacità disvelare la forma e, al contempo, dimostrare la materia, agguantandolacome immagine sia di uno stupore(prodotto da quell’azione che l’arti-sta, in un’intervista a Sam Hunter del1974, chiama “distruzione”), sia d’untempo, che non è quello dello scor-rere rettilineo della caducità, quantoquello circolare dell’anima. L’artistaha collocato nello spazio interno diun’architettura, nell’ “organismo”della Torre di Guevara, sia la vitalitàdella materia, sia le immagini che

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RASSEGNA MOSTRE Arnaldo Pomodoro

A. Pomodoro - Pagina solare, 2002bronzo, 50 x 35 cm

essa cattura per poter essere partedel mondo: lo ha fatto con la stessaconsapevolezza, con l’identico slan-cio di quando ha collocato la scultu-ra Colpo d’ala – 0maggio a Boccio-ni, realizzata fra il 1981 e il 1984,sul piano d’acqua antistante il Wa-ter and Power Building di Los Ange-les, o quando ha “sospeso”, sul tet-to del Padiglione italiano all’Esposi-zione Internazionale di Montreal del1966, la Sfera grande i cui sensibi-lissimi e specchianti frammenti di“calotte” accolgono, oggi, l’allunga-ta facciata del Palazzo della Farne-sina a Roma. Voglio dire che non v’ènessuna digressione progettuale;l’intento di relazione fra spazio ecorpo o fra realtà ed immagine re-sta immutato in qualsiasi situazione.Il punto centrale resta il valore chePomodoro dà alla scultura - azzar-dando su un concetto espresso perla pittura da Merleau-Ponty - di es-sere “spazio” che manca al mondoper essere forma. In un ulteriorepasso della citata intervista rilascia-ta a Sam Hunter, l’artista, infatti, di-chiara: “Gli effetti specchianti inclu-dono ciò che vi sta attorno, lo spet-tatore. In una sfera ci si può riflette-re, avere la propria immagine distor-ta. Questo rende la scultura viva,una parte di noi, della natura, in qual-siasi luogo si trovi, in un parco, in un

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giardino, in città”. Viva, pulsante, uncorpo che fornisce una “parte di noi”,insomma che completa l’unità di spi-rito e materia.

L’opera di Arnaldo Pomodoro, cer-tamente fra le più significativeespressioni del nostro tempo, testi-monia, in fondo, l’ancestrale neces-sità che l’uomo ha di avere al suofianco un “altro”, una presenza chelo sollecita, l’interroga e, al tempostesso, gli fornisce l’anima della sto-ria, la sua identità di tempo, intesocome passato, presente e futuro,essere, cioè, lo sguardo coscientedell’uomo della sua specie, ma an-che della grande sfera che ruotanello spazio infinito dell’Universo.

Trasgredendo l’invito che lo stes-so artista sollecita, cioè a guardaredi giorno le sue sfere, le colonne, gliondulati fogli dei papiri, le piramidi, iconi a spirali delle sue recenti torri,in pratica a lasciare libero lo sguar-do in cerca delle immagini catturatedalle specchianti superfici, suggeri-rei, invece, di ammirarle di notte.Immagino un cielo buio, privo dellaluminosità lunare e del brulicare in-tenso delle stelle che si riflette sullasuperficie speculare di una sua ope-ra: di colpo sarà la materia corrosa,quella che esplode dall’interno, a ri-condurci al terreno, a strapparci dallostato di surrealtà nel quale il nostroessere sprofonda. La materia corro-sa, quella urlante, esistenziale, è ildato che ci àncora al piano, ad unospazio che sentiamo essere terre-no. L’esercizio ci offre un’altra pro-spettiva o, meglio, un nuovo puntodal quale porre in prospettiva l’ope-ra di Pomodoro. Si pensi ad esem-pio alla sfera che s’incastra nellamateria di un’altra più grande, comenella scultura che campeggia il Cor-tile della Pigna dei Musei Vaticani,oppure alle dentature minacciosedella Sfera di San Leo, completatanel 2000, all’insondabile scrittura,quell’abbecedario di segni incisi sullasuperficie ondeggiante della monu-mentale opera, intitolata Papyrus,realizzata fra il 1990 e il 1992, in-stallata di fronte al Nuovo Palazzodelle Poste e Telecomunicazioni di

Darmstadt. Sui piani lucidi delle pun-te, dei corpi arrotondati, acuminati,corrosi, specchianti, ritroveremmoframmenti, spicchi, piccoli squarcidel misterioso spazio dell’universo,così nascosto e profondo, lontano,proprio come si presenta ai nostriocchi di notte. L’Universo entra nel-la materia, in una parte, se pur infi-nitesima, di mondo, ovvero la mate-ria ritrova la sua origine attraversol’arte, il gesto che la strappa al pesodella sua “terrestrità” per farla pen-siero – restituendole, in pratica, quel-la leggerezza della quale parla Cal-vino. Il mio volto, che si specchiasulla convessa superficie della Sfe-ra n. 5, diviene un punto bianco nel-lo spazio sconfinato dell’Universoche lo accoglie. Nello “spavento” chemi fa sprofondare nel riflesso delbuio, mi soccorre la materia scura,corrosa, che si allunga dalle crepe,dalle fratture. Essa mi fa partecipedella vita, della sua storia. Per unistante, per quel gioco sottile chel’immaginario origina nella nostramente, mi sento nello sguardo di unUniverso creatore, di un Dio cheguarda, ossia di un sentimento forteche mi lega - è l’artificio che iscrivePomodoro e il suo linguaggio di“espressionista astratto” nella tradi-zione classica - alla storia dell’uma-nità. L’artificio di Pomodoro, lo testi-moniano le letture che Argan e Zerihanno fatto della sua opera, è lacapacità di accordare “nel sensodella misura e della suggestione sti-listica” le sue forme allo “spazio”costruito dalla storia che è, insieme,evidenza dello spirito e della mate-ria. Un pensiero che l’artista confidaa Francesco Leonetti, in una conver-sazione sugli ultimi lavori. A propo-sito del progetto per la porta mag-giore del Duomo di Cefalù, dichiara:“Ho realizzato il cielo o l’aldilà in unasfera d’oro. Nella Trasfigurazione hovoluto che il magma terrestre si dif-fondesse attorno alla base come alo-ne, nella presenza alta della ‘nubeluminosa’ con la voce del Padre”.

Massimo Bignardi

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RASSEGNA MOSTRE

Ragnateledi Marco Lorandi

Alle origini di queste immagini fotografichedi Salvatore Basile, autodidatta che tuttaviaproviene da un ambito familiare in cui le artisono state largamente praticate, c’è unagrande struttura, un macrocosmo architetto-nico di roccia stratificata nelle sue forme etrasformazioni plurisecolari petrose; essa sierge verticalmente in un’ascesa svettantedilatandosi fino ad annettere ed occuparel’intero isolotto primigenio nelle sue modifi-cazioni funzionali che la storia umana gli haimposto, un castello, anzi il castello pereccellenza dell’isola d’Ischia, noto univer-salmente come “castillo de Aragona” dalnome del suo committente, Alfonso d’Arago-na, che lo fece erigere nel 1438. Ma non ètanto il complesso dell’edificio nella suamassività fortificata esteriormente, turrifor-me a guisa di tornanti che si avvolgono finoal Maschio della cima, bensì le sue viscere,le sue interiora, i suoi abissi noscosti, le suemembra ed i suoi percorsi interni, misteriosidi caverne e passaggi sotterranei, di secrete,di cunicoli, di camere buie ravvivate dafioca luce, luoghi di meditazione e di ascesie di dolore, patiboli di prigionie e di torture,anfratti di preghiera e di violenza, ma anchedi gioia come forse dovette essere il legamenuziale celebrato tra la poetessa VittoriaColonna e Ferrante d’Avalos. In tali cavernee spazi bui vivono le ombre dense di polveriscure, sedimentate, di ragnatele, oggettodell’indagine fotografica di Basile, impiglia-te, pendenti o tese quali tessiture sfilacciate,slabbrate o raggomitolate in crisalidi vuotedove il ragno, l’aracne antica, non fila piùla sua bava di vita, il suo strumento di linfaorganica, ma permangono attive le sue“costruzioni” come una sorta di archeologiadi stagnamento, dove le sue strutture filateora frantumate in glomeruli ora in velarilogorati, si intrecciano, si intersecanoattirando a sé le polveri nere e tali da offrirela visione di un microcosmo che sa di lutto edi morte; ma nello stesso tempo questeragnatele si trasformano in metamorfosidisegnative, in arabeschi anche spugnosi,come cristallizzati e necrotici. (...)

Galleria ELOART - Forio

Salvatore Basile

Fotografie

«Datemi un muro scalcinato per in-curia dell’uomo, un angolo nel buio dellasolitudine, una crepa craccata nellapenombra incerta, appena visitata dal-l’afrore umidoso nel trasudo ammuffi-to; datemi il silenzio compagno di atte-sa, paziente e laborioso, di chi cono-sce l’attesa consumata tra le dita sul-l’ordito; datemi una finestra muta nellaluce, sigillata nel chiuso dei giorni, da-temi un pomo che stia zitto nella serratura arruginita; datemi ilfrullo di un venticello favente, il chiacchiericcio sommesso di unapioggerellina primaverile; datemi la trama del racconto che neltempo si fa mito; datemi ancor questo e di nuovo, meravigliosa latela, farà incollerire la dea dagli occhi azzurri».

