IL TRIBUNALE PENALE INTERNAZIONALE PER IL RUANDA … · Dispense del corso di Storia del Diritto...

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1 IL TRIBUNALE PENALE INTERNAZIONALE PER IL RUANDA (1994-) Dispense del corso di Storia del Diritto Internazioanle (2014-15)

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IL TRIBUNALE PENALE INTERNAZIONALE PER IL RUANDA (1994-)

Dispense del corso di Storia del Diritto Internazioanle

(2014-15)

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INDICE CAPITOLO 1 La risoluzione 955/1994 e la legittimità del TPI del Ruanda p. 1. La risoluzione 955/1994. I limiti del richiamo alla Carta dell’ONU e al Capitolo VII.; 2. La prassi dell’ONU di fronte ai conflitti interni agli Stati, prima della crisi jugoslava degli anni Novanta.; 3. Il bilancio: centralità del momento-Stato, rispetto del dominio riservato, diritto di autodecisione “selettivo” CAPITOLO 2 Il mutamento della prassi dell’ONU all’inizio degli anni ’90. Privatizzazione dei finanziamenti e erosione del “dominio riservato” nella prima guerra d’Iraq e nella crisi della Jugoslavia (1991) p. p. 34 1. Lo scardinamento del sistema di finanziamento fisso attraverso la dilatazione quantitativa e funzionale dei contributi “volontari” : le conseguenze sui Tribunali ad hoc; 2. Iraq 1991: dalla abdicazione dell’ONU nella gestione della crisi all’erosione del dominio riservato; 3. Jugoslavia 1999: la fine della “selettività” del principio di autodecisione dei popoli. La risoluzione 713 del 25 settembre 1991. CAPITOLO 3 Il genocidio: origini storiche, codificazione e sviluppo normativo di un concetto giuridico strumento principe per l’erosione del “dominio riservato”. p. 54 1. Le origini storiche del concetto giuridico di genocidio 2. “Genocidio”, un ; neologismo degli anni Quaranta: il lavoro di Raphael Lemkin; 3. La risoluzione 96/1947 dell’Assemblea generale: “estensione” ai conflitti politici e “unicità” del genocidio; 4. La Convenzione sul genocidio del 9 dicembre 1948: un reato solo “etno/religioso”, pietra miliare del diritto internazionale oltre la guerra fredda. CAPITOLO 4 Ruolo dell’ A.G., elezione dei magistrati, finanziamenti, ratione materiae, personae, loci e temporis. Il ruolo del Consiglio di Sicurezza p. 83 1. Un Tribunale espressione del Consiglio di Sicurezza; 2. La competenza ratio materiae: una lunga lista di capitoli di reato, viatico di arresti di massa.; 3. La competenza; ratio temporis: una giustizia non solo ad hoc, ma anche ad temporem; 4. I poteri decisionali del Consiglio di Sicurezza nell’elezione dei Giudici e del Procuratore; 5. Altre parzialità procedurali, prescrittive, logistico-amministrative; 6. Scarsità di fondi e finanziamenti selettivi: le donazioni per l’Ufficio del Procuratore, incentivo per un processo “inquisitorio” sbilanciato dalla parte dell’accusa.

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CAPITOLO 5 Verità storica e principio di determinatezza del fatto penale. L’attività del TPIR. Selezione etnica degli indagati, carenza del diritto di difesa, indipendenza dei magistrati. I casi Del Ponte e Nkundiyaremye. p.132 1.L’occultamento dei fatti da parte dell’ONU e degli organi inquirenti del TPIR; 2.Un regime sotto processo. Nessun tutsi fra gli imputati; 3. Anomalie procedurali e precarietà del diritto alla difesa; 4. Il caso Nkundyaremye; un magistrato contro la pulizia etnica anti-Hutu e la “giustizia vendicativa” dei Tutsi.

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«Le Tribunal pénal international pour le Rwanda a rendu le tout premier jugement en matière de génocide rendu par une juridiction internationale. Il s’agit d’une décision qui fera date dans les annales du droit pénal international. Elle traduit concrètement, pour la première fois les idéaux de la Convention sur le génocide adoptée il y a 50 ans.»

Kofi Annan, Secrétaire Général des Nations Unies, 2 septembre 1998 “E’ triste e fortemente deleterio assistere al protrarsi dell’inerzia della giustizia internazionale, che è al corrente di questa situazione ma non sembra per nulla preoccuparsi di perseguire e giudicare i capi del Fronte Patriottico Ruandese oggi al potere. I dirigenti del FPR hanno ormai creato un vero e proprio regime di apartheid, destinato a mettere in opera, secondo la legge della giungla, un dettagliato piano di sterminio di ogni persona da essi ritenuta nemica, cioè di ogni scomodo testimone dei loro crimini. Tutto il potere è oggi nelle mani degli estremisti tutsi … La giustizia conosciuta dai ruandesi negli ultimi cinque anni è una giustizia vendicativa da parte del FPR nei confronti di quelli che esso ritiene suoi nemici””

Alype Nkunfiyaremye, Giudice, ex Presidente del Consiglio di Stato ruandese durante il regime tutsi di Paul Kagame, morto esule in Belgio il 26 novembre 1999

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CAPITOLO 1

LA RISOLUZIONE 955/1994 E LA LEGITTIMITA’ DEL TRIBUNALE PENALE INTERNAZIONALE DEL RUANDA 1: UN

PROBLEMA ANCORA ATTUALE. Il Tribunale penale internazionale per il Ruanda istituito dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con la risoluzione 955 dell’8 novembre 1994, è legittimo dal punto di vista del diritto internazionale? Anche se l’interrogativo e le sue risposte – quali che siano – non eliminano il dato di fatto di una giurisprudenza giudiziaria 2 ormai consolidata che in quanto tale rende il Tribunale stesso terreno di battaglia processuale attorno ai tragici eventi del 1994 nella Regione dei Grandi Laghi e ai principi da essi richiamati – per cui il TPIR è comunque sede di elaborazione di “diritto internazionale” - dal punto di vista della giurisprudenza dottrinale la questione ha una sua inaggirabile e ineludibile fondatezza, tenuto conto sia delle cesure registrabili nella attività complessiva delle Nazioni Unite rispetto al quarantennio precedente, a partire dagli anni Novanta, a partire cioè dalla fine del bipolarismo Est-Ovest; sia, nel caso specifico, del fatto che anche in sé considerati, tutti i Tribunali ad hoc dell’ultimo decennio del secolo scorso (Jugoslavia 1993, Ruanda 1994, Sierra Leone 2000) hanno avuto un carattere dirompente rispetto a quasi mezzo secolo di storia del diritto internazionale postbellico, con l’unica eccezione, importante ma anche discutibile e discussa, del Tribunale di Norimberga 3. 1 TPIR. Forse sarebbe stata più corretta la dizione «Tribunale internazionale penale per il Ruanda », visto che secondo dottrina, il diritto (1) penale (2) internazionale, diverso dal diritto internazionale penale, è un ramo del diritto pubblico interno (penale, appunto) in materia internazionale (F. Mantovani, Diritto penale, Padova, 1992, p. 911). Non risultano tuttavia elementi per affermare che la possibile imprecisione del nome del Tribunale, sia in rapporto con la sua caratteristica di fatto, di strumento “internazionale” del diritto penale ruandese che i Tutsi di Kagame al potere all’epoca della risoluzione 955/1994, vogliono applicare nei confronti dei loro nemici hutu. Anche l’acronimo inglese ICTR, International Criminal Tribunal for Rwanda, è eguale. 2 Voce “Giurisprudenza”, in Enciclopedia Universale, Diritto, a cura di Giuseppe Barile (Consulenza generale Giuseppe Armani), vol. I, p. 629. 3 E di quello consimile di Tokyo. Non siamo in grado, e neppure abbiamo l’intenzione nel contesto del presente lavoro, di formulare un giudizio compiuto sulla Corte di Norimberga. Tuttavia esaminando la sua Carta istitutiva e gli Atti contenuti in International Military Tribunal - Nuremberg, Trial of the major war criminals, Nuremberg 1947, pp. 8-9, non sembra difficile vedervi, come da tanti ripetuto, un Tribunale dei vincitori ai danni dei vinti, come tale dunque in forte odore di parzialità sul piano della verità sia storica che giudiziaria. In particolare almeno tre ci paiono le ambiguità della sua attività, terminata con diverse condanne a morte di ex gerarchi nazisti e diversi ergastoli: una deroga al principio di tassatività tipico della legge penale, lì dove all’art. 2, b) – Crimini di guerra, si prescrive che “queste violazioni … non saranno limitate a” la immediatamente seguente lista: “assassinio, maltrattamento o deportazione ai lavori forzati (slave labor) per qualsiasi altra ragione, di popolazioni civili; o, nei territori occupati, assassinio o maltrattamento dei prigionieri di guerra o di persone, sui mari, uccisione degli ostaggi, plunder di proprietà pubblica o privata, wanton distruzione di città, cittadine, villaggi, o devastazione non giustificata da necessità militari”. Con il che si apre la strada alla eccessiva discrezionalità dell’Accusa e della Corte, entrambi formate da personalità civili e militari delle tre potenze vincitrici (USA, Gran Bretagna, URSS) e del della Francia del governo provvisorio post-Petain. Quanto ai capitoli di reato, è fuor di dubbio che le deportazioni dei Ceceni da parte di Stalin, e ancora di più i bombardamenti di Dresda e il terribile attacco atomico a Hiroshima e Nagasaky, e forse persino le coscrizioni di truppe africane, potevano rientrare a pieno titolo nella competenza del Tribunale, se la sua giurisdizione avesse coperto tutte le

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Certo, questo interrogativo di fondo, già nel 1995 fu messo in discussione alla radice, in ragione se non altro dell’ “atteggiamento unanime di ‘ratifica’ degli Stati membri dell’ONU” 4 dei due Tribunali ad hoc allora esistenti (Jugoslavia e Ruanda), atteggiamento che avrebbe comunque “sanato” un eventuale difetto di legittimità. Ma al di là della considerazione specifica delle argomentazioni addotte a sostegno di questa tesi – per la quale potrebbbero valere le giuste riserve di Arangio-Ruiz su certa scuola internazionalista 5 – a noi comunque sembra che, rispetto a nove anni fa, l’istituzione della Corte Penale internazionale permanente dopo il 2002, al di là del giudizio di merito su questo nuovo organismo, sia destinata a rilanciare per intero tutto il problema: fino a poter eventualmente provocare una “concorrenza” fra i Tribunali ad hoc, ormai superati dalla nuova codificazione e istituzionalizzazione del e attorno alla CPI, e appunto la Corte Penale Internazionale. Dunque il problema è per noi ancora aperto. Come si colloca in quest’ottica, il caso specifico del Tribunale penale internazionale per il Ruanda? La risoluzione 955/1994 pretese di ancorarne la legittimità al Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, come da suo ultimo considerandum del Preambolo 6; e individuò negli «atti di genocidio» e nelle «violazioni del diritto internazionale umanitario» compiuti da singoli soggetti, la ratione materiae che delimita la sua competenza. Ma, a parte ogni altra considerazione che per ora tralasciamo – sull’iter che ha dato vita al Tribunale; sulla ratione loci e ratione temporis 7, sulle pur solo accennate dichiarate finalità

regioni del pianeta afflitte dalla guerra (ecco forse perché, un secondo Tribunale a Tokyo) e non fosse stata limitata alla punizione delle “persone che, agendo nell’interesse dei paesi europei dell’Asse, sia come individui che come membri di organizzazione, abbiano commesso qualsiasi dei seguenti crimini” (crimini contro la pace, crimini di guerra, crimini contro l’umanità). Infine, forse, la competenza anche sui crimini compiuti “prima della guerra”, attraverso una locuzione che fu oggetto di discrepanza fra la versione russa e quella inglese (“or” al posto di “war”), discrepanza poi corretta per la firma di Jackson (USA), François de Menthon (Francia), Hartley Shawcross (Gran Bretagna), R. Rudenko (URSS). Interessante inoltre, una certa presenza ebraica in alcuni momenti chiave del giudizio: ad esempio, i quattro psichiatri incaricati di di esaminare Rudolf Hess (p 165) rispondevano ai nomi di Jean Delay, Professori di Psichiatria Facoltà di Medicina, Parigi; Dr. Nolan D.C. Lewis, Professore di Psichiatria, Università della Colombia; Dr. D. Ewen Cameron, Prof. Psich. McGill University; Col. Paul L. Schroeder, A.U.S. Neuropsychiatric Consultant. 4 Luigi Condorelli, « Legalità, legittimità, sfera di competenza dei Tribunali penali ad hoc creati dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”, p. 51, in Flavia Lattanzi e Elena Sciso (a cura di ), Dai Tribunali penali internazionali ad hoc qa una corte permanente, Atti del Convegno - Roma 15-16 dicembre 1995, Editoriale Scientifica, Napoli 1996. 55 Qualche accenno già nell’intervento nello stesso Convegno di cui alle considerazioni di Condorelli, e cioè: Gaetano Arangio-Ruiz, “The Establishment of the International Criminal Tribunal for the former territori of Yugolsavia and the doctrine of implied powers of the United Nations”, in Flavia Lattanzi-Elena Sciso (a cura di), Dai Tribunali penali internazionali ad hoc ad una Corte permanente, Atti del Convegno – Roma 1995, Editoriale Scientifica, Napoli 1996; poi, in modo molto più ampio, diretto e diffuso Gaetano Arangio-Ruiz, “On the Security Council’s ‘Law-making’, in Rivista di Diritto Internazionale, 2000, 3, in particolare pp. 615 e segg. 6 «Agissant en vertu du Chapitre VII de la Charte des Nations Unies … » : e dunque, il TPIR assurge a organismo ONU dotato di potere giurisidizionale sugli altri stati membri delle Nazioni Unite, ai quali è fatta « obligation … de donner suite aux demandes d'assistance ou aux ordonnances émanant d'une Chambre de première instance, conformément à l'article 28 du Statut » 7 Vedi lo Statuto annesso alla Risoluzione : «La compétence ratione loci du Tribunal international pour le Rwanda s'étend au territoire du Rwanda, y compris son espace terrestre et son espace aérien, et au territoire d'États voisins en cas de violations graves du droit international humanitaire commises par des citoyens rwandais. La compétence ratione

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pratico-politiche del TPIR8, sul privilegiamento in sede già procedurale di una delle parti del conflitto oggetto di indagine: i.e. l’attuale governo di Kigali, a predominanza tutsi 9 – già in questi due basilari punti è individuabile il rischio di un difetto di legittimità. Cominciamo con il richiamo alla Carta dell’ONU, e in particolare al cap. VII. 1. limiti del richiamo alla Carta dell’ONU e al Capitolo VII: il dettato degli articoli e lo spirito della Carta. E’ difficile fondare la legittimità del TPIR sulla Carta delle Nazioni Unite, sia che si prenda in considerazione la sua lettera, sia che si faccia riferimento alla pluridecennale prassi consiliare e assembleare che ad essa si è informata. I motivi principali sono due. Il primo è quello richiamato da Gaetano Arangio-Ruiz a proposito della “debolezza della giustificazione legale” del Tribunale ad hoc per la Jugoslavia (da lui individuata nel combinato fra l’art. 29 della Carta e il cap. VII) argomentazione ben valida anche per il Tribunale per il Ruanda: “nessuno dei poteri (elencati nel cap. VII) include … - scrive Arangio-Ruiz - l’esercizio di quale che sia forma di legislazione o di diretta o indiretta giurisdizione … Nulla si può trovare – a fortiori – riguardo alla possibilità per il Consiglio di mettere in piedi tribunali internazionali di quale che sia tipo …” sia che si consideri l’art. 41 – nonostante alcuni ritengano che esso fornisca una lista solo indicativa di misure da intraprendere, tale cioè da potervi aggiungere la creazione di una Corte penale ad hoc 10 - sia che si faccia riferimento all’art. 42.11 Il secondo motivo, forse più calzante nel caso del Ruanda – la cui crisi si è espressa nella forma di una guerra civile interna, senza attacchi dall’esterno come nel caso della Jugoslavia, e senza l’insorgere di processi secessionisti interni - è che il Capitolo VII, come in genere tutta la Carta delle Nazioni Unite riguarda comunque le relazioni conflittuali fra Stati, e non fra parti in conflitto dentro lo stesso Stato, o tra Stato e quale che sia opposizione armata interna; e peraltro, in questo secondo eccezionale temporis du Tribunal international s'étend à la période commençant le 1er janvier 1994 et se terminant le 31 décembre 1994 ». 8 Preambolo, Consideranda 6, 7, 8 : « Résolu à mettre fin à de tels crimes » ; « Convaincu que, dans les circonstances particulières qui règnent au Rwanda, des poursuites contre les personnes présumées responsables d'actes de génocide ou d'autres violations graves du droit international humanitaire permettraient d'atteindre cet objectif et contribueraient au processus de réconciliation nationale ainsi qu'au rétablissement et au maintien de la paix, Estimant que la création d'un tribunal international pour juger les personnes présumées responsables de tels actes ou violations contribuera à les faire cesser et à en réparer dûment les effets » 9 Dispositivo, punto 3: «une notification devrait être adressée au Gouvernement rwandais avant que des décisions ne soient prises» 10 Gaetano Arangio-Ruiz, “The Establishment of the International Criminal Tribunal for the former Territory of Yugoslavia and the doctrine of implied powers of the United Nations”, in Flavia Lattanzi-Elena Sciso (a cura di), Dai Tribunali penali internazionali ad hoc ad una Corte permanente, Atti del Convegno – Roma 1995, Editoriale Scientifica, Napoli 1996, p. 34. 11 Arangio-Ruiz critica al proposito Benedetto Conforti, rilevando come il TPIY non poteva in alcun modo intendersi come applicazione “estesa” dell’art. 42, a partire dalla costatazione fattuale che il Consiglio di Sicurezza non aveva in realtà alcuna “operazione militare arnata” contro la Jugosalvia (Ivi, p. 37)

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caso, esso privilegia chiaramente la parte-Stato, sempre che esso Stato si informi ai principi di sovranità e indipendenza, non sia cioè di natura coloniale (o razzista). Considerazioni queste perfettamente calzanti col caso ruandese (il Ruanda non ha subito attacchi militari da parte di altri Stati, come la Jugoslavia) e deducibili, per quanto attiene alla lettera degli articoli, da tre fatti:

A) dall’esame complessivo – cioè di tutti gli articoli 39-51– del Capitolo VII; B) dalla collocazione del Capitolo VII nell’excursus normativo della Carta

dell’ONU, e C) dalla ratio e principi generali di quest’ultima.

A) L’ art. 41, l’unico direttamente riferibile al Tribunale penale internazionale per il Ruanda perché relativo, in un Capitolo dedicato in generale a interventi armati, a “misure non implicanti l’impiego della forza armata”12 (e tale è evidentemente un Tribunale) può riguardare i conflitti interni ad uno Stato, come nel caso della guerra fra Hutu e Tutsi del 1994? E’ impossibile rispondere affermativamente a questa domanda. In effetti, se la lettera in sé dell’art. 41 non risponde al quesito, il capitolo VII si riferisce nel suo complesso, con sufficiente chiarezza, ai conflitti fra Stati: inizia con la necessità di accertamento da parte del Consiglio di Sicurezza “di una minaccia alla pace, di una violazione alla pace, o di un atto di aggressione” (art. 39); difende più avanti, all’articolo 51 “il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite”, cioè di nuovo uno Stato 13; e fa riferimento, all’art. 40, alle “parti interessate” del conflitto, locuzione reiterata in tutta la Carta e dunque interpretabile solo alla luce dell’excursus normativo complessivo della Carta stessa, e dei suoi principi generali. B) Ma chi sono le “parti interessate” nella Carta dell’ONU? Contestualizziamo il capitolo VII nell’excursus della Carta, e procediamo per sillogismo: il capitolo in oggetto è consequenziale, non solo numericamente ma anche logicamente, al VI, a sua volta relativo alla “soluzione pacifica delle controversie” fallita la quale entrano evidentemente in gioco i dispositivi di cui ai successivi artt. 39-51 ex cap. VII; ma “le parti di una controversia” di cui all’inizio-art.33 del capitolo VI, non possono essere altri che gli Stati: e questo perché, se non altro, l’art. 36 che fa riferimento esplicito all’art.33, prevede al comma 3 il deferimento delle controversie giuridiche fra le

12 «un’interruzione totale o parziale delle relazioni economiche e delle comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, postali, telegrafiche, radio ed altre, e la rottura delle relazioni diplomatiche» 13 E nel caso si ipotizzasse un conflitto fra Stato e guerriglia interna, è chiaro – come nella storia di tutte le guerriglie africane in epoca postcoloniale (altra cosa, come già sottolineato, sono i movimenti di liberazione di Stati coloniali)– che la Carta dell’ONU privilegia proprio il soggetto-Stato, e non la sua componente-opposizione interna. Da cui una normazione opposta a quella che ha dato vita al TPIR

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“parti” alla Corte Internazionale di Giustizia, la quale a sua volta è competente ex art. 34, comma 1 del suo Statuto solo per i contenziosi fra Stati 14. Il sillogismo così si chiude: il capitolo VII riguarda relazioni fra Stati e non fra parti di uno stesso Stato; la risoluzione 955/1994 istituisce il TPIR “agissant en vertu du chapitre VII” della Carta delle Nazioni Unite; ma il TPIR ha come ratio materiae i crimini individuali contro il diritto internazionale umanitario compiuti dentro o fuori il Ruanda da “cittadini ruandesi”: vale a dire una guerra civile interna ad uno stesso Stato; il TPIR, dunque non ha legittimità dal punto di vista del Capitolo VII invocato dalla 955/1994. E semmai si fosse dovuta e voluta ipotizzare la creazione di un Tribunale per giudicare del conflitto – atto ben comprensibile ed anzi auspicabile vista la gravità degli eccidi fra Tutsi e Hutu - questo avrebbe dovuto partire dall’ “aggressione” – di cui parleremo più avanti – contro il governo hutu di Habyarimana, perpretata a partire dal territorio del vicino Uganda, dai Tutsi oggi al potere sotto la guida dell’attuale presidente Kagame. Dunque un Tribunale o “rovesciato” rispetto a quello attuale, con i Tutsi e il loro alleato ugandese sul banco degli imputati, o comunque competente ratione temporis anche per il periodo compreso dal 1990 al 1994, durante il quale fu il Fronte Patriottico Ruandese di Kagame a compiere eccidi contro gli Hutu del Nord del Ruanda e ad attaccare con queste azioni terroriste, uno Stato membro legittimo delle Nazioni Unite. C) Del resto, è la Carta dell’ONU nel suo complesso a sciogliere ogni dubbio su quanto abbiamo sin qui sostenuto: a parte il Preambolo – che fa comprendere fin dal primo considerandum come la Carta nasca come risposta al terribile conflitto mondiale (e fondamentalmente interstatuale) 1939-1945 – il Capitolo I sui “Fini e principi” dell’ONU, dopo aver recitato la “sovrana eguaglianza di tutti i suoi Membri” (cioè gli Stati rappresentati dai rispettivi governi, come da Capitolo II, art. 3: con il che viene esclusa una soggettività giuridica per le parti interne di uno Stato, fatta salva l’eccezione dei movimenti di liberazione degli Stati coloniali ex art. 1 comma 2 15) e dopo aver prescritto l’astensione “dalla minaccia o dall’uso della forza” ai suoi Membri “nelle loro relazioni internazionali” (dunque nelle relazioni inter-statuali, e non nei conflitti interni), conclude all’art. 2 comma 7: “Nessuna disposizione della presente Carta autorizza le Nazioni Unite ad intervenire in questioni che appartengano essenzialmente alla competenza interna di uno Stato, né obbliga i Membri a sottoporre tali questioni ad una procedura di regolamento in applicazione della presente Carta”. E’ vero, subito dopo, lo stesso comma aggiunge e chiude il suo dettato ricordando come “questo principio non pregiudica però l’applicazione di misure coercitive a norma del capitolo VII”. Ma da una parte nel contesto del capitolo, è chiaro che qui si

14 Statuto della Corte Internazionale di Giustizia, Capitolo II – Competenza della Corte, art. 34 comma 1: « Solo gli Stati possono essere parti nei processi davanti alla Corte » 15 Carta dell’ONU, Capitolo I, Fini e Principi, art. 1 comma 2: « sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’autodecisione dei popoli, e prendere altre misure atet a rafforzare la pace universale »

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fa riferimento alle conseguenze interne delle misure cui è sottoposto lo Stato sanzionato, e non alle motivazioni dei dispositivi stessi e agli scenari in cui esse si determinano, che restano perciò i conflitti fra Stati; e dall’altra, la pratica attività operativa dell’ONU almeno fino alla fine degli anni Ottanta, mette in luce come questa sia, appunto, l’interpretazione corretta dei “Fini e principi” dell’ONU di cui al Capitolo I. E’ il punto – inclusivo di alcune eccezioni che non ne intaccano la ratio di fondo - che andiamo qui di seguito a considerare. 2. I limiti del richiamo alla Carta dell’ONU e al Capitolo VII: la prassi dell’ONU di fronte ai conflitti interni agli Stati, prima della crisi jugoslava degli anni Novanta. Prima di esaminare la prassi delle Nazioni Unite per quel che attiene il suo orientamento verso le questioni “di competenza interna di uno Stato”, conviene delineare nei suoi tratti essenziali - con più precisione rispetto agli accenni sin qui fatti - il “modello” astratto del conflitto ruandese del 1994, così da individuare – nella lunga lista di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dal 1946 ad oggi – quelle che, magari solo con difetto o per approssimazione, più gli sono riferibili. Da questo punto di vista, la guerra del Ruanda si configura a) come guerra interna al Ruanda fra maggioranza Hutu e minoranza Tutsi, cioè come una classica guerra civile fra due componenti autoctone; ma anche, contemporaneamente, b) come una guerra resa possibile grazie al sostegno attivo di un paese confinante, l’Uganda, ospite dei Tutsi fuggiti dal loro paese all’indomani dell’indipendenza (1960 ), e secondo alcuni, protagonista di una vera e propria “invasione” nei confronti dello Stato vicino, invasione mascherata da “guerriglia” 16. L’apparente contraddizione fra questi due schemi – entrambe comunque, come vedremo, favorevoli ad una delegittimazione, piuttosto che a una legittimizzazione del TPIR 17 - è in realtà scenario tipico in Africa, continente i cui Stati sono praticamente sempre multietnici 18, e con etnie divise fra diversi paesi dai confini ereditati dalla colonizzazione: per fare un paio di esempi, l’aggressione di Ruanda e Uganda nel 1998, contro il Congo orientale, ha fatto leva sulla presenza nel Congo orientale, di minoranze di origine Tutsi, con cui gli stessi soldati di Kigali si confondevano e intercambiavano; la guerra della Somalia contro l’Etiopia, nel 1978, era a sua volta combinata con lo stato di insorgenza o semiinsorgenza delle popolazioni somale dell’Ogaden etiopico. Ovviamente il peso dei due elementi – “invasione” e “guerriglia 16 Così ad esempio John Philpot, Le Tribunal pénal international pour le Randa. La justice trahie, in ‘Etudes internationales », XVII, 1996, pp.827-840. 17 Infatti: se è stata guerra civile, ritorna quanto abbiamo sin qui sostenuto, e che andiamo a verificare alla luce dell’attività pratica delle Nazioni Unite; se si è trattato di una “invasione” dei tutsi ugandesi nei confronti del Ruanda sovrano e indipendente, il TPIR è ancora più illegittimo, strumento (illegittimo,appunto) di una azione internazionale illegale (una guerra d’aggressione). 18 L’unica eccezione spesso citata da antropologi, etnostorici e politologi africanisti, è costituita dalla Somalia, abitata nella stragrande maggioranza della popolazione da genti di lingua e cultura somala, da cui il riferimento in molti scritti postcoloniali, ad una sola “nazione”: in realtà, la lunga e tuttoggi irrisolta guerra civile post-1991, sviluppatasi lungo divisioni claniche (cioè di raggruppamenti interni ad una stessa “etnia”), ha dimostrato la ancora scarsa riferibilità di questa categoria anche al caso somalo.

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interna” – varia da situazione a situazione: si può anticipare a proposito che la guerra del 1990-1994 dei Tutsi ugandesi contro il regime hutu di Kigali, è più vicina al modello “guerriglia interna” sostenuta direttamente da un paese straniero “invasore”, e dunque al caso somalo-etiopico, che non al modello “invasione” assolutamente predominante, invece, nel caso della guerra del Congo 1998-2002 19. Questo detto, passiamo in rassegna alcune prese di posizione dell’ONU significative dal punto di vista del discorso che si sta qui facendo: Grecia 1947: l’ONU non può interferire sulle condanne a morte di oppositori politici Risoluzione 17/1947 – La questione greca. Il quid in discussione è se la Commissione d’inchiesta creata con la risoluzione 15 del 1946 del CdS, ha mandato per chiedere “al governo greco” di “aggiornare l’esecuzione di persone condannate a morte dal governo (sic) per ragioni politiche”. Nel rispetto implicito del già citato art.2 comma 7, la risposta , con riferimento anche ai casi dell’Albania, Bulgaria, e Jugoslavia, è no (tranne il seguente evidente escamotage diplomatico: “a meno che la Commissione non abbia ragione di credere che la testimonianza di questa persona possa aiutarla nel suo obbiettivo”, con motivazione fondata) 20. Kashmir(India-Pakistan) 1948: il privilegiamento del momento-Stato sull’autodeterminazione del Kashmir a prevalenza islamico-pakistana. Risoluzione 39/1948 – India Pakistan, questione del Kashmir (regione di popolazione prevalentemente islamica, sotto sovranità dell’India). Il CdS istituisce una Commissione d’inchiesta rigorosamente neutrale, i cui presidente è nominato dalle due parti, col duplice compito di svolgere un’inchiesta e di esercitare una funzione di mediazione. E’ evidente in tale risoluzione il privilegiamento del momento-Stato (India e Pakistan) sul “principio di autodeterminazione” della popolazione della regione contesa: un principio rigorosamente delimitato dalle Nazioni Unite, almeno fino alla svolta postbipolare degli anni Novanta (il caso della Jugoslavia è tipico) ai “popoli” classicamente “coloniali”, in quanto tali di fatto sempre assunti nella loro multietnicità ereditata dal colonialismo. Congo 1960-1961: l’ONU sostiene militarmente – a fronte della permanenza di truppe coloniali nel Congo: dunque entro la dialettica fra popolo coloniale e metropoli - il neonato governo dello Stato ormai indipendente, ma dopo l’assassinio di Lumumba dichiara formalmente che il suo contingente militare “non sarà parte di alcun conflitto interno” Risoluzione 143/1960 – Congo. Considerata la richiesta di assistenza militare rivolta al Segretario generale dal Presidente e Primo ministro del Congo, il CdS chiede al Belgio di ritirare le proprie truppe, e decide di prendere “le misure necessarie per assicurare a 19 Nella guerra del Congo, non a caso fecero capolino chiare tendenze annessioniste da parte del Ruanda di Kagame. Vedi “La tragedia dei profughi continua. ‘un pezzo d Zaire è nostro’”, La Stampa, 30 ottobre 1996, p. 9. 20 Risoluzione approvata il 10 febbraio 1947, con due astensioni (Polonia e URSS)

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questo governo l’assistenza militare di cui necessita, e questo fino a che le forze nazionali di sicurezza … non saranno pronte” 21. Risoluzione 145/1960 – Congo. Il CdS, avendo notato che l’arrivo delle truppe dell’ONU a Leopoldville ha avuto un effetto salutare, considerando che il pieno ristabilimento dell’ordine pubblico nel Congo contribuirà efficacemente al mantenimento della pace e della sicurezza internazionali, invita il Belgio a ritirare le sue truppe, autorizza il Segretario generale a “prendere tutte le misure necessarie allo scopo”, e “prega tutti gli Stati … dall’astenersi da azioni che possano minacciare l’integrità nazionale e l’indipendenza del Congo”; 22 Risoluzione 146/1960 – Congo. Il CdS, notando che l’ONU non ha potuto applicare le proprie risoluzioni nella provincia del Katanga, riconoscendo che il ritiro delle truppe belghe dal Katanga darà un contributo positivo per la loro attuazione, invita il governo belga a ritirare immediatamente le proprie truppe dal Katanga, e dichiarato che l’ingresso delle Forze dell’ONU nel Katanga è necessario alla attuazione della presente risoluzione, riafferma che “la Forza ONU nel Congo non sarà parte di alcun conflitto interno, costituzionale o di altro tipo, e che essa non interverrà in alcun modo in tale conflitto, né sarà utilizzata per influenzarne l’esito”; 23 Risoluzione 161/1961 – Guerra civile in Congo dopo la morte di Lumumba. Il CdS, “profondamente preoccupato … del rischio di una guerra civile … nel Congo, così come della minaccia per la pace e la sicurezza internazionale”, “chiede con forza che le Nazioni Unite prendano immediatamente misure appropriate per impedire lo scoppio di una guerra civile nel Congo, ivi comprese la disposizione di cessate il fuoco, la cessazione di tutte le operazioni militari, la prevenzione de combattimenti, e se necessario, come ultima risorsa, il ricorso alla forza”; chiede inoltre il ritiro delle truppe militari e paramilitari belghe, e decide di aprire una inchiesta sulla morte di Lumumba. Inoltre preoccupato per “l’unità e l’integrità territoriale del Congo”, per “le violazioni sistematiche dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e per l’assenza generale di legalità nel Congo”; “riconoscendo la necessità imperiosa di restaurare le istituzioni parlamentari del Congo conformemente alla Costituzione (“Loi fondamentale”) del paese”; “convinto che ogni soluzione imposta, compresa la formazione di un governo che non fosse il risultato di una vera conciliazione … accrescerebbe di molto i pericoli di conflitto all’interno del Congo, e la minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale”; “chiede la convocazione immediata del Parlamento … e che le unità e il personale armato congolese sia riorganizzato e sottomesso a una disciplina e a un controllo …” 24.

21 Risoluzione del 14 luglio 1960, approvata poco dopo l’ammissione del Congo indipendente all’ONU, con l’astensione di Cina, Francia, Gran Bretagna. 22 Risoluzione del 22 luglio 1960, approvata al’unanimità. 23 Risoluzione del 9 agosto 1960, approvata con 2 astensioni (Francia e Italia). 24 Risoluzione approvata il 21 febbraio 1961, 9 voti favorevoli, astenuti Francia e URSS.