Salvatore Basile va a caccia di ragnatele e riempie, in più in-cursioni, il suo carniere di caricatori fotografici. Spara cliccando:un otturatore si apre, così impressionando il suo occhio e la pelli-cola. Di questo lavoro, durato quasi due anni, con centinaia diistantanee scattate, antologizza, per esporle, 20 immagini; pre-ziosa sinossi di un lungo meticoloso escavo nell’intricato, miste-

Il cantodi Aracne

diPietro Paolo Zivelli

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S. Basile - Trittico

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RASSEGNA MOSTRE Salvatore Basile

rioso, fuligginoso scotorama delle ragnatele. La ragna-telo è segno di oblio, più o meno diluito nel tempo, maè soprattutto un segnale, una bandiera che delimita ilterritorio di caccia del ragno; il quale si attiva in unveloce sferruzzare di zampette, nel lavorio, pazientioinfaticabile mentre intesse il filamento coassiale, seri-co, salivato, sbavato, vomitato dalle sue filiere addo-minali, a costruire una geniale, micidiale trappola percatturare prede, lasciate poi lì a dibattersi in spasmiagonici di sopravvivenza, a frollare per diventare pa-sto, predigerito nell’appiccicoso amnio. La mirabilia ètutta in quella tela, nelle sue geometrie concentriche,triangolari; amebe polimorfe che blobbano, collassa-no poi in veri e propri velari che carezzano, tappezza-no, involucrano tutto ciò che incontrano nella loro tesae nella loro caduta. Basile ci propone, nelle sue imma-gini fotografiche, questi preziosi reliquari: veroniche disudori attaccaticci, sindoni fotoimpressionate, esfoglia-zioni e slabbrature, quando ancora crateriche implo-sioni. Immagini tutte che promanano una forte sugge-stione, a tratti accattivante, coinvolgente per come di-venta “evento” nella fruizione dell’immagine concupi-ta nella provocazione misurata, nella reiterata ripro-posizione del tema, pur diversificato.

Le ragnatele, deprivate di tutto il materico ed il let-terario che le accompagna nell’immaginario collettivo,esposte, attaccate a pareti lisce, bianche, asettiche,illuminate a giorno, diventano radiografia di un feno-meno che possiamo tranquillamente avvicinare sen-za provare fastidio, pulsioni o repulsioni; offerte comesono ai nostri occhi per letture più o meno semplici,più o meno complesse. La storia racconta, in questolibro, di creature nate prima dell’uomo ed è una storiain bianco e nero. La luce ed il suo doppio: la sua ne-gazione, la sua degenerazione. Il buio ed il suo dop-pio: la sua positività, la sua angoscia e poi via via tuttequelle diacronie cromatiche che è possibile scandiretra i due estremi, con una variegata teoria di grigi: az-zurro, acciaio, ferro, piombo, perla (nuvola, nebbia,vapore, fumo, ragnatela).

Magici i neri che è riuscito a tirar fuori Basile, inquelle geometrie bloccate da assi inchiavardate (mor-tasa e tenone); telai di porte e finestre destrutturati neltaglio fotografico, perché comunichino una più fortepotenza espressiva, scenografica.

Questi squadri rappresentano un vero e proprio ri-ferimento spaziale; delimitano il campo ed informanodi scultoreo l’intera inquadratura, sottesa sempre dairicami serici, delicati, evanescenti di Aracne. Tesseregiganti campeggiano nell’economia degli incastri, deivuoti e dei pieni, dei chiari e degli scuri. Una tabuladivisa, taroccata, a scacchi, da settimo sigillo: il Cava-liere e.... le Parche intente a filare il senso della vita.Venti istantanee assemblate in sequenze narrative aproporre un tracciato fotografico, con una propria giu-stificazione intertestuale, tutto giocato tra immagine,

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sua declinazione, sua lettura. Ed è proprio in questaottica che viene fuori il lavorio ostinato di una ricerca,“legendo” nella scelta, nella periodizzazione, nella pro-posizione, nel progetto espositivo.

Del perché Basile privilegi ora un momento-frag-mento, ancora un altro fragmentato, è tutto all’internodella camera oscura. È lì che la creatività, in perfettasimbiosi, interagisce con la tecnica; la sensibilità conla fabrilità. Le mani di Basile concorrono - complice ilreagente chimico, i tempi della fotoimpressione, dellaesposizione (iper-iper) - alla risoluzione della immagi-ne che, unica tra le tante, è come l’occhio obiettivol’ha informata al momento dello scatto.

Nei processi di stampa, certi neri sono diventati gri-gi, certi bianchi sono diventati pur essi grigi, attenuan-do o accentuando il fuoco di talune immagini dilatatenell’ingrandimento, particolareggiate nella scansione.Demiurgo dell’intero ciclo: la tecnica, il mestiere, sicu-ramente il sentire di Salvatore Basile. I filtri, le velatu-re; le mani che giocano nel chiudere, restringere, cat-turare la luce per costringerla su un punto in particola-re. Aprirle, le mani, in un magico abracadabra, nelladefinizione ultima della immagine. Questi intrecci, que-ste danze delle mani-dita, ombrate, soffiate dalla uni-ca fioca fonte di luce in camera oscura, sono le mo-venze del ragno che rivivono, complice l’artista, nelgioco della luce e dell’ombra; tracciano un saliscendidi estrema leggerezza, improntato nell’ordito per poidiventare fotogramma.

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I testi sono tratti dal Catalogo della mostra

RASSEGNA MOSTRE

Ed è la leggerezza della ragnatela, ormai diserta,necrotica. Ciò che resta fluttua nel preagonico momen-to dell’abbandono: si aggrappa, ultima spiaggia, aduna filiforme, segmentata trasparenza che ostinata-mente collutta con una virtuale obsolescenza.

Grumi di polvere precipitano a dare nuova voce aquelle che furono le tele del ragno; ne ribaltano i ter-mini per cui, paradossalmente, è l’inorganico a dar“vita” all’organico; dandogli una consistenza materi-ca, un calco dell’essere una volta stato una ragnatela.

E come non ricordare la silhouette del ragnetto, rin-secchito, irretito nel suo stesso filo?

Parco Termale Castiglione - Casamicciola

* A cura della Fondazione Lilo Wahl - Ideazione: Bertholdvon Stohrer - Progetto ed allestimento: Angelo Bucarelli

Nella iperlettura del contesto si appalesa come unfenomeno di tanatosi, di morte apparente, cui moltipiccoli insetti ricorrono per sfuggire ad un reale peri-colo. Il nostro vuole certamente sfuggire alla catturadi un obiettivo e di un clic! Ci piace pensarlo!

Mai immaginando di dover far da logo per una espo-sizione di foto di Salvatore Basile.

Pietro Paolo Zivelli

Mostra permanente di

Liselotte Wahl(1909 - 1996) *

VIAGGIO AL SUDdi Lucia Annunziata

La terrazza è curata nei minimi particolari: tende,sedie, muri imbiancati di fresco. Dentro, domina il se-gno di una ristrutturazione intelligente, alternanza dimateriali freddi e caldi, cotto e ferro, mattoni e legno,che costituisce la idea attuale di comfort.

Della casa originaria, dello spirito che la scelse e lacostruì pezzo per pezzo tirandola fuori dalle sue cu-pezze di casa povera di un centro storico isolano, ri-mane forse solo la vista: un mare tra i tetti bianchi euna montagna che giganteggia sulle quattro case, ero-sa, in bilico e tralucente di vegetazione.

È una vista riconoscibilissima, fissata, nei suoi ele-menti, come un architrave della definizione dell’animadegli ultimi due secoli: la innocenza, la semplicità delvillaggio biancheggiante; la passione, l’abbandono, lasensualità cui allude il mare e la forza corrugata, mi-nacciosa, protettiva del monte. È il Sud del Grand Tour,del Viaggio Italiano di Goethe, è il mondo pagano einnocente che ha attirato nella modernità romantica -e, prima ancora, nel razionalismo avido di scientificheinchieste naturalistiche - migliaia di pellegrini verso ilnostro paese e queste isole mediterranee.

Scrittori, guerrieri, giovani inquieti, ricchi in crisi epoveri in cerca di fortuna, belle, bellissime, o vecchiette,omosessuali ed eterosessuali, gente di talento e sen-za talento: ma quasi tutti in fuga dalle nebbie, dalleinquietudini politiche e culturali di una Europa anglo-franco-tedesca dominante e dannata, negli ultimi duesecoli, nel suo ruolo guida del mondo.

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RASSEGNA MOSTRE Lilo Wahl

Liloval - Acquarello, 41 x 32 cm

Liloval - Terracotta, 26 cm

Il 6 maggio del 1945, Lilo Wahl, la donna sulle cuitracce siamo arrivati in questa casa ischitana, annota-va sul suo diario, nella fredda Austria, allora sotto ildominio delle truppe del suo paese, la Germania: «Laguerra è quasi finita. Hitler è morto. Ora che si ha unavisione del tutto si viene presi dall’orrore. Si era prefis-sato di essere il salvatore del Reich e lo ha condottoalla caduta. “La responsabilità me la assumo io”, ripe-teva e ora che sta crollando tutto lui semplicemente èmorto, e nemmeno la Provvidenza, che sempre ha unruolo, sembra abbia avuto nulla in contrario. “La re-sponsabilità sono io”, e sono rimasti milioni di infeliciche accusano. La guerra volge alla fine. Ora si tira unsospiro di sollievo e non si deve avere più paura, laGestapo non esiste più. Ancora non si capisce del tut-to che tutto è passato. Personalmente, non soffro perla disfatta. Il mio sentimento per la Germania non esi-ste più da quando mi hanno torturata in carcere. Sonopassati da allora due anni. Innnsbruck è così vicina.Sui monti nevica ancora, ma già si sa che l’occupazio-ne da queste parti sarà pacifica. Il destino mi ha porta-ta nel miglior posto all’interno della Germania visto chenon potevo restare a Roma. La guerra è passata ac-canto a me delicatamente. Solo due anni - ma fin dalprimo si è cristallizzata la scultura. Solo due anni -sono stata molto fortunata - senza paura, solo con lapreoccupazione della famiglia. Presto arriveranno gliAmericani. Sono contenta. Dio, sarà la pace e io sonoancora viva, sopravvissuta e in salute, senza grandiperdite.

Ma sono stanca - stanchissima. Voglio il sole - vo-glio andare al Sud e allora lì salteranno gli anelli diferro che, come nella fiaba, si sono saldati intorno alcuore perché non scoppiasse....».

In Italia, dunque. Al Sud. Bionda, alta, sofisticata,nulla tenente, artistica, Lilo Wahl, si mosse anche leisu questo itinerario percorso da centinaia prima di lei.Sostenuta dagli stessi sogni, da uguali infatuazioni,dallo stesso irragionevole impulso.

Il nove maggio del 1909 Lilo nasce a Colonia. Lesue prime foto già raccontano della futura bellezza chela sosterrà per tutta la vita. Le foto della giovinetta sono,poi, testimoni di un certo stile - gonne sotto il ginoc-chio, caviglie inappuntabili, vita sottile, guanti, cappel-li - che segna la nuova frontiera, negli anni trenta, del-l’indipendenza femminile. È la “sophisticated lady” disapore internazionale - nettamente lontana dai mo-delli popolar-nazionalistici (bellezze solide, terranee,sportive dal sorriso largo, le trecce e le scarpe como-de) che abbondano nei manifesti degli inizi dei regimidell’epoca.

Questa distinzione, apparentemente solo stilistica,è in realtà differenza abissale: è una separatezza dimodelli di riferimento, e allude dunque a diversi mondiculturali e politici. Della giovinezza di Lilo - di cui i suoiamici sanno poco o nulla - questa è forse la traccia più

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significativa. Nella sua biografia e nelle sue foto nonappare mai nessuna passione “ariana”, in una epocain cui, pure, il bombardamento culturale su una adole-scente deve essere stato notevole. Lei si presenta giàcosì, con un’aria “di mondo”, che sarebbe interessan-te capire da dove proviene.

Non certo dalla politica. Gli amici raccontano che aLilo della politica proprio non interessava nulla. “Leinteressava la vita”. E perché no? Anche l’inseguire lavita è un antitodo alla (cattiva) politica.

Giovane, di bell’aspetto, innamorata dunque dellavita, Lilo approda a Berlino per l’unico serio sboccoche all’epoca veniva dato alle ambizioni di quelle comelei: il cinema. Il grande cinema Tedesco, dalle cui mentisono state partoriti le glorie e i mostri dello straordina-rio potere del nuovo mezzo. Le glorie dei “Nosferatu”,le intuizioni degli incubi della modernità, e i mostri del-le immagini al servizio della persuasione di massa, iregimi che nascono dalla manipolazione.

Supponiamo che questa Berlino fosse piena di ra-gazze belle, vivaci, piene di vita. E di aspiranti boss egerarchi. Probabilmente troppo delle une e degli altri,se è vero che, senza molto pensarci, la Lilo abbracciala vita della vagabonda: su navi per il Sud America, sutreni in Europa, in quello svagato movimento che riempì

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RASSEGNA MOSTRE Lilo Wahl

Liloval - Isabella Gerro-Cebrian,terracotta dipinta 14 cm

Liloval - Maria Gabriella diSavoia, terracotta 23 cm

la vigilia della SecondaGuerra mondiale. Lilo èsolo intorno ai ventan-ni: è modella, amanteoccasionale, aspiranteartista.

Nessun moralismofrena il suo vitalismosessuale e creativo cheper lei sono una solapulsione. Ne è provauna singolare (quasiblasfema) preghieracon cui, nel suo diario,si rivolge a Dio neglianni duri della guerra:«Ti prego, Dio, fammidiventare vecchissima

piena di vigore, restando giovane. Così come da quat-tordicenne ti ho chiesto ‘dammi un bellissimo corpo’ etu per gioia mia e di molti hai esaudito il mio desiderio.Lasciamelo questo piacere fisico fino a quando devoperire».

L’amore, inteso come l’abbraccio panteistico fra es-senza umana e sogno, comunione di esseri e natura,il punto più privato del corpo e insieme il più pubblicodella mente, è la bussola di questa giovane donna, ilsegno su cui guida la sua vita.

Anche in questo Lilo Wahl non è originale: questaillusione creativa ha in sé la speranza dell’allontana-mento dalla realtà più banale, una speranza di “am-nesia” rispetto alla brutalità del secolo. Una illusioneche una intera generazione di intellettuali e artisti giàcoltiva prima del “diluvio” della Grande Guerra.

Sul filo dell’amore la giovane Lilo si ritrova a Vene-zia, legata a uno scultore italiano, che le offre le primevere lezioni di arte. È il matrimonio fra arte e naturache lei insegue in Italia. Ci sono foto da Grand Tournel suo album di allora: sempre con cappellini leggia-dri, sempre con guanti, sempre con inimitabile sorri-so.

Nessuna ombra, nessuna traccia della grande Sto-ria disturba il suo girovagare, fino al 5 maggio del 1943,quando questa Storia bussa alla sua porta, nella sgra-devole forma di un gruppo di soldati della Gestapoche la arrestano, la accusano di essere una spia pergli Italiani, a causa del suo passaporto scaduto, la in-filano - senza sentire spiegazioni - in un treno e latrasportano, come molti, in un carcere austriaco. Hasolo 34 anni, e in quel carcere resterà solo 26 giorni.Ma sarà forse la più realistica irruzione della Vita nellasua immaginazione di vita.

***A Vienna, il 24 luglio 1943 scrive nel suo diario: «Tra

la mia partenza da Roma il 5 Maggio e la giornata

La Rasse

odierna sono successetante cose. Un giornometterò tutto per iscrit-to. Per ora non posso.Sono stata 26 giorni incarcere. Cioè 5 giorni aInnsbruck, poi mi han-no spedito con un tra-sporto. Perché? Per-ché??? Ho soffertomolto, tanto da esserediventata un essereumano del tutto diver-so. Resta molto dadire. Ma non ora. Nondimentico nulla. La vita- la mostruosa vita.Fino a quando mi sarà

concesso di goderla? Quando tornerò a Roma? Lapovera Roma bombardata». Queste note sono forsela sua più chiara intuizione di quello che sarà questoperiodo: è nei due anni successivi all’imprigionamen-to, infatti, che la ragazzina “svagata” è obbligata amettere in ordine le proprie idee.

E i propri miti: Roma e l’Italia diverranno proprio inquesto periodo, nella sua mente, da meta turistica aluogo elettivo di una seconda patria dello spirito.

La traccia del periodo di guerra è anche l’unica chepossiamo seguire perché la ragazza, finalmente ob-bligata a fermare quel suo perpetuo moto da vaga-bonda di lusso, affida a un diario i suoi pensieri.

E, stando a questo diario, si forma in questi anni, intutti i sensi, la Lilo che gli amici italiani ricordano anco-ra oggi. È una donna spaventata, soprattutto dalla so-litudine; affannata dalla insicurezza economica. Cer-ca la soluzione alle sue paure in colossali bevute einnumerevoli amanti. Bevute e amori puntualmente se-guiti da terribili delusioni.

Contemporaneamente, sotto questa apparenza “ba-nale” covano in lei però slanci generosi, sogni di ca-tarsi, afflati artistici, e, infine, la piena consapevolezzadi essere, e voler lavorare ad essere, un’artista.

Con un interessante processo di identificazione del-le sue due realtà: il nord è il freddo, il sud è il caldo;l’essere tedesca è una prigionia, l’essere a Roma lacatarsi.

La serie amori e alcol fanno capolino quasi sempreinsieme. Gli amori sono spesso poi triangoli e confu-sioni fra passato e passati.

Ma è la paura e la solitudine il male: «Nevica, c’èghiaccio. Mi ubriaco e visto che l’alcol intristisce miviene da piangere. Sono sola. Cammino per stradefredde e nebbiose e piango».

Gli uomini, in questo panorama, sono in realtà solodei passeggeri su un treno che va chissà dove.