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Sudafrica 1964 e successivi. Di fronte all’apartheid, diversamente che nel sopra citato caso Grecia 1947, l’ONU interferisce nelle vicende interne del Sudafrica, Stato membro fin dal 7 novembre 1945. Risoluzione 190/1964. Sudafrica – processo di Rivonia. Il CdS “chiede urgentemente al governo sudafricano: a) di rinunciare all’esecuzione delle condanne a morte” di oppositori politici dell’apartheid; “b) di por fine immediatamente al processo in corso, istruito nel quadro delle leggi arbitrarie dell’apartheid”, e di accordare l’amnistia agli incarcerati, in particolare quelli de processo di Rivonia 25. Risoluzione 191/1964. Sudafrica – processo di Rivonia e politica di apartheid. Il CdS, “convinto che la situazione in Sudafrica continua a minacciare gravemente la pace e la sicurezza internazionale”, reitera le richieste della precedente risoluzione, e fra le altre cose aggiunge l’invito al “Segretario generale di istituire” in collaborazione con le strutture ONU competenti “un programma di insegnamento e di formazione professionale” all’estero, per cittadini sudafricani. 26 Se sarebbe da verificare l’effettiva minaccia alla pace del processo di Rivonia (il riferimento è alle reazioni nel continente africano?), comunque necessario considerandum legittimante la risoluzione, è certa l’interferenza dell’ONU negli affari interni al Sudafrica (persino nel campo dell’istruzione), e questo forse spiega l’astensione di URSS e Cecoslovacchia: ma di nuovo, ciò avviene sullo sfondo dell’”eccezione” apartheid, come variante “interna” di colonialismo 27. Stessa considerazione vale per la reiterazione dell’embargo sulle armi contro il Sudafrica, di cui alla risoluzione 282/1970 approvata con 3 astensioni (USA, Francia e Regno Unito); e per la forte condanna del regime di apartheid nella risoluzione 581/1986, approvata il 13 febbraio con l’astensione di Stati Uniti e Gran Bretagna. Risoluzione 311/1972. Il CdS “riconosce la legittimità della lotta condotta dal popolo oppresso del Sudafrica per assicurare i diritti dell’uomo e i diritti politici enunciati nella Carta e nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo” 28. Rodesia 1965-1966. L’“eccezione”razzismo e colonialismo (interno) spinge l’ONU a dichiarare illegale la dichiarazione unilaterale di indipendenza dalla Gran Bretagna, e a invitare tutti gli Stati a rompere le relazioni economiche con Salisbury (futura Harare)29 25 Risoluzione approvata il 9 giugno 1964 con 4 astensioni (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Brasile). 26 Risoluzione approvata il 18 giugno 1964 con 3 astensioni (Francia, URSS, Cecoslovacchia). 27 E’ da notare che il Sudafrica a partire dal 1967, verrà riconosciuto come potenza coloniale anche “esterna” nei confronti della Namibia, e richiesto perciò di ritirarne le sue truppe (risoluzione 264/1969 del 20 marzo, approvata con 4 astensioni: USA, Finlandia, Francia e Gran Bretagna; risoluzione 301/1971, che condanna peraltro il tentativo sudafricano di costituire bantustan in Namibia a detrimento della “unità nazionale eintegrità territoriale della Namibia”, approvata il 20 ottobre con 2 astensioni (Francia e Gran Bretagna); risoluzioni 309 e 310/1972, del 4 febbraio; altre negli anni successivi, fra cui quella 432/1978, approvata il 27 luglio all’unanimità, che vieta al Sudafrica di utilizzare il porto di namibiano di Walvis Bay, e quella 532/1983, approvata all’unanimità il 31 maggio, che reitera la condanna dell’occupazione militare sudafricana. 28 Risoluzione approvata con l’astensione della Francia il 4 febbraio 1972 29 Diversamente dal Sudafrica, Stato membro come già detto fin dal 1945, la Rodesia non entrò perciò mai a far parte delle Nazioni Unite, fino a che – liberata dal colonialismo “interno” bianco – divenne lo Zimbabwe, accolto nell’ONU il 25 agosto 1980.

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Risoluzione 202/1965. Il CdS, chiedendo fra l’altro “l’abrogazione di ogni legislazione repressiva o discriminatoria, e in particolare della Law and Order Act e della Land Apportionment Act” stigmatizza le “minacce del governo minoritario di dichiarare unilateralmente l’indipendenza”, e “prega il Regno Unito di fare di tutto per impedire” tale dichiarazione, e per garantire la transizione ad una indipendenza fondata su “un sistema di governo democratico” attraverso l’indizione di una conferenza di tutti i partiti politici della sua ex colonia30. Rodesia 217/1965. Il CdS, “considerato che le autorità illegali della Rodesia hanno proclamato l’indipendenza e che il governo del Regno Unito, in quanto potenza amministrante, vi ha visto un atto di ribellione” , “condanna l’usurpazione del potere nella Rodesia del Sud da parte di una minoranza razzista di coloni, e considera la dichiarazione di indipendenza proclamata da questa minoranza, priva di validità legale” e chiede a tutti gli Stati di sottoporre a embargo la Rodesia 31. Risoluzione 232/1966. Il CdS articola in tutti i particolari la condanna all’embargo per la Rodesia 32. Addirittura, qui il CdS fa appello alla metropoli coloniale per ostacolare l’istaurazione di un sistema coloniale “interno”, quello fondato sul dominio della minoranza bianca sulla maggioranza nera, e condanna come illegale la dichiarazione di indipendenza, già stigmatizzata come “atto di ribellione” dal governo di Londra. Il carattere “atipico” della risoluzione potrebbe spiegare l’astensione dell’URSS. Angola - R.D. Congo 1966-1967. Il CdS condanna l’infiltrazione di “mercenari” nel Congo, a partire dal territorio della Angola portoghese. Nessun riconoscimento giuridico alla guerriglia, il cui santuario è in uno Stato ancora coloniale. Risoluzione 226/1966. Il CdS “invita il Governo portoghese a non permettere a mercenari stranieri di utilizzare l’Angola come base operativa per una ingerenza negli affari interni della R.D. Congo” Risoluzione 241/1967. Il CdS, “preoccupato” degli attacchi contro il Congo a partire dal territorio angolano, “condanna ogni ingerenza negli affari interni del Congo”, e in particolare il fatto che il Portogallo non sia riuscito ad impedire che i mercenari utilizzino il territorio angolano per le loro azioni. Guinea Conakry 1970. Il CdS condanna i “mercenari”del Fronte di liberazione della Guinea (costituiti da “centinaia di emigrati” guineani),che,sostenuti dalle truppe 30 Risoluzione approvata il 6 maggio 1965 con 4 astensioni (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, URSS). 31 Risoluzione approvata il 20 novembre 1965. La condanna all’embargo, e la reiterazione della sua ottemperanza da parte di tutti i membri dell’ONU, verrà ribadita con le risoluzioni 318/1972 e 320/1972, rispettivamente approvate il 28 luglio con l’astensione degli Stati Uniti, e il 22 novembre con l’astensione degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. 32 Risoluzione del 16 dicembre 1966, con quattro astensioni (Bulgaria, Francia, Mali, URSS). Seguiranno, impostate sugli stessi principi, la risoluzione approvata il con l’astensione di USA e Gran Bretagna; la risoluzione 326/1973 approvata il 2 febbraio – a partire da una protesta dello Zambia, oggetto di rappresaglie per aver rotto le relazioni economiche con Salisbury - con l’astensione di Stati Uniti e Gran Bretagna (e che definisce “popolo dello Zimbabwe” la maggioranza nera della Rodesia) ; la risoluzione 327/1973 dello stesso giorno, approvata con l’astensione dell’URSS; la risoluzione 329/1973 di sostegno allo Zambia per l’embargo contro al Rodesia; la risoluzione 333/1973, ancora sull’embargo.

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portoghesi, vogliono rovesciare il regime di Sekou Touré, che a sua volta sostiene Amilcar Cabral, leader della guerriglia antilusitana della vicina Guinea Bissao. Risoluzione 282/1970. Il CdS, a seguito di dichiarazione del rappresentante di Conakry, “esige il ritiro immediato di tutte le forze armate esterne e di tutti i mercenari” dalla Guinea 33. Il caso ha una certa somiglianza con quello del Ruanda dell’hutu Habyarimana, sottoposto nel 1990-94, ad attacchi di una guerriglia tutsi considerata da alcuni studiosi, come vedremo, “invasione” da parte dell’Uganda, paese “santuario” del FPR di Kagame. I “mercenari” guineani erano in realtà composti anche da “centinaia di emigrati” contrari al regime di Sekou Tourè 34, che il 22 novembre 1970 erano sbarcati nel paese di origine per tentare di prendere il potere. La differenza fra i due paesi sostenitori delle due guerriglie (il Portogallo colonialista da una parte 35, e l’Uganda indipendente dall’altra) non è da poco, ma la analogia di ruolo fra gli esuli ruandesi e quelli guineani, animati da spirito di rivalsa nei confronti delle rispettive controparti, è indubbia. Il CdS in questa situazione – contrariamente all’atteggiamento “defilato” dell’ONU nel Ruanda del 1994, e prima del “genocidio” – sostiene senza esitazioni il regime-Stato guineano 36. Colonie portoghesi -1972. Il CdS sostiene, contro gli Stati coloniali portoghesi, il diritto e la legittimità della lotta di liberazione dei popoli guineano, angolano e mozambicano. Risoluzione 322/1972. Il CdS, dopo l’audizione dei rappresentanti dei movimenti di liberazione antiportoghesi, “riafferma il diritto inalienabile dei popoli dell’Angola, della Guinea Bissao e di Capoverde, all’autodeterminazione e all’indipendenza” e ne legittima la lotta 37. Ciad 1982 – Presa d’atto della forza OUA in sostegno del governo. Risoluzione 504. Il Cds “prende atto della decisione dell’OUA di creare, d’accordo col governo della Repubblica del Ciad” “una forza di pace per il mantenimento della pace

33 Risoluzione approvata all’unanimità il 23 novembre 1970. Vedi anche la successiva, 295/1971, approvata all’unanimità il 3 agosto 1971, che ricordato l’obbligo per tutti gli Stati membri dell’ONU “di astenersi nelle loro relazioni internazionali dal ricorso alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di qualsiasi Stato”, perché “incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”, “afferma che l’integrità territoriale e l’indipendenza politica della Repubblica di Guinea debbono essere rispettati”. 34 Hervé Bourges-Claude Wauthier, Les cinquanta Afriques, Edit. du Seuil, Paris 1979 , p. 513 : che ricordano come gli esuli della Guinea Conakry ammontavano all’epoca a circa 2 milioni di persone. 35 L’ultra-colonialismo portoghese, secondo l’efficace definizione di Perry Anderson, Le Portugal et la fin de l’ultra-colonialisme, Maspero, Paris 1963, sarà oggetto di reiterata attenzione da parte delle Nazioni Unite: vedi ad es. la risoluzione 294/1971, che “condanna gli atti di violenza e distruzione perpetrati dopo il 1963 dalle forze portoghesi contro le popolazioni e i villaggi del Senegal”, santuari della guerriglia della Guinea Bissao contro Lisbona. E quelle sostanzialmente analoghe 302/1971 (24 novembre), e 321/1972 (23 ottobre). 36 Sostanzialmente analoga la successiva risoluzione 290/1970, approvata con 4 astensioni (Spagna, USA, Francia e Gran Bretagna), dopo che la guerriglia anti Sekou Touré aveva dato vita a nuove insorgense e nuovi attacchi. In difesa del regime-Stato, il CdS interverrà anche nel 1977 con riferimento a tentativi di “mercenari” di rovesciare il governo: risoluzione 405/1977 approvata all’unanimità il 14 aprile. 37 Risoluzione approvata all’unanimità il 22 novembre 1972.

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e della sicurezza nel Ciad; prega il Segretario generale di creare un fondo di assistenza per la forza di pace, alimentato da contributi volontari”38. 3. La prassi ONU: centralità del momento-Stato, rispetto del dominio riservato, diritto di autodecisione “selettivo”. Riassumiamo brevemente attraverso gli esempi da noi selezionati dalla lettura di buona parte delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza fra il 1946 e il 1994 (e talvolta oltre) 39, quale sia stata la prassi dell’ONU, almeno fino agli anni Ottanta, rispetto alle molteplici e varie crisi internazionali postbelliche. Emergono alcune linee di orientamento chiave, ancorate alla Carta delle Nazioni Unite:

1) Il rispetto del “dominio riservato” degli Stati membri, da interferenze della comunità internazionale e delle stesse Nazioni Unite nei loro affari interni, anche di fronte a contigenze preoccupanti o drammatiche (Grecia 1947). A questa osservazione è riferibile per altro il dibattito della dottrina internazionalista sulla natura della Carta dell’ONU – non assimilabile ad una Costituzione fossanche federale, ricorda Arangio-Ruiz 40 – e dello stesso diritto internazionale, come disciplina regolatrice dei rapporti fra Stati e non come diritto pubblico al di sopra degli Stati. Le relazioni fra gli Stati – scrive Aldo Bernardini - sono da intendersi come “relazioni fra enti indipendenti e sovrani, presupposti e non regolati nei loro tratti essenziali dal diritto internazionale, che è diritto che “si pone” fra enti siffatti”. 41

2) I governi legittimi degli Stati membri – legittimi in quanto già alle Nazioni

Unite, indipendentemente dal loro regime, la cui democratizzazione è evidentemente considerata un affare interno al paese in questione - vengono protetti dalla Carta dell’ONU e dalla prassi del Consiglio di sicurezza da insorgenze più o meno “interne”: sempre, nel caso in cui l’attacco sia sostenuto da una potenza coloniale o da un paese riconosciuto come illegittimo dal punto di vista della Carta (vedi i “mercenari” sostenuti dall’Angola portoghese contro il Congo; o i “mercenari” sostenuti dalla Guinea Bissao portoghese contro la Guinea Conakry); ma a volte anche quando non è individuabile un sicuro fattore colonialista o imperialista esterno, a sostegno della ribellione (Ciad: sia pure come presa d’atto della costituzione din una forza di pace OUA). Da notare che nello stesso Congo scosso da una guerra civile di cui sono state

38 Risoluzione approvata per consenso il 30 aprile 1982. 39 Abbiamo preso in considerazione tutte le risoluzioni riguardanti il continente africano, quelle exatrafricane più significative da punto di vista del discorso che qui si sta facendo, e quelle sulla Jugoslavia e sull’Iraq fra il 1990 e il 1994. 40 Gaetano Arangio-Ruiz, “The Establishment of the International Criminal Tribunal for the former territori of Yugolsavia and the doctrine of implied powers of the United Nations”, in Flavia Lattanzi-Elena Sciso (a cura di), Dai Tribunali penali internazionali ad hoc ad una Corte permanente, Atti del Convegno – Roma 1995, Editoriale Scientifica, Napoli 1996, pp. 44-45. 41 Aldo Bernardini, La Jugoslavia assassinata, Editoriale Scientfica, Napoli 2004, p. 250.

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accertate le numerose interferenze esterne (ruolo dell’Union Minière belga nel tentativo secessionista del Katanga del 1960-61), le Nazioni Unite sono intervenute, di fatto dalla parte del governo centrale, e tuttavia dichiarando la propria neutralità nel conflitto interno.

3) Una concezione “selettiva” del diritto di autodecisione, diritto proprio dei

“popoli coloniali” 42 così come ereditati (anche nella loro accezione multietnica) dal colonialismo stesso, ma non delle altre insorgenze interne agli Stati postcoloniali. La Dichiarazione dell’Assemblea generale sulla decolonizzazione 43 che sancisce il dovere positivo di promuovere l’autodeterminazione e il dovere negativo di astenersi dall’usare la forza per privarne i popoli; il Patto sui diritti civili e politici e il Patto sui diritti economici, sociali e culturali del 1966 per i quali "tutti i popoli hanno diritto all’autodeterminazione”; la Dichiarazione 2160 del 1966 44, per la quale ogni azione coercitiva, diretta o indiretta, volta a privare un popolo del suo diritto all’autodeterminazione, costituisce una violazione della Carta delle Nazioni Unite; la Dichiarazione sulle relazioni amichevoli del 1970 - "tutti i popoli hanno diritto a scegliersi liberamente, senza interferenze esterne, il loro status politico” - che qualifica l’uso della violenza per privare i popoli della loro identità nazionale come una violazione dei loro diritti inalienabili e del principio del non intervento; la Dichiarazione sulla definizione di aggressione del 1974 45 , che riafferma il divieto di minaccia o uso della forza contro istanze di autodeterminazione, etc: tutti questi documenti sono interni alla concezione selettiva del diritto di autodecisione dei popoli sopra ricordata, che evitando il peraltro complesso problema della definizione “scientifica” di popolo – su cui come noto sterminata è la letteratura e amplissimo il dibattito (parallelo a quello sul concetto di “nazione”, da Renan a Herder a Stalin, etc.), semplicemente assume come tale il popolo-stato ereditato dai nuovi assetti internazionali sortiti dalla fine della II guerra mondiale prima, e dalla decolonizzazione poi. Insomma, gli Stati postcoloniali (così come ereditati dal colonialismo, nonostante la nota artificiosità dei loro confini) vengono difesi nella loro sovranità e integrità territoriale ex art. 2 46, anche rispetto alle insorgenze armate interne di natura “microetnica”, ed anche nel caso in cui tali movimenti sono espressione di minoranze legate per cultura e appartenenza a paesi confinanti, e dunque da questi sostenuti in modo diretto o indiretto. In pratica, nella prassi non solo ONU, ma anche CSCE, OUA etc, vige il principio dell’intangibilità dei confini – a meno di loro variazione concordata dalle parti

42 “Dichiarazione sulla concessione dell’Indipendenza ai paesi e ai popoli coloniali”, ONU, 14 dicembre 1960. 43 “Declaration on granting Indipendence to Colonial Countries and Peoples”, in Yearbook of the United Nations, 1960, p. 46. 44 Declaration on the Strict Observance of the Prohibition of the Threat or Use of Force in International Relations and the Right of Peoples to Self Determination, Par, 1, lett. b. 45 Testo in Revue générale de droit international public, 1975, pp. 261 ss. 46 Per la precisione, paragrafi 4 e 7.

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interessate – principio non difficile a comprendersi se si fuoriesce da un’ottica eurocentrica, e si prende atto che l’Europa delle (pur relative: Paesi baschi, Corsica, etc.) nazioni storiche – l’Europa cioè centroccidentale - è un’eccezione nel panorama planetario, e che la gran parte degli Stati africani e asiatici hanno confini non corrispondenti alla situazione demografica delle regioni che dividono. Non c’è paese africano, ad esempio, che non condivida dal punto di vista etnico e culturale, una parte almeno della sua popolazione con uno o più Stati confinanti 47: etnie divise da confini indubbiamente artificiosi, ma che sarebbe assolutamente pericoloso considerare “indifferenti” dal punto di vista del diritto internazionale 48.

Questo spiega l’atteggiamento “conservatore” dell’ONU e degli organismi internazionali “regionali”, nei confronti delle questioni confinarie e dei movimenti secessionisti: sempre, in Africa, almeno fino alla “ambigua” secessione eritrea del 1991, il momento Stato unitario ha prevalso – al di là dei campi ideologici Est-Ovest – sul momento “diritto di autodecisione”: Nigeria-Biafra (sulla guerra di secessione del 1966-67 l’ONU non si pronunciò, nei fatti delegittimando la rivolta e favorendo il governo centrale), Somalia-Ogaden, Zaire-Shaba (con Cuba e Urss che rifiutarono nel 1978 di sostenere la ribellione antiMobutu), Senegal-Casamance, Sudan-Anya Nya, etc.

4) Una sola eccezione alla prassi ONU appena citata: quella che vede parte del conflitto a) una potenza coloniale, o b) un paese razzista. In questi casi, come da esempi sopra citati (Sudafrica, Rodesia, Colonie portoghesi) l’ONU privilegia, sulla base del principio di illegittimità del colonialismo e del razzismo, i movimenti di opposizione interni a questi paesi; sostiene la secessione (dalla metropoli europea, o dal Sudafrica nel caso della Namibia) rispetto all’unità dello Stato costituito; e giunge a ridurre a movimenti privi di legittimità dal punto di vista giuridico internazionale – “mercenari” - anche quei “movimenti reali”, animati da decine o centinaia di migliaia di persone, che si scontrano, magari a partire da una condizione di esilio (Guinea Conakry) contro il potere costituito e il governo “legittimo” rappresentato al Palazzo di Vetro di New York.

Certo, questa prassi dell’ONU non era l’espressione “positiva” di un diritto internazionale avanzato e tale da saper sottoporre a giurisprudenza attiva, da gestire ed affrontare i tanti drammatici eventi dell’epoca della “guerra fredda”; piuttosto, essa era 47 Ad es.: i Somali si trovano anche in Etiopia, Kenya, Gibuti; i Tigrini, Afari e Cunama sono stati divisi dalla secessione del 1991, e vivono sia in Eritrea che in Etiopia; i Bakongo vivono nel Congo Kinshasa, nel Congo Brazzaville e in Angola; i Tutsi, oltre che in Ruanda, Burundi e Uganda, anche nel Congo orientale (Banyamulenge); gli Ewe nel Ghana e nel Togo; gli Zande nel Sudan, nel Congo Kinshasa, nel Centroafrica e nel Congo Brazzaville; gli Haussa in Nigeria e in Niger; gli Yoruba in Nigeria e Benin; gli Ngoni in Malati e Zambia; i Barotse o Loze in Botswana, Namibia e Zambia. Molte di queste popolazioni (ad es. gli Yoruba, i Barotse, i Zigrini, i Somali, i Tutsi) hanno cercato di favorire progetti secessionisti. 48 Su questo vedi gli scritti di Aldo Bernardini, e in particolare la raccolta di saggi Aldo Bernardini, La Jugoslavia assassinata, Editoriale Scientifica, Napoli 2004.

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il frutto “in negativo”, “compresso”, degli equilibri bipolari dell’epoca, come tali attenti a difendere spesso lo status quo internazionale a discapito di molti fondamentali diritti umani e della punizione dei crimini di guerra e contro l’umanità dell’epoca (Vietnam, Palestina, etc.). Dal che sembrerebbe ovvio dedurre che “più avanzato” è il diritto internazionale postbipolare, fondato come noto su una maggiore transnazionalità e sul principio, inconcepibile fino alla fine degli anni Ottanta, di ingerenza umanitaria negli Stati sovrani membri delle Nazioni Unite. Ma così non è: invero, il “conservatorismo” ONU dell’età postbipolare non è stato superato con una effettiva democratizzazione delle Nazioni Unite, tale da garantire – almeno fino alla più recente istituzione della Corte Penale Internazionale, non a caso osteggiata proprio da quei paesi che invece hanno voluto e sostenuto i Tribunali ad hoc - una evoluzione del diritto internazionale in senso positivo ma piuttosto ha lasciato il posto a istituzioni (i Tribunali per la Jugoslavia, Ruanda e Sierra Leone) espressione diretta del “nuovo” Consiglio di Sicurezza a forte egemonia “monopolare” dell’Occidente, e soprattutto degli Stati Uniti. Rinviando l’approfondimento di tale fondamentale questione a più avanti, e tornando al tema in oggetto, la domanda da porsi alla luce dei 4 criteri guida appena citati, a questo punto è questa: nel Ruanda del 1994, sottoposto agli attacchi crescenti di una guerriglia composta da migliaia di esuli Tutsi, e sostenuta dall’Uganda, perché l’ONU non solo non è intervenuta a difesa del governo legittimo Habyarimana, ma ha alla fine sostenuto una sola delle parti in causa, espressione per giunta di una minoranza della popolazione? Perché la prassi che ha portato l’ONU a sostenere il governo della Guinea Conakry nel 1972, o quello del Ciad nel 1982 non è stato applicata allo scacchiere di crisi del Ruanda degli anni Novanta? La risposta a questi interrogativi sta in due o tre punti che andremo ad esaminare nei prossimi due capitoli:

1) lo stravolgimento della prassi delle Nazioni Unite dopo il crollo dei vecchi equilibri bipolari Est-Ovest, soprattutto nelle crisi dell’Iraq e della Jugoslavia del 1990-91; 1 bis) le ricadute di tale stravolgimento nello specifico scacchiere africano e della Regione dei grandi Laghi, dove gli Stati Uniti di Clinton ebbero facile gioco a non permettere l’intervento delle Nazioni Unite, e a umiliare la ormai già concorrente Francia (il cosiddetto “bipolarismo” franco-americano di cui all’ultima guerra contro l’Iraq ha il suo precedente storico proprio in Africa 49) impegnatasi nella fallimentare “operazione Turquoise” di tentata salvaguardia del legittimo regime hutu di Habyarimana;

2) la equiparazione, che sia fondata o mediaticamente forzata-inventata – per ora

non entriamo nel merito di questa pur fondamentale questione - del Ruanda di

49 Vedi fra la altre cose il quasi concomitante viaggio di Clinton e Chirac nel continente, nel 1998.

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Habyarimana – o meglio del suo regime sconfitto e in fuga dopo il “genocidio” – a qualcosa di non differente dal punto di vista della drammaticità della situazione, e dell’emergenza umanitaria, dai paesi razzisti e dalle potenze coloniali dell’epoca del bipolarismo, eccezioni come abbiamo visto per derogare dai principi della Carta dell’ONU. Occorreva qualcosa di tragico, eclatante, un evento-categoria scioccante per fare delle Nazioni Unite – attraverso il Tribunale ad hoc di Arusha – uno strumento “giuridico” e operativo di una parte, la minoranza tutsi guidata dall’attuale presidente ruandese Paul Kagame, a danno dell’altra, la maggioranza hutu in fuga in centinaia di migliaia di persone verso i campi di raccolta dello Zaire e della Tanzania. Questo evento-concetto giuridico è il “genocidio” del 1994, immediatamente predefinito, all’indomani delle terribili stragi – e come se i Tutsi vincitori non potessero aver compiuto essi stessi alcun massacro – con la formuletta mediatica: “genocidio dei Tutsi e degli Hutu moderati” da parte degli “Hutu estremisti”.

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CAPITOLO 2

IL MUTAMENTO DELLA PRASSI DELLE NAZIONI UNITE ALL’INIZIO DEGLI ANNI NOVANTA:

LA PRECARIZZAZIONE-PRIVATIZZAZIONE DEI FINANZIAMENTI, E L’EROSIONE DEL “DOMINIO

RISERVATO” NELLA CRISI E GUERRA D’IRAQ (1990-91) E NELLA CRISI DELLA JUGOSLAVIA (1991)

La svolta delle Nazioni Unite avviene durante la gestione Peres de Cuellar, segretario generale dal 1 gennaio 1982 e il 1 gennaio 1992, data d’inizio del nuovo mandato dell’egiziano Boutros Ghali. Peres De Cuellar, che era succeduto a Kurt Waldheim dopo una martellante campagna mediatica contro quest’ultimo, sostenuta fra gli altri dal centro Wiesenthal (il passato di Waldheim, ex ufficiale della Wermacht, finirà oggettivamente per colpire a fondo le Nazioni Unite “terzomondiste” del discorso di Arafat all’ONU, e della risoluzione contro il Sionismo come movimento razzista), alla scadenza del suo mandato avrebbe accettato un incarico permanente di prestigio per il grande finanziere sionista Edmond Safra: una scelta alquanto opinabile per un ex Segretario generale delle Nazioni Unite, vista la nota conflittualità e la scarsa convergenza di Israele, almeno fin dal 1967, con l’ONU e con il rispetto della legalità internazionale. 50 Al di là del personaggio comunque, i momenti e i capitoli principali della svolta che più interessano il nostro discorso sono tre: il primo riguarda l’ “innovazione” introdotta da De Cuellar sul piano dei finanziamenti dell’ONU e in particolare delle missioni di peace-keeping; il secondo e il terzo sono costituiti dalle due grandi crisi internazionali degli inizi degli anni Novanta: l’Iraq e la Jugoslavia, che hanno prodotto, come da dibattito dottrinario, una forte erosione – forse si potrebbe dire aggressione – del tradizionale “dominio riservato” agli Stati sovrani, dentro un più generale stravolgimento della carta dell’ONU, e prima ancora, dentro il più generale processo storico della cosiddetta globalizzazione 51. 1. Lo scardinamento del sistema di finanziamento fisso attraverso la dilatazione quantitativa e funzionale dei contributi “volontari”: le conseguenze sui Tribunali ad hoc. Secondo prassi consolidata, il sistema di finanziamento delle Nazioni Unite 50 Dal 1967 ad oggi, sono circa 300 le risoluzioni delle Nazioni Unite che in modo diretto o indiretto hanno invano intimato a Israele il ritiro dai Territori occupati. Sulla carriera di Peres de Cuellar, vedi Riccardo Orizio, “Mister ONU sceglie la finanza”, sul Corriere della Sera del 19 febbraio 1992. 51 Sulla molteplicità di fattori che hanno eroso negli ultimi decenni il dominio riservato degli Stati (lo sviluppo delle organizzazioni internazionali sia pure su basi pattizie; le multinazionali con le loro transnational law firms, a rivoluzione informatica) vedi Angela Del Vecchio, Giurisdizione internazionale e globalizzazione. I tribunali internazionali tra globalizzazione e frammentazione, Giuffré, Milano 2003.

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dal 1945 fino alla fine degli anni Ottanta, era sempre stato basato su due criteri guida: il primo, fondamentale sia dal punto di vista dell’uso “strategico” dei fondi, sia per quel che attiene la percentuale sul totale dei finanziamenti raccolti, si fondava su contributi obbligatori degli Stati Membri, stabiliti secondo quote rapportate o al loro ruolo e potere dello nella struttura organizzativa e decisionale dell’Organizzazione (Membro permanente, Membro semplice) o al loro grado di sviluppo economico, a sua volta dedotto dalle consuete classificazioni elaborate dalla stessa ONU 52. Il secondo criterio, inizialmente di gran lunga meno importante, era costituito da contributi volontari secondo la formula classica dell’Assemblea generale: “Invites voluntary contributions to the Force (mission) in cash and in the form of services and supplies acceptable to the Secretary-General.”, utilizzata ad esempio già nella risoluzione 1090 del 27 2 1957 sulla Forza di intervento nella guerra per il Canale di Suez 53. Questa prassi cominciò a subire un processo di revisione a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, come effetto di vari fattori, fra cui non ultimo l’accresciuta conflittualità fra la nuova maggioranza “terzomondista” dell’ONU (compimento del processo di decolonizzazione, ingresso della Cina, sviluppo del Movimento dei non Allineati, Conferenze UNCTAD, ect.) e alcuni paesi industrializzati (ad es. Germania e Stati Uniti) propensi a sospendere la loro contribuzione finanziaria proprio perché contrari ai nuovi equilibri nell’Assemblea generale. Ma è fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, durante la già ricordata gestione De Cuellar, che si registrano le svolte più significative La prima riguarda le emergenze umanitarie e le operazioni di peace-keeping, per le quali si assiste da una parte a innovazioni “decisioniste” e di “emergenza” introdotte dallo stesso De Cuellar (il Fondo di riserva per il mantenimento della Pace, per le “spese impreviste e straordinarie” relative alle operazioni peace keeping, in attesa del versamento dei contributi obbligatori” ) 54, e dall’altra ad una dilatazione crescente dei contributi volontari, e non sempre soltanto per le cosiddette “non-core activities” 55, con conseguenze gravi sul piano della neutralità non solo dell’operazione in sé considerata, ma, ancor prima, della selezione operata per quello 52 Ad esempio nel 1965, venenro stabilite le seguenti quote di finanziamento per le missioni di peace-keeping: Stati meno sviluppati 5%; Stati sviluppati 25%; Membri permanenti del Consiglio di Sicurezza 70 % , “ma solo a condizione che nessun membro ne sostenesse più del 50% del costo netto” . Nel 1973, evidentemente come riflesso dell’emergere di un “Quarto mondo”, la ripartizione fu stabilita in quattro quote, come attesta la risoluzione 3101 di quell’anno per l’UNEF II: Membri permanenti 63,15; Paesi sviluppati 34,78 % ; Paesi meno sviluppati 2,02%; Paesi economicamente meno avanzati 0,5%. Nuova ripartizione nella 557235 del 23 dicembre 2000, con ben 10 livelli contributivi ancorati in genera al PNL pro capite. 53 Valentina Della Fina, Il bilancio nel diritto delle Nazioni Unite, Giuffré,Milano 2004, p. 316, che ricorda (317) che “le esortazioni al versamento di contributi volontari sono un elemento costante delle delibere dell’Assemblea” 54 Valentina Dalla Fina, op. cit., p. 324, ricorda come l’istituto sarebbe stato ad esempio fatto proprio dall’Assemblea Generale con la risoluzione 47/217 del 23 dicembre 1992. 55 Anche perché è diventato difficile distinguere le “core activities” dalle “non-core activities”. Vedi Dalla Fina, op. cit., p. 319 “il carattere multifunzionale della più recente generazione di peace-keeping incide anche sul piano finanziario, in quanto non risulta sempre possibile distinguere tra le ‘core activities’ da sostenere con contributi obbligatori, e le “non core activities”, da sostenere con contributi volontari”.

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specifico intervento peace-keeping rispetto ad una rosa più ampia di possibilità. Ad esempio, “I contributi volontari hanno assunto un ruolo rilevante anche nel settore dei diritti umani … (fino a che) … nel 2002, l’Ufficio per l’Alto Commissariato dei diritti umani ha ricevuto 23,1 milioni di dollari provenienti dal bilancio ordinario dell’ONU, che sono serviti a finanziare solamente il 34% delle attività” 56 In sostanza si è prodotto il rischio di dar vita ad una sorta di “mercato” delle operazioni umanitarie e per il mantenimento della pace, dove a decidere sono il finanziatore e la sua offerta di contributo, e non un criterio (sia pure politicamente condizionato dagli equilibri dentro l’ONU) di vera giustizia, di vera emergenza, e di vera priorità di scelta. Le critiche a questa deriva sono ormai innumerevoli: dagli studiosi della disciplina per i quali occorre “mantenere fermo il principio della responsabilità finanziaria collettiva al fine di evitare discriminazioni tra le diverse aree di interesse” 57, al Movimento dei Non Allineati, che ad esempio – con riferimento al problema delle emergenze umanitarie “dentro” le missioni di pace - non ha mancato di rilevare che “se l’assistenza umanitaria rientra nel mandato di una missione, risulta necessario garantire comunque l’imparzialità nel suo svolgimento e coordinare gli sforzi a tal fine” 58 , a paesi ricchi come il Giappone e il Canada, critici verso l’invio in Bosnia di personale militare da parte di alcuni Stati Europei, “a titolo volontario”. 59 La seconda svolta investe proprio gli organi giurisidionali che qui più ci interessano: “La prassi relativa alla creazione di fondi fiduciari per raccogliere contributi volontari destinati agli organi giurisdizionali risale al 1989, quando il Segretario Generale (Peres de Cuellar) ha costituito un fondo per favorire l’accesso degli Stati più poveri alla giurisdizione della Corte internazionale di Giustizia al quale possono erogare risorse a titolo volontario Stati, organizzazioni internazionali fondazioni, persone fisiche e giuridiche” 60 . In pratica, nella forma apparentemente encomiabile del permettere agli Stati poveri di godere degli stessi diritti degli altri Membri dell’Organizzazione, Peres De Cuellar introduceva – in violazione peraltro dell’art. 17, comma 2 della Carta dell’ONU 61 - il velenoso principio di una potenziale “privatizzazione” dei fondi di finanziamento per 56 Valentina Dalla Fina, cit, p. 13 nota. 57 Schoettle, Financing UN Peace-Keeping, p. 32. Ma vedi anche McDermott, The new Politics of Fihnancing the UHN, p. 52; Nicoletta Parisi, Il finanziamento delle organizzazioni internazionali, Giuffré Milano 1986, p. 135, per la quale occorrerebbe “un’espressa norma di autorizzazione che in via generale contempli la capacità dell’atto di donazione con gli scopi dell’ente, nonché la ‘neutralità’ del donante e l’assenza di eventuali condizioni nell’atto di liberalità”; Schermers-Blokker, International Institutional Law, p. 642 per i quali i contributi volontari per lo sviluppo sono accettabili, e persino raccomandabili, mentre “for peace-keeping it seems more doubtful whether activities not supported by all principal powers and by a strong majority of the other members would be beneficial. One side effect could be the splitting of then organizations”. 58 GA/SPD/164, 18 ottobre 1999. 59 Valentina Dalla Fina, cit. , p. 319. 60 Valentina Della Fina, Il bilancio nel diritto delle Nazioni Unite, Giuffré, Milano 2004, p. 341. 61 “Le spese dell’Organizzazione sono sostenute dai Membri secondo la ripartizione fissata dall’Assemblea generale”.

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le attività giurisdizionali delle Nazioni Unite, che avrebbe avuto un dirompente sviluppo proprio nel caso del TPIR , e più in generale dei Tribunali ad hoc degli anni Novanta. “I contributi volontari hanno svolto un ruolo rilevante nel finanziamento dei due Tribunali penali soprattutto nei primi anni di funzionamento. Lo stesso Consiglio di Sicurezza nelle delibere istitutive degli organi giudiziari sollecitava gli Stati, le organizzazioni governative e non governative “to contribute funds, equipment and services to the International Tribunal, including offer of export personnel” 62 Vedremo il caso specifico del TPIR più avanti. Per adesso, per quel che riguarda il caso-madre del Tribunale penale per la Jugoslavia occorre ricordare la risoluzione 49/242 B del 20 luglio 1995, che prevedeva anche un’offerta di personale a titolo gratuito da parte di alcuni Membri permanenti del Consiglio di sicurezza (Regno Unito e Stati Uniti). Quale personale? Con quali funzioni? E’ evidente come attraverso questo dispositivo – che sarebbe stato reiterato e forse peggiorato nel caso del Tribunale penale internazionale per il Ruanda – si creavano le premesse per un’intromissione di singoli Stati parte in causa nel conflitto, o addirittura di privati (Rockfeller e Soros) nella gestione della giustizia internazionale: “Nel caso dei tribunali penali internazionali … i contributi volontari e, soprattutto il personale fornito dagli Stati occidentali a titolo volontario, sono stati utilizzati per lo svolgimento di indagini e la preparazione degli atti processuali. Tale pratica ha suscitato numerose critiche da parte dei paesi in via di sviluppo che hanno sottolineato il venir meno del carattere ‘internazionale’ di tali organi e la circostanza che il personale era impiegato per svolgere le funzioni principali affidate al Tribunale (attività investigativa, assistenza legale ed altro), piuttosto che mansioni di carattere amminstrativo” 63 Se a questa destinazione dei contributi volontari, si aggiunge quella dei contributi obbligatori, dei quali solo il 2,5% è stato devoluto alle Camere, mentre il 31,7% (oltre al 64,6 delle risorse extrabilancio) è finito all’Ufficio del Procuratore, la conclusione ovvia è una messa in discussione della neutralità effettiva e dell’imparzialità dell’organo giurisdizionale – totalmente sbilanciato dalla parte della accusa: processo “inquisitorio” per eccellenza - che ha tutte le caratteristiche di un Tribunale dei Vincitori sulla vinta Jugoslavia post-titoista . 2. Iraq 1991: dalla abdicazione dell’ONU nella gestione della crisi all’erosione del dominio riservato. La svolta dell’ONU degli anni Novanta maturò anche e soprattutto sul terreno di due grandi crisi internazionali dell’epoca: l’Iraq e la Jugoslavia. Per quel che riguarda l’Iraq, a partire dalla comprensibile e legittima condanna dell’invasione 62 Valentina Della Fina, Il bilancio nel diritto delle Nazioni Unite, Giuffré, Milano 2004, p. 340. 63 Valentina Dalla Fina, op. cit., p. 342. Nonostante il suo documentato e inquietante excursus, e nonostante il richiamo al “rischio della frammentazione del diritto internazionale” e alla “privatizzazione delle organizzazioni internazionali” la Dalla Fina, op. cit., p. 329 finisce per inserire l’involuzione dell’attività degli organi giurisdizionali delle Nazioni Unite negli anni Novanta, oltre che nella “fine della guerra fredda” in un preteso “sviluppo del diritto internazionale” .

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del Kuwait del 2 agosto 1990 – inaccettabile in base alla Carta dell’ONU, essendo il Kuwait (al di là di ogni pur condivisibile discorso di tipo storico sulle sue origini, e politico sulla sua natura reazionaria 64) uno stato indipendente, la cui integrità territoriale e sovranità doveva essere rispettata da tutti i membri della comunità internazionale – da una parte si assiste ad una moltiplicazione notevole delle risoluzioni sulla questione; e dall’altra si produce - dentro una gestione complessiva dell’ONU di De Cuellar apparentemente poco attenta alle possibilità di superamento pacifico della controversia 65 - un primo significativo “strappo” nella storia pluridecennale delle Nazioni Unite. Vediamo attraverso le principali risoluzioni lo svolgimento della crisi, il cui avvio – la condanna dell’invasione del Kuwait - è nel rispetto formale dei principi della Carta. Risoluzioni 660, 661, 662 e 664/1990. Il CdS condanna l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, chiede il ritiro immediato delle truppe (660), afferma il diritto all’autodifesa del Kuwait ex art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, “decide che tutti gli Stati impediranno: a) l’importazione” sul loro territorio di merci irachene …, b) “le attività dei loro connazionali che favoriscano o vogliano favorire le esportazioni” irachene ,, … “c) la vendita” di mercanzie all’Iraq (661), ribadisce le precedenti risoluzioni dichiarandosi preoccupato per la messa in atto di istituzioni in Kuwait da parte della potenza occupante (662), e nella risoluzione 664, dedicata alla sicurezza degli stranieri in Iraq, usa la locuzione – che comparirà spesso nelle successive risoluzioni del Cds, anche quelle su altri scacchieri di crisi – “agissant en vertu du chapitre VII” 66. Poi, come già detto, lo “strappo”, come delega “in bianco” a qualsiasi Stato membro delle Nazioni Unite ad usare “tutti i mezzi necessari” per far rispettare le risoluzioni da parte del governo di Bagdad. Recita infatti la risoluzione 678/1990: Il CdS, notando che l’Iraq non esegue i dettami della 660 (sul ritiro immediato dal Kuwait), “agendo in applicazione del Capitolo VII della Carta … autorizza gli Stati Membri che cooperano con il Governo kuwaitiano a usare, nel caso in cui il 15 gennaio 1991 l’Iraq non abbia pienamente

64 Dal punto di vista della sostanza storica della questione, è evidente il carattere artificioso del Kuwait, entità creata dal colonialismo britannico e non a caso delimitata da confini perfettamente retti, tracciati a tavolino con l’occhio puntato non certo alla storia plurisecolare della regione, ma ai giacimenti di petrolio. 65 Il giudizio del Segretario generale, per il quale il ministro degli esteri iracheno Tareq Aziz gli sarebbe apparso molto “rigido” durante la crisi del Kuwait dell’estate 1990 senbra non tener conto della “pragmatica” proposta di Saddam Hussein del 12 agosto 1990, di un linkage fra il ritiro iracheno dal Kuwait, e il ritiro di Israele dai territori occupati nel 1967. La via d’uscita pacifica della crisi dunque c’era, e venne timidamente tentata, ad esempio da Andreotti e Mitterrand, nel dibattito alle Nazioni Unite dell’ottobre 1990. Non a caso anche Arafat, più tardi demonizzato per il suo comprensibile interesse per la proposta di Bagdad, aveva appoggiato il presidente iracheno. Ma alla fine fu guerra, anche per la spinta determinante sull’alleato americano di Israele (al proposito cfr. fra gli altri: Andrew e Leslie Cockburn, Amicizie pericolose, Storia segreta dei rapporti fra Stati Uniti e Isra e l e, G a m b e re t t i , Roma 1993; e C. Moffa, 11 settembre, Palestina radice della guerra. La co-regia israeliana dell’aggressione USA all’Afghanistan, “Quaderni di Contropiano” Roma 2002, pp. 16 e segg). 66 Risoluzioni approvate all’unanimità senza partecipazione dello Yemen (660 del 2 agosto) ; con due astensioni, Cuba e Yemen (661 del 6 agosto); all’unanimità (662 del 9 agosto), all’unanimità (664 del 18 agosto). Altre risoluzioni, su derrate alimentari e ostaggi occidentali, 665 del 25 agosto e 666 del 13 settembre. Poi la 667 del 16 settembre, nella quale si da atto che la chiusura delle missioni diplomatiche del Kuwait “va incontro alle decisioni del Consiglio di Sicurezza, delle convenzioni internazionali e del diritto internazionale”.

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applicato le risoluzioni sopramenzionate, tutti i mezzi necessari per far rispettare e applicare la risoluzione 660 (1990) …”67. E’ chiara in questo paragrafo la quasi “legittimazione” di un’aggressione di quale che sia Stato membro, contro l’Iraq, come in effetti sarebbe avvenuto due giorni dopo la scadenza dell’ultimatum, il 17 gennaio 1991, ad opera degli “Alleati” guidati da Stati Uniti e Gran Bretagna. Anzi, ad essere precisi, non di “qualsiasi” Stato, ma solo di quelli “che cooperano con il governo kuwaitiano”!, come a dire di una parte – quella più “affidabile” – dei Membri dell’ONU. Che dunque di “strappo” si tratti, ad onta di un dibattito sulla questione 68, non v’è a nostro avviso dubbio: se in tutte le numerose crisi internazionali fra il 1945 e il 1990, l’illegittimità di un’invasione fosse stata dichiarata causa di legittima aggressione di singoli Membri dell’ONU contro lo stesso paese invasore, le Nazioni Unite, abdicando al proprio ruolo di mediazione e di garanti della pace e della sicurezza internazionali, avrebbero assunto fin da subito quello di un organismo incentivatore di conflitti e del caos planetario. La questione di Cipro – il paese invasore, la Turchia, solo bloccato a metà strada nel progetto di occupazione dell’isola - aveva insegnato invece il contrario. Per non parlare dell’occupazione dei Territori palestinesi da parte di Israele, con le decine di risoluzioni del CdS mai rispettate (tuttoggi non rispettate) da Tel Aviv. O dell’Uganda, invaso nel 1978 dalla Tanzania di Nyerere – intervento che produsse il rovesciamento del regime di Idi Amin e l’ascesa al potere di Milton Obote – su cui il Consiglio di Sicurezza non emise alcuna risoluzione. In tutte le crisi in cui i dispositivi delle risoluzioni ONU avevano prodotto l’intervento di una forza di pace, questo era avvenuto (vedi ad es. il Congo) sotto il comando militare – sia pure formale, secondo dialettica e scarto ovvio, come sempre, fra sfera del diritto e concreti rapporti di forza - delle stesse Nazioni Unite. Adesso la prassi mutava: il richiamo e la “base giuridica” era pur sempre il capitolo VII della Carta 69, e in particolare l’art. 42. Ma questo era solo apparenza: l’articolo 42 infatti recitava e recita che è “il Consiglio di Sicurezza” che “può intraprendere con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire lapace e la sicurezza internazionale”. Adesso invece, con la risoluzione 678, il Consiglio di Sicurezza si faceva da parte, abdicava al proprio ruolo di coordinatore e organo dirigente dell’azione armata, e delegava quest’ultima a quale che sia Stato membro, facendo degenerare il diritto internazionale in una sorta di “legge della giungla” a favore del più forte 70. 67 Risoluzione approvata il 28 novembre, con l’opposizione di Cuba e dello Yemen, e l’astensione della Cina. 68 Non è nell’economia di questo lavoro affrontare il ricco dibattito dottrinario sulla 678 del 1990. Rimandiamo ai lavori già citati di Aldo Bernardini, e a Ugo Villani, Villani, Lezioni su l'ONU e la crisi del Golfo, 2a ed., Lateraza, Bari 1995, p. 85 ss., e “L'intervento nella crisi del Golfo”, in Interventi delle Nazioni Unite e diritto internazionale, a cura di Picone, CEDAM, Padova 1995, p. 33 ss. 69 Risoluzione 678/1990, considerandum 5, “agissant en vertu du chapitre VII..” 70 Così ad esempio il senatore Raniero La Valle, in diversi suoi interventi dell’epoca. Da notare al proposito, la differenza fra l’art. 40 e l’art.41 a proposito delle funzioni dell’ONU in rapporto a quelle degli Stati membri chiamati a sostenere l’azione delle Nazioni Unite e le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza: nel caso dell’art. 40, dedicato a “misure non implicanti l’impiego della forza armata”, il CdS “invita” “i Membri delle nazioni unite ad applicare tali misure”,

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Su questa base di partenza, e a partire dal formidabile errore di Saddam Hussein – tranello o non tranello degli USA che fosse 71 – di avventurarsi nell’illegittima invasione del Kuwait, una risoluzione successiva, la 688/1991 creava un nuovo precedente nella storia delle Nazioni Unite: l’interferenza dell’ONU nelle vicende interne di uno Stato membro, come se la repressione irachena della (peraltro inesistente) resistenza di cittadini kuwaitiani – cittadini cioè sottoposti da una illegittima invasione straniera – potesse essere equiparata alla repressione delle insorgenze armate interne allo stesso Iraq, stato i cui confini e la cui sovranità sono garantiti dalla Carta dell’ONU. Recitano in effetti i paragrafi 1 e 2 della 688: Il CdS “condanna la repressione delle popolazioni civili irachene in molte parti dell’Iraq, ivi comprese molto recentemente quelle delle zone di popolamento curde … Esige che l’Iraq … metta fine senza indugi a questa repressione … Insiste perché l’Iraq permetta accesso immediato nella regione alle organizzazioni umanitarie internazionali …”72. Lo “strappo” dunque si allarga. Viene aggredito frontalmente il principio-nozione di “dominio riservato” degli Stati sovrani nelle questioni di propria competenza, principio cardine delle Nazioni Unite, racchiuso in particolare nell’art. 2 paragrafo 7 della Carta di San Francisco. Nel caso specifico della guerra della “comunità internazionale” contro l’Iraq, il Consiglio di Sicurezza deroga al principio di non ingerenza negli affari interni degli Stati, e si schiera – per la prima volta nella storia delle Nazioni Unite, con le sole eccezioni degli Stati coloniali e del Sudafrica e Rodesia del sud – dalla parte delle opposizioni armate. Si apre così la strada al dirompente “principio di ingerenza umanitaria” che si sviluppa lungo tutto l’arco degli anni Novanta, e che permette, in situazioni di volta in volta “eccezionali” (ma chi decide dell’effettiva “eccezionalità”?) di “sfondare” le sovranità statali in nome di un nuovo “diritto internazionale” che – questo è da sottolineare – non è espressione di equilibri più avanzati nella comunità internazionale – da cui un’effetiva sua “evoluzione” – ma al contrario il prodotto dei nuovi squilibri postbipolari, caratterizzati da una crisi verticale di tutte le tendenze terzaforziste (tipico il caso del Movimento dei Non allineati) e dall’affermazione di un forte monopolarismo incentrato sul ruolo sempre più egemonico degli Stati Uniti.

*** 3. Jugoslavia 1999, la fine della “selettività” del principio di autodecisione dei popoli: la risoluzione 713 del 25 settembre 1991. Lo “strappo” è altrettanto evidentemente in modo singolo, Stato per Stato (è il caso ad esempio dell’embargo, misura per la quale un coordinamento pratico-operativo dell’ONU non avrebbe senso). Invece, nel caso dell’art. 41 (azione armata) il ruolo centrale, di coordinamento e di comando dell’ONU rispetto agli stessi Stati membri che hanno appoggiato la sua risoluzione, resta – come abbiamo detto nel testo – operativo. Lo “strappo” della 678 avviene dunque, sotto questo profilo, trasferendo la logica dell’art. 40 all’art.41. 71 E il caso dell’ambasciatrice USA Gillespie, che secondo la versione di parte irachena, avrebbe dato un sostanziale via libera a Bagdad per l’intervento nel Kuwait, come “riparazione” per i danni subiti dall’Iraq durante la lunga guerra contro l’Iran, e nella quale Saddam Hussein era stato sostenuto da Washington. 72 Risoluzione approvata il 5 aprile, con l’opposizione di Cuba, Yemen, Zimbabwe e l’astensione di Cina e India.

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evidente, nello stesso anno 1991, e sotto la stessa gestione Peres de Cuellar, per quel che riguarda la Jugoslavia, che a 11 anni dalla morte di Tito, subisce un rapido processo di disgregazione attraverso ben quattro secessioni, quella della Croazia il 25 giugno, quella della Slovenia il 26 giugno, della Macedonia il 15 settembre, e della Bosnia Erzegovina il 15 ottobre. Col senno di poi, oggi sembrerebbe doversi affermare che il processo era ineluttabile, e che è stata la “volontà popolare” sancita dai diversi referendum a imporre “democraticamente” la fine della Jugoslavia, il cui sistema federale era stato progressivamente eroso nei due decenni precedenti prima dalla revisione costituzionale del 1972 (maggiore potere ai singoli Stati), e poi dalla pesante crisi economica degli anni Ottanta, volano di alimentazione degli “egoismi” regionali, soprattutto lungo l’asse Nord-Sud. Ma da una parte si possono contrapporre a questo schema troppo lineare per essere veridico, sia il panjugoslavismo allora ancora diffuso in larghi strati della popolazione, peraltro rafforzato dal meticciamento inter-etnico favorito nei decenni dalla politica multiculturale e multietnica del governo centrale, sia i tentativi unitari del governo di Belgrado: ad esempio l’opposizione alla sostituzione da parte di Lubiana, delle truppe federali al confine con Italia e Austria, con truppe della Slovenia, dopo la dichiarazione unilaterale di indipendenza di fine giugno 1991. Dall’altra e soprattutto, ragionando in punto di diritto, nessun rivolgimento storico avrebbe potuto legittimare – attraverso semplici risoluzioni “operative” del Consiglio di Sicurezza, senza cioè una revisione concordata a livello di Assemblea generale, della Carta stessa dell’ONU, quasi il Consiglio fosse scontatamente un “law-maker” 73– l’avallo di misure e movimenti secessionisti ai danni di uno Stato membro, che peraltro aveva avuto dopo la fine della seconda guerra mondiale, grazie alla leadership prestigiosa di Tito, un ruolo notevole di difesa e di potenziamento – ad es. dentro il Movimento dei Non Allineati – dei principi ispiratori e della politica di pace delle Nazioni Unite. Certo si potrebbe invocare il principio di autodeterminazione dei popoli, come principio fondante l’avallo delle secessioni balcaniche: ma si tratta – in un dibattito pur ampio – di un abbaglio storico e giuridico, che nell’economia di questa tesi – dedicata ad un Tribunale penale internazionale la cui ratio materiae non coinvolge tale questione se non come articolazione del più generale nodo del “dominio riservato” 74 – non abbiamo tempo di affrontare, e per la trattazione della quale rinviamo sia ai nostri numerosi interventi sulla questione 75 (soprattutto con 73 Sulla questione vedi Gaetano Arangio-Ruiz, “On the Security Council’s ‘Law-making’, in Rivista di Diritto Internazionale, 2000, 3, estratto, Giuffré, Milano 2000. 74 Mentre i “presunti” genocidi e “crimini di guerra” imputati a Milosevic e ai dirigenti serbi sono riferibili ad un processo storico-politico imperniato in gran parte proprio sulla questione della legittimità o meno della secessione, nel caso ruandese il conflitto è fra due etnie entro uno stesso Stato, e mai è stato posta al questione della secessione, ma solo quella del controllo-egemonia sulla stato stesso, alla luce della dialettica fra maggioranza (Hutu) e minoranza (Tutsi). 75 Nei quali ho fra le altre cose sottolineato la necessità di considerare il popolamento a macchia di leopardo della stragrande maggioranza dei paesi sia africani sia euro-balcanici e euro-orientali, come ostacolo ad una applicazione rigida in chiave secessionista del principio di autodecisione dei popoli. Non si può essere indipendenti dal vicino di casa. Né i giuristi possono ragionare solo in termini astratti, senza confrontarsi con la realtà storica e demografica di riferimento. Vedi: Claudio Moffa, “1966-1996: L’Africa dalla decolonizzazione all’età postcoloniale. L’implosione del “diritto di autodeterminazione” dei popoli”, in P. Benvenuti, P. Gargiulo, F. Lattanzi, Atti del Convegno “Nazioni Unite e Diritti dell’Uomo a trent’anni dall’adozione dei Patti”, Università degli Studi di Teramo, Teramo 1996;Claudio Moffa,

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riferimento a quella che abbiamo definito l’ “implosione” del diritto di autodecisione nella fase postcoloniale: vedi appendice e bibliografia) sia agli scritti di dei tanti autori che se ne sono occupati Gideon Gottlieb, Georges Haupt, Aldo Bernardini e Gaetano Arangio-Ruiz 76. Quel che è certo, è che non solo la Carta delle Nazioni Unite, ma anche ad es. la Carta dell’Organizzazione per l’Unità Africana, o quella di Helsinky della Conferenza sulla Sicurezza Europea, e persino la Carta di Algeri redatta da Lelio Basso, contengono degli espliciti riferimenti alla necessità di difendere l’integrità territoriale degli Stati esistenti, e per questa via dunque gli artificiosi confini ereditati dal colonialismo. Questa del resto era stata la prassi dell’ONU per quasi mezzo secolo dopo il 1945. Quale atteggiamento assumeva invece il Consiglio di Sicurezza nei confronti della crisi jugoslava del 1991, una crisi che ripeteva, nel cuore di un Europa destabilizzata dalla politica gorbacioviana e dallo sgretolamento dell’Unione sovietica, il modello tipico di tante precedenti crisi internazionali, ad esempio africane, di cui alle considerazioni che abbiamo fatto in precedenza? E quale la differenza di approccio fra

“Popoli senza stato” e ideologi senza cervello”, in Limes, 1, 1999, pp. 269-278; Claudio Moffa, “L’ethnicité en Afrique: l’implosion de la ‘question nationale” après la decolonisation”, in Politique Africaine, 66, 1997, pp. 101-114; Claudio Moffa, “L’implosione del ‘principio di autodecisione dei popoli’ ”, in Politica Internazionale, 1-2, 1997, pp. 137-142. 76 Georges Haupt, “I marxisti e la questione nazionale”, in C. Moffa (a cura di) Quaderni Internazionali, n. 2-3, La questione nazionale dopo la decolonizzazione (1). Per una rilettura del “principio di autodecisione” dei popoli, Roma 1988; Gideon Gottlieb, "Nations Without States", in Foreign Affairs, maggio-giugno 1994, pp. 100-112; Id., Nations Against State: A New Approach to Ethnic Conflicts and the Decline of Sovereignity, New York 1993; Aldo Bernardini, La Jugoslavia assassinata, Editoriale Scientifica, Roma 2004; Gaetano Arangio-Ruiz, Autodeterminazione (diritto dei popoli alla), in Enciclopedia giuridica Treccani, IV, 1988; Id., “On the Security Council’s ‘Law-making’, in Rivista di Diritto Internazionale, 2000, 3, estratto, Giuffré, Milano 2000; Antonio Cassese, Self-Determination of Peoples. A Legal Reappraisal, Cambridge 1995. Giancarlo Guarino, Autodterminazione dei popoli e diritto internazionale, Editoriale Scientifica, Napoli 1984. Brevemente: lo storico Georges Haupt ha rivisitato criticamente l’elaborazione marxista del principio di autodecisione dei popoli, mostrando inequivocabilmenteil rifiuto di tutti gli studiosi e dirigenti marxisti, di una assolutizzazione astorica di tale principio – come spesso fa certa politologia di sinistra, a cominciare dal caso jugoslavo (vedi al proposito l’appello contro la secessione slovena su il manifesto del 3 luglio 1991, provocato da un intervento di un deputato di Rifondazione comunista a favore dell’indipendenza di Lubiana) – sempre contestualizzato in un quadro-processo generale la cui categoria principale ai fini di ogni analisi e ogni strategia politica, è (come ovvio, per i marxcisti) la classe sociale e non la nazione. Gideon Gottlieb, ha proposto sulla rivista Foreign Affairs, una rivisitazione in chiave liberale dei 14 punti di Wilson, che a ragione giudica deleterie applicati alla lettera (il riferimento è al principio di autodecisione) alla crisi jugoslava. Aldo Bernardini, imputa a una nozione nei fatti “pregiuridica” del diritto di autodecisione la concezione “ampia” dello stesso principio in molta dottrina internazionalista, a ragione giudicata fuorviante, e nello stesso tempo sottolinea come il diritto internazionale non regola “nei loro tratti essenziali” le relazioni fra Stati indipendenti e sovrani, ma piuttosto “si pone fra enti siffatti” (op.cit., p. XV), e peraltro conclude provocotariamente che “l’autodeterminazione della Carta dell’ONU è … l’autodeterminazione degli Stati (e dei loro popoli attraverso, in principio non contro, gli Stati costituiti) … quindi la tutela del gioco politico interno, libero da ingerenze straniere”. Gaetano Arangio-Ruiz affronta la questione sotto il profilo del “dominio riservato” di cui già nel testo, e nota peraltro come questione fondamentale sia “la relazione esistente fra l’autodecisione dei popoli da una parte e altri principi: in particolare i principi volti a tutelare, mediante la regola che vieta l’uso o la minaccia della forza e altre norme, il rispetto dell’integrità territoriale e dell’indipendenza degli Stati”. Da questo punto di vista, scrive ancora Arangio-Ruiz, “resta aperta la questione di sapere se l’autodecisione dei popoli sia attualmente sancita anche da una norma o da un principio dindiritto internazionale non scritto e generale, valevole indipendentemente dalla Carta delle Nazioni Unite. Olrte non provata, l’esistenza di una regola generale siffatta sembra contraddetta dalla natura setssa del “sistema” delle regole delle relazioni internazionali e dalla applicazione non universale sinora fatta, in senso alle stesse Nazioni Unite, delle disposizioni della Carta concernenti lautodeterminazione” (Gaetano Arangio-Ruiz, Autodeterminazione (diritto dei popoli alla), in Enciclopedia giuridica Treccani, IV, 1988, p. 2)

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il prima e il dopo? Recita la risoluzione 713 del 25 settembre 1991, approvata all’unanimità: Il CdS, “profondamente preoccupato dai combattimenti in Jugoslavia … e delle loro conseguenze per i paesi della regione, in particolare nelle zone frontaliere dei paesi vicini” … “prendendo nota dell’accordo per il cessate il fuoco del 17 settembre a Igalo e di quello del 22 settembre 1991” … “prendendo atto” delle numerose lettere degli ultimi mesi (Austria, Canada, Ungheria, Paesi Bassi, Cecoslovacchia, Belgio, Francia, Gran Bretagna Australia, Francia … “da pieno appoggio agli sforzi collettivi di pace e di dialogo in Jugoslavia sotto l’egida degli Stati membri della Comunità Europea partecipanti alla Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione Europea conformemente ai principi della stessa Conferenza” … “chiede urgentemente a tutte le parti di applicare rigorosamente gli accordi per il cessate il fuoco; lancia un appello pressante a tutte le parti e le incoraggia a regolare i loro contenziosi con mezzi pacifici …”, “decide, in virtù del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, che tutti gli Stati metteranno immediatamente in opera, al fine dell’istaurazione della pace e della sicurezza in Jugoslavia, un embargo generale su tutte le consegne di armi e di equipaggiamenti militari alla Jugoslavia, e questo fino a che il Consiglio non decida altrimenti”. Si confrontino i dispositivi di questa risoluzione con quelli delle precedenti risoluzioni su altre crisi internazionali, alcune delle quali abbiamo citato come modello della prassi ONU, e non potranno non essere colte alcune differenze fondamentali: di fronte a insorgenze anche armate contro uno Stato sovrano suo Membro, insorgenze con sbocchi secessionisti, il CdS – pur richiamandosi alla CSCE, organismo a sua volta vincolato dall’Atto finale di Helsinki al rispetto dell’integrità territoriale degli Stati ad esso aderenti 77 - non solo non citava assolutamente il principio dell’integrità territoriale di cui all’art. 2, non solo assumeva un atteggiamento di neutralità nel conflitto invitando “tutte le parti” alla cessazione degli scontri e al negoziato – dunque Stato e ribelli secessionisti venivano posti sullo stesso piano, in violazione dell’art.2 (in particolare paragrafi 4 e 7) della Carta – ma decideva inoltre un embargo verso la Jugoslavia, cioè lo Stato minacciato di secessione 78. Paradosso della situazione, il principio della integrità territoriale tornerà ad essere ricordato nelle successive risoluzioni del Consiglio sulla (ormai ex) Jugoslavia, ma invocato a difesa dei nuovi Stati creati col consenso di fatto delle Nazioni Unite (o meglio del Consiglio di Sicurezza), e sottoposti alle comprensibili reazioni delle comunità serbe locali (come in Croazia) o del governo centrale di Belgrado sconfitto. Una evidente “incoerenza” sul piano del diritto internazionale, coerente però col sempre più evidente disegno politico di disgregazione dello Stato jugoslavo perseguito dai nemici interni ed esterni di Belgrado. Comunque, la risoluzione rappresentava l’avvio di una deriva che sarebbe sfociata, dopo il devastante conflitto della Bosnia, prima nei Protocolli di Rambouillet, poi nel 77 Per il testo e un commento vedi: “Il diritto di autodecisione per la CSCE: integrità territoriale degli Stati, inviolabilità dei confini, mutabilità solo con mezzi pacifici”, in Quaderni Internazionali, n. 2-3. a cura di Claudio Moffa, Roma 1988: pp. 73 e segg. 78 Nel 1991 seguiranno altre due risoluzioni, sulla stessa direttrice di marcia di quella citata nel testo: la 721 del 27 novembre 1991 (approvata all’unanimità, e per la quale, par. 2, “una operazione di pace delle Nazioni Unite non può essere presa in considerazione senza la stretta osservanza da arte di tutti le parti dell’accordo siglato a Ginevra il 23 novembre 1991”), e la 724 del 15 dicembre successivo, che fra l’altro ribadisce lo stesso impedimento condizionato..

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capitolo tragico della conseguente guerra del 1999 – la prima guerra nel cuore dell’Europa dopo la fine del II conflitto mondiale – guerra rivolta alla balcanizzazione ulteriore della regione. Tutto questo era stato preparato nel corso degli anni Novanta dalla lunga serie di risoluzioni che avevano ormai vanificato ogni potere centrale, e ogni legittimazione e diritto di sovranità di Begrado sulle minoranze secessioniste. Ad esempio, nel 1992, così recitava la risoluzione 743 del 21 febbraio, dopo i vari consideranda: Il CdS, “ricordando che esso ha, in virtù della Carta delle Nazioni Unite, la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale; richiamando allo stesso modo i dispositivi dell’art. 25 e del Capitolo VIII della Carta” 79 … “decide di istituire, sotto la propria autorità, una forza di protezione delle Nazioni Unite conformemente al rapporto sopra citato e al piano di pace delle Nazioni Unite” … “decide … che l’embargo imposto al paragrafo 6 della risoluzione 713 del 1991 non si applichi alle armi e agli equipaggiamenti militari destinati all’uso esclusivo della Forza”, La risoluzione avallava nei fatti l’intrusione delle truppe dell’ONU nei conflitti dei Balcani non a sostegno del governo legittimo, ma al contrario – nei fatti, e al di là di alcune espressioni formalmente equidistanti – dei movimenti secessionisti. Esattamente un mese prima, il 21 gennaio 1992, l’ambasciatore USA in Jugoslavia Warren Zimmeman – ambasciatore già all’epoca delle indipendenze di Croazia e Slovenia - aveva dichiarato ufficialmente: “lavoriamo alla dissoluzione della Jugoslavia in stati indipendenti, in modo pacifico” 80.

* * * Concludiamo il discorso sin qui fatto. Non è difficile individuare lo scenario storico alle spalle del mutamento radicale della prassi ONU agli inizi degli anni Novanta: la fine del bipolarismo, e degli equilibri consolidatisi in quattro decenni circa di confronto Est-Ovest, quello stesso bipolarismo su cui, non paradossalmente ma comprensibilmente, la Jugoslavia terzaforzista aveva costruito le sue fortune di paese guida del blocco dei Non Allineati. Scomparsa l’URSS, la Jugoslavia autogestionaria e indipendente dai due blocchi, veniva nei fatti riassorbita, secondo modalità che è impossibile non riconoscere come subalterne - basti pensare all’estensione dell’area del marco a tutti i Balcani - nella nuova Europa allargata dopo l’abbattimento del Muro di Berlino, un Europa imperniata sulla politica di “attenzione” verso l’Est, verso i resti cioè dell’ormai inesistente blocco socialista. In questo contesto maturava la nuova “interpretazione”, in realtà distorsione vera e propria, del capitolo VII – quello stesso invocato come base giuridica del TPIR – sia per quel che riguardava l’art. 42 (Iraq: licenza di azione armata anche al di fuori del quadro ONU), sia per quel che riguardava le “parti” del conflitto (Ruanda: le parti diventano, nella 955/1994, i campi della guerra civile ruandese, e non come da lettera della Carta e prassi ONU consolidata, due o più Stati). 79 Art. 25. I Membri delle Nazioni Unite convengono di accettare e di eseguire le decisioni del Consiglio di Sicurezza in conformità alle disposizioni della presente Carta. Il Capitolo VIII è dedicato agli “Accordi regionali” 80

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CAPITOLO 3

IL GENOCIDIO: ORIGINI STORICHE, CODIFICAZIONE

E SVILUPPO NORMATIVO DI UN CONCETTO GIURIDICO STRUMENTO PRINCIPE PER L’EROSIONE

DEL “DOMINIO RISERVATO” DEGLI STATI Come abbiamo già accennato alla fine del Capitolo 1, la creazione del Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda, in quanto tribunale ad hoc per giudicare di una guerra civile intra-statuale, in quanto dunque rottura rispetto ai principi della Carta – in particolare per la violazione dell’art. 2 – se diventava possibile grazie ai mutamenti generali della prassi dell’ONU a loro volta prodotto dei rivolgimenti planetari causati dalla fine del bipolarismo (è quello che abbiamo succintamente considerato nel Capitolo 2) aveva bisogno, per diventare “necessario”, di una situazione di “eccezionalità” e “unicità” a sua volta effetto di un evento o di una serie di eventi scioccanti e “inauditi”. Questo evento-base della creazione del TPIR è stato il “genocidio” del 1994, o per meglio dire – secondo la formula mediatica ricorrente – il “genocidio dei Tutsi e degli Hutu moderati” ad opera degli “Hutu estremisti” già legati al regime di Habyarimana 81. Il “genocidio”, in sostanza, stava al Ruanda di Habyarimana come l’apartheid e il razzismo – due fenomeni in punto di diritto assolutamente inconciliabili con i principi della Carta delle Nazioni Unite, a cominciare dal Preambolo - erano stati al Sudafrica e alla Rodesia. Rispetto a questi due paesi, come si è visto, nel corso della sua pluridecennale attività l’ONU aveva derogato ai principi di non interferenza negli affari interni agli Stati e di rispetto della sovranità degli Stati, sostenendo al contrario i movimenti di liberazione all’opposizione come unici soggetti giuridici dotati di legittimità internazionale. Ora, con il Ruanda di Habyarimana, o meglio con i residui del suo regime dopo la conquista di Kigali da parte dei Tutsi “genocidiati” di Paul Kagame, e tuttavia vincitori, e dopo la fuga in massa dei resti dell’esercito nazionale hutu nei campi profughi dello Zaire, accadeva la stessa cosa: il TPIR, lo abbiamo visto con alcuni articoli del suo Statuto, si configurava fin dal suo atto costitutivo come uno strumento

81 Per una critica di questa formula-slogan che fa di tutti i Tutsi delle vittime innocenti degli Hutu, rimando alla bibliografia.