Oppure sono delle pure domande: «io amo l’amore

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RASSEGNA MOSTRE Lilo Wahl

per sé stesso. O amo davvero questo Roderich cosìtanto?».

Sempre, l’amore è veicolo di avventure e viaggi. Siscopre, così, nel diario, verso la fine della guerra, an-che un passaggio “partigiano” di Lilo, a seguito, natu-ralmente, di un uomo “Felix, ufficiale di collegamentocon gli americani”. «Lilo la sposa partigiana con le arminel letto, e un meraviglioso cane pastore, Dingo. Felixlo ha adottato a mia protezione. Ci ama molto - il piùbel cane del Tirolo. Sui monti sparano ancora le SS...».Nel bel mezzo di tutto questo è sempre l’Italia il faro:«Bombe su Roma, ripetutamente. Attacco terroristicosu Roma. Santissima Madre, dal tuo matrimonio colsantissimo padre sono nati tutti gli artisti, l’arte è natain questa atmosfera romana, questa miscela con l’an-tico di secoli. La città Eterna, Dio, chi ti difende, nonc’è nessuno che ti protegga?».

«Roma. Ho nostalgia, mi strazia, e nessuna notizia.Oh Dio romano, quando potrò tornare?» Intorno al so-gno italiano si raccoglie infine la riflessione su sé stes-sa come artista. A partire dal riconoscimento di unasua nuova sensibilità: «Nostalgia. Non ho mai saputocosa fosse la nostalgia, ma da quando conosco il Sudso anche questo. Roma, quando ti rivedrò di nuovo?»Dalle molte sbornie emerge piano questo senso di ri-definizione: «Lavoro: raffinamento. Perfezionamentosenza decadenza». «Mi occupo incessantemente delmio sviluppo e della mia educazione perché questa èla base del mio creare. Sto iniziando ora. Che fortunal’aver scoperto il senso della mia esistenza in tuttoquello che è successo finora... Morte, miseria, tortura,spavento, paura, ostinazione, perplessità, tormento,preoccupazioni. Fioritura della Rivoluzione».

La fine della guerra la coglie cosi in piena “matura-zione” per certi versi: «La guerra è finita vero? Cosasignifica? Quanta povera gente è davanti al nulla. Maper me la vita comincia ora. E ora fanne qualcosa! Enon averne più paura!»

La fine della Guerra è la fine della sua cittadinanzadi origine per sempre: «È finita e ora inizia una vita.Dovrei vergognarmi di essere tedesca. Ma due annifa ho dichiarato guerra alla Germania».

La purificazione dal passato diventa il tanto agognatoritorno: «Oh, questo mese pieno di cadaveri. E tuttoquello schifo spirituale che si è ammassato e fino adora non è stato del tutto rimosso. Solo a Roma torneròpulita, quando andrò a riprendere il mio cuore a Fon-tana di Trevi. E non dò pace. Voglio che sia così. Per-ché deve essere così».

Il desiderio si avvera. Lilo resterà in Italia fino allafine della sua vita. Dopo anni di vagabondaggi fra cit-tà, isole, sceglierà alla fine Ischia e questa casa con laterrazza dove siamo. È una casa solare, aperta al fuo-ri, che lei costruirà pezzo per pezzo, strappandola albuio e alla cupezza di un soffocato centro storico. Nefarà il centro della sua vita sociale, la perfetta cornice

12 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

per le sue opere d’arte. Soprattutto per le varie testedi persone modellate in materiale sempre grezzo. Inquesta Ischia vivrà fino a diventare insieme una leg-genda e un vezzo locale: molti, nelle vie del centro,ricordano ancora questa signora vestita sempre comeuna diva di Hollywood, con caftani colorati e turbanti,alla guida di una piccola Ape da trasporto. Molti ricor-dano i suoi cani. Altri ricordano la sua gentilezza. Quasitutti, alla fine della sua vita la giudicavano un po’ “l’ec-centrica”, e se al Bar del centro qualcuno dice anche“pazza” non c’è da meravigliarsi.

La vita che ha fatto in questa Italia dove è arrivatacon tanto impeto, non è stata poi diversa da quellache già aveva definito negli anni di guerra: ci sonostati nella sua vita molti amori, quasi tutti infelici. C’èstato molto alcol. E molte preoccupazioni economi-che. Ma nulla di tutto questo ha mai bloccato quelladeterminazione a vivere e creare cui si era aggrappa-ta nei momenti di difficoltà.

Di questo suo stabilizzarsi definitivo così parlava:«Io ho forza, come poche donne, senza essere ma-scolina, dato che il polo opposto al “femminilissima” èproprio quello. Lentamente sto raggiungendo il mioequilibrio - per questo mi sono permessa molti errori».

E il suo punto più debole e più forte insieme - lacapacità artistica - aveva trovato in questo equilibriouna forma: «le mie sculture - ci deve andare dentrotutto; tutta la meravigliosa e delicata vita, piena di for-za e di dolcezza, tutto deve entrarci fino a quando leteste non bastano più e il nuovo si fa avanti». Forsenon è un caso che proprio le teste sono il segno piùspeciale del suo lavoro: piccoli memento di essereumani fermati nella pietra e nell’argilla in uno straordi-nario momento di vitalità. Vitalità. Lo stato naturale dalei più ammirato e perseguito.

Gli amici la ricordano fino alla fine della sua vita in-castonata in questa aura di affascinante “imperfezio-ne”. Un po lady, un po’ povera, un po’ artista, un po’fragile. Ma sempre, sempre, sorridente, accogliente,pronta a darsi, nel perseguire imperterrita fino all’ulti-mo, la vita stessa, come nella preghiera di anni prima,«Dio, fammi diventare vecchissima ma piena di vigo-re».

I segni che questa vita ha lasciato dietro di sé sonosolo tracce lievi: il ricordo vivissimo tra la gente chel’ha conosciuta e un’opera creativa più affascinanteche definibile.

Ma del resto non c’è da meravigliarsi. Come moltiviaggiatori - artisti - avventurieri - uomini e donne libe-ri, Lilo Wahl ha in realtà creato una sola e unica operad’arte: il suo viaggio umano.

Lucia Annunziata

(Catalogo dell’Artemide Edizioni, luglio 2003)

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Il 6 gennaio 2003 è ricorsoil centenario della nascitadell’artista isolanoAniellantonio Mascolo. Perricordarne la figura e l’ope-ra riportiamo due articoli diGabriele Mattera e PietroPaolo Zivelli. Per l’occasio-ne in settembre/ottobre p. v.la Galleria delle StampeAntche di Massimo Ielasiricorderà con una mostral’artista.

Aniellantonio Mascolo

RASSEGNA ARTE Centenario

Ani

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«Quando scolpisco,il mio soggetto

è il popolo»

Aniellantonio Mascolo è nato ad Ischia il 6 genna-io 1903.

«Verso i vent’anni, facevo il falegname, andai aSiena per studiare gli intagli delle cattedrali. SoraRita, una donna da cui ero ospite, mi disse: - Per-ché non si scrive alle Belle Arti? - Allora ignoravoche con la creta si facessero le statue, andai all’Ac-cademia e mi iscrissi in plastica ornamentale e di-segno. La plastica mi appassionò, decisi di fare loscultore».

Nell’essenzialità del racconto, nella funzionalitàdelle linee, la produzione di Aniellantonio Mascolo,al di là del mezzo tecnico espressivo di cui si serve,resta profondamente legata al plasticismo non ne-cessariamente informato in senso figurativo. Masco-lo racconta la storia della sua gente con immedia-tezza ed efficacia e nel suo discorso non c’è com-piacimento, vedutismo, paesaggismo ma documen-tazione e denuncia. Un discorso culturale dunque;quando recupera, certamente, il passato, storico.La lettura dei suoi lavori è immediata, perché testi-monia le occupazioni della gente dell’isola nel lavo-ro atavico ed esistenziale dei pescatori e dei conta-dini; degli artigiani del ferro, del legno; dei maniscal-chi, dei maestri bottai e dei maestri carpentieri; deimaestri muratori come dei musici di banda. Il pae-saggio è quello non ancora contaminato dalla spe-culazione edilizia, non appesantito dal cemento;semplice nella linearità dell’architettura mediterra-nea, piena di luce nel bianco della narrazione, pie-na di movimento nella costruzione.

Piazze dove riti antichi e fascinosi si ripetono inprocessioni, in feste paesane dal sapore ancestra-le e primitivo. Nelle sue silografie c’è una geometria

religiosa, una compostezza ieratica, una teoria del-le arti e dei mestieri tra balconate, archi, bellissimescale con ballatoi, porticati: Ischia Ponte.

Figure bianche campeggiano quadrati neri.Nelle “piazze” di Mascolo non c’è consumo, c’è

lavoro, pratica religiosa, folklore.La xilografia è tecnica antichissima, naturale

espressione della stampa popolare; nata nel cuoredell’Europa durante il XV secolo, informava di sé lasfera del sacro-magico, tendeva al propiziatorio; pra-tica usata per le carte da gioco ed ancora per cartegeografiche; iconografia dei fatti religiosi. Mascoloaffronta il tema sacro, sviluppandolo in motivi e mo-menti di gioiosa coralità: il Presepe, Cristo che evan-gelizza, Francesco che rende mansueto il lupo. Leterrecotte sviluppano, in parte, gli stessi temi. La tec-nica è coscientemente arcaica; la materia è trattatacon amore, le forme sono accarezzate e non violen-tate conservando così la propria fisicità.