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dei vincitori Tutsi per penalizzare gli sconfitti Hutu 82, e chi, come Carla Del Ponte, avesse più tardi messo in discussione questa prassi evidentemente in conflitto con il principio di terzietà e indipendenza di quale che sia organo giudicante, avrebbe trovato una forte opposizione nel Tribunale stesso e nell’ONU 83. Per adesso comunque non entriamo nel merito dei fatti che hanno dato origine al “genocidio” del Ruanda, sia per quel che riguarda le responsabilità delle stragi del 1994, sia per quel che riguarda i ruoli effettivi dei due campi in lotta – “chi” fu vittima, “chi” carnefice: se è possibile ad esempio dividere i campi in modo netto, e considerare tutti i Tutsi, come da formula mediatica sopra ricordata, come “vittime”; o meglio nessun Tutsi, come “carnefice” – rimandando l’esame del problema ad un capitolo successivo. Qui interessa invece solo il profilo giuridico della questione, che affronteremo attraverso una analisi prima diacronica della nozione - il “genocidio” nella storia del diritto internazionale del Novecento – e poi semantico-concettuale dello Statuto del TPIR. 1. Le origini storiche del concetto giuridico di genocidio. Innanzitutto occorre considerare il contesto storico generale in cui maturano i “genocidi” del Novecento, e che avrebbe spinto la comunità internazionale (la Società delle Nazioni prima, le Nazioni Unite poi) a affrontare la questione. Da questo punto di vista, prima ancora della sua nozione giuridica, l’evento-genocidio è tipico prodotto del Novecento 84, secolo nel quale si realizzano e si sviluppano quattro suoi fattori storici originari:

1) la massificazione e accresciuta tecnologizzazione della guerra, che aumenta a dismisura il numero delle vittime civili di conflitti fino allora prevalentemente confinati dentro e fra gli apparati militari, e che produce peraltro quel fenomeno concentrazionario già evidente nei primi decenni del secolo (guerra anglo-boera 1899-1902; deportazione dei libici in Italia 1912-1915; “campi di raccolta” in

82 Vedi in particolare la ratione temporis, che non prende in considerazione il periodo precedente e e quello successivo al 1994, caratterizzato da stragi di hutu per le quali diversi autori hanno parlato di un “secondo genocidio”; ma anche la notifica obbligatoria a Kigali – di fatto il regime di Kagame – degli atti del Tribunale. 83 A seguito di tali dissensi, secondo quanto riferito dalla stampa dell’epoca, Carla Del Ponte, comunque già impegnata nel consimile (e per nulla differente dal punto di vista delle caratteristiche di fondo già individuabili nel TPI ruandese) Tribunale per la Jugoslavia, si dimise nel 2003. 84 Non è nell’economia di questo lavoro, affrontare il complesso tema del genocidio o dei genocidi del XX secolo: forniamo solo una parte della sterminata bibliografia, lasciando fra l’altro da parte le opere cosiddette “revisioniste” o “negazioniste”: Yves Ternon, Lo Stato Criminale, CDE, Milano 1997; G. Richard, L' histoire inhumaine, Armand Colin, Paris 1992; G. Moriani, Il secolo dell'odio, Marsilio, Venezia 1999; E. Staub, The roots of Evil, Cambridge, Cambridge University Press, 1989; R. Hilberg, La distruzione degli ebrei d'Europa, Einaudi, Torino 1995 (2 voll.); N. Finkelstein, l’Industria dell’Olocausto, Rizzoli, Milano 2002; L. Poliakov, Bréviaire de la haine, Calmann-Lévy, Paris 1951; H. Friedlander, Le origini del genocidio nazista, Editori Riuniti, Roma 1997, A. Grynberg, La Shoah, Découvertes-Gallimard, Paris 1995; D. J. Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler, CDE, Milano 1997; M. Heller- A. Nekrich, L'utopie au pouvoir. Histoire de l'URSS de 1917à nos jours, Calmann-Lévy, Paris 1982, A. J. Kaminski, I campi di concentramento dal 1896 ad oggi, Bollati Boringhieri, Torino 1997.

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Libia durante la guerra contro Omar al Muktar 85), e culminato nei lager della seconda guerra mondiale 86;

2) l’esacerbazione dei nazionalismi europei di derivazione ottocentesca, fino alla disastrosa conflagrazione di quelli che non a caso sono stati chiamati i due “conflitti mondiali” del ‘900, con le rispettive “appendici” dei massacri di Armeni del 1915, e (fra gli altri) di Ebrei nel 1942-44;

3) la sconfitta dell’Asse nel 1945, e la parallela e conseguente vittoria del blocco d’alleanza fra i paesi democratici occidentali e l’Unione sovietica;

4) la vittoria “trasversale”, dentro questa composita e non a caso poco durevole alleanza (guerra fredda), della vittima acclarata delle stragi naziste, il popolo ebreo, ormai sempre più organizzato nel suo peculiare “movimento di liberazione nazionale”, il sionismo. La nascita dello Stato d’Israele il 15 maggio 1948, resa possibile dallo sviluppo degli eventi successivi alla risoluzione 181 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (risoluzione approvata con 33 voti a favore, 13 contrari e 10 astenuti, il 29 novembre 1947) è solo il momento decisivo – il compimento dell’obbiettivo plurisecolare del cosiddetto “ritorno a Gerusalemme” diffuso in molta “diaspora” europea e mondiale - del mutamento degli equilibri internazionali a favore dell’antico popolo dei ghetti, ormai non più solo detentore e talvolta monopolizzatore della finanza e dei commerci transnazionali (Fernand Braudel, Werner Sombart 87), ma anche protetto da future persecuzioni grazie alla creazione di un proprio apparato statale: legislativo, giudiziario, economico-istituzionale (sistema bancario nazionale), militare.

2. “Genocidio”, un neologismo degli anni Quaranta: il lavoro di Raphael Lemkin. I primi due fattori sopra citati erano già operativi nei primi decenni del secolo, e in particolare all’epoca della prima guerra mondiale, primo momento di formazione di quella “questione tedesca” – la Germania come mito negativo già prima dell’avvento al potere di Hitler e dei crimini nazisti – che col Trattato di Versailles del 1922, avrebbe gettato le premesse per gli orrori della seconda guerra mondiale. In effetti già al termine della Grande Guerra si erano stigmatizzate le “offese supreme contro la moralità internazionale e l’autorità sacra dei Trattati” 88 compiute dalla sconfitta Germania di Gugliemo II.

85 Cfr. C. Moffa, Saggi di storia africana, Unicopli, Milano 1996, Introduzione e saggio “I deportati libici della guerra 1911-12”. 86 Non a caso il problema della punizione dei criminali di guerra si pone già nella guerra del 1915-18, sia con riferimento sia allo sconfitto Kaiser Gugliemo II, sia ai massacri degli Armeni. Vedi fra gli altri Giovanni Conso, Perché la Corte criminale internazionale è indispensabile, in sito web “il Diritto di tutti”. 87 Fernand Braudel, Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino, vol. 2, “Una civiltà contro tutte le altre: il destino degli Ebrei”, pp. 850 e segg.; Werner Sombart, Gli Ebrei e la vita economica, Edizioni di Ar, Padova 1980, 3 voll.. 88 Citato in Alessandra Palma, Il diritto internazionale penale e la giurisdizione internazionale, in Diritto&Diritti, sito web.

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Non risulta con certezza del resto che il termine “genocidio” sia stato coniato con riferimento alle stragi di Armeni da parte dei Turchi fra il 1915 e il 1918. Invece, è certo che questo termine – assente nei principali Dizionari e Enciclopedie pubblicati prima della seconda guerra mondiale 89 - abbia avuto un suo conio determinante e “ufficiale” nel 1943, ad opera del giurista americano di origine ebreo-polacca Raphael Lemkin’s (1900-1959), nella prefazione del suo libro, edito un anno dopo, sul Dominio dell’Asse nell’Europa occupata: leggi di occupazione – analisi del governo – proposte di risarcimento 90. In questo lavoro Lemkin usava la parola genocidio in modo ampio sia rispetto al suo significato etimologico e letterale sia per quel che riguardava il suo campo di applicazione. Per l’autore, “genocidio” era non solo lo sterminio di fatto delle minoranze non “ariane”, a cominciare dagli Ebrei, ma qualsiasi “coordinated plan of different actions” teso ad obbiettivi quali l’aumento del tasso di nascita della popolazione “ariana”, la distruzione fisica degli Slavi nel lungo periodo, la distruzione della “cultura, lingua, sentimenti nazionali, religione” delle minoranze. Quanto al campo di applicazione, esso riguardava appunto molta parte dell’Europa occupata dalle truppe naziste, e non solo i campi di concentramento che, più tardi, ne sarebbero diventati il luogo quasi esclusivo di espletazione. Il genocidio, argomentava Lemkin, era consustanziale alla ideologia nazista, peraltro perché antitetico alla dottrina Rousseau-Portalis sulle guerre come complesso di azioni ostili dirette non contro i sudditi e i popoli, ma contro i sovrani e i loro eserciti: “Germany could not accept the Rousseau-Portalis Doctrine: first, because Germany is waging a total war; and secondly, because, according to the doctrine of National Socialism, the nation, not the state, is the predominant factor” 91. C’è da chiedersi tuttavia se questo “rifiuto” non sia stato fatto proprio anche dagli Alleati – Dresda, Hiroshima – e non fosse frutto, più che, od oltre che, di una opzione ideologica “totalitaria”, del già richiamato sviluppo della tecnologia militare e bellica.

Fatta salva una più puntuale storia del termine – ivi compresa una analisi del linguaggio antropologico antecedente: non a caso lo stesso Lemkine spiega in nota che si sarebbe potuto sostituire al termine “genocidio” quello similare di “etnocidio” 92 – l’ elaborazione del giurista ebreo-polacco-americano, fondata anche sul modello dei massacri armeni della prima guerra mondiale, e inoltre, come si è visto, concettualmente articolata al suo interno, avrebbe avuto uno sbocco significativo e

89 Grande Dizionario Enciclopedico, UTET, Torino 1935; Enciclopedia illustrata, Sonzogno, Milano 1905, Milano; Dizionario Larousse, 1937: Enciclopedia Treccani, 1933; Enciclopedia Britannica 1937. 90 Raphael Lemkin's, Axis Rule in Occupied Europe: Laws of Occupation - Analysis of Government - Proposals for Redress, (Washington, D.C.: Carnegie Endowment for International Peace, 1944), il cui cap. IX si intitola appunto “Genocide”. La prefazione è datata 15 novembre 1943. 91 Prefazione. 92 Prefazione. E’ da notare che a partire dagli inizi del Novecento – e tralasciando gli studi ottocenteschi di Morgan e Engels – una pluralità di etnologi e sociologi (F. Oppenheimer, R. Lowie, R. Linton) aveva focalizzato la propria attenzione sulla origine delle guerre, e su quella degli “Stati”, con teorizzazioni che riferite all’universo “tribale”, e centrate sulle conflittualità internetiche, finivano per lasciare trasparire gli “etnocidi” come caratteristica “diffusa” delle società “primitive” (cfr. C. Moffa, L’Africa alla periferia della Storia, Guida, Napoli 1993; e C. Moffa, “Conflittualità interetnica e origini dello Stato in Africa”, in AA.VV, L’etnia fra invenzione’ e realtà, Harmattan, Torino 1999).

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importante in due documenti di diritto internazionale elaborati dalle neonate Nazioni Unite dopo la II guerra mondiale, documenti nei quali appunto il crimine di “genocidio” sarebbe stato assunto come delitto perseguibile a livello internazionale: la risoluzione 96 del 1946, e la Convenzione per la prevenzione del genocidio dell’11 dicembre 1948. Non ci sembra di esagerare: il contributo di Lemkin al processo di codificazione del genocidio come crimine internazionale lo si trova agli atti del dibattito delle Nazioni Unite per l’approvazione dell Convenzione del 1948: “M. Abdoh (Iran) … fait ensuite l’éloge d professeur Lemkin, de l’Université Yale, qui a enrichi la science juridique en faisant reconnaître le génocide comme un crime contre le droit des gens et en éveillant la conscience de l’humanité à la nécessité de combattre ce fléau mondial ». 93

* * * Ma è opportuno tener presente, a questo punto, che tale esito non risulta essere stato immediato e scontato: traspare piuttosto una sorta di forte impegno diplomatico che parte peraltro da una concezione estesa del “genocidio” – coinvolgente tutto il campo alleato, e non solo gli Ebrei - cosicché il termine potesse essere fatto proprio da tutte le potenze vincitrici, e così da ottenere comunque l’iscrizione di questo capitolo di reato fra i crimini internazionali del nuovo diritto postbellico. La non linearità del processo la si deduce da larga parte della documentazione del periodo, in particolare delle Nazioni Unite. Ad esempio, nella Carta di San Francisco il termine “genocidio” è assente, e negli stessi Atti di Norimberga, è vero che si legge a un certo punto: “Migliaia di Ebrei furono gassati ogni settimana per mezzo di gas-wagons rottisi per il superuso. Quando i Tedeschi si ritirarono di fronte all’Armata Sovietica, essi sterminarono gli Ebrei piuttosto che permettere che venissero liberati. Molti campi di concentramento e ghetti furono allestiti, nei quali gli Ebrei vennero incarcerati e torturati, ridotti alla fame, soggetti ad atrocità senza pietà, e infine sterminati”. Circa 70.000 Ebrei sono stati sterminati in Jugoslavia” 94. Ma, nonostante il riferimento ai gas-wagon, anche in questo caso non risulta mai comparire – a fronte degli orrori e dei crimini appena citati - il termine “totalizzante” di genocidio. I termini genocidio ed ebrei non compaiono neppure nei resoconti di molte sedute della neonata Assemblea generale delle Nazioni Unite, fra il 1945 e il 1946, probabile indicazione che questo dramma era percepito come interno alla più generale tragedia della guerra 95; così come mancano nella breve risoluzione 95, che dopo aver “riconosciuto” gli obblighi ex art. 13 della Carta di San Francisco – Statuto delle 93 ONU, 178° Seduta Plenaria, 9 dicembre 1948, in United Natioins, Séances plénières de l’Assemblée générale, 1948, p. 825. 94 International Military Tribunal - Nuremberg, Trial of the Major War Criminals, Nuremberg 1947, p. 67. 95 Non abbiamo fatto un lavoro di ricerca completo. I testi consultati sono quelli relativi alla Prima Assemblea generale del 10-12 gennaio 1946, alla ventiduesima Seduta plenaria del 2 febbraio 1946, e alla trentacinquesima seduta del 4 ottobre 1946, dove appunto manca ogni riferimento ai termini di cui al testo.

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Nazioni Unite del 26 giugno 1945 (in vigore il 24 ottobre successivo) a proposito dell’incoraggiamento dello “sviluppo progressivo del diritto internazionale e la sua codificazione” (comma 1 a); e dopo aver “preso atto” dell’Accordo di Londra dell’8 agosto 1945 per l’istituzione del Tribunale di Norimberga 96, e dello Statuto della Corte militare di Tokyo contro i crimini di guerra in Estremo Oriente, “confermava” i principi del Tribunale di Norimberga e “invitava” la “Commissione incaricata della codificazione del diritto internazionale, creata dalla risoluzione dell’Assemblea generale in data 11 dicembre 1946, a considerare come una questione di importanza capitale i progetti tesi a formulare, nel quadro della codificazione generale dei crimini compiuti contro la pace e la sicurezza dell’umanità e nel quadro di un Codice di Diritto criminale internazionale, i principi riconosciuti nello Statuto della Corte di Norimberga”. E’ questo il punto di svolta che introduce – lungo la strada della perorata codificazione dei crimini di guerra – la decisiva risoluzione 96, il primo dei due documenti delle Nazioni Unite che menzionano esplicitamente il termine “genocidio”, e che ne offre una definizione giuridica articolata. 3. La risoluzione 96/1947 dell’Assemblea generale: “estensione” ai conflitti politici e “unicità” del genocidio. In effetti, la risoluzione 96 dell’Assemblea generale dell’ONU dell'11 dicembre 1946 97, elabora fin da subito una nozione articolata di questo crimine, base di partenza di tutte le successive elaborazioni e codificazioni. Ma, a ulteriore conferma della non linearità del processo, e dell’esistenza di un iter che procede per aggiustamenti di tiro progressivi, con l’occhio all’iscrizione di questo capitolo di reato – comunque - nel nuovo diritto internazionale postbellico, la definizione della 96/1946 risulta essere in qualche modo ambivalente. Infatti, da una parte, all’inizio, essa definisce “genocidio” “il rifiuto del diritto all’esistenza a gruppi umani interi, così come l’omicidio è il rifiuto del diritto all’esistenza a un individuo”, con una locuzione che già di per se sposta il significato del termine dal livello fattuale oggettivo (il genocidio come effettiva distruzione di “interi” “gruppi umani”) a quello volontaristico-intenzionale soggettivo, proprio perché esso genocidio è “il rifiuto del diritto (cioè appunto un atteggiamento e volontà soggettivi) all’esistenza …” ; dall’altra, al capoverso successivo essa perfeziona in modo esplicito quanto già implicitamente affermato nel passo

96 London Agreement of 8 august 1945, in International Military Tribunal - Nuremberg, Trial of the major war criminals, Nuremberg 1947, pp. 8-9. All’accordo – sottoscritto originariamente da USA, Francia (governo provvisorio), Gran Bretagna, URSS, nelle persone di Robert H Jackson, Robert Falco, Jowitt, I. Nikitchenko e A. Trainin - aderirono successivamente Grecia, Danimarca, Jugoslavia, Olanda, Cecoslovacchia, Polonia, Belgio, Etiopia, Australia, Honduras, Norvegia, Panama, Luxemburg, Haiti, Nuova Zelanda, India, Venezuela, Uruguay e Paraguay. L’Accordo introduceva la Carta del Tribunale – “parte integrale” dell’Accordo stesso - incaricato di giudicare e punire le “atrocità e crimini” degli “ufficiali nazisti e degli uomini e membri del Partito nazista” in quanto “criminali di guerra”. 97 In quello stesso giorno vennero votate molte risoluzioni, alcune delle quali relative al finanziamento delle Nazioni Unite e al contratto fra l’ONU e la Fondazione Canergie per l’uso del Palazzo della Pace de L’Aja.

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precedente, recitando: “si sono visti perpetrare dei crimini di genocidio che hanno interamente o parzialmente distrutto dei gruppi razziali, religiosi, politici o altro”. Due le provvisorie conclusioni sulla 96/1946: in primo luogo, perché si consumi il reato di genocidio non è necessaria la distruzione di “interi” gruppi umani, ma è sufficiente quella di loro “parti”: e si badi, questo cambiamento da “interi” a “parziali” non rappresenta una contraddizione, ma solo un perfezionamento di quanto già detto all’inizio del testo, e questo proprio perché la definizione di “genocidio” in quanto “rifiuto del diritto a…”, cioè in chiave volontaristico-intenzionale, rende indifferente dal punto di vista della attuazione del crimine, la sua effettiva, pratica estensione alla totalità del gruppo umano che si vuole distruggere. Seconda provvisoria conclusione: la dilatazione della nozione di genocidio riguarda anche i gruppi umani vittime dell’azione criminale: i quali non sono solo razziali o religiosi, ma anche “politici” o “altro”. Una guerra civile – cioè un conflitto generalizzato a sfondo politico-sociale, dentro una stessa comunità etnica o nazionale – diventa anch’essa, in base alla risoluzione 96 del 1946, una guerra “genocidiaria”. Ma c’è di più: infatti la nozione di genocidio si allarga ulteriormente nella parte dispositiva della Risoluzione, lì dove al primo paragrafo, essa recita: “Di conseguenza L’Assemblea Generale afferma che il genocidio è un crimine di diritto internazionale, e per il quale gli autori principali e i loro complici – che siano privati, funzionari o uomini di Stato - devono essere puniti, che agiscano per motivi razziali, religiosi, politici od altro”.

Ecco dunque che la nozione di reato di genocidio diventa molto ampia, estesa sia per quel che riguarda il comportamento dei soggetti imputabili del crimine, sia per quel che riguarda la gamma dei “gruppi umani” oggetto e vittime del genocidio stesso. Con quali conseguenze? E perché? Cominciamo dal primo aspetto del problema, e con un esempio: il Codice penale italiano, nel trattare il reato di omicidio – crimine a cui la stessa risoluzione 96, come si è visto, paragona il genocidio (la differenza consistendo nelle due figure-vittime del reato, nel primo caso l’individuo, nel secondo i “gruppi umani”) – non si dilunga nella definizione di tale nozione nel senso indicato dalla Risoluzione dell’ONU, ma semplicemente fissa una norma secondo la quale (art. 575) “chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno”. L’omicidio insomma è “solo” e semplicemente l’uccisione di una persona. E’ vero che il Codice penale italiano prende in esame, nel libro sui Reati in generale, anche il “delitto tentato” ex art. 56, ma questo articolo dispone delle pene ridotte proporzionalmente rispetto al delitto effettivamente consumato: è dunque ancorato, come tutto il diritto penale, alla individuazione di un “fatto” effettivamente e provatamente compiuto, e previsto dalla legge in modo tassativo. Nel caso invece del crimine di genocidio di cui alla risoluzione 96 delle Nazioni Unite, tale distinzione non esiste, e neppure esiste – questo è il punto, come nota ad esempio

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M.Cherif Bassiouni 98 – una precisazione in senso quantitativo di cosa si debba intendere per distruzione “parziale” di un determinato gruppo umano. Il massacro di alcune migliaia di persone – forse, per eccesso 30-50mila – su una popolazione complessiva del Darfur di 6.000.000 di abitanti, rende “imputabili” di genocidio gli autori delle pur esecrande e sanzionande stragi? E dunque, la cosiddetta “comunità internazionale” – termine ambiguo per indicare di nuovo, come da espilicite minacce nel corso del 2004, di Stati Uniti e Gran Bretagna - è obbligata ad intervenire ex Convenzione del 1948 e suoi sviluppi più recenti, per por fine ai massacri? Sì, dal punto di vista della lettera della risoluzione 96/1946. Quanto al secondo corno della dilatazione del concetto di genocidio nella Risoluzione 96/1946, è anch’esso molto importante. Innanzitutto è da chiedersi perché l’inclusione di gruppi anche “politici” “o altro”, per una nozione, quella di “genocidio”, etimologicamente ancorata a un significato più propriamente etnico. La risposta più probabile è questa, sulla falsariga di quanto già detto a proposito della concezione estesa di “genocidio” già rilevata in Lemkin: la necessità cioè di costruire, attraverso elastiche “concessioni” sul significato da attribuire alla parola, un fronte politico-diplomatico ampio perché l’obbiettivo principale del momento – appunto l’inserimento del reato di genocidio nel diritto internazionale – venisse conseguito dentro il composito fronte degli Alleati. In altri termini, bisognava convincere le quattro potenze principali del Consiglio di Sicurezza – USA, Gran Bretagna, Francia, URSS – a sposare una causa dai cui benefici sarebbero rimaste “escluse” nel caso di una interpretazione ortodossa e corretta (etnica, cioè) del termine genocidio, e questo in una fase storica ben diversa da quella attuale, nella quale – per la miseria infinita di certa retorica novecentista – tutti gli orrori della II guerra mondiale, addirittura ormai tutto il secolo trascorso, si ridurrebbero all’onnipresente e in ogni dove ripetuto “genocidio degli Ebrei”. Per avere invece un’idea del peso del “genocidio degli Ebrei” nell’immane tragedia del II conflitto mondiale, nella percezione dell’epoca - cioè negli anni 1945 1946 – si possono leggere alcune cifre prese proprio dagli Atti di Norimberga: “Deportazione a fini di lavoro schiavistico o per altri scopi della popolazione civile e nei territori occupati”. “Durante l’intero periodo dell’occupazione da parte della Germania dei paesi occidentali e orientali, la politica della Germania … consistette nel deportare da questi paesi occupati in Germania e in altri paesi occupati, cittadini abili a fini di lavoro schiavistico per lavori di difesa, in fabbriche e in altri compiti connessi con lo sforzo bellico tedesco … Queste deportazioni erano contrarie alle convenzioni internazionali, in articolare all’art. 46 dei Regolamenti dell’Aja del 1907 99, alle leggi e

98 M. Cherifi Bassiouni, Le fonti ed il contenuto del Diritto Penale Internazionale. Un quadro teorico, Giuffré, Milano 1996, p. 47 e segg 99 Quella del 1907, è stata la seconda Conferenza dell'Aia per la pace, dopo quella del 1899 (18 maggio-29 luglio) a cui, sotto la presidenza del barone russo de Staal, parteciparono 26 Stati. Nel 1907 il numero degli Stati aumentò fino 44 (erano presenti anche tutti i paesi dell'America Latina), ma egualmente fallì il tentativo di limitazione degli armamenti, mentre vennero firmate 11 convenzioni, fra qui quella sulla disciplina della guerra, e un’altra sull’istituzione di una Corte di giustizia arbitrale (diversa dalla Corte Permanente di Arbitrato istituita nel 1899): quest’ultimo progetto sarebbe stato

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agli usi di guerra, ai principi generali delle leggi criminali (“criminal”) quali derivate dalle leggi criminali di tutte el nazioni civili, alle leggi penali (“penal”) dei paesi in cui tali crimini erano stati commessi, e all’art. 6 b della Carta. Particolari delle deportazioni, a titolo di esempio e senza pregiudizio per la produzione di prove di altri casi, sono:

1) Dai paesi occidentali: Dalla Francia si verificarono le seguenti deportazioni di persone per motivi politici e razziali,

ognuna delle quali consisteva di un numero di deportati fra i 1500 e i 2500: 1940, 3 trasporti; 1941, 14 trasporti; 1942, 104v trasporti; 1943, 257 trasporti; 1944, 326 trasporti …

Nell’aprile 1945, dei 12.000 internati evacuati da Buchenwald, solo 4000 erano ancora vivi al momento dell’arrivo della colonna in marcia nei perssi di Regensburg.

Durante l’occupazione tedesca della Danimarca, 5200 soggetti vennero deportati in Germania e furono imprigionati in campin di concentramento e in altri posti.

Nel 1942 e successivamente 6000 cittadini del Lussemburgo furono deportati dal loro paese in condizioni talmente deplorevoli che molti di essi perirono.

Dal Belgio, furono deportati in Germania e in altri paesi occupati circa mezzo milione di civili fra il 1940 e il 1944.

2) Dai paesi orientali: Gli occupanti tedeschi deportarono dall’Unione sovietica, a fini schiavistici, circa 4.978.000 cittadini sovietici. 750.000 cittadini cecoslovacchi furono deportati dalla Cecoslovacchia in Germania, per lavori forzati al servizio della macchina da guerra tedesca. …. Decine di migliaia di persone furono deportate (dalla Slovenia)” 100 Ce n’è abbastanza per capire come stavano le cose, e quanto pesava la “questione ebraica” nella tragedia complessiva della II guerra mondiale all’indomani della fine del conflitto. Molto meno che oggi. E’ vero, dentro i quasi 5 milioni di cittadini sovietici, molti avrebbero potuto essere ebrei: ma anche se così fosse stato, il semplice fatto che essi venivano computati non come ebrei, ma come sovietici, era emblematico della percezione-inclusione – allora, diversamente che oggi – del dramma ebraico nel più generale dramma della II guerra mondiale. Ecco dunque l’inserimento dell’attributo “politico” e addittura “altro”. In tal modo, l’URSS (o la Francia: vedi i già sottolineati “motivi politici” della deportazione di migliaia di suoi cittadini) poteva a sua volta usare il concetto “scioccante” – o comunque “forte” - di genocidio, per capitalizzarlo in termini di risarcimento rispetto alla Germania sconfitta. Col tempo poi, il tiro si sarebbe aggiustato, e il genocidio sarebbe diventato – sia giuridicamente, sia mediaticamente e storiograficamente – come una sorta di “monopolio” pressoché esclusivo degli Ebrei, che sia vera o no la tesi di un suo uso politico in difesa dello Stato di Israele e della sua politica verso gli autoctoni Arabi 101.

completatonel 1920 con la nascita della Corte Permanente di Giustizia Internazionale, a sua volta premessa della Corte Internazionale di Giustizia dell’ONU del 1945. 100 International Military Tribunal - Nuremberg, Trial of the major war criminals, Nuremberg 1947, pp. 51-52. 101 Cfr. fra gli altri, Norman Finkelstein, L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, Rizzoli, Milano 2002 (pur incentrato essenzialmente sui “profitti” economici e non politici dell’ “industria”); e Sergio Romano, Lettera a un amico ebreo, Longanesi, Milano 1997.

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In sostanza emergeva un processo di codificazione che da una parte aveva alle spalle la tragedia ebraica, e dall’altra però – come sviluppo dell’ “invenzione” di Lemkin – era tatticamente pensato sia alla luce degli interessi “nazionali” e “statali” del blocco vincitore fondatore delle Nazioni Unite, che non potevano essere elusi ed anzi dovevano essere coinvolti nell’elaborazione dottrinaria (ecco dunque l’attributo “politico” di cui sopra); sia con l’obbiettivo di fare del genocidio, dentro una più ampia rosa di reati, il più grave di tutti dei crimini di guerra e contro l’umanità. L’esistenza di un dibattito, e di un lavorìo diplomatico, è del resto sufficientemente dimostrato dall’iter che condusse l’Assemblea dell’ONU ad approvare la risoluzione 96. In breve, una sottocommissione diretta dal cileno M. Gajardo, su delega della VI Commissione diretta dall’australiano MHK Bailey a sua volta incaricata dall’Assemblea il 9 novembre 1946, aveva relazionato tramite l’ebreo americano Charles Fahy che “è inutile comparare il genocidio a altri crimini come la pirateria o la tratta di donne come avevano proposto alcuni dei progetti deposti davanti alla Sottocommissione” 102 Dal che sembra lecito potersi dedurre che durante la discussione si erano manifestate delle resistenze, e una diversità di opinioni effetto probabile – come nel caso degli Atti di Norimberga appena citati – di una percezione diversa della tragedia ebraica e del fenomeno “genocidiario” dentro il più generale dramma della II guerra mondiale 103. Ecco dunque il “compromesso” finale: da una parte il “genocidio” come sterminio di un gruppo anche “politico, o altro”, così da guadagnare il consenso delle grandi potenze vincitrici; e dall’altra, l’innalzamernto – del resto oggettivamente lecito – di tale delitto, a crimine “unico” rispetto ad altri odiosi crimini contro l’umanità e gruppi umani , come sancito da Albert Fahy. Dopo questa prima conquista, il processo di codificazione della questione sarebbe andato avanti con la Convenzione sul genocidio reclamata dalla stessa 96/1946 all’ultimo paragrafo, approvata dall’Assemblea generale il 9 dicembre 1948, e entrata in vigore più di due anni dopo il 12 gennaio 1951. Ritardi dovuti alla problematicità del testo approvato? 4. La Convenzione sul genocidio del 9 dicembre 1948: un reato solo “etnico-religioso”, pietra miliare del diritto internazionale oltre la guerra fredda.

102 Annesso 63 della 47 ° seduta plenaria del 9 novembre 1946 circa un progetto di risoluzione presentato dalle delegazioni di Cuba, India e Panama, per attirare l’attenzione del Consiglio economico e sociale al crimine di genocidio (documento A/BUR/50). La sottocommissione invece comprendeva rappresentanti dell’Arabia saudita, del Cile, di Cuba, USA, Francia, India, Panama, Polonia, Regno Unito e URSS. 103 E in effetti così risulta dalla lettura del verbale della 178° Sessione Plenaria delle Nazioni Unite: “Progetto di Convenzione sul genocidio: rapporti del Consiglio economico e sociale della Sesta Commissione”, in ONU, Séances plénières de l’Assemblée générale, 1948, pp. 811-831. Rinviamo all’appendice per il testo completo. Qui notiamo solo che, di nuovo, nessuno degli intervenuti cita gli ebrei come popolo genocidiato (il che ovviamente non vuol dire, come sostengono i negazionisti, che non ci sia stato lo sterminio nazista, ma solo che la percezione dellepoca era di un crimine che aveva riguardato non solo gli ebrei) tranne il sovietico Morozov, ma nel seguente modo: “Le vittime di questo crimine abominevole sono più di 12 milioni … lo sterminio di massa delle popolazioni slave e ebrei, faceva parte di un piano la cui messa in opera era stata possibile grazie a una precedente propaganda intensa …” (pp. 811-812).

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La codificazione produce solo in parte una migliore e più circoscritta normativa. Dopo aver richiamato la 96 del 1946, e dopo aver esplicitato la volontà delle parti contraenti di punire il genocidio 104, la risoluzione 260/1948 dell’Assemblea generale dell’ONU che dà vita alla Convenzione sul genocidio, così definisce infatti questo reato: Art. II.: Nella presente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: uccisione di membri del gruppo; lesioni gravi all'integrità fisica o mentale di membri del gruppo; il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; misure miranti a impedire nascite all'interno del gruppo; trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro. Art. III: Saranno puniti i seguenti atti: il genocidio; l'intesa mirante a commettere genocidio; l'incitamento diretto e pubblico a commettere genocidio; il tentativo di genocidio; la complicità nel genocidio. Abbiamo noi sottolineato in corsivo le parti significative che andiamo fra poco a prendere in esame. Per adesso – notata fin d’ora l’eliminazione dell’attributo “politico” di cui alla risoluzione 96/1946 - proseguiamo la lettura sottolineando altri passi importanti: Art. IV: Le persone che commettono il genocidio o uno degli atti elencati nell'articolo III saranno punite, sia che rivestano la qualità di governanti costituzionalmente responsabili o che siano funzionari pubblici o individui privati. Art. V: Le Parti contraenti si impegnano ad emanare, in conformità alle loro rispettive Costituzioni, le leggi necessarie per dare attuazione alle disposizioni della presente Convenzione, e in particolare a prevedere sanzioni penali efficaci per le persone colpevoli di genocidio o di uno degli altri atti elencati nell'articolo III. Art. VI: Le persone accusate di genocidio o di uno degli altri atti elencati nell'articolo III saranno processate dai tribunali competenti dello Stato nel cui territorio l'atto sia stato commesso, o dal Tribunale penale internazionale competente rispetto a quelle Parti contraenti che ne abbiano riconosciuto la giurisdizione. Art. VII: Il genocidio e gli altri atti elencati nell'articolo III non saranno considerati come reati politici ai fini dell'estradizione. Le Parti contraenti si impegnano in tali casi ad accordare 1'estradizione in conformità alle loro leggi ed ai trattati in vigore.

104 “Le Alte Parti Contraenti, considerando che l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nella Risoluzione 96 (1) dell'11 dicembre 1946 ha dichiarato che il genocidio è un crimine di diritto internazionale, contrario allo spirito e ai fini delle Nazioni Unite e condannato dal mondo civile; riconoscendo che il genocidio in tutte le epoche storiche ha inflitto gravi perdite all'umanità; convinte che la cooperazione internazionale è necessaria per liberare l'umanità da un flagello così odioso, convengono quanto segue: Art. I: Le Parti contraenti confermano che il genocidio, sia che venga commesso in tempo di pace sia che venga commesso in tempo di guerra, è un crimine di diritto internazionale che esse si irnpegnano a prevenire ed a punire”.

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Art. VIII: Ogni Parte contraente può invitare gli organi competenti delle Nazioni Unite a prendere, ai sensi della Carta delle Nazioni Unite ogni misura che essi giudichino appropriata ai fini della prevenzione e della repressione degli atti di genocidio o di uno qualsiasi degli altri atti elencati all'articolo III. Art. IX: Le controversie tra le Parti contraenti, relative all'interpretazione, all'applicazione o all'esecuzione della presente Convenzione, comprese quelle relative alla responsabilità di uno Stato per atti di genocidio o per uno degli altri atti elencati nell'articolo III, saranno sottoposte alla Corte internazionale di Giustizia, su richiesta di una delle parti alla controversia. Art. X: La presente Convenzione, di cui i testi cinese, inglese, francese, russo e spagnolo fanno ugualmente fede, porterà la data del 9 dicembre 1948. Art. XI: La presente Convenzione sarà aperta fino al 31 dicembre 1949 alla firma da parte di ogni Membro delle Nazioni Unite e di ogni Stato non membro al quale l'Assemblea generale abbia rivolto un invito a tal fine. La presente Convenzione sarà ratificata e gli strumenti di ratifica saranno depositati presso il Segretario generale delle Nazioni Unite. Dal l° gennaio 1950, alla presente Convenzione potrà aderire qualsiasi Membro delle Nazioni Unite e qualsiasi Stato non membro che abbia ricevuto l'invito sopra menzionato. Gli strumenti di adesione saranno depositati presso il Segretario generale delle Nazioni Unite. Art. XII: Ogni Parte contraente potrà, in qualsiasi momento, mediante notificazione indirizzata al Segretario generale delle Nazioni Unite, estendere l'applicazione della presente Convenzione a tutti i territori o ad uno qualsiasi dei territori dei quali diriga i rapporti con l'estero. Art. XIII: Nel giorno in cui i primi venti strumenti di ratifica o di adesione saranno stati depositati, il Segretario generale ne redigerà un processo verbale e trasmetterà una copia di esso a ciascun Membro delle Nazioni Unite ed a ciascuno degli Stati non membri previsti nell'articolo XI. La presente Convenzione entrerà in vigore il novantesimo giorno successivo alla data del deposito del ventesimo strumento di ratifica o di adesione. Qualsiasi ratifica o adesione effettuata posteriormente a quest'ultima data avrà effetto il novantesimo giorno successivo al deposito dello strumento di ratifica o di adesione. Art. XIV: La presente Convenzione avrà una durata di dieci anni a partire dalla sua entrata in vigore. In seguito essa rimarrà in vigore per successivi periodi di cinque anni fra quelle Parti contraenti che non l'avranno denunciata almeno sei mesi prima della scadenza del termine. La denuncia sarà effettuata mediante notificazione scritta indirizzata al Segretario generale delle Nazioni Unite. Art. XV: Se, in conseguenza di denunce, il numero delle Parti alla presente Convenzione diverrà inferiore a sedici, la Convenzione cesserà di essere in vigore dalla data in cui l'ultima di tali denunce avrà efficacia. Art. XVI: Una domanda di revisione della presente Convenzione potrà essere formulata in qualsiasi rnomento da qualsiasi Parte contraente, mediante notificazione scritta indirizzata al Segretario generale. L'Assemblea generale deciderà le misure da adottare, se del caso, in ordine a tale domanda. Art. XVII: Il Segretario generale delle Nazioni Unite notificherà a tutti i Membri delle Nazioni Unite ed agli Stati non membri previsti nell'articolo XI: le firme, ratifiche ed adesioni ricevute in applicazione dell'articolo XI; le notificazioni ricevute in applicazione dell'articolo XII; la data in cui la presente Convenzione entrerà in vigore, in applicazione dell'articolo XIII; le denunce ricevute in applicazione dell'articolo XIV; l'abrogazione della Convenzione, in applicazione dell'articolo XV; le notificazioni ricevute in applicazione dell'articolo XVI. Art. XVIII: L'originale della presente Convenzione sarà depositato negli archivi delle Nazioni Unite.

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Una copia certificata conforme sarà inviata a tutti i Membri delle Nazioni Unite ed a tutti gli Stati non membri previsti nell'articolo XI. Art. XIX: La presente Convenzione sarà registrata dal Segretario generale delle Nazioni Unite alla data della sua entrata in vigore. Sottolineati i passi salienti, cominciamo col notare che l’espressione “costituzionalmente responsabili” di cui all’art. IV , presente nel testo inglese, non è contenuta nei testi francese e spagnolo, i quali però, ai sensi del successivo art. X della Convenzione, fanno egualmente fede insieme con il testo cinese, inglese e russo. Questa contraddizione e imprecisione della Convenzione è da ricollegarsi probabilmente alle perplessità di una parte almeno della comunità internazionale di fronte al testo, del resto intuibili anche dall’iter procedurale stabilito per la sua effettiva entrata in vigore (artt. XI e segg.). Inoltre – altro interrogativo - la retroattività della Convenzione al 9 dicembre 1948, rispetto alla sua entrata in vigore il 12 gennaio 1951 va posta in relazione ad eventi particolari dell’epoca, ad esempio le difficoltà di Israele, circondato dal “rifiuto arabo” (Maxime Rodinson) a pochi mesi dalla proclamazione unilaterale dello Stato ebraico del 15 maggio 1948? E ancora: l’estensibilità della Convenzione “a tutti i territori o ad uno qualsiasi dei territori dei quali diriga i rapporti con l'estero” è da mettere in relazione con lo stato di insorgenza del mondo coloniale 105, magari per convincere le dubbiose potenze coloniali europee a sottoscrivere un testo come si è già accennato problematico? Le questioni principali sono però due, probabilmente collegate o collegabili fra loro: la prima riguarda la definizione del crimine di genocidio (artt. II e III), la seconda il rinvio di “controversie … relative all’interpretazione, all’applicazione e all’esecuzione della presente Convenzione … alla Corte Internazionale di Giustizia”, e “su richiesta di una delle parti alla controversia” (art. IX) La definizione del crimine di genocidio. Nel testo della Convenzione, è scomparso – come si può vedere - l’incongruente attributo “politico, o altro” annesso al “gruppo umano” genocidiato, di cui alla risoluzione 96/1946. Ma se alcune maglie si diradano, altre si stringono, e complessivamente la rete – ormai legittimana a pescare solo fra le politiche di annientamento a sfondo etnico-nazionale-religioso: una selezione che avvantaggia la logica del risarcimento e della prevenzione di altre possibili tragedie ebraiche, rispetto alle tragedie “globali” delle guerre interstatuali e civili - si allarga. Infatti, a differenza della Risoluzione 96/1946, nel testo della Convenzione è genocidio non solo la distruzione o il tentativo di distruzione di un intero gruppo umano (da cui la possibilità di una distruzione di fatto di una sola “parte” del gruppo umano, ascrivibile a reato di genocidio, come da paragrafo 2 della stessa risoluzione) ma anche l’“intenzione” di distruggere anche una sola “parte” del gruppo.

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La distinzione non è a nostro avviso indifferente: in una guerra interetnica, o interreligiosa, una parte può volontariamente compiere stragi di massa – come avviene in ogni guerra dell’epoca contemporanea – senza per questo avere intenzione di annientare “tutto” il “gruppo umano” avversario. “C’est la guerre”, recita un banale ma non per questo insignificante detto. Ma questo ovvio principio-constatazione, qui diventa il tramite diretto per il reato non di “crimine di guerra” ma di quello ancora più grave e sacrale di “genocidio”, cioè di una guerra di annientamento totale, o anche solo di una volontà di annientamento totale. Sarebbe ingenuo pensare che le stragi di massa che hanno costellato tutte le guerre successive al II conflitto mondiale, dalla Corea, alle guerre africane, all’Iraq odierno, non siano state almeno talvolta, se non spesso, volontarie-intenzionali; sarebbe esagerato d’altro canto, in punto di diritto (altra cosa è la sfera propagandistica mediatica) attribuire a tali stragi di massa il carattere di “genocidio” o di volontà genocidiaria. E’ quello che però fa nei fatti la Convenzione del 1948, per la quale, ancora di più, “tutto” – ogni azione bellica, indipendentemente dai suoi effetti quantitativi – diventa genocidio: l “uccisione di membri del gruppo”; le “lesioni gravi all'integrità fisica o mentale di membri del gruppo” (qualsiasi bombardamento ha questi effetti); “il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale” (un assedio può essere interpretato in tal senso); “misure miranti a impedire nascite all'interno del gruppo” (che dire delle campagne per la contraccezione, su cui è polemica anche ideologica negli ultimi decenni?); il “trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro” (??). L’articolo III specifica inoltre gli atti che prefigurano un reato di complicità col genocidio, peraltro ribadendo inutilmente concetti già espressi nel paragrafo precedente. Infatti saranno puniti, in base a tale articolo, non solo “il genocidio” (che come abbiamo visto, in base all’art II, è già definito l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso 106) ma anche “il tentativo di genocidio”, ripetizione appunto di quanto già prescritto nell’articolo precedente . E allarga la casistica con l'intesa mirante a commettere genocidio; l'incitamento diretto e pubblico a commettere genocidio; il già citato tentativo di genocidio; la complicità nel genocidio. E’ evidente a questo punto la debolezza giuridica ed anche pericolosità, dal punto di vista del principio di tassatività del fatto penale, della Convenzione dell’11 dicembre 1948, che assieme alla risoluzione 96/1946, si caratterizza in modo per così dire originale e “specialistico” – nonostante i richiami universalistici della normazione sul crimine di genocidio - rispetto ad altre, assolutamente fondamentali, Carte e Dichiarazioni ONU della stessa epoca: è da notare al proposito che oltre alla già

106 Da notare l’assenza del termine “politico” presente nella Risoluzione 96/1946.

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considerata Carta di San Francisco, anche la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 10 dicembre 1948, pur trattando fra le altre cose dei crimini di guerra e del flagello della guerra, non contiene il termine di genocidio. Da questo punto di vista la Convenzione dell’11 dicembre appare come il frutto di una normazione “di emergenza”, un testo d’eccezione nella codificazione del diritto internazionale di quegli anni, ruotante sulla nozione di un reato - il genocidio – sicuramente in sé rischioso per tutte le principali potenze vincitrici della neonata Assemblea generale – le deportazioni cecene per l’URSS; il bombardamento di Dresda per gli Alleati – e per giunta normato in modo tale da rendere possibile l’inclusione dentro la stessa casistica penale, sia – ad esempio – del bombardamento di Hiroshima, sia, una dozzina di anni dopo, degli attentati stragisti della guerriglia algerina contro i coloni francesi. Né il primo – terribile, devastante oltre misura: non meno sicuramente degli stermini nei lager nazisti – né il secondo – chiara “uccisione di membri del gruppo” “nazionale” nemico (art. II della Convenzione) – atto di guerra; né tutte le “uccisioni di gruppi” “nazionali, etnici o religiosi” dal 1948 alla fine degli anni Ottanta (Corea, Vietnam, guerre di liberazione, repressioni delle potenze coloniali, conflitti interetnici africani) – suscitarono tuttavia incriminazioni per “genocidio” 107. Nei fatti la Convenzione dell’11 dicembre 1948 – nonostante avesse acquistato nel tempo, secondo dottrina dominante, carattere consuetudinario 108 - rimase per così dire in “sonno” per alcune decine di anni: e il motivo sta proprio nella seconda questione – in qualche modo rappresentata dal pur contestato 109 articolo IX – e cioè agli equilibri di fatto dentro la neonata Assemblea generale delle Nazioni Unite. Fino a che Est e Ovest si mantennero in equilibrio, fu impossibile trasformare le azioni belliche delle tante crisi internazionali – alcune passibili di accusa di genocidio, altre chiaramente inconsistenti da questo punto di vista, e tuttavia entrambe i gruppi egualmente ascrivibili nella casistica “estesa” del reato di genocidio quale normato dalla Convenzione del 1948 – in materia di procedimento giudiziario penale, con o senza l’istituzione di Tribunali ad hoc. Solo con la fine del bipolarismo, caduto il gioco degli equilibri, il “ritorno” operativo della Convenzione e l’uso del “genocidio” – o meglio dell’accusa, da dimostrare, di genocidio - come strumento principe per l’aggressione al dominio riservato dello Stato sovrano indipendente, divennero possibili: in alcuni casi – il Ruanda – confortati dagli effettivi orrori e dalla ampiezza delle stragi del 1994; in altri, la Jugoslavia o la Sierra Leone, come effetto soprattutto delle distorsioni se non invenzioni mediatiche, tutte rivolte contro una sola delle parti in conflitto, la Serbia nei Balcani e il RUF di Sankoh nella ex colonia britannica dell’Africa occidentale.

107 Il Tribunale Russell contro i crimini di guerra degli Stati Uniti in Vietnam ricorse a tale capitolo direato, ma solo come ultimo di sei reati principali individuabili nella “sporca guerra” degli americani in Indocina. 108 Natalino Ronzitti, voce Genocidio in Enciclopedia del Diritto, Giuffrè, 1969. 109 Vedi le riserve dei vari paesi aderenti, nel sito ONU, proprio con riferimento all’art. IX.

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Concludiamo: tutto quanto abbiamo argomentato fino ad ora con riferimento al normato della Convenzione dell’11 dicembre, non vuol dire certo che i crimini di genocidio non esistano e non siano esistiti dagli anni Quaranta ad oggi; ma significa semplicemente:

1) che va vagliato quanto nel fenomeno genocidiario vada attribuito a una effettiva volontà genocidiaria – almeno come intenzione di distruggere tutto il gruppo umano nazionale, etc. – e quanto invece sia effetto del dato fattuale, oggettivo, ineluttabile, dello sviluppo tecnologico dell’attività bellica, tale da aver trasformato le vecchie guerre fra sovrani e relativi eserciti più o meno mercenari, in conflitti che coinvolgono sempre meno le forze armate regolari, e sempre più le popolazioni civili. E’ questa mutata realtà del fenomeno bellico (e della connessa pratica concentrazionaria, dai campi di concentramento boeri, ai deportati libici della guerra del 1911, ai lager nazisti) che tende a far emergere, soprattutto a partire dalla seconda guerra mondiale, gli sbocchi “genocidiari” di larga parte delle azioni belliche;

2) che, a fronte di una casistica talmente ampia dei crimini di genocidio quale

prevista dalla Convenzione stessa – inclusiva in pratica di qualsiasi atto di guerra – tutto è dipeso e tutto dipende – sullo sfondo dell’oggi ormai formidabile peso dei mass media – dalla discrezionalità del “più forte”, di chi cioè è in grado di controllare nei fatti il Consiglio di Sicurezza e l’Assemblea delle Nazioni Unite. E dunque non è un caso dunque che la Convenzione sia rimasta non operativa nell’epoca del bipolarismo, epoca in cui tutte le guerre (dalla Corea al Vietnam all’Afghanistan alle guerre africane) o quasi sarebbero potute cadere nelle maglie strettissime della estesissima rete della Convenzione dell’11 dicembre. Solo una quarantina d’anni dopo il 1948-1951, il documento sarebbe tornato ad essere operativo attraverso i Tribunali ad hoc degli anni Novanta: tutti rivolti, si badi bene, contro un solo dei campi di lotta, quello di volta in volta antagonista con l’emergente blocco egemonico sull’ONU guidato dagli Stati Uniti.

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CAPITOLO 4

UN TRIBUNALE AD USO DEI VINCITORI? RUOLO DELL’ASSEMBLEA GENERALE E DEL CONSIGLIO DI

SICUREZZA, ELEZIONE DEI MAGISTRATI, RATIONE MATERIAE, PERSONAE, LOCI E TEMPORIS.

1. Un Tribunale espressione del Consiglio di Sicurezza (e del governo tutsi di Kigali). Il difetto di legittimità e di imparzialità del Tribunale penale per il Ruanda emerge innanzitutto sotto il profilo dell’iter procedurale che ne ha permesso l’istituzione, e in particolare del suo varo da parte del Consiglio di Sicurezza – su istanza del FPR tutsi vincitore della guerra civile del 1994 - e non quanto meno dell’Assemblea generale. Come ha scritto il giurista canadese John Philpot, segretario aggiunto dell’Associazione americana dei Giuristi: « Le Tribunal Pénal International sur le Rwanda respecte-t-il le modèle de base requis pour un tribunal pénal international? … Malheureusement, le Tribunal pour le Rwanda, improvisé en quelques mois, ignore les études des dernières années et ne satisfait pas les principes de base pour la création d'une cour internationale d'une telle importance. Ce n'est qu'un instrument ad hoc du Conseil de Sécurité, destiné à jouer un rôle de coercition, sans préoccupation pour la vérité, l'impartialité et la justice fondamentale telle que conçue par la communauté internationale dans ces cinquante dernières années. Une cour pénale internationale ne peut être fondée qu'avec l'assentiment de la communauté internationale, en respect du principe d'égalité de toutes les nations. Les Nations Unies possèdent un corps où tous les États sont égaux: l'Assemblée Générale. Et le Conseil de Sécurité - avec ses cinq membres permanents avec leur droit de veto ainsi que les dix autres membres temporaires - ne reflète en aucun cas le principe d'égalité de tous les états souverains. Le Conseil de Sécurité a créé le Tribunal pour le Rwanda par la résolution 955, sans vote de l'Assemblée Générale » 110. Si confronti in effetti tale iter procedurale, con quello che ha dato vita alla Corte Penale Internazionale – un istituto contrastato fra gli altri da due membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, Stati Uniti e Cina, il primo dei quali mentore dei Tribunali ad hoc – e si potrà percepire, al di là del giudizio di merito che qui non affrontiamo 111, la differenza: nel caso della CPI l’Assemblea generale ha sempre controllato 110 John Philpot, « Le Tribunal Pénal International pour le Rwanda: la justice trahie », Montreal, Quebec 1995, in Etudes Internationales 1996, pp. 827 e segg. 111 Per una rassegna sulla CPI, vedi Albanese-Rossano (a cura di), Verso la Corte penale internazionale, Atti del Convegno di Taranto, 1999, Arcane, Roma 2002; G. Arangio-Ruiz, “The Establishment of the International Criminal Tribunal for the former territori of Yugoslavia and the doctrine of implied powers of the United Nations”, in Lattanzi-Sciso (a cura di), Dai Tribunali penali internazionali ad hoc ad una Corte permanente, Atti del Convegno – Roma 1995, Editoriale Scientifica, Napoli 1996; R. Badinter, "De Nuremberg à la Cour Pénale Internationale", in Pouvoirs, n° 92, janvier 2000, pp. 155-164; A. Cassese, "The Statute of the IPC: some preliminary reflections", in European Journal of International Law, vol. 10, 1999, pp.144-171; M. Catenacci, “Legalità” e “tipicità del reato” nello Statuto della Corte Penale Internazionale, Giuffré, Milano 2003; B. Conforti, Diritto Internazionale, Editoriale Scientifica, Napoli 2002; L.

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l’elaborazione dell’apparato normativo della Corte stessa, ed anzi è stato stabilito che eventuali emendamenti allo Statuto – possibili sette anni dopo la sua approvazione – saranno presi in esame, di nuovo, dall’assemblea dei paesi che lo hanno sottoscritto 112. Nel caso del TPIR invece, con l’alibi di una emergenza che non aveva alcun senso alla fine del 1994 – vista la vittoria del FPR tutsi e la dissoluzione del regime hutu di Habyarimana – tutto veniva affidato al Consiglio di Sicurezza. Certo, si potrebbe sostenere che la stessa Assemblea generale – che nel caso in questione, ha potere di decisione solo nella proposta dei giudici e nella loro scelta “su lista presentata dal Consiglio di Sicurezza” 113 - presenta dei forti squilibri interni a livello di potere decisionale (le Isole Marshall e la Cina dotate di identico peso): ma il discorso qui va spostato in direzione del noto dibattito sulla esigenza di una riforma dell’ONU per migliorarne o rifondarne l’efficienza democratica, altrimenti non sarebbe possibile ipotizzare alcun atto delle Nazioni Unite dal 1945 ad oggi, come giuridicamente fondato. Nei fatti, la differenza fra le due istituzioni è netta: “Dans sa forme et sa structure, le Tribunal ne respecte pas les exigences de base, telles l'indépendance, l'impartialité, et un consensus international tous nécessaires pour la mise en place d'un tribunal pénale international », cosicché, scriveva nel 1996 con grande intuito ancora Philpot, Condorelli, "La Cour Pénale Internationale (un pas de géant pourvu qu'il soit accompli…)", in Revue Générale de Droit International Public, vol. CIII, 1999, pp. 7-21; A. Del Vecchio, "Corte Penale Internazionale e giurisdizione internazionale nel quadro di crisi della sovranità degli Stati", La Comunità Internazionale, n.1, gennaio-aprile, 1999, pp. 630-652; Lattanti-Sciso (a cura di ), Dai Tribunali penali internazionali ad hoc ad una Corte permanente, Atti del Convegno - Roma 15-16 dicembre 1995, Editoriale Scientifica, Napoli 1996; 112 Egidio Albanese, intervento al Convegno di Taranto “Verso la Corte Penale Internazionale”, in AAVV, Verso la Corte Penale Internazionale permanente, a cura di Egidio Albanese e Riccardo Rossano, Aracne, Roma 2002, p. 15. 113 Article 12, 3. Les juges des Chambres de première instance du Tribunal international pour le Rwanda sont élus par l'Assemblée générale sur une liste présentée par le Conseil de sécurité, selon les modalités ci-après : Le Secrétaire général invite les États Membres de l'Organisation des Nations Unies et les États non membres ayant une mission d'observation permanente au Siège de l'Organisation à présenter des candidatures; b) Dans un délai de 30 jours à compter de la date de l'invitation du Secrétaire général, chaque État peut présenter la candidature d'au maximum deux personnes réunissant les conditions indiquées au paragraphe 1 ci-dessus et n'ayant pas la même nationalité et dont aucune n'a la même nationalité que l'un quelconque des juges de la Chambre d'appel; c) Le Secrétaire général transmet les candidatures au Conseil de sécurité. Sur la base de ces candidatures, le Conseil dresse une liste de 12 candidats au minimum et 18 candidats au maximum en tenant dûment compte de la nécessité d'assurer au Tribunal international pour le Rwanda une représentation adéquate des principaux systèmes juridiques du monde; d) Le Président du Conseil de sécurité transmet la liste de candidats au Président de l'Assemblée générale. L'Assemblée élit sur cette liste les six juges des Chambres de première instance. Sont élus les candidats qui ont obtenu la majorité absolue des voix des États Membres de l'Organisation des Nations Unies et des États non membres ayant une mission d'observation permanente au Siège de l'Organisation. Si deux candidats de la même nationalité obtiennent la majorité requise, est élu celui sur lequel se sont portées le plus grand nombre de voix. 4. Si un siège à l'une des Chambres de première instance devient vacant, le Secrétaire général, après avoir consulté les Présidents du Conseil de sécurité et de l'Assemblée générale, nomme une personne réunissant les conditions indiquées au paragraphe 1 ci-dessus pour siéger jusqu'à l'expiration du mandat de son prédécesseur. 5. Les juges des Chambres de première instance sont élus pour un mandat de quatre ans. Leurs conditions d'emploi sont celles des juges du Tribunal international pour l'ex-Yougoslavie. Ils sont rééligibles.

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“Les résultats de ses audiences et de ses jugements renforceront les fausses analyses biaisées de la crise rwandaise, et sera une justification d'un génocide futur des populations hutu de la région par la minorité tutsi aujourd'hui au pouvoir. Ce tribunal pourra légitimer des politiques interventionnistes en Afrique et partout ailleurs au détriment des principes établis du droit international et va institutionnaliser la de facto impunité des membres et des supporters du présent gouvernement du Rwanda qui ont, sans aucun doute, commis beaucoup de crimes graves à partir du 1er octobre 1990 jusqu'à présent. Il empêchera probablement la communauté internationale de connaître les causes des terribles événements qui ont eu lieu au Rwanda à partir de l'année 1990 » 114. Previsione, questa del giurista americano, che putroppo, come vedremo nel capitolo dedicato all’attività giurisdizionale del Tribunale, è stata confermata, e che del resto era deducibile anche dalle rationes materiae, personae,temporis e loci normate dallo Statuto annesso alla Risoluzione 955 del 1994. 2. La competenza ratione materiae: una lunga lista di capitoli di reato, utile agli arresti di massa degli Hutu sconfitti. Per quel che riguarda la ratio materiae, la risoluzione 955/1994 dell’8 novembre 1994 che ha istituito il Tribunale penale internazionale per il Ruanda, si basa essenzialmente su tre fonti giuridiche precedenti 115: la definizione di genocidio è ripresa letteralmente dalla Convenzione dell’11 dicembre 1948 che abbiamo già esaminato; seguono i “crimini contro l’umanità” di cui allo Statuto di Norimberga, con alcuni “aggiornamenti” (incarcerazione, la tortura e lo stupro) e variazioni (l’espulsione al posto della deportazione); e la Convenzione di Ginevra del 1949 con il connesso Protocollo addizionale II del 1977. Leggiamo: Article 2 - Génocide 1. Le Tribunal international pour le Rwanda est compétent pour poursuivre les personnes ayant commis un génocide, tel que ce crime est défini au paragraphe 2 du présent article, ou l'un quelconque des actes énumérés au paragraphe 3 du présent article. 2. Le génocide s'entend de l'un quelconque des actes ci-après, commis dans l'intention de détruire, en tout ou en partie, un groupe national, ethnique, racial ou religieux, comme tel : a) Meurtre de membres du groupe; b) Atteinte grave à l'intégrité physique ou mentale de membres du groupe; c) Soumission intentionnelle du groupe à des conditions d'existence devant entraîner sa destruction physique totale ou partielle; d) Mesures visant à entraver les naissances au sein du groupe; e) Transfert forcé d'enfants du groupe à un autre groupe. 3. Seront punis les actes suivants : a) Le génocide; b) L'entente en vue de commettre le génocide; c) L'incitation directe et publique à commettre le génocide; 114 John Philpot, « Le Tribunal Pénal International pour le Rwanda: la justice trahie », Montreal, Quebec 1995, in Etudes Internationales 1996, p. 828. 115 Verdirame, G. "The genocide definition in the jurisprudence of the ad hoc tribunals", in International and Comparative Law Quartely, vol. 49/3, 2000, pp. 578-598

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d) La tentative de génocide; e) La complicité dans le génocide. Questo articolo corrisponde esattamente all’art. II della Convenzione del 9 dicembre 1948. Seguono poi gli articoli 3 e 4: Article 3 - Crimes contre l'humanité Le Tribunal international pour le Rwanda est habilité à juger les personnes présumées responsables des crimes suivants lorsqu'ils ont été commis dans le cadre d'une attaque généralisée et systématique dirigée contre une population civile quelle qu'elle soit, en raison de son appartenance nationale, politique, ethnique, raciale ou religieuse : a) Assassinat; b) Extermination; c) Réduction en esclavage; d) Expulsion; e) Emprisonnement; f) Torture; g) Viol; h) Persécutions pour des raisons politiques, raciales et religieuses; i) Autres actes inhumains. Questo articolo riprende nella sostanza la casistica dello Statuto del Tribunale di Norimberga 116, tranne che, come il precedente Statuto del Tribunale ad hoc per la Jugoslavia, sostituisce la deportazione con l’espulsione e aggiunge l’incarcerazione, la tortura e lo stupro. Poi, ancora, l’art. 4: Article 4 - Violations de l'article 3 commun aux Conventions de Genève et du Protocole additionnel II Le Tribunal international pour le Rwanda est habilité à poursuivre les personnes qui commettent ou donnent l'ordre de commettre des violations graves de l'article 3 commun aux Conventions de Genève du 12 août 1949 117 pour la protection des victimes en temps de guerre, et du Protocole

116 "l’assassinat, l’extermination, la réduction en esclavage, la déportation et tout acte inhumain commis contre toutes populations civiles, avant ou pendant la guerre, ou bien les persécutions pour des motifs politiques raciaux, ou religieux, lorsque ces actes ou persécutions, qu’ils aient constitué ou non une violation du droit interne du pays où ils ont été perpétrés, ont été commis à la suite de tout crime rentrant dans la compétence du Tribunal, ou en liaison avec ce crime" 117 Art. 3 Nel caso in cui un conflitto armato privo di carattere internazionale scoppiasse sul territorio di una delle Alte Parti contraenti, ciascuna delle Parti belligeranti è tenuta ad applicare almeno le disposizioni seguenti: 1. Le persone che non partecipano direttamente alle ostilità, compresi i membri delle forze armate che abbiano deposto le armi e le persone messe fuori combattimento da malattia, ferita, detenzione o qualsiasi altra causa, saranno trattate, in ogni circostanza, con umanità, senza alcuna distinzione di carattere sfavorevole che si riferisca alla razza, al colore, alla religione o alla credenza, al sesso, alla nascita o al censo, o fondata su qualsiasi altro criterio analogo. A questo scopo, sono e rimangono vietate, in ogni tempo e luogo, nei confronti delle persone sopra indicate: a. le violenze contro la vita e l’integrità corporale, specialmente l’assassinio in tutte le sue forme, le mutilazioni, i trattamenti crudeli, le torture e i supplizi; b. la cattura di ostaggi; c. gli oltraggi alla dignità personale, specialmente i trattamenti umilianti e degradanti;

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additionnel II auxdites Conventions du 8 juin 1977 118. Ces violations comprennent, sans s'y limiter : a) Les atteintes portées à la vie, à la santé et au bien-être physique ou mental des personnes, en particulier le meurtre, de même que les traitements cruels tels que la torture, les mutilations ou toutes formes de peines corporelles; b) Les punitions collectives; c) La prise d'otages; d) Les actes de terrorisme; e) Les atteintes à la dignité de la personne, notamment les traitements humiliants et dégradants, le viol, la contrainte à la prostitution et tout attentat à la pudeur; f) Le pillage; g) Les condamnations prononcées et les exécutions effectuées sans un jugement préalable rendu par un tribunal régulièrement constitué, assorti des garanties judiciaires reconnues comme indispensables par les peuples civilisés; h) La menace de commettre les actes précités. In pratica, il testo dell’ art. 4 della Risoluzione 955 aggiunge ai capitoli di reato dell’art. 3 della Convenzione di Ginevra, quelli già elencati nell’ “aggiornamento” del Protocollo addizionale II dell’8 giugno 1977, e cioè gli “atti di terrorismo” e “la minaccia di compiere i suddetti atti”. Riassumiamo a questo punto il significato della elencazione dei crimini di competenza del Tribunale ad hoc per il Ruanda. Per quel che riguarda il crimine di genocidio, innanzitutto è da sottolineare, come ricorda il già citato Bassiouni, che la codificazione del crimine di genocidio è l'unica a non aver subito aggiornamenti ed anzi modifiche da quando è stata normata dalla Convenzione dell’ 11 dicembre 1948 119. In secondo luogo e di conseguenza, restando valide le considerazioni già fatte a proposito di questo documento : vale a dire la nozione estesa di questo reato, che finisce per d. le condanne pronunciate e le esecuzioni compiute senza previo giudizio di un tribunale regolarmente costituito, che offra le garanzie giudiziarie riconosciute indispensabili dai popoli civili. 2. I feriti e i malati saranno raccolti o curati …. 118 Protocollo addizionale 8 giugno 1977. Article 4 - Garanties fondamentales 1. Toutes les personnes qui ne participent pas directement ou ne participent plus aux hostilités, qu'elles soient ou non privées de liberté, ont droit au respect de leur personne, de leur honneur, de leurs convictions et de leurs pratiques religieuses. Elles seront en toutes circonstances traitées avec humanité, sans aucune distinction de caractère défavorable. Il est interdit d'ordonner qu'il n'y ait pas de survivants. 2. Sans préjudice du caractère général des dispositions qui précèdent, sont et demeurent prohibés en tout temps et en tout lieu à l'égard des personnes visées au paragraphe 1 : a) les atteintes portées à la vie, à la santé et au bien-être physique ou mental des personnes, en particulier le meurtre, de même que les traitements cruels tels que la torture, les mutilations ou toutes formes de peines corporelles ; b) les punitions collectives; c) la prise d'otages; d) les actes de terrorisme; e) les atteintes à la dignité de la personne, notamment les traitements humiliants et dégradants, le viol, la contrainte à la prostitution et tout attentat à la pudeur ; f) l'esclavage et la traite des esclaves sous toutes leurs formes ; g) le pillage ; h) la menace de commettre les actes précités. 119 M. Cherifi Bassiouni, Le fonti ed il contenuto del Diritto Penale Internazionale. Un quadro teorico, Giuffré, Milano 1996, p. 47 e segg.