Ritorna qui l’uomo sensibile ai materiali, l’uomo checonosce il legno (faceva il falegname), carezza l’ar-gilla assecondandone con le mani la rotondità delleforme.

«Io ho sempre amato la terracotta, il legno. Forseavendo la possibilità, avrei fatto delle opere in bron-zo, mai in marmo, è troppo freddo».

Nel 1948 espone alla XXIV Biennale Internazio-nale di Venezia ed a questa prestigiosa manifesta-zione viene nuovamente invitato nell’anno 1952(XXVI). Molte sue opere si trovano in gallerie e mu-sei italiani e stranieri.

Pietro Paolo Zivelli

(In Incontri di Pietro Paolo Zivelli, 1989)

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RASSEGNA ARTE Centenario

Mascolo: la ieraticità del gesto

di Gabriele Mattera

«L’occasione di questo omaggio ad Aniellantonio Mascolo ci fa sperareche una più vasta attenzione induca ad osservare la sua umanità, popolatadi figure con la stessa forza buona, simile al suo sorriso largo e disponibile,gli uomini e gli animali del pari arguti, come nel raglio dell’asino (n.d.r. “Ilraglio dell’asino” è il titolo di un bassorilievo ligneo)».

«Occorre disporsi a guardare la sua opera - e la vita - come i suoi occhipromettono: vivi di intelligenza e curiosi di annotazioni...». Con queste pa-role Ercole Camurani conclude il suo scritto di presentazione al catalogodella mostra tenuta nel Castello d’Ischia nel 1985.

Ecco dunque un’altra occasioneche ci viene dalla mostra organizzatada Massimo Ielasi nella sua Galle-ria delle Stampe Antiche ad IschiaPonte. Un’occasione particolarmen-te interessante, per il taglio dato allamostra e per la rigorosa selezionedelle opere esposte.

L’opera dell’artista ischitano, e, inspecial modo la grafica, ha conosciu-to momenti di vera gloria con rico-noscimenti prestigiosi, tra cui il pri-mo premio degli incisori d’Italia e lapartecipazione a diverse Biennali diVenezia, Quadriennali di Roma ealtre numerose rassegne di granderilievo internazionale. In quegli anni

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A. Mascolo - Pes

Mascolo veniva riconosciuto dallacritica come uno dei più grandi inci-sori italiani per la originalità della suaopera.

Anche il critico Paolo Ricci, fre-quentatore della nostra Isola e ami-co ed estimatore di molti artisti loca-li, individuava in Mascolo e in LuigiDe Angelis i due esponenti più im-portanti di quella che egli definiva ad-dirittura “scuola ischitana”. Difatti idue artisti, l’uno scultore ed inciso-re, l’altro pittore, furono non soltan-to presenti in importanti rassegne in-ternazionali, ma godettero di largastima da parte di famosissimi artistitedeschi che scelsero Ischia come

ca miracolosa

loro dimora e non soltanto per le bel-lezze del paesaggio, ma per la gran-de e stimolante presenza appuntodi alcuni artisti locali, dai quali, nonè esagerato affermare, presero piùche stimoli e ispirazioni.

Tuttavia, i mercanti del continen-te, forse per ignoranza, forse per mi-opia, non si accorsero di lui e l’ope-ra del nostro geniale e originalissi-mo artista è rimasta fuori dal circolodel grande collezionismo con la con-seguenza che il suo nome oggi èpressoché sconosciuto.

Il debito che tutti noi abbiamo neisuoi confronti è grande e non siestinguerà con l’allestimento di qual-che mostra delle sue opere, sia pureorganizzata con intelligenza comequesta curata da Massimo Ielasi.

Occorre, una volta per tutte, che icollezionisti, le autorità e gli eredi riu-niscano le forze per la creazione diuna struttura stabile dove esporrepermanentemente tutta l’opera, gra-fica, plastica e ceramica, corredan-dola di uno studio serio e approfon-dito, per definirne la catalogazionee la giusta collocazione nell’ambitodel panorama dell’arte italiana del‘900.

La totale inesistenza di una politi-ca culturale nella nostra isola, nonha consentito a molti ischitani di ca-pire appieno l’importanza dell’operae il livello raggiunto da Mascolo arti-sta. Infatti la grafica a carattere po-polare viene ancora utilizzata cometestimonianza di una situazione pa-esaggistica e ambientale dell’isolad’Ischia, e di confronto con situazio-ni del passato, sottraendone il verosignificato artistico e riducendolacosì a documentazione di storia lo-cale. Mascolo per quella naturale ri-servatezza che ha caratterizzato l’in-tera sua vita, non ha mai voluto ve-stire i panni dell’artista e tanto menodell’uomo con meriti e qualità parti-colari. La sua semplicità e il suo can-dore sono state le colpe della suanon storia che, infine, gli ha moltonuociuto.

L’incapacità di concedersi comeuomo pubblico è stata intesa comeorgogliosa e sprezzante superiorità,

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RASSEGNA ARTE Aniellantonio Mascolo

A. Mascolo - (da sinistra in alto) Vendemmia - Donne e pescatori - Entrata nel porto - Festa in piazza

togliendogli il diritto di godere deibenefici concessi dalla società delpotere. Ma chi lo ha conosciuto sabene quanto egli fosse restio a farvita sociale, non per civetteria snob-bistica o per superbia, ma per sem-plice e naturale umiltà. E per la stes-sa umiltà non si curò affatto di pre-parare le basi per una sistemazionedella sua produzione, forse perchéingenuamente convinto che la solaforza delle sue opere sarebbe valsaa garantirne l’immortalità.

Vivendo in una sorta di ascetismoe in una speciale condizione di bea-titudine, non pensò mai di acquisireil superfluo né la gloria. Stoico nelsopportare le sofferenze fisiche, chele condizioni di salute gli procurava-no, specie negli ultimi anni della pro-pria esistenza, rassegnato e compo-sto nella sua grande dignità di uomo,

seppe sconfiggere perfino la pauradella morte, non perché ne ignoras-se l’irrimediabilità, ma perché sep-pe superarla, riconoscendola comenaturale conseguenza della vita,che, nonostante tutto, egli visse conallegria e fecondo operare.

Uomo dalle poche esigenze, lega-to a pochissimi amici e alla famigliada sentimenti antichi, divideva il pro-prio tempo tra il lavoro, la maggiorparte, e le rituali passeggiate sulPontile e nel Viale dei Bambini inPineta. Una vita vissuta si può direin pochi metri quadrati, tra le case diPonte d’Ischia con la sorella Nina ei nipoti, ai quali dedicava tutte le sueattenzioni e il suo affetto. I modellidel suo lavoro erano sempre sceltitra gli stessi suoi familiari, forse peruna sorta di pudore o per il timore diintrusioni nella propria intimità, for-

se per la consuetudine che i suoi fa-miliari avevano con il suo lavoro. Egliera per tutti non il maestro o il pro-fessore, ma semplicemente Aniel-lantonio e mai mancava di ironizza-re se a qualcuno veniva in mente diapostrofarlo con qualche titolo acca-demico. Venendo dal popolo si sen-tiva del popolo e l’uomo umile eraper lui il vero compagno di vita alquale dedicava tutto il suo interessedi artista e di uomo. I personaggidelle sue linoleografie, anche quel-le a carattere religioso, sono gli stes-si umili che egli incontrava ogni gior-no per le strade di Ponte.

La religiosità delle sue opere nonva dunque ricercata in un’oleografiarituale e convenzionale, ma piutto-sto nel legame che i personaggi han-no con la vita terrestre fortementeancorato alla realtà. Lo stesso Pao-

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RASSEGNA ARTE Aniellantonio Mascolo

A. Mascolo - Il buon pastore

(In Catalogo Mostra 1991 alla Galleria diM. Ielasi)

lo Ricci, grandissimo conoscitore edestimatore dell’opera di Mascolo,parla spesso della presenza dell’ele-mento umano e terrestre nelle sce-ne del Vangelo.

L’opera di Aniellantonio non cono-sce scarti o salti stilistici; non si divi-de in periodi e tematiche, né contie-ne implicazioni letterarie. La sottiledifferenza tra l’opera grafica a carat-tere popolare e quella religiosa è dacercare più nel rapporto che egliaveva con la sua stessa vocazione,che non in una vera differenza di lin-guaggio.

Quella a carattere popolare sca-turisce da una osservazione attentaed ironica della realtà, la religiosa dalsentimento profondo e segreto del-la propria creatività.

Non bisogna dimenticare che l’ini-zio della attività grafica nasce appun-to con una linoleografia dedicata allavita di S. Francesco. Quel S. Fran-cesco che egli prese a modello pertutta la vita con fede profonda e ri-gorosissima osservanza.