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comprendere – come sottolinea Verhoeven - ogni atto di guerra della nostra epoca, che sia tradizionale, o si configuri – come nel caso del Ruanda – come guerra civile sia pure (anche) a sfondo etnico 120. Si badi al proposito, che in tale estesa casistica di genocidio potrebbero ben rientrare non solo le aprioristicamente negate e dunque inindagate stragi di Hutu da parte del FPR tutsi di Kagame nel 1994, ma anche - se la competenza ratione temporis del TPIR non fosse stata limitata al solo 1994 – le azioni di “guerriglia” antihutu compiute dallo stess FPR fra il 1990 e il 1993, e inoltre – considerata la ratio loci allargata ai paesi confinanti il Ruanda - le documentate e certe stragi di massa – denunciate come atti di genocidio ad esempio dall’allora Commissario europeo Emma Bonino121 – perpetrate dai soldati ruandesi del nuovo regime tutsinedl 1995 e 1996, nei campi profughi hutu dello Zaire, e con la motivazione che gli Interhamwe, cioè gli ex soldati del vecchio regime di Habyarimana, si facevano “scudo” della popolazione civile hutu. Per quel che riguarda poi gli articoli 3 e 4, alcuni capi di reato sono evitabili ed evitandi in quale che sia conflitto, e passibili di essere giudicati come crimini contro l’umanità: vedi ad esempio la riduzione in schiavitù, la tortura, lo stupro (art.3), o il saccheggio, gli attentati alla dignità della persona, le condanne senza processo, le crudeltà fisiche, le mutilazioni (art. 4). Ma ad onor del vero, e anche senza considerare la locuzione “salvatutto” del punto h (“La menace de commettre les actes précités”), sembra veramente assurdo inserire nella casistica dei reati, tutti o quasi gli altri atti elencati, perché essi sono consustanziali alla guerra ad alto sviluppo tecnologico della nostra epoca, che sia tradizionale o civile, simmetrica o asimmetrica. In effetti, è proprio difficile se non impossibile, individuare un conflitto degli ultimi decenni in cui i campi in lotta non abbiano compiuto assassini e financo stragi e non abbiano fatto prigionieri; o in cui non siano stati compiuti atti di terrorismo. Ad esempio, tutte le guerre di liberazione dal colonialismo della seconda metà del Novecento – dall’Algeria al Vietnam ai movimenti di liberazione africani – si sono sviluppate sulla base (anche) di azioni terroristiche: e forse non è un caso che la normazione di tale capo di reato sia datata 1977, un’epoca in cui il processo di decolonizzazione si era praticamente concluso (con la Rodesia e il Sudafrica come principali eccezioni, e a parte il peculiare e tuttoggi irrisolto nodo israelo-palestinese). Che vuol dire del resto “atti di terrorismo”? Si deve distinguere fra terrorismo stragista e terrorismo mirato? E dentro la categoria “terrorismo stragista”, non c’è differenza fra l’attentato stragista contro la popolazione inerme e quello contro gruppi anche estesi di militari e agenti di polizia, o contro coloni stranieri? Interrogativi che hanno non a caso attraversato e attraversano – anche con alcune prese di posizione ufficiali di

120 J. Verhoeven, "Le crime de génocide: originalité et ambiguïté", in Revue belge de Droit International, vol. XXIV, 1991, pp. 5-26. 121 Vedi più avanti.

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organismi internazionali122 – i due principali conflitti della nostra epoca, quello iracheno e quello israelo-palestinese. Ad apparente correzione di quanto appena detto, nel primo paragrafo dell’art. 2, è vero, si legge che i crimini elencati sono da considerarsi tali “lorsqu'ils ont été commis dans le cadre d'une attaque généralisée et systématique dirigée contre une population civile quelle qu'elle soit, en raison de son appartenance nationale, politique, ethnique, raciale ou religieuse ». Ma questa relativa precisazione e condizione (come decidere del carattere “sistematico” degli attacchi contro una qualsiasi popolazione civile?) non risolve in realtà la questione della troppa genericità ed estensione dei capitoli di reato elencati nello Statuto del TPIR 123. La conclusione di quanto fin qui detto è ovvia:

1) Lo Statuto del TPIR dispone di una “rete” normativa inclusiva di qualsiasi atto di guerra, come tale capace di trasformare in criminali per genocidio non solo i veri genocidiari (i responsabili di atti disumani, etc.) ma in pratica tutti i combattenti di entrambe i fronti, e persino il “popolo”-“acqua” del “pesce-guerriglia”;

2) Tutto dipende allora da chi ha il bastone di comando, da chi controlla nei fatti un siffatto Tribunale, dotato di un siffatto apparato normativo, totalizzante e onnicomprensivo.

Chi, nel novembre 1994? La risposta è: il regime tutsi di Paul Kagame, vincitore in Ruanda e sostenuto nel Consiglio di Sicurezza postbipolare dagli Stati Uniti (mentre per diversi motivi la Francia e la Russia si trovavano indebolite) come risulta sia dall’analisi degli altri aspetti normativi e organizzativi-strutturali del TPIR, sia dalla disamina della giurisprudenza della Corte di Arusha, che fino ad oggi ha colpito solo e unicamente esponenti dell’etnia maggioritaria Hutu. In generale dunque, la competenza ratione materiae, combinata con quelle temporis e loci, getta le premesse per l’incriminazione di un intero popolo. 3. La competenza ratione temporis: una giustizia non solo ad hoc, ma anche ad temporem. Un terzo profilo importante – cui abbiamo già accennato - riguarda la ratio temporis, come da art. 7 dello Statuto «La compétence ratione loci du Tribunal international pour le Rwanda s'étend au territoire du Rwanda, y compris son espace terrestre et son espace aérien, et au territoire d'États voisins en cas de violations graves du droit international humanitaire commises par des citoyens rwandais. La 122 Vedi la presa di posizione della Lega araba in difesa dell’Intifada palestinese e di Hamas, nei mesi successivi l’attentato dell’11 settembre. 123 J. Vehoeven, "Le crime de génocide: originalité et ambiguïté", in Revue belge de Droit International, vol. XXIV, 1991, p. 11.

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compétence ratione temporis du Tribunal international s'étend à la période commençant le 1er janvier 1994 et se terminant le 31 décembre 1994 » 124 In tal modo, come già sottolineato, il Tribunale ha espunto dalla sua competenza i periodi precedente e successivo al 1994, in cui ben più forte e netta è la responsabilità dei Tutsi e in particolare del FPR per atti che rientrerebbero a pieno titolo nella casistica di cui agli artt. 2, 3 e 4. Prima del 1994, e in particolare a partire dal 1 ottobre 1990, c’è il tragico capitolo della guerriglia scatenata dal FPR nel nord del paese, a partire dall’Uganda, da diversi autori giudicata – abbiamo già accennato alla questione – come una vera e propria “invasione” da parte del regime di Kampala guidato dall’alleato e sponsor di Kagame, Museveni 125. Una lunga guerra che ha fatto decine di migliaia di vittime, e che certo fa da sfondo a – e in parte spiega – i massacri e la reazione degli Hutu dell’aprile-giugno 1994. « Le Tribunal pour le Rwanda est … handicapé par de graves problèmes de fond: le parti pris dès sa création ainsi que son mandat limité dans le temps à l'année 1994 et dans sa portée aux violations du droit international humanitaire empêcheront d'éclaircir les vrais motifs de la tragédie rwandaise et ne permettront pas de juger les responsables. Le mandat du Tribunal est de juger les responsables individuels des violations du droit international humanitaire. Il ne peut juger les individus que pour les crimes commis sur le sol rwandais et les citoyens responsables de ces violations dans les pays frontaliers entre le 1er janvier 1994 et le 31 décembre 1994. Comme nous l'avons vu, le Conseil de Sécurité a adopté la résolution 955 sur requête du Gouvernement FPR au Rwanda, vainqueur après quatre années de guerre. La résolution est basée sur la prémisse qu'il y a des preuves accablantes d'actes systématiques et planifiés de génocide contre les Tutsi de la part des Hutu, et qu'il n'y avait pas un tel plan contre les Hutu de la part des Tutsi. Nous verrons que les enquêteurs et le Secrétaire Général ignoraient le rapport Gersony accepté par le Haut Commissariat aux Réfugiés, qui attestait que le FPR victorieux avait massacré au moins 30.000 personnes, la plupart des Hutu entre juin et septembre 1994. …. La crise actuelle débute avec l'agression militaire contre le Rwanda à partir du territoire ougandais par les actions conjointes de la Rwandese Patriotic Army (RPA) et de l'armée ougandaise (National Resistance Army) le 1er octobre 1990. Les tutsi constituaient une minorité semi-aristocratique qui a dominé la majorité hutu à l'époque pré-coloniale. Beaucoup de réfugiés tutsi ont quitté le Rwanda avec certains membres de la famille royale après avoir perdu le référendum du 25 septembre 1961 organisé par l'ONU. L'histoire du Rwanda a été ponctuée par des tueries réciproques en particulier en 1959, 1963, 1964 et 1973. Beaucoup de réfugiés tutsi ont refusé catégoriquement d'admettre la victoire électorale des Hutu au Rwanda et au Burundi. Les tueries de 1963 et 1964 ont été déclenchées par l'invasion du Rwanda par des milices tutsi. La crise de 1973 a été provoquée par les tueries de Hutu par l'armée burundaise à dominance Tutsi. En 1991, selon le recensement, la population rwandaise était estimée à 7.500.000 dont 6.877.500 Hutu (91.7%), 615.000 Tutsi (8.2%) et 7.500 Twa (1%). L'invasion du Rwanda, du type de celle de la Baie des Cochons, à partir de l'Ouganda en 1990 124 Statuto annesso alla Risoluzione, art. 7. 125 John Philpot, cit., p 827 : « … son mandat - limité dans le temps, limité à ceux qui peuvent être inculpés, et étroitement limité en juridiction aux violations du droit international humanitaire - empêchera de faire la lumière sur les vrais problèmes soulevés par le conflit rwandais, en particulier soulevés par l'agression militaire armée perpétrée par l'Ouganda, cause réelle du conflit”.

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par le FPR et l'armée ougandaise, a créé une dynamique qui fut l'origine de la catastrophe de 1994. Un grand nombre de populations hutu furent déplacées à partir du nord du Rwanda, ce qui a développé une haine profonde contre la population tutsi. La guerre d'agression durera environ 4 ans avec des pertes importantes dans les deux communautés hutu et tutsi. Le Président hutu du Burundi a été assassiné en octobre 1993. En février 1994, deux leaders hutu membres du Gouvernement ont été tués. Quelques jours avant le 6 avril, les leaders du FPR à travers le monde se sont rencontrés à Bobo-Dioulasso, au Burkina Faso et ont recommandé comme première priorité l'élimination à tout prix du Président rwandais Juvénal Habyarimana. Le 6 avril 1994, le Président Habyarimana était assassiné avec son homologue burundais Cyprien Ntaryamira pendant l'atterrissage à l'aéroport de Kigali, gardé par les troupes belges et les Nations Unies. L'identité des commanditaires de l'attentat n'a pas été établie9. La population hutu privée de ses leaders, s'est sentie encerclée et menacée d'être éliminée. Le Rwanda s'est embrasé et le sang a coulé des deux côtés produisant environ un million de morts » 126 Dopo il 1994, c’è la sequela di stragi terribili compiute anche prima della guerra d’invasione scoppiata nel giugno del 1998, nel Congo orientale dove si erano rifugiati centinaia di migliaia di hutu, da parte del nuovo esercito ruandese di Kagame, stragi rese possibili sia grazie alla retorica o alla propaganda sul “genocidio” subito dai Tutsi – un po’ come nel caso israelo-palestinese – sia grazie all’ “immunità” garantita dallo stessa ratio temporis del TPIR. Come scriveva l’allora Commissario europeo Emma Bonino, nel 1996 – in pratica all’avvio della marcia trionfale di Laurent Kabila fino a Kinshasa, dove nel maggio del 1997, sostenuto dalle truppe ruandesi, l’ex compagno di lotta di Che Guevara avrebbe rovesciato il dittatore Mobutu – era registrabile un “controgenocidio” nello Zaire orientale, vittime centinaia di migliaia di hutu: “Qualcuno se lo sarà chiesto. Perché mai, dopo avere urlato in faccia al mondo intero per due settimane la mia angoscia per la sorte dl oltre un milione di profughi "perduti nello Zaire orientale", quando finalmente sono giunta … al posto di frontiera … ho girato sui tacchi e sono tornata indietro? Perché proprio nel momento in cui la guardia di confine ruandese sollevava davanti a me la sua sbarra di ferro, ho capito che il mio "sconfinamento" in quel pezzo di territorio zairese conquistato da un esercito senza volto, che bracca come selvaggina un milione di esseri umani e impedisce alla macchina umanitaria di fare il suo dovere, non poteva produrre nulla di buono. Al contrario. Indignata come sono della lentezza con cui la comunità internazionale reagisce di fronte a questo nuovo conflitto, aperto a colpi di mortaio contro campi profughi protetti dalle bandiere dell'Onu, ho deciso di correre in Zaire e in Ruanda, e se necessario anche nel Kivu, con lo scopo principale di accrescere la pressione - politica, mediatica, psicologica - sul Consiglio di sicurezza e ottenere al più presto quella forza multinazionale che sola può garantire la ripresa di corridoi umanitari e il salvataggio di molte centinaia di migliaia di vite umane. Non solo le vite dei profughi hutu ruandesi sconfinati nel '94 insieme ai responsabili del genocidio ma anche le vite di svariate centinaia di migliaia di civili zairesi, messi in fuga dall'offensiva scatenata in tutto il Kivu da un'ignota quanto efficace armata di "ribelli". Sono corsa in Ruanda anche perché da due settimane mi inseguono due sospetti tremendi. Il primo è che l'obiettivo finale dell'indecifrabile conflitto in corso, questa colossale spedizione punitiva contro i campi del Kivu trasformati in cittadelle dell'estremismo hutu "genocidario", sia in realtà un contro-genocidio, non fosse altro

126 Reyntiens, Filip, "Rwanda, trois jours qui ont fait basculer l'Histoire", Cahiers Africains n°6, L'Harmattan, Paris 1995, pp. 25-26.

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che per fame, più terribile ancora del primo, e che questo progetto sia stato concepito e si svolga adesso con l'implicito benestare di un certo numero di governi e di organismi internazionali. Le prime, incontrollabili notizie che giungono da oltre la cortina di ferro che i "ribelli" hanno eretto attorno al Kivu alimentano il primo sospetto … Quanto alla sorte dei profughi Hutu, cittadini ruandesi, il governo di Kigali ha preoccupazioni politiche prima che umanitarie: "Si liberino degli "intimidatori" che li tengono in ostaggio, tornino a casa in massa e tutti i problemi finiranno". Un milione di profughi hutu …” 127. Sostanzialmente inattivo, e dunque fra i principali responsabili di quanto stava accadendo, anche il segretario generale Kofi Annan 128, non poté fare a meno del resto di parlare di “sterminio” degli Hutu. Così come, di più genocidi avrebbe parlato apertamente – fra i tanti studiosi e osservatori neutrali della guerra della Regione dei Grandi Laghi – lo storico africanista René Lemarchand, spezzando il dogma della formula mediatica sul “genocidio dei tutsi (e degli hutu moderati)” che vorrebbe i Tutsi esenti da qualsiasi responsabilità in eccidi dei loro avversari 129. Questi sono solo accenni di una problematica vasta e da approfondire. Ma è evidente che anche da soli, essi fanno emergere il forte difetto di imparzialità di un Tribunale ad hoc che si è opportunamente ritagliato, in una decina d’anni di massacri di tutti contro tutti, una ratio temporis anch’essa ad hoc - e si potrebbe aggiungere ad usum dei Tutsi vincitori - limitata all’“anno del genocidio” (il 1994), a sua volta dogmaticamente etichettato, contro le sempre più numerose evidenze, “genocidio dei Tutsi e degli Hutu moderati ad opera degli Hutu estremisti”. E’ da sottolineare peraltro che il limite della ratio temporis non solo pre ma anche ultra, è ciò che distingue (in peggio, se possibile) il TPIR dal TPIY, il cui Statuto prevede un solo un limite pre 1991. Cosicché, a differenza del caso dei Balcani, il limite ultra del TPIR ha costituito una sorta di “licenza di uccidere” e di “vendetta” per i Tutsi vincitori, come da eventi del 1996 e 1997 ricordati da Emma Bonino, e secondo la critica già riportata di John Philpot. D’altro canto la limitazione della ratio temporis – confinata al solo anno 1994 – finisce per distorcere e influenzare – entro una problematica senz’altro più ampia, che riguarda la perseguibilità di singoli individui da parte di un Tribunale internazionale, secondo consuetudine organo dirimente le controversie fra Stati 130- anche la ratio personae: nel senso che, posta invece perseguibilità dei singoli individui, e non solo degli individui-organo rappresentativi di uno Stato, si è finito, nello specifico del Tribunale penale internazionale per il Ruanda per colpevolizzare e criminalizzare non solo tutto il regime precedente a maggioranza hutu – tutti gli imputati e condannati ad

127 Emma Bonino, “Genocidio e indifferenza: ‘io commissaria europea accuso l’Occidente’ ” su l’Unità del 14 novembre 1996. 128 "Zaire, la politica dello sterminio. Kofi Annan accusa i ribelli", Corriere della Sera, 27 aprile 1997. 129 René Lemarchand, « Genocide in the Great Lakes : which Genocide ? Whose Genocide?” in African Studies Review, pp. 3-97. 130 Sull’argomento vedi fra l’altro, Natalino Ronzitti, Crimini internazionali individuali, Tribunali interni e Giustizia penale internazionale, in SIDI, Cooperazione fra Stati e Giustizia penale internazionale, Editoriale Scientifica, Napoli 1999.

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Arusha sono ex dirigenti, ufficiali, intellettuali legati all’ex presidente Habyarimana - ma un intero popolo: gli Hutu, non a caso incarcerati a decine di migliaia nelle carceri di Kigali, e sottoposti a quella che, secondo un alto magistrato ruandese che citeremo più avanti, è la “giustizia vendicativa” della minoranza tutsi oggi dominante. 4. I poteri decisionali del Consiglio di Sicurezza nell’elezione dei Giudici e del Procuratore. Ma l’aspetto più grave riguarda l’elezione degli organi giudicanti e di quello inquirente del Tribunale, sottoposta più che al vaglio dell’Assemblea generale (unico organo dell’ONU, come già detto, e fatti salvi alcuni squilibri anch’essi già ricordati, in cui si rispetta l’eguaglianza degli Stati membri: non a caso è stata l’A.G. a istituire il Tribunale del 1945) al controllo pressoché assoluto del Consiglio di Sicurezza postbipolare. Ragioniamo facendo un raffronto – ove possibile - con lo Statuto della Corte de L’Aja, documento giuridico già esistente – al contrario dello Statuto della CPI – all’epoca dei due primi Tribunali ad hoc degli anni Novanta, Jugoslavia 1993 e Ruanda 1994.

1) I Giudici. Lo Statuto della Corte dell’Aja annesso alla carta di San Francisco prevede che “i membri della Corte (15) sono eletti dall’Assemblea generale e dal Consiglio di Sicurezza” (art. 4), sulla base di una lista redatta dai Membri della Corte Permanente di Arbitrato (istituita dalla Conferenza de l’Aja del 1907) e dai Membri delle Nazioni Unite (quattro persone per ogni “gruppo nazionale”), lista che viene trasmessa integralmente dal Segretario generale all’Assemblea generale e al Consiglio di Sicurezza. E’ pur vero che gli organi elettivi, “in modo indipendente l’uno dall’altro”, sono sia l’Assemblea che il Consiglio, ma da una parte il potere di voto dentro il CdS è attribuito “senza alcuna distinzione fra membri permanenti e non permanenti” (art. 10, comma 2), ciò che “testimonia”, secondo Benvenuti, “della volontà di porre nei limiti del possibile tutti gli Stati sullo stesso piano e d ridurre al minimo i condizionamenti politici di parte nell’ elezione” 131 Dall’altra e comunque, è garantita a entrambi gli organi una rosa di nomi ampia, intatta rispetto alle opzioni presentati da tutti gli Stati membri. Al contrario, nel caso del TPIR (come del TPIY), dove apparentemente sembrano prevalere criteri di scelta più democratici perché organo elettivo unico è l’Assemblea, la lista dei nomi complessiva subisce una drastica selezione da parte del Consiglio: dai possibili 382 nomi (due per Stato membro), a un numero compreso fra 12 e 18, fra i quali l’Assemblea deve scegliere, nel caso del Ruanda, “i sei Giudici delle Camere di primo grado” essendo la Camera di appello la stessa del TPIY 132. Si tratta con ogni evidenza di un enorme potere di discrezionalità per il Consiglio di Sicurezza, non certo contenuto dalla raccomandazione di rito che la

131 Paolo Benvenuti, « Corte Internazionale di Giustizia », voce del Digesto, IV Edizione, p. 247. 132 In tutto i giudici del TPIR sono 11, ma di questi solo i sei delle due Camere di primo grado sono eletti ex Statuto : i rimanenti 5, della Corte d’appello, sono gli stessi della Corte d’appello del Tribunale per la Jugosaavia (vedi poi)

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rosa di candidati finali deve assicurare “una rappresentazione adeguata dei principali sistemi giuridici del mondo”, o dalla consueta disposizione che i magistrati scelti devono essere tutti di differente nazionalità . Fra l’altro, a proposito di quest’ultimo criterio – assolutamente condivisibile a fini di indipendenza e “pluralismo” 133 della Corte, e non a caso risalente allo Statuto della Corte dell’Aja – non si possono non rilevare due fatti: il primo è squisitamente procedurale, e cioè che stando alla lettera degli artt. 11 e 12 134, non è da escludersi – anche se l’ipotesi sembra di difficile realizzazione tenuto conto della prassi consuetudinaria sulla questione – che la lista presentata dal CdS all’Assemblea, possa essere inclusiva di candidati della stessa nazionalità, conciostesso riducendo ulteriormente la rosa di opzioni in sede di voto definitico. Infatti, mentre l’art. 11 sulla Composizione delle Camere vieta che al termine della procedura elettorale – come corretto – possano sedere nelle Camere giudici provenienti da uno stesso Stato, in corso di procedura, cioè di formazione della lista tale limite è esplicitamente ribadito solo per gli Stati membri e le loro proposte di un massimo di due candidati (articolo 12, comma 3, b), mentre non è chiaramente fissato per la redazione della lista finale di candidati operata per selezione dal Consiglio di Sicurezza (art. 12, comma 3,d). Anzi proprio l’ultimo periodo di tale comme, fa pensare che tale eventualità sia stata proprio contemplata: « Si deux candidats de la même nationalité obtiennent la majorité requise, est élu celui sur lequel se sont portées le plus grand nombre de voix ». Certo una disposizione-previsione simile è contenuta anche nello Statuto della Corte dell’Aja el 1945: ma mentre in questo caso l’Assemblea generale si trovava di fronte fino a un numero di nomi doppio quello degli Stati membri, nel caso del TPIR, l’esclusione della doppia nazionalità avviene su una rosa già ristrettissima di nomi, fra i 18 e 12. In pratica, è ben possibile che sia direttamente il Consiglio di Sicurezza – con la fictio di una rosa superiore ai sei erigendi, ma comprensiva di più nomi

133 Paolo Benvenuti, « Corte internazionale di Giustizia », voce cit., p. 648. 134Article 11- Composition des Chambres Les Chambres sont composées de 11 juges indépendants, ressortissants d'États différents et dont : a) Trois siègent dans chacune des Chambres de première instance; et b) Cinq siègent à la Chambre d'appel…. Article 12 - 3. Les juges des Chambres de première instance du Tribunal international pour le Rwanda sont élus par l'Assemblée générale sur une liste présentée par le Conseil de sécurité, selon les modalités ci-après : Le Secrétaire général invite les États Membres de l'Organisation des Nations Unies et les États non membres ayant une mission d'observation permanente au Siège de l'Organisation à présenter des candidatures; b) Dans un délai de 30 jours à compter de la date de l'invitation du Secrétaire général, chaque État peut présenter la candidature d'au maximum deux personnes réunissant les conditions indiquées au paragraphe 1 ci-dessus et n'ayant pas la même nationalité et dont aucune n'a la même nationalité que l'un quelconque des juges de la Chambre d'appel; c) Le Secrétaire général transmet les candidatures au Conseil de sécurité. Sur la base de ces candidatures, le Conseil dresse une liste de 12 candidats au minimum et 18 candidats au maximum en tenant dûment compte de la nécessité d'assurer au Tribunal international pour le Rwanda une représentation adéquate des principaux systèmes juridiques du monde; d) Le Président du Conseil de sécurité transmet la liste de candidats au Président de l'Assemblée générale. L'Assemblée élit sur cette liste les six juges des Chambres de première instance. Sont élus les candidats qui ont obtenu la majorité absolue des voix des États Membres de l'Organisation des Nations Unies et des États non membres ayant une mission d'observation permanente au Siège de l'Organisation. Si deux candidats de la même nationalité obtiennent la majorité requise, est élu celui sur lequel se sont portées le plus grand nombre de voix.

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appartenenti a stesse nazionalità – a decidere chi debba essere e chi non debba essere giudice del Tribunale penale internazionale per il Ruanda. Il secondo rilievo da fare attiene alla questione se l’appartenenza di più candidati ad uno stesso Stato o nazionalità sia oggi, diversamente che nella prima metà del secolo XX (Conferenza dell’Aja del 1907 e Statuto annesso alla Carta di San Francisco del 1945), l’unico pericolo da evitare. Infatti il porre un divieto di sovrapposizione soltanto in termini di nazionalità, non tiene conto della crescita ormai quasi esponenziale di identità culturali “trasversali” per i diversi Stati-membri, almeno a partire dalla decolonizzazione: due esempi possibili, quello dell’identità araba o islamica presente entro i confini delle tante nazionalità degli altrettanti Stati o arabi o a prevalenza musulmana; e quello - perché no? – di una possibile identità ebraica dei giudici del TPIR, giudicante di un conflitto che vede una delle due parti – per vari motivi, non secondario il controllo del traffico dei diamanti – saldamente alleata a Israele 135.

2) La Camera d’appello. Come già detto, è la stessa del Tribunale per la Jugoslavia del 1993 136, il cui Statuto e dispositivo elettorale per i giudici è praticamente eguale a quello del Tribunale per il Ruanda nel caso che abbiamo appena visto dei giudici di primo grado. Anche in questo caso la selezione è drastica – da 382 possibili nomi forniti dall’Assemblea, a una lista fra i 28 e i 42 nomi 137 per i giudici permanenti, gli unici titolati in numero di sette (cinque effettivi ogni appello) a far parte della Camera d’appello.

3) Il Procuratore. E’ lo stesso, ex articolo 15 comma 3 138, del Tribunale penale

internazionale per la Jugoslavia, il quale a sua volta secondo lo Statuto TPIY è “nominato dal Consiglio di Sicurezza su proposta del Segretario generale” (art. 16, comma 4). C’è da chiedersi dunque fino a che punto sia veridico che esso “agisce in piena indipendenza”, o “è un organo distinto dentro il Tribunale internazionale per il Ruanda”, secondo quanto recita l’art. 15 comma 2, dello Statuto del TPIR. La fonte di legittimazione alla fine è la stessa, il Consiglio di

135 Nel 1996, Paul Kagame si è recato in visita in Israele, visitando il Memoriale dell’Olocausto, e suggellando un’alleanza dai risvolti anche simbolici, la similitudine pretesa fra Tutsi e Ebrei, e fra i due rispettivi “olocausti”. Quanto ai magistrati, interessante è l’attuale presidente delle Camere di primo grado, il norvegese Erik Mose, così come in passato i procuratori Goldstone e Arbour. 136 Article 12 - Qualifications et élection des juges … 2. Les juges siégeant à la Chambre d'appel du Tribunal international chargé de poursuivre les personnes présumées responsables de violations graves du droit international humanitaire commises sur le territoire de l'ex-Yougoslavie depuis 1991 (ci-après dénommé "le Tribunal international pour l'ex-Yougoslavie") siègent également à la Chambre d'appel du Tribunal international pour le Rwanda. 137 Ibidem, art. 13 bis, comma 1, c. 138 3. Le Procureur du Tribunal international pour l'ex-Yougoslavie exerce également les fonctions de procureur du Tribunal international pour le Rwanda. Il dispose, pour le seconder devant le Tribunal international pour le Rwanda, de personnel supplémentaire, dont un procureur adjoint supplémentaire. Ce personnel est nommé par le Secrétaire général sur recommandation du Procureur.

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Sicurezza, con i suoi di squilibri postbipolari. E come cronaca insegna, nel momento in cui si è registrato un dissenso di fondo fra il Procuratore e il Palazzo di Vetro sulla strada da seguire a Arusha, si è visto che Carla del Ponte è stata costretta a lasciare il suo incarico “ruandese”, probabilmente per il timore che la vergogna eclatante di questo Tribunale - più che ad hoc, ad usum del vincitore - finisse per degradare ulteriormente l’immagine dell’altro Tribunale, quello per la Jugoslavia. Questo detto, non sussiste invece il rischio di una discrezionalità eccessiva del potere inquisitorio nella delicata fase di passaggio dalla fase delle indagini a quella della richiesta di rinvio a giudizio, come parrebbe dedursi dalla vaghissima e ambigua locuzione nell’art. 17 dello Statuto, comma 4, per la quale il Procuratore, convintosi che le indagini abbiano fatto emergere prove sufficienti di colpevolezza, ha facoltà di trasmettere l’atto d’accusa, “a un giudice” della Camera di primo grado non meglio specificato. In realtà, a partire dalla sua approvazione formale il 29 giugno 1995, il Regolamento – mutuato da quello per la Jugoslavia 139 - ha corretto questa lacuna, specificando che il giudice designato a accogliere gli atti d’accusa è nominato a turno dal Presidente del Tribunale fra tutti i giudici di primo grado. Ma questa precisazione “garantista”, da riferirsi a fronte della sopra citata lettera dell’art. 17, di certo non elimina tutto quanto detto finora, e cioè l’organizzazione-formazione del Tribunale penale internazionale per il Ruanda, come di un Tribunale espressione diretta e braccio giuridico del Consiglio di Sicurezza. Il contrario della Corte dell’Aja del 1945, e della stessa Corte Penale internazionale del 1998.

5. Altre parzialità procedurali, prescrittive, logistico-amministrative La parzialità del TPIR emerge anche – stando alla stessa Risoluzione 955/1994 – in sede procedurale, dall’obbligo di notifica delle decisioni del Tribunale a una sola delle parti del conflitto oggetto di indagine, i.e. il nuovo governo di Kigali, che al novembre del 1994, vale a dire ad appena 3 mesi dalla presa del potere da parte dei Tutsi, non poteva assolutamente rappresentare un “tertium” neutrale e superpartes frutto di una ricucita “unità nazionale”, ma era espressione diretta di una delle due parti del conflitto, la minoranza tutsi. E’ da notare peraltro che tale prescrizione è contenuta non nello Statuto – come da sua collocazione naturale - ma nel Dispositivo della Risoluzione, che in tal modo svela di nuovo la sua parzialità 140.

139 Article 14 - Règlement du Tribunal Les juges du Tribunal international pour le Rwanda adopteront, aux fins de la procédure du Tribunal international pour le Rwanda, le règlement du Tribunal international pour l'ex-Yougoslavie régissant la mise en accusation, les procès en première instance et les recours, la recevabilité des preuves, la protection des victimes et des témoins et d'autres questions appropriées, en y apportant les modifications qu'ils jugeront nécessaires. 140 Dispositivo, punto 3: «une notification devrait être adressée au Gouvernement rwandais avant que des décisions ne soient prises». Del resto anche la risoluzione 965 (1994), del 30 november 1994, chiedeva (par. 8) “ à la communauté internationale de fournir les ressources nécessaires pour répondre aux besoins immédiats du Gouvernement rwandais,

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Sempre nella Risoluzione, sono inoltre contenute alcune locuzioni che lasciano presagire fin da subito un pre-giudizio nelle indagini svolte o da svolgere. Non bisogna accertare i fatti, senza pregiudizio sulle conclusioni, ma invece si “devono” trovare le prove del genocidio compiuto dagli Hutu: “la Commission d'experts créée en vertu de la résolution 935 (1994) devrait continuer à rassembler de toute urgence des informations tendant à prouver que des violations graves du droit international humanitaire ont été commises sur le territoire du Rwanda, et qu'elle devrait présenter son rapport final au Secrétaire général le 30 novembre 1994 au plus tard » 141 Del resto il linguaggio utilizzato non è casuale: “la risoluzione – ha scritto Philpot – è basata sulla premessa che esistono delle prove certe di atti sistematici e pianificati di genocidio contro i Tutsi da parte degli Hutu, e che non esisteva un tale piano contro gli Hutu da parte dei Tutsi”, contrariamente a quanto documentato ad esempio dal Rapporto Gersony, fatto proprio dall’Alto Commissariato per i Rifugiati, rapporto che aveva provato che “il FPR vittorioso aveva massacrato almeno 30.000 persone, per la maggior parte Hutu, fra il giugno e il settembre 1994” 142 , ma che l’allora Procuratore Louise Arbour aveva occultato “per non imbarazzare” il nuovo governo di Kigali 143. Vedremo più avanti i particolari di questa vicenda. Per ora, l’ultimo punto da affrontare in questo paragrafo riguarda la dislocazione degli Uffici. In effetti, con la risoluzione 977 del 22 febbraio 1995, il Consiglio di Sicurezza ha stabilito la sede del Tribunale ad Arusha, in Tanzania. Ma questa disposizione viene in qualche modo di fatto resa inefficace dalla coincidenza sia della Camera d’appello, sia del Procuratore, con i rispettivi organi del Tribunale per la Jugoslavia che risiedono a L’Aja. Ora, questa particolarità non ha mancato di influire sullo svolgimento delle indagini: ad esempio, come conseguenza della mancanza di un Procuratore in loco e ad hoc, “il primo Procuratore del Tribunale, il famoso giudice sudafricano Richard Goldstone, in pratica non ha mai messo piede in Ruanda, con ciò favorendo la richiesta del FPR di concentrare l’Ufficio a Kigali, dove si trovano la maggior parte dei testimoni del genocidio” 144 E’ da notare che Kigali era ed è sotto il pieno controllo dei Tutsi vincitori, che detengono in carcere decine di migliaia di hutu “in attesa di processo”. Se a questo dato se ne aggiunge un altro, e cioè la mancata apertura di uffici del Procuratore nei paesi ospiti dell’oltre milione di Hutu fuggiaschi dal Ruanda dopo la conquista della soit directement soit en versant des contributions au Fonds d'affectation spéciale créé en application de la résolution 925 (1994) du 8 juin 1994; 141 Preambolo. 142 John Philpot, Le Tribunal pénal international pour le Randa. La justice trahie, in ‘Etudes internationales », 5, 1996, p. 831 143 Del resto, la cooperazione fra governo ruandese e Tribunale è costante. Nel Règlement de procedure et de preuve del 29 giugno 1995, poi sottoposto a successive modifiche nel corso degli anni, si legge, al paragrafo 51: “Au cours de l'année 1995, le Procureur a encore effectué de nombreuses visites au Rwanda, renforçant ainsi la coopération existant entre le Gouvernement du Rwanda et le Tribunal. 144 Marc Antoine Perouse de Monclos, in Politique Africaine, p. 110.