Le scene del Vecchio Testamen-to, La Creazione, la vita di S. Fran-cesco, la Via Crucis, sono operescandite in ritmi spaziali di grandis-sima monumentalità. Il modo di ac-campare le figure dei Santi, di Gesù,di Maria, degli Apostoli, su fondali dinero, intatto e profondissimo, fissa-te nel privilegio dei bianchi sui neri,senza alcuna gerarchia di piani, dimodernissima concezione, avvienenon tanto per una necessità di rac-conto, quanto e solo per una esigen-za compositiva. La grande maestrianella ripartizione dello spazio, l’inten-sità e la tensione della contrapposi-zione tra i bianchi e il nero, fanno diMascolo uno degli artisti italiani che,a pieno titolo, si colloca a fianco deiprotagonisti dell’arte europea deiprimi di questo secolo.

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Leggete e diffondete

Periodico d

Più volte si è parlato di Mascolocome di un artista primitivo, forse perle sue figure vagamente arcaiche. Inrealtà Mascolo si è sempre ispiratoalle genti semplici, alle quali ha datoespressioni, a volte, un po’ ironiche,ma questo non vuol dire che sia sta-to un artista primitivo. Semplice sì,ma non incolto, anzi il suo candoregli ha consentito di indagare e sco-prire realtà oltre ogni apparenza. Illinguaggio essenzialmente scarno,privo di citazioni e di facili virtuosi-smi tecnici, appartiene agli artisti digrande cultura e sensibilità, come èstato Mascolo. Egli ha sempre lavo-rato in sintonia con la sua vocazio-ne, senza bisogno di forzare la sua“ispirazione”, ricchissimo com’erad’inventiva e, nello stesso tempo diesperienze di vita; egli ha semplice-mente seguito la strada tracciatadalla sua autentica vocazione e dalsuo talento artistico.

Il suo non è un linguaggio di fin-zione o di imitazione, ma autentica

La Rassegna d’i ricerche e di temi turistici, culturali

creazione, espressa con semplicitàed immediatezza e sfrondata daquella retorica parrocchiale e di sa-crestia, tanto cara ai ministri della no-stra chiesa, che più di altri sono col-pevoli di averne osteggiato la collo-cazione nelle strutture ecclesiasti-che, preferendo ad essi oggetti didubbio gusto e privi di qualunquesenso religioso. Oggi Ischia patiscele conseguenze di questa politica del“Forestiero” ed è privata di opere cheavrebbero dato lustro alla nostra Iso-la e godimento spirituale ai fedeli.

Un’occasione irripetibile che evi-denzia ancora una volta la povertàdi serie iniziative sul piano civile eculturale delle amministrazioni fin quisuccedutesi. Ma la presenza di Ma-scolo resta viva e significante peralcuni pochi, non solo per l’attualitàdella sua arte, ma per la profondaumanità del suo messaggio.

Gabriele Mattera

Ischia, politici e sportivi

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RASSEGNA ARTE

Atmosfere ubertose

nella pittura di Alvim *

di Bruno Gallo

Mario Alvi - Figure al tramonto, olio sutela, cm 60 x 80

L’ansia di voler visualizzarequei particolari aspetti, i più inu-suali e di per sé caratteristici,della lussureggiante terra acca-rezzata o percorsa dal pescosoe placido o impetuoso mare, per-vade l’artista ischitano che si ser-ve della consunta tavolozza sucui stempera, con la rudezza ti-pica marinaresca, le forti o deli-cate, spesso materiche, misceleamalgamando i pigmenti croma-tici in grado di riprodurre sulle telequelle impressioni colte, fatte pro-prie e conservate nel grande “ar-madio” della psiche, dalla propriasensibilità.

Intense ed ampie le sue stes-se stesure fanno rivivere, con iparticolari di alcune località rite-nute interessanti, le situazioni ri-pescate dal ricordo, personaliz-zate dalla fantasia, vivacizzatedai riverberati colori.

Mario Alvi - Pescatori che tirano la

La paesaggistica di Alvim (Ma-rio Alvi) visualizza così quelle par-ticolarità, che la sua sensibilitàriesce a cogliere, di un paesag-gio assolato e ubertoso, mediter-raneo, anche nelle sue diversifi-

rete, 1998, olio su tela, cm 60 x 80

cate entità, caratterizzate da va-riegate cromie, e disseminatodalla presenza della figura uma-na, delle barche, dei cavalli, del-le case marine attestante la vita-lità del passato.

E con i luoghi illustrati eviden-zia anche le tipiche atmosfere: imeriggi di intensa calura contrad-distinti dagli infuocati tramonti, leorganizzate uscite per le “battu-te” di pesca, le assolate distesedelle campagne irrorate dalla fa-tica dell’uomo, le lande punteg-giate dalle sparse casupole ru-rali. Le raffigurazioni rispecchia-no, con le peculiarità dei luoghirappresentati, anche quei recon-diti aspetti interiori che sono tipi-ci della cultura ischitana, anticae moderna, retaggio delle pre-gnanti tradizioni che ne hannocontrassegnato l’antica civiltà ene determinano quella moderna.

L’atmosfera, a volte idilliaca, di-venta greve, corposa e densa,tipica di un impressionismo cherimane nei tratti sintetici, quandodelinea l’essenza della femmini-lità di cui fa intravedere, in alcu-ne volute, malcelate e afrodisia-che movenze che concorrono alpathos di una complice e com-battuta vogliosità esistenziale.

Parvenze o realtà? È il piace-vole dubbio che alletta la fruizio-ne.

* Mario Alvi ha tenuto una mostra perso-nale nel mese di giugno c. a. presso le saledella Torre del “Molino” ad Ischia, con ilpatrocinio del Comune d’IschiaMario Alvi (Alvim) è nato a Lacco Ame-no il 28 febbraio 1945; è stato allievo deigrandi pittori napoletani Franco Girosi eCarlo Verdechia. Professore di Educazio-ne artistica, partecipa a mostre collettivee personali in Italia e all’estero. Nel 1978l’Istituto Superiore Internazionale di Stu-di Umanistici per la pace nel mondo gliha conferito il premio “San Luca d’Argen-to” per la pittura.

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RASSEGNA LIBRI

Ischia nella tradizione greca e latina di Raffaele Castagna

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Imagaenaria Edizioni Ischia, luglio 2003. ImpaginazioneEnzo Migliaccio. In copertina: Enzo Rando: L’isolad’Ischia vista da Vivara, fotografia 1993 (elaborazionegrafica). Pagine 352

La Rassegna d’Ischia 3-4/03

Ischia attraverso i testi greci e latini (pre-sentati sia in originale che in versioneitaliana) dall’età omerica all’Ottocento:questo potrebbe essere consideratosostanzialmente l’obiettivo di lettura dellapresente raccolta con pagine di favole, divicende storiche, di distruzioni e ricostru-zioni, di poetici richiami. Il tutto a testimo-nianza di un’isola quale punto di incontrodi mitici narratori, di poeti, di storici, diartisti, e di un rapporto sempre intenso colmondo culturale, che è continuato e conti-nua sino ai nostri giorni. Peraltro questolavoro non si presenta come una rigidaantologia di passi in versi o in prosa, macerca anche di porre in stretta relazione esu una linea di continuità fatti, eventi efenomeni.

Ischia l’isola dimenticatadi Edgar Kupfer-KoberwitzTraduzione dal tedesco di Nicola Luongo

Imagaenaria Edizioni Ischia, luglio 2003.Impaginazione Enzo Migliaccio. In copertina: MarioMazzella: Chiesa di S. Micheliello, olio a spatola sutela, 1990. Pagine 432

L’isola d’Ischia, che accoglie Edgar Kupfer-Koberwitztra il 1939 e il 1940, è un variegato microcosmo che rifletteuna realtà incontaminata e rousseauniamente pura e primi-genia, è ancora quell’ambiente che aveva attirato tanti arti-sti, scrittori, poeti che considerarono l’isola come un’utopi-ca Arcadia o un Eden di benessere. Ma soprattutto una ca-ratteristica distingue Kupfer da molti altri viaggiatori stra-nieri: la curiosità di conoscere la mentalità degli ischitani eil rispetto genuino per i loro usi e costumi, senza ergersi acensore dei comportamenti altrui.

L’autore non si è chiuso in una torre d’avorio, ma è anda-to alla ricerca del contatto con pescatori, contadini, artistigeniali e squattrinati, soprattutto con vetturini, dai quali sifa trasportare nei luoghi più reconditi e suggestivi, sempre

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RASSEGNA LIBRI

ponendo domande per soddisfare la suasete di conoscere non solo gli aspettipaesaggistici, ma soprattutto le vicendeumane, a volte commoventi, a voltebriose e divertenti, della povera gente,dalla quale viene ripagato con sincerisentimenti di stima. Raccogliendo informa romanzesca le testimonianze de-gli isolani sinceri e ospitali sulla storia,sulle leggende, sulle tradizioni in un ca-leidoscopio di immagini e di avveni-menti, lo scrittore offre una narrazionenon convenzionale, ma rispettosa dellavera identità dell’isola e fonte di prezio-se informazioni e di ragguagli etnici eculturali.

Edgar Kupfer-Koberwitz nasce nel1906 nei pressi di Breslavia. Nella pre-fazione dei suoi Diari di Dachau. Ap-punti del prigioniero 24814, BarbaraDistel così descrive alcune vicende del-la vita di Edgar:

«Nel 1937 Edgar Kupfer, per incari-co di un’agenzia tedesca, si trasferì daParigi sull’isola d’Ischia, allora anco-ra sconosciuta. Voleva, grazie allo svi-luppo del movimento turistico, miglio-rare la situazione della povera popola-zione dell’isola. E s’innamorò perduta-mente del Meridione assolato, del pae-saggio fiorente e della gente così cor-diale. In un libro scritto nel 1940, mapubblicato solo nel 1948, “L’isola di-menticata” che lui chiamò anche “Li-bro sull’isola vulcanica”, descrisse unmondo nel frattempo scomparso, pienodi miti e di abitudini di vita arcaiche,che lo entusiasmavano e in cui si senti-va protetto.

Il 1° settembre 1940 lo raggiunse peròil lungo braccio del potere nazionalso-cialista e la sua vita idillica sull’isolafu interrotta bruscamente. Motivo dellasua espulsione dall’Italia fu un accor-do tra la polizia italiana e tedesca esi-stente già dal 1936, contenente unaclausola introdotta in seguito su sugge-rimento di Heinrich Himmler che reci-tava: “In caso di fondato sospetto lapolizia tedesca e quella italiana si con-segnano vicendevolmente i criminalipolitici senza ricorrere a trattative di-plomatiche, purché a questo atto non siopponga un interesse di stato”.

Fino all’inizio della guerra comunquesi erano verificate pochissime possibi-

lità per espellere avversari politici delsistema nazionalsocialista e fascista.

L’ampia cronaca dettagliata del suocalvario Edgar Kupfer la iniziò con ladescrizione di uno splendido giorno delsettembre del 1940, in cui le guardiecomunali dell’isola d’Ischia gli conse-gnarono il telegramma con l’ingiunzio-ne di presentarsi presso la questura diNapoli. Presumibilmente ci fu una de-lazione. “Lei si è espresso in manierasprezzante contro il regime italiano equello tedesco” gli venne così notifica-ta al consolato tedesco a Napoli la suaespulsione. Non se n’è saputo mai nientedi più. Gli abitanti dell’isola gli eranotutti affezionati ed egli non riusciva acapire quali esternazioni avventateavesse fatto ai pochi conterranei chedopo l’inizio della guerra venivano an-cora sull’isola e che poi le avevano co-municate alle autorità tedesche. Poli-ziotti italiani lo scortarono sino a Bol-zano e di là fu trasportato dalla Gesta-po nella prigione di Innsbruck, dove tra-scorse alcune settimane e fu più volteinterrogato dagli sgherri della Gesta-po. Su fogli tagliuzzati a strisce raccol-se nella sua cella le sue prime esperien-ze con la vita dei reclusi. Come innu-merevoli prigionieri del regime, arbitra-riamente arrestati, sperava sempre cheil caso si sarebbe risolto in poco tempoe che sarebbe stato liberato. Poiché alui, come a tanti che improvvisamenteerano stati dichiarati nemici dello Sta-to, non era concepibile la completaabrogazione delle istituzioni e dellestrutture legali.

L’11 novembre 1940 dovette salire sultreno in direzione Dachau per scompa-rire quattro anni e mezzo dietro le murae il filo spinato. Due anni dopo la re-clusione nel campo di concentramento,da novembre 1942 ebbe l’occasione diiniziare le sue annotazioni. In circa1300 pagine descrisse in modo detta-gliato e con meticolosa precisione ilcorso della sua vita da recluso duranteil primo anno della sua prigionia fino anovembre 1941. Tra novembre del 1942sino alla liberazione del Lager il 29aprile 1945 tenne con sé inoltre un dia-rio segreto composto da più di 560 pa-gine, in cui egli, accanto agli avveni-menti nel campo di concentramento of-

fre ampio spazio alle notizie e alle vocisul corso della guerra che lo coinvol-se».

Perché “isola dimenticata”? Eccoquanto scrive l’autore nell’ultimo capi-tolo:

«Quando questo libro fu scritto, Ischiainiziava gradualmente a diventare nota.Dalla fine del secolo scorso era rima-sta immersa in una sorta di letargo, tan-to che ancora prima della seconda guer-ra mondiale persino la maggior partedegli italiani non sapeva niente dell’iso-la, che dopo il terremoto di Casamic-ciola era lentamente precipitata nel-l’oblio. Se in Italia settentrionale, a Fi-renze o a Venezia, si menzionava il nome“Ischia”, si andava incontro a sguardiattoniti, anzi persino a Roma la mag-gior parte delle persone non domanda-va “dove” fosse, ma “che cosa” fosse.

A tal punto l’isola era sconosciuta,mentre la sua sorella vicina Capri datempo brillava di fama mondiale.

Il nome Ischia veramente era familia-re soltanto ai Napoletani. La consisten-te nobiltà decaduta di Napoli se ne gio-vava nei mesi estivi come località di vil-leggiatura, dal momento che l’isola sco-nosciuta era incredibilmente convenien-te, mentre Capri era proibitiva per queinobili caduti in miseria.

Il merito di aver reso Ischia accessi-bile ad un più ampio strato di viaggia-tori, di averla “scoperta” per il trafficovacanziero, spetta a una compagnia tu-ristica tedesca di Stoccarda, che per laprima volta aprì l’isola ai suoi clienti.Entusiasti e diffondendo la famad’Ischia, i primi viaggiatori ritornaro-no dall’isola. Fu così destato l’interes-se per Ischia: altre agenzie di viaggiportarono gruppi sull’isola; apparveroviaggiatori solitari e iniziarono a veni-re anche italiani che prima erano an-dati solo a Capri.

La guerra interruppe tutto questo, mal’isola riscoperta era sotto una buonastella; superò bene la guerra. In segui-to giunsero a Ischia soldati bisognosidi riposo, poi gente danarosa dall’Ita-lia settentrionale che fuggivano dal caosdel periodo postbellico, portavano ca-pitali sull’isola e li investivano in partein acquisti di case o di terreni.

Anche Donna Rachele, la mai odiata

La Rassegna d’Ischia 3-4/03 19

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RASSEGNA LIBRI

I Marinai di Celsae la loro Chiesa dello Spirito Santo di Agostino Di Lustro

Maggio 2003, Tip. Punto Stampa di Forio. Illustrato. Pagi-ne 532. Prefazione di Ilia Delizia e Presentazione di Anto-nio De Luca.

vedova di Mussolini, trovò sull’isola un rifugio nel comunedi Forio.

Da allora in poi “l’isola dimenticata” è diventata “l’iso-la che mai più si dimentica”; ogni anno visitata da migliaiae migliaia di entusiasti turisti.

Il numero degli alberghi è incredibilmente aumentato daallora (o da un giorno all’altro) e i posti di svago sono spun-tati dal suolo come funghi.

Ischia si è fatto un nome europeo.Perché allora ancora oggi Ischia “l’isola dimenticata”?La vita qui non è molto diversa dal tempo in cui questo

libro fu scritto; i nuovi alberghi in fondo non hanno cam-biato niente, la bellezza dell’isola e il carattere dei suoiabitanti sono rimasti i medesimi: Ischia, oasi nel grigioredella vita quotidiana, isola della dimenticanza».

Nicola Luongo

20 La Rassegna d’Ischia 3-4/03

Vittoria Colonna e il suo mistero di Nunzio Albanelli

Valentino Editore, giugno 2003. Prefazione di GiovanniCastagna

Al pari di molti altri personaggi, a Vittoria Colonna è toc-cato un destino particolare “post mortem”, in quanto è scom-parsa di lei ogni traccia. Intanto quanti hanno trattato dellapoetessa o si sono limitati a pochi cenni o hanno presentatole varie questioni in modo chiaramente disarticolato. Noi,per l’amore che portiamo alla poetessa, sia perché è stataun punto di riferimento nella letteratura del ‘500, sia perchéha avuto continui rapporti con l’isola d’Ischia, abbiamovoluto affrontare il problema che conserva una buona dosedi mistero. Abbiamo innanzitutto approfondito le varie vi-cende “post mortem” della poetessa, raccogliendo le testi-monianze che ci sono pervenute. Abbiamo condotto lunghericerche sulla scorta di documenti e di supposizioni non lon-tane dalla realtà. Abbiamo avanzato anche un’ipotesi cheavrebbe avuto possibilità di riscontro, se fosse stata confer-mata dai risultati delle ricerche finalmente completate a S.Domenico Maggiore di Napoli. Abbiamo trascorso, in bre-ve, oltre vent’anni tra speranze e delusioni accarezzando alungo il sogno di ritrovare le venerate spoglie della poetes-sa e un giorno di accoglierle con il dovuto tributo di lodeinsieme con quelle del consorte, Ferrante d’Avalos, sul Ca-stello Aragonese. Qui appunto il 27 dicembre del 1509 Vit-toria e Ferrante avevano celebrato splendide nozze. Tutta-via, anche se non possiamo sostenere che il mistero sia sta-to risolto, abbiamo la presunzione di poter dichiarare cheabbiamo fatto il punto sul problema, coordinando i risultatidelle varie ricerche condotte finora, eliminando errori, pre-cisando taluni aspetti non secondari e soprattutto indicandoagli studiosi, che vorranno proseguire la ricerca, il puntod’arrivo di questa, donde bisogna partire per mettere la pa-rola fine ad una questione che ci sta molto a cuore.