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capitale ruandese da parte di Kagame (Burundi, Kenya e soprattutto Zaire: lì dove ad esempio i profughi avrebbero potuto fornire indicazioni sulle stragi compiute dai Tutsi prima - la guerriglia fra il 1990 e i primi mesi del 94 - e dopo - Rapporto Gersony - il 6 aprile 1994) si può dedurre che ad esempio, anche una Procura veramente imparziale si troverebbe in difficoltà a voler indagare sui crimini compiuti dal Fronte Patriottico Ruandese durante la sua avanzata vittoriosa. 6. Scarsità di fondi e finanziamenti selettivi: le donazioni per l’Ufficio del Procuratore, incentivo per un processo “inquisitorio” sbilanciato dalla parte dell’accusa. Il bilancio dei due tribunali è costituito non solo dalle risorse delle Nazioni Unite ma anche da donazioni di singoli Stati e – sia pure in minor misura - di alcune organizzazioni private: fatto questo, che potrebbe ulteriormente mettere a rischio l’indipendenza dei magistrati che vi lavorano 145. Per quanto riguarda le strutture del TPIY (come abbiamo visto coincidenti per gli organi della Corte d’Appello e del Procuratore con quelle del TPIR) nel corso degli anni il bilancio ordinario (attribuito dall'Onu) è passato dai 276.200 dollari del 1993 (in pratica, alcuni mesi di stipendio della prima decina di collaboratori dei giudici), ai 64 milioni di dollari previsti per il 1998. ai 94.103.800 del 1999. Quanto al TPIR, il Fondo fiduciario aveva ricevuto al 1996 5,2 milioni di dollari, mentre diversi paesi avevano destinato a titolo gratuito del personale 146 o delle attrezzature. Tra i paesi donatori spiccano la Malesia (2 milioni di dollari), l'Italia (oltre 1 milione e 800 mila) e il Pakistan (un milione). Anche gli Stati Uniti hanno contribuito, con una fornitura di computers per l'ufficio del Procuratore per un valore di oltre due milioni di dollari. Gli sponsor privati sono stati l'Open Society Institute (l'organizzazione fondata dal finanziere Georges Soros) per circa 100 mila dollari, e la Fondazione Rockefeller, che ha elargito 50mila dollari destinati in specifico (!!) all'Ufficio del procuratore, quasi la parte inquisitoria fosse quella ad essa pià gradita. Fra l’altro, è evidente che un finanziamento selettivo ad officium, ed anzi ad personam – il Procuratore di turno – quale quello di provenienza USA e Rockefeller, suona come offesa evidente all’indipendenza della Corte 147. E’ come se si volesse creare il terreno per il rafforzamento di uno dei due poli della dialettica processuale – l’accusa-parte inquisitoria – a discapito della magistratura giudicante, la quale a sua volta potrebbe sentirsi indotta anche solo a percepire una pressione esterna nella direzione voluta dal finanziatore: il ruolo di Washington – grande alleato dell’ugandese Museveni, e dunque di Kagame: non a caso gli USA impedirono all’ONU di intervenire sia nel 1994, quando contribuirono attivamente al

145 « 4. Prie instamment les États ainsi que les organisations intergouvernementales et non gouvernementales d'apporter au Tribunal international des contributions sous forme de ressources financières, d'équipements et de services, y compris des services d'experts; (dalla 955, paragrafo 4 della rsoluzione) » 146 .Danimarca 2, Olanda 19, Norvegia 3, Svezia 3, Svizzera 3 Regno Unito 5, e Stati Uniti 3. 147 Valentina Dalla Fina, op. cit., p. 340. Il giudizio conclusivo è nostro.

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crollo del regime Hutu di Habyarimana, debolmente sostenuto dalla Francia, sia nel 1996 148 – è sufficientemente noto e non meraviglia che l’Amministrazione Clinton di allora abbia dato soldi e contributi al “suo” Procuratore. Ma anche nel caso di Georges Soros, la parzialità dello sponsor è netta: il finanziere ebreo si sarebbe rivelato nel 1999 grande sostenitore della guerriglia del Kossovo, così come Israele aveva già sostenuto i musulmani bosniaci contro i sertbi legati al governo legittimo di Belgrado, nella tragica guerra del 1994-95. E anche nella Regione dei Grandi Laghi le ombre della grande contesa geopolitica tornano: come già detto tutto il blocco tutsi (in Ruanda, Burundi e Uganda) è legato, anche direttamente, senza la mediazione cioè dell’Uganda o degli Stati Uniti, ad Israele. Un alleanza che la guerra del 1998, che ha portato Kigali ad occupare lo Zaire-Congo orientale ricchissimo di diamanti, ha rafforzato ancora di più 149. In effetti, la ratio di fondo dei due Tribunali appare essere la stessa: nei Balcani i Serbi, e nella Regione dei Grandi Laghi gli Hutu, sono i “popoli cattivi” da condannare. Con una probabile differenza che sembra emergere non tanto dalle rispettive attività giurisdizionali, quanto piuttosto dal modo in cui queste vengono percepite e giudicate nei due paesi ratione loci: mentre nel caso jugoslavo il processo de l’Aja che coinvolge i dirigenti serbi e/o panjugoslavi a cominciare da Milosevic, è sottoposto a critiche sempre più diffuse in Jugoslavia, e comunque possibili entro un paese non ancora “normalizzato” – da cui la possibilità non solo teorica di una incriminazione anche di avversari di Milosevic - nel caso del conflitto fra Tutsi e Hutu il Tribunale di Arusha risulta inattaccabile e non criticabile dentro il Ruanda, dove la dittatura di Paul Kagame, gli arresti di decine di migliaia di presunti “genocidiari” e una originale Costituzione che vieta ogni propaganda “revisionista”, impediscono ogni libera espressione della maggioranza hutu 150. Né la percezione migliora all’estero, sui grandi mass media che hanno fatto acriticamente proprio: il risultato è che nella pratica, soltanto gli Hutu sono stati processati e condannati dal Tribunale di Arusha.

148 Ennio Carretto, “Usa: ‘senza il sì del Ruanda non partiamo’ ”, Corriere della Sera, 18 novembre 1996, p. 8. 149 Cfr. Fra gli altri Claudio Moffa, “Guerre vere e paci finte. Un modello neocoloniale per i Grandi Laghi”? in Limes 3, 2003, pp. 257-272. 150

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CAPITOLO 5

L’ATTIVITA’ DEL TRIBUNALE PENALE INTERNAZIONALE PER IL RUANDA. SELEZIONE ETNICA DEGLI INDAGATI, CARENZA DEL DIRITTO DI DIFESA, INDIPENDENZA DEI MAGISTRATI. I CASI DEL PONTE E NKUNDIYAREMYE

1) L’occultamento dei fatti da parte dell’ONU e degli organi inquirenti del TPIR. Al di là della struttura del TPIR e della lettera dello Statuto che abbiamo esaminato nei capitoli precenti, sarebbe necessario a questo punto esaminare l’attività concreta del Tribunale. Ma prima di questa disamina, che rinviamo al prossimo capitolo, è utile affrontare sia pure succintamente – come possibile nell’economia di un capitolo - un problema di fondo che sottende l’attività del TPIR come di qualsiasi Corte Penale, e cioè la difficoltà di accertamento dei fatti storici occorsi anche in quel ristretto arco di tempo delimitato dalla ratione tenmporis del Tribunale per il Ruanda, cioè il 1994. Al fondo, come sempre nelle principali crisi della nostra epoca, la questione dei mass media, “inventori” di eventi (Timisoara) o “verità” (gli armamenti di massa di Saddam Hussein), magari destinate a rivelarsi fallaci, ma hic et numc utili all’azione politica, che questa si presenti nella fattispecie militare o giudiziaria. . Procediamo per gradi: inanzitutto emerge, già in quella che potrebbe essere definita la fase di incubazione del TPIR, prima e dopo la sua formale istituzione con la risoluzione 955/1994, certa ormai acclarata tendenza dei vertici dellONU dell’epoca e dello stesso organo inquirente del Tribunale ad occultare i fatti, o almeno quelli che avrebbero potuto mettere in discussione il dogma dell’innocenza dei Tutsi – eterne e sole vittime della sopraffazione altrui – dogma a sua volta ben rappresentato dalla formuletta mediatica: “genocidio dei Tutsi e degli Hutu moderati ad opera degli Hutu estremisti”. Due esempi, al proposito: il primo riguarda l’evento chiave che ha dato il via ai massacri del 1994, e che aprirono la strada alla vittoria del FPR: vale a dire l’attentato del 6 aprile 1994 nel quale vennero uccisi i due presidenti hutu del Ruanda e del Burundi, Juvenal Habyarimana e Cyprien Ntaryamira. Per anni i mass media hanno accreditato la versione ufficiale del regime tutsi di Kigali, e cioè che l’abbattimento dell’aereo presidenziale di ritorno da Arusha era stato opera degli “Hutu estremisti” contrari alle aperture di Habyarimana nei confronti del FPR di Kagame, operativo dal 1990 nel nord del paese con stragi e massacri di decine di migliaia di persone 151, in 151 Ma forse centinaia d migliaia: così almeno l’autorevole Filip Rejintiens, consulente dello stesso TPIR, autore del famoso saggio Rwanda, trois jours qui ont fait basculer l'Histoire, Cahiers Africains n°6, L'Harmattan, Paris 1995, di cui vedi la citazione più avanti.

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maggioranza hutu. Una versione, questa, coerente con l’immagine vittimista dei Tutsi e con tutto l’immaginario, fra il discutibile e il fantasioso, del loro cosiddetto “genocidio”. In realtà, oggi è ormai pressoché certo che quell’aereo fu abbattuto dal FPR di Kagame, dotato di missili Sam 7, nel quadro di un piano di conquista di Kigali quale fu poi realizzato nel luglio successivo. Sarebbe lungo citare le numerose testimonianze e rapporti che comprovano – anche a parte il classico cui prodest - questa seconda versione dei fatti: citiamo qui solo le rivelazioni di Jean Pierre Mugabe, ex membro dei servizi segreti di Paul Kagame, che rivelò nel 2000 i particolari dell’attentato, ivi compreso lo spostamento della base di lancio dei missili dal confine ruando-ugandese a una località prossima all’aereoporto di Kigali, dove avrebbe dovuto atterrare l’aereo abbattuto 152; la confessione di Aloys Ruyenzi, un tutsi nato in Uganda, ex combattente del Fronte patriottico Ruandese, già membro dell’Intelligence e guardia del corpo di Paul Kagame, che nel luglio 2004 ha rivelato, con precisione di nomi e di date 153 i particolari della riunione organizzata per organizzare l’attentato contro Habyarimana; e infine il rapporto del giudice dell’antiterrorismo francese, Jean Louis Bruguière in cui, sulla base di diversi elementi fra cui la testimonianza di un altro un membro del FPR tutsi, Abdul Ruzibiza, si accusa Paul Kagame, di nuovo, di essere il vero mandante dell’attentato del 6 aprile 154. Fin qui i fatti e la loro ricostruzione. Ma la cosa grave per quel che riguarda il TPIR, è non tanto la mancata adesione e assunzione di questa versione dei fatti – problema ovviamente non risolvibile senza un procedimento ad hoc - ma il suo aprioristico rifiuto, attraverso l’occultamento di un rapporto dell’ONU che già nel 1997 – tre anni prima cioè della rivelazione di Jean Pierre Mugabe – proponeva una diversa verità dei fatti storici: occultamento voluto, secondo il quotidiano canadese National Post del 1 marzo 2000, dallo stesso Procuratore Louise Arbour: «Faisant apparaître sous un nouveau jour l'événement qui a déclenché le génocide d'au moins 500 000 personnes au Rwanda, trois informateurs tutsis ont révélé aux Nations unies qu'ils avaient appartenu à l'escadron d'élite ayant assassiné le président hutu en 1994. [Ils] ont dit à des enquêteurs de l'ONU, en 1997, que l'assassinat du président Juvénal Habyarimana avait été mis en ouvre "avec l'aide d'un gouvernement étranger" sous le haut commandement de Paul Kagamé, aujourd'hui vice-président du Rwanda. (...) Mais quand cette information a été transmise à Louise Arbour 155, alors procureur du Tribunal pénal international de l'ONU [pour le Rwanda, TPR], elle a mis fin à

152 Cfr. New African, june 2000, p. 11. 153 “Major General Paul Kagame behind the shooting down of late Habyarimana’s plane: an eye witness testimony”: secondo il testimone, che vive attualmente sotto regime di sicurezza in Norvegia, la riunione in cui si decise l’attentato si sarebbe svolta, alla presenza dello stesso Paul Kagame, il 31 marzo 1994, fra le 2,30 pm e le 3,30 pm. 154 Le monde, marzo 2002. 155 Procuratore del TPIY e dunque del TPIR dal 1 ottobre 1996, in base alla Risoluzione 1047 del CdS del 29 febbraio precedente, con la quale ella subentrava a Richard J. Goldstone., a sua volta nominato l’8 luglio 1994 (quattro giorni dopo la conquista di Kigali da parte dell’FPR di Paul Kagame), con la Risoluzione 936. In pratica Arbour fu il primo vero Procuratore del TPIR, visto che questo nei fatti entrò in funzione, con l’incriminazione di 7 persone, solo il 28 novembre 1995.

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l'enquête, affirme un rapport [des Nations unies]. (...) "Leurs informations et requêtes [pour des garanties de sécurité] ont été transmises au juge Arbour", dit le rapport, daté du 1er août 1997. Quoique d'abord partante, elle a plus tard décidé que cette affaire ne relevait pas du mandat du TPR et ne devrait plus faire l'objet d'une enquête» 156 Quell’occultamento non era stato comunque il primo. Proprio al 1994 risaliva un altro insabbiamento, quello del Rapporto del funzionario dell’ONU Robert Gersony: “Robert Gersony, che guidava in Rwanda il team dell'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati, aveva presentato un rapporto in cui si accusava apertamente il Fronte patriottico rwandese di avere ucciso, durante la sua avanzata verso Kigali, tra 25 e 45 mila hutu. A Gersony era stato intimato di non documentare questi fatti "per non mettere in imbarazzo il nuovo governo” ” 157 2) I limiti e i difetti del Tribunale penale per il Ruanda emersi mel corso dell’analisi per così dire sincronica dello Statuto, delle varie rationes materiae, personae, temporis etc, o dei suoi aspetti organizzativi, non mancano di riflettersi sullo svolgimento diacronico dell’attività inquisitoria e processuale di Arusha. In effetti è difficile, sulla base della disamina dei concisi verbali d’ udienza del TPIR 158, dei dati fattuali e delle considerazioni e argomentazioni di protagonisti e commentatori esterni, non cogliere segnali di forte parzialità nella gestione dell’attività giurisdizionale della Corte per il Ruanda. 1. Un regime sotto processo. Nessun tutsi fra gli imputati. Un primo aspetto che colpisce del TPIR è il fatto che fino ad oggi sono stati processati solo Hutu. Una sessantina di persone in tutto, di cui forniamo una lista incompleta ma significativa al novembre 2004: Jean Kambanda, primo ministro, arrestato in Kenya nel 1997; Jean de Dieu Kamuhanda, ministro della Cultura e dell’Insegnamento superiore, arrestato in Francia nel 1999; Emmanuel Ndindabahizi, ministro delle Finanze, arrestato in Belgio nel 2001; Jerome Bicamumpaka, ministro degli Affari esteri, arrestato in Camerun nel 1999; Casimir Bizimungu, ministro della Sanità, arrestato in Kenya nel 1999; Edouard Karamera, ministro degli Interni, arrestato nel Togo nel 1998; Justin Mugenzi, Ministro del Commercio arrestato nel Camerun nel 1999; André Ntagerura, ministro dei Trasporti, arrestato in Camerun nel 1996; Prosper Mugiraneza, ministro della Funzione pubblica e del Lavoro, 1999 in Camerun; Mathieu Ngirumpatse, Presidente del MRND (il partito al potere con Habyarimana) e Alto funzionario del Ministero degli Esteri, arrestato 1998 nel Mali,; Pauline Nyirama Suhuko, Ministro della Famiglia e degli Affari femminili, arrestata in Kenya nel 1997; Joseph Nzirorera, 156 Traduzione da sito internet. 157 Missione Oggi, aprile 2000. Le stragi del FPR sono accettate come vere, fra gli altri, anche da Daniele Scaglione di Amnesty International, che tuttavia – secondo il classico schema usato anche per i palestinesi (i palestinesi attaccano sempre, ed è Israele a compiere le “rappresaglie”: perché non il contrario?) – le imputa a “eccesso di uso della forza” o appunto a comprensibili “rappresaglie”, non citando fra l’altro (almeno in questo caso) l’occultamento del Rapporto da parte dell’ONU (www.amnesty.it/notiziario /04_05/primopiano1.php3, marzo 2004). 158 Consultabili nel sito del Tribunale: www ictr.org.

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Presidente dell’Assemblea Nazionale e Segretario generale del MRND nel 1998 in Benin, André Rwamakuba, Ministro dell’Educazione Nazionale, arrestato in Namibia nel 1998, Theoneste Bagosora, Ministro della Difesa, arrestato in Camerun nel 1996; Augustin Bizimungu, Capo di Stato maggiore dell’Esercito ruandese arrestato in Congo nel 2003, Ildefonso Hategekimana, Comandante del Campo profughi di Goma, arrestato nel 2003 in Congo; Gratin Kabiligi, Brigadiere generale delle Forze Armate ruandesi, arrestato nel 1997 in Kenya; Tharcisse Muvunyi, Comandante della Scuola dei sottufficiali, arrestato nel 2000 in Gran Bretagna, Augustin Ndindiliyman, Capo del personale della Gendarmeria Nazionale, arrestato nel 2000 in Belgio, Ferdinand Nahimana, Direttore della Radio Mille Colline; Eliezer Niytegeka, ministro dell’Informazione, arrestato nel 1999 in Kenya; Hassan Ngeze, giornalista della rivista Kangura, Samuel , vescovo anglicano, arrestato in Kenya nel 2001, e numerosi ufficiali dell’esercito, in certi casi anche a riposo, comandanti di polizia, prefetti, sindaci, parlamentari, consiglieri municipali, sacerdoti (come Athanase Sertomba, arrestato ad Arusha nel 2002, Elizaphan Ntakirutimana, arrestato in Texas nel 1996, o il rettore del Collegio di Cristo re a Nyanza Hormisdas Nsengimana) e persino cantanti e musicisti (come Simon Bikini, arrestato in Olanda nel 2001), uomini d’affari, magistrati (come il procuratore aggiunto Simeon Nchamihigo, arrestato nel 2001 in Tanzania: si sta occupando dall’esterno del TPIR?) Due considerazioni sulla lista qui sopra riportata: la prima è che in pratica ad Arusha è stato posto sotto processo un intero regime, quello rovesciato manu militari dal FPR di Kagame nel 1994. Ne conseguono a loro volta due domande corollario: possibile che nel corso della guerra civile di quell’anno, non ci sia stato alcun episodio, alcun caso in cui ad essere anche solo indagati – e magari poi assolti, per aver agito per “legittima difesa” – i vittoriosi dirigenti Tutsi? In realtà risulta esserci stato. Ma è evidente che l’organo inquirente guarda in una sola direzione, e non solo sostanzialmente come nel caso jugoslavo, ma anche per così dire formalmente: la parte che interessa le indagini è quella indicata dal regime di Kigali, e che parte da un pregiudizio di innocenza del Fronte Patriottico di Kagame. Seconda domanda: come si concilia l’arresto in pratica di tutto il governo Habyarimana con la tesi ufficiale sull’attentato aereo del 6 aprile 1994 – fatta propria per lungo tempo da quasi tutti i mass media occidentali – che Habyarimana sarebbe stato ucciso da “hutu estremisti” contrari alla sua politica di dalogo con il FPR? In effetti, e a parte tutte le rivelazioni di cui abbiamo già parlato (le testimonianze di Rubiziza, Ruyinezi, Jen Pierre Mugabe, etc.) se fosse vera la tesi del complotto estremista hutu, visto che i detenuti di Arusha sono accusati di aver perpetrato un genocidio di Tutsi che Habyarimana invece avrebbe voluto evitare (e per questo era stato ucciso), allora conclusione vorrebbe che tutti i ministri, ufficiali etc. di Habyarimana – estremisti genocidiari – sarebbero stati suoi nemici. Un’evidente assurdità, che lascia trasparire ancora una volta la grande “complessità” dei fatti del 1994, e la superficialità delle formulette propagandistiche nell’affrontare questioni così – quanto meno – controverse.

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L’altra considerazione riguarda gli anni in cui sono stati operati la maggior parte degli arresti, in genere il 1999 e seguenti: due le ipotesi possibili al proposito, peraltro non per forza di cose inconciliabili fra loro. O si è trattato solo del normale rodaggio “interno” del TPIR, che ha necessitato di cinque anni prima di partire con un ritmo meno lento di quello iniziale, oppure la moltiplicazione degli arresti è da mettere in relazione con i mutamenti geopolitici internazionali successivi alla guerra della NATO contro la Jugoslavia appunto del 1999. In altri termini, come i Tribunali ad hoc sono figli dell’età postbipolare – l’epoca in cui il diritto internazionale si va ridisegnando spesso secondo la cruda logica e legge del più forte (un’eccezione portebbe essere la fondamentale Corte penale internazionale) – così ogni loro implementamento procede secondo i tempi di dissoluzione del vecchio diritto internazionale postbellico. Ecco dunque, che la disposizione formale dell’obbligo di tutti gli Stati, di ottemperare alle richieste del Tribunale di Arusha (art. 28 dello Statuto 159) si invera sostanziamente, e diventa effettivamente praticabile solo quando i tanti paesi raggiunti dai mandati di cattura internazionali (persino la Francia) percepiscono che il loro potere sovrano – opponibile all’ingiunzione, visto il forte difetto di legittimità del TPIR - è messo in crisi dai nuovi e sempre più squilibrati rapporti a livello planetario. 2.Anomalie procedurali e precarietà del diritto alla difesa. Sta di fatto che il TPIR, benché abbia “lavorato” tutto sommato molto meno delle intuibili aspettative del regime tutsi di Kigali, ha potuto collezionare più di un record: dalla condanna per genocidio e per crimini contro l‘umanità, di Jean Kambanda - il primo capo di governo nella storia postcoloniale – a quella, sempre per genocidio, di responsabili di mezzi di informazione accusati di aver incitato la popolazione ai massacri. Ferdinand Nahimana e Barayagwiza, fondatori della Radio Télévision des Milles Collines (Rtlm); e Hassan Ngeze, ex caporedattore della rivista Kangura., non risultano aver commesso alcun omicidio, ma per i messaggi da essi propagandati attraverso i media, il giudice sudafricano Navethem Pillay – a dimostrazione di ciò che abbiamo sostenuto al capitolo 3, e cioè di quanto siano larghe le reti del capitolo di reato genocidiario - li ha ritenuti colpevoli egualmente di questo terribile capo d’accusa, peraltro distinto nella sentenza (??) da quello di “incitamento al genocidio”. Verdetto accettabile? Secondo l’avvocato Caldarera del Foro di Catania, difensore di uno degli imputati, mancherebbe in realtà il nesso di casualità tra l’ “eventuale” comportamento del mezzo d’informazione e gli eventi accaduti, e soprattutto ne emergerebbe un reato inesistente, “il genocidio colposo” 160

159 « Article 28 Coopération et entraide judiciaire 1. Les États collaborent avec le Tribunal international pour le Rwanda à la recherche et au jugement des personnes accusées d'avoir commis des violations graves du droit international humanitaire. 2. Les États répondent sans retard à toute demande d'assistance ou à toute ordonnance émanant d'une Chambre de première instance et concernant, sans s'y limiter : a) L'identification et la recherche des personnes; b) La réunion des témoignages et la production des preuves; c) L'expédition des documents; d) L'arrestation ou la détention des personnes » 160 Luciano Scalettari e Joshua Massarenti, “Norimberga africana …” cit., in Famiglia Cristiana 18 01 2004.

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Del resto, visitando il sito ufficiale del TPIR è possibile imbattersi in casi quale quello qui di seguito riferito – episodio sì “minimale”, ma espressione di un grande problema, quello di una giustizia ad hoc dei vincitori sui vinti. Una imputata, l’ex ministro della Famiglia Pauline Nyiramasuhuko, fa tardi, non si sa per quali motivi, e la Corte la aspetta prima di iniziare; mentre il suo “complice”, Arsene Shalom Ntahobali, chiede che si risponda alla sua istanza di ricusazione – l’ennesima nella storia del Tribunale - degli avvocati d’ufficio, accusati si badi bene (e con citazione di un episodio che quanto meno avrebbe dovuto essere accertato: la presentazione di Atti senza il consenso dell’imputato) di non attivarsi “for his interests”, per i suoi interessi. Fra l’altro, dice l’imputato, il “suo” avvocato non parla francese e dunque la comunicazione è praticamente impossibile. La controistanza del Procuratore è che non ravvedendosi motivi reali per il provvedimento, tutto deve procedere “regolarmente”: e la Corte accetta lo status quo, solo riservandosi una futura decisione sul caso. “Before / Devant: Judge William H. Sekule, Presiding, Judge Winston Churchil Matanzima Maqutu and Judge Arlette Ramaroson Prosecution / Poursuite:Silvana Arbia, Japhet Mono, Grefory Townsend, Adesola Adeboyejo, Jonathan Moses and Manuel Bouwknecht Accused / Accusés: Pauline Nyiramasuhuko, Arsene Shalom Ntahobali Defence / La Défense:Nicole Bergevin, Guy Poupart, Rene St-Leger, Michael Bailey Registry / Greffe: John M. Kiyeyeu, Abraham Koshopa (Ass.) Date: Friday 15 June 2001 Defence Extremely Urgent Motion to Withdraw the Assignment of Counsel St-Leger and Michael Bailey (Article 19-20 of the Statute and Rules 73,54 and 45F of the Rules) 1. The Chamber started the session at 9.30 a.m. but adjourned immediately pending the arrival of Accused Nyiramasuhuko. When the Accused Nyiramasuhuko arrived, the Chamber resumed to hear the motion. 2. Mr. Ntahobali indicated that he appealed to the President against the decision of the Registrar of the Tribunal to refuse to withdraw Counsel, and that the President referred him to the Chamber for the consideration of his matter. 3. In his argument in support of his motion, Accused Ntahobali stated inter alia that he no longer has any confidence with counsel Mr. St-Leger and his co-counsel Mr. Bailey. He said that they do not talk and that he had forbidden Counsel St-Leger to file a motion for severance, but that counsel did file some two motions without his authority. He stated that Counsel were not for his interests. 4. As for the co-counsel, Mr. Michael Bailey, Mr. Ntahobali said that the co-counsel did not go to see him. Mr. Ntahobali also stated that Mr. Bailey does not speak French, when he had indicated in his C.V. that he could speak French and would only need assistance on legal terminology. Mr Ntahobali wanted the withdrawal of both lead counsel and co-counsel and that he be assigned counsel of his choice from within the list kept by the Registrar. He informed the Chamber that he does not intend to delay the proceedings as in the meantime he will defend himself while awaiting for the assignment of another Counsel. 5. The Prosecutor did not support the motion on the ground that there were no special circumstances to warrant the withdrawal of counsel. He also requested the Chamber to take into account the stage the case has reached.

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6. The Chamber adjourned for the deliberations and stated that until a decision is rendered, the present status quo remained i.e. Mr. St-Leger and Mr. Bailey remain counsel to Mr. Ntahobali. Nevertheless, the Chamber allowed Mr. Ntahobali to intervene directly whenever necessary. Peraltro il caso di Arsene Shalom Ntahobali non è l’unico. Al contrario, molti altri imputati hanno contestato la legittimità della Corte rifiutando persino l’assegnazione di un difensore di ufficio, come Barayagwiza, assistito di fatto, ma senza che egli lo accettasse in linea di principio, dal già citato avvocato Caldarera, che così ha commentato: «Non si è mai presentato davanti ai giudici … L’ho incontrato una sola volta. I limiti difensivi sono stati enormi. Non ho potuto contare su alcun testimone» 161. Si potrebbe obiettare che le critiche al Tribunale di Arusha rivolte da avvocati, imputati o osservatori esterni, rappresentano un fenomeno per così dire fisiologico, espressione e conseguenza della dialettica forense che anima la vita di qualsiasi Tribunale. Diverso però è quando la crisi e la critica provengono da magistrati, peraltro autorevoli e interni in modo diretto o indiretto alla macchina processuale di Arusha. Citiamo due esempi: il primo, noto, è quello di Carla del Ponte che, benché determinata e disinvolta accusatrice di Milosevic, e in Ruanda sostenitrice – nel pieno di una guerra e di un “genocidio” sulle cui indagini era investita del ruolo istituzionale di Procuratore – di un’agenzia di stampa svizzera chiaramente pro-tutsi 162, si è vista costretta alle dimissioni dalla funzione di Procuratore di Arusha: anche se l’ipotesi più probabile è quella di un desiderio di sbarazzarsi di ogni responsabilità nel dossier Ruanda, per avere le mani completamente libere in quello della Jugoslavia, alcune testmonianze-versioni sono inquietanti, e niente affatto inverosimili se si pensa di quali alleanze – Stati uniti e soprattutto Israele – abbia goduto e goda Paul Kagame, soprattutto dopo l’invasione del Congo orientale e l’assunzione in loco del controllo del ricchissimo traffico di diamanti da parte del suo esercito. Solo pensando a tali scenari – una magistratura TPIR poco garantita nella sua indipendenza - si può comprendere la reazione della Del Ponte:

161 Luciano Scalettari e Joshua Massarenti, “Norimberga Africana…”,cit., in Famiglia Cristiana, 18 01 2004. 162 Si tratta della Fondazione Hirondelle, con sede a Losanna-Svizzera, con alcuni giornalisti della quale ho avuto occasione di dibattere nel 2002 a Lugano: al di là del mio giudizio personale (argomentatamente personale) non positivo sulla sua obbiettività informativa, è comunque curioso e poco coerente con la figura di Procuratore che Carla Del Ponte abbia rilasciato, ad uso di un depliant della Fondazione Hirondelle, la seguente dichiarazione: “La Fondazione Hirondelle realizza un’infromazione di qualità sulle attività del Tribunale Penale Internazionale, nella Regione dei Grandi Laghi d’Africa e, più in là, nel mondo intero. I responsabili di questa Fondazione, e i collaboratori giornalisti, hanno dato prova di grande professionalità, indipendenza e integrità. La Fondazione Hirondelle merita un risoluto sostegno da parte della Comunità internazionale”.

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« Le Procureur du Tribunal, Carla del Ponte ne cache pas qu’avant de mener une enquête contre les militaires du FPR, elle doit d’abord s’enquérir du soutien du général Kagame, ’ l’homme fort du Rwanda’. C’est choquant ».163

3. Il caso Nkundiyaremye: un magistrato ruandese contro la pulizia etnica anti-Hutu e la “giustizia vendicativa”.. Il secondo caso, forse più eclatante, è quello del ruandese Alype Nkundiyaremye, magistrato con alle spalle una brillante carriera istituzionale (fu fra l’altro Presidente del Consiglio di Stato sotto il regime tutsi di Paul Kagame) morto esule in Belgio nel 1999 dopo esser fuggito dal Ruanda per timore di essere ucciso dai miliziani Tutsi 164. In un dossier datato 24 giugno 1999, l’ex vicepresidente della Corte Suprema ruandese prima disegnava un quadro inquietante del regime di Kagame e degli appoggi internazionali di cui godeva, con annotazioni già in sé interessanti sul piano processuale: “Il bilancio della gestione da parte del FPR, al termine dei cinque anni (della promessa transizione, ndr), è disastroso. Il paese è nelle mani di un sistema mafioso, predatore e criminale, che ignora gli impegni presi … Stupisce appurare che il Ruanda goda sempre di un massiccio appoggio finanziario proveniente dai paesi amici, mentre questi avrebbero dovuto condizionarie il loro aiuto ai progressi realizzati nell’ambito del rispetto dei diritti umani e della giustizia, della democratizzazione della società e delle istituzioni, e di buona pubblica amministrazione. Il Belgio, in particolare, difende questa condizione per gli aiuti al Randa, ma continua a finanziare dei programmi, spesso sostituendosi allo stato rwandese, e permettendogli così di stanziare dei fondi per:

a) finanziare una vasta campagna di strategie di terrore e di pulizia etnica, in particolare il mantenimento di un insicurezza permanente nella regione per far dimenticare i terribili crimini dei suoi leaders e sostenitori. Attualmente quasi tutta l’attenzione è focalizzata sulla guerra d’aggressione ed i colonizzazione del Congo orientalee di colonizzazione (col falso pretesto di smantellare le milizie Interhamwe) E’ importante sottolineare che lo sfruttamento selvaggio della parola “genocidio” costituisce per l’FPR la propria impresa commerciale, il proprio progetto d società. Uno dei due genocidi rwandesi fornisce all’attuale regime il fondamento della propria legittimità, mentre la sua responsabilità nei due genocidi è – a mio parere – evidente”;

b) consolidare uno stato totalitario e poliziesco …” 165 Poi, lo stesso magistrato passava a giudicare lo stato della giustizia nel Ruanda, con i suoi 130.000 incarcerati “in attesa di giudizio” per genocidio, le centinaia di dossier spariti per evitare la libertà provvisoria degli hutu arrestati, e le uccisioni di due magistrati, l’ ex Procuratore generale e ministro della Giustizia Alfonse Marie Nkubito, trovato misteriosamente morto nella sua abitazione il 13 febbraio 1997, e

163 J-M. Vianney Ndagijimana in Serge Desouter, cit. 164 Ecco la sua sommaria scheda biografica. Nasce a Rutobwe nel 1958, conseguisce la laurea in Diritto specializzandosi in Belgio in Gestione pubblica dell’Ambiente. Prima di andare in esilio e dimettersi, aveva insegnato Diritto amministrativo all’Università nazionale del Ruanda (1993-1995), e aveva svolto le funzioni vicepresidente della Corte suprema del paese (1997-1999). Quest’ultima carica dopo l’assassinio, nel febbraio del 1997, del suo predecessore, Vincent Nkesabaganwa, da parte di una squadraccia di Kagame. 165 Alype Nkundiyaremye (a cura di), “Dossier. Rwanda: la denuncia di un magistrato scomodo”, in Missione oggi, n. 2 febbraio 2000, p. 18.

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l’ex Procuratore della Repubblica presso la Corte di Kigali, condannato a morte per le sue proteste contro l’epurazione etnica antihutu in atto: “La giustizia in Ruanda è quella del vincitore sul vinto, quella dell’accusatore sull’accusato. La situazione è tale che il giudice e la parte coincidono. Gli scampati al genocidio vanno personalmente a cercare ed arrestare coloro che essi accusano di aver ucciso i loro, li mettono sotto la sorveglianza di carcerieri pure sfuggiti ai massacri, li sottomettono al giudizio di altri scampati Cinque anni dopo uno dei genocidi che la comunità internazionale ha denominato il “genocidio dei tutsi, l’FPR ha realizzato in Ruanda un regime di terrore e di marginalizzazione della stragrande maggioranza dei rwandesi, sia hutu che tutsi che non appartengono alla stretta cerchia dei sostenitori del regime. Questo terrore si traduce in carcerazioni arbitrarie, prelevamenti e sparizioni … La marginalizzazione viene realizzata attraverso talune politiche come: a) la colpevolizzazione collettiva degli hutu. In Randa la presunzione di colpevolezza ha soppiantato quella di innocenza: vengono pubblicate ufficialmente liste di nomi di presunti colpevoli in piena violazione di legge, b) il corollario di ciò è l’insorgere negli Hutu della paura o di un falso complesso di colpevolezza, e della conseguente accettazione del fatto di lasciarsi condurre, sfruttare o abusare in ogni modo, credemdo che si sta godendo di un regime di favore, di perdono; c) L’organizzazione di attacchi fittizi fatti in realtà da elementi armati del FPR. L’obbiettivo è di realizzare dei campi di concentramento di popolazioni rurali in agglomerati fondati in zone noncollegate a strade, da dove non possono uscire oer andare a lavorare i campi o svolgere altre attività, e doev continuano ad essere decimati da diverse epidemie. I loro figli, da anni, non vanno a scuola. Le loro proprietà sono occupate da tutsi che raccolgono quel che resta dei frutti delle loro opere; b) La conseguenza di ciò è la cristallizzazione di un sistema di apartheid … ” 166 Infine, il giudice Alype Nkundiyaremye esprimeva un giudizio molto negativo sull’attività del Tribunale penale internazionale: “… E’ triste e fortemente deleterio assistere al protrarsi dell’inerzia della giustizia internazionale, che è al corrente di questa situazione ma non sembra per nulla preoccuparsi di perseguire e giudicare i capi del FPR oggi al potere. I dirigenti del FPR hanno ormai creato un vero e proprio regime di apartheid, destinato a mettere in opera, secondo la legge della giungla, un dettagliato piano di sterminio di ogni persona da essi ritenuta nemica, cioè di ogni scomodo testimone dei loro crimini. Tutto il potere è oggi nelle mani degli estremisti tutsi …. L’attuale gestione del Ruanda da parte del FPR, che persegue la logica dello stato-polizia, dell’arroganza, della demagogia politica, della giustizia del vincitore sul vinto (per cui, di fatto, le stesse persone sono allo stesso tempo giudici e parte in causa) deve cessare del tutto, perché una situazione del genere è sicuramente presagio di un’altra tragedia per il nostro paese. La giustizia conosciuta dai ruandesi negli ultimi cinque anni è una giustizia vendicativa da parte del FPR nei confronti di quelli che ritiene suoi nemici” 167 In effetti, di “giustizia vendicativa” i Tutsi al potere a Kigali avevano dato prova con la fucilazione di 22 hutu accusati di “genocidio” nello stadio di Kigali il 4 aprile 1998, messa in atto nonostante le proteste internazionali – dal Papa a Amnesty International 166 Alype Nkundiyaremye (a cura di), “Dossier. Rwanda: la denuncia di un magistrato scomodo”, in Missione oggi, n. 2 febbraio 2000, p. 22. 167 Alype Nkundiyaremye (a cura di), “Dossier. Rwanda: la denuncia di un magistrato scomodo”, in Missione oggi, n. 2 febbraio 2000, pp.22-23.

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alle diplomazie europee – perché “voluta dal popolo”168. Un “popolo” in realtà monoetnico, quello costituito dalla minoranza vittoriosa dei Tutsi, che ha in mano la giustizia ruandese, visto che, secondo le parole del giudice Nkundiyaremye, lo stesso “apparato giudiziario è divenuto monoetnico” 169. Il tutto mentre mentre il regime (espressione di una minoranza in quanto tale fortemente interessata a occultare il dato etnico) 170 predica l’unità della “nazione” e l’eguaglianza di tutti i suoi cittadini di fronte alla legge, senza distinzioni etniche. Una mistificazione, questa, ad uso mediatico esterno ed interno, secondo il sottoscritto 171 e secondo Serge Desouter, il quale così spiega un meccanismo di fondo che attraversa in tutti i campi, da quello politico, a quello mediatico, a quello giudiziario, l’attività del regime attuale d Kigali: “nier le caractère ethnique sert … souvent à établir un agenda sordide. Il consiste à attiser et manipuler d'abord les sensibilités pour ensuite les nier et les dissimuler, sous prétexte de vouloir construire une société sans distinction ethnique. Bien entendu, dominée par les propres congénères. Il en a toujours été ainsi au Burundi. Depuis plus de trente ans déjà les idéologues au Burundi proclament qu'il n'y a pas d'ethnies, qu'il y a seulement des Burundais. Entre-temps, avec la régularité d'une horloge, ils éliminent les "autres " ". 172

168 Bruno Bartoloni, “Il papa: ‘fermate quelle fucilazioni’. Telegramma del Pontefice al presidente del Ruanda. La risposta: è il popolo a volerlo”, in Corriere della Sera, 24 aprile 1998, P. 11. 169 Alype Nkunfiyaremye (a cura di), “Dossier. Rwanda: la denuncia di un magistrato scomodo”, in Missione oggi, n. 2 febbraio 2000, p. 19. 170 Colette Braeckmann, giornalista di Le Soir, collaboratrice di Le Monde Diplomatique, parla dei Tutsi come di Ebrei africani, ovviamente in quanto tali perseguitati; e su questa via ardua, giunge ad accusare la Chiesa missionaria di essere antisemita: cfr. Claudio Moffa, “Il Ruanda e la responsabilità degli eccidi”, in Giano n. 29-30, 1998, pp. 163-176. Del resto, la tendenza è propria degli stessi Tutsi, come ha messo in evidenza la visita di Kagame al Memoriale dell’Olocausto di Gerusalemme nel 1996. 171 Mi permetto di rinviare a Claudio Moffa, “Les conflits interethniques au Rwanda et au Burundi précoloniaux. Pour une critique marxiste de l’anthropologie ‘deconstructiviste’ ” in Estudia Africana, 6, 1996, Barcellona ; e Claudio Moffa, “Lotta politica, guerra ineretnica e ricerca storiografica nella regione dei Grandi Laghi”, in Africa, 4, 1997, pp. 614-624. 172 Serge Desouter. & Filip Reyntjens, Les violations des droits de l'homme par le FPR : un plaidoyer pour une enquête approfondie, 2 tomes. 150 pg. Rijks Universitair Centrum. Antwerpen RUCA. Institut de politique et de gestion du développement. Centre d'Etude de la Région des Grands Lacs d'Afrique centrale. Working paper, Juin 1995.

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CAPITOLO 6

CONCLUSIONI. L’ESPERIENZA DEL TRIBUNALE PENALE INTERNAZIONALE PER IL RUANDA

UN’EMERGENZA GIUDIZIARIA DELL’EPOCA DELLA GLOBALIZZAZIONE POSTBIPOLARE

Il Tribunale penale internazionale per il Ruanda è un prodotto tipico della crisi della sovranità degli Stati – e dell’assetto internazionale sortito dai due eventi progressivi della seconda metà del secolo XX: l’esito della II guerra mondiale e la decolonizzazione – maturata a partire dalla svolta bipolare del 1989173, sotto la spinta di potenti fattori economici e tecnologici più o meno coevi. In generale, esso si inserisce in un processo storico ben più ampio – quello che va sotto il nome di “globalizzazione” – caratterizzato da una crescente erosione del potere degli Stati in tutti in tutti i campi della loro attività: dal punto di vista economico, con lo sviluppo sia delle multinazionali, sia del capitale finanziario transnazionale, ormai attestatosi su un rapporto di 1 a 10 rispetto al capitale produttivo 174; dal punto di vista delle comunicazioni, soprattutto grazie alla rivoluzione informatica, a sua volta vettore di una enorme libertà di movimento – spesso incontrollabile – dei capitali; dal punto di vista degli assetti interni e dei confini, e dunque della loro tenuta come Stati unitari, grazie al moltiplicarsi delle insorgenze microetniche che li aggrediscono “dal basso” (complementarmente al capitale finanziario transnazionale, operante invece “dall’alto”) facendo leva su un rivisitato e “illimitato” “diritto di autodecisione”, che non a caso negli ultimi vent’anni è diventato terreno di nuova riflessione della politologia e della disciplina giuridico-internazionalista 175; e infine, dal punto di vista

173 Haberle: “Nel 1989 è scoccata l’ora mondiale dello Stato costituzionale”. Ma secondo Angela Del Vecchio, Giurisdizione internazionale e globalizzazione. I tribunali internazionali tra globalizzazione e frammentazione, Giuffré, Milano 2003, p. 11, data-simbolo più appropriata per segnare il tornante storico del processo di crisi della sovranità dello Stato moderno, portebbe essere invece il 1945, “inizio dell’era atomica” 174 C. Moffa, “11 settembre, Palestina radice della guerra. La co-regia israeliana dell’aggressione USA all’Afghanistan”, Quaderni di Contropiano, Roma 2002, p. 12. 175 Claudio Moffa, “1966-1996: L’Africa dalla decolonizzazione all’età postcoloniale. L’implosione del “diritto di autodeterminazione” dei popoli”, in P. Benvenuti, P. Gargiulo, F. Lattanzi, Atti del Convegno “Nazioni Unite e Diritti dell’Uomo a trent’anni dall’adozione dei Patti”, Università degli Studi di Teramo, Teramo 1996;Claudio Moffa, “Popoli senza stato” e ideologi senza cervello”, in Limes, 1, 1999, pp. 269-278; Claudio Moffa, “L’ethnicité en Afrique: l’implosion de la ‘question nationale” après la decolonisation”, in Politique Africaine, 66, 1997, pp. 101-114; Claudio Moffa, “L’implosione del ‘principio di autodecisione dei popoli’ ”, in Politica Internazionale, 1-2, 1997, pp. 137-142; Georges Haupt, “I marxisti e la questione nazionale”, in C. Moffa (a cura di) Quaderni Internazionali, n. 2-3, La questione nazionale dopo la decolonizzazione (1). Per una rilettura del “principio di autodecisione” dei popoli, Roma 1988; Gideon Gottlieb, "Nations Without States", in Foreign Affairs, maggio-giugno 1994, pp. 100-112; Id., Nations Against State: A New Approach to Ethnic Conflicts and the Decline of Sovereignity, New York 1993; Aldo Bernardini, La Jugoslavia assassinata, Editoriale Scientifica, Roma 2004; Gaetano Arangio-Ruiz, Autodeterminazione (diritto dei popoli alla), in Enciclopedia giuridica Treccani, IV, 1988; Id., “On the Security Council’s ‘Law-making’, in Rivista di Diritto Internazionale, 2000, 3, estratto, Giuffré, Milano 2000; Antonio Cassese, Self-Determination of Peoples. A Legal

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specificatamente istituzionale, con il proliferare di organizzazioni internazionali intergovernative (ormai di gran lunga più numerose degli Stati), e giuridico, con il consimile grande sviluppo negli ultimi decenni di Tribunali internazionali e regionali, tutti fondati sulla cessione pattizia di quote di sovranità da parte degli Stati indipendenti 176. In particolare, dal punto di vista della storia del Ruanda indipendente, quanto appena detto trova un riscontro effettivo e puntuale se consideriamo l’istituzione del TPIR e gli eventi drammatici del 1994 da cui esso è scaturito, dentro un processo più ampio, cadenzabile e cadenzato in quattro fasi: 1) la lunga fase precoloniale, caratterizzata dall’egemonia-dominio della minoranza Tutsi sulla maggioranza Hutu, l’una dedita generalmente alla pastorizia, l’altra generalmente all’agricoltura; 2) la fase del dominio coloniale tedesco prima e belga poi, che tale gerarchizzazione sussunse e esacerbò a fini di potere; 3) la fase postcoloniale successiva all’indipendenza del 1962 – e durata fino al 1990-1994 – durante la quale,l’introduzione del principio “un uomo un voto” pose fine al sistema di potere tutsi, restituendo alla maggioranza Hutu (l’85% della popolazione), e sia pure dentro storture e rigidità soprattutto iniziali 177, dignità, libertà di espressione e di organizzazione, e soprattutto equa rappresentatività istituzionale. Quello che è accaduto a partire dal 1990 – anno di avvio della guerriglia Tutsi contro il governo legittimo del presidente Habyarimana, a maggioranza Hutu – ha rappresentato una drastica inversione di tendenza del processo storico postcoloniale, che ha riportato i rapporti di forza e di potere fra le due etnie ad equilibri – o per meglio dire, squilibri – molto simili a quelli di epoca precoloniale e coloniale. Basti pensare che oggi, nelle prigioni di Kigali, sono detenuti ancora decine di migliaia di hutu “in attesa di giudizio” dagli anni Novanta; o che la Costituzione “democratica” approvata nel 2003, mentre proibisce ogni “revisionismo” o “negazionismo” sul “genocidio” – scimmiottando in chiave ruandese il ben più complesso problema dello sterminio degli Ebrei nella seconda guerra mondiale, in cui il fenomeno cosiddetto “revisionistico” è relativamente recente, e dopo decenni di egemonia “ortodossa” sull’argomento – norma la suddivisione dell’anno parlamentare in 3 (tre) sessioni di due mesi l’una, intervallate da altrettanti periodi, sempre di due mesi, durante le quali il presidente (cioè il tutsi Kagame) può emettere decreti aventi valore di legge 178. Reappraisal, Cambridge 1995; Giancarlo Guarino, Autodterminazione dei popoli e diritto internazionale, Editoriale Scientifica, Napoli 1984. 176 Ad es.: Tribunale internazionale per il Diritto del Mare; Tribunali arbitrali della WTO; Corte degli Stati EFTA; Corte di giustizia caraibica; Tribunale di giustizia della Comunità andina; Corte centroamericana di giustizia; Corti arbitrali del Mercosud; Corte di conciliazione e di arbitrato dell’OCSE; Tribunale dell’ECOWAS (Africa), etc. 177 Quelle che spinsero decine di migliaia di Tutsi, all’indomani dell’indipendenza a cercare esilio all’estero, e in particolare in Uganda. Ma per quel che riguarda i tempi più recenti, il governo Habyarimana, anche per le pressioni della Francia, aveva avviato già dalla fine degli anni Ottanta un tentativo di dialogo con i Tutsi ugandesi. 178 Constitution of the Republic of Rwanda: … “Article 13: The crime of genocide, crimes against humanity and war crimes do not have a period of limitation. Revisionism, negationism and trivialisation of genocide are punishable by the law. …. Article 63: In the event of the absolute impossibility of Parliament holding session, the President of the Republic during such period promulgates decree-laws adopted by the Cabinet and those decree-laws have the same effect as ordinary laws. These decree-laws become null and void if they are not adopted by Parliament at its next session. …

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Se questo è il Ruanda “nuovo”, sortito dall’aggressione e dalla sconfitta del Ruanda indipendente di Habyarimana, e in particolare da un “genocidio” che paradossalmente ha portato al potere i “genocidiati” Tutsi e espulso centinaia di migliaia e poi massacrato i “genocidiari” Hutu; e se ad essere processati ad Arusha sono solo e sempre degli Hutu, in massima parte ministri e esponenti di alto livello del vecchio regime sconfitto, si può concludere che il Tribunale per il Ruanda, in quanto organo preposto allo jus dicere nei confronti di una sola delle parti del conflitto, si configura come il braccio giuridico repressivo della minoranza Tutsi contro la maggioranza avversaria? Non esiste cioè alcuna parvenza di imparzialità e neutralità nella Corte di Arusha? E se così fosse, fino a che punto il TPIR è raffrontabile con il modello originario del Tribunale penale internazionale per la Jugoslavia? E comunque: il TPIR è legittimo dal punto di vista della Carta dell’ONU? Tentiamo di rispondere a tali domande in queste conclusioni, evidenziando i difetti di legittimità e imparzialità ravvisabili nel processo istitutivo e nello Statuto del Tribunale, e riscontrati nel corso del nostro excursus: dall’esame complessivo – cioè di tutti gli articoli 39-51– del Capitolo VII; dall collocazione a del Capitolo VII nell’excursus normativo della Carta dell’ONU, e dalla ratio e principi generali di quest’ultima.

1) L’Istituzione del TPIR da parte del Consiglio di Sicurezza trova difficilmente una sua fondatezza nella Carta dell’ONU, e in particolare nel capitolo VII richiamato dalla risoluzione 955/1994. Ciò è deducibile dall’esame complessivo – cioè di tutti gli articoli 39-51– del Capitolo VII; dalla collocazione del Capitolo VII nell’excursus normativo della Carta dell’ONU, e dalla ratio e principi generali di quest’ultima. Tutta la Carta, a cominciare dall’art. 2,comma 7, ha un profilo nettamente “statocentrico”, e le misure specifiche previste nel Capitolo VII riguardano sempre e comunque conflitti fra Stati, e non fra parti di uno stesso Stato Al contrario, il conflitto ruandese – a differenza del più complesso conflitto jugoslavo, sfociato fin dal 1991 in processi secessionisti possibili, seppur precari, alibi per una legittimizzazione del TPIY – si configurava e si configura tuttoggi come guerra civile interna ad uno Stato rimasto unitario.

2) Il Consiglio di sicurezza non ha alcun potere, in base alla Carta dell’ONU, “di

mettere in piedi tribunali internazionali di quale che sia tipo” 179. Il TPIR nasce

Article 71: The Chambers of Parliament shall hold three ordinary sessions of two months each: the first session shall commence on February 5th ; the second session shall commence on June 5th ; the third session shall commence on October 5th. 179 Gaetano Arangio-Ruiz, “The Establishment of the International Criminal Tribunal for the former territori of Yugolsavia and the doctrine of implied powers of the United Nations”, in Flavia Lattanzi-Elena Sciso (a cura di), Dai

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su istanza di una delle due parti del conflitto – “a bocce in movimento” , nel pieno cioè di una inconclusa e inindagata (occultamento del rapporto Gersony) guerra civile - per decisione del Consiglio di Sicurezza, il quale peraltro si è arrogato un enorme potere discrezionale nella nomina dei Giudici e del Procuratore, solo formalmente scelti dall’Assemblea generale. Dunque, a parte altre considerazioni secondarie 180, e fatta salva la questione generale della legittimità di quale che sia Corte Internazionale fondata sulla cessione pattizia di quote di sovranità degli Stati, il TPIR è privo – a differenza del Tribunale internazionale dell’Aja – della legittimazione originaria dell’Assemblea Generale, l’unico organo delle Nazioni Unite nel quale gli Stati hanno tutti pari dignità e voce 181(Philpot). Peraltro, proprio perché istituito su richiesta di un solo Stato (lo Stato-parte dei vincitori Tutsi), la sua natura internazionale è dubbia: è tale perché esso è creazione di un organismo internazionale – l’ONU, nella persona del Consiglio di Sicurezza – ma non lo è perché prodotto diretto, al di fuori di alcun meccanismo pattizio tipico di un Tribunale veramente “internazionale” – della volontà-richiesta di una sola parte-Stato. Come tale dunque, il TPIR appare piuttosto come la proiezione-articolazione della “giustizia vendicativa” (Nkundiyaremye) nazionale ruandese-tutsi (tanto più perché nei fatti processa solo esponenti Hutu), e dunque come strumento di retoricizzazione e amplificazione mediatica delle condanne più esemplari (ministri e esponenti di alto livello del vecchio regime) in rapporto complementare, regolato dal diritto di primazia a suo favore, con la giurisdizione ruandese.

3) Il TPIR è un Tribunale ad hoc, come tale soggetto alle consuete (e per quel che

ci riguarda valide) critiche della dottrina internazionalista e penalista, a proposito del difetto del principio di legalità dei reati, il cui rispetto chiederebbe invece – fatta salva ogni altra problematica – la conditio sine qua non di una codificazione (e di un giudice) preesistente gli eventi oggetto dello jus dicere del Tribunale stesso. Nullum crimen sine lege. Questo resta a nostro avviso vero, anche se i capitoli di reato elencati nello Statuto sono stati letteralmente ricopiati dalla Convenzione sul genocidio del 1948, Convenzione prodotto di un accordo pattizio che nel caso del TPIR – come abbiamo visto - risulta inesistente.

4) Anche sotto il profilo della competenza ratione materiae, le perplessità sono

evidenti. Abbiamo visto come la riproduzione meccanica nello Statuto, dei capitoli di reato contenuti nella Convenzione del 1948 – a sua volta prodotto

Tribunali penali internazionali ad hoc ad una Corte permanente, Atti del Convegno – Roma 1995, Editoriale Scientifica, Napoli 1996, p. 34. 180 Ad es. L’obbligo di notifica da parte del Tribunale di Arusha, di ogni atto al governo tutsi di Kigali, evidentemenet intesa comne parte lesa. 181 Così ad esempio John Philpot, Le Tribunal pénal international pour le Randa. La justice trahie, in ‘Etudes internationales », XVII, 1996, pp.827-840.

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della riflessione normatoria di un evento storico di portata sicuramente ben superiore, lo sterminio degli Ebrei nella II guerra mondiale – rischia di permettere in pratica la perseguibilità da parte della Corte di Arusha di qualsiasi combattente della tragica guerra civile del 1994: sembra difficile, se non impossibile, e non solo al conflitto tutsi-hutu della Regione dei Grandi Laghi, ma a qualsiasi conflitto africano – sempre segnato (anche) in senso etnico, o per meglio dire sempre fondato sulla combinazione fra aspetto etnico e aspetto sociale – sfuggire alle maglie della estesa rete “casistica” dei “reati di genocidio” di cui allo Statuto del TPIR: estesa anche all’ “intenzione” di commettere genocidio, ed anzi “genocidio” di una “parte” del gruppo umano, e solo limitata, la rete, nella definizione introduttiva generale, dall’ambigua e multivalente locuzione “come tale”: genocidio cioè è anche “l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale”. Ma chi decide che i Tutsi che hanno massacrato gli Hutu nel Congo nel 1996, non li abbiamo uccisi “come tali”, e dunque nonsiano perseguibili per genocidio? Chi decide che gli Hutu che hanno massacrato i Tutsi nel 1994, li abbiano uccisi “come tali”, e non perché aggressori e invasori del loro paese ? In effetti, una volta che, come in tutte le guerre civili e in tutte le guerre della nostra epoca si verificano “uccisioni di membri del gruppo” o “lesioni gravi all'integrità fisica o mentale di membri del gruppo”, etc, il passaggio alla successiva accusa di genocidio è o facile o difficile: tutto dipende dal potere di cui si dipone negli organismi internazionali, e nella rete mediatica planetaria. Non è un caso che nessun Tutsi è sotto processo ad Arusha, e che decine di migliaia di hutu sono tuttora imprigionati nelle carceri ruandesi. Né è un caso che, in sede dibattimentale, la difesa ha potuto sostenere che gli Hutu incriminati non hanno commesso alcun “genocidio”, ma solamente si sono opposti ad una aggressione nei confronti del loro legittimo governo.

5) E’ da notare del resto, che dentro la configurazione del Tribunale, la ratio

temporis facilita questa perseguibilità a senso unico (cioè dei soli Hutu) così da far emergere a sua volta una forte immagine di parzialità del Tribunale per il Ruanda. Limitare la competenza del TPIR ai soli eventi del 1994, da una parte è scelta tutta funzionale alla sempre più evidente sacralizzazione e dogmatizzazione – mutuata dallo scimmiottamento assurdo del l’ “Olocausto” ebraico – del “genocidio” del 1994, e dall’altra ha costituito e costituisce una sorta di garanzia di immunità per i Tutsi, protagonisti di documentati eccidi in Ruanda fra il 1990 e il 1993, e nel confinante Congo, fra il 1996 e il 2002.

6) Veniamo quindi ai due aspetti che contraddistinguono – sicuramente in peggio –

il Tribunale per il Ruanda dal già discusso Tribunale per la Jugoslavia, cui pure è anche organizzativamente raccordato dalla condivisione dello stesso Procuratore e della stessa Camera d’appello. Il primo aspetto è costituito dalla ratio temporis che nel caso del TPIY è “dopo il 1991”, e dunque limitata solo

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al passato: nel caso del Ruanda invece, come si è già detto, si è voluto ritagliare un periodo – il 1994, durante il quale peraltro anche i Tutsi hanno commesso massacri, però non indagati dall’ONU (rapporto Gersony) - ad usum dei vincitori-proponenti il Tribunale stesso, i Tutsi di Kagame: i quali si sono così ritrovati liberati dal rischio di punizione per le stragi compiute nel nord del Ruanda fra il 1990 e il 1994, e liberi di agire nel peggiore dei modi – come effettivamente sarebbe stato, con gli orribili massacri del Congo di cui alla testimonianza sopra riportata di Ermma Bonino – fra il 1995 e il 2002, anno della precaria conclusione della guerra del Congo. Il secondo aspetto è costituito dal dato di fatto inquietante, che mentre il TPIY ha inquisito e incriminato esponenti di tutte le parti del conflitto (non entriamo qui nel merito se tale imparzialità sia sostanziale o solo formale, dentro una macchina giudiziaria rivolta soprattutto contro la parte serba) il Tribunale per il Ruanda ha processato e sta processando solo esponenti Hutu. Una opzione sicuramente assurda, offensiva della verità dei fatti storici, come rilevato ormai da un gran numero di testimonianze, e da una sempre più ampia letteratura sull’argomento.

7) Non ci sembrano perciò casuali, per concludere questa sommaria lista tratta

dall’excursus della tesi, le dimissioni di Carla del Ponte dall’incarico di Procuratore (anche) del Tribunale per il Ruanda: l’accusatrice di Slobodan Milosevic non è certo aprioristicamente insensibile ai richiami del blocco di potere postbipolare – quello stesso che ha mosso le guerre contro la Jugoslavia e l’Iraq - che sta dietro anche la guerra contro Ruanda di Habyarimana e i suoi sviluppi tuttora inconclusi nel Congo orientale 182. Né ella appare con assoluta certezza – nell’aula della Corte dell’Aja - magistrato imparziale rispetto ai conflitti della nostra epoca: e dunque se è stata spinta a dimettersi, è probabile (vedi le eventuali ipotizzate interferenze di Kagame di cui abbiamo riferito in precedenza) che la Del Ponte abbia colto, in quella che secondo noi è un’anomalia generale dei Tribunali ad hoc dell’epoca postbipolare, un’anomalia ancora più forte nel caso del Ruanda, fino a eventuali interferenze “dirette” nell’attività dei magistrati di Arusha, e a condizionamenti che non sembrano passare solo per il meccanismo – invero assurdo per un organo di giustizia – dei finanziamenti e delle “donazioni” per questo o quell’Ufficio del Tribunale di cui abbiamo già parlato.

Possiamo così tornare all’interrogativo iniziale: il Tribunale “internazionale” per il Ruanda può essere inteso come il braccio giuridico repressivo della minoranza Tutsi contro la maggioranza avversaria? E’ un Tribunale privo di legittimità, in difetto di imparzialità e di vera indipendenza dei suoi magistrati? 182 Cfr. Claudio Moffa, “Guerre vere e paci finte. Un modello neocoloniale per i Grandi Laghi”? in Limes 3, 2003, pp. 257-272.

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Anche se propendiamo per una risposta affermativa a questi interrogativi – e anche se ci sembra corretto sottolineare le differenze in peggio del TPIR rispetto allo stesso Tribunale per la Jugoslavia – preferiamo lasciare la questione aperta a successivi approfondimenti. Due però sono le certezze conclusive del nostro excursus. La prima è che appunto, la questione della legittimità del Tribunale del Ruanda, non solo è tuttora aperta contrariamente a certe argomentazioni “ottimistiche” degli anni Novanta che pretendevano di chiudere il discorso 183, ma anzi è stata nel tempo rilanciata e rafforzata da una serie di eventi importanti: in Ruanda e nel Congo, la sempre più evidente natura dittatoriale e per molti versi criminale del regime di Paul Kagame: non ci dilunghiamo su questo aspetto già in parte trattato e su cui esiste ormai una documentazione e una letteratura sterminata 184. Un secondo fatto che ha rimesso in discussione il problema TPIR, è la sempre più evidente crisi delle Nazioni Unite, e la rinnovata attenzione-pressione per una loro riforma, le quali se da una parte possono restare inconcluse e inconcludenti ancora per molto tempo, dall’altra non possono non coinvolgere nei vari processi di rielaborazione critica anche la questione dei Tribunali ad hoc degli anni Novanta, innovazione “anomala” rispetto alla consolidata pluridecennale prassi postbellica dell’ONU, di un Consiglio di Sicurezza sempre più abusivamente trascinato nel ruolo improprio di “law-maker” 185. Ma soprattutto, a riaprire (se di riapertura si deve parlare ) il caso dei Tribunali a hoc è il varo, dopo decenni di dibattiti e di difficoltà, della Corte Penale Internazionale, organismo creato con tutt’altro iter e tutt’altre garanizie di legittimità rispetto ai suoi precedenti per la Jugoslavia, per il Ruanda o per la Sierra Leone. Se la CPI, in quanto permanente, in quanto giudice precostituito atto a jus dicere nei confronti di “tutti” i conflitti, sta producendo il superamento dell’esperienza “di emergenza” dei Tribunali ad hoc 186, ci sembra lecito ipotizzare la ripresa di una messa in discussione radicale 183 Così ad es. Luigi Condorelli, Legalità, legittimità, sfeera di competenza dei Tribunali penali ad hoc creati dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in Lattanzi Flavia e Elena Sciso (a cura di), Dai Tribunali penali internazionali ad hoc ad una Corte permanente, Atti del Convegno - Roma 15-16 dicembre 1995, Editoriale Scientifica, Napoli 1996 184 Vedi anche la Bibliografia. 185 Gaetano Arangio-Ruiz, “On the Security Council’s ‘Law-making’, in Rivista di Diritto Internazionale, 2000, 3, estratto, Giuffré, Milano 2000; e Idem, “The Establishment of the International Criminal Tribunal for the former territori of Yugoslavia and the doctrine of implied powers of the United Nations”, in Flavia Lattanzi-Elena Sciso (a cura di), Dai Tribunali penali internazionali ad hoc ad una Corte permanente, Atti del Convegno – Roma 1995, Editoriale Scientifica, Napoli 1996. 186 Cfr. fra gli alrti Natalino Ronzitti, “Crimini internazionali individuali, tribunali interni e giustizia penale internazionale”, in SIDI, Cooperazione fra Stati e giustizia penale internazionale, III Convegno 1998, Editoriale Scientifica, Napoli 1999, p 17: “Una corte oenale internazionale ha come vantaggio rispetto alla creazione di tribunali internazionali ad hoc di essere un giudice effettivamente precostituito, Inoltre al corte dovrebbe esercitare giurisidizone su tutti i conflitti e non solo su determinati conflitti”; e Mauro Catenacci, “Legalità” e “tipicità del reato” nello Statuto della Corte Penale Internazionale, Giuffré, Milano 2003, pp. 3-4: “con l’istituzione di una giurisdizione penale permanente sembrerebbe infatti oramai destinata la superamento (se pur, vedremo, solo in parte) l’esperienza – assai controversa e mai completamente condivisa dalla comunità internazionale – dei c.d. ‘Tribunali ad hoc’; delle Corti cioè di volta in volta istituite a seguito del verificarsi di conflitti collettivi … nel cui ambito si erano registrate gravissime violazioni dei diritti umani e che tuttavia, proprio perché nate sulla base di atti unilaterali e sulla scia di esigenze politico-criminali contingenti, non avevano mai saputo o potuto dissipare il sospetto di una giustizia penale internazionale basata

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dei Tribunali ad hoc degli anni Novanta. Più procederà il pur difficile processo di sedimentazione della Corte Penale Internazionale – non a caso ostracizzata proprio dagli Stati Uniti, principali sostenitori dei Tribunali ad hoc – e più sono destinati ad emergere a contrario i difetti di legittimità e di imparzialità, e le tante anomalie di questi ultimi, in particolare di quello per il Ruanda. La seconda certezza delle nostre conclusioni – e che qui solo accenniamo - riguarda l’assoluta necessità di affrontare con grande obbiettività lo studio dei fatti storici che fanno da sfondo alle diverse (ma in fondo anche molto simili) vicende processuali del Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda. Facta non praesumuntur, sed probantur, viene da citare leggendo le affermazioni gratuite e indimostrate già nel 1995, del Consigliere legale del Procuratore del TPIY Payam Akhavan sulle cifre e le responsabilità del “genocidio” 187. Ma come garantirsi un terreno di almeno potenziale accertamento della verità dei fatti, di fronte allo strapotere dei mass media, sempre più capaci di inventare utili “pezzi” di verità storiche e dunque anche di “verità giudiziarie”? Da Timisoara alle “armi di distruzioni” di massa irachene, all’assurdo ritornello di un genocidio ruandese che vedrebbe una delle due parti – i Tutsi – mai nel ruolo dei carnefici (la formuletta mediatica è: “genocidio dei Tutsi e degli Hutu moderati” da parte degli “Hutu estremisti”), questo problema riguarda sicuramente gli addetti all’informazione e gli storici. Ma dovrebbe riguardare anche gli operatori giuridici di quale che sia corte internazionale, pena un meccanismo giudiziario avulso dalla realtà, e privo del necessario confronto e accertamento dei fatti penali su cui esso esercita il proprio diritto-dovere di jus dicere.

in realtà sui soli rapporti di forza fra Stati e caratterizzata dalla mera formalizzazione del ‘diritto dei vincitori sui vinti’ ”. E ancora: nella CPI “i magistrati della Corte saranno soggetti ad un nucleo di regole scritte ed immodificabili per via giurisprudenziale (nota: “è quanto scaturisce dal combinato dispositivo degli artt. 22, 23 e 24, i quali … assoggettano l’ICC al principio di legalità dei reati e delle pene ed ai suoi corollari”. 187 Payam Akhavan, “The International Criminal Tribunal for Rwanda”, in Flavia Lattanzi-Elena Sciso (a cura di), Dai Tribunali penali internazionali ad hoc ad una Corte permanente, Atti del Convegno – Roma 1995, Editoriale Scientifica, Napoli 1996, pp. 191 e segg.