Nunzio Albanelli

L’affermazione sociale dei marinai ubicati sulla piccolastriscia di terra baciata dal sole nascente, dispiegata ai pie-di del Castello d’Ischia, è occasione per disegnare l’identi-tà di quanti, nel borgo di Celsa, vivevano ed operavano“dell’arte del mare” ma consente, nello stesso tempo, ditracciare connessioni utili a configurare un habitat umanonella specificità della sua articolazione funzionale e urba-na.

La richiesta e la riattazione, nell’ultimo quarto del Cin-quecento, da parte dei marinai, della piccola cappella scon-sacrata della famiglia Cossa e la sua successiva trasforma-zione seicentesca in chiesa dello Spirito Santo, di più am-pio respiro e con spiccate prerogative in campo sociale rap-presentano, infatti, i momenti significativi e determinantidi un processo di ri-configurazione ambientale che non soloassume caratteristiche proprie sul piano del disegno dellospazio urbano ma è anche espressione di un ri-modella-mento delle gerarchie e degli assetti funzionali già costitu-iti, con conseguenti ed inevitabili frizioni tra le parti socialiin campo che travalicano gli aspetti religioso-devozionaliper cui tali strutture pure erano nate e si erano costituite.Infatti, le vicende che qui si narrano si ripropongono peruna riflessione antropologica che alimenta la stessa ricercastorica relativa alla nascita e alle finalità delle confraternitelaicali, nella fattispecie quella dello Spirito Santo di IschiaPonte, di cui l’edificio chiesastico è stato la naturale mani-festazione e il tramite indispensabile per un messaggio so-ciale forte ed inequivocabile. Si tratta di sistemi ideologicidel passato le cui tracce si configurano come culture, vistoche “le culture non sono entità astratte, vivono solo in quantosono opera ed espressione di gruppi umani che si sono adat-tati a un ambiente geografico e sono impegnati in una sto-ria” (Nathan Wachtel). Né, in questa linea, vanno trascura-te le ripercussioni che tali aspetti fanno avvertire sulla lon-gue durée.

Il lavoro che qui si presenta, pur collocandosi all’internodi un filone di ricerca da me perseguito e teso a recuperare,attraverso il costituirsi delle architetture, la dimensione spe-cifica dell’ambiente di cui sono parte, - il saggio su L’anti-co borgo marinaro di Ischia Ponte in una pianta ineditadel 1616, del 1980, è in questo caso l’antefatto più diretto,va ben oltre: infatti non solo aggiunge una preziosa docu-mentazione sulla ricostruzione seicentesca della chiesa delloSpirito Santo secondo la direzione di sviluppo e la confi-gurazione che ancora oggi vediamo, con tutto quanto neconsegue in opere di arredo e di abbellimento interni, ma

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RASSEGNA LIBRI

dà voce e consistenza al vissuto religioso e sociale di ungruppo deliberatamente costituitosi in confraternita laicaledi tipo corporativo, i cui intenti non sono solo quelli devo-zionali ma l’affermazione sociale, la difesa della propriaeconomia, la ricerca di autonomia da ogni tipo di ingeren-za, la promozione della solidarietà umana.

In questa direzione assumono importanza tutti i momen-ti decisionali vissuti dagli uomini di Celsa per costituirsi,prima, in confraternita e, poi, come “compadroni”, in unaconfigurazione allargata delle rappresentanze sociali pre-senti nel borgo, non più esclusiva del ceto dei marinai. Neldare senso e logica ai provvedimenti volta a volta adottatied alle norme sancite per questo scopo, l’autore accompa-gna il processo fino al costituirsi dell’organismo in colle-giata, nel 1786, quando, per disposizione regia, si definì lafisionomia del clero della chiesa e il suo funzionamento.Ma, questo approdo non è privo di ulteriori sviluppi se,proprio a partire dagli stessi anni, la comunità dello SpiritoSanto, si fece promotrice del culto di un proprio figlio, SanGiovan Giuseppe della Croce, che costituisce uno degliaspetti più aggreganti dell’azione promozionale del sodali-zio oggi.

Il percorso della ricerca privilegia come termine a quo,ma anche come punto centrale della narrazione, la secon-da metà del XVI secolo quando, sospese le scorrerie pira-tesche sulle nostre coste, l’attività peschereccia e mercan-tile visse una rapida ripresa con un considerevole sviluppodei traffici marittimi e dell’economia relativa, come emer-ge anche dall’appendice di questo studio dedicata, appun-to, agli esiti della marineria tra ‘500 e ‘800. Ma la felicecongiuntura si scontrò in fretta, sul territorio di Celsa, conl’avanzata dei “cittadini”, qui discesi dal Castello perchécostretti da uno spazio troppo ristretto, i quali non solo ven-nero ad occupare aree libere del piccolo contesto marinaro,ma andarono a rafforzare con la loro presenza la suprema-zia degli Agostiniani, ivi già dal Duecento con chiesa, con-vento e beni: infatti, nella graduatoria della ricchezza dellechiese dell’intera isola, questi ultimi occupavano il primoposto. Forti del sostegno dei ceti più abbienti, gli Agosti-niani erano divenuti sempre meno disponibili verso il po-polo, cui addirittura non offrivano “l’opportuno comodo”quanto a servizi di culto. Questo fatto, se fu occasione percondurre i marinai alla determinazione di dotarsi di unastruttura di culto propria, fu motivo di aspre controversie

tra le parti contrapposte. Significativa è la vertenza presen-tata dagli Agostiniani presso la Gran Corte della Vicariacontro i responsabili del governo della chiesa dello SpiritoSanto i quali avevano iniziato, nel 1614, la costruzione diun campanile a dotazione della cappella avuta in dono daiCossa. Questo nuovo corpo di fabbrica, addossato, in par-te, all’abside della preesistente cappella e affacciato sullavia pubblica, di cui delimitava i confini, era stato ritenutopregiudizievole di introspezioni negli spazi conventuali.Come pure va ricordata l’azione di disturbo, compiuta piùtardi sempre dagli Agostiniani, per impedire ai marinai delloSpirito Santo l’apertura dell’ingresso principale della nuo-va chiesa, sulla via principale del borgo.

Sicché, riuniti in confraternita laicale i pescatori, i mer-canti e i naviganti di Celsa non lasciarono passare occasio-ne senza difendere le proprie posizioni, rivendicando la pro-pria identità sociale e culturale per cui assistiamo a unadifesa strenua della propria autonomia che si manifestò conviolenti contrasti non solo con gli Agostiniani, ma anchecon il clero della propria chiesa, col parroco e con il vesco-vo, e di cui queste pagine danno ampie e documentate te-stimonianze, dimostrando come le ragioni del contenderevadano ben al di là dello specifico degli accadimenti. Esseinfatti affondando le proprie radici nella insoddisfazionedel ceto popolare il quale, sentendosi escluso dalle prero-gative sociali, si adopera con ogni mezzo per rivendicareun proprio spazio nel governo materiale della loro chiesa enella scelta del personale ecclesiastico che in essa deveoperare.

Il merito del lavoro sta nello sforzo profuso per ricostru-ire il mosaico degli avvenimenti, anche se a questo mosai-co mancano inevitabilmente delle tessere, vuoi per le vi-cissitudini dei nostri archivi vuoi per la frammentarietà concui le informazioni sono state spesso consegnate alla sto-ria. Questa situazione ha comportato, per l’autore, un du-plice impegno: tenere conto di tutto quanto era stato scrittonel merito, anche solo per analogia di situazione storica,senza per questo trarne dei pregiudizi, e, soprattutto, com-piere una ricerca archivistica assai puntuale e minuziosache conferisce al lavoro il pregio di una recherche patien-te, di cui non sarà possibile fare a meno nel futuro dellericerche sull’isola.

Ilia Delizia

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Il “gioiello” del Castello (Foto F. Ferrucci)

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«Non senza un sicuro compiacimento ho piùvolte letto l’opera che si intitola Inarime o ibagni di Pithecusa lib. VI di Camillo Eucheriode Quintiis della Compagnia di Gesù. Pensoche il nostro Eucherio abbia raggiunto felice-mente un duplice fine: di insegnare e didilettare: molto utile lo scopo didattico,notevoli e di diverso genere l’erudizione, lavarietà e l'abbondanza di argomenti; purezzadella lingua latina, uno stile ricercato, tutta labellezza dell’arte poetica» (P. GiovanniBattista Botti).

«Da quando Camillo Eucherio Quinzi ha datoalla letteratura latina Inarime, importante perl’argomento, classico per la forma, ricco per lalingua, armonioso per la struttura del versoeroico latino, vasto per le proporzioni, Ischia,la gemma del Golfo di Napoli, preziosa edeliziosa, vanta un poema scritto nella lingua diCicerone e di Virgilio quale solo Roma Impe-riale con l’Eneide può vantare» (P. GennaroGamboni).

Inarime o i Bagni di PitecusaLibri VI dedicati a Giovanni V re di Lusitaniadi Camillo Eucherio de Quintiis

Traduzione dal latinodi Raffaele Castagna

Camilli Eucherii de Quintiise Soc. Jesu

Inarime seu de Balneis PithecusarumLibri VI Sereniss. Lusitaniae Regi

Joanni V dicati

1726